Detenuti con problemi psichiatrici: riforma interrotta dopo l’orrore degli Opg di Marialaura Iazzetti L’Espresso, 10 ottobre 2021 Cancellati i vecchi manicomi giudiziari, le nuove strutture sono ancora inadeguate. Pensate per i casi più gravi non bastano a soddisfare le richieste. Mancano luoghi di cura alternativi e nelle carceri crescono le liste d’attesa. Gli occhi di Marco sembrano parlare. Con lo sguardo racconta della sua sofferenza, della sua incertezza. Vivere in una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) vuol dire vivere senza prospettive. Avverti consapevolmente di portare con te uno stigma: hai infranto la legge e sei un paziente psichiatrico, te l’ha detto il perito quando ti ha visitato, un giudice l’ha confermato in tribunale. Anche chi ti conosce inizia a chiamarti “pazzo”, spesso ha paura. In Italia esistono 31 Rems: strutture nate per accogliere persone che, dopo aver commesso un reato, sono considerate incapaci di intendere e di volere, e socialmente pericolose. Secondo l’ultima relazione del Garante nazionale dei detenuti, in Italia in queste realtà sono accolti 577 ospiti. Le Rems nascono nel 2014, dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Il mondo della politica era sconvolto dalle immagini che nel 2010 la Commissione d’inchiesta, presieduta dall’ex senatore Ignazio Marino, aveva acquisito sulla vita all’interno degli Opg. Le condizioni degli edifici erano disastrose. Guardando i video girati all’epoca dai parlamentari, rimane impressa l’immagine di un uomo che, urlando da dietro a una porta, chiedeva “dove fosse finita l’Italia” e per quale motivo “l’avessero chiuso là dentro”. L’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parlò di “estremo orrore”, dopo aver visto quelle immagini. Il governo decise di sopprimere gli Opg e di creare strutture che avessero come fine principale quello della riabilitazione. Doveva essere risolta l’ambiguità degli ospedali psichiatrici: per metà luoghi di cura e per metà luoghi di detenzione. L’obiettivo delle Rems era seguire le indicazioni della legge Basaglia, che nel 1978 aveva sancito la chiusura dei manicomi civili introducendo la cultura della malattia mentale come malattia sociale. Per dimenticare gli orrori degli Opg, il governo presieduto da Matteo Renzi decise nel 2014 di creare strutture più piccole, con al massimo 20 posti, diffuse sul territorio e gestite esclusivamente dal personale sanitario. Per Franco Corleone, che nel 2016 era stato incaricato dal governo di vigilare sul definitivo superamento dei manicomi criminali e che ora si occupa di coordinare i Garanti territoriali dei detenuti, le Rems sono “un primo passo fondamentale”. Corleone parla di “rivoluzione gentile”. Persistono, però, delle criticità. La legge del 2014 sancì il principio dell’extrema ratio: ancora oggi il ricorso alle misure di sicurezza, e quindi alle Rems, deve avvenire esclusivamente per quei pazienti per cui si considera inadeguata ogni altra soluzione meno restrittiva, come la libertà vigilata in una comunità protetta o in un domicilio. Ma spesso ciò non accade. La maggior parte delle persone considerate incapaci di intendere e di volere vengono ricoverate nelle Rems. Non esistono molti progetti alternativi. “Il problema è che i giudici non hanno a disposizione una mappa dei luoghi di cura intermedi che possano sostituire la permanenza nelle Rems”, spiega Gianfranco Rovellini, direttore della Rems veneta di Nogara, in provincia di Verona. Forse anche per questo motivo le strutture sono sempre al completo e le liste di attesa non spariscono. Non è facile capire quante persone attendano effettivamente che si liberi un posto nelle Rems per potervi accedere. Al 30 novembre 2020, il Sistema di monitoraggio per il superamento degli Opg segnalava 175 persone in lista d’attesa (di cui il 31 per cento in carcere); i numeri però potrebbero essere più elevati: il Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà parla di 714 persone in attesa di ricovero. “Il problema è che il 38 per cento dei posti letto è occupato da pazienti che stanno scontando una misura provvisoria (aspettano ancora quindi una decisione definitiva da parte di un giudice, ndr)”, chiarisce Corleone contestando i dati. La questione delle liste di attesa è arrivata anche all’attenzione della Corte costituzionale. A