Per un giorno di carcere ingiusto lo Stato paga da 120 a 800 euro di Valentina Maglione Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2021 Corte dei conti. Criteri di calcolo difformi: a seconda della Corte d’appello cambia la cifra dei risarcimenti, anche per i domiciliari. Versati in totale 180 milioni in quattro anni, dal picco di 48,8 nel 2019 ai 43,9 del 2020. Sono costati quasi 180 milioni in quattro anni i risarcimenti pagati dallo Stato come equa riparazione di errori giudiziari e detenzioni ingiuste. In base ai dati del ministero dell’Economia l’importo annuo pagato ai cittadini per riparare i danni morali e materiali è cresciuto fino al 2019, quando ha raggiunto i 48,8 milioni, per poi scendere, nel 2020, a 43,9 milioni, con ogni probabilità per l’impatto Covid su reati e procedimenti. Somme di rilevo da cui parte l’analisi della Corte dei conti, sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, che accende i riflettori sulla mancanza di omogeneità degli indennizzi, ma anche sulle azioni di rivalsa dello Stato nei confronti dei giudici a cui gli errori sono imputabili (dal 2017 al 2019 i procedimenti disciplinari sono stati in tutto 53). Un tema caldo, che si intreccia con il dibattito sulla responsabilità dei magistrati. I pagamenti - Oltre l’80% dei pagamenti effettuati nel triennio 2017-2019 è dovuto a risarcimenti per detenzione ingiusta - cioè preventiva e non necessaria o seguita da assoluzione - sia domiciliare che carceraria. Molto più basse, invece, le somme versate a fronte di errori giudiziari, ovvero carcerazione dopo la sentenza. Nel 2019, il volume più elevato è stato deciso dalla Corte d’appello di Reggio Calabria (10,2 milioni) e ha risarcito soprattutto per i danni causati da ingiusta detenzione (9,8 milioni). La Corte di Roma ha invece sancito il ristoro più alto per errore giudiziario: 2,2 milioni di euro per 2 ordinanze. Ma “le Corti d’appello non usano lo stesso metodo nel fissare gli indennizzi - osserva Mauro Oliviero, magistrato della Corte dei conti che ha curato la relazione - perché fanno riferimento a non sempre univoci orientamenti della Cassazione”. Con l’esito di stabilire importi anche molto differenti, persino al loro interno. La Corte dei conti ha esaminato un campione di ordinanze emesse da alcune Corti d’appello da cui è emerso, ad esempio, che per la detenzione carceraria ingiusta si va dai 117,91 euro circa al giorno liquidati dalla Corte d’appello dì Catania (in presenza di concorso di colpa del richiedente) ai 791,38 riconosciuti dalla Corte d’appello di Catanzaro (somma che comprende anche il danno). Ma la stessa Corte di Catanzaro in altre ordinanze da fissato importi di 235 euro. E anche a Perugia si va dai 235 euro al giorno ai 550. Peraltro le Corti d’appello, in alcune ordinanze, hanno risarcito di più la detenzione domiciliare rispetto a quella in cella: 1.179 euro per ogni giorno chiusi a casa a Perugia, 1.383 a Catanzaro. Con distanza abissale dai 159,58 euro al giorno decisi all’Aquila. Per la Corte dei conti servirebbe un maggior coordinamento e monitoraggio del ministero della Giustizia. Le responsabilità - A fronte di questi dati, non sono molte le azioni disciplinari avviate nei confronti dei magistrati. La Corte dei conti, che riprende le rilevazioni degli uffici ispettivi del ministero della Giustizia sulle scarcerazioni oltre i limiti di legge dovute a “ignoranza o negligenza inescusabile” del giudice, cita 13 azioni promosse nel 2017,16 nel 2018 e 24 nel 2019. Del resto - ha spiegato il ministero della Giustizia nella relazione alle Camere del 2018 - non è detto che la riparazione per l’ingiusta detenzione sia legata a un errore del magistrato: si può trattare, ad esempio, di custodia cautelare legittima ma che poi si rivela inutile. Mancano (quasi) del tutto, invece, informazioni sulle azioni di recupero delle somme pagate dallo Stato per l’ingiusta detenzione nei confronti dei responsabili: la Corte dei conti, tramite le sue sezioni giurisdizionali, ha ricostruito solo un procedimento avviato nel 2016 contro un magistrato campano e concluso con il pagamento di parte della somma. Né risulta che siano state attivate altre misure per contenere i costi a carico dello Stato. Anzi: manca - rileva la magistratura contabile - un coordinamento tra gli indennizzi per l’ingiusta detenzione (previsti dagli articoli 314 e 315 del Codice di procedura penale) e il risarcimento dei danni causati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie (regolato dalla legge 117/1988 sulla responsabilità civile dei magistrati). Un intervento necessario, secondo la Corte, per evitare il cumulo dei due rimedi e il doppio esborso da parte dello Stato. Inoltre, per monitorare le riparazioni e curare le azioni conseguenti, anche disciplinari, la Corte suggerisce che il fenomeno sia tutto governato dal ministero della Giustizia: oggi gli indennizzi sono pagati dall’Economia. Giustizia, sta al Parlamento garantire la coerenza del sistema. O sarà conflitto sociale di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2021 Negli ultimi sessant’anni il passaggio dal modello di Westfalia al modello delle Nazioni Unite ha determinato un generale ridimensionamento della sovranità statale nell’area dei diritti fondamentali, i quali presentano una dimensione tanto più forte, di condizionamento delle politiche statali, quanto diviene debole la sovranità degli Stati. Ciò ha evidenziato la rilevanza del momento applicativo del diritto e, quindi, il ruolo fondamentale dei giudici e degli interpreti. Tanto più il connubio diritti-magistratura è andato progressivamente affermandosi nel corso degli anni, tanto più è andato marginalizzandosi il potere legislativo delegando al giudice ampi spazi di discrezionalità decisionale, aumentando sempre più la sfera dell’indecidibile. La certezza del diritto sembrerebbe, dunque, demolita da ordinamenti permeabili alle ingerenze provenienti dall’esterno, da altri ordinamenti, da altri decisori politici, da altre corti, ma anche dall’inflazione legislativa e dalla crescente presenza dello Stato nell’economia. Per fortuna il diritto, nonostante taluni, non è morto; ha assunto invece una tale complessità che va rappresentato come un universo sempre più mobile, reticolare, destrutturato e, in parte, di produzione a-statale. La moltiplicazione delle fonti ha in ciò giocato un ruolo di assoluta rilevanza. Si pensi, per esempio, alle circolari del Csm e alla conseguente interpretazione del vuoto normativo nel caso Davigo. La centralità delle corti è, dunque una nuova rivoluzione e l’intrusione del potere giudiziario nella politica va considerata endemica. Ignoriamo sempre più la legge ma commentiamo e ci documentiamo giornalmente sulle sentenze: “la Trattativa”, “Mafia capitale”, “il Sistema Riace”. Da ciò la continua, recentissima, esigenza di istituire nuove corti o tribunali non distrettuali, o avere giudici sempre più specializzati marginalizzando, al contempo, tutti quelli in periferia, o nuovi procuratori sovranazionali che con difficoltà interloquiscono con i corrispondenti nazionali. C’è chi propone l’Alta Corte per l’azione disciplinare sui magistrati, chi l’Ufficio giudiziario speciale di sorveglianza. L’idea è quella di far proliferare le corti, aumentando così i centri di decisione politica, non di ridurle. Se da Tangentopoli in poi la magistratura si fa garante della Costituzione e dell’effettività del complesso sistema giuridico europeo, la nuova condizione di policentrismo legislativo ha prodotto una frattura tra legge e diritto. In tale nuovo scenario - dove non pare vi siano le condizioni culturali per uscire dal malinteso di un giudice anche depositario dell’etica e della politica, mentre la responsabilità penale è cosa ben diversa dalle altre due - si prospetta l’avvento di una età della decodificazione unita alla crisi della immagine del giudice che applica meccanicisticamente il diritto o la legge. Negli ultimi decenni si è entrati, pertanto, nell’”età delle corti”, ossia la naturale evoluzione dell’”età dei diritti”. Più si diffonde il linguaggio normativo dei diritti, più si rafforza l’idea che il suo custode debba essere il giudice, in un ruolo sempre più pivotale, non il legislatore. “Giuristocrazia” è dominio della sfera giuridica sulla sfera politica, quindi dominio del tecnicismo del diritto sulla capacità di sintesi della politica. È in questo nuovo scenario che il diritto diviene uno strumento nelle mani anche dei singoli cittadini per tutelare specifici interessi, per garantire elasticità all’ordinamento giuridico. Dopo che la rivendicazione istituzionale dei diritti è stata incardinata dinanzi ad un organo giudiziario, essa diviene potenzialmente idonea a smuovere l’ordine politico. Si pensi alla vicenda giudiziaria “Università bandita” che, grazie alla mobilitazione di Trasparenza e Merito costituitasi parte civile, potrebbe concorrere ad una riforma migliorativa del sistema universitario italiano. Si pensi al fondamentale diritto del cittadino ad essere informato sull’andamento dei processi, a prescindere dalla innocenza o dalla continenza, anche per esercitare un controllo sull’amministrazione della giustizia. Ecco perché il Parlamento dovrà tenere conto dei futuri pronunciamenti delle corti e dovrà responsabilmente assumersi l’onere di garantire la coerenza e l’organicità del sistema giuridico. Queste funzioni sono infungibili e proprie solo del potere legislativo. Non creare nuove corti, o nuovi giudici, per poterli controllare politicamente; ma creare, o potenziare, organismi democratici e rappresentativi che possano fare da camera di compensazione. In palio c’è la funzionalità dell’intero sistema giuridico, dato che un Paese che non riesce a garantire un equilibrio tra volontà democratica e giustizia è un Paese destinato a radicalizzare la conflittualità sociale. *Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato Tribunali nelle mani di giovani “a tempo”, la grande incognita della nuova giustizia di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 11 ottobre 2021 “Ufficio del processo? Attenti alla qualità” dice Napoli (CNF). Piraino (Magistratura indipendente): “Idea giusta, ma ora si eviti un nuovo precariato”. La road map della giustizia tracciata dalla ministra Marta Cartabia ha tra i punti più importanti un rimodellamento dell’Ufficio per il processo (Upp), strettamente connesso agli obiettivi fissati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Nell’Upp sono riposte tante aspettative. Ma è un istituto che rischia di essere sopravvalutato sia per quanto riguarda la possibilità di alleggerire l’arretrato dei Tribunali sia rispetto all’accelerazione dei processi. L’avvocatura ha più volte espresso cautela e continua a predicarla. Il rischio di creare un vero e proprio precariato giudiziario - considerato che il nuovo personale sarà assunto a termine - è alto. Occorre quindi sin d’ora prevedere soluzioni ragionevoli tali da consentire l’assunzione definitiva delle risorse in via di immissione. “Sulla carta - dice l’avvocato Mario Napoli, componente del Cnf - l’Ufficio per il processo rappresenta uno dei pochissimi interventi sulla struttura organizzativa, anziché sulla procedura, rispetto alla quale decine di insensate riforme hanno solo peggiorato il quadro. In quanto tale non può che essere salutata con favore. Purtroppo, tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare e non vorrei che l’Ufficio per il processo rappresentasse una ennesima tappa in quel troppo evidente procedere del legislatore verso l’abbandono, lo svilimento del ruolo e della qualità della funzione giurisdizionale”. Il riferimento è al giudice di pace - “neppur lontano parente del pretore”, ricorda Napoli, “figura davvero mai abbastanza rimpianta” - ma anche all’utilizzo del giudice monocratico, degli ausiliari, della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, per poi inevitabilmente propendere verso l’adozione di moduli e l’uso dell’intelligenza artificiale predittiva”. Le perplessità non mancano. E si trasformano in preoccupazione. “Non vorremmo - evidenzia Napoli - che l’Ufficio per il processo anziché alleggerire il giudicante da tante dispersive incombenze per consentirgli tempi di riflessione e approfondimento, badiamo bene che confermare una giurisprudenza è meno faticoso che innovarla, finisse per rappresentare un ulteriore scadimento della qualità delle decisioni, già oggi a livello di guardia. Quale potrà essere il concreto apporto dei giovani tirocinanti, freschi di laurea, precari e senza esperienza sul campo? Non sarebbe stato più opportuno reclutare figure professionali più formate, attingendo, e non in forma precaria, ad una giovane avvocatura rodata sul campo ma economicamente sofferente?”