L’area penale esterna costa molto meno, ma servono operatori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 ottobre 2021 Un detenuto, in carcere, costa circa 143 € al giorno. La maggior parte di questi fondi sono spesi per la custodia, quindi non per attività che potrebbero essere utili al fine del reinserimento. In area penale esterna, invece, il costo è di circa 12 € al giorno. Sono dati di cui l’associazione Antigone ne ha parlato nel suo ultimo rapporto “Oltre il virus”, e lo rilancia in vista di una nuova riforma sull’esecuzione penale. Antigone chiede che siano aumentate le risorse per le pene alternative alla detenzione e che tutti i detenuti che ne hanno diritto, per pena o pena residua, vi accedano. Le risorse risparmiate potrebbero essere investite per dare una continuità al sostegno ai detenuti alla conclusione della loro pena. Antigone sottolinea che, spesso, infatti, gli ex detenuti si ritrovano nella stessa situazione economica, personale o sociale che inizialmente li aveva portati a compiere un reato (e quindi in carcere) e che potrebbe quindi portarli a compiere ulteriori atti criminosi. La proposta, quindi, è quella di potenziare l’area penale esterna o, meglio ancora, i servizi sul territorio per potenziare in maniera incisiva il servizio di accompagnamento per gli ex detenuti perché possano proseguire o cominciare eventuali percorsi di istruzione, formazione, ricerca di un lavoro o cura delle dipendenze. Interessante rivedere la spesa della per l’amministrazione della giustizia. Ogni anno lo Stato italiano spende oltre 8 miliardi per l’amministrazione della giustizia e il 35% di queste risorse finisce nel carcere. Si tratta di cifre che, nonostante rappresentino una piccolissima parte del bilancio complessivo dello Stato, sono in graduale aumento negli ultimi anni e mostrano l’importanza che la giustizia riveste nel nostro paese spesso a scapito della scuola, università, ricerca e di altre politiche di inclusione sociale. Fra il 2017 e il 2021 il bilancio del ministero della Giustizia è cresciuto del 13,2% passando da 7,8 a 8,8 miliardi. Contemporaneamente il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) è cresciuto 18,2% passando da 2,6 a 3,1 miliardi, una cifra che batte ogni record negli ultimi 14 anni e rappresenta il 35% del bilancio del ministero della Giustizia. Antigone ha fatto notare che, come previsto dalla legge di bilancio 2021, sono stati aggiunti 20 milioni di fondi “al fine di garantire la realizzazione di interventi straordinari per l’ampliamento e l’ammodernamento degli spazi e delle attrezzature destinate al lavoro dei detenuti”. Affianco a tutto ciò, Il Dubbio ha però segnalato anche un altro grave problema. Potenziare l’esecuzione penale esterna, senza nel contempo incrementare i funzionari del servizio sociale che si occupano della presa a carico degli imputati raggiunti da misure alternative alla detenzione, rischia un serio collasso. Il rapporto tra funzionari dell’Uepe e gli imputati o condannati, è uno a 180. Dal punto di vista pratico è già insostenibile seguire tutti e la giusta riforma Cartabia che amplierà la platea degli aventi diritto della messa alla prova, se non accompagnata da un sostanzioso incremento delle risorse umane, rischia di rendere vana la buona intenzione. A lungo, se non a breve termine, rischia di diventare un boomerang e dare linfa vitale a chi vorrebbe rinchiudere a prescindere le persone e buttare via la chiave. Le prime problematiche già sono iniziate, quando, nel 2014 c’è stato l’ampliamento delle misure alternative e quindi un aumento delle casistiche a carico degli operatori. In effetti, nel 2019 sono state fatte nuove assunzioni. Ma è cambiato poco. Il nuovo personale ha fatto fronte in numero appena sufficiente alla copertura dei pensionamenti intervenuti con quota 100 e dei passaggi di molti assistenti sociali ad altre funzioni richieste dalla nuova organizzazione. Senza un giusto e necessario adeguamento degli organici, si rischia di vanificare lo scopo. Non potendo seguire tutti, nascono problemi enormi, a partire dal fallimento dello scopo primario: l’abbassamento della recidiva e il rischio di un aumento di casi di cronaca di chi è in misura alternativa. Ciò verrebbe prontamente cavalcato da una parte consistente della politica e giornali, pronti a creare indignazione per far arretrare il nostro Paese. In altre parole, l’onda d’urto sui carichi di lavoro generata dall’introduzione della messa alla prova per gli adulti viene scaricata sui singoli assistenti sociali determinando conseguenze inevitabili sulla qualità dell’intervento professionale. Ergastolo, ultimo atto dell’eterna trattativa di Roberto Scarpinato Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2021 Il 30 settembre scorso sono stato sentito dalla Commissione Giustizia in ordine ai progetti di legge in esame per la riforma della normativa sull’ergastolo ostativo, e ho formulato una serie di rilievi e proposte sul piano tecnico giuridico finalizzati a evitare il pericolo che escano dal carcere non solo mafiosi ergastolani che si sono effettivamente ravveduti e che non possono collaborare per ragioni oggettive che ho esemplificato, ma anche i c.d. “irriducibili”. Cioè boss mafiosi che per i loro ruoli direttivi sono conoscitori di informazioni importantissime che consentirebbero di fare piena luce sulle stragi del 1992/1993 e che, ciononostante, non sono disponibili per ragioni soggettive a “tradire” l’organizzazione di cui hanno fatto parte e i suoi potenti alleati, contribuendo con il loro silenzio a garantire l’impunità e la permanente operosità criminale di pericolosi stragisti rimasti nell’ombra, con l’ulteriore ricaduta di disincentivare future collaborazioni. Poiché nei pochi minuti a disposizione mi sono dovuto limitare a brevissimi accenni ai precedenti che dimostrano come e perché l’abolizione dell’ergastolo ostativo sia stato e resti al centro di un ininterrotto impegno strategico dell’intera compagine mafiosa, approfitto ora dell’ospitalità del Fatto Quotidiano per un sintetico memorandum. Primo fu Cucuzza: “Mi dissocio ma non accuso altri” - Siamo all’epilogo di una storia che inizia nel 1992, quando Salvatore Riina pone tra le condizioni per cessare le stragi proprio l’abolizione dell’ergastolo e una modifica della legge sui pentiti che introduca la possibilità della dissociazione. Dopo che con l’arresto di Bagarella nel 1995 e di Brusca nel 1996 l’ala stragista di Cosa Nostra viene definitivamente neutralizzata, iniziano i primi tentativi di boss mafiosi detenuti di ottenere l’uscita dal carcere mediante la via della dissociazione e della c.d. desistenza. L’apripista è Salvatore Cucuzza, capo del mandamento mafioso di Porta Nuova, che nel luglio del 1996 scrive da detenuto una lettera al presidente del Tribunale di Palermo, di cui dà notizia la stampa, nella quale dichiara di dissociarsi da Cosa Nostra pur non volendo collaborare con la giustizia: “Non intendo accusare altri, ma soltanto ammettere le mie responsabilità” afferma. L’iniziativa viene attentamente monitorata dagli altri capi in libertà, tra i quali Carlo Greco, fedelissimo di Provenzano, reggente insieme a Pietro Aglieri del mandamento di S. Maria del Gesù, il quale, come risulta da una intercettazione del 18 luglio 1996, nello spiegare agli altri mafiosi i vantaggi della dissociazione, dice che bisogna attendere l’emanazione di una legge sui dissociati di mafia sulla falsariga di quella sui dissociati del terrorismo, aggiungendo che sarebbe opportuno dare delle direttive interne in modo che tutti dichiarino di dissociarsi. Senonché il tentativo di Cucuzza abortisce per l’irremovibile rifiuto della Procura di Palermo di prendere in alcuna considerazione la sua proposta. Ma le manovre proseguono sottobanco. Nella primavera del 2000 il procuratore nazionale antimafia Vigna scrive al ministro della Giustizia Fassino che quattro detenuti, il cui capofila è Pietro Aglieri, altro fedelissimo di Provenzano, hanno chiesto di incontrare altri capi mafia detenuti per decidere la dissociazione da Cosa Nostra. Fassino consultatosi con Caselli allora capo del Dap, blocca l’operazione. Il 2 agosto 2000 viene intercettato Giuseppe Lipari, altro uomo di Provenzano, il quale riferisce al suo interlocutore che vi era stata una riunione di vertice nella quale Provenzano aveva detto che non poteva “rimettere insieme il giocattolo” se non riceveva indicazioni dal carcere, cioè dall’ala stragista facente capo a Riina. Il 6 febbraio 2001 il quotidiano Repubblica dà notizia di una intercettazione da cui risultava che nell’estate del 2000 si era svolta una riunione, pure voluta da Provenzano, nella quale era stata, tra l’altro, affrontata la situazione dei detenuti. Vengono riportate tra virgolette alcune frasi testuali della trascrizione tra cui la seguente: “Dicono anche che tutti i responsabili delle province devono stare molto tranquilli… e poi bisogna pensare ai detenuti che sperano nell’abolizione dell’ergastolo”. In effetti in quel periodo l’obiettivo sembrava raggiunto. La legge 16 dicembre 1999, n. 479 aveva esteso a tutti gli imputati, ivi compresi quelli condannati in primo grado per strage, la possibilità di ottenere la conversione della pena dell’ergastolo in anni trenta di reclusione che, grazie al beneficio della liberazione anticipata, si riducevano a poco più di venti decorrenti dalla data dell’arresto. Lo scopino e la trattativa: uscire senza collaborare - Il 23 ottobre 2000, Riina, Giuseppe Graviano e altri 15 condannati in primo grado all’ergastolo per le stragi del 1993 si alzano in piedi nelle gabbie della Corte d’assise di appello di Firenze per chiedere l’abbreviato. Soltanto allora, dopo le proteste dei magistrati e dei parenti delle vittime, il nuovo governo Amato si affretta a ripristinare l’ergastolo almeno per le stragi con un escamotage retroattivo. Nel 2001 si registra una novità che dimostra che il “giocattolo” su questo importante versante era stato rimesso in piedi. Infatti accanto ai provenzaniani, inizia a operare attivamente per condurre le trattative sulla dissociazione anche Salvatore Biondino, braccio destro e uomo ombra di Salvatore Riina, il quale dopo avere avuto nel gennaio colloqui con Vigna, a novembre avanza l’insolita richiesta di essere autorizzato a fare lo scopino all’interno del carcere di Rebibbia. Il magistrato