“Valutare nel merito le istanze dei condannati per mafia che chiedono benefici” di Angela Stella Il Riformista, 13 ottobre 2021 Con la dottoressa Antonietta Fiorillo, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna e del Conams - Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza ripercorriamo alcuni dei punti che ha discusso la scorsa settimana in Commissione Giustizia della Camera, quando è intervenuta nelle audizioni nell’ambito dell’esame delle proposte di legge (Bruno Bossio, Ferraresi, Del Mastro, delle Vedove) riguardanti l’accesso ai benefici penitenziari per gli ergastolani ostativi. Dottoressa, in generale, come dare attuazione a quanto chiede la Corte Costituzionale? L’indicazione che la Corte Costituzionale, seguita all’intervento della Cedu, ha dato al Legislatore con la sentenza 253/2019 e con l’ordinanza 97/2021 è un’indicazione chiara: nessuna presunzione assoluta di pericolosità, ma una presunzione relativa che dovrà essere valutata dalla magistratura di sorveglianza attraverso l’esercizio di quella discrezionalità informata e prudente che caratterizza la funzione. Ci spieghi meglio... L’obiettivo è quello di consentire alla magistratura di sorveglianza di valutare nel merito le istanze dei condannati per reati di mafia che, ove ricorrano i presupposti che saranno stabiliti, potranno richiedere l’accesso ai cosiddetti benefici. Quindi nessun “diritto” ad ottenere il permesso premio o la liberazione condizionale, ma la possibilità di chiedere che sia valutata dal giudice, a seguito dell’istanza, l’effettività del distacco dal contesto criminale di appartenenza ed il pericolo di ripristino dei collegamenti oltreché il percorso di risocializzazione intrapreso. Su quali punti si è soffermata maggiormente in audizione? Un passaggio delineato in tutte le proposte riguarda il corredo informativo che dovrà essere acquisito dagli organi investigativi, anche territoriali, dalle altre Autorità giudiziarie quali PNA, DDA, che dovranno fornire informazioni attuali ed approfondite, anche sul contesto socio-familiare; quanto più tali informazioni saranno aderenti alla complessiva situazione del soggetto, tanto più l’esercizio della discrezionalità di cui ho già detto potrà essere consapevole e prudente. Nelle proposte si fa riferimento anche ai “pareri”. Basta intendersi: quello che noi chiediamo è che siano corredati da informazioni aggiornate e concrete. Il Presidente dell’Anm Santalucia ha detto che “non si può gravare il detenuto non collaborante, proprio per un profilo costituzionale, dell’onere di provare l’assenza dell’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata”... Si può chiedere al detenuto un onere di allegazione rafforzato. Non basta semplicemente la dichiarazione di dissociazione. In una delle proposte si chiede di escludere ‘con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata’ da parte del detenuto che deve specificare anche perché non collabora. Si tratta di passaggi molto forti come ho evidenziato in audizione. In merito al primo ci tengo a dire che il nostro è un giudizio prognostico, probabilistico che può corrispondere alla realtà del soggetto quanto più il corredo informativo sarà completo. Sulle ragioni della mancata collaborazione occorre tenere conto che possono essere le più varie; tra le tante anche quella di non mettere in pericolo se stessi e la propria famiglia. Richiedere come si prevede di esplicitarle quale presupposto di ammissibilità rischia di condurre tale previsione lontano dal quadro delineato dalla Corte Costituzionale. Come giudica la proposta di accentrare tutto sul Tribunale di Sorveglianza di Roma? Come già detto in sede di Commissione Antimafia l’accentramento comporterebbe l’eliminazione di quella che è una caratteristica fondamentale della giurisdizione di sorveglianza che è una giurisdizione di prossimità oltre a violare il principio del giudice naturale precostituito per legge. Non possiamo limitarci ad una valutazione cartolare. Concentrare tutto a Roma porta ad un grande svantaggio: si perdono i dati di conoscenza che il magistrato di sorveglianza può e deve acquisire. Ricordiamoci che entrare in carcere è un obbligo della magistratura di sorveglianza in base a quanto previsto dall’ordinamento penitenziario. L’accentramento deriverebbe dal pericolo che possiate subire delle minacce da parte dei detenuti o delle loro famiglie affinché non respingiate le loro istanze... Le minacce, le pressioni possono riguardare, come riguardano, non solo i magistrati di sorveglianza, ma tutti i giudici e i pubblici ministeri che ogni giorno si occupano di criminalità organizzata. Ma con riguardo ai giudici di cognizione e ai pubblici ministeri nessuno ha mai pensato di accentrare la competenza presso un unico tribunale. Non è che in sede periferica si possono subire più pressioni che in un’unica sede. Questa non mi pare una valida ragione per spostare la competenza. Durante i difficili mesi della pandemia, la magistratura di sorveglianza è stata fortemente criticata da certa stampa e magistratura requirente per quelle che, erroneamente, sono state definite scarcerazioni. Non temete di essere nuovamente sotto osservazione e certa pressione esterna non potrebbe non rendere serene le vostre decisioni? Ricevere delle critiche fa parte del “gioco”. Come non dobbiamo essere condizionati dalle pressioni non dobbiamo esserlo da eventuali critiche. Quello che appare corretto è che spesso le critiche sono l’espressione di un vero e proprio pre-giudizio nei confronti della normativa penitenziaria e della funzione di sorveglianza che non trova riscontro nella realtà delle nostre decisioni. L’essenziale è che ciascuno di noi eserciti la sua funzione in scienza e coscienza; ma questo vale per i magistrati di sorveglianza come per tutti gli altri magistrati. E poi me lo lasci dire: è troppo semplice criticare il merito di una decisione in base all’esito della stessa e senza avere conoscenza diretta degli atti. Scarpinato parla di trattative ma la storia è diversa e l’ergastolo ostativo non c’entra di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 ottobre 2021 Il magistrato cita le intercettazioni di Giuseppe Lipari, l’uomo degli appalti di Bernardo Provenzano, nelle quali non si fa riferimento ad alcun patto tra Cosa nostra e lo Stato. Si dà atto che il magistrato Roberto Scarpinato ha spiegato in maniera più approfondita sul Fatto Quotidiano il contenuto dell’intercettazione riferito in commissione Giustizia della Camera. Risale al 2000, non era Bernardo Provenzano a parlare, non si è parlato di ergastolo ostativo (termine coniato dieci anni dopo) e, almeno secondo il virgolettato riportato, nemmeno di garanzie da parte dello Stato. L’intercettato era Giuseppe Lipari, l’uomo degli appalti di Provenzano - A essere intercettato era Giuseppe Lipari, l’uomo degli appalti per conto di Provenzano, colui che, quando Borsellino fu applicato alla Procura di Palermo, aveva commentato il fatto dicendo che - come riporta il Borsellino quater - avrebbe creato delle difficoltà a “quel santo cristiano di Giammanco”. Il magistrato Scarpinato fa riferimento a un vecchio articolo di Attilio Bolzoni del 6 febbraio del 2001. A questo punto vale la pena ripescarlo. Si dà notizia dell’intercettazione dell’uomo d’affari di Cosa nostra (ora sappiamo che è Lipari) che, qualche tempo prima, aveva partecipato a un summit di mafia convocato da Provenzano. Riferisce a un suo interlocutore che i temi del summit erano due: i soldi di “Agenda 2000” e la situazione dei carcerati. La strategia del “basso profilo” puntava all’accaparramento degli appalti - Per quanto riguarda il primo, si tratta dei fondi europei sugli appalti. Per questo motivo, dice Lipari, al summit hanno detto “di non far rumore e di non attirare mai l’attenzione perché ci dobbiamo prendere tutta questa Agenda 2000…”. Bene. Ecco spiegato intanto il motivo principale della strategia del “basso profilo”: l’accaparramento degli appalti. Poi Lipari, e arriviamo al secondo tema, aggiunge: “e poi bisogna pensare ai detenuti che sperano nell’abolizione dell’ergastolo…”. Ecco qui. Si parla della speranza dei detenuti nell’abolizione dell’ergastolo e di evitare che, per altri fatti di sangue, lo Stato reagisca pesantemente come già accaduto. Ma il fine pena mai è un tema da sempre discusso a livello politico. Una questione di civiltà, ma che può essere letta anche in chiave “trattativista”. Non si parla dell’ergastolo ostativo che è ben altra cosa. Ci viene in aiuto proprio Scarpinato nell’articolo de Il Fatto. Spiega che l’anno prima, nel 1999, il Parlamento ha varato la legge numero 479/99. In sostanza, parliamo della legge Carotti (prende il nome del deputato, persona integerrima e per bene, che la propose), che consente l’accesso al rito abbreviato nei procedimenti relativi ai reati punibili in astratto con la pena dell’ergastolo. In tal modo, si poteva ottenere la conversione della pena dell’ergastolo a 30 anni. Lipari si riferisce all’ergastolo semplice e non all’ostativo - Ebbene, anche i reclusi mafiosi ovviamente decisero di approfittare della opportunità di questa legge. Ci furono polemiche e, nel giro di pochi mesi, la legge fu modificata, escludendo con un escamotage i condannati per mafia. Tale legge, grazie alla Lega, è stata, di fatto, abolita definitivamente nel 2019. Il problema, però, è che la legge Carotti non è frutto di alcun patto, alcuna trattativa. I fatti stessi narrati, la sconfessano. In realtà, forse a Scarpinato è sfuggito che il tema dell’ergastolo era molto discusso in quegli anni. Probabilmente la speranza dei detenuti, ai quali fa riferimento Lipari, risiede in un’altra circostanza. Parliamo dell’ergastolo in quanto tale, non quello “ostativo”. Correva l’anno 1998. Con 107 voti a favore, 51 contrari e otto astenuti l’assemblea di palazzo Madama approvò in prima lettura il disegno di legge per l’abolizione del fine pena mai. Molti degli allora Democratici di Sinistra, Rifondazione Comunista, Verdi, ma anche del Partito Popolare, approvarono con convinzione il provvedimento, portando avanti argomentazioni che oggi sono un lontano ricordo tra i banchi del Parlamento. Come non ricordare la relazione in difesa della proposta di legge fatta da Salvatore Senese, tra i fondatori di Magistratura Democratica, giurista colto e rigoroso, scomparso recentemente nel giugno 2019? E se fosse passata, cosa si sarebbe detto oggi? Letture dietrologiche delle complessità non aiutano e rischiano di creare l’antica prassi reazionaria della paranoia legata alla politica. Nell’articolo de Il Fatto si evocano dei contatti tra l’allora procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna e i boss di Cosa nostra in carcere. E si parla erroneamente di “dissociazione”. No, le cose sono diverse. Purtroppo l’equivoco nasce dagli articoli dei giornali d’allora. Tra l’altro Vigna non è più tra noi per potersi difendere. Salvatore Biondino si fece ambasciatore per incontrare Vigna - Ecco i fatti. Salvatore Biondino, ergastolano e figura di spicco della cupola, si fece ambasciatore di altri detenuti mafiosi per incontrare Vigna. Non trattativa, termine abusato, ma si trattò di colloqui investigativi permessi dalla legge. Nessuna dissociazione (altro termine giornalistico uscito all’epoca), ma dichiarazione di voler sciogliere il vincolo associativo riconoscendo l’autorità dello Stato e della legge. In sostanza, visto la crisi interna alla Cupola dopo la sconfitta dell’ala corleonese di Riina, si parlò di un atto di scioglimento dell’organizzazione. Tentativo non andato in porto. Nessuna richiesta di nuove leggi, abolizione dell’ergastolo, nessun patto. Parliamo di colloqui investigativi messi a conoscenza del Dap, dell’allora ministro della Giustizia Piero Fassino (governo Amato II) e delle procure. Lo stesso boss Pietro Aglieri, deponendo al processo Borsellino quater, ha spiegato che - durante il colloquio investigativo con Vigna -, non ha mai parlato di dissociazione, ma di “desistenza”. Nessuna trattativa quindi. L’allora ministro Fassino ha ribadito con fermezza che tutto è avvenuto in modo estremamente semplice e trasparente nell’ambito di normali o straordinarie attività del procuratore nazionale. I fatti dimostrano che nulla è stato toccato. Il 41 bis, come la storia insegna, non solo non sarà ammorbidito, ma anni dopo, con il governo Berlusconi, sarà reso più rigido con la legge del 2009 a firma dell’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano. Ma ora ritorniamo con i piedi per terra. Se ogni decisione politica, volta all’idea progressista dell’esecuzione penale, viene letta sotto una chiave “trattativista”, non se ne esce più. C’è il rischio, senza volerlo, che il dibattito si intossichi. Prendiamo ad esempio l’ergastolo ostativo. Sono pochi anni che se ne discute. La svolta si è avuta grazie ai magistrati stessi che hanno sollevato questioni di illegittimità costituzionale relativamente alla parte del 4 bis nella quale la collaborazione con la giustizia viene considerata un parametro assoluto per accedere ai benefici. Le proposte di legge per la modifica dell’ergastolo ostativo riguardano molti detenuti che non sono boss - In realtà, nasce anche un altro enorme equivoco di fondo. La discussione della proposta di legge per la modifica dell’ergastolo ostativo (il ddl proposto dalla deputata del Pd Enza Bruno Bossio è accolta con favore dai magistrati di sorveglianza, gli unici togati che in commissione Giustizia sono entrati nel merito), pare che sia destinata a boss e capomafia in regime duro. Ma il regime differenziato ha altri parametri più duri. Si parla sempre di loro, mentre ci si dimentica che la stragrande maggioranza di ergastolani ostativi non hanno ruoli apicali e non sono in 41 bis. Si cita nuovamente Giovanni Falcone. Sarebbe bello però ricordare che il giudice stesso, introducendo per la prima volta il 4 bis, aveva previsto la possibilità di concedere i benefici penitenziari anche al detenuto che decide di non collaborare con la giustizia. Ovviamente avrebbe dovuto aspettare molto più tempo rispetto al collaborante. La legge fu resa più restrittiva (e incostituzionale) per reazione alla strage di Capaci. È proprio vero che la Storia insegna, ma non ha scolari. Il gioco del potere lo vediamo nei cosiddetti “dispositivi”, i luoghi totalizzanti evidenziati da Foucault in “Sorvegliare e Punire”. Il colpo di mano del Movimento 5 Stelle sull’ergastolo ostativo di Valentina Stella Il Dubbio, 13 ottobre 2021 Oggi alle 14 la Commissione Giustizia della Camera si riunirà per discutere dell’esame delle proposte di legge (Bruno Bossio, Ferraresi, Del Mastro delle Vedove) riguardanti l’accesso ai benefici penitenziari per gli ergastolani ostativi, che al momento sono 1250. Lo ha chiesto la Corte Costituzionale con l’ordinanza 97/ 2021 dando un anno al Parlamento per elaborare una nuova norma. Si preannuncia una seduta tesa, perché in quella del 5 ottobre scorso il presidente della Commissione, il grillino Mario Perantoni, ha preannunciato di voler sottoporre già oggi alla Commissione “la proposta di adozione di un testo base, che verosimilmente potrebbe essere la proposta di legge Ferraresi”, anche lui del Movimento 5 Stelle. Di solito un testo base è scelto da un Comitato ristretto e rappresenta la summa di parti delle varie proposte, non l’adozione complessiva di una sola pdl. In più questa volta un esponente del Movimento 5 Stelle sta scegliendo il testo di un esponente del suo stesso partito. Ciò ha suscitato la profonda contrarietà dell’onorevole Enza Bruno Bossio del Pd, come leggiamo dal resoconto di seduta: “È emerso che la proposta di legge Ferraresi, predisposta successivamente alla sentenza della Corte costituzionale vada in una direzione opposta a quella indicata dalla Corte stessa”. Le preoccupazioni sono reali se solo pensiamo al fatto che la conferenza stampa di presentazione della pdl Ferraresi era intitolata “Un nuovo ergastolo ostativo”. In più l’esponente dem ha ricordato l’audizione del presidente dell’Associazione nazionale magistrati che in diversi punti ha criticato la proposta Ferraresi. Ad avviso dell’onorevole Bruno Bossio “utilizzare quindi tale proposta di legge come testo base per il prosieguo dei lavori significherebbe non seguire le indicazioni della Corte costituzionale”. L’onorevole Ferraresi invece ha “stigmatizzato come false le affermazioni della collega Bruno Bossio”. Polizia no vax, allarme sicurezza in attesa di una deroga di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 ottobre 2021 Nelle carceri 12mila agenti senza Green pass. Ma nessuno sa quanti effettivamente mancheranno all’appello tra due giorni. “Ci sono quasi ventimila poliziotti senza Green pass, che facciamo, da sabato li lasciamo a casa? Chi garantisce l’ordine pubblico, la fata turchina?”. È Matteo Salvini questa volta a supportare per primo le istanze della polizia, in particolare quella penitenziaria che conta il maggior numero di No Vax. Gonfia un po’ le cifre, il leader della Lega, ma il problema c’è: tra un paio di giorni potrebbe succedere che molti di quei 12.600 agenti che dai dati del Dap non risultano vaccinati non si presentino al lavoro, decidendo di rinunciare allo stipendio fino a dicembre. Oppure, più semplicemente - una prospettiva che già viene adombrata in quegli ambienti - facendosi coprire con un certificato di malattia. Ieri, per affrontare la questione, i rappresentanti delle sigle sindacali hanno incontrato il capo della Polizia, Lamberto Giannini. Anche se avrebbero voluto discuterne direttamente con la ministra degli Interni Lamorgese. Nessuno sa esattamente a quali reparti appartengano i 12 mila non vaccinati della penitenziaria (anche se, secondo stime sindacali, almeno mille avrebbero avuto accesso al vaccino in modo autonomo e dunque non sarebbero stati ancora registrati): se siano tra coloro che lavorano dentro le carceri o negli uffici dell’amministrazione, o se siano tra le centinaia di prescelti addetti alle scorte delle autorità o ad altre mansioni. Si sa solo che delle 37 mila unità che formano il corpo, circa 20 mila sono dislocati nelle carceri, a contatto con i detenuti (che tendenzialmente, nella stragrande maggioranza, sono tutti vaccinati). Essendo dati sensibili, solo il 15 mattina, alla verifica del Green pass, si potranno contare i mancanti. E le soluzioni, a sentire i sindacati di polizia penitenziaria, sono solo due: o l’obbligo vaccinale (che comporterebbe per i No Vax un provvedimento disciplinare e la perdita del posto di lavoro, non solo la sospensione dello stipendio, quindi avrebbe un effetto persuasivo molto più alto) o il tampone gratuito. Anche se quest’ultimo potrebbe non risolvere il problema. La proposta di Domenico Pianese, segretario del sindacato di polizia Coisp che parla di “18 mila poliziotti” senza copertura vaccinale, è quella di estendere - solo per le forze dell’ordine - la validità dei tamponi a 96 ore, anziché 48 o 72 ore. Perché, spiega Pianese, “prendiamo ad esempio il personale che viene mandato a Lampedusa nel centro accoglienza e che rimane lì per 15 giorni: ma dove lo va a fare il tampone? Gli aggregati in Valsusa che stanno in mezzo alle montagne e dormono nei container dove vanno a farsi il test?”