. Occorre, a detta del consigliere Napoli, essere cauti e non cedere a facili entusiasmi. “Abbiamo sentito parlare, a proposito dell’Ufficio per il processo, di cambiamento epocale, di passaggio da un modello individuale di essere giudice a un modello collegiale. Ci auguriamo proprio che così non sia, che si abbia ancora una figura di magistrato in grado di far pesare la propria competenza e assumerne la responsabilità”. Potremmo trovarci di fronte a una giustizia ostaggio dell’ansia da smaltimento dell’arretrato. “Non ho mai amato - ribadisce Napoli - la figura bendata nell’allegoria della giustizia. Vorrei sempre vedere negli occhi il mio giudicante. L’esigenza di smaltimento dell’arretrato e di minor durata dei processi, da tutti condivisa, non può essere a prezzo di una minore qualità delle sentenze. Anche il metodo del giudice Brodoye, che decideva le cause tirando a sorte con i dadi, vera alea judiciorum, potrebbe portare rapidità, ma non è certo ciò che ipotizza chi ancora si augura una giustizia giusta”. Altri invece ritengono che con l’Ufficio per il processo si possa finalmente uscire dall’attuale dimensione “artigianale” del lavoro giudiziario. Ne è convinto Angelo Piraino, neosegretario di Magistratura indipendente. “È uno dei cardini - sottolinea - della riforma varata dall’attuale governo per cercare di centrare gli ambiziosi obiettivi di riduzione della durata del processo civile, che sono una delle condizioni per l’accesso ai fondi del Recovery”. L’organizzazione del lavoro giudiziario, specialmente nel settore civile, è rimasta pressoché immutata da decenni ed è tutta incentrata sulla figura del giudice, chiamato a gestire i numerosi processi di cui è titolare in modo del tutto solitario. Ciò comporta, spesso, un impiego poco efficiente di energie intellettuali, che dovrebbero essere riservate interamente allo studio dei fascicoli e alla decisione. Solo a partire dal 2011, con la previsione dei tirocini formativi, si è assistito a un primo timido cambio di rotta, con l’affiancamento al giudice di giovani laureati, per un periodo di 18 mesi, i quali ricevono una formazione professionale e aiutano nello svolgimento di attività di carattere semplice. Una prima esperienza a mio parere molto positiva, anche perché ha consentito una maggiore osmosi tra il mondo dell’avvocatura e quella della magistratura, un percorso di formazione comune alle due professioni”. Secondo Piraino, “con l’ufficio del processo e, soprattutto, con l’istituzione della figura dell’assistente del giudice, si compie un ulteriore importante passo in avanti verso la creazione di uno staff che può assistere il giudice nel suo lavoro, consentendogli di dedicare le sue energie migliori solo ai compiti di maggiore difficoltà e rendendo più efficiente la gestione dei processi”. Il rischio di un precariato giudiziario, riferito al personale a tempo determinato che verrà assunto, non è però da escludere. “L’attuale riforma - conclude Piraino - prevede l’assunzione di personale precario, che dovrà essere formato prima di poter dare il suo contributo, ma che dopo poco più di due anni dovrà lasciare gli uffici, così disperdendo tutta la professionalità acquisita. In questo modo, il rischio di vanificare gli effetti della riforma e di non poter raggiungere gli obiettivi prefissati dall’Europa è estremamente concreto”. Giustizia tributaria, si punta al coordinamento con le regole Ue di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2021 Nella bozza della legge delega sulla riforma fiscale, si fa riferimento marginalmente anche alla giustizia tributaria. E infatti una delle ultime norme del Ddl prevede una specifica delega per l’adozione di uno o più decreti per la codificazione delle disposizioni legislative vigenti per garantire la certezza dei rapporti giuridici e la chiarezza del diritto nel sistema tributario, inclusi l’accertamento, le sanzioni e la giustizia tributaria. A giudicare dal tenore della norma (la relazione illustrativa al riguardo non offre particolari spunti) si tratterà di un intervento volto ad assemblare le varie diposizioni sparse nell’ordinamento (necessità per la verità più avvertita in tema di accertamento che non per il processo tributario) e non a intervenire in modo incisivo sulle vigenti previsioni. Tra i criteri direttivi di esercizio della delega, sono peraltro previste eventuali modifiche all’attuale normativa ma al solo fine di assicurare un coordinamento formale e sostanziale con le disposizioni comunitarie. In altre parole, e salvo modifiche, avverrà una “sistemazione” razionale delle vigenti disposizioni e, al più, vi saranno marginali “aggiustamenti” ove dette disposizioni non siano allineate con l’ordinamento comunitario. Questa scelta, se dovesse essere confermata, lascia perplessi sotto vari profili. Sotto un profilo logico, è singolare la previsione di una riforma fiscale senza intervenire anche sull’efficientamento delle regole processuali; il miglioramento e la semplificazione delle norme sostanziali auspicato con il Ddl rischia, tra qualche anno, di infrangersi contro il sistema processuale rimasto immutato. Basti considerare i miliardi di euro attualmente oggetto di lite e l’intasamento della maggior parte delle commissioni tributarie (e della Cassazione) per comprendere agevolmente che l’annunciato successo della futura riforma fiscale non può che passare anche dalla riforma del contenzioso tributario. Sotto un profilo più pratico, la decisione di non riformare processo e giustizia tributaria è poco coerente rispetto a una serie di iniziative intraprese di recente. Negli ultimi mesi era stata insediata una commissione interministeriale di riforma che ha proposto al termine dei lavori una serie di modifiche. Se lo scopo era di sistemare la legislazione vigente mal si comprende l’utilità della commissione. Da considerare poi che da tempo, da parte di tutti gli “attori” del processo tributario (giudici, dipendenti delle commissioni, difensori, enti impositori e così via) si invoca una riforma delle vigenti regole. Ed infatti seppur prevedendo soluzioni e opzioni differenti, negli ultimi anni, si sono susseguite numerose proposte di riforma, sia sul ruolo dei giudici tributari, sia sulle modalità di svolgimento del processo. A fronte di tutte queste istanze, la legge delega si limita a prevedere un modesto intervento di riordino delle disposizioni vigenti (al più, con qualche modifica secondaria in coerenza con l’ordinamento comunitario). Sarebbe peraltro singolare ipotizzare a breve una nuova delega sul riordino del processo tributario. Una simile scelta renderebbe priva di senso la norma del precedente Ddl peccando quanto meno di un palese mancato coordinamento. Escludendo che l’attuale decisione possa essere ascrivibile ad una dimenticanza o a una superficialità, sarebbe interessante conoscere le ragioni della mancata previsione della riforma del processo tributario. Se poi si considera che, negli ultimi mesi, sono state avviate le ben più impegnative riforme del processo civile e del processo penale ma non si riesce a riformare il processo tributario, sarebbe ancor più interessante conoscere chi sia interessato affinché la giustizia tributaria continui a esser amministrata e gestita secondo le vigenti regole sulla cui inidoneità (almeno apparentemente) sono tutti d’accordo. Roma: Detenuto suicida a Regina Coeli, la direttrice rischia il processo di Giulio De Santis Corriere della Sera, 11 ottobre 2021 Il giudice ne aveva ordinato il trasferimento in una Rems ma Silvana Sergi non lo aveva disposto. Le stesse accuse mosse anche a Grazia De Carli, dirigente del Dap. Si è impiccato nella sua cella, dove si trovava “senza titolo” perché il giudice ne aveva disposto il trasferimento in una Rems in quanto soggetto a rischio suicidio. Di eseguire il provvedimento avrebbe dovuto occuparsi la direttrice del carcere di Regina Coeli, Silvana Sergi, per la quale la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio con l’accusa di morte come conseguenza di altro delitto, limitazione della libertà personale e omissione d’atti d’ufficio. Le stesse accuse sono contestate a Grazia De Carli, dirigente dell’ufficio VI della direzione generale detenuti del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria). Anche per lei c’è la richiesta di rinvio a giudizio. In precedenza il pm aveva sollecitato l’archiviazione della posizione delle due imputate. Istanza respinta due volte dal gip che, nell’ottobre del 2020, ha ordinato l’imputazione coatta di entrambe. La tragedia risale al 24 febbraio del 2017. Quello è il giorno in cui viene trovato morto con una corda al collo Valerio Guerrieri, 22 anni, condannato dieci giorni prima dal Tribunale a quattro mesi di carcere per resistenza e lesioni con rito abbreviato. Contestuale alla sentenza del 14 febbraio di quattro anni fa è il provvedimento di revoca della detenzione in carcere. Decisione motivata dalle tendenze suicide riscontrate dal perito nominato dal giudice. Perché in quei dieci giorni il provvedimento sia rimasto disatteso, è l’interrogativo cui dovrà dare una risposta il gup ed eventualmente il Tribunale. “Valerio era un ragazzo problematico. Ma se fosse rimasto in vita avrebbe potuto essere curato”, dice l’avvocato Claudia Serafini, difensore fin dal 2014 di Guerrieri e ora legale della famiglia del ragazzo. Il coinvolgimento della direttrice del carcere è l’ultimo atto di un dramma che ha già coinvolto sette agenti della penitenziaria di Regina Coeli e un medico, accusati di omicidio colposo, per non aver effettuato i controlli previsti sul ragazzo sottoposto alla misura “della grande sorveglianza”. Nel 2016 Valerio, incappato in guai giudiziari fin da minorenne, viene arrestato per resistenza e lesioni. Durante il processo, il giudice Anna Maria Pazienza nomina un perito per sottoporre il giovane a una perizia psichiatrica. L’esito è chiaro: “Il paziente è ad alto rischio suicidario”. La conclusione spinge in ogni modo il giudice a disporre, oltre alla condanna, il trasferimento in una Rems. Il 14 febbraio, però, Valerio torna in carcere. Dove rimarrà “senza titolo” fino alla morte. Bologna. Proteste alla Dozza: mancano educatori e attività di reinserimento zic.it, 11 ottobre 2021 Nei giorni scorsi le rimostranze dei detenuti, che lamentano inoltre l’assenza di attività ricreative e fisiche, prezzi troppo alti dei prodotti acquistati oltre al vitto e l’assenza di rapporto con la magistratura di sorveglianza, insieme al più basso numero di professionisti medici nella struttura dalla riforma della sanità penitenziaria. Nei giorni scorsi alcuni detenuti del carcere della Dozza hanno messo in atto una protesta, lamentando la “scarsa frequenza dei contatti con i professionisti della rieducazione, che si traducono in mancanza di colloqui e sostegno alla partecipazione all’opera rieducativa e nella mancanza di occasioni di conoscenza nell’ambito di una strutturazione del rapporto fra detenuto ed educatore di riferimento”. Inoltre, hanno spiegato, vi è “mancanza di un’adeguata organizzazione di attività che possano essere utili nell’ottica di un reinserimento sociale, ma anche la mancanza di attività ricreative e fisiche, essendo ad esempio precluso l’accesso alla palestra”. Riferendosi invece alle condizioni strutturali del penitenziario hanno denunciato “il progressivo deterioramento degli ambienti delle camere detentive, nonché la diffusione di muffe nei soffitti e nelle pareti all’interno degli spazi delle docce comuni e anche la presenza diffusa di blatte”. Infine, i detenuti hanno segnalato, per quanto riguarda “i prodotti acquistati dal sopravvitto, lo scadente