Alfonso Sabella, a capo dell’Ispettorato del Dap, segnala a Tinebra, subentrato al vertice del Dap, che si tratta in realtà di uno stratagemma per consentire a Biondino di muoversi liberamente all’interno del carcere e condurre le consultazioni con gli altri capi. Il risultato è che Sabella viene immediatamente rimosso dal suo incarico. In una analitica lettera del 20 dicembre 2001 al Csm e al ministro della Giustizia, Sabella denuncia l’illegittimità della sua rimozione e ricostruisce con ricchezza di dettagli tutte le manovre sotterranee in corso tra i capi mafia detenuti per condurre una trattativa segreta finalizzata alla fuoriuscita dal carcere senza collaborare. La lettera cade nel vuoto e il 16 febbraio 2002 a Sabella viene pure revocata la scorta che gli era stata riconfermata sino a poco tempo prima nel dicembre 2001. La trattativa riprende subito il 28 marzo 2002 quando Aglieri invia una lettera a Vigna nella quale lancia la proposta di consentire un ampio confronto tra i boss detenuti alla ricerca di “soluzioni intelligenti e concrete”. La proposta viene fermamente respinta dalla Procura della Repubblica di Palermo di cui si fa portavoce Piero Grasso con pubbliche prese di posizione, e anche dal presidente della Commissione parlamentare antimafia, Roberto Centaro. A questo punto entrano apertamente in campo i boss detenuti esponenti dell’ala stragista, lanciando inquietanti messaggi intimidatori. Il 12 luglio 2002 Leoluca Bagarella afferma, dichiarando di parlare a nome dei detenuti ristretti nel carcere di L’Aquila, che sono stanchi di essere presi in giro e che le “promesse non sono state mantenute”. Segue il 17 luglio un altro messaggio proclama dal carcere di Novara firmato da Cristoforo Cannella, componente del gruppo di fuoco di Bagarella, nel quale si accusano di inerzia gli avvocati di mafia eletti in Parlamento e componenti di Commissioni legislative. La stampa pubblica la notizia che i Servizi segreti e lo Sco hanno raccolto da attendibili fonti di ambiente notizie su “un progetto di aggressione che avrà inizio con azioni in toto non percettibili all’opinione pubblica fino a raggiungere toni manifesti, con la commissione, in un secondo momento, di azioni eclatanti”. Vengono anche specificati alcuni nominativi di personaggi del mondo politico che potrebbero essere uccisi. Dopo queste minacce, la trattativa riprende dietro le quinte. Alcuni boss mafiosi detenuti trattativisti vengono trasferiti nel carcere di L’Aquila dove nel 2005 chiedono di essere autorizzati a discutere tra loro i particolari della dissociazione/desistenza. Ma al tal fine occorrerebbe modificare i decreti ministeriali che vietano ai detenuti mafiosi di avere contatti. Roberto Castelli, ministro della Giustizia dal 2001 al 2005, dopo essersi consultato con i capi di alcune procure, nega il suo via libera all’operazione, come egli stesso ha dichiarato in una pubblica intervista. Intanto nel carcere di Tolmezzo, Filippo Graviano dice a Gaspare Spatuzza, come questi ha riferito in dibattimento: “È bene far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove deve arrivare qualche cosa, è bene che anche noi cominciamo a parlare coi magistrati”. Nel gennaio 2020 Giuseppe Graviano nel corso delle udienze del processo “‘Ndrangheta stragista” inizia a fare dichiarazioni e a depositare memorie di portata potenzialmente dirompente concernenti i mandanti occulti delle stragi e la sottrazione dell’agenda rossa di Borsellino, che si rivolgono in modo criptato a soggetti in grado di decifrarne il reale significato. Nello stesso arco temporale, Filippo Graviano fa mettere a verbale che si è dissociato da Cosa Nostra, pur non intendendo collaborare. Uno dei favoreggiatori dei Graviano, a loro ancora vicino, ha dichiarato che Giuseppe ha fiducia che uscirà dal carcere nonostante gli ergastoli anche senza collaborare. Una fiducia che nutrono anche altri boss. Il parlamento non può scaricare sui magistrati - Mi sembra che sia abbastanza per comprendere come siamo ancora dentro quello che Giovanni Falcone chiamava “il gioco grande”, e come sul legislatore gravi il difficilissimo compito di emanare una legge che prenda chiara posizione su alcuni nodi ineludibili, la cui soluzione, a mio parere, non può essere scaricata, con una sorta di delega in bianco, sulle spalle della magistratura di sorveglianza. Quali sono i casi nei quali si deve ritenere giustificabile la mancata collaborazione degli irriducibili? È giustificabile la paura di ritorsioni, equivalente alla ammissione della impotenza dello Stato di fronte alla capacità di intimidazione della mafia? È giustificabile il rifiuto di sentirsi “infami”, equivalente alla legittimazione di una cultura dell’omertà che prova ripulsa ad accusare complici ancora in libertà, ma non prova ripulsa morale per la violenza che costoro continuano così a praticare nei confronti di tante vittime? È giustificabile il rifiuto di non collaborare perché ciò che conta è il pentimento interiore dinanzi a Dio e non quello dinanzi gli uomini che rovina “cristiani”, come teorizza Aglieri? La cessazione di pericolosità per desistenza può essere assimilata al ravvedimento? Ed è bene che il legislatore abbia presente che oltre agli irriducibili sono in attesa di risposte su questi e altri importanti temi, anche i parenti delle vittime ai quali si dovrà spiegare perché non hanno diritto di sapere dagli “irriducibili” chi e perché, oltre ai mafiosi, volle la morte dei loro cari come moneta di scambio da giocare sul tavolo di una bieca partita di potere. Nei reati di mafia non è sufficiente la sola affiliazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2021 L’associazione criminale deve essere attestata anche da altri elementi. La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si concretizza nell’inserimento stabile nella struttura organizzativa dell’associazione. Inserimento che deve dimostrarsi idoneo, nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio criminale per il raggiungimento delle comuni finalità delittuose. L’affiliazione rituale, poi, può costituire grave indizio della condotta di adesione all’associazione, in tutti i casi in cui non costituisce una semplice manifestazione di volontà, ma diventa invece espressione “di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione”. In questi termini conclude la sentenza delle Sezioni unite penali n. 36958 depositata ieri, ritenendo la “semplice” affiliazione da sola non sufficiente ad attestare la partecipazione ad organizzazione criminale. In questo senso allora, le Sezioni unite, in un caso che riguarda due fratelli accusati di partecipazione alla n’drangheta e sottoposti a custodia cautelare perché indiziati del reato previsto dall’articolo 416 bis del Codice penale, annullano l’ordinanza del Gip favorevole alla conservazione della detenzione e, rinviando al Tribunale di Reggio Calabria, gli chiedono di individuare se l’affiliazione dei fratelli all’associazione criminale può fare ritenere quella formalizzazione come elemento integrante la stabile “messa a disposizione”. Compito che le stesse Sezioni Unite qualificano come “delicato”. L’invito è perciò a una considerazione dinamica dell’attività partecipativa, non accontentandosi di quelle che le Sezioni Unite qualificano come “scorciatoie interpretative”, irrispettose oltretutto del principio di proporzionalità tra reato e sanzione (nel caso dell’associazione criminale, evidentemente con misure assai gravi anche solo per l’indagato). Una prospettiva corroborata anche dalla disciplina europea, dove il riferimento è alla decisione quadro n. 2008/841/GAI del Consiglio, relativa alla lotta alla criminalità organizzata. Non basta così la dimostrazione del semplice accordo di ingresso o la presenza di altre condizioni soggettive, se non accompagnata da “un concreto connotato di effettiva agevolazione”. Il comportamento finito sotto la lente degli organi investigativi, allora, deve essere indirizzato a favorire in concreto gli obiettivi criminali e non in linea puramente teorica. Del resto, sottolinea ancora la sentenza, quando il legislatore ha voluto incriminare il solo reclutamento, lo ha fatto con una specifica disposizione, come nel caso del terrorismo (articolo 270 quater del Codice penale). Napoli. “Avvocà, tenete un colloquio con un detenuto morto” di Ciro Cuozzo Il Riformista, 12 ottobre 2021 Antonio Alfieri “non si reggeva in piedi”. È deceduto al Cardarelli, familiari e legale avvertiti dopo 72 ore. Istanze sempre rigettate da giudice. “Avvocà ma che tenete un colloquio con un detenuto morto”. È questa la risposta ricevuta da Luca Mottola, legale di Antonio Alfieri, 51enne tossicodipendente recluso nel carcere di Poggioreale e deceduto venerdì scorso, 8 ottobre, al pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli dove è arrivato in condizioni disperate. La notizia della dipartita di Alfieri è stata però data oggi, lunedì 11 ottobre, ben tre giorni dopo il decesso. Sia i familiari che l’avvocato Mottola non ne sapevano nulla. “Venerdì scorso avevo prenotato il colloquio con il mio assistito per oggi alle 13” spiega il legale. “Quando sono arrivato in carcere mi è stata comunicata la notizia del decesso, da tempo chiedevamo il trasferimento in comunità per Alfieri che era gravemente malato”. Al momento la salma del 51enne è stata trasferita presso il Secondo Policlinico Federico II di Napoli dove nelle prossime ore verrà effettuata l’autopsia su disposizione dell’autorità giudiziaria che ha aperto un fascicolo su quanto accaduto. Non è chiaro se Alfieri sia morto per cause naturali o in seguito all’assunzione di medicinali. Il 28 ottobre scorso c’è stata l’ultima udienza del processo che vedeva imputato Alfieri per per porto, detenzione e ricettazione di armi da sparo clandestine con la richiesta del pm che era stata di due anni di reclusione. Lo scorso marzo è stato arrestato dalla polizia a Pianura, periferia occidentale di Napoli, perché trovato in possesso di due pistole, nascoste in uno stereo all’interno di uno scantinato in via Gentileschi. Etichettato come elemento di spicco del gruppo Calone-Esposito, in guerra da mesi contro i Carillo-Perfetto, Alfieri è stato sbattuto in cella nonostante le sue precarie condizioni fisiche. Vedovo da pochi mesi e abbandonato dagli stessi familiari, a seguirlo l’avvocato Mottola. “Non si reggeva in piedi, aveva