. Oppure, continua il sindacalista, “se un poliziotto o un carabiniere ha fatto il tampone valido fino alle 14, quando termina il turno, alle 13.59 arresta una persona e si deve prolungare nell’orario di servizio, cosa fa, lascia lì l’arrestato perché deve andare via?”. Come pianese, anche Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-pa Polizia penitenziaria, tiene a precisare di non essere contrario al vaccino, anzi. “Invito tutti a vaccinarsi, credo sia un dovere civico e che sia la migliore soluzione per uscire dalla pandemia, l’unica che sta portandoci fuori dal tunnel. Avremmo però voluto una disciplina univoca, chiara: l’obbligo vaccinale avrebbe risolto il problema e non avrebbe scaricato l’onere sui lavoratori”. La soluzione, per De Fazio, a questo punto è almeno la gratuità del tampone perché, afferma, “il costo della sicurezza sul lavoro non spetta al lavoratore”. Andrebbe però ricordato che se il lavoratore non si attiene alle regole della sicurezza è passibile di sanzioni, sempre e ovunque. In ogni caso, il problema dei poliziotti No Vax era noto da mesi, si sarebbe potuto provvedere in tempo, anche spostando il personale nei luoghi critici, come le carceri, dove ammettere agenti non vaccinati viola il diritto alla salute dei detenuti e comporta il rischio di nuovi potenti focolai. Giustizia riparativa, progetto di Istituto don Calabria ed enti Terzo settore agensir.it, 13 ottobre 2021 Parte il progetto “Tra zenit e nadir. Rotte educative in mare aperto”. La riforma della giustizia penale introduce per la prima volta nel nostro Paese l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena. I partner di “Tra zenit e nadir. Rotte educative in mare aperto” - un progetto selezionato da “Con i Bambini” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile - sottolineano “l’importanza delle norme sulla giustizia riparativa contenute nella riforma approvata in Parlamento” e ritengono che “il tema, per la sua rilevanza, meriti un approfondito dibattito nel Paese, che coinvolga non solo gli attori della giustizia penale, ma le istituzioni e le organizzazioni sociali in genere”. La giustizia riparativa, infatti, “è un approccio che non riguarda solo i reati, ma più in generale tutti i comportamenti devianti e, dunque, può essere impiegato in modo proficuo in tutte le occasioni di conflitto sociale che provocano allarme, paura, rabbia nella comunità”. Il progetto ­- la cui partnership è composta da 61 soggetti istituzionali e sociali, di cui 24 enti pubblici e 37 organizzazioni del Terzo settore, con capofila l’Istituto don Calabria e la partecipazione di numerose organizzazioni socie del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) - si rivolge in particolare “alle situazioni in cui sono coinvolti minorenni autori di reato o di comportamenti devianti e verrà realizzato in tre regioni (Lombardia, Veneto e Trentino Alto Adige) e otto province (Milano, Brescia, Cremona, Verona, Vicenza, Treviso-Bassano, Venezia, Trento). Proprio in questi territori è stato avviato negli anni scorsi un lavoro di accompagnamento e sostegno educativo, reinserimento e re-inclusione sociale dei minorenni autori di reato in un’ottica riparativa”. Il progetto proverà “a sostenere le attività di giustizia riparativa già avviate su questi territori in modo più organico e continuo, grazie anche alla costituzione, in tutte le province interessate, di un Tavolo permanente sulla giustizia riparativa, che dovrebbe essere il motore delle azioni riparative avviate sul territorio da Comuni, enti della giustizia penale, servizi sociali e sanitari pubblici, scuole, terzo settore. Una vera e propria sperimentazione che permetterà di mettere in rete tanti soggetti della comunità per rendere concreto un modello di gestione dei conflitti che è ancora poco noto all’opinione pubblica, ai media e alle stesse istituzioni”. Contrattacco 5S: “Che errore il testo sulla presunzione d’innocenza” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 ottobre 2021 “I pm parlino liberamente su fatti così gravi”. Dopo gli scontri di Roma, il Movimento rimette in discussione il decreto garantista alla vigilia del voto alla Camera. “I gravissimi fatti di Roma impongono una riflessione sulle nuove norme in discussione in commissione Giustizia sul cosiddetto rafforzamento della presunzione d’innocenza”: lo ha affermato il capogruppo del Movimento 5 Stelle in commissione Giustizia alla Camera, Eugenio Saitta, in riferimento agli scontri di sabato scorso nella Capitale, provocati da Forza Nuova e altre forze di estrema destra e anti-sistema. Il parlamentare interviene a poche ore dal voto (sarebbe anticipato ad oggi rispetto alla data prevista di domani) sul parere allo schema di legislativo recante disposizioni per il compiuto recepimento della direttiva europea proprio sulla presunzione di non colpevolezza. “Come è noto - ha proseguito l’onorevole Saitta - si tratta della attuazione di una direttiva europea di cui il nostro Paese non aveva bisogno, a nostro avviso, perché è già previsto il rispetto delle regole di tutela per gli indagati o gli imputati”. Interpellato dal Dubbio, il deputato aggiunge: “La nostra è una preoccupazione che abbiamo già espresso durante i lavori in commissione: la norma europea così come la si vuole applicare impone restrizioni eccessive: di fronte, ad esempio, ai fermi di ieri (lunedì, ndr) e alle violenze di piazza proseguite dentro un pronto soccorso della Capitale, non sarebbe giusto imporre il silenzio della procura competente. L’opinione pubblica ha diritto di seguire fatti così rilevanti anche se non è stato maturato un giudizio definitivo. Soprattutto se siamo in presenza di misure di custodia cautelare. Ferma restando la presunzione di innocenza delle persone arrestate, crediamo sia doveroso da parte dell’autorità giudiziaria spiegare perché alcune persone sono state private della libertà personale”. Il caso preso in esame dall’onorevole Saitta in realtà, secondo la norma di recepimento della direttiva così come uscita da via Arenula, potrebbe ricadere tra quei “fatti di rilevante interesse pubblico” per i quali la Procura sarebbe autorizzata a tenere una conferenza stampa. Tuttavia, osserva ancora Saitta, “questo caso serve ad aprire una riflessione. Una norma troppo restrittiva andrebbe a ledere il diritto dei cittadini ad essere informati e quello della magistratura a spiegare il motivo di particolari provvedimenti. Su questo ho condiviso quanto espresso nel corso dell’audizione dal dottor Nello Rossi”. Proprio Nello Rossi, ex magistrato e direttore della rivista di “Md” Questione Giustizia, in una intervista al nostro giornale qualche mese fa disse che “gli arresti segreti ed immotivati si fanno solo nelle dittature” e in audizione aveva specificato quanto ribadisce ora a noi ossia che “ogni volta che ci sono misure cautelari credo ci possa essere un rilevante interesse pubblico a spiegare la ragione di tali provvedimenti. Questi ultimi vanno però motivati senza usare aggettivi o epiteti che già diano per colpevoli gli indagati, e va chiarito che gli argomenti alla base dell’adozione della misura cautelare valgono in quel momento ma potranno essere successivamente rivisti alla luce dell’entrata in campo delle difese e della celebrazione del processo”. Di parere contrario il relatore del provvedimento, il responsabile Giustizia di Azione, l’onorevole Enrico Costa, che ci dice: “Per spiegare le ragioni di un provvedimento di misure cautelari basta un comunicato stampa, non c’è necessità della conferenza stampa. Il testo del governo sdogana le conferenze stampa delle Procure. Ma quello del decreto legislativo 20 febbraio 2006 che si vuole andare a modificare non prevede le conferenze stampa, anzi parla di comunicazione ‘impersonale’ da parte delle Procure. Al contrario una conferenza ai media si trasforma in un contatto diretto e personale”. In commissione non c’è una uniformità di vedute nella maggioranza, e comunque nessuno si è espresso nell’ultima seduta sul parere di Costa, tranne Colletti di L’alternativa c’è, che ha preannunciato il proprio voto contrario. Quindi bisognerà attendere il voto di oggi, al massimo domani. Riforma Cartabia, al Gup un effettivo potere di filtro: è cambiata la regola di giudizio di Francesco Giovannini * Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2021 Che sia finalmente un’occasione per evitare dibattimenti inutili? Il rischio è che i giudici si dimostrino poco propensi a cambiare forma mentis. Uno degli aspetti più rilevanti (e potenzialmente dirompenti) della riforma Cartabia del codice di procedura penale concerne la modifica della regola di giudizio destinata a governare l’udienza preliminare cosiddetta “secca”, ossia quella in cui non si innestano riti alternativi (patteggiamento e rito abbreviato) e il Gup è chiamato a decidere se rinviare a giudizio l’imputato oppure emettere una sentenza di “non luogo a procedere” in suo favore, evitandogli un dibattimento spesso lungo, costoso e assai doloroso in termini psicologici, relazionali e reputazionali. L’odierna regola di giudizio - Nell’attuale formulazione dell’articolo 425 c.p.p., il Giudice per l’Udienza Preliminare pronuncia sentenza “di non luogo a procedere” (salvi i casi di assoluzione “tecnica”: es. prescrizione, mancanza di una condizione di procedibilità, difetto di imputabilità, etc.) solo “quando risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o il fatto non costituisce reato” (comma 1), oppure “quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio” (comma 3); in caso contrario, il Gup deve disporre il rinvio a giudizio dell’imputato. Nella prassi giudiziale, prevale l’idea che il Gup, dovendo decidere non dell’innocenza o della colpevolezza dell’imputato, ma solo dell’esistenza (o meno) di sufficienti elementi che rendano necessaria/opportuna la celebrazione di un processo a suo carico, possa sostanzialmente disinteressarsi del merito del procedimento. A dire il vero, questa interpretazione è fatta propria non dalla dottrina processual-penalistica ma dalla stragrande maggior parte dei giudici, in un’ottica, talvolta, di puro disimpegno; non dovendo applicare la pena concordata tra le parti (cd. “patteggiamento”) e non dovendo diventare il vero e proprio giudice del processo (cosa che avviene in caso di “giudizio abbreviato”, con l’istaurarsi del quale il Gup diviene, a tutti gli effetti, il Giudice del primo grado di giudizio), il Gup finisce spesso per non “studiare le carte”, disponendo il rinvio a giudizio quasi in automatico, tanto più che non deve motivare le ragioni per le quali ritiene indispensabile la celebrazione del processo. Ed è capitato più di una volta che, in camera caritatis, un Gup abbia detto testualmente: “Avvocato, se vuole che mi studi bene le carte, deve fare l’abbreviato”. Per la verità, a stretto rigore, anche oggi il Gup sarebbe tenuto, in caso di udienza preliminare “secca”, ad effettuare una valutazione meno superficiale delle carte processuali, se non altro in relazione al profilo della “insufficienza e contraddittorietà” degli elementi raccolti dal Pm nonché della loro “inidoneità a sostenere l’accusa in giudizio” (attuale formulazione del terzo comma dell’articolo 425 c.p.p.). Con ciò non si realizza certo l’equiparazione del Gup ad un giudice di merito, ma la lettera della norma esigerebbe comunque, già oggi, un vaglio più approfondito e meditato del giudice rispetto all’effettiva consistenza degli addebiti ipotizzati a carico dell’imputato. La nuova regola di giudizio - La delega di riforma del codice di procedura penale licenziata dal Parlamento prevede (articolo 1, comma 9, lett. m) una “modifica della regola di giudizio” di cui al terzo comma dell’articolo 425 c.p.p., statuendo che il Gup deve pronunciare sentenza di “non luogo a procedere” quando “gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna” dell’imputato. Si tratta - almeno potenzialmente - di una innovazione davvero rilevante, in linea con la ratio dichiarata della “riforma Cartabia”, improntata (come molte che l’hanno preceduta) a favorire la “celere definizione dei procedimenti giudiziari”. Con una fondamentale differenza; se le innovazioni introdotte negli ultimi anni in materia di giustizia penale sono state spesso caratterizzate dalla malcelata volontà di velocizzare il processo a scapito delle garanzie e delle prerogative della difesa (cosa della cui legittimità costituzionale si continua fortemente a dubitare), la nuova regola di giudizio di cui al terzo comma dell’articolo 425, comma 3, c.p.p. sembra andare nella direzione opposta, perché appare finalizzata ad arricchire i poteri valutativi e cognitivi del Giudice dell’Udienza Preliminare “secca” in un’ottica garantista. Infatti, l’analisi circa la “ragionevole previsione” di una condanna comporta, per il giudice, la necessità di esaminare e soppesare nel merito gli elementi probatori sin lì raccolti dal Pm a carico dell’imputato. Non si tratta più, in altre parole, di limitarsi ad una funzione quasi notarile concernente la mera esistenza di elementi che giustifichino la celebrazione di un processo, magari anche dall’esito molto incerto; la nuova regola impone (o dovrebbe imporre) al Gup di “scendere” molto di più nel merito della causa, statuendo il rinvio a giudizio dell’imputato solo nel caso in cui gli elementi probatori/indiziari a suo carico abbiano un peso e una rilevanza tale (non semplicemente da meritare la celebrazione di un processo ma) da lasciare prevedere come “ragionevole” la sua condanna finale. Inoltre, tale valutazione sulla “ragionevolezza” della condanna deve essere effettuata hic et nunc dal giudice, senza che egli possa fare affidamento su possibili, teorici e del tutto eventuali sviluppi dibattimentali favorevoli alla Pubblica Accusa. La circostanza non è di poco momento, dato che oggi spesso il Gup ritiene che il procedimento debba “andare avanti” proprio perché il Pm potrebbe (magari solo in teoria) sfruttare a suo vantaggio l’istruttoria dibattimentale per rafforzare una tesi accusatoria che appare claudicante in sede di udienza preliminare. In sostanza, la modifica della regola di giudizio della “nuova” udienza preliminare, qualora fosse correttamente intesa e applicata dai giudici, potrebbe avere una portata potenzialmente molto significativa in favore degli imputati, perché potrebbe comportare l’emissione in favore di questi ultimi di sentenze di “non luogo a procedere” in situazioni nelle quali oggi un tale provvedimento sarebbe molto difficile da ottenere. Ciò servirebbe a realizzare una effettiva deflazione del carico penale, evitando che vengano celebrati, quasi per pura inerzia, processi del tutto inutili basati su fondamenta di argilla. Oltre alla deflazione del carico penale, obiettivo manifesto della novella normativa, conferire all’udienza preliminare “secca” una effettiva funzione di filtro consentirebbe a molti imputati di uscire celermente dalla morsa del procedimento penale, spesso devastante - sia in termini psicologici che economici - per il malcapitato di turno, che deve spesso attendere anni prima che la sua innocenza venga acclarata in relazione a procedimenti che potevano essere definiti ben prima del rinvio a giudizio. Come sempre, l’effettiva portata di questa modifica normativa si vedrà sul “campo”, ossia nelle aule dei Tribunali; i Gup vorranno farsi carico di questa novità o la neutralizzeranno, appiattendo e banalizzando il concetto di “ragionevolezza” della previsione di condanna? Il rischio è che i giudici per le indagini preliminari, oberati dalle varie incombenze (si pensi anche a quelle relative alle misure cautelari personali e reali) e talvolta oggettivamente sotto organico in relazione ai rispettivi bacini di utenza, si dimostrino poco propensi a cambiare forma mentis sul loro tradizionale modo di gestire l’udienza preliminare “secca”, anche perché il Legislatore della riforma non ha volto fare l’ulteriore passo di obbligare il Gup a motivare la sua decisione, rendendo evidentemente più agevole il compito del giudice che intenda continuare ad essere sbrigativo quando si tratti di decidere (solo) sul mero rinvio a giudizio (e non già sulla innocenza/colpevolezza) dell’imputato. *Avvocato Il ritardo sulla riforma del Csm agita la magistratura di Giulia Merlo Il Domani, 13 ottobre 2021 Il ddl sull’ordinamento giudiziario è l’ultimo dei tre pilastri del Pnrr nel capitolo giustizia, ma la riforma più delicata per gli equilibri interni tra le istituzioni è ancora tutta da scrivere. O meglio: esistono il testo lasciato dal precedente governo e la relazione degli esperti presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani. A mancare, però, sono gli emendamenti della ministra Marta Cartabia che equivalgono a una sostanziale riscrittura del testo di partenza a partire dagli spunti della commissione Luciani. I cambiamenti principali riguardano i nuovi metodi per le nomine agli incarichi direttivi e semidirettivi, regole stringenti per il passaggio dalla magistratura alla politica e il nodo della legge elettorale per il Csm. La commissione ha consegnato la sua relazione il 31 maggio, ma da via Arenula si sa solo che Cartabia sta lavorando a partire da quel testo, senza alcuna data precisa per il deposito degli emendamenti. Proprio questo sta mettendo in agitazione i gruppi associativi della magistratura. La ragione è legata ai tempi: secondo il Pnrr, la legge di delega al governo deve essere approvata entro la fine dell’anno, mentre entro fine 2022 si attendono i decreti delegati. La prima prova del nuovo sistema elettorale del Csm sarà immediata, visto che l’attuale consiglio scade nel luglio 2022. Ecco quindi il timore: che la corsa contro il tempo produca l’effetto di tagliare drasticamente i tempi di gestazione della riforma, su cui si teme un accordo della politica in modo da rispettare le scadenze ma senza che la magistratura venga debitamente ascoltata. Con il risultato di una riforma prodotta dalla politica e dagli apparati ministeriali vicini alla ministra, poco condivisa con le altre componenti delle toghe. Proprio per questo le critiche più dure arrivano dai gruppi associativi che meno sarebbero rappresentate nel cerchio stretto di Cartabia: al ministero, infatti, la componente più forte sarebbe quella delle toghe progressiste di Area. Il sospetto proviene dalle toghe conservatrici di Magistratura indipendente, la corrente tra le più colpite dallo scandalo Palamara ma che sta progressivamente riconquistando la sua base elettorale e ha vinto due dei quattro seggi per i quali si sono celebrate le elezioni suppletive del Csm. Attualmente, tra le correnti si sta riproducendo una dinamica polarizzata tra Area e Magistratura indipendente e la riforma elettorale proposta dalla commissione Luciani gioverebbe in particolare ad Area, che ha portato nella sua orbita la corrente centrista di Unità per la costituzione, oggi in crisi di consensi. La riforma elettorale - “Stanno tentando di isolare Mi con una legge elettorale che favorisca l’accordo tra Area e Unicost. E più la ministra aspetta a presentare gli emendamenti, meno tempo ci sarà per intervenire per sventare la trappola”, sintetizza un alto magistrato