rapporto qualità-prezzo, con particolare riferimento a carne e verdura, e i prezzi piuttosto alti di alcuni prodotti”. A portare fuori dalle mura della casa circondariale le criticità vissute dai ristretti è il Garante comunale dei detenuti Antonio Ianniello, che ha spiegato come la denuncia abbia riguardato anche i “rapporti con la magistratura di Sorveglianza”, in particolare la “mancanza di rapporto-relazione-conoscenza con i magistrati di Sorveglianza di riferimento, non presenti in istituto da un lungo periodo”. Altra importante segnalazione riguarda “la difficoltà di accesso alle misure alternative” e i rapporti complessi “con l’Area sanitaria, in quanto si è ridotto drasticamente, per varie ragioni, il numero dei professionisti medici all’interno dell’istituto”. Mai così bassi, infatti, i numeri dei professionisti medici presenti alla Dozza da quando c’è stata la riforma della sanità penitenziaria. Foggia. La sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina in visita nel carcere foggiatoday.it, 11 ottobre 2021 La Macina che ha, tra le altre, anche la delega al trattamento dei detenuti, pone l’attenzione sulla realtà del carcere di Foggia, a pochi giorni dalla lettera scritta al Prefetto da parte del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, nella quale si denunciava il sovraffollamento della struttura, che allo stato attuale conta la presenza di 550 detenuti su 360 posti A Foggia arriva Anna Macina. La sottosegretaria alla Giustizia farà visita alla casa circondariale di Foggia. Si tratta della seconda visita in Puglia, dopo quella nella struttura di Brindisi dello scorso 10 settembre, e rientra in una serie di tappe già programmate dalla Sottosegretaria. La Macina che ha, tra le altre, anche la delega al trattamento dei detenuti, pone l’attenzione sulla realtà del carcere di Foggia, a pochi giorni dalla lettera scritta al Prefetto da parte del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, nella quale si denunciava il sovraffollamento della struttura, che allo stato attuale conta la presenza di 550 detenuti su 360 posti. “Una situazione incandescente”, che si palesa nelle numerose aggressioni ai danni dei poliziotti penitenziari (l’ultima, avvenuta lo scorso 4 ottobre, che ha avuto per protagonista un detenuto della batteria Moretti), o nel suicidio di Alessandro Lanza, 43enne vicino al clan Sinesi-Francavilla, per non dimenticare la maxi evasione del 9 marzo 2020. Bergamo. “Nelle comunità di recupero mancano posti per i ragazzi” di Michele Andreucci Il Giorno, 11 ottobre 2021 L’allarme lanciato dall’Associazione genitori antidroga di Bergamo. Sempre più adolescenti con problemi di tossicodipendenza e psichiatrici. È un vero e proprio grido d’allarme, quello lanciato dalle comunità terapeutiche bergamasche che da tempo non sono più in grado di rispondere alle richieste d’aiuto del territorio: i posti cosiddetti di residenzialità a contratto a disposizione delle strutture che si occupano di persone con problemi di droga sono fermi a 340 da diversi anni, ma il fenomeno della dipendenza, soprattutto fra i giovani, continua ad aggravarsi. “Si tratta - spiega Enrico Coppola, presidente dell’Aga (Associazione genitori antidroga) di Pontirolo - di un problema grave, che sta mettendo sotto pressione le nostre comunità terapeutiche. Le domande d’accesso per minori stanno sempre più aumentando. Ma non possiamo accoglierle tutte anche perché dobbiamo far fronte ad altri due problemi che si stanno aggravando: uno è legato alla richiesta provenienti dalle carceri di presa in carico di detenuti tossicodipendenti di cui l’Aga è sempre stata disposta a occuparsi; un altro è quello della cosiddetta “doppia diagnosi”, riguardante persone con problemi di tossicodipendenza e allo stesso tempo psichiatrici”. Per tenere alta l’attenzione sul consumo di droga sempre più diffuso sul territorio bergamasco a e non solo, l’Aga organizza ogni due anni una campagna di monitoraggio fondata sull’esame delle acque fognarie: dall’ultima realizzata a giugno è emerso che nella Bergamasca si continua a consumare in media, a persona, più droga (cocaina e hashish) addirittura che a Milano. “Nella Bergamasca - sottolinea Gilberto Giudici, educatore della Comunità Emmaus di Chiuduno, sempre in provincia di Bergamo - i posti a disposizione delle comunità terapeutiche devono aumentare almeno del 30 per cento”. L’allarme e le preoccupazioni delle strutture orobiche sarà portato alla “VI conferenza nazionale sulle dipendenze - oltre la fragilità”, in programma alla fine di novembre (il 27 e il 28) a Genova e che è stata promossa dal ministero per le Politiche giovanili a 12 anni dall’ultima tenutasi a Trieste. L’appuntamento è ritenuto fondamentale dal mondo che si occupa delle dipendenze da sostanze stupefacenti, poiché dalla conferenza dovranno emergere contributi ritenuti necessari per permettere al Parlamento di cambiare l’attuale legislazione antidroga, che è ferma al 1990. L’informazione: un diritto oltre i cancelli del carcere corrieredellacalabria.it, 11 ottobre 2021 Un luogo dimenticato, spesso volutamente ignorato: il carcere. Una regione dimenticata, spesso volutamente ignorata: la Calabria. Questo il punto di partenza per un libro che è un saggio giuridico, ma anche il racconto di un’esperienza ed un omaggio al giornalismo: “La notizia oltre le sbarre: il diritto all’informazione nel carcere e sul carcere”, scritto da Elisa Latella e pubblicato adesso dalla Pav edizioni di Pomezia. Seguire il “viaggio delle notizie: quelle che nascono “fuori” e non sempre riescono ad arrivare “dentro” e quelle che nascono in carcere e devono oltrepassare le sbarre per essere conosciute dalla comunità libera”. Una sfida che segue diverse tappe: il testo approfondisce il diritto all’informazione nel processo penale, il diritto all’informazione in carcere, i dati 2018 e 2020 sulla libertà di informazione nel mondo e descrive la realtà della Casa Circondariale di Catanzaro, in cui i detenuti studiano, seguono laboratori di lettura e scrittura e creativa, e soprattutto leggono. Perché anche nel carcere, spesso considerato un contenitore di disperazione, deve esistere l’indipendenza del pensiero che si forma solo leggendo, ascoltando le notizie, ragionando. Una realtà, quella degli istituti di pena, ulteriormente condizionata dalla pandemia da Covid 19, che pesanti conseguenze ha avuto sulla libertà di stampa nel mondo, e, di riflesso, anche nelle carceri. Eppure la chiave di lettura del testo descrive un mondo “chiuso” da orientare ogni giorno alla luce della Costituzione: viene fuori che nel carcere di un paese democratico ci può essere più libertà di informazione di quanta ce n’è, anche per i cittadini formalmente liberi, in un regime dittatoriale. La storia d’Italia passa anche da edifici che in passato sono stati prigioni, ed oggi hanno ancora qualcosa da raccontare; la stessa Costituzione nasce dall’esperienza dei membri dell’assemblea costituente nelle carceri del regime fascista, dove l’arbitrio regnava sovrano. Oggi in Italia la libertà personale è inviolabile e le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Poche parole che sono una grande conquista, a cui molti Paesi devono ancora arrivare. Elisa Latella, classe 1979, consegue la laurea quadriennale in Giurisprudenza il 17 luglio 2001 all’Università di Messina, con 110 e lode, completando il corso di studi quadriennale in tre anni e una sessione. Vince subito dopo diverse borse di studio post-universitarie, due delle quali per la ricerca in diritto costituzionale. Nel frattempo fa pratica in due mondi: quello dell’avvocatura e quello del giornalismo. Nel 2004 diventa avvocato, nel 2005 giornalista pubblicista (nel 2013 supera l’esame di giornalista professionista). Scrive per quotidiani e periodici nazionali. È Capo Area-Funzionario dell’Organizzazione e delle Relazioni al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia presso la Casa Circondariale di Catanzaro ed è stata anche consulente socio giuridico presso l’Università Dante Alighieri in un progetto sui diritti umani dei cittadini di paesi terzi. La Pav edizioni è una casa editrice indipendente, non a pagamento, che investe esclusivamente sulla qualità delle opere che pubblica e che ha all’attivo diverse collane: presta particolare attenzione alle “storie non raccontate”. “L’incorreggibile”, un film contro il carcere di Luca Peretti dinamopress.it, 11 ottobre 2021 Esce questa settimana in sala il primo film di Manuel Coser. Un lungo corpo a corpo con il protagonista, che esce di prigione dopo 48 anni e prova a capire cos’è la vita. Un uomo con una pistola aspetta in macchina. È acconciato come se fossero gli anni Sessanta o Settanta, anche la macchina parrebbe vecchia, ma fuori siamo nel presente. Sembra l’inizio di una rapina, ma poi mette in moto. Chi guarda il film non sa nulla di lui, ma nell’ora seguente non vedremo altro. Comincia così L’incorreggibile di Manuel Coser, esordiente ma già attivo come regista televisivo e di corti e soprattutto autore (con Guido Nicolas Zingari e Andrea Grasselli) del bel lavoro di VR Babel (2019). L’uomo nella e davanti alla macchina si chiama Alberto Maron, ha settanta anni, quarantotto ne ha passati in carcere. Quarantotto anni. Lo scopriamo piano piano, in questo lungo corpo a corpo che è L’incorreggibile, girato in un bianco e nero molto naturale, per niente manieristico. Aspetta di uscire dal carcere, lavora esternamente in una biblioteca, sarebbero scaduti i tempi ma le lungaggini burocratiche rimandano di un giorno, due. Poi finalmente è fuori. Un primo piano intenso lo coglie sorridente: Alberto è in scena per quasi tutto il film, ripreso da tanti punti di vista, in luoghi diversi, e in modi diversi. È tutto esplicito, l’apparato dichiarato, la relazione tra regista e protagonista esplicitata sin dal principio. Nelle primissime scene si sente Coser fuori campo dire “È stata la proposta che ti ho fatto fin dall’inizio se ti ricordi”. Gli dice di fare una scena, ma Alberto risponde: “Ma non è una realtà questa” (inteso, il carcere). Quale vita, quale realtà, ma anche quale realismo è la domanda che segue tutto il film. Del resto, come dice Giuliana/Monica Vitti in Deserto Rosso (Michelangelo Antonioni, 1964), “C’è qualcosa di terribile nella realtà e io non so cos’è. Nessuno me lo dice”. Fuori dal carcere Alberto si chiede se davvero questa cosa di pagare l’affitto, bollette, fare i conti fino all’ultimo euro sia vita e che vite invece erano quelle di prima, a rapinare banche o recluso in una cella. Coser nelle scene esterne segue il suo protagonista con camera a mano, pedinandolo, mentre predilige una camera ferma, con movimenti lenti e regolari, per le riprese interne. Sono proprio gli spazi interni, come la casa dove va a vivere o la biblioteca dove lavora, a essere valorizzati con queste pause, questa lentezza, in cui si riconosce forse un debito verso Straub e Huillet. Quello tra il regista e il suo protagonista è un rapporto intenso dunque, che intuiamo essersi costruito nell’arco di diversi anni, visto che il film è in produzione da almeno il 2016, quando vince il Premio Solinas. Questo patto, questa vicinanza, ha però comunque dei limiti e delle regole, svelate quando a metà film il regista spiega ad Alberto appena uscito che sicuramente da un punto di vista umano non avrebbe nessun problema a ospitarlo a casa sua, ma per il film sarebbe un problema. La scena più intensa, nel meccanismo riconoscitivo messo in campo nei confronti di chi guarda il film, è quella dell’anagrafe. Dopo aver girato intorno al protagonista, finalmente adesso attraverso il linguaggio burocratico dello stato italiano - qui incarnato in un piccolo ufficio comunale in una località piemontese - scopriamo quello che manca ancora, mettiamo insieme gli ultimi tasselli. Siamo anche noi spettatori a schedare il protagonista, schedato per quarantotto anni dall’apparato repressivo dello stato italiano, che ha prodotto una mola di documentazione incredibile, come vediamo in una delle scene più potenti del film. Il documentario italiano in questi ultimi anni ha continuato a sperimentare e cambiare il linguaggio, ibridando e costruendo nuovi stili