bisogno di cure specializzate che il carcere non era in grado di fornirgli. Più volte abbiamo fatto istanza di scarcerazione, in accordo con il Ser.d del carcere, puntualmente rigettata dal giudice”, nonostante il parere favorevole anche del pubblico ministero Luciano D’Angelo. L’ultima udienza, quella dello scorso 28 settembre, dieci giorni prima del decesso, è stata raccapricciante. Racconta Mottola: “Gli avevo chiesto di venire in udienza, rassicurandolo. Vedrai - gli dissi - che il giudice questa volta vedendoti capirà che stai male e ti manderà in comunità”. Ma “il giudice mi interrompe dicendo di aver già rigettato la richiesta tre mesi fa. Io ribatto chiedendo di alzare lo sguardo verso il monitor (Alfieri era in videoconferenza, ndr) perché “vedrà con i suoi occhi la sofferenza di un uomo, tossicodipendente, abbandonato dalla famiglia, vedovo da pochi mesi”. Ma niente. Antonio non era degno dello sguardo di chi lo stava giudicando. Poi l’ultimo schiaffo: Antonio viene interrogato per sapere se rinuncia al prosieguo dell’udienza e lui lancia l’ultimo grido di aiuto. “Ho la flebite non riesco a stare in piedi”, ma il giudice taglia corto e accoglie favorevolmente la rinuncia. Mottola ha sentito l’ultima volta Alfieri il 2 ottobre scorso assicurandogli di “stare tranquillo” perché “ricorriamo al Riesame”. Poi l’incontro in programma oggi, alle 13, e la tragica notizia ricevuta dal personale del carcere: “Avvocà ma che tenete un colloquio con un detenuto morto”. Il tutto comunicato quasi 72 ore dopo. Roma. Detenuto invalido muore, la Garante: “Non doveva essere nell’istituto penitenziario” Il Riformista, 12 ottobre 2021 “Non doveva essere portato in carcere. Questo è un altro caso di inadempienza del magistrato”. Commenta così il Garante dei Detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni il caso del 76enne di Pomezia, affetto da gravi patologie e con un’invalidità del 100 per cento, morto all’Ospedale di Roma Sandro Pertini dopo qualche ora di detenzione nel carcere di Regina Coeli. A riportare la vicenda è Il Corriere della Città, che racconta come l’uomo, che soffriva di Alzheimer, demenza cronica, incontinenza urinaria, afasia e disfagia, sia entrato nell’istituto penitenziario nonostante i familiari avessero implorato medici e poliziotti di adottare una misura alternativa. La detenzione - L’uomo, che prima di ammalarsi gravemente faceva il commercialista, è stato giudicato colpevole di falsa fatturazione. Nell’esercizio delle sue funzioni, infatti, aveva posto la sua firma su documenti per quello che si è rivelato un crack finanziario, avente come protagonista un noto costruttore della zona. Ma quanto è accaduto molti anni fa, si è rivelato decisivo e fatale per il 76enne. Il 30 agosto di quest’anno, l’uomo, raggiunto dagli agenti di polizia, riceve un mandato di arresto, per la pena residua di un anno e due mesi di carcere. Da quel momento parte un lungo calvario per la famiglia del 76enne, a cui era stato riconosciuto dall’apposita Commissione ASL un’invalidità del 100 per cento con il sostegno dell’accompagno, ai sensi della legge 104/92. Dopo aver ricevuto la notifica dell’arresto, la figlia dell’uomo ha spiegato la situazione sanitaria del padre agli agenti, mostrando anche una voluminosa documentazione rilasciata dall’ASL di zona per avvalorare la tesi che la detenzione carceraria non è assolutamente compatibile con lo stato di salute del genitore. I controlli in ospedale - Gli agenti, che hanno spiegato alla figlia la necessità di presentare una dichiarazione medica con la quale attestare lo stato di salute dell’uomo, sono stati poi costretti a chiedere l’intervento di un’ambulanza per trasferire l’uomo in un ospedale, dove viene visitato alle 17.00 del 30 agosto. Nell’arco di diverse ore, l’uomo è stato rimbalzato da un nosocomio all’altro per fare i dovuti controlli. Il 76enne, durante i trasferimenti nei diversi ospedali, è sempre stato scortato dai poliziotti e non è mai stato perso di vista da sua figlia, preoccupata e intimorita per il padre, che dalla mattina non aveva né mangiato e bevuto, né seguito le cure necessarie. Solo a fine giornata, alle 23.00 del 30 agosto, la famiglia dell’uomo viene a sapere che il medico di turno ha riconosciuto al 76enne “esito favorevole” per il trasporto in cella: secondo il dottore, lo stato di salute dell’uomo è compatibile con il regime carcerario. E si dimostrano quindi inutili le implorazioni e le preghiere della figlia dell’uomo affinché il medico riveda la sua decisione: il 76ennne viene preso dai poliziotti e trasferito al Commissariato di Ostia per formalizzare la pratica di arresto. La figlia raggiunge il Commissariato, dove riesce a vedere il padre per qualche minuto, prima di salutarlo per quella che sarà l’ultima volta. La donna si raccomanda con tutti di riferire al personale del carcere dei gravi problemi di salute del padre, in particolar modo di evidenziare la patologia della disfagia, per cui non può ingerire cibi solidi. L’arresto e il decesso - Dopo la convalida dell’arresto, l’uomo viene portato nella notte tra il 30 e il 31 agosto in carcere a Regina Coeli. Nella giornata del 1° settembre, attraverso una comunicazione della casa di reclusione Rebibbia, la figlia viene a sapere che il padre ha lasciato il penitenziario ed è stato inviato con urgenza al Pronto Soccorso dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Nell’arco di poche ore, viene ufficializzato il decesso: il 76enne muore la sera del 1° settembre per un intasamento alimentare. L’uomo, infatti, nell’istituto penitenziario avrebbe mangiato cibi solidi, che gli sono risultati fatali. La Procura ha aperto un fascicolo contro ignoti. Il Garante dei Detenuti di Roma Stramaccioni giovedì sarà al Regina Coeli per accertare la causa del decesso e per comprendere come mai il 76enne sia finito in carcere, nonostante la sua invalidità. Brescia. Ci sono 15 milioni per il nuovo carcere, ma sono fermi dal 2014 di Stefano Iannaccone fanpage.it, 12 ottobre 2021 L’ex ministro della Giustizia Orlando aveva stanziato i fondi per l’ampliamento della casa di reclusione di Verziano. Ma in 7 anni non si è mosso nulla. Adesso il governo fa sapere che servirebbe più del triplo delle risorse. Il deputato Bazoli denuncia: “A Brescia resta una struttura inadeguata”. Quindici milioni fermi da sette anni. Fondi stanziati per ampliare il carcere Verziano di Brescia, rendendolo moderno e funzionale, con lo scopo principale di contrastare la piaga sovraffollamento. E invece quei soldi giacciono nel cassetto immobili. Il motivo? Dopo tanto tempo, tra progettazione e valutazioni, ci vorrebbe più del triplo, esattamente 54 milioni in totale, per realizzare l’opera, inclusi i servizi accessori. Così le risorse già stanziate, nella migliore delle ipotesi, potranno essere impiegate per interventi di manutenzione straordinaria. Ma senza incidere sul problema a monte: il sovraffollamento. È una storia di ordinaria burocrazia e di cattiva progettazione quella che arriva dalla città lombarda che racconta cosa non funziona nel sistema della Giustizia con un impatto sulla condizione dei detenuti. Non a caso, nei mesi scorsi, il Consiglio d’Europa ha sottolineato che l’Italia è in vetta alla graduatoria, tutt’altro che lusinghiera, del sovraffollamento nelle carceri. Del resto sulla questione non c’è una politica di investimento. “Nell’ultimo anno il numero delle carceri è rimasto lo stesso, ossia pari a 189”, rileva l’ultimo rapporto di Antigone. E così “la capienza regolamentare è invece scesa da 50.931 posti a 50.551”, mentre “il tasso di sovraffollamento è pari al 106,2%”. E attenzione: il dato, nella realtà, potrebbe essere anche più alto: “I reparti chiusi potrebbero riguardare circa 4 mila posti ulteriori e il tasso effettivo, seppur non ufficiale di affollamento, va a raggiungere il 115%”, si legge ancora nel documento. Le ricadute sono pesanti. Andrea Maestri, ex deputato e avvocato attivo sui diritti umani, spiega a Fanpage.it: “Se la funzione della pena è quella di risocializzare il reo, scontare la pena in condizioni inumane e degradanti sortisce l’effetto opposto, aggravando l’aspetto segregativo, marginalizzante e recidivante”. Maestri indica alcune soluzioni: in primis giuridiche, come “l’allargamento delle misure alternative alla detenzione alla previsione di pene sostitutive delle pene limitative della libertà personale, come i lavori di pubblica utilità”. E allo stesso tempo invita “a ripensare l’edilizia carceraria, prevedendo spazi idonei soprattutto per le attività utili alla rieducazione e riabilitazione del detenuto”. Insomma, un investimento sulle strutture. Il punto è che, anche quando si prova a intervenire, si va incontro a telenovele all’italiana. Lo sintetizza bene il caso di Brescia, appunto. Nel 2014, l’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando, decise di stanziare 15 milioni per costruire un nuovo padiglione nel carcere di Verziano. Una scelta dettata dalla consapevolezza che l’altra casa circondariale, il Canton Mombello, fosse inadeguata, prima di tutto presenta un pesante quadro di sovraffollamento pari al 202%. E, come se non bastasse, ci sono problemi strutturali: il carcere è stato progettato alla fine dell’Ottocento e inaugurato nel 1914, peraltro in un’area centrale di Brescia. L’obiettivo sarebbe quello di dismetterlo in via definitiva, visto che qualsiasi progetto di ristrutturazione diventa impensabile su un edificio datato. Per questo motivo si è pensato al potenziamento di Verziano, che ha una capienza massima di 71 persone, mentre oggi al suo interno ci sono 88 detenuti. Il risultato è un tasso di affollamento del 132%. Ecco, quindi, che Orlando aveva previsto un finanziamento di 15 milioni e 500mila euro. Una somma che dal 2014 è ferma. Spiega il deputato del Partito democratico, Alfredo Bazoli: “Unitamente all’ampliamento della struttura carceraria fino a 400 posti, gli interventi avrebbero dovuto riguardare anche la realizzazione di una nuova casermetta per gli agenti, e l’ampliamento dei servizi connessi al funzionamento della struttura, come nuove centrali tecnologiche, nuovi spazi per magistrati, pubblico, avvocati, organismi accreditati a svolgere attività interne”. Un obiettivo ampio. Perciò “nel 2016, il Dipartimento amministrazione penitenziaria ha inviato al Provveditorato opere pubbliche Lombardia