del gruppo conservatore. L’ipotesi articolata nella proposta della commissione Luciani prevede l’aumento dei consiglieri da 20 a 24, il sistema è proporzionale e prevede la candidatura di singoli e non più di liste. Viene definito del “voto singolo trasferibile” perché crea più collegi plurinominali in cui gli elettori indicano almeno tre candidati in ordine di preferenza. Per essere eletti bisogna prendere un numero minimo di voti fissato con una formula che mette in relazione il numero di voti e quello dei seggi. Al primo spoglio si assegnano i seggi a chi raggiunge la soglia richiesta con le prime preferenze ricevute; se rimangono seggi non assegnati si effettua un secondo spoglio, con cui si ripartiscono le schede che indicano il candidato più votato come prima preferenza, assegnandole in base alle seconde preferenze. E poi alle terze, se ci sono ancora seggi vuoti. “Un sistema che si presta alla elaborazione di “cordate” e dunque a condizionamenti di voto, frutto di accordi correntizi”, si legge in un documento ufficiale di Mi. Per Cartabia, quindi, si apre una fase complicata di corsa contro il tempo per presentare gli emendamenti. Ma soprattutto una fase di necessario ascolto interno, per evitare il rischio di essere considerata ministra di parte e finire sotto attacco delle toghe. Pedofilia: la Corte europea nega il diritto di denunciare il Vaticano di Paolo Rodari La Repubblica, 13 ottobre 2021 In settimane difficili per la Chiesa a motivo dell’emergere di casi di abusi commessi da preti e di negligenze nelle autorità ecclesiastiche la Santa Sede si salva da processi che potrebbero portare all’esborso di ingenti risarcimenti. La Santa Sede non può essere chiamata in giudizio per i casi di abusi sessuali commessi dai sacerdoti nei vari Paesi. Lo ha stabilito la Corte Corte europea dei Diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo, che oggi (12 ottobre) ha rigettato 24 querelanti che avevano citato in giudizio senza successo il Vaticano dinanzi ai tribunali belgi per atti di pedofilia commessi da preti cattolici. La notizia non è di poco conto. In settimane difficili per la Chiesa a motivo dell’emergere di casi di abusi commessi da preti e di negligenze nelle autorità ecclesiastiche, con l’intera Francia scossa da un Report indipendente che ha stimato in 216mila il numero delle persone vittime di sacerdoti o di religiosi a partire dagli anni ‘50, il Vaticano si salva da accuse che, se portate in tribunale, avrebbero potuto comportare l’esborso di somme risarcitorie ingenti. La Cedu ha invocato in particolare “l’immunità” della Santa Sede riconosciuta dai “principi di diritto internazionale”. I ricorrenti, di nazionalità belga, francese e olandese, erano stati respinti dai tribunali belgi, che avevano invocato l’immunità giurisdizionale della Santa Sede. La Cedu, che si esprime per la prima volta su questo tema, si è pronunciata a favore dei tribunali belgi. Sentenze analoghe a quella odierna di Strasburgo si erano avute negli anni passati anche in tribunali degli Stati Uniti, su denunce similari rivolte al Vaticano, e addirittura al Papa, da parte di vittime di preti pedofili. “La Corte ritiene che il rigetto (...) non abbia deviato dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti in materia di immunità dello Stato” e che si applicano al Vaticano, ha osservato La Cedu in una nota. Il tribunale di Strasburgo ha quindi concluso che non vi era stata violazione delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul “diritto di accesso a un tribunale” invocate dai ricorrenti, che hanno sostenuto di essere stati impediti dal far valere in civile le loro rimostranze contro il Vaticano. Essi avevano intentato nel 2011 in Belgio un’azione civile collettiva per risarcimento contro il Vaticano, i vertici della Chiesa cattolica in Belgio e le associazioni cattoliche, ricorda la Corte nel suo comunicato. Hanno chiesto un risarcimento a causa “del danno causato dal modo strutturalmente carente in cui la Chiesa avrebbe affrontato il problema degli abusi sessuali al suo interno”, secondo la stessa fonte. Il Vaticano “ha caratteristiche paragonabili a quelle di uno Stato”, notano inoltre i giudici europei. E ritengono che la giustizia belga avesse quindi il diritto di “dedurre da queste caratteristiche che la Santa Sede era un ente sovrano straniero, con gli stessi diritti e doveri di uno Stato”. “Il totale insuccesso dell’azione dei ricorrenti deriva in realtà” da “scelte procedurali” da essi “non modificate” durante il procedimento “per chiarire e individuare i fatti a sostegno delle loro azioni”, conclude la Corte. Paese non membro del Consiglio d’Europa, quindi fuori dal campo di applicazione della Corte europea, la Santa Sede non è stata direttamente interessata dal procedimento davanti alla Cedu, braccio giuridico del Consiglio. La Conferenza episcopale del Belgio e il Vaticano erano stati, tuttavia, autorizzati a intervenire nella procedura scritta in qualità di terzi intervenienti. Napoli. Morte in carcere di Antonio Alfieri: la magistratura apre un’inchiesta ottopagine.it, 13 ottobre 2021 Ciambriello: “I familiari apprendono la notizia 4 giorni dopo, non si può morire così”. Ieri mattina il Garante delle persone private della libertà personale della Campania Samuele Ciambriello ha ricevuto presso il suo ufficio l’avvocato del detenuto Antonio Alfieri, deceduto venerdì 8 ottobre 2021 all’ospedale Cardarelli. L’avvocato Luca Mottola, difensore del detenuto, ha comunicato al Garante che lo scorso venerdì ha effettuato ordinaria prenotazione del colloquio con il detenuto e lunedì, una volta recatosi al carcere, gli è stato comunicato del decesso. Uscito dal carcere, ha appreso che anche i familiari del detenuto erano stati appena avvisati, sempre lunedì, del tragico evento dai carabinieri. La magistratura ha aperto un’inchiesta per conoscere le cause del decesso e se ci sono state omissioni o responsabilità. Nei prossimi giorni ci sarà l’autopsia. Il Garante regionale Samuele Ciambriello, dopo l’incontro di questa mattina, ha dichiarato: “Ancora una volta a morire è un tossicodipendente, al quale il Serd di Poggioreale aveva trovato una comunità fuori Regione, a Taranto, ma il Magistrato competente aveva rigettato per 2 volte l’istanza di arresti domiciliari. Continuo a ripetere, senza essere attaccato dai soliti qualunquisti e forcaioli, che un tossicodipendente detenuto, un malato psichico non dovrebbe stare in carcere, ma dovrebbe evitarlo, usufruendo delle misure alternative. Ma si sa, la politica, la maggioranza dei cittadini e una buona parte della Magistratura considerano il carcere una risposta semplice, di sicurezza, a bisogni complessi. Ho prontamente scritto alla direzione del carcere e alla direzione sanitaria del carcere di Poggioreale chiedendo chiarimenti circa le condizioni psicofisiche prima del giorno del decesso, se il detenuto è deceduto di morte naturale, se è morto nel tragitto verso l’ospedale Cardarelli o una volta arrivato lì e le motivazioni per le quali era stato tradotto d’urgenza all’ospedale. Inoltre, alla direzione del carcere ho richiesto il perché i familiari siano stati avvisati del tragico evento solo nella giornata di ieri 11.10.2021, ben 4 giorni dopo il tragico evento.” Catania. Referendum sulla giustizia, 258 detenuti hanno firmato nel carcere di piazza Lanza cataniatoday.it, 13 ottobre 2021 Le richieste di referendum riguardano la separazione delle carriere dei magistrati, il sistema elettorale del CSM, la responsabilità diretta dei magistrati, l’equa valutazione dei magistrati, i limiti agli abusi della custodia cautelare e l’abolizione del decreto Severino. Sono 258 i detenuti che nella giornata di ieri, lunedì 11 ottobre, hanno sottoscritto i sei referendum sulla giustizia all’interno della Casa circondariale di Piazza Lanza, a Catania. A raccogliere le firme una delegazione composta da Donatella Corleo, Gianmarco Ciccarelli, Enrico Iachello e Francesco Grasso, con l’avvocato Luca Mirone presente in qualità di autenticatore. Il carcere di Piazza Lanza attualmente ospita circa 350 detenuti. Nei giorni scorsi la raccolta delle firme è stata effettuata anche negli istituti penitenziari di Palermo Pagliarelli, Trapani e Siracusa. Le richieste di referendum riguardano la separazione delle carriere dei magistrati, il sistema elettorale del CSM, la responsabilità diretta dei magistrati, l’equa valutazione dei magistrati, i limiti agli abusi della custodia cautelare e l’abolizione del decreto Severino. È ancora possibile firmare i referendum online con Spid o firma digitale sul sito www.comitatogiustiziagiusta.it. Donatella Corleo e Gianmarco Ciccarelli, membri del Consiglio generale del Partito Radicale, hanno dichiarato: “L’adesione dei detenuti ai referendum è stata massiccia e siamo contenti di avere concluso questa prima fase della campagna referendaria con un “tavolo” nel carcere di Piazza Lanza, dopo aver raccolto nei giorni scorsi le firme negli istituti penitenziari di Palermo Pagliarelli, Trapani e Siracusa. Consentire ai cittadini detenuti di potere concretamente esercitare un diritto costituzionale è qualcosa di particolarmente significativo, al di là dei numeri. Le carceri sono l’ultimo anello di una giustizia che non funziona e che attraverso i referendum può essere radicalmente riformata” Milano. Lo smart working arriva in carcere: progetto pilota del penitenziario di Bollate di Simone Bianchin La Repubblica, 13 ottobre 2021 Computer con connessioni Internet protette in cella. Coinvolti novanta detenuti al lavoro da remoto con i computer dall’interno del carcere. Lavorare in smart working in cella in carcere, a Bollate, grazie ad una connettività ad Internet protetta ed esclusiva per i detenuti. Un progetto sperimentale, reso possibile dalla Fondazione Vismara, che ridisegna i confini del lavoro in carcere e apre nuove prospettive sull’utilizzo di Internet dietro le sbarre, per contrastare l’emarginazione digitale. Il progetto, finalizzato a promuovere il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti e che ha ottenuto il finanziamento di Regione Lombardia, coinvolge novanta persone del penitenziario che sono al lavoro da remoto con i computer dall’interno del carcere: già da febbraio, 64 carcerati si occupano - anche da 12 postazioni di lavoro che vengono allestite all’interno delle stanze di pernottamento - della gestione operativa di un call center che offre servizi al mondo delle imprese. Il progetto dell’impresa sociale “bee.4 altre menti”, ora è in fase di ampliamento e prevede, nel corso di questo mese di ottobre, la sperimentazione dello smart working per percordi di inserimento lavorativo verso l’esterno a favore di 64 detenuti coinvolti nelle attività di formazione: 10 persone sono già in lavoro smart e seguono un programma che prevede un totale di 1.500 ore di attività lavorative. Da questo mese in poi, spiega l’impresa sociale, arriva l’ampliamento delle opportunità lavorative all’interno dell’istituto con 10 percorsi lavorativi che dureranno 12 mesi, seguendo altrettanti nuovi percorsi di inserimento lavorativo che riguardano persone che si trovano in regime di “esecuzione penale esterna”, oltre ad altre 20 postazioni di lavoro che la cooperativa ha creato presso una propria sede esterna a Cologno Monzese. “Il lavoro in carcere alle dipendenze di imprese esterne rispetto all’amministrazione penitenziaria è un’opportunità riservata ad un numero ridotto di persone, è un progetto pilota che grazie all’interessamento di alcune imprese che si impegnano anche nel carcere serve a portare il lavoro nel penitenziario come riscatto sociale, per passare dalla punizione al recupero”, dicono dall’impresa sociale bee4. “Grazie alla lungimiranza della direzione dell’istituto, con il direttore Giorgio Leggieri, è stato possibile realizzare un protocollo straordinario di intervento che sta consentendo di sperimentare questa nuova modalità di lavoro “a domicilio” fondato sull’accesso a forme di connettività alla rete Internet, nel rispetto dei limiti di sicurezza previsti dall’amministrazione penitenziaria”. Per Pino Cantatore, direttore della cooperativa sociale bee.4, “la remotizzazione delle postazioni di lavoro in cella rappresenta un’autentida rivoluzione per quelli che sono i canoni dell’universo penitenziario oltre ad essere una nuova chiave interpretativa per l’approccio al tema del lavoro in carcere. Noi promuoviamo il lavoro quale strumento per valorizzare il tempo della pena, contribuendo alla costruzione di professionalità e attitudine al lavoro, fattori fondamentali per consentire di cambiare il proprio stile di vita dopo il periodo della detenzione”. I primi risultati di questo progetto, dopo 360 ore di formazione erogata per 64 persone coinvolte nelle attività di formazione, sono tangibili: 20 detenuti sono stati assunti dalle aziende per le quali avevano lavorato in remoto. Nuoro. Botte a un detenuto in carcere: nove agenti indagati La Nuova Sardegna, 13 ottobre 2021 Nove agenti della Polizia penitenziaria in servizio nelle carceri di Uta e Nuoro sono indagati a seguito del presunto pestaggio di un detenuto di 36 anni che sarebbe stato picchiato anche con l’utilizzo di manganelli introdotti nel penitenziario di Bade ‘e Carros senza l’autorizzazione del direttore. I fatti contestati dalla Procura di Nuoro risalirebbero al 12 agosto dell’anno scorso, quando un detenuto di origini albanesi era stato trasferito dal penitenziario di Uta a quello di Nuoro. Arrivato a destinazione, nelle fasi di immatricolazione, l’uomo sarebbe stato picchiato con violenza, anche con gli sfollagente, riportando fratture, contusioni e lesioni che i medici hanno quantificato in oltre 40 giorni di prognosi. Otto agenti, tra quelli della sua scorta arrivati da Uta e alcuni in servizio a Nuoro, sono stati indagati per lesioni aggravate, mentre un nono deve rispondere di falso per aver dichiarato che i manganelli erano entrati in carcere solo per pochi istanti e poi riportati all’estero della struttura. L’indagine della Procura di Nuoro era nata dopo l’invio degli atti disposto dal Provveditorato regionale delle Carceri della Sardegna che aveva sottoposto a disciplinare i poliziotti. Il detenuto 36enne risulta invece indagato per minacce nei confronti dei poliziotti. Ora che l’indagine è stata chiusa i difensori degli indagati hanno a disposizione tutti gli atti raccolti e potranno presentare memorie o chiedere di fare interrogare i propri assistiti prima che la Procura di Nuoro chieda il rinvio a giudizio. Perugia. In ospedale un reparto dedicato ai detenuti La Nazione, 13 ottobre 2021 L’assistenza garantita dal personale della Medicina Interna. Tesei: “Dopo il Covid adesso dobbiamo recuperare senza scuse il tempo perso”. Ora al Santa Maria della Misericordia c’è un nuovo reparto con 4 positi letto di degenza di medicina protetta per detenuti. L’inaugurazione c’è stata ieri pomeriggio e la struttura è stata definita esempio di “importante sinergia” tra amministrazione sanitaria a quella penitenziaria. Si sviluppa su una superficie di 125 metri quadrati, ed è annessa al reparto di Medicina vascolare - Stroke unit. Può accogliere sia uomini sia donne. All’inaugurazione ha partecipato la presidente della Regione Umbria Donatella Tesei che ha parlato di “una realizzazione non solo doverosa per il diritto di cura a tutti ma di qualcosa che mancava in un ospedale come quello di Perugia”. L’assistenza clinica e sanitaria dei pazienti - è stato spiegato - verrà garantita dall’equipe del reparto di Medicina interna vascolare Stroke Unit, diretto dalla professoressa Cecilia Becattini con il supporto del personale medico di Medicina interna diretta dal professor Matteo Pirro. L’assetto del reparto, condiviso con l’Azienda ospedaliera e con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è composto da un accesso all’area tramite filtro di ingresso con metal detector, un locale di controllo videosorvegliato, camere, dotate di servizi igienici, un locale colloqui e una stanza dotata di “drug bugger compact” per il recupero degli ovuli. I pazienti saranno assistiti dal personale sanitario dell’Azienda ospedaliera, mentre la sicurezza e l’ordine del reparto sarà garantita dalla polizia penitenziaria del carcere di Capanne, diretto da Bernardina Di Mario. “L’Umbria è piccola ma ha carceri importantissimi - ha poi sottolineato Tesei che ha ringraziato i medici che andranno a supportare il reparto - e la nostra sanità si è recata in questi luoghi dando risposte e gestendo situazioni impegnative durante la pandemia. Ora soprattutto in materia di sanità, serve accelerare - ha sottolineato la presidente. Tutti conosciamo i tempi del pubblico ma occorre essere più veloci. Dobbiamo recuperare il tempo perso e non più parlare più di auspici e di ‘faremo’ ma dobbiamo fare. “Sono particolarmente lieto che quest’opera, realizzata negli anni dalle precedenti amministratori (il costo è stato di 260mila euro, ndr), possa essere finalmente operativa, dopo lo stop dettato dall’emergenza pandemica, grazie all’impegno e alla sinergia tra istituzioni - ha detto il direttore generale dell’Azienda Ospedaliera di Perugia, Marcello Giannico. L’apertura apporterà molteplici vantaggi a cominciare dal risparmio delle risorse, dal recupero dei posti letto e dall’ottimizzazione del lavoro dell’equipe sanitaria”. Bergamo. Volontari dentro e fuori dal carcere, al via il corso formativo L’Eco di Bergamo, 13 ottobre 2021 Organizzato da Centro di Servizio per il Volontariato e Casa Circondariale di Bergamo, il percorso per formare un nuovo gruppo di volontari che andranno a operare dentro il carcere prenderà il via nel mese di novembre. Iscrizioni aperte fino al 29 ottobre. Un corso di formazione per diventare volontari in carcere: è questa la proposta lanciata da Centro di Servizio per il Volontariato di Bergamo e Casa Circondariale di Bergamo, in collaborazione con l’Associazione Carcere e Territorio, la Diocesi di Bergamo e Ulepe (Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna) per costruire un nuovo gruppo di volontari che operino fuori e dentro il carcere. Di fatto una seconda edizione della positiva esperienza avviata a inizio 2020 che, nonostante le fatiche della pandemia, ha formato un gruppo di trenta volontari che ora stanno già prestando servizio in diverse attività proposte all’interno della Casa Circondariale ma anche a fianco delle persone che scontato pene alternative al carcere. “Il coinvolgimento di un numero sempre maggiore di volontari all’interno delle attività della Casa Circondariale è stata una grande sfida. Abbiamo proposto un corso che potesse chiamare il territorio a conoscere cosa è veramente il carcere e l’adesione è stata massiccia - ha raccontato la direttrice del Carcere di Bergamo, Teresa Mazzotta -. Una risposta che ora ci spinge a riproporre l’esperienza perché siamo convinti che il volontariato fa sì che il carcere possa considerarsi ancora un quartiere della città e non diventi autoreferenziale. Vengo da esperienze in cui ho visto sia l’assenza del volontariato e la resistenza del territorio sia la presenza di tante esperienze di volontariato: credo che questa seconda strada sia quella su cui investire. Chiudere non