richiedere l’intervento della Consulta è stato il Tribunale di Tivoli, sottoponendo ai magistrati il caso di un uomo dichiarato incapace di intendere e volere al momento del reato: avrebbe dovuto essere ricoverato in una Rems, ma è finito in carcere perché non ha trovato posto. Il tribunale di Tivoli chiedeva alla Consulta di pronunciarsi sulla costituzionalità di due elementi essenziali nell’organizzazione delle Rems: la gestione sanitaria delle strutture, che lascia in disparte il ministero della Giustizia, e il limite di capienza. Il 24 giugno la Corte costituzionale ha deciso di rinviare di 90 giorni la decisione, chiedendo dati precisi sul funzionamento delle Rems. “Bisognerebbe interrogarsi sul perché esistono così tante persone in lista d’attesa. Siamo sicuri che il principio di extrema ratio venga applicato?”. Stefano Pellizzardi, direttore della Rems di Castiglione dello Stivere (in provincia di Mantova), si pone queste domande di continuo. Dal suo ufficio si vede il giardino che circonda e collega le sei unità abitative della struttura. La Rems di Castiglione dello Stiviere è la più grande di Italia: divisa in diversi edifici, può ospitare 160 persone (di cui 20 donne). Le prime cinque unità accolgono 20 pazienti ciascuna, come prescrive la legge. L’ultima, la più grande, 60. Da anni, la Regione ha attivato un progetto di riorganizzazione della struttura per far in modo che siano rispettate le indicazioni legislative sulla capienza. I lavori, però, non sono ancora iniziati. “Al tempo l’amministrazione regionale scelse di non costruire una nuova realtà, ma di riorganizzare quella dell’Opg”, spiega Pellizzardi. Una decisione che secondo Corleone non rispetta quanto stabilito nel 2014 e rischia di riportare alla luce “logiche contenitive”. Tuttavia, nonostante le difficoltà, in questi anni a Castiglione dello Stivere è stato garantito un buon turnover: su 160 pazienti sono stati dimessi in media 70 ospiti all’anno. “Per dimetterli dobbiamo trovare un percorso territoriale terapeutico e di riabilitazione a cui assegnarli”, racconta Noemi Panni, coordinatrice e responsabile dell’Area sociale della Rems di Castiglione. Individuare progetti di reinserimento e cura non è semplice: spesso queste persone non hanno nessuno che possa accoglierli o aiutarli. Vorrebbero riprendere in mano la loro vita, iniziare a lavorare, ma si sentono tremendamente soli. Secondo quanto stabilito nel 2014, le Rems devono avere un carattere di transitorietà: essere una delle tappe del percorso riabilitativo. I pazienti non possono essere ospitati nelle strutture per un numero di anni superiori al massimo della pena prevista per il reato commesso. L’intento è garantirgli la possibilità di uscire quanto prima. Chi non è più considerato socialmente pericoloso deve essere dimesso e preso in carico dai Dipartimenti di salute mentale, strutture territoriali per la cura e l’assistenza che sono però poco sviluppate ed efficaci. Si fatica a trovare un percorso alternativo e proprio questa difficoltà sta rendendo più lunga la permanenza nelle Rems. Secondo quanto riportato dall’associazione Antigone, che si occupa di diritti nelle carceri, al 30 novembre 2020 la durata media del ricovero è di 236 giorni, nel 2017 era di 206. “Senza un progetto di cura, il giudice non può permettere le dimissioni dell’ospite”, aggiunge Panni. Al paziente viene prorogata la misura di sicurezza: rimane dov’è, sperando che prima o poi qualcosa possa cambiare. Queste dinamiche accadono in particolare con i casi più complessi. “Uno dei punti da tenere in considerazione è la trasformazione dei pazienti: prima erano persone di una certa età con fragilità croniche, ora abbiamo molti ragazzi con problemi di tossicodipendenza piuttosto impegnativi da gestire e diversi stranieri senza fissa dimora che sono qui per aver commesso reati, come la resistenza a pubblico ufficiale”, evidenzia Pelizzardi. Secondo il direttore di Castiglione dello Stivere, dover trattare pazienti così differenti non aiuta. Nelle residenze ormai arrivano sempre più persone con profili delinquenziali marcati o soggetti che non hanno problemi psichiatrici evidenti e potrebbero essere destinati ad altre realtà. Pellizzardi indica un ragazzo che sta passeggiando nel giardino. “Lui viene dal Gambia, è arrivato ín Italia dopo aver trascorso diversi mesi in