la documentazione relativa alla nuova aggiornata distribuzione degli spazi”, si legge in un’interrogazione depositata alla Camera dal parlamentare dem. L’idea iniziale era di avviare i primi lavori già alla fine della scorsa legislatura, entro il 2017 e terminare l’intervento in un paio di anni. La storia è andata in maniera diversa e per questo Bazoli ha chiesto un chiarimento al governo in carica che ha ereditato la situazione. Il sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha dovuto ammettere: “Il quadro economico di spesa del progetto di fattibilità tecnico economica comporta una spesa complessiva di euro 54 milioni di euro, di cui euro 42 per lavori e 12 milioni per le somme a disposizione (spese tecniche, allacciamenti, imprevisti, ndr)”. Insomma, serve una cifra tre volte superiore ai 15 milioni previsti. “Il finanziamento non permette quindi la realizzazione dell’intera opera”, ha candidamente riferito Sisto. Perciò le risorse a disposizione saranno dirottate su lavori a strutture di “supporto funzionali e impiantistiche”, nell’attesa di un ipotetico nuovo stanziamento che non si scorge all’orizzonte. Una promessa, al momento indistinta, di poter attingere da qualche capitolo di spesa a disposizione. “Auspico che tutte le forze presenti in Parlamento convergano sull’impegno di reperire nuove risorse”, dice Bazoli a Fanpage.it. “Intanto - aggiunge - ci scontriamo con la burocrazia che non ha consentito in sette anni di spendere i fondi già stanziati. E resta il fatto che il carcere di Brescia continuerà a essere inadeguato”. Una perfetta sintesi della situazione in Italia. Milano. Una cena per finanziare il progetto di solidarietà “Rescue” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 ottobre 2021 Una cena per gettare un ponte di solidarietà sociale e materiale con l’umanità che vive l’esperienza del carcere e di altre misure restrittive. Parliamo di una iniziativa di Sesta Opera San Fedele, associazione di volontariato per l’assistenza penitenziaria e post- penitenziaria, che fa riferimento ai Padri Gesuiti di Milano, intende così promuovere una raccolta di fondi a sostegno di interventi di reinserimento sociale. L’appuntamento è per venerdì prossimo 15 ottobre a partire dalle 19.30 fino alle 23 per una serata conviviale all’aperto negli spazi messi a disposizione dalla Cooperativa Antonio Labriola Scarl, via Falck 51, periferia nord di Milano, agevolmente raggiungibile in auto o con i mezzi pubblici (M1, San Leonardo). I fondi raccolti finanzieranno “Rescue”, provocatorio titolo del progetto che vuole sperimentare un percorso di ecologia integrale con i detenuti del carcere di Bollate, con il finanziamento di Regione Lombardia. Con la cena di solidarietà Sesta Opera vuole, in questi inizi di autunno, riaprire, grazie anche alla collaborazione della Coop Bonola - una nuova stagione di incontri e di interventi per sostenere l’inclusione, la valorizzazione delle differenze e fornire a chi sconta la pena strumenti per affrontare l’attuale società: valori che accomunano l’Associazione, Coop e la Cooperativa Antonio Labriola Scarl. Tra gli impegni principali di Sesta Opera, rientrano quelli di accompagnare la persona durante il periodo detentivo e dopo, nella delicata fase di reinserimento nella società. In Lombardia si contano circa 20 mila persone tra detenuti e soggetti a provvedimenti cautelari e la filosofia dell’associazione, sottolinea il presidente Guido Chiaretti, “è lavorare su questa popolazione “scartata” dalla società perché non sia essa stessa causa dello scarto di beni essenziali per la dignità delle persone e per una convivenza civile di quelle comunità. Occorre sensibilizzare sui temi di una economia circolare e sostenibile e sul senso di responsabilità perché questi soggetti possano diventare essi stessi attori del cambiamento nelle loro comunità”. A conclusione dell’incontro verrà anche lanciata una campagna di crowdfunding, nata in collaborazione con l’Università Luigi Bocconi e Citi Foundation, per finanziare anche il progetto P.I.A. (povertà, inclusione, ambiente) finanziato dal Ministero del Lavoro. A questo scopo l’Associazione ha coinvolto due volontarie e un coordinatore, perché lavorassero in modo sinergico con il gruppo di lavoro dell’università, composto da una professoressa e quattro studenti. La campagna è stata costruita sia con lo studio del materiale ufficiale del progetto, sia ascoltando le testimonianze delle persone accompagnate nel percorso di reinserimento sociale e attraverso un focus group con volontari rappresentanti di tutte le attività dell’associazione. Pontremoli (Ms). Le ragazze dell’IPM di a teatro con uno spettacolo itinerante di Catia Paluzzi gnewsonline.it, 12 ottobre 2021 Le detenute dell’Istituto penale per i minorenni in scena dal 13 al 17 ottobre con lo spettacolo teatrale “La scandalosa gratuità del perdono”. Itinerante con la regia di Paolo Billi e con l’aiuto alla regia di Elvio Pereira De Assunçao e le cure di Francesca Dirani, sarà messo in scena in quattro tappe nelle chiese di Pontremoli: San Geminiano, San Niccolò, Santa Cristina e l’Oratorio Nostra Donna. Ispirato a una libera lettura della parabola del “Figliol prodigo”, in particolare della riscrittura effettuata da André Gide, lo spettacolo affronta il tema del perdono raccontato da un credente, da un laico e da un agnostico. Lo spettacolo conclude un lavoro collettivo di scrittura avviato dal Teatro del Pratello, che ha visto la partecipazione degli studenti del I.S. Pacinotti-Belmesseri, le ragazze dell’Istituto penale minorile di Pontremoli e di alcuni abitanti della città, che insieme a Paolo Billi hanno contribuito alla stesura del testo teatrale. Gli oggetti di scena sono stati realizzati dalle ragazze dell’istituto, nell’ambito del laboratorio diretto da Ivana Parisi dell’Associazione Poltrona Rossa, e sotto la guida di Irene Ferrari del Teatro Pratello, hanno provveduto a decorare anche le scenografie. Il progetto è stato realizzato grazie alla sinergia tra Istituto penale per i minorenni di Pontremoli, Regione Toscana e Comune di Pontremoli e il sostegno dei Fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese e di CIO cuore, l’ospitalità e la collaborazione di Don Pietro Pratolongo e di Padre Dario Ravera, parroci delle Chiese coinvolte. Sarà possibile partecipare agli spettacoli teatrali prenotando all’email cg.pontremoli@gmail.com o contattando il numero 3331679211. Piacenza. “Donatori di Musica”, il jazz torna a suonare in carcere piacenzasera.it, 12 ottobre 2021 Coerentemente con la propria mission di far risuonare la musica in ogni angolo della città per portarla anche a coloro che altrimenti non avrebbero l’occasione e il modo per goderne, il Piacenza Jazz Fest ancora una volta organizza un concerto dentro le mura del carcere cittadino. Dopo che l’anno scorso non era stato possibile a causa delle norme dettate dall’emergenza pandemica, l’iniziativa è tornata a svolgersi grazie alla disponibilità dell’autorità carceraria, in particolare della direttrice Maria Gabriella Lusi, e con l’aiuto e il coordinamento dell’Associazione di volontari “Oltre il muro” che lavora da anni all’interno del carcere. A girare per i corridoi e i reparti è stata una marchin’ band in puro stile New Orleans che ha portato calore e un po’ di allegria tra le mura dell’istituto di detenzione piacentino. Ad accogliere i musicisti, la direttrice stessa, ispettori, animatori e i detenuti dei vari reparti, interessati ed emozionati, che hanno dimostrato non solo di attendere, ma anche di apprezzare l’occasione di svago che gli è stata donata. E “Donatori di Musica” è proprio il nome che è stato dato è tutte le iniziative del Jazz Fest che si prefiggono di portare la musica nei luoghi di cura, di recupero e di volontariato. Al termine della mattinata, interamente dedicata alla musica, i musicisti sono stati ospitati per un ristoro, durante il quale si è confermato il reciproco impegno a ripetere l’iniziativa anche in futuro. Così la Direttrice Maria Gabiella Lusi: “Abbiamo ricevuto un vero dono: la musica della marchin’ band del Piacenza Jazz Fest ha raggiunto quest’anno l’intera comunità penitenziaria, personale e detenuti, attraverso una manifestazione itinerante, pur nel rispetto delle misure anti-contagio Covid. La nostra gratitudine - continua la Direttrice - è ampia per un’iniziativa che testimonia concreto interesse per la nostra realtà alla quale il festival jazz cittadino ha ancora una volta rivolto uno sguardo sensibile e attento, portando benessere ed arte attraverso “incursioni” nelle sezioni detentive che hanno regalato il sorriso sui volti dei più. Nobile esempio di partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa del carcere”. Una vita “incorreggibile”. Storia di un detenuto di Chiara Marsilli Corriere dell’Alto Adige, 12 ottobre 2021 Il film dedicato a Alberto Maron, 50 anni trascorsi in carcere. Il regista trentino: “Volevo rendere la storia archetipica, distante dalla cronaca”. Cinquanta anni di detenzione, di cui gli ultimi tredici senza vedere il mondo esterno. Tanto è durata la pena di Alberto Maron, che ora dopo aver pagato il suo debito con la giustizia viene restituito alla società e deve confrontarsi con un mondo che non conosce e che non lo vuole. È questa la storia, tanto più incredibile perché vera, raccontata dal regista trentino Mauro Coser nel suo ultimo documentario: “L’incorreggibile”. Dopo l’anteprima al SalinaDocFest, e forte della vittoria al Premio Solinas per il Documentario ottenuta nel 2016, la pellicola approda nei cinema a partire dal 15 ottobre, distribuito da OpenDDB, e sarà protagonista di una serata di presentazione in anteprima proprio a Trento giovedì 14. La storia è quella vera di Alberto Maron - solo uno delle migliaia di detenuti e detenute che affollano le carceri italiane - classificato “socialmente pericoloso”, che ritorna alla libertà come un uomo solo, strappato al suo universo noto in cui ha vissuto la maggior parte dell’esistenza, che cerca di tornare al mondo “normale”. La pellicola apre a un importante interrogativo: davvero un detenuto può dirsi, come recita il titolo del documentario, “incorreggibile” tutta la vita? E la natura delle carceri italiane quanto corrisponde a quell’ideale di rieducazione e riabilitazione alla vita sociale nella legalità? “Ho scelto di non raccontare il