e nuovi modi. Alina Marrazzi, Andrea Segre, Agostino Ferrente con il suo sconvolgente Selfie, Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, e tante e tanti altri si sono imposti anche a livello di festival mondiali, reinventando il modo di raccontare la realtà. Questo “documentario di creazione” (la definizione è di Coser stesso) si aggiunge a questa lista, sia per lo stile che per il contenuto - che poi come sappiamo l’uno non esiste senza l’altro. Non si vede mai il carcere in questo film, o meglio lo si vede solo da fuori. Se ne parla tantissimo, intuiamo e proviamo a capirne gli effetti sul protagonista - mantenendo sempre una certa distanza critica, come quella che mantiene in regista, perché quasi 50 anni privati della propria libertà non si possono spiegare. Si potrebbe dire che L’incorreggibile è un film sul fare un film sul carcere. Ma anche un film decisamente contro il carcere. Quartieri, carceri, ospedali: il museo amplia le proprie mura di Alessia Maccaferri Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2021 Il Pnrr rilancia il ruolo delle istituzioni rispetto ai territori e alle loro comunità: dall’Egizio di Torino al Palazzo Ducale di Genova, i luoghi della cultura investono sul concetto di accessibilità. Nel suo ufficio il direttore del museo Egizio di Torino nasconde un piccolo segreto: un magnifico papiro falso. Eppure per Christian Greco è prezioso perché è una riproduzione fatta a mano da un detenuto così abile da renderla quasi irriconoscibile se non a occhi esperti. Chi ha creato quel papiro non è però mai andato al museo. Piuttosto il museo è andato da lui, al carcere Lorusso Cotugno: “Abbiamo portato i nostri curatori in affiancamento agli insegnanti dell’Istituto professionale Plana e del Primo Liceo artistico all’interno di percorsi scolastici rivolti ai detenuti - racconta Paola Matossi L’Orsa, direttrice Comunicazione e marketing del Museo Egizio - Gli studenti hanno prodotto copie di oggetti lignei, papiri e maschere funerarie, che poi sono state portati nei corsi dell’Ospedale Pediatrico Regina Margherita. Il nostro intento è ampliare l’accessibilità delle collezioni e raggiungere anche coloro che non possono fisicamente visitare il museo”. Allo stesso modo l’Egizio è entrato nelle Rsa con cicli di conferenze e da anni è una buona pratica nell’inclusione di culture differenti. Per esempio, dal 2015 ha predisposto didascalie e audioguide in arabo, campagne promozionali rivolte agli arabofoni oltre formare donne arabe come guide, insieme all’Associazione Mic. “Sono almeno cinque anni che pratichiamo una nozione ampia di sostenibilità - aggiunge Matossi - che comprende l’accezione culturale e sociale”. Una tendenza ora rilanciata dal Pnrr che include misure a favore della sostenibilità a partire dall’efficientamento energetico di musei, cinema, teatri e la rimozione delle barriere architettoniche, senso-percettive, culturali e cognitive, la digitalizzazione del patrimonio culturale. “Con la pandemia i musei hanno mostrato le grandi potenzialità che hanno come luoghi, come produttori di contenuti e come attivatori di soluzioni creative. Noi abbiamo lavorato tanto con le scuole, coi quartieri, abbiamo vinto bandi per progetti nel centro storico e apriremo di più alle comunità stranieri con visite guidate mediate, ai territori” afferma Serena Bertolucci, direttrice del Palazzo Ducale di Genova che partecipa al bando Inluce della Compagnia di San Paolo per sostenere la cultura in piccoli centri. “Abbiamo presentato la candidatura assieme al Comune di Sassello per fare mostre e delle lezioni su come si organizzano le mostre, come si fa comunicazione ecc. Così una istituzione culturale grande si prende cura di una struttura piccola. Il Covid ci ha insegnato anche a condividere le risorse”. In vista dell’assegnazione dei fondi del Pnrr a Torino si sono fatte avanti diverse realtà tra cui Palazzo Reale. L’istituzione è già impegnata nella trasformazione delle serre (Orangerie) in uno spazio di comunità, con tavoli per studenti, per la lettura, sale conferenze, una caffetteria ecc. “Apriamo ancor più alla città con una operazione di cucitura territoriale tra due parti della città differenti, il centro e i quartieri Aurora e Barriera Milano” racconta la direttrice Enrica Pagella a testimonianza di uno sguardo rinnovato verso la società. Palazzo Reale ha chiesto fondi del Ppnr per il restauro del piano nobile, la zona più visitata. “L’intento è una vera e propria trasformazione dell’esperienza. L’allestimento attuale è ancora dentro ai canoni degli anni 60. Noi vorremmo rifunzionalizzare questi ambienti restaurandoli e studiando con gli scenografi un nuovo impianto luce che restituisca l’emozione delle stanze, oltre che migliorare il risparmio energetico dei vecchi lampadari. Vorremo portare ovunque il wifi, in modo da accompagnare la visita con il Qr Code” aggiunge Pagella. Inclusività e allargamento dei pubblici fanno parte della storia del Polo del ‘900 da quando è nato cinque anni fa. Si pensi, per esempio, alla nascita dello Spaccio di cultura - Portineria di Comunità in Piazza della Repubblica a Torino, nel cuore del quartiere di Porta Palazzo, un sistema di welfare di comunità che mette in rete commercianti, associazioni, cittadini in collaborazione con Rete italiana di Cultura Popolare (ente partner del Polo). E ancora “Dirittibus. Il museo per la città”, ideato dal Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà. Si tratta di un progetto di mediazione culturale rivolto a persone in condizione di disagio sociale, di bassa scolarità e di mancanza di accesso alla cultura che vengono raggiunte con un bus in giro per Torino che intorno ai temi salute, genere, disabilità, ambiente, migrazioni e lavoro realizza un calendario di eventi insieme alla cittadinanza. Inoltre il Polo ha lanciato “I venti dell’ambiente” nell’ambito di un contesto più ampio di riflessione sul tema della sostenibilità come dimensione globale in relazione agli obiettivi dell’Agenda 2030. “Siamo il primo museo europeo dedicato al tema dell’ambiente. Siamo un science center, un luogo in cui si incontrano scienza e ambiente e l’intento è disseminare, divulgare la cultura ambientale, scientifica - spiega la direttrice Rossella Lucco Navei - In particolare vogliamo far passare il messaggio che l’ambiente non sia qualcosa di esterno da noi, ma ne facciamo parte”. Il Maca ha quattro aree dedicate ai temi dell’energia, dell’acqua, dell’alimentazione e degli scarti. E offre una quarantina di attività di laboratorio rivolte al pubblico, alle famiglie, alle scuole. Il museo stesso nasce dal recupero di una fabbrica storica, pratica la compensazione dell’anidride carbonica e il Padiglione Verde, progettato dall’architetto Carlo Ratti è completamento rivestito da giardini con vantaggi climatici sia d’inverno che d’estate. All’esterno viene mostrato come costruire un orto verticale. Promessa al Colosseo: la pace ora è possibile di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 11 ottobre 2021 L’incontro tra tutte le religioni, promosso dalla Comunità di S. Egidio, con Papa Francesco, la Merkel, i politici e le migliori energie della società. È stata una scena straordinaria, anche per un non più giovane collezionista di emozioni, che da sempre si nutre soltanto di questo, rifiutando sdegnosamente il denaro superfluo, e limitandosi a quello necessario per la propria dignitosa sopravvivenza. Davanti al Colosseo, teatro romano dei più feroci e atroci divertimenti dell’antichità, vedere Papa Francesco, il patriarca Bartolomeo, Angela Merkel e la ragazza afghana di 22 anni, riuscita a raggiungere l’Italia grazie ai “Corridoi umanitari” creati dalla Comunità di S.Egidio, toccava il cuore. Fino alla vera commozione, raggiunta pienamente quando decine di bambini, provenienti da tutti i Paesi del mondo, hanno sfilato davanti ai leader e raccolto L’”Appello per la pace”, di cui saranno testimoni a casa loro. Quella vissuto giovedì scorso a Roma sembrava la fantastica materializzazione di un laico miracolo al quale partecipavano tutte le religioni e le forze sociali e politiche del pianeta. Niente retorica, solo fatti, e un “inno a smilitarizzare i cuori”(Papa Francesco), a sostituire l’IO con un NOI, tenendo conto delle differenze che sono la vera ricchezza di ciascuno. Vi assicuro che sono proprio fiero del mio grande giornale, il Corriere della Sera, che mi ha mandato per oltre 50 anni in giro per il mondo come inviato speciale, e assieme sono orgoglioso dell’appartenenza alla Comunità di Sant’Egidio, presente in quasi tutti i Paesi, e pronta a sostenere i poveri contro lo strapotere dei ricchi, i migranti per guerre e per fame, i diseredati, i bisognosi, i piccoli contro i grandi. La Comunità mi ha fatto incontrare personalità grandiose come Bauman, e anche io ho fatto la mia piccola parte segnalando le personalità più interessanti che avevo incontrato in giro per il mondo. Con gli amici, fratelli e sorelle, della Comunità mi sento davvero a casa. E ringrazio un prestigioso collega del mio giornale, il vaticanista Gian Guido Vecchi, giovane ma di eccellente scuola, per aver detto e scritto subito la verità. Che cioè la Cancelliera tedesca Angela Merkel è arrivata a Roma proprio per partecipare all’incontro della Comunità di Sant’Egidio, invitata dal fondatore Andrea Riccardi. Il suo discorso più importante lo ha fatto giovedì al Colosseo. In mattinata aveva incontrato privatamente il Papa e il primo ministro Mario Draghi. La forza di Angela Merkel, che ho incontrato spesso agli incontri internazionali della Comunità, è il suo amore per un mondo che comprenda tutti, rispettando le diversità di ciascuno. Anche personalmente, sono intervenuto giovedì mattina per raccontare le mie esperienze in quasi tutto il mondo, i miei incontri con sette presidenti americani, Da Jimmy Carter al pagliaccio e pericoloso Donald Trump, sostenendo il mio grande rispetto per Bush-padre, per Bill Clinton, per Barack Obama, e per Joe Biden, che lotta per un mondo di equilibri e compromessi necessari, che sappia davvero proiettarci nel futuro. È stata, quella di Roma, una breve ed esaltante parentesi, che mi ha enormemente arricchito. Ovviamente di straordinarie emozioni, che nessuno potrà mai sottrarmi. Grazie a Papa Francesco e alla sua voglia di verità, ad Angela Merkel per la sua forte coerenza, e alla Comunità di S. Egidio, che amo da sempre. Scontri a Roma, piazza sottovalutata. Il Viminale fa autocritica e prepara il pugno duro di Alessandra Ziniti La Repubblica, 11 ottobre 2021 Il ministero corre ai ripari e mette a punto il piano per garantire la sicurezza il 15, giorno di esordio del Green Pass, e durante il G20. Il prefetto Piantedosi nel mirino. Questa volta l’autocritica è impietosa: sottovalutazione delle presenze in piazza, schieramento delle forze in campo insufficiente e risposta tardiva all’attacco delle frange violente della manifestazione. Sull’ordine pubblico si cambia: accelerazione al lavoro di prevenzione sui social, massiccio aumento delle forze dell’ordine in strada e soprattutto nuove regole di ingaggio. Se sarà necessario usare la forza si farà. Senza tentennamenti. Il Viminale incassa a denti stretti, fa tesoro della lezione e corre ai ripari. L’autunno caldo è arrivato e ci sono due scadenze ravvicinate sulle quali non sono ammessi errori: la giornata di fuoco di venerdì 15 ottobre, giorno di esordio del Green Pass obbligatorio sui luoghi di lavoro e il G20 a Roma il 30 e 31 ottobre. Mercoledì il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza definirà la nuova strategia del pugno di ferro. La ministra Luciana Lamorgese, sempre di più nel mirino di Salvini e Meloni, resta in silenzio dopo l’analisi del pomeriggio di guerriglia nel centro di Roma ma fonti del ministero spiegano: “Non nascondiamo una forte preoccupazione. Ci aspettano giorni caldi e l’appuntamento del G20 sarà per l’Italia una vetrina mondiale. Sarà messo a punto un piano di forte rafforzamento dell’ordine pubblico. C’è una stagione in cui la politica del contenimento non basta più. Il dilemma se e quando usare la forza in una manifestazione che diventa violenta è il dilemma di sempre, di tutti i