Libia. È stato mandato a Castiglione per resistenza a pubblico ufficiale. Quando l’abbiamo accolto soffriva di stress post traumatico. Ora sta bene, ma è ancora qui con noi”. Dimettere gli stranieri è una delle pratiche più complesse. La difficoltà di individuare percorsi alternativi si sovrappone alle complicazioni legislative. “Devi, in primis, ricostruire la loro storia e poi cercare di regolarizzare la loro posizione. Spesso queste persone non hanno più il permesso di soggiorno o stanno ancora attendendo una risposta per la richiesta di asilo”, spiega la coordinatrice Panni. La normativa in materia di immigrazione è molto complessa e richiede una forte collaborazione con le questure. Una strada percorribile è concordare con gli ospiti dei rimpatri volontari e prendere contatti con le ambasciate dei Paesi d’origine. Altre volte ci si affida al mondo del volontariato. A Castiglione adesso ci sono 35 stranieri su 160 ospiti. Pellizzardi continua a chiedersi se non ci sia un luogo più adatto che dia la possibilità a queste persone di scontare la propria pena e, allo stesso tempo, di essere aiutate. Un primo passo potrebbe essere quello di sviluppare le articolazioni che all’interno delle carceri sono state costruite per occuparsi dei detenuti con fragilità mentali. Dovrebbero essere luoghi di cura in cui viene garantita un’attività di tipo terapeutico e riabilitativo. Ma anche in queste sezioni, come spesso accade nei reparti ordinari delle carceri italiane, prende il sopravvento la logica punitiva. “Questi reparti dovrebbero diventare strutture a carattere sanitario in cui la polizia penitenziaria viene fatta entrare su volontà dei sanitari stessi”, ipotizza Rovellini. Qui potrebbero essere accolti i detenuti che attendono di entrare nelle Rems, quelli che presentano fragilità mentali meno complesse e chi ha profili delinquenziali più marcati. “In Italia abbiamo solo 34 articolazioni di salute mentale, che ospitano 200 pazienti, ma davvero pensiamo che i detenuti con fragilità psichiche siano così pochi?”, denuncia Rovellini. Per migliorare il sistema delle Rems e far in modo che sia davvero un’extrema ratio, si potrebbe iniziare da qui. La decisione della Corte Costituzionale di arrivare a una sentenza dopo un ulteriore approfondimento dovrebbe aprire un dibattito sulla realtà di queste strutture e sugli aspetti da migliorare. Pellizzardi non sa cosa succederà. Rimane fondamentale continuare a reinventarsi. A breve a Castiglione dello Stiviere aprirà anche un servizio di etnopsichiatria. Carceri: i buoni e i cattivi di Gianluca Caruso L’Espresso, 10 ottobre 2021 Lettere alla redazione. Mi chiamo Gianluca Caruso, Ispettore Superiore del Corpo di Polizia Penitenziaria nonché vice segretario regionale del sindacato di categoria, sarei onorato se rendesse pubblico il mio pensiero. Ormai giornalmente accadono episodi di aggressione e violenza gratuita nei confronti degli agenti, “colpevoli” solo di svolgere la loro missione istituzionale. In tali casi, sono costretti anche ad anticipare spese sanitarie in quanto privi della tutela Inail. Tutto questo avviene nell’indifferenza pressoché totale dell’opinione pubblica e della stessa politica e il guaio è che l’autorevolezza e l’autorità della Polizia Penitenziaria sono fortemente venute meno nella percezione collettiva dei ristretti, anche grazie alla campagna mediatica e mistificatoria attualmente in atto contro l’intero Corpo di Polizia. Il lavoro del poliziotto in carcere è sempre stato complicato e difficile, ma gli atteggiamenti di violenza diffusa, certamente resi ancor più arroganti da un vergognoso senso di impunità, sono ormai tanti e tali da rendere veramente un’impresa ardua finire la giornata senza grane, senza danni, senza incidenti di ogni genere. Forse non sarebbe male, applicare l’art. 14 bis dell’Ordinamento Penitenziario, per re-insegnare a qualche irriducibile maleducato il rispetto delle regole, ma soprattutto il rispetto degli uomini e delle donne in divisa che con grande sacrificio, malgrado la persistente mancanza di risorse umane, tecniche ed economiche, svolgono il proprio servizio a tutela dei cittadini onesti. La dignità e il rispetto del personale di polizia penitenziaria in servizio non deve e non dovrà più essere messa in discussione da quattro delinquenti da strapazzo. Risponde Stefania