motivo per cui Alberto è stato condannato - spiega il regista. L’obiettivo infatti non è alimentare il meccanismo istintivo di curiosità, ma rendere la storia di Alberto un qualcosa di archetipico, distante dal dato di cronaca”. La relazione tra regista e detenuto, nata per caso durante alcune visite professionali di Coser nel carcere di Saluzzo (Cuneo), si è trasformata in un documentario che gioca sull’autorappresentazione, girato interamente in bianco e nero. “Il film racconta il momento di passaggio tra gli ultimi mesi di detenzione, caratterizzati dal lavoro in Comune e dal ritorno in carcere la notte, e i primi otto mesi di vita libera, prima ospite da un parroco e poi in una casa messa a disposizione da un’associazione cattolica - riassume Coser -. L’obiettivo è quello di comporre un’immagine di Alberto che vada al di là degli stereotipi del detenuto, per conoscerne la condizione di “imprigionato” attraverso la sua realtà attuale e comune”. Una storia fuori dai canoni ordinari, perché straordinaria, e non in positivo, è la biografia del protagonista, che però non indugia mai né nel voyeurismo né nella mitizzazione di un uomo che ha commesso azioni da condannare. Qual è il destino finale di Alberto? Il regista non lo dice, deciso a lasciare il dato biografico puro al di fuori della narrazione filmica. “Né eroe né antieroe: la vicenda di Alberto è esemplare ma viene raccontata senza retorica - commenta chiaramente Coser -. A essere incorreggibile è lui, in certe sue modalità d’azione, ma anche il sistema nel quale è inserito. Il sistema penitenziario italiano ha l’80% di tasso di recidive, il più alto d’Europa: il carcere peggiora le condizioni di partenza dei condannati e non rispetta il mandato rieducativo dettato dalla Costituzione”. Giovedì 14 alle 21 gli spazi del Cinema Astra di Trento, prossimo alla chiusura ma fino all’ultimo spazio di eventi di rilievo, accoglieranno una serata speciale per parlare di cinema e di diritti delle persone detenute. Alla proiezione interverranno il regista Manuel Coser, il produttore del film Roberto Cavallini, la professoressa Antonia Menghini, Garante dei diritti dei detenuti della Provincia Autonoma di Trento, e il critico cinematografico Matteo Zadra, che modererà l’incontro al termine della proiezione. “Ariaferma”, Servillo-Orlando sfida tra le sbarre di Francesco Gallo ansa.it, 12 ottobre 2021 Regia Di Costanzo, in sala dal 14 film sul microcosmo carcere. “Ariaferma” di Leonardo Di Costanzo, al cinema dal 14 ottobre distribuito da Vision tra i film più belli visti a Venezia 2021 al tema forte delle carceri, unisce un duetto attoriale, fatto più di silenzi che di parole, di grandissimo livello. A misurarsi, sono un Toni Servillo, felicemente contenuto dal regista, e un inedito Silvio Orlando credibile come villain, un galeotto senza muscoli, ma di rispetto. Ci troviamo in un vecchio carcere ottocentesco, una piccola struttura fatiscente dove, per problemi burocratici, i trasferimenti si bloccano e così una dozzina di detenuti si ritrova in attesa di nuove destinazioni. E tutto questo con pochi agenti a fare la guardia. Una situazione anomala, un microcosmo nel microcosmo, che improvvisamente cambia i rapporti tra detenuti e guardie carcerarie. Al centro di questa piccola rivoluzione i due leader dell’una e dell’altra parte: Gaetano Gargiulo (Servillo), un capo delle guardie apparentemente tutto di un pezzo, e Carmine Lagioia (Orlando). Tra di loro c’è una iniziale legittima diffidenza, nessuno vuole abdicare al suo ruolo, ma le circostanze e la solidarietà verso il fragile novizio Fantaccini (Pietro Giuliano) li porta a un sottile avvicinamento. Che la diga tra di loro, entrambi uomini di silenzio, si stia lentamente sfaldando arriva prima con una cucina da condividere e poi quando un guasto elettrico mette tutto il carcere al buio. Li si faranno in breve tempo delle scelte e ci saranno i primi segni di una vera convivenza. “Certo tra i due c’è imbarazzo in molte conversazioni e su certe scene importanti abbiamo ragionato molto con il regista e Silvio Orlando - spiega Servill-. Tutto era delicato da fare, ma devo dire che l’aver come introiettato la divisa e questo mi ha aiutato a rappresentare certe rigidità. In questi casi basta anche solo un gesto per far traballare tutto”. Dice invece Orlando: “Bisogna rischiare nel nostro lavoro e bisogna affrontarlo. Se ad esempio avessi dovuto considerare la mia attitudine bonaria mi sarei tirato indietro da questo ruolo”. Servillo fa poi notare come l’Italia ha il primato delle galere piu’ affollate d’Europa, mentre Orlando sostiene che il cosiddetto ‘film civile’ e’ qualcosa che andrebbe piu’ praticato. “Il carcere di Mortana nella realta’ non esiste - spiega il regista che ha fatto questo film anche con molti attori non professionisti ex detenuti: e’ un luogo immaginario, costruito dopo aver visitato molte carceri. Quasi ovunque abbiamo trovato grande disponibilita’ a parlare, a raccontarsi; e’ capitato che gli incontri coinvolgessero insieme agenti, direzione e qualche detenuto. Allora era facile che si creasse uno strano clima di convivialita’, facevano quasi a gara nel raccontare storie. Si rideva anche. Poi, quando il convivio finiva - continua Di Costanzo - tutti rientravano nei loro ruoli e gli uomini in divisa, chiavi in mano, riaccompagnavano nelle celle gli altri, i detenuti. Di fronte a questo drastico ritorno alla realta’, noi esterni avvertivamo spaesamento. E proprio questo senso di spaesamento ha guidato la realizzazione del film: Ariaferma non e’ un film sulle condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdita’ del carcere”. Gli strani effetti della paura di Dacia Maraini Corriere della Sera, 12 ottobre 2021 C’è da chiedersi da dove provenga questa improvvisa, cieca e irragionevole paura di una prevenzione medica che, in Paesi dove non è disponibile, viene invocata come un diritto assoluto, da cui dipende la vita e la morte dei propri cittadini. Brutta cosa quando un fatto sanitario si trasforma in un grimaldello politico per aprire con violenza le porte del consenso più viscerale e irruento. Per chi crede nella ragione e ha fiducia nella scienza, l’atteggiamento di molti antivaccinisti appare incomprensibile. Come non ricordare le tante malattie che sono state debellate proprio con i vaccini? Come non riflettere sul fatto che da decenni, i bambini, per andare a scuola debbono avere fatto almeno cinque vaccini e nessuno ha mai protestato? E che dire delle statistiche dolorose che raccontano dei malati in terapia intensiva e dei morti, che oggi sono al 90 per cento non vaccinati? È chiaro che ogni farmaco può avere effetti nocivi. Perfino la semplice aspirina può procurare emorragie interne. Basta leggere il foglietto illustrativo per capire quanti effetti negativi possono procurare le medicine. Eppure, ci riempiamo con disinvoltura di antibiotici, di antibatterici, di cortisonici, ecc. C’è da chiedersi da dove provenga questa improvvisa, cieca e irragionevole paura di una prevenzione medica che, in Paesi dove non è disponibile, viene invocata come un diritto assoluto, da cui dipende la vita e la morte dei propri cittadini. Come mai dietro le parole di virologi e medici esperti che hanno dedicato la vita allo studio, si vogliono vedere inganno, menzogna, volontà di uccidere? Certo, la paura tende a offuscare la ragione. Per esempio, c’è chi non viaggia perché ha terrore dell’aereo, pur sapendo che è molto più sicuro dell’automobile. Lo dicono le statistiche, ma quando si comincia a dubitare delle statistiche, si dubita anche della scienza e si perdono i rapporti con la realtà. Da dubbio in dubbio si arriva a sostenere che la terra sia piatta come una tavola e l’universo sia fatto di stelle e lune unidimensionali che si accumulano nel vuoto come le stoviglie su una mensola. Non c’è logica che possa fare breccia in un cervello innamorato della paura. Sì, perché a volte, e non parlo di coloro che la usano come un’arma politica, le persone ansiose si innamorano della paura, perché è comunque una emozione ed essendosi addormentate in una specie di sonno del benessere, avvertono lo spavento come una frustata di vita. Lavoro, scuola, Rsa: così la pandemia ha ristretto i diritti di Luigi Manconi La Repubblica, 12 ottobre 2021 Dall’ambiente al sovraffollamento nelle carceri dalla lotta per la casa alle disabilità, sono diciotto i capitoli che raccontano le libertà limitate, lese, negate dal Covid. Con questo dossier vogliamo anticipare il Rapporto di “A buon diritto onlus” che verrà presentato domani. Dal Rapporto sullo stato dei diritti, curato da Valentina Calderone e Angela Condello per A Buon Diritto Onlus, emerge un dato inequivocabile: le diverse famiglie di diritti (individuali e collettivi, soggettivi e sociali, di prima generazione, come la libertà di parola, o di ultima, come la privacy) sono strettamente connesse e interdipendenti tra loro. Dunque, risulta messo in discussione uno stereotipo assai diffuso, così riassumibile: la cura per le libertà individuali porterebbe, fatalmente, al ridimensionamento dei diritti di natura economico-materiale, quelli correlati ai bisogni primari. Quasi che quello della cittadinanza fosse un sistema a numero chiuso, dove l’inclusione di una domanda (di lavoro, per esempio) determinerebbe inevitabilmente la compressione di un’altra (che so?, il riconoscimento dei differenti orientamenti sessuali). Il rischio è una concezione classista e fin sottilmente razzistica: come se, cioè, i diritti individuali e quelli civili fossero un “bene di lusso”. E appartenessero alla sfera del superfluo, mentre agli strati meno abbienti si dovrebbero riconoscere esclusivamente i diritti di prima necessità, quelli indispensabili alla mera sopravvivenza. Ne consegue che l’interesse del cassintegrato dovrebbe limitarsi ai diritti davvero essenziali - il reddito, il lavoro - e non dovrebbe riguardare quelli immateriali, e pure concretissimi, come la felicità sentimentale, la genitorialità, l’autodeterminazione su di sé e sul proprio corpo. Il Rapporto sullo stato dei diritti ci parla, piuttosto, di un generale deficit di garanzie in tutti i campi, ma segnala anche un filo sottile, eppure robusto, che tiene insieme i diversi ambiti dell’esistenza. Una maggiore protezione delle tutele sociali e dei diritti collettivi - come nel caso delle persone con