governi. Il contenimento non è una scelta solo della politica ma anche dei tecnici. Bisognava rispondere prima e avere in campo gli uomini necessari per farlo”. I tecnici, dunque: il prefetto e il questore di Roma, che avevano affrontato la questione nella riunione del Comitato provinciale ordine e sicurezza convocato 24 ore prima. Come è potuto succedere che chi doveva gestire la piazza si sia fatto trovare impreparato ben sapendo da tempo che Forza Nuova avrebbe guidato la protesta, che la tensione alla vigilia dell’entrata in vigore dell’obbligo di Green Pass sui luoghi del lavoro era altissima? Come possono essere rimasti non presidiati obiettivi sensibili come la sede della Cgil? Il prefetto di Roma, Matteo Piantedosi (al secondo “incidente” dopo la sfilata non autorizzata della Nazionale di calcio sul bus scoperto dopo la vittoria agli Europei) sente il terreno che scotta sotto i piedi e, a sera, affida ad una nota la sua autodifesa. Cominciando con l’ammettere che chi ha disposto i servizi per la manifestazione non aveva idea di quante persone sarebbero scese in piazza. “ Solo nelle ultime ore, man mano che diverse migliaia di persone giungevano da tutta Italia nella Capitale - dice il prefetto - è stato possibile rilevare un livello della partecipazione non solo quantitativamente molto elevato ma pure caratterizzato dalla variegata composizione dell’adesione alla manifestazione, verso la quale andavano confluendo da persone comuni a gruppi organizzati di facinorosi”. Troppo tardi per capire cosa avevano in mente Forza Nuova e le altre frange violente che invece la loro strategia l’avevano studiata con largo anticipo. Troppo tardi per lanciare i lacrimogeni in una folla dove gli incappucciati si nascondevano dietro famiglie con i passeggini, troppo tardi per mandare rinforzi, rimasti bloccati nella protesta, gli idranti rimasti a secco. Eppure Piantedosi rivendica la predisposizione di “un’adeguata cornice di sicurezza per fronteggiare anche le frange più radicali della protesta” e “la barriera che le forze di polizia avevano eretto a protezione dell’ingresso della Cgil”. Per poi concludere che “l’uso della forza è qualcosa che deve essere sempre ponderato con equilibrio, soprattutto quando si fronteggiano gruppi indistinti di persone”. I 12 arresti di ieri e la sostanziale decapitazione di chi finora ha governato la protesta dei No Pass in parte rassicurano il Viminale. Dove però adesso si chiedono: quanti sono in Italia i cani sciolti, i facinorosi non aderenti a nessuna organizzazione che, al primo input arrivato su whatsapp, sono pronti a replicare il sabato di guerriglia? I profughi “usati” da Minsk sbattono sui muri dell’Europa di Nello Scavo Avvenire, 11 ottobre 2021 Sul triplo confine nordorientale si consuma una tragedia nascosta, che con l’inverno può soltanto peggiorare. Nell’Europa che teme l’arrivo di una massiccia ondata di rifugiati afghani, vengono piantati altri pali d’acciaio per chilometri, issando barriere anti-migranti che stanno trasformando i confini esterni in una trappola di aculei. La guerra sui tre confini si combatte anche a colpi di ansiolitici somministrati dall’esercito bielorusso ai bambini migranti. Nella terra di nessuno tra Lituania, Polonia e Bielorussia capita che i militari di Vilnius debbano affidare ai rianimatori qualche piccolo profugo. “Hanno dato a noi e ai nostri figli delle pillole”, raccontano nell’ospedale di Kabeliai i genitori iracheni. Non erano vitamine per sopportare il freddo. Anche se di freddo si muore: almeno 5 le vittime accertate finora, ma di decine di persone disperse nei boschi non si sa più nulla. Distribuiti dai militari bielorussi in dosi sconsiderate per grandi e piccoli, i tranquillanti assicurano che gli stranieri spinti armi in spalla dai corpi speciali non comincino a piangere nel bel mezzo del bosco, di notte, dove la Lituania sorveglia la frontiera con droni e sensori nascosti tra gli alberi. Quando colti sul fatto, comincia la sceneggiata: le forze bielorusse accendono le videocamere e spingono i migranti verso le pattuglie lituane disposte per impedirne il passaggio. Al resto pensa la propaganda di regime, che mostrerà il volto spietato dei Paesi Ue, senza cuore nemmeno davanti ai bimbi. Anche con queste “munizioni” il dittatore bielorusso Lukashenko sta tentando di far saltare i nervi a Polonia e Lituania come rappresaglia per le sanzioni dell’Unione Europea al regime di Minsk. Bisogna attraversare più volte i tre confini per farsi un’idea delle rispettive parti in tragedia. Vilnius parla di “aggressione ibrida”. “Abbiamo a che fare con un’azione di massa organizzata e ben diretta da Minsk e Mosca”, rincara il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki. Secondo Varsavia, a partire dal mese di agosto oltre 7mila migranti e profughi hanno tentato di varcare il confine. Oltre 4mila nella sola Lituania. Fatte le debite proporzioni (38 milioni sono gli abitanti in Polonia, meno di 2,8 i lituani) si capisce come questi numeri possano essere usati per suscitare allarme. Nell’Europa che teme l’arrivo di una massiccia ondata di rifugiati afghani, vengono piantati altri pali d’acciaio per chilometri, issando barriere anti-migranti che stanno trasformando i confini esterni in una trappola di aculei. Il “muro polacco” è alto fino a 4 metri, una recinzione simile a quella eretta dall’Ungheria di Orbán nel 2015. Varsavia schiera circa mille uomini in appoggio alle guardie di frontiera lungo i 400 chilometri, in gran parte foresta, che separano i due Paesi. La linea di demarcazione tra Lituania e Bielorussia è una continua serie di tornanti, colline, fossati, campi arati per 678 chilometri. Anche qui è in costruzione una barriera, mentre 258 chilometri vengono monitorati elettronicamente. Con l’invio di migranti “Lukashenko sta cercando di destabilizzare l’Ue, usando gli esseri umani in un atto di aggressione”, va ripetendo la commissaria europea per gli Affari interni, Ylva Johansson. Venerdì sono arrivati nella capitale lituana 29,6 milioni di euro sui 37 stanziati dalla Commissione europea per aiutare il Paese ad affrontare l’arrivo di profughi. In gran parte si tratta di iracheni e siriani, ma stanno aumentando le domande d’asilo di afghani e perfino indiani e srilankesi. Dal Baltico a Kabul o Khartoum sono oltre 5mila chilometri di odissea. Eppure sudanesi e afghani arrivano fino a qui. Le testimonianze raccolte dalle agenzie umanitarie delle Nazioni Unite confermano come negli ultimi mesi siano stati agevolati, qualche volta anche in aereo, i viaggi dall’Oriente verso la Bielorussia. Una volta finiti nel limbo di Minsk, i profughi riappaiono lungo i sentieri che s’infrangono contro le reti metalliche finanziate da Bruxelles. Chi riesce a guadagnare il suolo della Ue dovrà affrontare altri disagi, e il rischio di una deportazione con volo diretto verso il Paese d’origine. Non tutti vogliono fermarsi dalle parti di Vilnius e c’è chi teme di restare prigioniero del regolamento di Dublino, che non offre scelta: o si presenta domanda d’asilo e si rimane in attesa obbligatoriamente nel Paese Ue di primo ingresso, oppure si è condannati alla clandestinità. I due iracheni Mohamad Wasim Hamid e Hamza Hayek Mahmud erano arrivati in Lituania dalla Bielorussia nella serata del 29 luglio, ma non hanno chiesto protezione internazionale. Avevano in mente di raggiungere la Germania o la Scandinavia. Pochi giorni fa sono stati condannati a 45 giorni di detenzione e verranno avviate le procedure per il rimpatrio. Dovranno attendere in un centro di accoglienza. In realtà, si tratta di accampamenti per la detenzione sorvegliati da militari incappucciati che perlustrano i dintorni con la mano sulla fondina. A Vilnius hanno riaperto un vecchio edificio abbandonato sulla collina dietro la linea ferroviaria. Il muro di cinta impedisce di vedere all’interno, ma chi riesce a visitarlo non ne è uscito contento. Lo stesso nelle tendopoli militari dove i profughi già fanno i conti con l’anticipo del sottozero invernale. L’ufficio statale del Difensore civico lituano non l’ha presa bene. Giovedì ha pubblicato un rapporto sulle condizioni di vita “disumane e degradanti” affrontate dai migranti irregolari. Le persone dormono in stanze umide, fredde e affollate. Mancano di cibo adeguato, acqua calda a sufficienza e farmaci. Il ministero dell’Interno ha rilasciato un commento, spiegando di non aver ancora letto il rapporto, ma “alcuni estratti pubblicati dai media portano alla conclusione che le informazioni contenute siano obsolete”. Per il Difensore civico, “le condizioni di detenzione dei migranti irregolari in Lituania” sono un “trattamento disumano proibito dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti”. Il 22 settembre quattro profughi sono morti di freddo e stenti sul confine tra Bielorussia e Polonia. Una quinta persona è deceduta poco più a Nord, dopo essere riuscita a raggiungere la Lituania. Ma per la fondazione umanitaria polacca Ocalenje le vittime potrebbero essere di più. Nella foresta di Usnarz Górny da quasi due mesi una trentina di persone vivono nascoste. Ma da diversi giorni si è perso ogni contatto con le persone incastrate tra la boscaglia sul lato di Minsk e il reticolato polacco. Altri 8 migranti oramai incapaci di muovere un solo passo sono stati soccorsi dopo essere sbucati in una zona paludosa e 7 sono stati portati in un ospedale polacco oramai in gravi condizioni. “Da tempo avevamo avvertito le autorità - ricorda Piotr Bystrianin, di Ocalenje - che se le guardie di frontiera non avessero smesso di respingere le persone senza neanche ascoltare la loro richiesta di protezione umanitaria, presto avremmo dovuto affrontare delle tragedie”. E l’inverno non è ancora iniziato. Migranti, gas e petrolio: come la Turchia di Erdogan ricatta l’Europa di Francesco Battistini e Milena Gabanelli Corriere della Sera, 11 ottobre 2021 Si dice spesso che i migranti possono diventare una straordinaria risorsa economica e politica. Vero. Se c’è un posto dove il concetto viene applicato alla lettera, questo è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, ma in tutt’altro senso. Per lui le grandi crisi umanitarie dall’Afghanistan alla Siria, fino alla Libia, sono diventate l’occasione per incassare soldi, e lo strumento di ritorsione con il quale giocare una complessa partita strategica ed energetica. La sua linea è chiara: dall’uso dei migranti all’influenza politico-militare, ogni mezzo è buono per diventare l’anello forte tra il mondo islamico e l’Europa. Come s’è arrivati a un Erdogan così determinante? Bisogna risalire al primo decennio del Duemila. Quando le tre guerre che via via scoppiano in Afghanistan (2001), in Iraq (2003) e in Siria (2011) fanno della Turchia il passaggio obbligato di milioni di rifugiati. Erdogan, l’ex sindaco d’Istanbul e leader del nuovo partito islamista che si batte per l’ingresso della Turchia nell’Ue, viene eletto premier. Fino alle Primavere arabe del 2011, garantisce un contenimento della cosiddetta Rotta Balcanica, la via dei disperati che attraversa Bulgaria, Grecia, Macedonia, Serbia e raggiunge il cuore continentale in Ungheria e in Croazia. Per lungo tempo, sulle isole greche, non si superano mai i 10 mila sbarchi l’anno. E gli immigrati entrano in Europa soprattutto dall’Africa, attraversando il Mediterraneo centrale. Le cose però cambiano in poco tempo per tre ragioni. La prima: la scoperta di gas davanti alle coste mediorientali. La seconda: dopo un lungo dibattito si chiudono definitivamente le porte all’ingresso della Turchia nell’Ue, a causa dell’ostilità della Germania che teme un’enorme onda di “asylanten” turchi. La terza: la guerra in Siria ha mosso quattro milioni di rifugiati verso la Turchia, con mezzo milione di bambini nati solo negli ultimi cinque anni. Isolato dagli europei, assediato dai profughi ed escluso dalla partita energetica, Erdogan cambia obbiettivi e strategie. Vediamo quali. La Turchia oggi è uno dei Paesi al mondo col più alto numero di rifugiati, oltre 5 milioni, su una popolazione di 80. Stanco di fare da portinaio al passaggio via terra di siriani e iracheni, pakistani e afghani, dal 2016 decide di monetizzare l’emergenza - 6 