Rossini Non è difficile immaginare quanto possa essere pesante il lavoro di guardia carceraria e comprendere come il senso di scoramento, e anche di rabbia, che traspare da questa lettera abbia molte giustificazioni. Ma il signor Caruso scrive un j’accuse dove tutti i buoni stanno da una parte e tutti i cattivi dalla parte opposta, in cui non ci sono soltanto detenuti violenti, ma la politica indifferente e la stampa impegnata ad orchestrare campagne per gettare fango sull’intero corpo di polizia penitenziaria. E il suo accenno all’estensione dell’articolo 14 bis, cioè a un regime particolare di controllo, non è certo conciliante. Eppure dovrebbe tener conto che, tra le tante immagini di rivolte violente dei detenuti (che nessuno vuole negare), l’opinione pubblica ha potuto vedere filmati di pestaggi furibondi da parte delle guardie, come quello clamoroso nel 2020 a Santa Maria Capua Vetere, diffuso questa estate da tutti i telegiornali, che ha portato la ministra Cartabia, in genere poco incline a mostrare emozioni, ad esclamare: “Era violenza a freddo!”. Ma è anche vero che finora la politica non ha affrontato il tema delle carceri se non con promesse e rassicurazioni, mentre il sovraffollamento è ancora soffocante e le condizioni di vita sempre più aspre. Per tutti, per le presunte vittime e i presunti carnefici. Parte dal carcere il contagio della solidarietà di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 10 ottobre 2021 Il Premio Carlo Castelli, indetto dalla Società San Vincenzo de’ Paoli. “Sì, la vita continua, oggi che si fa sempre più evidente quanto siamo capaci di donarci a chi soffre, oggi che la pandemia ci ha reso migliori, ne sono convinto, andrà tutto bene”. Il messaggio di speranza e di conforto nei confronti di chi ha perso i propri cari e ha patito più di tutti il dilagare della pandemia arriva da dove meno te lo aspetti. È contenuto nell’elaborato di Roberto Cavicchia, detenuto a Genova, che ha vinto il Premio Carlo Castelli, il riconoscimento riservato ai detenuti delle carceri italiane indetto dalla Società di San Vincenzo de’ Paoli. Giunto alla sua 14ª edizione quest’anno i volontari hanno scelto come tema “Il contagio della solidarietà vince ogni pandemia e ogni barriera”, per sottolineare che, superato lo sconcerto iniziale, i detenuti si sono sentiti coinvolti e partecipi di una “gara di condivisione” dando vita a raccolte di generi alimentari da destinare fuori ai bisognosi, mettendo insieme piccole somme di denaro, aiutando alcuni ospedali ad acquistare materiale indispensabile nel gestire l’emergenza, donando sangue e, non ultimo, mettendosi a produrre mascherine. Quest’anno la cerimonia conclusiva si è svolta nella Casa Circondariale di Bergamo. Scelta tutt’altro che casuale perché, secondo Teresa Mazzotta, direttrice dell’istituto intitolato a don Fausto Resmini, l’ex cappellano scomparso proprio a causa del covid, “questa terra ha affrontato e vissuto in maniera drammatica il periodo della pandemia, ma i principi solidaristici e di sostegno si sono rilevati anche quando è stata attivata la didattica a distanza grazie ad un corpo insegnante eccezionale, che ha supportato e sostenuto i detenuti, perché educare significa molto di più rispetto al semplice concetto di istruzione. Una solidarietà che fortemente è emersa anche quando un terribile dolore colpiva la comunità penitenziaria bergamasca: il coronavirus si è portato via il nostro amato don Fausto”. “Il richiamo al contagio della solidarietà - ha spiegato il presidente della giuria, Luigi Accattoli - ha provocato i partecipanti al concorso a segnalare similitudini e difformità nella reazione alla pandemia da parte del popolo delle carceri rispetto all’insieme della società, con particolare attenzione ai sentimenti e alle iniziative solidali che la sfida del covid-19 ha suscitato tra i detenuti e verso il mondo esterno”. Quanto al vincitore, il cui testo rievoca il messaggio di incoraggiamento che ciascuno, non solo in carcere, ha fatto proprio, Andrà tutto bene!, ha rivelato, secondo le motivazioni, una notevole abilità compositiva e un realistico equilibrio tra la percezione del dramma collettivo e personale e la speranza che esso, almeno in parte, possa risolversi positivamente. “I segni della montante pandemia e quelli della reazione solidale nel mondo del carcere