disabilità - non solo non ostacola, ma rafforza il riconoscimento dei diritti soggettivi e le istanze di autonomia individuale. Una cultura di sinistra dovrebbe saperlo e tradurlo in politica. Migranti. Quei 180mila irregolari in attesa del permesso - Natalija ha 53 anni, è arrivata in Italia dall’Ucraina vent’anni fa. Ha perso cinque anni fa il lavoro come colf e così il permesso di soggiorno, fino allo scorso anno quando una persona ha deciso di assumerla per toglierla dall’irregolarità. Da quel giorno Natalija sta aspettando ancora di essere convocata in Prefettura per ottenere il suo permesso. Come lei, racconta il Rapporto sui Diritti ai tempi della pandemia redatto da A buon diritto, ci sono altre 180 mila persone in attesa: su 230 mila domande di regolarizzazione presentate in un anno i permessi rilasciati dal ministero dell’Interno sono stati 60 mila, il 26%. Il Covid è diventato un problema due volte: ha rallentato a lumaca la burocrazia proprio mentre gli “irregolari” in attesa di un permesso non riuscivano a iscriversi al sistema sanitario e dunque a vaccinarsi, curarsi, ottenere il Green Pass. Lavoro. Aumentano i nuovi poveri: più 12,7% in fila alla Caritas - Eccoli, i “nuovissimi poveri”. “Sono apparse all’improvviso fasce sociali di povertà mai conosciute. Categorie lavorative salde fino a pochi mesi fa, oggi si ritrovano a far parte del gran numero dei disoccupati, di coloro ai quali non sono stati rinnovati i contratti o che attendevano impieghi temporanei che non ci sono stati”. Lo racconta la Caritas di Trieste, una delle tante sedi della Rete che nel lockdown del 2020 ha registrato un aumento del 105% di nuovi assistiti, con picchi del 153% al Sud. Nella fase successiva della pandemia i numeri si sono assottigliati fino a un +12,7% di persone in fila. Lo stesso era successo dopo la crisi economica del 2008, ma nell’Italia del pre-pandemia il numero di poveri assoluti era più che doppio rispetto al 2007. “L’orizzonte di povertà - scrive A Buon diritto - è segnato da previsioni più che pessimistiche se non si invertirà la rotta”. Luoghi di cura. Oltre mille in soli tre mesi gli anziani legati ai letti - Le Rsa non sono state solo l’epicentro dei focolai e della strage di anziani. Ma anche i luoghi della reclusione, proprio per contenere il contagio. I racconti degli operatori sociali restituiscono la condizione in cui si sono trovati medici, operatori, pazienti che vivono l’universo della sofferenza psichica con la chiusura dei centri diurni, la sospensione delle attività di gruppo, l’annullamento delle visite. Secondo A Buon diritto “l’intervento di cura si è trasformato nella costruzione di scatole”. Scatole per di più chiuse in cui, in situazioni estreme, si fa ancora ricorso alla contenzione, legando i pazienti ai letti. L’Iss ha monitorato 16.802 contenzioni segnalate in soli tre mesi del 2020 da 1244 strutture. Il 25 giugno di quest’anno è arrivato l’intervento di Roberto Speranza: entro il 2023, si legge nel documento del ministero della Salute, la contenzione meccanica dovrà essere superata. Infanzia. Crescono fino al 40% le richieste di aiuto - Non solo Dad, la pandemia ha portato con sé una compressione dei diritti dei minori, per chi una casa e una famiglia la ha e per chi la aspetta. Già il 1 aprile 2020 la Rete europea dei garanti per l’infanzia e l’adolescenza avvertiva dei rischi di aumento della violenza domestica nei confronti dei bambini come vittime e come spettatori. Nelle settimane successive il Telefono Azzurro registrava un drastico aumento delle chiamate di aiuto: il 30-40% in più rispetto alla media pre-Covid. Ma il 2020 è stato l’anno in cui molti percorsi di adozione hanno dovuto subire rallentamenti se non proprio battute d’arresto. I rapporti semestrali della Commissione adozioni internazionali parlano di 526 adozioni al 31 dicembre 2020, a fronte delle 969 dell’anno precedente. Con il venir meno dei divieti i percorsi adottivi sono ripresi ma restano le difficoltà del sistema italiano: tempi lunghi e costi elevati Istruzione. Sei ragazzi su dieci senza computer per la Dad - La scuola è giunta impreparata alla crisi sul fronte del digital divide. E ad essere penalizzati sono stati gli studenti socialmente ed economicamente più deboli. Nell’indagine condotta dall’istituto Demopolis, spiega il report, il 72% del campione afferma che le disuguaglianze fra minori sono cresciute nell’ultimo anno. La prima analisi delle conseguenze della Dad è emersa da una ricerca Invalsi: “Per più di 6 bambini su 10 le lezioni da remoto sono state una prova proibitiva, solo il 36% era in condizioni “accettabili” per affrontarle. Alle superiori si sale al 66%”. Una percentuale che riscende sotto al 50% in presenza di genitori che hanno la licenza elementare. E nel lockdown uno studente con disabilità su 4 non ha preso parte alle lezioni; al Sud uno su tre. Save the Children racconta pure che più di un ragazzo su 4 afferma che un compagno di classe ha smesso di frequentare le lezioni. Violenza. Il 45% degli omicidi sono femminicidi - Più violenze e meno lavoro: le donne hanno pagato più degli uomini la pandemia. Secondo il rapporto Istat 2020, si è verificata un’impennata delle chiamate al numero antiviolenza 1522 e anche davanti al calare degli omicidi, in percentuale i femminicidi sono aumentati (dal 35% al 45%). Mentre i numeri della cronaca nera salgono, quelli del lavoro calano: poco più della metà di donne sono occupate, lavorano meno ore rispetto agli uomini e non per scelta, hanno carriere più brevi e discontinue e promozioni con più difficoltà. La retribuzione oraria mediana di una lavoratrice è il 7,4% più bassa di quella di un lavoratore. Eppure risultavano più esposte al contagio da Covid per via della preponderante presenza tra le professioni socio-sanitarie, di cura o di insegnamento: il 22,4% a rischio elevato e il 21,6% a rischio molto elevato (rispetto all’11,3% e al 5,1% dei lavoratori). Ainis: “Sciogliere Forza Nuova? Potrebbe non essere saggio…” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 12 ottobre 2021 Intervista al costituzionalista Michele Ainis sugli scontri di sabato scorso a Roma: “La tolleranza è più lungimirante delle manette” Professor Ainis, che idea si è fatto sull’ipotesi di scioglimento di Forza Nuova? Penso che lo scioglimento di un partito politico sia una misura estrema che tuttavia il nostro ordinamento permette di compiere. Abbiamo la famosa dodicesima disposizione finale della Costituzione che vieta la ricostituzione del partito fascista. Fu introdotto questo divieto per il partito fascista e non per quello comunista, nonostante gli orrori dei gulag e di Pol Pot, perché la memoria dei costituenti era incisa dal ventennio e quindi volevano evitare che “il morto afferrasse il vivo”. Qualcosa di analogo al divieto di restaurare la monarchia in Italia, come spiega l’articolo 139. In che modo la legge Scelba ha modificato quella disposizione? Queste norme vanno ambientate nella storia di cui sono figlie, che è la nostra storia. La legge Scelba, che è del 1952, interpreta in un modo piuttosto estensivo la dodicesima disposizione finale, per esempio prevedendo il reato di apologia di fascismo. La Corte costituzionale, in una sentenza del 1957, ha inoltre specificato che non è di per sé un reato l’apprezzamento del fascismo ma non si può tendere a ricostituire il partito fascista. Insomma, non si può tornare indietro. Già negli anni ‘70 furono sciolti due partiti fascisti, cosa è cambiato da allora? Nel 1973 fu sciolto “Ordine nuovo” e nel 1976 “Avanguardia nazionale”, ma è significativo che mai nessuno pensò di sciogliere il Movimento sociale italiano, che pure era composto da reduci di Salò e da persone che erano state protagoniste del ventennio fascista. Con il senno di poi questo ha permesso la maturazione e la transizione di quella destra a una destra moderna, cioè quella di Fini e di Alleanza nazionale. Ma ricordo anche che sempre in quegli anni non venne sciolta “Fascismo e Libertà”, la formazione politica di Giorgio Pisanò che si candidò alle elezioni con un fascio littorio e non gli venne impedito. Penso che sia stato saggio fare un ricorso molto parco di questa misura che l’ordinamento prevede ormai da settant’anni. Sarebbe altrettanto saggio secondo lei sciogliere Forza nuova oggi? Penso che il vero discrimine della violenza sia l’atto violento, non tanto le parole. La responsabilità penale è personale e quindi i singoli che si sono resi responsabili di atti violenti in questi giorni andrebbero certamente presi e portati a processo. Ma non so quanto sia saggio sciogliere Forza nuova, potrebbe persino essere controproducente determinando una sindrome da perseguitato nel persecutore. Cosa servirebbe per scioglierla? Per sciogliere un partito neofascista ci vuole, secondo la legge Scelba, una sentenza della magistratura. Poi nel 1957 un emendamento dispose che può farlo il governo con un decreto legge, quindi in un caso straordinario di necessità e urgenza. Non crede ci sia l’urgenza necessaria a tale atto? Cosa è urgente e cosa no è una decisone politica, anzi forse è la più politica delle decisioni. Di decreti legge se ne fanno ormai quattro al mese e ho i miei dubbi sul fatto che siano tutti urgenti. Lo scioglimento di queste organizzazioni fasciste, post fasciste o para fasciste è una decisione politica. Ricordo anche che nel caso in cui intervenga una sentenza del giudice poi il governo deve comunque intervenire, non è il giudice che scioglie il partito. Il fatto che Fratelli d’Italia sia l’unico partito all’opposizione potrebbe spingere il governo a desistere dalla decisione? Credo di sì, perché potrebbe sembrare un accanirsi contro l’opposizione che in una democrazia è più importante della maggioranza. Fratelli d’Italia è l’unico partito all’opposizione ed è il meno lontano da queste organizzazioni. Anche chi dice che con il vaccino iniettano veleno, che lo dica pure. Così come chi dice che quando c’era Mussolini i treni viaggiavano in orario o che è bene distinguere a seconda del colore della pelle. Non ho paura delle parole razziste, ma del conformismo di massa che anestetizza il pensiero. Cosa servirebbe dunque per mettere un freno a episodi come quello di sabato a Roma? John Stuart Mill diceva che si impara di più dalla rappresentazione dell’errore che da un buon sermone. Questo richiede una fiducia