miliardi e 700 milioni di euro incassati dall’Ue, più un altro mezzo miliardo in arrivo, purché i gommoni non sbarchino sulle isole greche - e di farne uno strumento di ricatto per acquisire peso internazionale. All’assemblea generale dell’Onu, il 24 settembre 2021, mentre Kabul precipitava nel caos, il leader turco ha dichiarato: “Se gli americani mandano da noi i profughi afghani, ci diano il sostegno logistico, diplomatico e finanziario che ci serve. E coi talebani tratteremo noi”. Il governo di Ankara, senza fornire dettagli, ha stimato in 40 miliardi di dollari gli aiuti necessari a gestire i dieci anni di crisi siriana. E ora che le emergenze si sono moltiplicate, la sua politica è diventata quella di “esternalizzare” il controllo delle frontiere europee: io mi tengo i migranti che verrebbero da voi, ma in cambio voi mi pagate in denaro sonante e in aperture politiche. La ritorsione sui migranti però non funziona sul tavolo della guerra per le risorse di gas in quel pezzo di mare davanti a casa. Nei fondali del Mediterraneo orientale, dal 2010, sono stati scoperti enormi giacimenti di gas naturale. Alla corsa all’oro sottomarino partecipano l’Egitto, la Grecia, Cipro, Israele, tutti Paesi che hanno rapporti poco amichevoli con Ankara e che, d’accordo con l’Europa, stanno progettando un gasdotto per tagliare fuori gli inaffidabili turchi. Chiuso nella doppia morsa, Erdogan s’è dovuto chiedere come uscirne. La soluzione l’ha trovata guardando all’altra sponda del Mediterraneo: la Libia. Proprio là, dove dovrebbe passare il nuovo gasdotto, e dove è possibile riproporre lo stesso schema di taglieggiamento sperimentato con la crisi siriana. Nel 2015, quando un milione e 300 mila profughi siriani si muovono dalle coste turche per entrare in Europa, Erdogan li contiene ottenendo in cambio diverse concessioni, compresa una quota di visti più facili per i suoi cittadini. L’occasione per Erdogan si presenta nel gennaio 2020. La debolezza della nostra politica estera in Libia durante i due governi Conte, ha lasciato spazio libero, e consentito a Erdogan di sbarcare in meno di due anni, centinaia di “consiglieri militari”. Facendo sì che Ankara e Tripoli firmassero un accordo esclusivo per il controllo delle coste della Tripolitania, per la difesa reciproca e per lo sfruttamento di gas e petrolio nel Mediterraneo centrale. Approfittando della guerra civile tra il generale Khalifa Haftar (appoggiato da russi ed egiziani) e il governo di Tripoli, sostenuto dalla comunità internazionale, la Turchia invia truppe, armi, e sposta dalla Siria in Libia i suoi miliziani mercenari, in appoggio al governo di Tripoli. Una mossa abile: da quel momento, Erdogan può sedersi al tavolo dell’undicesimo maggior produttore di petrolio al mondo, chiedendo a Tripoli pure la gestione dell’aeroporto e del porto di Misurata per i prossimi 99 anni. Solo un mese prima dell’intervento militare contro Haftar, Erdogan ha firmato proprio coi tripolini un accordo per lo sfruttamento delle loro risorse naturali sottomarine, 10 miliardi per la ricostruzione di strutture e infrastrutture, e nel frattempo ha iniziato a controllare i flussi in arrivo dal Sahel e dall’Africa subsahariana. Un esempio di questo nuovo ruolo nel Mediterraneo centrale si vede subito: nel gennaio 2020 la fregata turca Gaziantep, impegnata a scortare un carico d’armi diretto a Tripoli, recupera di sua iniziativa un barcone di migranti diretto in Italia e lo riporta in Libia. È un respingimento illegale, ma sufficiente a legittimare la presenza turca nel mare “nostro”. Dopo l’accordo con l’Ue sui migranti siriani, il gioco turco è evidente: le frontiere prima si chiudono, passando dal milione 300 mila profughi sulle rotte balcaniche del 2015 a una media di 20 mila nel 2018, per poi riaprirsi nel 2019 con 159 mila profughi sulle coste greche. E quando l’Europa decide di imporre sanzioni economiche per le operazioni militari di Erdogan in Siria, o peggio ancora sui curdi, ecco la minaccia: “Se provate a chiamare invasione le nostre operazioni - dice il leader turco nel 2019 -, spalancheremo i nostri confini e vi manderemo tre milioni e mezzo di rifugiati”. E le sanzioni si attenuano. La promessa è mantenuta l’anno dopo: nel 2020 Ankara batte cassa, ma Bruxelles è lenta a rispondere, e allora la Turchia sposta 130 mila disperati sui 120 km di frontiera terrestre con la Grecia. Tempo pochi mesi e l’accordo economico con l’Ue viene rinnovato. È un gioco facile, se sei tu a regolare i rubinetti delle migrazioni sia da Est sia da Sud e, intanto, ti prepari a controllare anche quelli di gas e petrolio. E in spregio a ogni regola: la Turchia non ha mai rispettato la clausola, contenuta nell’accordo con l’Ue, che le impone di riaccogliere un migrante sbarcato nelle isole greche per ogni migrante che viene ricollocato in Europa. In cinque anni se n’è ripresi 2.140, contro i 15 mila sbarcati in Grecia solo nel 2020. Lo stesso vale per i soldi che l’Europa ha versato per bloccare il traffico: sono destinati al riammodernamento di dogana e frontiere, in realtà vengono usati per comprare armi e combattere la minoranza curda. Questa situazione sta esasperando i Paesi europei più esposti sull’ultimo confine Ue con la Turchia, Grecia e Bulgaria, che sono fra i 12 governi che hanno chiesto a Bruxelles di alzare muri, da aggiungere a quelli che già ci sono. E ora sulla rotta mediterranea si potrebbe prospettare lo stesso scenario: se l’Europa o l’Italia oseranno sollevare obiezioni sui gasdotti, o su tutte le altre partite libiche sulle quali Erdogan sta negoziando, è pronta la leva dei migranti. Sappiamo bene che il fenomeno dei flussi migratori non lo risolvi costruendo muri, ma anche aver pensato di uscirne indenni nascondendoli sotto al tappeto del dittatore turco la dice lunga sulla incapacità strategica dell’Unione. “Vi racconto la barbarie delle detenzioni amministrative e il coraggio di chi si oppone” di Umberto De Giovannangeli globalist.it, 11 ottobre 2021 Per Israele sono terroristi quando si fanno strumento di morte. E sono sempre terroristi se usano il loro corpo per manifestare la loro voglia di libertà. A raccontarla è la giornalista israeliana che meglio di chiunque altro reporter conosce la realtà palestinese. Amira Hass, firma storica di Haaretz. “Il Comitato Internazionale della Croce Rossa - scrive Hass - ha dichiarato questa settimana di essere gravemente preoccupato per la salute di due detenuti amministrativi palestinesi incarcerati da Israele, che stanno facendo uno sciopero della fame da circa 80 giorni. I due sono Kayed Nammoura (Fasfous), un 32enne che da venerdì rifiuta il cibo da 87 giorni, per protestare contro la sua continua detenzione, e Miqdad Qawasmeh, 24 anni, che è in sciopero da 80 giorni. I due sono stati ricoverati al Kaplan Medical Center di Rehovot. Il 29 settembre, in risposta a un appello presentato dall’avvocato Jawad Boulos, la Corte suprema ha ordinato che la detenzione amministrativa di Qawasmeh fosse “congelata” a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute. Non gli è permesso di lasciare l’ospedale, anche se può avere visite e non è più incatenato al letto. Anche altri quattro detenuti amministrativi stanno protestando contro il fatto che Israele li ha imprigionati per un periodo indefinito senza un’accusa, prove o testimoni, negando loro il diritto alla difesa. I quattro, che sono rinchiusi in una clinica della prigione di Ramle, sono Alla al-A’araj, in sciopero della fame da 63 giorni, Hisham Abu Hawash (in sciopero da 54 giorni), Raik Bisharat (49 giorni) e Shadi Abu Aker (46 giorni). I sei scioperanti della fame sono tra i circa 520 palestinesi detenuti in detenzione amministrativa nelle prigioni israeliane per ordine del servizio di sicurezza Shin Bet, lontano dagli occhi del pubblico israeliano. Le famiglie dei detenuti, alle quali sono state vietate le visite come parte della punizione del servizio carcerario israeliano nei confronti degli scioperanti della fame, sono state informate dagli avvocati che la salute dei loro figli sta peggiorando. Ma le famiglie stanno criticando non solo Israele ma anche l’Autorità Palestinese, che dicono non ha mostrato alcun serio interesse per la sorte dei detenuti. Né l’AP ha cercato di far interessare l’opinione pubblica israeliana o la comunità internazionale allo sciopero, o alla pratica illegale di Israele di detenere i palestinesi senza processo, dicono le famiglie. Due settimane fa, la madre di Fasfous, Fawzia Fasfous, ha cercato di superare l’impotenza che le famiglie stanno provando viaggiando dalla sua casa di Dura, nel sud della Cisgiordania, a Ramallah. Lì si è fermata in piazza Emile Habibi, davanti all’ufficio del primo ministro palestinese, con una fotografia di suo figlio. Uno dei suoi nipoti l’ha accompagnata. Una protesta presso un simbolo dell’autogoverno palestinese è un evento raro. Una delle guardie di sicurezza le ha offerto una sedia. Due poliziotti si sono aggirati imbarazzati e alla fine hanno chiesto a Fawzia di entrare nel piccolo edificio delle guardie. Lei ha rifiutato. Gli ufficiali hanno detto ad Haaretz che era vietato fotografare la protesta, ma non hanno saputo spiegare perché. In ogni caso, nessun giornalista palestinese stava coprendo la tranquilla dimostrazione di una madre la cui vita del figlio è sempre più a rischio. ‘Siamo con voi - ci identifichiamo con voi”, ha detto uno degli ufficiali. Un funzionario dell’ufficio del primo ministro alla fine ha convinto Fawzia a entrare nell’edificio delle guardie, dove le ha detto con voce compassionevole: ‘Non siamo noi l’indirizzo. Se, Dio non voglia, suo figlio fosse stato arrestato da una delle agenzie di sicurezza palestinesi, potremmo intervenire. Ma è detenuto dalle autorità di occupazione’. La madre ha ascoltato pazientemente, ma quando ha lasciato l’edificio ha detto ad Haaretz: ‘Sto protestando qui perché quando loro [l’AP] vogliono, hanno dei canali per le autorità di occupazione’. Ha ricordato il caso di Ghadanfar Abu-Atwan, un altro detenuto amministrativo di Dura. Dopo uno sciopero della fame di 65 giorni è stato rilasciato dalla prigione all’inizio di agosto. La gente di Dura dice in tutta confidenza che è stato rilasciato a causa di una telefonata del capo dell’intelligence palestinese Majed Faraj a qualcuno dello Shin Bet. ‘La donna ha ragione’, ha detto ad Haaretz un alto membro di Fatah. ‘I funzionari dell’intelligence palestinese possono parlare con lo Shin Bet e spiegare, per esempio, che gli scioperi della fame dei detenuti amministrativi minano la stabilità interna e danneggiano la posizione dell’AP presso il pubblico. Questo è il tipo di ragionamento che lo Shin Bet ascolta’. Fasfous e Abu-Atwan appartengono a famiglie legate a Fatah. Questo li rende un’eccezione tra i detenuti amministrativi, la maggior parte dei quali lo Shin Bet associa ad Hamas, alla Jihad Islamica o al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Poco prima che Abu-Atwan fosse rilasciato, un altro adetenuto di nome Khader Adnan, che è affiliato alla Jihad islamica, è stato liberato dopo un periodo ancora più breve. (Ma due settimane dopo, Adnan è stato arrestato per alcuni giorni dall’AP per aver partecipato alle proteste contro l’omicidio dell’attivista politico Nizar Banat). Adnan è stato il primo ad adottare la tattica dello sciopero della fame circa 10 anni fa; la sua protesta contro la detenzione senza processo ha attirato molta attenzione. Ma da allora, i singoli scioperanti della fame non sono stati in grado di suscitare quel tipo di attenzione da parte del pubblico palestinese o di riaccendere il dibattito internazionale sull’uso continuo della detenzione amministrativa da parte di Israele. Le famiglie degli scioperanti della fame ne sono ben consapevoli e sono combattute tra il loro sostegno all’unica tattica di protesta che i loro figli possono adottare, e la consapevolezza che la salute degli scioperanti sarà permanentemente danneggiata senza raggiungere i loro obiettivi. Le punizioni imposte dalle autorità carcerarie - divieto di visite familiari, isolamento, perquisizioni più frequenti delle loro celle - fanno anche perdere il sonno alle famiglie. Un incontro sulla sedia