sono proposti come in filigrana nella narrazione dell’attesa della prima giornata di permesso ottenuta dall’autore, giornata che arriva all’indomani della notizia d’essere stato abbandonato dalla compagna. I colloqui più allusi che narrati con l’avvocato e con il cappellano, che l’attende in macchina fuori del portone del carcere, hanno questa funzione di contemperare il dramma e la speranza”. “Il concorso nasce con il desiderio di dare maggiore attenzione al mondo del carcere ed occasione di libertà al detenuto attraverso la scrittura, perché è importante che la sua voce possa giungere ovunque fuori, dove la vita segue i ritmi di una competizione sfrenata, proiettata ai consumi e al possesso di beni materiali, ma molto poco attenta ai temi della giustizia sociale”, ha detto il presidente della Società San Vincenzo de’ Paoli, Antonio Gianfico, presentando il volume che raccoglie gli scritti nel corso del forum pomeridiano al quale hanno preso parte, tra gli altri, il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Lombardia, Pietro Buffa, il magistrato del Tribunale di Milano, Pietro Caccialanza, la direttrice di “Spazio, diario aperto dalla prigione” (giornale dei detenuti del carcere di Bergamo), Carla Chiappini, il dirigente della polizia penitenziaria, Aldo Scalzo e il presidente vicario del tribunale di sorveglianza di Brescia, Gustavo Nanni. La Società di San Vincenzo de’ Paoli è un’organizzazione cattolica internazionale laica, fondata a Parigi nel 1833 da un gruppo di studenti universitari guidati dal beato Federico Ozanam e posta sotto il patrocinio di san Vincenzo de’ Paoli, il santo dei poveri, vissuto in Francia nel secolo xvii. Il fine della Società è accompagnare i propri membri in un cammino di fede. Un cammino che individua anche nel covid “un disegno divino per cui sembrava non esserci risposta - scrive Cavicchia - o forse sì, forse la risposta era proprio questa, se la pandemia è stata capace di scuotere le nostre coscienze, le coscienze di coloro che per antonomasia una coscienza non ce l’hanno, cosa poteva fare fuori di qui? Almeno in questo il virus aveva fallito, si erano chiuse le attività, si era costretti alla distanza fisica gli uni dagli altri, ma mai come in questi giorni ci sentivamo vicini, uniti contro il nemico comune”. Morra: “Le mafie nei ministeri e nelle prefetture”. Lamorgese chiede chiarimenti di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 ottobre 2021 “Il caso Tunisia mostra come la criminalità organizzata non vada ricercata solo nelle periferie e nei posti degradati ma anche nelle prefetture e al ministero dell’ambiente dove ci sono colletti bianchi che non fanno l’interesse delle comunità”. Così ieri il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra al Polieco, Forum internazionale sull’economia dei rifiuti che si è chiuso a Napoli, a proposito dei traffici illeciti che colpiscono il paese nordafricano. “Siamo abituati a pensare alle mafie come una parte avversa al sistema - ha proseguito Morra - Invece sono parte integrante perché consentono di nascondere la polvere sotto il tappeto e di far arricchire ancora di più quelli che accumulano profitti illeciti”. Per la ministra dell’interno Luciana Lamorgese si tratta di “affermazioni gravissime e inaccettabili in quanto rivolte alle istituzioni impegnate sui territori per garantire legalità e sicurezza al servizio di cittadini” e chiede a Morra di chiarire “immediatamente sulla base di quali elementi o valutazioni ha reso le sue dichiarazioni”. Anche il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani chiede che Morra “renda note tutte le informazioni di cui è in possesso per poter intervenire nelle sedi opportune”. Critiche soprattutto dalla Lega, ma anche Franco Mirabelli, capogruppo del Pd in Antimafia dice che “buttare fango sulle istituzioni non è il compito del presidente della Commissione”. Ma Roberto Pennisi, magistrato della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo intervenuto al Forum, si schiera con Morra: “Il caso della Tunisia rimarca l’assoluto disinteresse del ministero della transizione ecologica che evidentemente si concentra sulle energie alternative e non sui rifiuti. Lasciandoli in archivio, la gestione diventa occupazione solo della criminalità organizzata che prima di chiunque altro è avvisato ed avvertito di