può creare sicurezza sociale”. Una sfida che il Centro di Servizio per il Volontariato ha prontamente accolto: “Da sempre il ruolo di Csv è quello di promuovere e sostenere il volontariato nei contesti di vita. Un volontariato che sia attento e pronto a rispondere ai bisogni che il territorio esprime: per questo ci siamo da subito spesi a fianco dell’istituzione carceraria per formare e accompagnare cittadini che potessero mettersi al servizio dei percorsi di giustizia - ha spiegato Oscar Bianchi, presidente del Csv -. La prima edizione di questo percorso si è rivelata positiva, per questo abbiamo scelto, insieme alla rete di soggetti che hanno partecipato al percorso, di proporre una nuova edizione. Speriamo che anche in questa occasione la cittadinanza risponda con entusiasmo e impegno”. Il percorso, che sarà condotto con la supervisione del professor Ivo Lizzola dell’Università degli Studi di Bergamo, prenderà il via giovedì 4 novembre alle ore 17.00 e avrà una durata di quattro incontri online seguiti da una fase di tutoraggio per consentire ai nuovi volontari di sperimentare diverse attività di volontariato nell’esecuzione penale. Gli appuntamenti del corso sono stati pensati per avvicinare i partecipanti all’esperienza dell’esecuzione penale, permettendo loro di conoscere questo mondo, le persone in esso coinvolte, i ruoli e le funzioni, il disegno delle normative e delle pratiche trattamentali oltre che le recenti riflessioni sulla giustizia. Momenti di conoscenza, incontro e visita con le realtà dell’esecuzione penale, carceraria e non solo, si alterneranno a momenti di riflessione ed approfondimento, con un’apertura anche verso altre realtà lombarde attive su questi temi. Un’opportunità per aprire lo sguardo su una dimensione che spesso viene dimenticata, come ha sottolineato il direttore della Caritas Diocesana don Roberto Trussardi: “Come Caritas Diocesana Bergamasca sono lieto di condividere il percorso di formazione per volontari nell’esecuzione penale. Per chi deciderà di partecipare sarà sicuramente un’occasione per approfondire alcune conoscenze nel tema dell’esecuzione penale e allo stesso tempo un’occasione per fare gruppo tra i volontari e il mondo dell’associazionismo che si occupa di queste tematiche”. I volontari che parteciperanno al percorso potranno scegliere di operare anche fuori dalla Casa Circondariale, a fianco delle persone che sono chiamate a svolgere misure alternative alla detenzione. “Il confine tra il dentro e il fuori è molto labile ed è necessario investire energie anche e soprattutto sull’esterno, che va curato e preparato affinché non diventi ostile e respingente nei confronti di chi vi si riaffaccia con uno stigma o fragilità pesanti. In questa impresa titanica la presenza attiva sul territorio di volontari, adeguatamente formati, curiosi di comprendere il mondo della giustizia nella sua complessità, disposti a lavorare in rete e a mettersi in gioco può davvero fare la differenza - ha spiegato Lucia Manenti, direttrice Ufficio Locale Esecuzione Penale Esterna. I volontari apportano uno sguardo diverso, agile e informale, affiancano gli operatori come “antenne” sensibili e facilitatori nei contesti di vita delle persone in esecuzione penale. Per l’Uepe, che non ha mai avuto volontari, è una sfida nuova e molto intrigante: il nostro sogno è poter contare sulla presenza attenta, consapevole e responsabile di adulti che in tutta la provincia possano diventare promotori e sensibilizzatori di una nuova cultura della giustizia, generativa di una maggiore capacità di accoglienza e di coesione sociale”. Una direzione condivisa anche dall’Associazione Carcere e Territorio, che da quarant’anni opera proprio per l’umanizzazione delle pena e per l’inclusione degli autori di reato: “Questo percorso formativo e propedeutico costruito in rete, riveste per l’Associazione Carcere e Territorio Bergamo A.P.S. che ha nei volontari parte vitale delle proprie attività una importante occasione sia per rafforzare la presenza del volontariato all’interno della Casa Circondariale che per l’importante l’attività esterna di accoglienza, di impegno nel consolidare i legami con il territorio provinciale e di sensibilizzazione nella prospettiva di una cultura favorevole ad una esecuzione penale di comunità”, ha sottolineato il presidente dell’associazione Fausto Gritti. La partecipazione al corso è gratuita e ai partecipanti verrà chiesta la partecipazione obbligatoria a tutti gli incontri. Per candidarsi come volontari è necessario compilare l’apposito modulo disponibile sul sito bergamo.csvlombardia.it entro venerdì 29 ottobre 2021. Per maggiori informazioni scrivere a territorio.bergamo@csvlombardia.it. Cagliari. Teatro tra carcere e territorio, don Cannavera: “La formazione è la risposta” cagliaripad.it, 13 ottobre 2021 Il progetto finanziato dalla Fondazione di Sardegna vuole dimostrare con lo spettacolo “Pesticidio” che una via alternativa al carcere esiste. Sarà uno scambio di conoscenze e competenze quello che vedrà protagonisti giovedì 14 e venerdì 15 ottobre gli attori e registi del Cada Die Teatro, Pierpaolo Piludu e Alessandro Mascia, con i ragazzi ospiti della comunità La Collina di Serdiana diretta da don Ettore Cannavera per il progetto finanziato dalla Fondazione di Sardegna “Teatro tra carcere e territorio”. Una due giorni in cui i due artisti racconteranno attraverso lo spettacolo “Pesticidio” e una serie di video interviste a ricercatori e imprenditori, che un nuovo modello di sviluppo esiste e può modificare le nostre vite. Trascorsa la notte insieme, nella seconda giornata, saranno i ragazzi a condurre Piludu e Mascia tra le dinamiche quotidiane della Comunità, mostrando agli artisti i frutti del loro impegno e delle giornate trascorse tra studio, lavoro nell’agricoltura, attività sportive, psicomotorie, ludiche, artistiche, riflessioni spirituali, incontri culturali e cene comunitarie. “Sono più che convinto che il carcere non sia la risposta giusta per chi commette reati. I numeri sulle recidive lo confermano. Solo il 4% di chi è stato da noi, è poi tornato a delinquere. L’unica risposta corretta è la formazione, ossia la possibilità di scontare la pena in forma educativa. Va superata una certa mentalità ‘forcaiola’ che li vorrebbe tutti dietro le sbarre. Non è utile a loro, e non lo è neanche per tutta la nostra società - spiega Cannavera -. Ospitando questo progetto, diamo seguito al nostro convincimento, che il confronto col mondo della cultura sia fondamentale per i nostri giovani, per far crescere la loro consapevolezza e mostrargli delle alternative valide alla delinquenza”. Lo spettacolo “Pesticidio”, in scena giovedì alle 18, è aperto al pubblico. Il progetto, avviato lo scorso luglio con i detenuti della Colonia Penale di Isili, e che coinvolgerà la Colonia penale di Is Arenas, gli studenti del Liceo Euclide e delle scuole superiori serali seguite dal Cpia Karalis (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti), mira a creare un ponte tra le attività lavorative all’interno delle strutture e alcune iniziative portate avanti in questi anni da ricercatori, agricoltori e imprese di edilizia ecosostenibile. Tutte esperienze che, nel pieno rispetto dell’ambiente, sono riuscite a inserirsi nel mondo del mercato, trasformando materiali di scarto destinati allo smaltimento, in prodotti di eccellenza. Brescia. La Compagnia Lyria torna in carcere con “Progetto Verziano” elivebrescia.tv, 13 ottobre 2021 Il Progetto Verziano nasce nel 2011 con l’intento di realizzare un’ampia e articolata azione di sensibilizzazione sul tema dell’integrazione tra realtà carceraria e società civile e per scomporre gli stereotipi ed i pregiudizi delle diversità. Compagnia Lyria lo attiva presso la Casa di Reclusione Verziano Brescia e dopo il successo della fase sperimentale lo ripropone negli anni a seguire arricchito di innovativi metodi educativi, utilizzando come strumento principale lo stimolo culturale e avvicinando nuove fasce di popolazione alla pratica artistica con modalità inclusive che pongano al centro il valore della cittadinanza, la capacità di intessere relazioni sociali, civili, comunitarie e favorire così la riduzione dei pregiudizi nei confronti delle persone in stato di detenzione. Per rendere significativo questo processo, l’associazione pensa che i giovani siano un canale privilegiato con cui lavorare, sia per quanto concerne la sensibilizzazione sia per la produzione vera e propria di strumenti atti ad allargare il cerchio e a consentirci di arrivare con il nostro messaggio a un maggior numero di persone che lo possano cogliere, perché sappiamo che l’essere toccati da qualcosa può fare la differenza. Il Progetto Verziano, giunto alla sua undicesima edizione, rappresenta un’evoluzione della precedente esperienza sia in termini di focalizzazione su specifici obiettivi che nelle modalità di realizzazione dei percorsi di laboratorio proposti. Numerose le attività proposte come ad esempio laboratori di danza e scrittura creativa rivolte alla sezione femminile, il progetto “Raccontami di te” che punta a raccogliere le testimonianze dei partecipanti, detenuti, ex detenuti e liberi cittadini, ai precedenti 10 anni del Progetto Verziano, lo stage di arte visiva per la danza in video e l’atelier per la realizzazione di abiti di scena con Domenico Franchi. Nisida (Na). I ragazzi dentro sono i “mister” di domani di Massimiliano Castellani Avvenire, 13 ottobre 2021 “Nisida è un’isola e nessuno lo sa”, canta Edoardo Bennato. I ragazzi del carcere minorile sanno benissimo che Nisida è la loro isola di rieducazione, la ringhiera da cui osservano un orizzonte napoletano che è carico di mille colori, compreso il nero di una cronaca quotidianamente aggiornata dalla mano armata della criminalità. Per sfuggire a quella longa manus, a volte può tornare utile un pallone. Nel campetto in erba sintetica, riadattato per il Calcio a 5, ogni settimana questi scugnizzi in cerca di un centro di gravità permanente si allenano e giocano partite che rappresentano una sfida a un presente che non basta mai e un futuro che, là fuori, presenta interrogativi foschi, violenti. Nel buio in cui sono caduti, in piena pandemia è arrivato l’assist illuminante di “Zona luce”. Tradotto per i non calciofili: “zona luce” indica quella zona di campo in cui muoversi per ricevere palla dal compagno di squadra. “E qui è la squadra la vera novità, lodata dall’Alta Scuola di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano per il grado di inclusione raggiunto tra i giovani detenuti e gli operatori del Carcere”, spiega Mario Del Verme responsabile della Fondazione Scholas Occurrentes Sport che con il Settore Giovanile Scolastico della Figc ha portato il vero calcio inclusivo a Nisida. ““Zona Luce” è un progetto di grande valore etico-sportivo e che conferma l’attenzione della Federcalcio nei confronti delle problematiche dei ragazzi, specialmente quelli che vivono in realtà difficili e a rischio come quelle dei quartieri napoletani”, spiega il presidente del Settore Giovanile Scolastico della Figc, Vito Tisci. Sotto gli occhi del direttore del carcere di Nisida, Gianluca Guida, ogni settimana scende in campo questa formazione, in cui, come spiega un agente della Polizia Penitenziaria “la squadra è quella al di là del ruolo che uno ricopre come poliziotto o come detenuto, senza nessuna distinzione”. Il ragazzo dentro, il Ciro di turno, gli fa eco ribadendo il concetto che “con un pallone ai piedi siamo tutti uguali”. È la democrazia calcistica che nella città devota a Diego Armando Maradona fa sentire tutti un po’ speciali, dei potenziali n.”10”. Ma “Zona Luce” non è nato per creare falsi illusioni o per dare la possibilità a minorenni condannati di pensare a un futuro da professionista del pallone. Meglio puntare su utopie concrete, come quelle di un futuro da “Mistèr” (l’accento sulla e), come dice Pepp e che attraverso il calcio ha smesso di colpevolizzarsi al di là del reato commesso. Ma quell’ora di caldo serve anche a spazzare in tribuna il pregiudizio esterno e fargli dire: “Io non sono il mio reato”. Per riprendersi in mano la propria vita e dribblare i tanti ostacoli che si presenteranno ai ragazzi fuori, prima bisogna imparare le regole del gioco. Magari diventare loro stessi formatori di altri giovani che aspettano di trovare una “zona luce”, un mister della loro età. “Il corso di formazione ha formato tra i detenuti e gli agenti dei nuovi allenatori con tanto di attestato della Figc”, sottolinea Tisci. E il molo nuovo del “Mistèr” ha insegnato a tutti loro che “bisogna credere sempre nell’allenatore e non dire mai che questo ha sbagliato”. Consapevolezza della figura autorevole del tecnico. Con il patentino in mano, adesso Ciro sogna di andare dal magistrato di sorveglianza e chiedergli il permesso per andare ad aiutare qualche società sportiva, mettendo in campo un’esperienza che non è più circoscritta al campo di Nisida. “I risultati ottenuti - continua Del Verme - ci hanno indotto a proseguire, così dopo i progetti di Nisida abbiamo avviato “Zona Luce” agli istituti minorili di Casal di Marmo (Roma) e il Ferranti (Torino). Qualcuno dei ragazzi di Nisida magari riuscirà a coronare il sogno di poter entrare in qualche società sportiva affiliata alla Scholas Occurrentes Sport, come la Scuola Kodogan o la Calcio Arci Uisp Scampia. Ciro domani potrebbe andare ad allenare i piccoli calciatori di Scampia del “Campo Scugnizzi” di Piazzetta San Gennaro. Qui, da sempre opera un “Mistèr” con la M maiuscola che da questi campi, un tempo sgarrupati, ha visto sbocciare il talento del difensore del Torino Armando Izzo (“scugnizzo cresciuto nel Lotto G”). A Scampia sì sa, non si vive di solo calcio, ma la vera cattedrale nel deserto napoletano è la Palestra “Judo Star” di Gianni Maddaloni. Il “Percorso Maddaloni” è la risposta dal tatami alla società civile: “Possiamo salvare i nostri ragazzi solo attraverso lo sport e la legalità”. È il mantra di “O’ Maè”, il vero oro di Scampia assieme a quella medaglia conquistata alle Olimpiadi di Sydney 2000 dal figlio Pino Maddaloni. “Alla Palestra sono passati diversi ragazzi arrivati dal carcere di Nisida: su quattro due si sono “salvati” grazie al judo. Mariano oggi fa il gommista e Emanuele il pasticciere”. La ciliegina sulla torta però è “Antonio, 20 anni, cintura nera. Dopo il servizio civile sarà pronto per entrare nei gruppi sportivi militari- dice “O’Maè”. Suo padre era stato condannato a 26 anni di carcere, tre li ha scontati qui al “Percorso Maddaloni” e adesso che è tornato in libertà ha un lavoro regolare: gira per Scampia con un furgoncino, vende panini”. Vanno a fare merenda lì i cinque judoka di Scampia appena rientrati dai Mondiali di Olbia. Susi Scutto, oro nella categoria 48 kg, si prepara per le qualificazioni alle Olimpiadi di Parigi 2024. Quella è anche la meta del campione italiano, categoria 81 kg, Bright Maddaloni, 18 anni - appena entrato in Polizia - arrivato a casa di “O’ Maè” “che era un bambino che sapeva appena camminare. Sua mamma è nigeriana e il padre della Costa d’Avorio. Bright è mio figlio adottivo. Il judo gli ha insegnato a difendersi contro quei bulli che lo chiamavano “sporco negro” e la legalità l’ha appresa da ragazzino in Palestra”. A Scampia aspettano ancorala realizzazione della Cittadella dello Sport. Il progetto c’è, ma è fermo da anni, e Maddaloni si appella ancora a papa Francesco visto che la politica è sorda ai suoi reiterati appelli. Intanto in Vaticano è arrivata la maglia dei ragazzi di Nisida e in questo tempo di reclusione che devono ancora scontare, almeno si sono riappropriati del gusto del gioco del calcio che papa Francesco ricorda nella semplicità senza tempo della “palla di stracci, la rappresentazione di una gratuità che, se la dimentichiamo, perdiamo la partita”. Spoleto (Pg). Scacchi, un gioco oltre le sbarre. Torneo internazionale per i detenuti di Vincenzo Grienti Avvenire, 13 ottobre 2021 Segnatempo pronti e pezzi a posto dietro le sbarre di tutto il mondo per giocare il primo torneo intercontinentale di scacchi. 31 nazioni si daranno battaglia a colpi di donne, cavalli, torri e alfieri per conquistare un trofeo che non è solo una coppa, ma un messaggio di impegno, di libertà e di reinserimento sociale che parte da dentro le case di detenzione per raggiungere il grande pubblico nella Giornata dedicata all’educazione nelle prigioni. Le 64 “case” bianche e nere oggi e domani diventeranno spazi di libertà, almeno interiore, per chi è costretto a passare una buona parte della vita, se non tutta, in carcere. Non a caso il progetto della Federazione internazionale degli scacchi (Fide) si chiama “Chess for Freedom” ed è organizzato per iniziativa dell’Ufficio dello sceriffo di Cook County, a Chicago. L’Italia sarà protagonista con una squadra di detenuti del carcere di massima sicurezza di Spoleto, in provincia di Perugia, dove da anni si svolgono attività scacchistiche e dove, in passato, si è svolto anche un vero e proprio torneo. “I carcerati hanno trovato moltissimi benefici negli scacchi, perché per loro è una via di fuga dall’angoscia della prigione - spiega Mirko Trasciatti, istruttore Fide, che ha organizzato la scuola di scacchi all’interno del carcere di Spoleto. Riescono a evitare per qualche ora di pensare alla famiglia lontana, ai problemi quotidiani dei prigionieri, alla loro sorte, e giocando riescono a far passare il tempo più velocemente, in un ambiente dove non sono considerati dei detenuti, ma delle persone normali, come tutti gli altri. Sono persone che hanno sbagliato, ma stanno anche provando a redimersi. Insomma, qui a Spoleto si è creato un vero e proprio circolo, con un’atmosfera familiare. E molti di loro hanno raggiunto un buon livello, uno è diventato seconda nazionale - prosegue Trasciatti. I benefici hanno riguardato anche il loro rapporto con la struttura: all’interno del carcere le autorità hanno constatato che chi impara gli scacchi diventa molto più disponibile, più tranquillo, più rispettoso delle regole. E anche un effetto delle caratteristiche tipiche del gioco, che obbliga a stare insieme agli altri, a rispettare l’avversario, stringergli la mano, giocare e poi analizzare insieme”. Il girone dell’Italia sulla carta non è facile. La Federscacchi presieduta da Luigi Maggi, presente a Spoleto il 13 ottobre, ha sostenuto l’evento che va oltre l’agonismo e la competizione. “Gli scacchi sono un gioco che non solo consente ai detenuti trascorrere del tempo di qualità e socializzare in modo intelligente, ma possono anche servire a ridurre sintomi comuni nelle prigioni, come depressione, stress e ansia - dice Maggi. Lo sviluppo della memoria e del pensiero logico, il miglioramento delle capacità di concentrazione e dell’immaginazione possono favorire la loro reintegrazione dopo la liberazione”. Gli azzurri affronteranno Russia, Georgia, Spagna, Germania, Repubblica Ceca, Norvegia e Ucraina. Solo le prime due sono destinate al girone finale. Il tempo prescelto per le partite, che si giocheranno on line sulla piattaforma Chess.com, è di 10 minuti a giocatore, più 5 secondi di incremento ogni mossa. Le squadre saranno composte da 4 giocatori attualmente