nell’uomo e nella capacità pensante della società, che purtroppo oggi è sempre più difficile da ottenere perché siamo ubriacati dalle parole in libertà dei social. Per quanto possibile penso che la leva censoria vada evitata. È normale che in Italia un gruppo di facinorosi assalti la sede del sindacato più grande del paese senza che ci sia un’adeguata difesa da parte delle forze dell’ordine? Certamente non è stata una dimostrazione di efficienza. Quello che si deve dire è che c’è un problema sociale in Italia. Ci sono diversi milioni di italiani che non vogliono vaccinarsi e non penso che i diecimila di piazza del Popolo fossero tutti fascisti o nazisti. Con l’introduzione dell’obbligo vaccinale questi disordini probabilmente verrebbero moltiplicati, aldilà di Forza Nuova che li strumentalizza. La tolleranza è insomma più lungimirante delle manette. Poi certamente a volte le misure estreme servono. “I Care”. In marcia per una società della cura di Mario Di Vito Il Manifesto, 12 ottobre 2021 PerugiAssisi. Tra i volti, oltre alla presenza istituzionale del sindaco di Perugia Andrea Romizi e della governatrice umbra Donatella Tesei, da segnalare Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace condannato la settimana scorsa a tredici anni per aver cercato di offrire ai migranti un futuro migliore. Il cielo incerto e il primo vero freddo della stagione non fanno troppa paura. In ventimila, da tutta l’Italia, hanno percorso i 24 chilometri che separano Perugia da Assisi per la sessantesima edizione della Marcia per la Pace. In testa lo striscione con scritto “I care”, con un occhio alla pandemia e un altro alla volontà esplicita dei partecipanti di prendersi cura del mondo. “C’è bisogno della cultura della responsabilità e della cura reciproca - scandiscono gli organizzatori -, cura delle giovani generazioni, della scuola, dell’educazione, degli altri, del pianeta, dei bene comuni, della comunità e delle città”. Un impegno che non riguarda soltanto quest’annata, ma che, nelle intenzioni, dovrà segnare tutto il prossimo decennio: “Cura è il nuovo nome della pace”, come da frase di don Lorenzo Milani. Un messaggio ribadito anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha inviato un messaggio ai manifestanti: “I valori che ispirano e la partecipazione che continua a suscitare la Marcia sono risorse preziose in questo nostro tempo di cambiamenti, ma anche di responsabilità. Questa edizione si svolge a sessanta anni dalla prima marcia promossa da Aldo Capitini, quell’originaria, esigente aspirazione alla pace e alla non violenza ha messo radici profonde nella coscienza e nella cultura delle nostre comunità. La pace non soltanto è possibile. Ma è un dovere per tutti”. Tra i volti, oltre alla presenza istituzionale del sindaco di Perugia Andrea Romizi e della governatrice umbra Donatella Tesei, da segnalare Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace condannato la settimana scorsa a tredici anni per aver cercato di offrire ai migranti un futuro migliore e un’accoglienza degna in questo paese. “Sono qui - spiega un Lucano visibilmente provato dagli eventi - perché non ho altri riferimenti per trovare entusiasmo e continuare. Non mi importa, alla fine penso che è quasi naturale pagare gli effetti collaterali di quello che ho fatto, senza dire luoghi comuni o costruire alibi. Quando ho cominciato ad interessarmi alle politiche di accoglienza è stato per una casualità e mai avrei immaginato che la normalità sarebbe diventata un fatto così eclatante. Per me, non ci può essere pace senza diritti umani, senza uguaglianza e senza rispetto della vita. La Marcia della pace significa trovare la pace”. Applausi di tutto il corteo per lo striscione della Cgil, in solidarietà per il terrificante assalto subito ieri da parte di un gruppo di militanti fascisti in libera uscita per le strade di Roma durante la manifestazione dei “no green pass”. I militanti del sindacato hanno anche apprezzato le non scontate parole di vicinanza espresse dal palco da Romizi e Tesei, esponenti della destra umbra. Il sindaco di Perugia ha anche voluto esprimere “un pensiero affettuoso all’imam Abdel Qader, nostro concittadino e amico, uomo di pace e di dialogo che saliva sempre con noi su questo palco e che oggi non c’è più a causa delle conseguenze del Covid”. Tra il folto gruppo di stendardi istituzionali, si fa notare la sindaca di Assisi Stefania Proietti. “Siamo in migliaia a gridare basta alla violenza e all’indifferenza - dice -, oggi più di ieri è urgente non solo invocare la pace ma anche farla con azione concrete. Oggi più di ieri bisogna prendersi cura degli altri e mettere al centro la vita, la persona, la dignità”. Nella folla in marcia si vedono padre Alex Zanotelli, don Luigi Ciotti, Cecilia Strada, Aboubakar Soumahoro, la moglie dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio ucciso lo scorso febbraio in Congo Zadia Seddiki, i genitori del reporter Andy Rocchelli Elisa e Rino Signori. Il resto è militanza diffusa, cattolici di base, striscioni, bandiere, migliaia di persone partite da ogni angolo d’Italia per poter dire di esserci, per affermare di combattere ogni giorno per la pace, l’uguaglianza e la solidarietà. Per cercare di fare del mondo un posto migliore. Se il sovranismo torna a covare nell’est Europa di Lucio Caracciolo La Stampa, 12 ottobre 2021 La divisione fra Europa occidentale ed Europa orientale è ancora con noi. Semmai si accentua. Chi immaginava che l’apertura della cortina di ferro comportasse l’unificazione del Continente non faceva i conti con la maledizione del lungo periodo. La bipartizione disegnata alla fine della seconda guerra mondiale non era accidentale. Quando il 25 aprile 1945 le avanguardie sovietiche e americane si abbracciarono presso la cittadina sassone di Torgau, lungo il corso del fiume Elba, ristabilivano di fatto un tratto di limes romano, celebrato da Augusto nelle Res Gestae (26,2) quale confine della Germania più o meno assimilabile. Oltre il quale, secondo il fondatore su commissione angloamericana della Germania occidentale, il renano anti-prussiano Konrad Adenauer, cominciava la “steppa asiatica”. Dopo l’Ottantanove i russi tornarono a casa da sconfitti. Avendo scaricato l’impero euro-orientale come zavorra nell’illusione di salvare così l’Urss. Noi euroccidentali scambiammo l’entusiasmo di quei popoli oppressi per spontanea adesione ai valori liberaldemocratici. Ma per gente a lungo costretta sotto il tallone di Mosca lo scambio non era tanto fra comunismo e libertà quanto fra comunismo e consumismo. Prima ancora, fra sottomissione allo straniero e indipendenza. Sovranità. Tradotto in geopolitica: prima la Nato, cioè gli Stati Uniti in Europa, poi l’Unione europea, leggi fondi comunitari. Soldati americani e soldi europei: il migliore dei mondi possibili. Ciò varrà ai popoli dell’Est la stizzita accusa di leso europeismo da parte di alcuni intellettuali occidentali, quelli che oggi bollano come “populista” chiunque non ne sottoscriva le verità. Piaccia o non piaccia, così stavano e così restano le cose. Ce lo ricordano in questi giorni tre significativi eventi, con la Polonia massima protagonista: la sentenza della Corte costituzionale polacca che considera incompatibili con la Carta nazionale alcuni articoli dei Trattati europei, così sancendo la superiorità del diritto interno sull’europeo; il prolungamento dello stato d’emergenza alla frontiera con la Bielorussia, dove migliaia fra militari e guardie di frontiera frenano il flusso di migranti in fuga (o inviati) dal regime di Lukašenka; la lettera inviata alla Commissione europea dai governanti polacchi insieme ai rappresentanti di altri undici Paesi, in netta maggioranza già pertinenti all’impero sovietico o alla stessa Urss (più Cipro, Grecia e Danimarca), per chiedere a Bruxelles di finanziare la costruzione di muri e barriere anti-migranti, richiedenti asilo compresi. Sintomatica al riguardo la risposta della commissaria competente, la socialdemocratica svedese Ylva Johansson: vi capisco, fate pure, ma non con i denari della cassa comune. La reazione degli euroccidentali, francesi e tedeschi in testa, è stata secca. Da Parigi si parla di “Polexit di fatto”, quasi Varsavia si stesse estromettendo dall’Ue. Analogo il tono di Berlino, che ricorda alla Polonia gli impegni presi (ma non ricorda a se stessa i caveat che la Corte costituzionale di Karlsruhe ha da tempo indicato, specificando come sui diritti fondamentali non esista una supremazia automatica del diritto europeo sull’interno). Festa grande, invece, per i “sovranisti” d’ogni longitudine. Nostrani compresi. Varsavia non saluterà Bruxelles. Conviene però prendere atto che fra le molte e variegate faglie che ritagliano lo spazio dei Ventisette, ce n’è una troppo profonda per essere sanata: quella fra europei occidentali e orientali (alcuni nordici compresi), cresciuta su radici culturali e geopolitiche profonde secoli. La cortina di ferro non fu capriccio della guerra fredda. Né il “sovranismo” è attribuibile a un ciclo politico-ideologico. Europei dell’Est e dell’Ovest abitano tempi, non solo spazi, intimamente diversi. Per i primi, si tratta di consolidare l’indipendenza recentemente riconquistata. Polacchi, cechi, ungheresi, slovacchi, baltici e quanti altri vivono il loro Risorgimento, quando non il fortunoso battesimo di Stati inediti. Difficile concepire che aderiscano di cuore alle parziali cessioni di sovranità che noi euroccidentali concordammo, per impulso soprattutto americano, dopo la sconfitta collettiva nella seconda guerra mondiale. Nell’Ottantanove sembrava che il vento dell’Ovest avrebbe convertito l’Est, autopromosso Centro. Oggi il vento pare soffiare in direzione opposta. Prenderne atto sarebbe già un passo avanti per stabilire quale grado di integrazione sia davvero possibile fra le troppe Europe che chiamiamo Europa. È la storia, bellezza! Scacchi, inizia il 13 ottobre il primo campionato mondiale online per carcerati ansa.it, 12 ottobre 2021 Nella fase a gironi dell’evento giocheranno 43 squadre, 5 femminili e 3 giovanili composte da quattro giocatori con un numero illimitato di riserve. Il torneo sarà trasmesso in diretta sul canale Youtube della FIDE. 43 squadre provenienti da 31 paesi parteciperanno al 1° Intercontinental Online Championship for Prisoners, un evento di due giorni che inizia