quello che avverrà. Sanno per esempio che per avere fondi del Recovery bisognerà disporre di un gran quantitativo di terreni e basta gettare l’occhio su territori per capire cosa sta accadendo”. Csm. Magistratura indipendente vuole il maggioritario puro di Davide Varì Il Dubbio, 10 ottobre 2021 “Magistratura indipendente” spariglia il tavolo e lancia due o tre segnali in vista degli emendamenti Cartabia sulla riforma del Csm: ecco le proposte. Sarà sorpreso chi immaginava una magistratura in allerta sulla riforma del Csm semplicemente per scongiurare il “sorteggio temperato” dei togati. Con un documento diffuso ieri, “Magistratura indipendente” spariglia il tavolo e lancia due o tre segnali in vista degli emendamenti Cartabia: no a “pregiudizi” verso il “sorteggio dei candidati”, ma no anche al “sistema elettorale” basato su “seconde e terze preferenze” che è stato suggerito dalla commissione Luciani. La corrente moderata dei magistrati dichiara di propendere piuttosto per “il maggioritario puro a preferenza singola”. La partita incrociata fra governo, partiti e associazionismo giudiziario è insomma assai più articolata del previsto. “Le elezioni per il rinnovo del Consiglio sono ormai prossime, ma il fronte delle riforme sul sistema elettorale non registra novità di rilievo”, premette la nota di “Mi”. Secondo la quale c’è il rischio che non siano “concretamente valutati interventi più radicali, come quelli che prevedono l’innesto del sorteggio nella designazione dei candidati, verso i quali non abbiamo mai manifestato pregiudizi, pur consapevoli delle delicate implicazioni giuridiche di cui sarebbero gravidi. Quale che sia la strada che verrà adottata dal legislatore, riteniamo imprescindibile che il prossimo Csm sia il frutto di una scelta dei magistrati italiani libera da condizionamenti, sia interni che esterni alla magistratura”. Dovranno essere garantite, secondo il gruppo moderato delle toghe, “una rappresentanza equilibrata delle diverse professionalità dei magistrati e una composizione che tenga conto delle innegabili differenze di orientamento culturale, che esistono al nostro interno. Occorre un sistema elettorale che valorizzi la capacità dei candidati di riscuotere un consenso il più ampio possibile, tale da superare le barriere associative, e che, al contempo, non si presti a essere influenzato da accordi stretti in sede associativa. Per tale ragione”, “Mi” esprime “il più netto dissenso rispetto a qualsiasi ipotesi di riforma che preveda il ricorso al ballottaggio, che è il luogo privilegiato di accordi tra gruppi”. La scelta di fondo che si rinviene nel testo della commissione Luciani, di suddividere il territorio nazionale in più collegi plurinominali, è, secondo “Mi”, “coerente con l’obiettivo di ridurre la possibilità di condizionamenti del voto. Tale suddivisione appare lo strumento idoneo per consentire di avvicinare maggiormente i candidati agli elettori, rendendo non più indispensabile l’appoggio delle correnti, ma non dovrà essere tale da consentire influenze frutto di esasperati localismi. Esprimiamo, invece, forti perplessità”, chiarisce poi la nota, “sul sistema elettorale previsto dal medesimo testo, che attribuisce particolare peso alle seconde e terze preferenze correlate ai candidati più votati: tale sistema si presta alla elaborazione di “cordate” e, dunque, a condizionamenti del voto, frutto di accordi correntizi”. E allora, “nell’ottica di una riflessione collettiva sui possibili ambiti di riforma del sistema elettorale del Csm, Magistratura indipendente auspica l’adozione di un sistema elettorale che garantisca la parità di genere delle candidature, preveda la suddivisione del territorio in una contenuta pluralità di collegi plurinominali e l’elezione dei candidati secondo il criterio maggioritario puro a preferenza singola. Occorre fare presto, perché”, conclude il documento, “il tempo della scadenza dell’attuale consiliatura è ormai prossimo, ma occorre altresì far bene, e Magistratura Indipendente è pronta a dare il suo contributo di riflessione e proposta, nella speranza che la scelta, qualunque essa sia, costituisca il frutto di un confronto franco e trasparente”. Toghe e social, giro di vite della Cassazione di Simona Musco Il Dubbio, 10 ottobre 2021 Per il Massimario esistono dei limiti all’utilizzo delle piattaforme