detenuti, che potranno essere uomini, donne o minorenni. È la prima manifestazione ufficiale organizzata in collaborazione con la Fide. La Casa di reclusione di Spoleto dove si è allenata la squadra italiana è un carcere di massima sicurezza dove scontano la pena circa 450 detenuti con 90 persone sottoposte al regime del 41 bis e un’ottantina di ergastolani. “Il valore di questa esperienza è semplicemente lo stesso di quando si dona qualcosa, chi riceve ottiene una cosa e chi dona riceve un’emozione indicibile e incommensurabile - spiega Rosario Lucio Ragonese, direttore tecnico dell’Asd Frascati Scacchi, tra i primi negli anni Ottanta ad avviare un percorso del genere nel carcere romano di Rebibbia. Da questa esperienza ti resta un mondo sconosciuto, un mondo di persone normali, un mondo di persone che vogliono rimettersi in gioco e che devono soltanto aspettare per averne la possibilità”. Umiliazioni, solitudine ma anche rinascita: il carcere raccontato da un “sociologo detenuto” redattoresociale.it, 13 ottobre 2021 Parla Alessandro Limaccio, primo detenuto in Italia ad aver conseguito un dottorato in sociologia. Condannato al fine pena mai, dal 1995 grida la sua innocenza e rifiuta per protesta ogni misura alternativa. A luglio ha vinto il Premio internazionale di letteratura Città di Como con il libro “Il sociologo detenuto”, reportage unico nel suo genere sul mondo del carcere Umiliazioni, solitudine ma anche rinascita: il carcere raccontato da un “sociologo detenuto”. È il 1995 quando Alessandro Limaccio varca per la prima volta il cancello della Casa Circondariale di Catania. Ventisei anni dopo, tante cose sono cambiate, dentro e fuori il carcere: Alessandro è diventato un sociologo, ha conseguito un dottorato all’università di Roma La Sapienza, ha vinto il Premio nazionale alla cultura “Sulle ali della libertà”. Solo una cosa è rimasta uguale: Alessandro non smette di gridare la sua innocenza. Lo fa rifiutando ogni misura alternativa, beneficio o permesso, ai quali da dieci anni avrebbe diritto. E si riesce solo ad immaginare quanto possa essere prezioso passare una giornata fuori, nel mondo, se si è condannati al “fine pena mai”. L’accusa, per il primo detenuto in Italia ad aver ottenuto un dottorato di ricerca, è di essere un assassino. Negli anni ‘90 Alessandro era un ragazzo di vent’anni di Lentini, vicino Siracusa, attivista della Democrazia Cristiana e convinto cattolico. Nell’ambito dei maxi processi per mafia, alcuni pentiti fanno il suo nome: lo indicano come l’autore di diversi omicidi, anche se lui e la sua famiglia di commercianti sono lontani da quell’ambiente criminale. Come scrive il giornalista di Radio Radicale, Enrico Rufi, che ha curato la prefazione dell’ultimo libro di Alessandro: “I pentiti dei processi di Limaccio non sono mai presenti sui luoghi dei delitti, ma riferiscono voci e accuse raccolte qua e là. Non solo la donna che aveva visto trucidare il marito, anche un prete e un carabiniere fuori servizio non avevano riconosciuto Limaccio nel killer che in pieno giorno aveva sparato in uno stabilimento balneare”. Ma questo non basta e Alessandro viene ritenuto colpevole: la sua condanna giudiziaria è basata sulle dichiarazioni dei pentiti. In questi anni però Alessandro non ha mai perso la speranza, ha dedicato il suo tempo alla preghiera, all’attività fisica e allo studio e ha fatto del carcere il suo terreno di ricerca antropologica. Il frutto di questo lavoro minuzioso è il libro “Il sociologo detenuto - una storia etnografica”, edito da Herald Editore, con l’introduzione del Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. Alessandro vive sulla sua pelle la condizione che descrive: ha trascorso i primi anni nel carcere di Catania, otto in quello di Secondigliano, il “lager”, come veniva definito dai detenuti, fino ad approdare in quello di Rebibbia. Ha condiviso con i suoi compagni di cella il terrore dei pestaggi, le umiliazioni, la solitudine; ha vissuto con dodici uomini in venti metri quadrati nel caldo delle estati che si susseguivano. Ma non c’è solo la sua vita nelle pagine di questo reportage, unico nel suo genere: ci sono le storie di chi abita questo mondo ‘altro’. C’è quella di Angelo, che ha vissuto per anni nel manicomio criminale di Aversa; c’è la vita di Fabiola, transessuale brasiliana che ha nel cuore il suo Paese; c’è la dolcezza di Guerino che insegna l’Ave Maria in romanè. Nel dibattito pubblico di carcere si parla poco e male. Conquista i titoli dei giornali solo quando si aprono inchieste, come quella sulle violenze nell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, o quando ritorna in libertà un detenuto con il passato di Giovanni Brusca. Il libro di Limaccio mostra, invece, una prospettiva nuova attraverso cui guardare questo luogo sospeso: impone un dibattito serio sul “fine pena mai”, quello che il Garante dei detenuti ha definito una “privazione di vita e non solo di libertà, una privazione di futuro, un’uccisione di speranza”. Ci interroga sul ruolo dei pentiti nei processi e degli imputati che non possono scegliere la via della collaborazione, e quindi dello sconto della pena, perché a volte, semplicemente, sono innocenti. Ma il reportage di Limaccio è anche una boccata di aria fresca: mai in queste pagine si smette di credere nella rinascita e nella bontà dell’uomo. Abbiamo intervistato Limaccio che a luglio, con il suo lavoro, ha vinto il Premio internazionale di letteratura Città di Como. Lei nel suo libro scrive che più volte in passato aveva provato a narrare il mondo del carcere, ma che ogni volta “una specie di vergogna e disgusto” glielo aveva impedito. Cosa le ha fatto cambiare idea? È stato per senso di responsabilità che ho deciso di prendere carta e penna. Spero che, attraverso la scuola, questo libro possa anche svolgere una funzione pedagogica sui giovani, in modo che, soprattutto i bulli, conoscano cosa sia il “mondo carcere” e ci stiano alla larga. Nel testo a parlare sono i detenuti, che con sincerità e senza giri di parole raccontano la loro esperienza di vita. È stato difficile per lei scrivere queste pagine, ricoprendo il duplice ruolo di sociologo e di persona detenuta? In quanto sociologo detenuto rappresento il “mondo carcere” dall’interno, ma dal quale mi sento profondamente estraneo, perché sono innocente e non appartengo al mondo della devianza. Il mio, quindi, è il punto di vista di un innocente che partecipando osserva dall’alto in modo terzo, e che per coerenza personale, onestà intellettuale e deontologia professionale rifiuta di chiedere i benefici premiali (previsti dall’ordinamento penitenziario) per poter proclamare con più forza la propria innocenza. Visto che i benefici penitenziari rientrano nella funzione rieducativa della pena, e chiedere benefici premiali significherebbe accettare indirettamente un pena ingiusta, inflitta per un reato non commesso. L’innocenza non si patteggia e l’innocente non implora pietà, ma reclama giustizia. Per tanto, scrivere queste pagine non è stato difficile, ma è stato un dovere morale. Nel suo libro offre una testimonianza viva e oggettiva delle condizioni degradanti e umilianti in cui spesso le persone detenute vivono. Se potesse, quale è la prima cosa che cambierebbe dell’istituzione carcere e perché? La prima cosa da cambiare dell’istituzione carcere è la detenzione in cella multipla, poiché il poter rimanere rinchiuso da solo in cella può realmente offrire al singolo detenuto la concreta possibilità di riflettere sugli errori commessi. Questo modo di detenzione offre, inoltre, il mezzo migliore per impedire che il singolo detenuto riceva le influenze negative derivate dal contatto obbligato con gli altri detenuti; influenze che hanno fatto del carcere, dalle origini fino ai nostri giorni, una vera e proprio scuola di corruzione e un luogo sicuro di reclutamento della malavita. Leggendo il suo libro, si è colpiti dalla grande fede che ha in Dio, ma anche nella bontà dell’uomo, nonostante tutto. Da dove nasce questa fiducia e come ha fatto a non perderla in questi anni? Sono un fedele della Santa Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana, credo in Dio, dico le preghiere e sono fermamente convinto che Gesù ricompenserà tutte le mie sofferenze. Dunque, non posso non avere fede in Dio, che è la massima espressione di bontà e amore, e non posso non avere fede nella bontà e nell’amore dell’uomo, visto che l’uomo è stato fatto da Dio secondo la sua immagine e come sua somiglianza. È riuscito a perdonare chi le ha fatto del male? E cosa è per lei il perdono? Da bambino mi sono consacrato a Dio, promettendogli che avrei accettato con gioia qualunque progetto Egli avesse avuto in serbo per me. Ecco perché non ho rabbia e ho perdonato quanti mi hanno fatto del male e quanti continuano a farmene ancora; fa tutto parte del progetto che Dio ha realizzato per me e io lo accetto con amore e felicità. Per quanto mi riguarda sono le scelte che ho fatto e che faccio ogni giorno a rendermi ciò che sono, a farmi credere nella forza dell’amore e del perdono. Perché il perdono è un dono di Dio che ci fa rinascere a vita nuova. Lei è stato condannato all’ergastolo ostativo, una pena senza fine che non può essere né abbreviata né convertita in pene alternative, a meno che la persona detenuta decida di collaborare con la giustizia. Nel 2019 la Corte Europea dei diritti dell’uomo aveva invitato l’Italia a rivedere la legge. Ultimamente, anche la Corte Costituzionale ha ritenuto l’ergastolo ostativo incompatibile con la Costituzione ed ha concesso al Parlamento un anno di tempo per approntare una nuova disciplina in materia. Secondo lei cosa ha impedito e impedisce che in Italia si possa abolire il ‘fine pena mai’? Poter utilizzare l’arresto e la detenzione come mezzo per estorcere una confessione, e la pena dell’ergastolo come risposta a una richiesta popolare di vendetta è, secondo me, ciò che ha impedito e impedisce che in Italia si possa abolire il fine pena mai. Ha sottolineato per le persone detenute l’importanza di imparare un mestiere, non solo intellettuale, ma soprattutto manuale, e propone anche di costituire una Fondazione. La mia idea consiste nel creare, all’interno delle carceri, dei laboratori in cui i detenuti possano imparare un mestiere, la cui offerta, nel mercato del lavoro, non soddisfi la domanda. In questo modo, il detenuto che uscirà dal carcere troverà subito una occupazione. Propongo di costituire una fondazione che operi senza fini di lucro, autorizzata dal Presidente della Repubblica, che favorisca la sostenibilità organizzativa-economica, la vivibilità e l’umanità alle persone svantaggiate, oltre a organizzare progetti per il reinserimento dei detenuti nella società civile. Cosa sogna per la sua vita? Per la mia vita sogno di poter mantenere la promessa fatta alle mie nipotine Maria Vittoria e Beatrice di portarle a spasso per il Trentino e visitare la casa di Alcide De Gasperi insieme a Enrico Rufi. “Diversamente liberi”, il teatro come forma di libertà per i detenuti di Veronica Bartucca culturamente.it, 13 ottobre 2021 Luisa Pitocchelli sostiene attività teatrali a scopo rieducativo in qualità di volontaria nelle carceri. Dall’esperienza a Santa Maria Capua Vetere è nato il libro “Diversamente liberi”, edito da Pasquale Gnasso Editore. Ci parli un po’ del tuo libro? Il libro è nato dalla necessità di mettere su carta il mio percorso presso la Casa Circondariale Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta da ottobre 2018 a maggio 2019. Ho voluto raccontare com’è la vita dei detenuti in carcere, ma soprattutto ho voluto dare un focus alle attività teatrali, offrendo uno sguardo su cosa significa portare il teatro nelle carceri e seguire i detenuti in questo percorso, per far capire quanto questa attività possa essere importante per loro per ritrovare un contatto con la propria sensibilità. L’idea del libro ti è venuta a fine esperienza oppure hai scritto giorno per giorno? Diciamo che inizialmente quando sono entrata in carcere non avevo in mente di scrivere un libro, però giorno per giorno, quando tornavo a casa dopo le attività, ho sempre scritto tutto ciò che vedevo per capire se quello che stavo facendo stesse avendo degli effetti positivi sui detenuti. Quindi ho sempre scritto quello che vivevo giorno per giorno e alla fine del progetto mi sono sentita in dovere di trasformare tutte quelle informazioni che avevo in un libro, perché ho capito quanto effettivamente il teatro possa fare la differenza nella vita di queste persone e quanto la rieducazione nelle carceri sia un tema importante e purtroppo ancora oggi non dibattuto abbastanza. Come è partito il tuo interesse verso questo tipo di attività in carcere? Io faccio teatro da tantissimo tempo, ma solo recentemente ho avuto la possibilità di portarlo nelle carceri, possibilità che si è presentata in maniera abbastanza sorprendente: lavoro da tanto con una compagnia molto conosciuta sul territorio casertano e napoletano, ovvero il SudAtella, e ci è stato proposto questo progetto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Io ho deciso subito di partecipare attivamente insieme al gruppo perché so quanto il teatro possa fare la differenza, io stessa grazie al teatro sono riuscita a fare uscire allo scoperto tanti aspetti di me e a entrare in contatto con la mia sensibilità. Penso quindi che persone che hanno perso la loro strada possano usufruire del teatro per riuscire a trovare una nuova strada ed entrare in contatto con loro stessi. Ed è successo? Hai dei feedback di qualcuno di loro che è uscito dal carcere? La maggior parte dei ragazzi che ho seguito a Santa Maria stanno ancora scontando la loro pena, ma qualcuno di loro è uscito. Alcuni di questi ancora li sento, sono venuti anche alle presentazioni del mio libro e in queste occasioni hanno anche parlato della loro esperienza e di quanto il teatro li abbia aiutati. Quindi i ragazzi sanno che hai scritto un libro su di loro... Non tutti purtroppo, perché la realtà dei detenuti e del carcere in generale è molto dinamica. Infatti ci sono stati dei ragazzi che sono stati spostati prima che pubblicassi il libro e quindi non lo sanno. Io ho fatto un lavoro immenso per riuscire a far arrivare l’informazione della pubblicazione a più detenuti possibile, infatti alcuni hanno potuto leggere il libro, ad alcuni addirittura sono riuscita a inviarlo personalmente. E come si sono sentiti a ritrovarsi nel tuo libro? Ti hanno detto qualcosa a riguardo? I ragazzi che hanno letto il libro sono rimasti molto colpiti perché non sapevano assolutamente quello che io stavo facendo: non ho detto mai nulla per avere la massima spontaneità da parte loro. Giustamente vedersi poi descritti tra le pagine di un libro e in maniera così intima è stato un qualcosa che ha fatto loro effetto. All’inizio del libro descrivi brevemente il momento in cui comunichi ai tuoi genitori questa tua scelta di lavorare nelle carceri e come loro si siano mostrati preoccupati. Tu non avevi paura? Più che paura della realtà detentiva io avevo paura dell’ignoto, cioè il portare il teatro nelle carceri era qualcosa che non avevo mai fatto e non sapevo come mi sarei trovata e se sarei stata all’altezza della situazione. Forse più che paura avevo ansia. Per quanto riguarda i miei genitori e i miei cari, inizialmente per loro non è stato semplice, infatti si vede anche nell’introduzione del libro. Forse il problema era che non credessero fino in fondo che questo tipo di attività potesse essere davvero utile, quindi inizialmente ho dovuto scontrarmi con alcuni muri, anche perché dire ai tuoi “mamma, papà, vado in carcere!” non è una cosa che senti tutti i giorni. Però da quando ho portato a termine l’attività ed è venuto fuori il libro, i miei genitori sono diventati i miei primi sostenitori. Penso che il libro sia servito anche a questo, a dare una nuova visione alle attività rieducative in carcere a chi magari ha dei pregiudizi. Anche perché il carcere è un agglomerato di persone che sono lì per scontare la loro pena, ma deve essere anche un luogo di rieducazione, quindi bisogna dare loro dei mezzi per riuscire a uscire da lì in maniera positiva. Ho cercato infatti di decostruire l’immagine di detenuto come mostro: il detenuto è una persona che ha commesso degli errori e che attraverso tante attività deve riuscire a trovare la sua strada. Il carcere è molto rappresentato nei media, tanto che ci hanno ambientato anche serie televisive, per esempio “Orange is the new black” oppure “Prison Break”. Ovviamente senza fare nomi e cognomi e senza dare informazioni private, ci racconti qualcosa dei detenuti che hai incontrato? Ho avuto modo di confrontarmi con tutte le categorie di detenuti: oltre al reparto femminile, ho seguito il reparto dei reati comuni, cioè quelli di media sicurezza dove non si ha a che fare con reati di tipo associativo camorristico o mafioso, e il reparto di alta sicurezza, quindi con reati di associazione. Quello che ho avuto modo di notare è come ancor di più in chi ha commesso reati associativi il teatro sia stato un mezzo per ritrovare una sensibilità che avevano perso. Non dimenticherò mai una frase, che ho anche inserito nel libro, di un ragazzo che prima di entrare in scena mi disse: “tu sicuramente non mi crederai, ma ho più ansia ora che devo salire sul palco che quando ho una pistola in mano”. Come è stato l’approccio di questi ragazzi al teatro? L’approccio è stato diverso in base al gruppo e alla singola persona: spesso si cade nel cliché di pensare che il detenuto sia un prototipo. In realtà i detenuti sono persone, ognuna reagisce e agisce in una maniera differente. Il gruppo di reati comuni sono stati paradossalmente i più difficili da gestire e la loro gestione è stata più complicata. L’alta sicurezza invece aveva un codice di comportamento più strutturato ed è stato più semplice portare a termine le attività, considerando che il teatro presuppone ordine, disciplina, rispetto per i compagni. Chiaramente ci ci sono stati dei casi particolari, specialmente in quelle persone che già fuori dal carcere tendevano a imporsi e comandare, ma penso che questo tipo di attività sia stata un bene per loro. Quindi c’è bisogno di autorevolezza in certi casi... Assolutamente sì, ma la cordialità è la prima cosa. Senza la cordialità e la gentilezza in carcere non si può fare niente, perché per poter portare a termine un progetto il detenuto non deve sentirsi giudicato. Io stessa ho dovuto fare un lavoro su di me per lasciarmi alle spalle determinati pregiudizi e vedere i ragazzi come persone divise dai loro reati. Io ero lì per altro, non per giudicare. Tramite il teatro escono fuori emozioni di ogni genere. Hai assistito a momenti in cui, mentre svolgevate le attività, ci sono stati scatti d’ira o crisi di pianto da parte dei detenuti che entravano nel personaggio? Ci tengo a citare una parte del libro che riguarda un ragazzo che apparteneva all’alta sicurezza ed era totalmente sconnesso: a livello emotivo era spento, non provava gioia, né tristezza né rabbia. Con lui è stata dura portare avanti l’attività perché ovviamente il teatro presuppone emozioni. Durante lo spettacolo che abbiamo fatto a conclusione delle