a rotelle - Le famiglie Fasfous e Abu Hawash hanno vissuto a lungo con la realtà della detenzione amministrativa. ‘Ci siamo fidanzati nel 2007 mentre Hisham era in prigione’, ha detto la moglie di Abu Hawash, Aisha, nella loro casa di Dura il mese scorso. Nel 2004, quando aveva 22 anni, Hisham è stato condannato a tre anni di prigione per le sue attività durante la seconda intifada. Ha iniziato la sua condanna come membro di Fatah e, secondo suo fratello Imad, ‘non gli piaceva il modo in cui i prigionieri di Fatah si comportavano e passò alla Jihad islamica’. Tuttavia, è un musulmano liberale, dice suo fratello. Hisham è stato in detenzione amministrativa tre volte - otto mesi nel 2008, due anni tra il 2012 e il 2014, e nell’ottobre 2020 - ogni volta senza che gli venisse detto di cosa era sospettato e senza un processo. ‘I soldati sono entrati in casa all’1:30 del mattino; si sono comportati bene, ma gli hanno subito preso il telefono’, ha detto sua moglie, raccontando il suo ultimo arresto. ‘Nessun ufficiale dello Shin Bet era con loro. Piuttosto, uno di loro ha parlato con Hisham usando uno dei telefoni dei soldati. Gli ha detto che se prendeva delle medicine, doveva portarle con sé. Hisham non ha potuto salutare i nostri figli perché non voleva svegliarli. Non aveva capito che stava andando in detenzione amministrativa. Mi ha detto: ‘Prenditi cura dei bambini e tornerò presto, perché non hanno niente su di me’”. Aisha racconta che suo marito mantiene sempre il suo senso dell’umorismo. ‘Anche quando parliamo di cose serie, lui trova il modo di scherzarci sopra, anche se la nostra situazione è difficile. Nostro figlio di 6 anni, Iz al-Din, ha una malattia renale’. ‘Da quando siamo sposati non abbiamo mai portato i nostri figli da nessuna parte se non a Betlemme, perché lì c’è il medico. Hisham non è mai stato all’estero. Lavora sempre, nell’edilizia qui a Dura. A volte, quando finisce presto, porta i bambini al negozio per comprare qualcosa, e poi va a dormire’, racconta ancora Aisha. ‘C’è stato un periodo in cui è andato a lavorare in Israele. Ci ha mandato una foto con un rabbino - qualcuno con le serrature laterali - in una sinagoga a cui stava lavorando. Mi ha promesso che non era coinvolto in nessuna attività [politica], e io gli credo. Deve lavorare perché la condizione di Iz ci costa molto denaro’. Due mesi fa, il loro figlio è stato sottoposto a un intervento chirurgico in un ospedale di Gerusalemme Est, ma la procedura non ha avuto successo. ‘Emotivamente, non riesco ad abituarmi a stare senza Hisham, ma mi sono abituata a gestire la giornata senza di lui’, dice Aisha. ‘Se Iz non fosse così malato, tutto sarebbe molto più facile’. Da quando suo marito è stato arrestato un anno fa, Aisha ha potuto visitarlo solo una volta, il 16 agosto. Lui le ha parlato dei suoi piani di lanciare uno sciopero della fame. ‘Ho cercato di convincerlo a non farlo, ma lui mi ha detto: ‘Non ha senso che io sia stato rimandato in prigione perché non ho fatto niente’. Due giorni dopo, ha iniziato lo sciopero. Tre settimane fa, le sue condizioni erano relativamente buone, anche se fin dall’inizio si è rifiutato di prendere delle vitamine. All’ultimo incontro con Boulos, il suo avvocato, Hisham è arrivato su una sedia a rotelle. ‘Mi preoccupo costantemente che anche se lo liberano potrebbero venire ad arrestarlo di nuovo in qualsiasi momento’, confessa Aisha. ‘Questa è l’essenza della detenzione amministrativa senza processo”. Lei lo capisce bene. Quando suo fratello maggiore era in detenzione amministrativa, ha fatto uno sciopero della fame che è durato più di 100 giorni. Tre settimane fa, Aisha aveva promesso ai suoi figli che avrebbe preparato una torta nel momento in cui Hisham fosse stato rilasciato. Ora vuole solo che suo marito smetta di rischiare la vita. L’obiettivo dello Shin Bet - A differenza della casa della famiglia Abu Hawash, che non ha segni di affiliazione a nessuna organizzazione, la stanza dove la famiglia Fasfous ospita i visitatori è piena di bandiere di Fatah e di fotografie di Yasser Arafat e di prigionieri. Non solo Kayed è in detenzione amministrativa dal settembre 2020, ma i suoi fratelli Mahmoud e Akram ci sono da oltre un anno. Kayed, che prima del suo arresto ha ripreso i suoi studi universitari in informatica, aveva lavorato come contabile per il comune di Dura. È sposato e padre di una figlia, il cui straziante appello per il rilascio del padre si può trovare su Facebook. Un altro fratello è stato arrestato un mese e mezzo fa. Anche lui, secondo suo fratello Khalid, è stato messo in detenzione amministrativa sulla base di prove segrete. Parallelamente alla detenzione amministrativa, è stato accusato di reati come il lancio di molotov e la rissa. Il figlio più giovane di Khalid Fasfous si chiama Zakaria come il prigioniero di Fatah Zakaria Zubeidi, uno dei sei fuggiti dalla prigione di Gilboa in agosto. Khalid una volta divideva la cella con Zubeidi. ‘Come Zubeidi, siamo il Fatah di Arafat’, ha detto Khalid il mese scorso, pochi giorni dopo che i sei evasi erano stati ricatturati. Questo è un modo indiretto per dire che la famiglia Fasfous si oppone all’attuale leadership dell’AP e di Fatah. Khalid dice che le forze di sicurezza palestinesi sono arrivate al punto di fare irruzione nelle loro case quando le tensioni tra due fazioni di Fatah diventano gravi. Suo fratello maggiore, Hassan, è stato processato e incarcerato dall’AP dopo aver sparato a un veicolo militare israeliano nel 2013. Quando Hassan è stato rilasciato dalla prigione palestinese, è stato immediatamente arrestato dalla polizia di frontiera di Israele e imprigionato in Israele per tre anni. Tutti e sei i fratelli Fasfous hanno scontato diversi anni di prigione per le loro attività di Fatah durante la seconda intifada. Nel 2010, erano tutti in prigione quando il loro padre è morto. Tranne Hassan, tutti loro sono stati anche in detenzione amministrativa in un momento o nell’altro. “La forza armata che entra in casa nostra ogni volta che c’è un arresto è sempre accompagnata da un ufficiale dello Shin Bet di nome Nir”, afferma Khalid. ‘Abbiamo la sensazione che lo Shin Bet ci abbia preso di mira come famiglia. Perché? Non lo so. Forse perché i collaboratori danno loro false informazioni’. Il reportage di Amira Hass finisce qui. È un racconto, mirabilmente scritto, idi dolore, di rabbia, e di una determinazione straordinaria a proseguire la lotta. È la storia di donne palestinesi, fiere, eroiche, donne, ragazze, adolescenti, non abbassano mai gli occhi di fronte ai soldati d’Israele. Sono loro la speranza di un popolo che non si arrende. Nonostante tutto e tutti. Le loro storie non avranno spazio, statene certi, sulla stampa mainstream, quella per cui i palestinesi fanno notizia solo se si fanno esplodere a un ceck point. Ma se adottano la non violenza, che non è sinonimo di resa, su di loro cade una coltre di silenzio. Semplicemente, non esistono. “Restiamo umani”, ripeteva Vittorio Arrigoni. Restare umani significa anche raccontare queste storie di resistenza. La resistenza palestinese. Viaggio nell’Helmand con i mercanti d’oppio: “Ecco l’oro dei talebani” di Paolo Brera La Repubblica, 11 ottobre 2021 L’Afghanistan è il primo produttore di eroina. Un business che ha finanziato la guerra agli Usa. Ora gli studenti coranici promettono di fermare la droga. I narcos: “Bene, saliranno i prezzi”. Nella sua raffineria di droga, decine di postazioni di lavoro sono desolatamente vuote. Feda Muhammad le guarda sconsolato. Il fiume di morfina ed eroina afghana che inonda l’Occidente “è in secca da 20 giorni. Fino a tre settimane fa - dice - avevo 24 operai”. Ma non è preoccupato: “Per le pressioni internazionali - spiega - i talebani hanno detto che contrasteranno produzione e commercio. Il mercato si è fermato: stiamo stoccando, vedremo. Finalmente i prezzi potrebbero aumentare”. Ridurre la produzione, come i talebani promettono, può essere un affare per tutti. Per capire cosa stia succedendo, Repubblica è entrata nella tana del lupo: abbiamo trascorso due giorni tra i contadini del papavero e i trafficanti dei suoi derivati, morfina ed eroina; abbiamo conquistato la loro fiducia, condiviso il latte cagliato; abbiamo dormito con una famiglia di narcos, discutendo di Afghanistan ed eroina, e pranzato coi grossisti nel loro bazar. E abbiamo visitato quattro raffinerie nelle campagne di Lashkar Gah, il capoluogo della provincia più pericolosa e violenta dell’Afghanistan: l’Helmand. L’85% del narcotraffico mondiale d’oppiacei nasce in Afghanistan. La produzione, stabile e con prezzi alti fino al 2000, dopo la cacciata dei talebani aumentò nonostante eradicazioni e bombe. Da 60mila ettari nel primo Emirato islamico è salita ai 224mila della Repubblica, nel 2020; il quadruplo della Birmania, secondo produttore. Il 16% del Pil afghano viene dal narcotraffico: 3 mld di dollari l’anno. La quota dei contadini è irrisoria: 347 milioni nel 2020. Una parte considerevole, invece, va nelle tasche dei talebani, che controllano le aree di produzione: era indispensabile, per finanziare la guerra. A Musa Qala, nel mercato all’ingrosso della droga, quintali di oppio passano veloci di mano: 500 dollari per un man, una borsa trasparente con 4,5 chili di melassa scura, l’oppio grezzo. Su questa sabbia arsa nessun civile occidentale ha mai messo piede: appena arrivati, mentre parcheggiamo col fiato in gola tra occhi che ci squadrano taglienti, tre sacchi - una campionatura - van giù nel bagagliaio del Toyota accanto a noi. Musa Qala è un villaggio ben protetto dal deserto oltre l’impervio e turbolento Sangin. Siamo nel cuore duro dell’Islam radicale, terra madre dei talebani, nella provincia ribelle dell’Helmand. Qui sboccia più di metà dei papaveri del Paese. Il nostro passepartout, e soprattutto il nostro biglietto di ritorno, è un commerciante di Lashkar Gah, pecora bianca di una famiglia di trafficanti. Uno dei sui fratelli ci ha fissato un appuntamento al famigerato mercato del narcotraffico. Partiti all’alba da Kandahar percorriamo la strada trafitta dagli ordigni esplosi. Nell’Helmand giriamo su una secondaria, in un panorama lunare fino all’ultimo avamposto d’Afghanistan rurale, il capoluogo spettrale del Sangin sfondato dalle bombe. Dopo il presidio di Emergency, c’è solo deserto. Sabbia e sassi per ore, e sole a picco. Arrivati nel gran bazar di Musa Qala, svoltiamo in un vicolo claustrofobico. Il bazar dei narcotici è una piazza a elle come una tessera del “tetris”, l’unica via d’uscita è il vicolo infido. Attorno a noi c’è un alveare di cubicoli commerciali, sembrano i box auto malandati di un vecchio condominio popolare. Sono decine. Ogni box è la bottega di un grossista. Bambini incuriositi si avvicinano, gli sguardi dei trafficanti ci trafiggono. Il nostro contatto è irrintracciabile, e a Musa Qala non c’è connessione. L’autista sonda il terreno, poi fa segno di scendere: “Li ho convinti. Ho detto che c’è un giornalista italiano come Emergency, che li ha sempre aiutati”. Entrati nel box, decine di turbanti neri si accalcano a vedere lo straniero senza armi né divisa. “L’infedele” che non sgancia bombe, senza sradicatori per distruggere i campi tra i blindati e i droni. Sono apparentemente amichevoli, cordiali, curiosi, divertiti. Credono di poter ricevere aiuto o fare affari, alcuni ci offrono la mercanzia. Se volessimo una tonnellata di eroina, nessuno batterebbe ciglio. Ma la diffidenza è reciproca. “Perché gli stranieri come te ci sparavano di continuo dall’alto? Perché hanno ucciso così tanti civili? L’anno scorso - dice Abdul Khalid, 30 anni - a un matrimonio i droni hanno ammazzato duecento invitati”. “In vent’anni - dice un altro - a Musa Qala non abbiamo avuto nulla dal governo né dai talebani. Non ho mai combattuto ma i miei bambini non hanno neanche la scuola”. Mentre ci raccontano le sciagure di questa terra senza pace, un grossista squinterna davanti a noi un sacchetto d’oppio. Sembra l’impasto poco amalgamato di una torta al cioccolato. “Grezzo si usa come medicina - dicono - ed è afrodisiaco”. “Adesso il mercato è basso, da 15mila a 22mila rupie al chilo”, dice Umar Jan. Il narcotraffico opera in valuta pachistana: siamo sui 100 dollari al chilo. In un altro box stendono a terra una tovaglia di plastica, allineano due piatti con poca zuppa e una boule di latte cagliato. Si intinge la focaccia nella zuppa con mani non lavate, tutti nello stesso piatto; si beve di bocca in bocca dai due mestoli. Una ventina di persone non pranzano. La povertà è evidente. “Vengo da un villaggio - dice Haji Abdul Raman, 55 anni - non c’è famiglia qui che non abbia sepolto tre o quattro morti. La poca acqua la usiamo per l’oppio, è l’unico modo di sopravvivere”. “I bombardamenti americani ci hanno fatti a pezzi. In questi 14 anni - dice un altro - tutti i guai sono venuti dagli infedeli”. Sareste disposti, domandiamo, a coltivare altro? “Siamo pronti, ma ci devono aiutare: non abbiamo nemmeno i soldi per mangiare”. A Kabul è frequente vedere persone ciondolare con la siringa nel braccio. I talebani sono ferrei nel condannare il consumo di eroina, non l’esportazione. “Contadini e raffinerie pagano loro il 10% di tasse; noi paghiamo la protezione”, spiegano i narcos che ci ospitano a Lashkar Gah. Qui non è illegale ciò che fanno, ma proviamo a stanarli sul piano morale: i morti, le vite bruciate, la tossicodipendenza... “Da voi la gente muore alcolizzata ma producete l’alcol e riscuotete le tasse, anche se qui è vietato. Non è lo stesso?”