online che diventano “particolarmente penetranti con riguardo alle espressioni, esternazioni o pubblicazioni che hanno legami con i contenuti dei procedimenti trattati nell’ufficio o con le persone in essi coinvolti”. Freno anche alle esternazioni sulla vita privata. Quali normative regolano il comportamento dei magistrati sulle piattaforme dei social media? A rispondere è il Massimario della Cassazione, che stabilisce un giro di vite alle esternazioni delle toghe sui social. Se a differenza degli incarichi extragiudiziari le condotte dei magistrati sulle piattaforme dei social media non sono oggetto di una specifica disciplina giuridica, le stesse “possono tuttavia ritenersi regolate da norme deontologiche e, in parte, sono oggetto di direttive indirizzate ai dirigenti degli uffici giudiziari, nella forma di linee guida elaborate dal Consiglio Superiore della Magistratura”. In proposito bisogna distinguere l’attività compiuta dai singoli magistrati sui social network dall’attività di comunicazione istituzionale con la stampa e i mass media svolta nell’ambito degli uffici giudiziari. L’attività di comunicazione istituzionale degli uffici giudiziari e i loro rapporti con i mass media è attualmente oggetto di regole che assumono valore di linee guida, raccomandazioni o direttive indirizzate ai capi degli uffici, assunte dal Consiglio Superiore della Magistratura con una Delibera dell’11 luglio 2018. Queste linee guida sono ispirate da tre esigenze: anzitutto, quella di contemperare i valori della trasparenza e comprensibilità della giurisdizione con il carattere riservato, talora segreto, della funzione, sul presupposto che il contemperamento tra tali valori, tutti correlati ai principi di indipendenza e autonomia della magistratura e ad una moderna concezione della responsabilità dei magistrati, aumenti la fiducia dei cittadini nelle istituzioni deputate all’amministrazione della giustizia; in secondo luogo, quella di tutelare il diritto di informazione dei cittadini, sul presupposto che i procedimenti giudiziari e le questioni relative alla giustizia siano di pubblico interesse; infine, quella che i rapporti dei magistrati con i mass media siano improntati alla moderazione e alla compostezza. Le richiamate linee-guida non sono vincolanti ma costituiscono un modello utilizzabile dai dirigenti degli uffici nella regolamentazione dei diversi aspetti della comunicazione. L’attività compiuta dai singoli magistrati sui social network non è invece oggetto di regolamentazione positiva, neppure nella forma di regole non vincolanti aventi funzione di direttive o raccomandazioni. Peraltro, deve ritenersi che essa trovi la sua misura e i suoi limiti nelle norme che connotano la deontologia del magistrato. Il Presidente della Repubblica, che è anche Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, in occasione dell’inaugurazione dei corsi di formazione della Scuola Superiore della Magistratura per l’anno 2019, ha sottolineato che l’osservanza della regola della sobrietà dei comportamenti, che costituisce un aspetto della deontologia professionale del magistrato, impone un rigoroso self-restraint nell’uso dei social network e delle mailing list, sul rilievo che tali strumenti, ove non amministrati con prudenza e discrezione, possono vulnerare il riserbo che deve contraddistinguere l’azione dei magistrati e potrebbero offuscare la credibilità e il prestigio della funzione giudiziaria. Analogo monito ha più volte formulato, in diverse occasioni, il vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ma quali sono i limiti riguardo le attività dei magistrati sui social network, sia per espressioni/pubblicazioni di natura privata, sia pubblicazioni relative a temi di interesse generale o di importanza politica? C’è ugualmente una differenza tra il profilo privato e quello pubblico tenendo conto del numero di destinatari/follower? La partecipazione a certi “gruppi”, a “like” o a “follow” sui social media può minacciare la dignità di un magistrato? La risposta del Massimario è sì: questi limiti sono particolarmente penetranti con riguardo alle espressioni, esternazioni o pubblicazioni che hanno legami con i contenuti dei procedimenti trattati nell’ufficio o con le persone in essi coinvolti, giacché la legge recante la disciplina degli illeciti disciplinari stabilisce che il