attività, di fronte a magistrati, guardie, avvocati e altri detenuti, ho visto per la prima volta questo ragazzo emozionato. Era in preda all’ansia all’inizio e arrabbiatissimo alla fine perché aveva sbagliato una battuta. Sono emozioni negative, ma sono emozioni di qualcuno che non ne aveva mai mostrate, e tutto questo attraverso il teatro. Referendum, l’afasia della politica di Luigi Manconi La Repubblica, 13 ottobre 2021 Il successo della raccolta delle firme per i referendum sulla depenalizzazione dell’eutanasia e della depenalizzazione della cannabis esprime un sussulto della sensibilità collettiva e una domanda di autodeterminazione che, evidentemente, attraversa le pieghe della società italiana e non trova spazio nei canali classici della rappresentanza Durante lo scorso fine settimana si è tenuto a Roma il Congresso dell’Associazione Luca Coscioni nel pressoché totale silenzio del sistema dell’informazione. Eppure, l’incontro è giunto a conclusione di una intensa fase di mobilitazione che ha prodotto risultati assai importanti. In termini strettamente numerici, le due campagne referendarie promosse dall’Associazione e da molte altre organizzazioni hanno portato al raggiungimento di 1.235.470 firme in calce alla richiesta per la depenalizzazione dell’eutanasia; e di oltre 600.000 firme (ma la sottoscrizione è ancora in corso) a favore della depenalizzazione della coltivazione domestica e per uso personale della cannabis. Si tratta di un fatto di estremo interesse perché su entrambe le materie, la raccolta delle firme e la discussione pubblica in vista della consultazione popolare intervengono, provvidenzialmente, in un drammatico vuoto della politica e delle istituzioni rappresentative. Sia nel caso del fine vita che in quello della legalizzazione delle cosiddette “droghe leggere”, infatti, è ormai da decenni che il Parlamento si sottrae, per pavidità o per indifferenza, alle proprie responsabilità: non discute delle proposte di legge e nemmeno mette in calendario quelle di iniziativa popolare, promosse dalla partecipazione diretta dei cittadini. Dunque, il successo della raccolta delle firme esprime un sussulto della sensibilità collettiva e una domanda di autodeterminazione che, evidentemente, attraversa le pieghe della società italiana e non trova spazio nei canali classici della rappresentanza. Considero qui, in particolare, il tema dell’eutanasia. Dopo la sentenza della Corte costituzionale (22 novembre del 2019), che dichiarava la non punibilità, in determinate circostanze, di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, il Parlamento è rimasto sordo e muto. Eppure, la questione del fine vita attraversa come una febbre il corpo sociale, inquieta e interroga i cittadini che, per esperienza diretta o attraverso relazioni familiari e amicali, conoscono lo strazio della decadenza del corpo, della sofferenza non lenibile, della crisi di senso della vita che declina. Ed è mortificante vedere che, di tutto ciò, la politica sembra non curarsi affatto, perché - ecco il punto - ritiene che non sia di sua pertinenza. Peggio: ritiene che quel grumo di dolore e di angoscia, di attesa e di smarrimento, proprio dell’esistenza umana, non sia politica. Concezione singolare: perché dove mai la politica, intesa come azione collettiva finalizzata al bene comune, può fondare la sua ragion d’essere e la sua forza se non nell’ascolto del dolore e del desiderio degli esseri umani? Anche per questa ragione sono preziose le parole di Paolo Annunziato, ex direttore del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), che, nel messaggio al Congresso dell’Associazione Luca Coscioni, evidenziando le proprie perplessità e “il paradosso del referendum”, ha detto: “Sono un malato di Sla, ormai privo di qualsiasi mobilità, della voce e della capacità di respirare e nutrirmi autonomamente”. Nell’affermare il proprio “interesse” ad avere “la possibilità di terminare la vita in modo indolore e dignitoso”, Annunziato ha spiegato: “Dal punto di vista del malato, il diritto ad una morte dignitosa, non può essere separato dal diritto a una vita altrettanto dignitosa. Nella maggior parte dei casi si sceglie di morire perché la qualità della vita è precipitata prima materialmente, poi nella percezione e nella psicologia del malato”. Di conseguenza, sono necessarie e urgenti misure e provvedimenti che intervengano “sul piano economico”, così come “su quello della quantità e qualità dell’assistenza medica, sociale e sanitaria”. In conclusione, “chi vuole tutelare veramente gli interessi del malato a una morte dignitosa non può disinteressarsi della battaglia per una vita dignitosa”. È il senso dell’attività svolta dall’Associazione Luca Coscioni, ma anche da molti organismi come l’Associazione Italiana per la Sla (Aisla). D’altra parte, Annunziato ha evidenziato i passi avanti compiuti dalla pastorale della Chiesa cattolica: ed è un dato incontestabile, da considerare con grande attenzione. Restano l’assenza e l’inerzia delle istituzioni e dei partiti. E resta l’afasia di una politica che ha perso coscienza di sé e, in tal modo, la propria stessa vita. Eutanasia, ecco il nodo gordiano che nemmeno il colpo di spada del referendum può sciogliere di Francesco Carraro* Il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2021 Il referendum sulla parziale abolizione dell’articolo 579 del codice penale (omicidio del consenziente) tocca una materia, come usa dire, di “confine”; il confine, in assoluto, più misterioso e necessariamente inviolato: quello tra la vita e la morte. Il referendum è propagandato come un quesito “di libertà”: sulla libertà, appunto, di decidere quando morire. Si tratterebbe, insomma, di una scorciatoia per sdoganare, alla buon’ora, anche in Italia la cosiddetta “eutanasia”. Se vincessero i sì, l’articolo 579 c.p. non punirebbe più l’omicidio di una persona: a) maggiore di età; b) capace di intendere e di volere; c) che abbia espresso un valido e non condizionato consenso ad essere “estinto”. Pochi si soffermano sul fatto che la norma da abrogare è una norma penale e ancor meno rimarcano la gravità del “castigo” previsto per chi, oggi, abbia a macchiarsi di quel delitto: la reclusione da sei a quindici anni. Stiamo parlando, in altri termini, di un reato ritenuto dal legislatore degli anni Trenta meritevole di una sanzione durissima. E ciò in quanto reputato - evidentemente e preliminarmente - oltremodo grave sul piano della coscienza sociale. Le cose non sono affatto cambiate con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana del 1948. L’omicidio del consenziente è sempre lì, inalterato, da oltre novant’anni. Dunque è più che lecito chiedersi non solo se sia eticamente opportuno, ma se sia legalmente ammissibile - in un ordinamento giuridico come il nostro, incardinato sui principi assoluti di cui agli articoli da 1 a 54 della Suprema Carta - derubricare al rango di atto lecito (sia pure attraverso uno strumento di democrazia diretta) l’uccisione di un uomo con la connivenza del medesimo. Vieppiù laddove si consideri che l’ultimo comma dell’articolo 27 della Costituzione (pena di morte consentita in caso di leggi militari di guerra) è stato cancellato dalla legge costituzionale del 2 ottobre 2007, n. 1. Una riforma, quest’ultima, la cui ratio è palese: la vita individuale è un bene indisponibile, non solo da parte del suo titolare, ma pure dello Stato. E anche prima della novella del 2007, la Corte Costituzionale nel 1996 (sentenza nr. 223) aveva interpretato la prefata norma come latrice di un divieto assoluto, giacché mirante alla tutela del bene supremo della vita di cui all’art. 2 della Costituzione. I promotori del referendum, per parte loro, ne fanno una questione di civiltà. Nel senso che, in molti altri ordinamenti (asseritamente più evoluti, e quindi pretesamente più “civili”) è contemplata e disciplinata la cosiddetta eutanasia: la “dolce morte”, somministrata a chi la chiede per le ragioni, e con le modalità, stabilite dalla legge. Da noi, non solo non c’è una disciplina sull’eutanasia, ma vi è anche la “zeppa” rappresentata proprio dall’articolo 579 del codice penale che rende impossibile (se non a pena di anni di galera) anche solo pensare di poter “erogare” il decesso su richiesta del morituro. Chi lo facesse incorrerebbe nelle maglie della norma che ora il referendum intende cancellare. Non di rado, i sostenitori dell’eutanasia si rifanno al precedente della nota vicenda Dj Fabo-Cappato dove, però, era in gioco l’articolo 580 del codice penale che punisce l’aiuto al suicidio. Tale vicenda sfociò nella sentenza della Corte Costituzionale numero 242 del 22.11.2019. Con tale pronuncia, si badi bene, la Corte non dichiarò illegittimo tout court l’articolo 580. Semmai, solo nella parte in cui esso non escludeva la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio “autonomamente e liberamente formatosi” in una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze ritenute intollerabili dal medesimo malato). Il tutto purché siano rispettate le modalità previste dagli articoli 1 e 2 della legge nr. 219 del 2017 sul consenso informato e sul fine vita. Con la medesima sentenza, peraltro, la Corte ebbe a sottolineare che la sanzione penale dell’aiuto al suicidio di cui all’articolo 580 c.p. - considerato in sé e per sé e al netto della declaratoria di parziale incostituzionalità summenzionata - non può ritenersi in contrasto con la Costituzione in quanto l’articolo 580 c.p. “tutela il diritto alla vita”. Ed è precisamente questo, credo, il nodo gordiano (non scioglibile neanche con il colpo di spada di un referendum) che impedisce di dare diritto di cittadinanza, nel nostro paese, a qualsivoglia pratica eutanasica. Infatti, la vita deve considerarsi un valore “sacro” non solo da un punto di vista religioso, ma anche dal punto di vista “laico”, per così dire. Arrivare a cancellare l’articolo 580 del codice penale credo significherebbe, in ultima analisi, legittimare (a determinate condizioni) un’azione omicidiaria. E, automaticamente, infrangere un imperativo inviolabile non solo per la coscienza di taluni concittadini, ma per la Costituzione di tutti gli italiani. *Avvocato e scrittore I gendarmi d’Europa vogliono cancellare il diritto di asilo di Gianfranco Schiavone Il Riformista, 13 ottobre 2021 Il 7 ottobre scorso i ministri dell’Interno di ben dodici Paesi della UE (Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Grecia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia, Slovacchia) hanno inviato una lettera alla presidente della Commissione Europea. Non si tratta, come si vede, solo di paesi del noto gruppo di Visegrad ma di molti di più e di diverso orientamento politico. La missiva sollecita la Commissione europea ad adattare il quadro giuridico attuale dell’Unione a contrastare ciò che essi identificano come tentativi di strumentalizzazione della migrazione illegale per scopi politici attuati da Stati non Ue, nonché altre, non meglio definite minacce ibride (nel testo: hybrid threats). Nella lettera si fa esplicito rinvio alla relazione della Commissaria Von Der Leyen del 29 settembre scorso sullo stato dell’Unione laddove la Commissaria, riferendosi esplicitamente alla Bielorussia quale esempio, ritiene di evidenziare l’esistenza di un traffico di migranti sponsorizzato dallo stato (nel testo: State-sponsored migrant smuggling) inteso come una situazione in cui uno Stato crea e facilita artificialmente la migrazione irregolare usando la pressione migratoria come strumento per propri scopi politici. Nel citato discorso Von Der Leyen invoca in modo del tutto vago la necessità che la Ue, al fine di combattere ciò che ritiene un nuovo fenomeno, si doti di una sorta di cassetta degli attrezzi rafforzata che riunisca l’intera gamma di strumenti operativi, legali, diplomatici e finanziari a sua disposizione; tra gli interventi così genericamente auspicati la Commissaria ricorda, tuttavia, anche la necessità di assistere i migranti soggetti a tali strumentalizzazioni. È quanto meno dubbio che si possa definire un fenomeno politicamente nuovo quello della strumentalizzazione delle crisi migratorie da parte di paesi terzi ad ordinamento non democratico o esplicitamente autoritario, salvo che si identifichi come un fenomeno nuovo per entità e impatto in Europa proprio ciò che Von Der Leyen ha omesso del tutto di esaminare nella sua comunicazione sullo stato dell’Unione, ovvero che è l’Unione stessa a praticare da alcuni anni con paesi terzi accordi di ogni genere, per lo più segreti o comunque sottratti al controllo democratico parlamentare, come nel caso del non-accordo tra Ue e Turchia, per bloccare i migranti, senza prevedere alcun vincolo e alcuna condizione reale sulla tutela giuridica e sul trattamento sociale delle persone bloccate nei paesi terzi in virtù di tali accordi. È dunque in primo luogo la politica esterna dell’Unione in materia di asilo e di esternalizzazione delle frontiere a generare esplosive situazioni di crisi che, come è ovvio, possono venire strumentalizzate dai paesi terzi con cui si stringono accordi, salvo poi deplorarne il comportamento. Non mi soffermo oltre sulla scarsa consistenza dell’analisi della presidente Von Der Leyen e torno all’esame del testo della citata missiva redatta dai dodici ministri. In essa si chiede di apportare significative modifiche all’attuale Codice Frontiere Schengen, ovvero al Regolamento (UE) 2016/399, in quanto in esso non vi sarebbero regole chiare riguardo alle azioni che gli Stati membri possono realizzare in caso di un attacco ibrido caratterizzato da un afflusso su larga scala di di migranti irregolari, (nel testo: a hybrid attack characterised by an artificially created large scale inflow of irregular migrants) facilitato, organizzato e/o spinto da un paese terzo. Curiosamente il documento non si ferma a meglio definire uno dei concetti fondamentali che propone ovvero quando il flusso dei migranti possa dirsi “artificiale”; si deve intendere un arrivo di persone forzate a lasciare il paese terzo ma che non vorrebbero farlo? È forse da considerare artificiale la scelta dei migranti di abbandonare il paese nel quale erano bloccati appena si presenta loro un’occasione data da un cambio politico? E ancora, riconoscendo che una strumentalizzazione politica di tali situazioni può portare gravi conseguenze, quali azioni vanno realizzate per gestire le crisi nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte? Si tratta di domande che non trovano alcuna risposta nel documento, il quale si limita a dolersi del fatto che nel diritto della Ue non sia prevista alcuna misura, tranne la sorveglianza delle frontiere, per impedire l’attraversamento illegale e che non sia prevista una barriera fisica come misura di protezione delle frontiere esterne dell’Ue. Si arriva dunque all’unica proposta: la realizzazione di barriere fisiche lungo tutte le frontiere esterne individuata come una misura permanente, a regime (e non come eventuale misura estrema in presenza di una crisi) la cui realizzazione deve essere un obiettivo prioritario per l’Unione (nel testo: Physical barrier appears to be an effective border protection measure that serves the interest of whole EU, not just Member States of first arrival). Colpisce in tutto il testo l’uso di un linguaggio militare nel quale le persone usate come armi improprie da parte degli stati terzi perdono del tutto la caratteristica primaria di essere vittime e, a ben guardare, perdono persino la caratteristica di essere persone. Nel testo della missiva non compaiono mai parole come assistenza, accoglienza, asilo, protezione se non in un unico passaggio laddove si fa riferimento a sistemi di migrazione e di asilo sovraccarichi e capacità di alloggio esaurite. Le persone alle quali la barriera fisica impedirebbe l’ingresso sono concepite come una massa indistinta di nemici e il documento non si pone in alcun modo l’interrogativo, giuridico prima ancora che etico, di come esaminare la loro posizione caso per caso e di come permettere l’accesso ad una procedura di esame della loro domanda di asilo magari condotta alla frontiera con procedura accelerata. Nella citata lettera il diritto di asilo come diritto fondamentale previsto dal diritto dell’Unione ed in particolare dalla Direttiva 2013/32/UE (procedure) quale diritto di chiedere protezione ad una frontiera esterna della UE, viene semplicemente e tacitamente abrogato. Sparisce contestualmente il divieto di respingimento sancito dalla Convenzione di Ginevra in quanto diviene possibile respingere alla frontiera chi si trova appena al di là del muro senza esaminare la sua situazione individuale. Quanto ai respingimenti collettivi, vietati dal diritto Ue, anch’essi divengono quindi possibili, anzi la norma. Cosa rimane in tale scenario del diritto d’asilo quale diritto fondamentale che sta alla base della civiltà giuridica europea? Di fatto più nulla. L’abrogazione di fatto del diritto d’asilo e la creazione di muri fisici non sono scindibili dall’uso impunito della violenza verso le persone che vengono respinte, giacché non esistono muri dolci dai quali le persone che cercano di entrare vengono allontanate seguendo una procedura rigorosa che prevede regole e condizioni. Il respingimento attuato per impedire di passare il muro, per essere efficace, deve essere rapido e sommario; e deve essere violento perché la violenza è parte delle misure di dissuasione. Diversamente è solo perdita di tempo e di soldi. È per queste evidenti e semplici ragioni che tutte le sperimentazioni che da tempo precedono la costruzione delle barriere fisiche attuate finora alle frontiere esterne dell’Europa, come quelli tra la Grecia e la Turchia, tra la Bulgaria e la Turchia, e quelle messe in atto da anni tra la Croazia e la Bosnia e appena svelate dalle agghiaccianti immagini pubblicate dal progetto di giornalismo “Lighthouse Report”, e da ultimo le violenze al confine tra Polonia e Bielorussia che hanno provocato la morte per stenti di diversi rifugiati, hanno, nella diversità delle circostanze, le medesime caratteristiche di violenza sistematica e di pianificata violazione proprio del Codice Frontiere Schengen nella parte in cui disciplina i respingimenti legittimi, ovvero assunti dopo un contatto con la persona, la verifica della sua situazione, ed attuato con provvedimento motivato e notificato affinché possa essere oggetto di un sindacato giurisdizionale. Ma una procedura legale è cosa sciocca ed impossibile da attuare se lo scopo non è il respingimento legittimo di chi non ha titolo ad entrare, bensì il respingimento del nemico. Se i dodici firmatari della missiva alla Commissione UE si fossero limitati a proporre delle nuove misure straordinarie da inserire nel diritto della Ue nel solo caso si verifichi un arrivo massiccio di migranti artificialmente spinti verso la Ue da parte di un paese terzo confinante, la loro proposta avrebbe potuto essere esaminata, criticata, rifiutata, emendata, all’interno del normale, anche aspro, confronto democratico. Ma ciò che è stato messo nero su bianco è tutt’altro: ovvero un tentativo di sovvertire principi fondamentali dell’ordinamento democratico dell’Unione, talmente inaudito che ritengo