. “Gli americani ci hanno bombardati tre volte. Questo era mio fratello maggiore, lo hanno ucciso”, dice Feda Muhamad nella sua raffineria, una delle centinaia in Afghanistan. Le tecnologie necessarie sono banali: “In questi buchi sul pavimento - racconta Ramat, un 24enne che ci implora di portarlo in Europa dove però la sua specializzazione non sarebbe molto apprezzata - buttiamo carbone e accendiamo il fuoco”. Bagnato, scaldato e mescolato, l’oppio assomiglia a catrame fuso. Ramat mostra i bidoni e la pressa con cui, aggiungendo acqua e calce, produce morfina. “I clienti portano l’oppio grezzo - spiega Feda - e per essiccarlo pagano 100 rupie al chilo. Versiamo il 10% di tasse ai talebani”. Su morfina ed eroina si guadagna di più. “Poi spediamo al mercato di Bahram Chah”, dicono i trafficanti. È un villaggio vicino all’Iran e al Pakistan. “Lì i balucistani - a cavallo dei tre Stati - prendono vie tra i monti. La droga va al porto di Karachi, in Pakistan; o in Iran, per poi entrare in Turchia”. Il ruolo dei talebani invece è “tassare produzione e raffinazione e proteggere i convogli. Carichiamo fino a tre tonnellate sulle Land Cruiser, ognuna costa 2 dollari al chilo, sui 5mila a viaggio. Più 80 per ogni talebano armato”. Con un Paese alla fame, per contrastare il narcotraffico i talebani dovranno ricevere consistenti contropartite. Probabilmente si limiteranno a imporre un taglio alla produzione, una misura che potrebbe non dispiacere alla filiera: “Farà rialzare i prezzi”. I più deboli resteranno contadini e braccianti come Mohamad Zamam: “La terra non è mia; la lavoro a secco, spargo il seme, inondo d’acqua. Dopo 30 giorni spunta la pianta - dice stringendo la vanga tra i papaveri - e dopo sei mesi raccolgo l’oppio”. Ci mostra gli sfregi paralleli che infligge ai boccioli immaturi per estrarre il lattice essudato. Ha 21 anni, ma ne dimostra 45. Sole e fatica gli hanno bruciato le mani e solcato di rughe il viso. Nel Libano piegato da buio e povertà: “Non ho 5 centesimi per un tozzo di pane” di Francesca Mannocchi La Stampa, 11 ottobre 2021 In due anni il Paese è sprofondato in una crisi economica senza precedenti. Corruzione e crollo della lira: “È l’inferno, costretti a far lavorare i bambini”. “Hanno rubato i nostri soldi, i risparmi di una vita. Perché le persone restano in casa passivamente? Perché nessuno scende più in piazza a manifestare? Abbiamo perso tutto e nessuno si ribella, yalla Beirut, riprendiamoci ciò che è nostro!”. Sono le dieci di sera, le voci degli ascoltatori delle radio libanesi risuonano sulla via che dall’aeroporto Rafic Hariri conduce al centro di Beirut. Intorno la città è buia. Spenti i semafori, buie le case, buie le strade. Bui Mar Mikhael, Gemmayze, i quartieri che fino a due anni fa erano animati da giovani, studenti, turisti. Buio il quartiere di Hamra: saracinesche abbassate, vetrine su cui si è accumulata la polvere di mesi di crisi che sta affamando il Paese. Sedute a terra, sull’asfalto, decine di donne a questuare. Tengono in braccio ragazzini scalzi, sporchi. Sono quasi tutti siriani, ne vivono un milione e mezzo in Libano. I più vulnerabili tra i vulnerabili. I distributori di benzina sono transennati. Tra luglio e agosto Electricité du Liban, la società statale dell’energia, ha garantito due o tre ore di elettricità al giorno. Sabato pomeriggio ha smesso del tutto di fornire elettricità al Paese. Ieri le due centrali sono ripartite grazie a 600 mila litri di carburante portato dall’esercito libanese. “La rete è tornata alla normalità”, ha annunciato il ministro dell’Energia, Walid Fayad. Ma normalità significa che l’elettricità sarà disponibile a Beirut per due, tre ore al giorno. In due anni la lira libanese ha perso oltre il 90% del suo valore rispetto al dollaro Usa, raggiungendo, al mercato nero, più di 20.000 lire per dollaro la scorsa estate. Tuttavia, la banca centrale, Banque du Liban, mantiene un tasso ufficiale introdotto nel 1997, che agganciava la lira al dollaro a un cambio di 1.500. La lira dollarizzata, il cambio che ha retto lo schema Ponzi che ha consentito ai cittadini di godere di una valuta stabile e di un alto potere d’acquisto per decenni. Un sistema costruito attirando capitali esteri da depositare in Libano in cambio di un tasso di interesse di oltre il 10% l’anno. I tassi venivano ripagati attirando nuovi capitali, le banche incoraggiavano le persone - soprattutto i libanesi della diaspora - a depositare denaro sapendo che non avrebbero potuto ripagare quei tassi d’interesse. Una frode gigantesca cominciata a incrinarsi quando l’instabilità dell’area ha innervosito gli investitori, dopo l’inizio della guerra siriana, e che si è inceppata irreversibilmente dopo il 2017, quando l’allora primo ministro Saad Hariri è stato di fatto rapito per dieci giorni in Arabia Saudita e costretto alle dimissioni in diretta televisiva da Riad. La fragilità dei suoi movimenti, il terrore nel suo volto erano l’inizio della caduta definitiva dell’economia del Paese. Il castello di carte è cominciato a crollare, e le persone a scendere in piazza. Era l’autunno del 2019, l’autunno della “thaura”, della rivoluzione. Dopo l’annuncio di una tassa sulle telecomunicazioni il Libano scende in piazza al grido di Ashaab yurid isqaat al nizam - “il popolo vuole la caduta del sistema”, Kollun yani kollun - “tutti significa tutti”. Di fronte alla gente in strada per settimane le banche limitarono l’accesso ai conti dei correntisti, limitarono i prelievi, e alla fine chiusero i battenti per due settimane. Alla riapertura il cambio dollarizzato a 1,5 era saltato. La frode smascherata. L’illusione del Paese in costante crescita era finita, i risparmi vanificati. Il sistema bancario è fallito e il debito pubblico sfiora il 180% del Pil. Chi aveva diecimila dollari di depositi, due anni fa, oggi si ritrova con 600 dollari a malapena. La pandemia e l’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto scorso hanno fatto il resto. Oggi restano solo cocci da raccogliere. Amal vive a Naba’a, un sobborgo di Beirut, zona storicamente musulmana sciita e armeno-cristiana, una delle più vulnerabili del Paese. Dalla fine della guerra civile, negli anni Novanta, con l’arrivo di migranti asiatici e africani, Naba’a è diventata un crogiolo culturale, religioso e politico, è un quartiere oggi abitato da migliaia di rifugiati siriani e dalle fasce più fragili della società libanese. Come la famiglia di Amal, che vive al quinto piano di un edificio fatiscente in un vicolo stretto della parte armena. La struttura porta ancora i segni dei danni provocati dall’esplosione. È passato più di un anno ma qui gli aiuti statali non si sono visti. Le porte e le finestre le hanno riparate le organizzazioni non governative. Le stesse che oggi le portano i pacchi alimentari. “Viviamo all’inferno” è la prima cosa che dice accogliendoci sulla porta di una casa dignitosa. Appesi alle pareti i disegni fatti dai suoi tre figli, due ragazzi adolescenti di 13 e 16 anni e una bambina di otto. Appeso al frigorifero un paesaggio disegnato dal più grande, Mustafa. Un giovane dal sorriso affabile, premuroso con sua madre, sempre. La segue con lo sguardo mentre lei racconta la cronaca di un costante sacrificio. Inizia dalle regole, Amal: “È vietato aprire il frigorifero”, in casa c’è un’ora di corrente al giorno e non possono permettersi il carburante al mercato nero. Il poco cibo fresco che si riesce ad acquistare è chiuso in frigorifero, che non va aperto affinché non vada a male, “mi sto abituando a non cucinare” dice, “come ci siamo abituati a lavarci con l’acqua fredda. È un anno e mezzo che non abbiamo l’acqua calda”. L’ultima volta che in casa hanno mangiato la carne è stato tre mesi fa, oggi le abitudini alimentari sono cambiate: solo riso e lenticchie. Amal ne prende una scatola da un chilo dal pacco alimentare, un anno fa costava mille lire libanesi, oggi ne costa ventiduemila: “Un anno fa questo era il cibo dei poveri - dice - oggi i poveri non se lo possono permettere”. Amal lavora in uno dei ristoranti di lusso della costa che conduce ai faraglioni di Rouché, guadagna 700 mila lire libanesi. Un anno fa valevano circa 500 dollari, oggi 36. Lo stesso per suo marito che è autista. Così la scorsa estate Amal e suo marito hanno dovuto chiedere ai due figli adolescenti di andare a lavorare, è successo dopo che in una bottega lei ha realizzato di non avere abbastanza soldi neppure per comprare le candele “quindicimila lire per la scatola, prima ne costavano mille”. Al racconto dei suoi sacrifici di adolescente Mustafa piange, un pianto composto, degno come quello di sua madre “non vorrei che lavorassero, vorrei che vivessero la loro età, che avessero l’adolescenza che meritano. Ma non avevamo scelta”. Due anni fa anche Amal era in piazza, guardava al futuro pensando che la forza di quella protesta avrebbe regalato un Libano nuovo ai giovani, una protesta viva, non animata da spiriti settari in un Paese in cui ogni cosa, dal governo agli affari, è spartita su base confessionale, “ci hanno impoverito, ci hanno portato via i sogni della rivoluzione, perdevamo tutto mentre loro mettevano in salvo i soldi all’estero”. Mentre le banche con problemi di liquidità trattenevano i depositi dei libanesi per evitare la fuga dei capitali, miliardi di dollari sono stati trasferiti all’estero da politici, imprenditori e banchieri. Secondo l’economista libanese Mahasin Mursil dopo il 17 ottobre 2019, data di inizio delle proteste, circa 10 miliardi sono stati trasferiti all’estero dalla classe dirigente del Paese, numeri aggravati dai recenti documenti dei Pandora Papers che hanno svelato la rete di società offshore del primo ministro Mikati e della sua famiglia, del governatore della Banca centrale Riad Salamé, dell’ex premier Hassane Diab e dell’ex direttore della Mawarid Bank, Marwan Kheireddine. In due anni, in Libano, la forbice della disuguaglianza sociale si è divaricata. Fatma è una sarta, anche lei vive a Naba’a. Anche lei sopravvive con un’ora di elettricità al giorno. Alle tre del pomeriggio il posto in cui vive è già buio, è un garage che ha adibito a casa e bottega insieme. C’è un materasso su una rete scalcinata, un lavandino e un water con una tanica d’acqua. E ci sono sei macchine da cucire, “un tempo il rumore dell’ago e dei pedali riempivano l’aria”, dice. Il lavoro era così tanto che anche sua madre, anziana, doveva darle una mano per non tardare le consegne. Oggi i fili, le stoffe, i ricami, le spille, sono un altare alla memoria di un tempo andato. Una foto ritrae una donna in carne, è la lei di un tempo che non c’è più. Oggi Fatma ha un corpo esile che non è un corpo magro, è un corpo asciugato dalla fame. Non può comprare nemmeno un manaush, il tradizionale pane coperto di spezie. Costa 1000 lire libanesi, cinque centesimi. Non se li può più permettere.