il 13 ottobre 2021, la Giornata internazionale dell’educazione nelle carceri. Il campionato ai inserisce nel programma “Chess for Freedom”, lanciato all’inizio di quest’anno con una conferenza da remoto e il torneo di scacchi online ad invito per detenuti di quattro paesi. Il presidente della FIDE, Federazione Internazionale degli Scacchi, Arkady Dvorkovich ha presentato così l’evento: “Troviamo questa iniziativa molto importante; permette a FIDE di estendere il suo impatto oltre i confini del mondo puramente scacchistico. Gli scacchi forniscono un percorso per le persone incarcerate nell’istruzione; trovano un uso positivo del loro tempo libero e apprendono abilità che aiutano a dare una svolta alle loro vite. Giocare a scacchi insegna loro come migliorare il proprio modo di pensare e prendere decisioni migliori nella vita”. Nonostante il Campionato Intercontinentale per i Detenuti sia alla sua prima edizione, molte carceri e istituti di correzione in tutto il mondo hanno mostrato interesse. Nella fase a gironi dell’evento giocheranno 43 squadre, di cui 5 femminili e 3 giovanili composte da quattro giocatori con un numero illimitato di riserve. Il torneo verrà trasmesso in diretta sul canale Youtube della FIDE. Per poter avere un futuro dopo la liberazione, i detenuti devono avere diritto all’opportunità di autorealizzarsi e svilupparsi una volta lasciato il carcere. L’accesso alla formazione e all’apprendimento, nonché a modalità di socializzazione di qualità come questa, potrebbe fornigli una forte motivazione a migliorare. Israele. Nove prigionieri palestinesi in sciopero della fame, due in gravi condizioni di Michele Giorgio Il Manifesto, 12 ottobre 2021 Chiedono la fine della detenzione amministrativa, ossia senza processo. C’è anche Zakaria Zubeidi tra i prigionieri politici palestinesi in sciopero della fame nelle carceri israeliane. L’ex comandante a Jenin delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa (Fatah), protesta per l’isolamento totale in cui viene tenuto da quando, il mese scorso, è stato catturato dalla polizia israeliana dopo essere evaso, assieme ad altri cinque detenuti, dal carcere di massima sicurezza di Gilboa. Ma a far notizia in queste ore, con un inevitabile aumento della tensione tra i prigionieri politici e le loro famiglie, è il digiuno che portano avanti da settimane otto detenuti palestinesi: Kayed Fasfous, Muqdad Qawasmeh, Alaa Aaraj, Hesham Abu Hawwash, Rayeq Besharat, Shadi Abu Akr, Akram Abu Bakr e Ratib Haribat. Sei di questi protestano perché sono detenuti in modo “amministrativo”, ossia senza aver un processo ed essere stati accusati di reati specifici. Si tratta di una forma di custodia cautelare a tempo indeterminato - può durare alcuni mesi o essere rinnovata di volta in volta - che risale al periodo del Mandato britannico sulla Palestina e che Israele ha assorbito nel suo ordinamento giuridico. Sulla carta può essere applicata anche nei confronti di cittadini ebrei ma in 73 anni questo è accaduto in casi rari. Le corti militari ne fanno un uso abbondante con i palestinesi. Il Centro Addameer calcola in circa 500 su 4600 detenuti politici (di cui 200 minori) i palestinesi attualmente in carcere senza processo. Gli altri due prigionieri non toccano cibo per protestare contro le misure più severe attuate dalle autorità carcerarie dopo la “Grande fuga” da Gilboa. Le condizioni di Fasfous e Qawasmeh, che riferiscono le associazioni a difesa dei detenuti politici digiunano rispettivamente da 88 e 81 giorni, si sono fatte critiche e sono stati ricoverati nell’ospedale Kaplan. Nei giorni scorsi il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) aveva fatto sapere di essere “seriamente preoccupato” per il deterioramento della salute dei due prigionieri avvertendo sulle “conseguenze potenzialmente irreversibili” di uno sciopero della fame così lungo. Sta male anche Aaraj, giunto al 64esimo giorno di sciopero della fame. La protesta dei nove prigionieri ha mobilitato gli altri detenuti che in questi giorni hanno spesso restituito i pasti e si sono rifiutati di rispettare gli ordini delle guardie carcerarie. Intanto stasera a sostegno di un palestinese, Issam Hijjawi Bassalat, detenuto per motivi politici non in Israele ma in Irlanda del nord, è previsto un twitterstorm (#freeisamhijjawi) alla vigilia dell’udienza in cui i giudici della Dungannon Courthouse dovranno decidere la sua possibile scarcerazione su cauzione, richiesta respinta già due volte in passato. Hijjawi Bassalat, incarcerato da più di un anno nel carcere di massima sicurezza di Maghaberry, è un medico che dal 1995 vive e lavora in Scozia. Gli attivisti scozzesi e irlandesi sostengono sia stato attirato in una trappola da un infiltrato dell’MI5 che lo ha invitato a parlare a un incontro sulla questione palestinese con i membri di Saoradh, partito socialista che chiede la riunificazione dell’Irlanda del nord all’Irlanda e che le autorità britanniche descrivono come una espressione dell’Ira. Incontro seguito dal suo arresto il 22 agosto 2020 all’aeroporto di Heathrow e di quello di nove membri di Saoradh. L’accusa è di “organizzazione di atti di terrorismo” che Hijjawi Bassalat respinge categoricamente ricordando di aver sempre svolto da quando è in Scozia solo attività di sostegno politico alla causa palestinese. Afghanistan. Evacuati 90 mila rifugiati, ma in Europa c’erano già 220 mila irregolari di Milena Gabanelli e Simona Ravizza Corriere della Sera, 12 ottobre 2021 Nella giornata del vertice straordinario G20 sull’Afghanistan voluto dal premier Mario Draghi (“C’è una catastrofe umanitaria che sta per dilagare”), è bene ricordarsi che con i cittadini afghani l’Europa ha un problema da risolvere. Non stiamo parlando di frontiere da proteggere, bensì di una questione che è già all’interno della Ue, ignorata, e che non rende onore ai Paesi che compongono l’Unione europea. La vediamo con l’aiuto dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) che ha elaborato in esclusiva per Dataroom una serie di dati. La più grande evacuazione dal Dopoguerra - Dopo 19 anni e 10 mesi di presenza in Afghanistan delle forze di coalizione a guida Usa, nella seconda metà di agosto i talebani sono tornati al potere, ed abbiamo assistito alla più grande evacuazione mai realizzata dal Secondo conflitto mondiale. Dal 15 al 30 agosto sono state sfollate 120 mila persone, tra cui 90 mila civili (traduttori, autisti, cuochi, facilitatori, consulenti) che hanno collaborato con la coalizione internazionale e rischiavano ritorsioni da parte dei talebani. A tutti loro sarà concesso asilo politico: 66 mila sono andati negli Usa, 8 mila in Gran Bretagna, 4.890 in Italia, 4.100 in Germania, 2.800 in Francia, 1.898 in Spagna. Le frontiere da proteggere - Il timore più diffuso da allora è quello di nuovi arrivi, stavolta non programmati. I ministri degli Interni dei 27 Paesi membri il 31 agosto dichiarano: “Sulla base degli insegnamenti appresi, l’Ue e i suoi Stati sono determinati ad agire congiuntamente per evitare il ripetersi dei movimenti migratori illegali incontrollati su larga scala che si sono verificati in passato, elaborando una risposta ordinata e coordinata”. Ma come controlli chi fugge dall’Afghanistan? Ad oggi i profughi che hanno lasciato il Paese scappando via terra verso il Pakistan o l’Iran sono, dati Onu, meno di 25 mila. Non molti, sia perché i confini di terra sono sorvegliati, sia perché una fetta di popolazione attende di capire cosa succederà, ma è piuttosto probabile che questi numeri cresceranno e sappiamo anche che la destinazione finale a cui puntano è l’Europa. I rimpatri impossibili - Il pericolo è determinato non solo da quel che succede nei Paesi di partenza ma - anche e soprattutto - da quello che avviene nei Paesi di transito. Lo dimostra l’impennata di richieste d’asilo di afghani in Ue nel 2015 e nel 2016, ben 368.030, 7 volte tanto gli anni precedenti (25 mila la media 2008-2014). In quei due anni in Afghanistan non stava avvenendo nulla di diverso rispetto agli anni precedenti. Gli afghani si sono messi in viaggio approfittando della partenza dei siriani (in fuga dal loro Paese in guerra) verso la Turchia, per proseguire verso l’Europa. E adesso, come abbiamo sottolineato in un’altra inchiesta (qui), proprio in Turchia, fra i quasi 5 milioni di profughi bloccati da Erdogan a seguito dell’accordo con la Ue da 6,7 miliardi del 2016, ci sono 120 mila rifugiati afghani registrati dall’Unhcr e 400 mila irregolari. La strategia del presidente turco è chiara: usare i profughi come arma di ricatto, sia per ottenere più denaro, che per acquisire potere sui tavoli internazionali. E ogni volta minaccia di riaprire le frontiere. Dopo la caduta di Kabul gli afghani sanno che dalla Turchia riusciranno ad arrivare in Europa, l’Ue non li potrebbe rimpatriare. Le richieste d’asilo - Il problema che invece l’Ue finge di ignorare è legato agli afghani già in Europa da anni. Dal 2008 al 2020 ci sono state 691 mila richieste d’asilo nei Paesi europei: quasi il 40% in Germania (241.870), 41.115 mila in Francia, 23.720 nel Regno Unito, 22.390 in Italia. Solo meno della metà, 311.000, sono state accolte. L’Italia ha protetto il 90% di chi ha richiesto asilo, la Spagna il 71%, la Francia il 69%, la Germania il 50% e il Regno Unito il 39%. Le espulsioni e gli irregolari - Degli altri 380 mila, meno di 70 mila sono stati rimpatriati, 90 mila sono ancora in attesa di risposta alla richiesta di asilo, mentre a 290 mila è stata rifiutata. Risultato: oggi in Europa ci sono 220.000 afghani irregolari. Non possono presentare una nuova domanda, e con i talebani al potere non potranno essere rimpatriati. Possono lavorare solo in nero, e quindi non pagano le tasse. In pratica si tratta di fantasmi, e come tale più esposti al rischio criminalità. Dai dati Eurostat è possibile stimare che gli afghani irregolari in Germania siano 111.220 mila, in Austria 26.745, in Svezia 24.925, in Belgio 12.850, in Francia 6.424, e in Italia quasi 2 mila. Tra i profughi a cui i Paesi europei hanno negato protezione ci sono 55 mila donne, più di 70 mila persone minorenni, tra le quali 45 mila bambini sotto ai 14 anni (di cui quasi la metà bambine). L’unica soluzione percorribile, probabilmente, è quella offrire loro un percorso di regolarizzazione. Prima che ad irregolari vadano ad aggiungersi nuovi irregolari.