verrà esaminato dagli storici che studieranno la nostra epoca come uno dei più significativi manifesti ideologici del neo autoritarismo del XXI secolo. Se sono molte e complesse le sfide storiche del tempo presente, dalla gestione delle pandemie fino alla crisi climatica, ed ognuna delle risposte che diamo ci dice chi realmente siamo, la gestione delle migrazioni, e di quelle forzate in particolare, rimane la principale prova della tenuta della democrazia in Europa. Come fermare l’export di armi verso i paesi sulla lista nera di Giulia Bosetti Il Domani, 13 ottobre 2021 Export di armi, fondi pubblici, controlli e sanzioni. Qualcosa si sta muovendo al parlamento europeo per mettere fine alle scappatoie grazie alle quali gli Stati membri continuano ad esportare armamenti ignorando le normative europee. Martedì 12 ottobre i Verdi presenteranno un regolamento che intende rivoluzionare i sistemi di controllo dell’export di armi, con sanzioni per gli Stati che non lo rispetteranno. Domani ha letto il documento che verrà proposto dall’europarlamentare finlandese Alviina Alametsä e dalla tedesca Hanna Neumann, relatrice della Risoluzione sull’esportazione di armi approvata dal Parlamento Europeo a settembre del 2020. L’Ue è il secondo più grande fornitore di armi al mondo dopo gli Stati Uniti, con oltre 30mila licenze rilasciate solo nel 2020, per un valore di quasi 167 miliardi di euro. “Non vogliamo che l’Unione Europea sia responsabile delle violazioni dei diritti umani o che contribuisca alle guerre nel mondo, perché tutto questo è contro i nostri valori e le nostre leggi”, spiega Hanna Neumann. Nel 2008, il Consiglio europeo ha adottato una posizione comune che definisce le norme per il controllo dell’export di armamenti ed è vincolante per gli Stati membri: otto criteri impediscono l’export di armi verso paesi che le utilizzano per la repressione interna o in regioni dove possono portare ulteriore instabilità, così come in quegli Stati che violano i diritti umani e le convenzioni internazionali. I criteri sono uguali per tutti, ma vengono attualmente interpretati in modo diverso dagli Stati membri. “Mentre alcuni membri dell’Unione pongono giustamente dei limiti alle esportazioni di armi, altri continuano a venderle a paesi come l’Arabia Saudita, alimentando guerre, ad esempio in Yemen, con armi prodotte in Europa - denuncia l’europarlamentare tedesca - Questo fa sì che non esista una politica estera europea coerente, mentre la nostra industria militare trae profitto dalle sofferenze di civili”. Per il momento, infatti, le decisioni sull’esportazione di armi prodotte all’interno dell’UE vengono prese a livello nazionale, ma ciascun paese dovrebbe rispettare sia la propria normativa - nel caso dell’Italia, la legge 185 del 1990 - sia quella europea, oltre al Trattato Onu del 2013, che tutti i membri dell’Ue hanno ratificato, Italia inclusa. Come è possibile, allora, che gli Stati europei prendano decisioni in contrasto tra loro? Perché alcuni paesi hanno bloccato le esportazioni di armi all’Arabia Saudita - come la Germania o l’Italia - mentre la Francia continua a venderle armi indisturbata? Coarm è il gruppo di lavoro del Consiglio d’Europa che si occupa dei controlli sulle esportazioni di armi. Quando gli Stati membri bloccano le vendite ad un paese extra Ue, per esempio l’Arabia Saudita, sono tenuti ad informare gli altri Stati europei, che però possono decidere comunque di andare avanti con i loro affari militari. Nessuna sanzione. Oltre all’Arabia Saudita, c’è il caso eclatante dell’Egitto, che riguarda da vicino anche l’Italia. Nella risoluzione sull’esportazione di armi approvata a settembre 2020 dal parlamento europeo, si chiedeva agli Stati membri di sospendere le forniture militari non solo ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi, ma anche a Turchia ed Egitto, perché violano le convenzioni internazionali sui diritti umani. Tre mesi dopo quella risoluzione, il presidente francese Emmanuel Macron ha accolto il presidente Al Sisi a Parigi con tutti gli onori, dichiarando: “Non condizionerò la nostra cooperazione in materia di difesa o di economia ai disaccordi sui diritti umani”. Quindici giorni dopo l’Italia ha consegnato alla Marina militare egiziana la prima delle due fregate Fremm, le navi militari costruite da Fincantieri. La seconda è partita ad aprile, un affare da oltre un miliardo di euro. La normativa europea è stata semplicemente ignorata. Eppure, in un parere riservato che Domani ha letto, gli esperti legali del Parlamento Europeo affermano che le norme Ue ammettono una politica di esportazione di armi più restrittiva, mettendo così in discussione che possano essere accettati comportamenti come quelli di Francia o Italia. Quali sono gli ostacoli che impediscono controlli effettivi? La risposta all’europarlamentare Hanna Neumann: “In alcuni paesi, le aziende produttrici di armi sono molto vicine allo Stato o addirittura di sua proprietà e in quei casi l’interesse del governo spesso coincide con quello dell’industria militare. Ma in molti Stati membri i governi sono contrari al libero flusso di armi europee verso le regioni dove causano morte e migrazioni”. La connessione tra esportazioni di armi e migrazioni è stata approfondita in uno studio pubblicato a luglio dall’istituto internazionale di ricerca Transnational Institute. Si intitola “Smoking guns”, “Pistole fumanti”, e analizza in che modo le esportazioni di armi europee stanno costringendo milioni di persone a lasciare le loro case. Il rapporto conferma che le armi europee vengono usate per destabilizzare interi paesi e regioni. Tra i casi di studio esaminati, due riguardano l’Italia. Leonardo, società controllata dal nostro ministero delle Finanze, ha venduto alla Turchia la licenza degli elicotteri T-129 Atak, usati nel 2018 e nel 2019 in due attacchi nel distretto di Afrin, nel nord della Siria. Secondo i dati delle Nazioni Unite, a causa dell’offensiva di Afrin sono state sfollate 98mila persone tra gennaio e marzo 2018 e altre 180mila a ottobre 2019. “Smoking guns” cita anche il caso delle motovedette italiane Bigliani, donate dall’Italia alla guarda costiera libica e utilizzate per respingere e arrestare i migranti in fuga dalle coste africane: nel 2019 è stata montata una mitragliatrice su almeno una di queste imbarcazioni, per poi usarla nel conflitto interno. Con il nuovo regolamento proposto dai Verdi europei, tutto il sistema verrebbe ripensato in direzione di una maggiore trasparenza e di un reale controllo. Il regolamento prevede che venga istituito un organo comune indipendente, per valutare i rischi di esportare armamenti verso paesi ritenuti problematici. Il regolamento si rivolge anche alle aziende che producono armi, che a loro volta sarebbero tenute a valutare se i potenziali destinatari delle loro tecnologie militari soddisfano i criteri dell’Ue. Infine, il regolamento prevede sanzioni: se non rispetti le decisioni dell’organo indipendente, non hai più accesso alle sovvenzioni del Fondo europeo di difesa o agli altri finanziamenti europei nel settore militare: 8 miliardi di euro tra il 2021 e il 2027. L’Ue investe sempre di più nel settore della Difesa, ma ad oggi non ha alcun controllo sulle armi prodotte nei progetti congiunti tra gli Stati membri. Molti sistemi d’arma vengono costruiti con componenti prodotti da paesi diversi, e non è chiaro chi abbia effettivamente l’autorità per decidere sull’esportazione. Spesso prevale il paese con gli standard meno restrittivi. Il caso dell’Eurofighter, per esempio, ha coinvolto Germania e Gran Bretagna. Quando i tedeschi hanno bloccato l’export di armi verso l’Arabia Saudita, anche i pezzi di ricambio degli Eurofighter sono stati bloccati, rendendo impossibile la costruzione degli aerei. Questo ha causato un conflitto tra la Gran Bretagna, che poteva esportarli liberamente, e la Germania, che stava rispettando le regole dell’Ue. “All’interno dell’UE - conclude Hanna Neumann - stiamo discutendo molto sul tema della Difesa comune e sul sostegno alla nostra industria militare, ma in questo quadro non ha senso prendere le decisioni sull’export a livello nazionale. Non stiamo inventando nuove regole, abbiamo solo trovato un modo per far rispettare quelle che già esistono”. Polonia. Così si intimidiscono i giornalisti anche in Europa di Roman Imielski* La Repubblica, 13 ottobre 2021 Il quotidiano polacco Gazeta Wyborcza racconta l’irruzione della polizia nell’appartamento del giornalista Piotr Bakselerowicz per ottenere informazioni sulle sue fonti: “Così il partito di governo Diritto e Giustizia conduce una vasta campagna contro i media liberi e la polizia viene usata per intimidire”. Un monito, pochi giorni dopo il Nobel per la pace dedicato alla libertà di informazione. Quattro agenti di polizia, due dei quali armati, si sono presentati davanti alla porta dell’appartamento di Piotr Bakselerowicz a Zielona Góra. Sprovvisti di un mandato di perquisizione o anche soltanto di una decisione firmata da un superiore, dopo aver mostrato solo i propri documenti identificativi, gli agenti hanno intimato al giornalista di farli entrare e di consegnargli i suoi dispositivi elettronici, computer di lavoro incluso. Sequestrando questi dispositivi, la polizia ha violato il diritto del giornalista a mantenere riservate sia le fonti del suo lavoro che i dati sensibili. Si tratta di una situazione senza precedenti condotta su precisa indicazione della Questura centrale di Varsavia. A quanto pare, un suo funzionario avrebbe segnalato un’e-mail contenente delle minacce inviata al deputato di Diritto e Giustizia Jerzy Materna da un indirizzo IP collegato all’appartamento del giornalista di Gazeta Wyborcza Piotr Bakselerowicz. Evidentemente la polizia di Varsavia non ha avuto alcun dubbio riguardo alla colpevolezza del giornalista. L’intervento è stato condotto pochi giorni dopo la prima segnalazione. Per una curiosa coincidenza, solo il giorno prima, il deputato di Coalizione Civica Arkadiusz Myrcha aveva annunciato la sua intenzione di presentare una denuncia all’ufficio del pubblico ministero in seguito a un’e-mail a lui indirizzata in cui qualcuno lo minacciava di “farlo a pezzi”. “Lo farò nel modo più brutale possibile”, si legge nel messaggio. Tuttavia, non ci sono informazioni che la Questura o la Procura abbiano preso provvedimenti immediati in questo caso, come invece hanno fatto con tanta celerità “per proteggere” il deputato del partito di governo. Il modo in cui le forze dell’ordine hanno trattato il giornalista di “Gazeta Wyborcza” non può definirsi civile. Piotr Bakselerowicz è stato trattato come un criminale, ignorando nel modo più assoluto il principio della presunzione di innocenza. Le autorità preposte all’applicazione della legge avrebbero dovuto agire in modo ben diverso. Il giornalista avrebbe potuto essere convocato prima per iscritto per essere interrogato, si sarebbero potute fare tutte le verifiche del caso per verificare se vi fossero i presupposti per misure così drastiche come il sequestro di apparecchiature elettroniche di lavoro. Prima di tutto, si sarebbe dovuto appurare se qualcuno avrebbe potuto utilizzare la rete wi-fi dell’appartamento di Piotr Bakselerowicz. Questo per verificare l’ipotesi che non fosse in corso il tentativo di incastrare il giornalista facendo ricadere su di lui un’accusa di minacce. Violare la sicurezza di una rete domestica in fondo non è particolarmente difficile e questo la polizia lo sa molto bene. Consideriamo il tentativo di intimidire Piotr Bakselerowicz come una violazione della libertà giornalistica e in particolare del diritto legalmente tutelato di tutti i giornalisti di mantenere riservate le proprie fonti e informazioni. Ingerire in questo diritto richiede un’ingiunzione del tribunale. In caso contrario non c’è semplicemente alcuna garanzia che la polizia o i pubblici ministeri non decidano di mettere le mani sulle fonti o sulle informazioni sensibili del giornalista. Inoltre, non vi è alcuna garanzia che i servizi controllati da Diritto e Giustizia non installeranno del materiale sul computer di Piotr Bakselerowicz con la sola intenzione di screditarlo o comprometterlo. Soltanto di recente l’intero Paese ha assistito ai vergognosi tentativi di manipolare l’opinione pubblica sulla questione dei migranti presentando l’immagine delle presunte bestialità commesse da uno dei rifugiati. Si è poi scoperto che la famigerata foto che ritrae il “rifugiato con una mucca” era in realtà un fermo immagine ricavato da un vecchio video pornografico ampiamente disponibile online. Questa abominevole propaganda è stata personalmente autorizzata dal capo del Ministero degli Interni e dal coordinatore dei servizi segreti Mariusz Kamilski. Consideriamo anche questo riprovevole intervento come un tentativo di sopprimere il giornalismo critico, dunque come una violazione della legge. Non è certo un caso che l’obiettivo di questo attacco sia un giornalista legato a “Gazeta Wyborcza”. Da anni il nostro giornale è oggetto di attacchi attraverso procedimenti legali e campagne diffamatorie orchestrate dal partito di governo, dai suoi uffici e dagli organi a lui riconducibili. Siamo stati letteralmente sommersi da decine di cause legali e attualmente ne deteniamo il triste record tra tutti i media indipendenti polacchi. L’obiettivo evidente di tali attacchi e quello di ottenere un “effetto paralizzante”, ovvero di spingerci all’autocensura. Si tratta sostanzialmente del tentativo di esercitare una forma di controllo sui media liberi costringendoli - attraverso metodi intimidatori - a smettere di criticare il governo e i sui alleati. Questo tipo di attacchi legali sono internazionalmente conosciuti come SLAPP: Strategic Lawsuits Against Public Participation. Noi, redattori e responsabili delle redazioni locali di “Gazeta Wyborcza”, dichiariamo che utilizzeremo tutti i mezzi legali a disposizione per proteggere i nostri giornalisti dalle persecuzioni di questo governo autoritario. Dichiariamo che non ci lasceremo intimidire e non ci sottometteremo a simili azioni repressive. È nostro dovere civile e democratico criticare tutte le autorità ed informare l’opinione pubblica dei loro abusi, comprese le situazioni in cui l’abuso di potere colpisce noi e i nostri giornalisti in primo luogo. Invitiamo tutti i media indipendenti in Polonia e in tutto il mondo a dimostrare la loro solidarietà. *Traduzione di Dario Prola Giulio Regeni, inizia il processo senza imputati in aula di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 13 ottobre 2021 Giovedì la prima udienza del processo per la morte di Giulio Regeni. La richiesta della famiglia: chiamati a testimoniare Renzi, Gentiloni, Conte e Draghi. Il governo vuole essere parte civile nel processo per l’omicidio di Giulio Regeni. Alla vigilia dell’udienza che dovrà decidere se (e come) si potrà celebrare il processo sulle torture e la morte di Giulio Regeni nell’assenza degli imputati, dalla Presidenza del Consiglio arriva la conferma della volontà di costituirsi contro gli 007 egiziani accusati di averlo sequestrato, torturato e ammazzato. È possibile che la richiesta venga depositata già domani nell’aula bunker di Rebibbia. In questa prima fase si dovranno esaminare questioni tanto preliminari quanto cruciali come le motivazioni per le quali gli agenti dell’intelligence egiziana, accusati dell’omicidio Regeni, non sono presenti. Né il generale Tariq Sabir né il colonnello Athar Kamel e neppure il suo collega Usham Helmi o il maggiore Magdi Ibrahim Sharif, accusati del rapimento e dell’uccisione del ricercatore, saranno infatti in aula. Nei loro confronti è stato costruito un “compendio investigativo” fatto di testimonianze, documenti e altre prove che devono essere verificate in un dibattimento ma potrebbe perfino accadere che il processo subisca uno stop necessario a riproporre una nuova rogatoria con l’Egitto. La famiglia di Giulio sarà in aula, assistita dall’avvocato Alessandra Ballerini, che in questi anni ha seguito progressi e difficoltà investigative. Paola e Claudio Regeni hanno già fatto sapere che chiameranno a testimoniare al processo i presidenti del Consiglio che si sono succeduti dal 2016, anno dei fatti, ad oggi. Si tratta di quattro premier a partire da Matteo Renzi che lasciò l’incarico a Paolo Gentiloni a dicembre del 2016. Quindi sarà il turno di Giuseppe Conte e dello stesso Mario Draghi. Nella lista dei testimoni anche i rispettivi ministri degli Esteri e i sottosegretari con delega ai servizi d’intelligence. La famiglia Regeni spera che il processo si trasformi in un grande momento di verità, viste le tante ombre che ancora avvolgono la vicenda. Perciò ha intenzione di chiamare a deporre anche i vertici del potere egiziano incluso Al Sisi e i suoi ministri degli Interni. Resta da capire se i vertici del Cairo, storicamente riluttanti a collaborare con gli inquirenti italiani, vorranno rendersi disponibili a un esame di fronte ai giudici. “Paola e Claudio dicono spesso che su Giulio sono stati violati tutti i diritti umani. Da oggi abbiamo la fondata speranza che almeno il diritto alla verità non verrà violato. Ci abbiamo messo 64 mesi, ma quello di oggi è un buon traguardo e un buon punto di partenza” aveva dichiarato la Ballerini il 25 maggio scorso, giorno nel quale il giudice per le udienze preliminari Pier Luigi Balestrieri diede il via a un processo niente affatto scontato e in salita definendo “consistente e strutturato” l’insieme di indizi raccolti dal pm Sergio Colaiocco e dal procuratore capo Michele Prestipino. Il gup aveva respinto una ad una tutte le eccezioni sollevate dalle difese.Erano stati gli stessi egiziani a comunicare le generalità dei quattro militari oggi accusati. Quanto alla competenza il fatto che fosse della magistratura italiana compare nei codici e nelle convenzioni sottoscritte sia dall’Italia che dall’Egitto. Una certezza, quindi, che gli imputati fossero a conoscenza del procedimento al quale si erano “volontariamente sottratti”. Certezza derivante anche dalla straordinaria copertura mediatica dell’evento. Per tutte queste ragioni il rinvio a giudizio è stato ritenuto sostanzialmente e formalmente legittimo. Le motivazioni del rapimento di Regeni si spiegherebbero con la volontà di “intimidire ed esercitare pressioni sulla vittima” in modo da ottenere una serie di informazioni. Nei giorni scorsi intanto, a Cambridge, dove una commissione sta svolgendo una missione per incontrare le autorità accademiche e i docenti del giovane ricercatore era stata sentita la tutor di Giulio, Maha Abdelrahaman. La sua vita, aveva ammesso, è stata sconvolta da questo omicidio. Egitto. I due nodi dell’udienza nel processo Regeni, tra imputati in assenza e prove a rischio di Carlo Bonini La Repubblica, 13 ottobre 2021 Il 14 ottobre è fissato l’inizio del processo ai quattro agenti dei servizi segreti accusati dell’omicidio del ricercatore italiano in Egitto. Ma l’assenza degli imputati e dei testimoni oculari rischia di rendere la strada per la verità tutta in salita. Se è vero che portare la ricerca della verità sulle responsabilità dell’omicidio di Giulio Regeni sin qui, in un’aula di Corte di Assise, è stato complesso e, diciamolo, insperato, e se la notizia che la Presidenza del Consiglio dei ministri e la famiglia di Giulio saranno insieme parti civili nel processo è una premessa carica di un formidabile significato e peso politici, processuali, e simbolici, è altrettanto vero che la partita è tutt’altro che chiusa. O anche solo in discesa. La strada che, da domani, il Procuratore aggiunto Sergio Colaiocco - e con lui le parti civili - cominceranno a percorrere è infatti una sfida a quella forza di gravità che, quando sono alla sbarra apparati dello Stato di un Paese straniero, vede normalmente collassare la ragione e il coraggio di Davide di fronte alla mole di Golia. E i precedenti della storia giudiziaria italiana ce lo ricordano (il Cermis, il processo Calipari). I princìpi dello stato di diritto, cui la nostra legge penale e processuale sono ispirati, prevedono infatti regole di garanzia che l’Egitto ha sin qui spregiudicatamente capovolto nei fini per trasformarli in altrettante occasioni utili a far deragliare prima le indagini e quindi l’udienza preliminare nei confronti degli imputati. È accaduto in questi cinque anni. Accadrà ancora. A partire da domani. Il primo ostacolo si chiama “processo in assenza”. Regola vuole che non si possa infatti giudicare in contumacia un imputato che ignori, o che comunque non sia stato messo nelle condizioni di conoscere l’esistenza a suo carico di un giudizio e degli elementi di accusa su cui si fonda. Dunque, di potersi difendere compiutamente. È il motivo per il quale l’Egitto ha sempre negato all’Italia la cosiddetta “elezione di domicilio” dei quattro ufficiali dei suoi servizi segreti chiamati alla sbarra. Convinto che l’escamotage (negare un luogo “legalmente” riconosciuto e raggiungibile in Italia per la notifica degli atti su cui il processo si fonda e del suo progredire) avrebbe consentito di depositare un baco potenzialmente in grado di annullare il processo. Ebbene, l’escamotage, ritenuto tale dal giudice dell’udienza preliminare che ha mandato a processo i quattro ufficiali, dovrà ora essere nuovamente disinnescato dai giudici della terza sezione della Corte di Assise. Esattamente come il giudice che l’ha preceduta, la Corte dovrà cioè decidere se i quattro imputati siano o meno dei “finti inconsapevoli” del processo a loro carico. È una decisione non banale, che sarà oggetto della prima udienza, che la Corte dovrà giuridicamente motivare (non essendo sufficiente il buon senso e l’evidenza solare della risonanza che il caso ha avuto nel mondo), e da cui dipende il futuro del processo. La possibilità stessa che si celebri. Un “finto consapevole” può essere processato “in assenza”. Ma, appunto, è necessario dimostrare che sia tale. Il secondo ostacolo è, per certi aspetti, persino più complesso e potenzialmente esiziale del primo. L’impianto accusatorio a carico dei quattro imputati poggia infatti parte significativa delle sue fondamenta su sei testimoni oculari (la cui identità è stata sin qui protetta negli atti con lettere dell’alfabeto greco) che, in buona parte, risiedono in Egitto. Se il dibattimento comincerà, la regola del processo accusatorio vuole che saranno chiamati a deporre di fronte alla Corte per essere sottoposti all’esame incrociato della pubblica accusa, della difesa, delle parti civili (il cosiddetto “contraddittorio”). È il solo modo per trasformare in prove le loro dichiarazioni raccolte e verbalizzate durante le indagini dal pm. Per renderle utili al giudizio della Corte. Ebbene, cosa accadrà se l’Egitto dovesse acquisire l’identità di questi testimoni chiave, manipolarne la volontà, e comunque impedirgli di uscire dal Paese per deporre, rendendosi contestualmente indisponibile a farli esaminare a distanza in un processo di cui ha già dichiarato di non riconoscere la legittimità e fondatezza giuridica? La Corte potrebbe trovarsi di fronte all’alternativa del diavolo di dover rinunciare - nel rispetto delle regole del contraddittorio - a prove decisive per stabilire la responsabilità degli imputati o, al contrario, a forzare la procedura di raccolta di una prova (la testimonianza) non acquisibile con i normali strumenti, correndo il rischio di creare le premesse del futuro annullamento del processo. Non sarà semplice, no, la strada per la verità. Quanto ripida, cominceremo a capirlo da domani. India. L’AI velocizza la giustizia: un assistente virtuale raccoglie dati per giudici e avvocati di Filippo Merli Italia Oggi, 13 ottobre 2021 Progetto pilota basato sull’intelligenza artificiale per smaltire le cause arretrate nei tribunali. È una riforma della giustizia. Ma non ha nulla a che fare con leggi e tribunali. Nella prima settimana di aprile la Corte suprema dell’India ha presentato un progetto pilota basato sull’intelligenza artificiale per risolvere uno dei maggiori problemi del paese asiatico: gli enormi arretrati di cause pendenti. Ora, dopo una serie di collaudi, il Supace, il portale per l’assistenza nell’efficienza della Corte, è operativo. La piattaforma aiuta giudici e avvocati nella ricerca, estraendo rapidamente informazioni dagli archivi dei dati legali e mettendoli a disposizione dei magistrati. Dietro il programma c’è ManCorp Innovation Labs, startup specializzata nell’intelligenza artificiale. L’azienda, che ha sede nelle città di Pune, Nagpur e Delhi, sfrutta la tecnologia per facilitare il processo della giustizia. I ricercatori di ManCorp hanno già condotto progetti all’Alta Corte di Patna per costruire una soluzione di intelligenza artificiale per dare supporto nell’assegnazione dei casi, così come all’Alta Corte di Bombay, in cui il gruppo ha utilizzato il riconoscimento ottico dei caratteri per codificare un testo scritto a mano o stampato. La creazione principale di ManCorp, però, è un chatbot chiamato Jharkhand Samwad che simula una conversazione con un essere umano. “L’Alta Corte di Jharkhand non aveva personale sufficiente per assistere i giudici”, ha spiegato Manthan Trivedi che nel 2018 ha fondato l’azienda con i soci Rathin Deshpande e Vishnu Gite. “Chatbot risponde alle domande allo stesso modo di un ricercatore di legge leggendo il caso”. Trivedi era all’università di Harvard quando, nel 2015, gli studenti conducevano ogni giorno revisioni della letteratura sui documenti di ricerca. “Mi sono imbattuto nelle statistiche secondo cui migliaia di articoli di ricerca vengono pubblicati ogni ora. Ebbene: il 60% degli studi pubblicati potrebbe rendere superflue le attuali migliori pratiche. È stato il momento in cui ho avuto l’idea di creare il sistema che ci dica quali sono le nuove migliori pratiche e quali sono quelle vecchie e superate”. Il programmatore ha viaggiato attraverso l’India per testare il proprio software. E per ideare e condurre workshop sull’utilizzo dei dati nel processo decisionale. “Abbiamo iniziato a lavorare su una tecnologia che convertisse i contenuti pixelati in un testo leggibile dal computer”, ha raccontato. “Quando presenti una causa per l’imposta sul reddito occorrono giorni per essere informato se ci sono difetti nella tua domanda. Stiamo cercando di automatizzare il processo. In caso di errore sarà una notifica a suggerire la correzione”. ManCorp si è autofinanziata con un milione di dollari. E ha iniziato a sondare il mercato per finanziamenti da 1,5 milioni di dollari, circa 1,3 milioni di euro, per entrare nei mercati B2C (business-to-consumer) e B2B (business-to-business). “Il settore non organizzato, come le piccole imprese edili e le pratiche legali, non ottiene il vantaggio dell’utilizzo della tecnologia, perché non è disponibile o non è accessibile”, ha detto Trivedi a IndianExpress. “Il nostro obiettivo è elevare l’economia del paese, dare potere alle persone e essere in grado di aiutare le industrie a diventare più organizzate, in modo da anticipare le cose che accadono in futuro”. A cominciare dalla giustizia. Una “pelosa” carità afghana di Alberto Negri Il Manifesto, 13 ottobre 2021 G20 sull’Afghanistan. L’assenza di Putin e Xi Jinping già da sola indica la scarsa attenzione all’iniziativa italiana del G20 che Mosca e Pechino vorrebbero confinare alle sole questioni economiche. C’è aria di carità pelosa e di qualche altro futuro fallimento geopolitico nel G-20 convocato ieri a Roma. Oltre che un sentore consistente di diplomazie doppie o triple più che di multilateralismo di facciata, anche se Biden parla ipocritamente di “impegno collettivo”. Carità pelosa perché il miliardo dell’Unione europea per l’Afghanistan è destinato più che altro a tenere lontani gli afghani dall’Europa: oggi intanto nella Ue ci sono già 220mila afghani irregolari e nessuno si cura di loro. Non solo. Erdogan ha dichiarato che non può accogliere altri profughi affermando implicitamente che per farlo deve passare ancora alla cassa di Bruxelles. Insomma il solito gioco al ricatto, avendo sempre presente che nel caso della Siria la Turchia occupa parte del territorio a spese di curdi e che in quello dell’Afghanistan Ankara ha una presenza militare nell’aereoporto di Kabul ed è l’unico Paese Nato ad avere ancora aperta l’ambasciata. Ma sulla pelle degli afghani si gioca una partita più ampia, di cui gli aiuti sono una parte importante. Ai talebani l’Occidente rimprovera di non avere tenuto fede alle per altro vaghe promesse di rispettare i diritti umani e delle donne. In realtà la prima preoccupazione degli occidentali - ma anche della Cina, della Russia e delle potenze regionali come Pakistan e Iran - non sono i diritti umani ma la sicurezza. E al riguardo qualche timore serpeggia tra le potenze internazionali, vista l’ondata recente di sanguinosi attentati attribuiti ai maggiori oppositori dei talebani, ovvero i jihadisti dell’Isis-K (Khorassan) che recluta tra disertori talebani, gli esuli di Al Qaeda, i militanti della rete Haqqani (in ambigui rapporti con l’Isis), i jihadisti uzbeki, tagiki, uiguri e turkmeni presenti in Afghanistan e in Asia Centrale, che non seguono più i talebani e cercano di unirsi all’Isis-K. Avanza nelle cancellerie il sospetto che se i talebani saranno in difficoltà, e magari divisi tra loro, potrebbe anche partire una nuova guerra al terrorismo, anche se ci sono molti dubbi se combattere dei terroristi con ex terroristi e personaggi ancora nelle “black list” americane o russe. Con il G-20 virtuale sull’Afghanistan Draghi ha centrato l’obiettivo di allargare il G-20 dai temi economici ai quelli geopolitici e strategici ma questo è avvenuto senza la presenza Putin e Xi Jinping perché la Russia ha già fatto la sua contromossa: convocare un vertice a Mosca il 20 ottobre con la partecipazione dei talebani allargato a Iran e Pakistan. L’assenza di Putin e Xi Jinping già da sola indica la scarsa attenzione all’iniziativa italiana del G20 che Mosca e Pechino vorrebbero confinare alle sole questioni economiche. Russia e Cina intendono condurre una diplomazia parallela a quella americana sull’Afghanistan, un dossier che - inutile negarlo - appare minore rispetto alla questione geopolitica essenziale in questa fase, ovvero la contrapposizione tra Pechino e Washington nel Pacifico aumentata ancora di più con le tensioni su Taiwan. L’invito al summit russo, che si terrà una settimana dopo il G20 a Roma, è esteso oltre che a Cina, Pakistan, Iran e India, a una delegazione dell’Emirato di Kabul. Così il Cremlino esalta l’efficacia del “Moscow format”, un meccanismo di consultazione esteso ai tutti i protagonisti regionali. La decisione del Cremlino di invitare a Mosca i rappresentanti dei talebani lancia un messaggio forte all’Occidente. Avviene nel contesto della competizione tra i due modelli, quello delle cosiddette democrazie liberali - che pone l’enfasi sui diritti umani e ritiene impossibile in questo momento normalizzare i rapporti con i talebani - e quello tipicamente più “pragmatico” dei Paesi più autocratici. Al momento nessuno dei Paesi occidentali ha un’ambasciata aperta a Kabul. Il loro approccio verso la crisi afghana si sviluppa attraverso aiuti etichettati come umanitari per non favorire direttamente un regime che vìola platealmente una serie di diritti umani, in particolar modo quelli delle donne. Sono perfettamente consci del fatto che l’economia afghana è destinata a sprofondare senza aiuti esterni ma devono rispondere alla loro opinione pubblica riguardo ai finanziamenti. Al contrario Cina, Pakistan e Russia hanno tenuto le ambasciate aperte. A grandi linee condividono le stesse preoccupazioni degli occidentali, ossia il collasso dell’Afghanistan e le ripercussioni sulla sicurezza. Anche loro hanno in mente di aiutare i civili, mantenere la stabilità ed evitare le recrudescenze del terrorismo, sia interno che internazionale. Ma i loro leader non devono rendere conto all’opinione pubblica e hanno maggiori margini di manovra nelle trattative con i talebani, aggirando il dossier sui diritti umani. Del resto Pechino e Mosca sono sempre le prime a spingere sulla narrativa del “si tratta di questioni interne che non devono interessare ai Paesi stranieri”, come nel caso di Hong Kong. L’obiettivo della Russia è far capire che il suo modello autocratico è più efficace di quello occidentale, per altro miseramente fallito dopo 20 anni di guerra e occupazione dell’Afghanistan. Dopo aver perso il loro futuro, gli eritrei fuggono per la libertà di Sara Creta Il Domani, 13 ottobre 2021 Tra Sudan e Eritrea si è consumato quello che le Nazioni Unite hanno chiamato il peggior traffico di esseri umani. Il servizio militare obbligatorio e permanente ha spinto migliaia di eritrei alla fuga. “Abbiamo paura della guerra in Tigray e di essere reclutati. Non vogliamo andare a combattere. Vogliamo libertà”, racconta Fithawi dal centro di transito di Wadsharefy, diventato il punto zero per l’esodo dall’Eritrea. Le Nazioni Unite stimano che negli ultimi anni 400mila eritrei, il 9 per cento della popolazione, siano fuggiti, senza contare quelli che sono morti o sono rimasti bloccati durante il viaggio. Kassala. A 15 chilometri dal confine sudanese-eritreo. I monti Taka avvolgono questa città del Sudan occidentale, capoluogo dell’omonima provincia. Ai loro piedi, una moltitudine di piccole case marroni e verdi; a pochi chilometri il confine con l’Eritrea. A delimitare la frontiera naturale tra i due paesi il fiume Gash, che sorge nel sud dell’Eritrea, vicino ad Asmara e continua nel Sudan nord-orientale per perdersi nel deserto. È lungo queste antiche rotte, che si è consumato quello che le Nazioni Unite hanno chiamato il peggior traffico di esseri umani. Il servizio militare obbligatorio e permanente ha spinto migliaia di eritrei alla fuga. “Vogliamo la libertà” - Asmara, Keren, Agordat, Barentu. Fino a Kassala sul confine sudanese. In fuga dal regime di Isaias Afewerki, ogni anno migliaia di giovani eritrei sfidano i cecchini per attraversare la frontiera con il Sudan, tra le 7.500 e le 9.000 persone, afferma la commissione governativa sudanese per i rifugiati. Secondo l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, dall’inizio del conflitto nel Tigray, altri 62.166 rifugiati, per lo più etiopi, sono fuggiti nella regione. Il Sudan ospita una delle più grandi popolazioni di rifugiati in Africa, principalmente dal sud Sudan, dall’Eritrea, dalla Repubblica Centrafricana, dall’Etiopia e dal Ciad. Alcuni dei nuovi arrivati eritrei vengono registrati e ospitati nel centro di accoglienza di Wedsherify, prima di essere trasferiti al campo profughi di Shegarab. Davanti alla porta di metallo bianco aspetta un gruppo di donne con veli colorati. “Non abbiamo cibo, aiutaci”, supplica una di loro. Dietro il cancello, una tettoia fa da riparo a un dormitorio improvvisato. Ci sono un centinaio di profughi. Alcuni sono malati. Chiedono farmaci. Con suo padre costretto a un servizio militare a vita, che presto avrebbe intrappolato anche lui, Fithawi ha camminato per ore senza cibo né acqua per raggiungere il Sudan. Ha vent’anni, uno sguardo intenso e poche parole. Si lascia alle spalle un paese governato da una dittatura segreta accusata di violazioni dei diritti umani, che sta giocando un ruolo enorme nella più grande crisi migratoria globale al mondo. “Abbiamo paura della guerra in Tigray e di essere reclutati. Non vogliamo andare a combattere. Vogliamo libertà”, racconta Fithawi dal centro di transito di Wadsharefy, diventato il punto zero per l’esodo dall’Eritrea. Le Nazioni Unite stimano che negli ultimi anni 400mila eritrei, il 9 per cento della popolazione, siano fuggiti, senza contare quelli che sono morti o sono rimasti bloccati durante il viaggio. A Wadsharefy, dove gli eritrei sono stati accolti come rifugiati sin dagli anni Ottanta, quando combattevano per l’indipendenza contro il governo comunista in Etiopia, le baracche in lamiera delle Nazioni Unite sono ora diventate un mosaico di case di cemento. Gli adolescenti, bloccati da settimane nel centro di transito raccontano della loro fuga dalla coscrizione obbligatoria e del collasso economico e sociale dell’Eritrea. “Sawa” è la parola che ricorre più frequentemente nei loro ricordi. Ogni anno il governo eritreo manda centinaia di studenti dell’ultimo anno di scuola superiore all’isolato campo militare di Sawa, poco distante dal confine con il Sudan. “Quando vai a Sawa, hai paura di pensare - racconta Binyam, 20 anni e inglese fluente - non potevo vedere un futuro lì. Avevo perso ogni speranza”. Come lui, ogni anno, centinaia di adolescenti vengono ammassati nella base militare di Sawa. Quattro mesi di addestramento, poi un esame che determina se sono ammessi come soldati o se possono continuare la loro formazione come riservisti. Circa i due terzi vengono immediatamente mobilitati come soldati. Ma tutti rimangono coscritti, spesso per decenni. Rinchiusi in un sistema che paga uno stipendio mensile di 500 nakfa, circa 10 dollari al mercato nero, e gli è vietato lasciare il paese. Senza alternative - La sicurezza e la stabilità sono una vera sfida: la regione è anche teatro di vari conflitti etnici e territoriali. A Wadsharefy e nei piccoli villaggi ai piedi dei monti Taka, molti residenti sono di origine Hadendawa, oltre ai nomadi Rashaida e Beni-Amer, con altri dal Tigray e dal Bilen che sono emigrati dall’Eritrea negli ultimi tre decenni. Membri dell’intelligence eritrea e sudanese si mescolano con rifugiati e disertori eritrei ed etiopi. La situazione è molto pericolosa: alcuni rifugiati riferiscono che molti dei loro compagni sono rimasti feriti da militari eritrei mentre tentavano la fuga. E in Sudan il percorso è ancora più rischioso e i rapimenti di Eritrei sono un grande affare. La regione di Kassala è un’area dove vivono molti Rashaida, una tribù nomade nota per il suo coinvolgimento nel traffico di esseri umani. Nei piccoli villaggi o davanti alle modeste case, troneggiano i loro 4x4. Per anni, i rifugiati venivano regolarmente rapiti nella regione e inviati nel Sinai dove venivano torturati per ottenere un riscatto. Kassala è il punto di partenza per altre destinazioni, e i Rashaida non sono gli unici ad offrire i loro servizi come contrabbandieri. La domanda è alta. All’entrata del centro di transito gestito dal governo sudanese a Wadsharefy, un cartellone delle Nazioni Unite avverte: “La realtà è diversa”.