magistrato esercita le funzioni con correttezza, riserbo ed equilibrio e rispetta la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni (art.1 d.lgs. n. 109 del 2006). Le predette espressioni, esternazioni o pubblicazioni, dunque, a certe condizioni, possono costituire un illecito disciplinare allorché siano tali da tradursi in gravi scorrettezze nei confronti delle parti, dei difensori, dei testimoni o di qualunque soggetto coinvolto nel procedimento o nei confronti di altri magistrati (art.2, lett. d), d.lgs. n.109 del 2006). L’attività dei magistrati sui social network deve però ritenersi limitata anche quando si riferisca ad espressioni o pubblicazioni di natura privata, poiché la regola della sobrietà nei comportamenti impone di non eccedere nell’esibizione virtuale di frammenti di vita privata che dovrebbero restare riservati, al fine di non pregiudicare il necessario credito di equilibrio, serietà, compostezza e riserbo di cui ogni magistrato (e, quindi, l’intero ordine giudiziario) deve godere nei confronti della pubblica opinione. In questa prospettiva le regole deontologiche impongono un self-restraint ancor più rigoroso nei casi in cui le esternazioni o le pubblicazioni (ma anche la creazione di “amicizie” o “connessioni” virtuali o la partecipazione a “gruppi” o a “follow”) abbiano rilevanza politica o investano temi di interesse generale. Dal Vajont al ponte Morandi, giustizia per le stragi del profitto di Mauro Ravarino Il Manifesto, 10 ottobre 2021 La ricorrenza. A Roma la protesta dei comitati delle vittime dei disastri ambientali e sul lavoro. La chiamarono, in modo sprezzante, la Cassandra del Vajont. Invece, Tina Merlin, coraggiosa e inascoltata giornalista de L’Unità, che per prima denunciò i rischi della mega-diga, aveva ragione. E il suo appello, scritto all’indomani della madre delle stragi - verificatasi, con quasi 2 mila morti, il 9 ottobre del 1963 tra Veneto e Friuli -, vale tuttora: “Oggi tuttavia non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa”. Ma non lo abbiamo imparato in 58 anni. Le stragi del profitto sono proseguite senza sosta. Moby Prince, Viareggio, ThyssenKrupp, Rigopiano, Eternit, Ponte Morandi, Mottarone, Terra dei Fuochi sono solo alcune di esse, senza contare i 772 i morti sul lavoro, in base ai dati dell’Inail, nei primi otto mesi del 2021. Ieri, a Roma, per dire “basta” alle morti per il profitto economico, ma anche per chiedere, senza retorica, che la giustizia non dimentichi e la politica lavori perché queste tragedie non accadano più, sono scesi in piazza Santi Apostoli oltre 60 associazioni di familiari di vittime di oltre cinquant’anni di stragi dell’ambiente e del lavoro. Parenti, amici, compagni e compagne di lavoro e di sventura si sono radunati attorno al Comitato “Noi, 9 ottobre” - nato un anno fa a Longarone (Belluno), città martire del Vajont - che ha organizzato la manifestazione in occasione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri industriali, istituita nel 2011. Vogliono un processo giusto e, soprattutto, che lo Stato non si dichiari impotente quando di mezzo ci sono la sicurezza, la vita delle persone e delle comunità. E chiedono un vero riconoscimento dei diritti delle vittime delle stragi causate da attività economiche finalizzate al profitto (come, per esempio, il diritto di essere ascoltati in Tribunale come parte del procedimento) e portano avanti, con competenza, proposte per rendere migliore la giustizia in Italia, come sottolineato da Lucia Vastano dell’Associazione Cittadini per la Memoria del Vajont. I manifestanti sono scesi in piazza anche “per evitare l’esito inaccettabile della prescrizione” per reati di questo tipo. Un timore che testimonia la distanza che si frappone tra gli ostacoli, le peripezie e gli ostracismi della realtà da un lato e la realizzazione della giustizia e la ricerca della verità, dall’altro. I promotori del Comitato “Noi, 9 ottobre” sostengono, infatti, che la legge Cartabia non faccia “giustizia per nessuno e mette a rischio prescrizione molti processi”, come, per esempio, quello di Rigopiano o quello per l’incidente ferroviario di Andria e Corato, o i tanti processi per l’amianto o gli incidenti sul lavoro. “Il mandante di tutte queste stragi è il profitto - dichiara Daniela Rombi la vicepresidente dell’associazione “Il mondo che vorrei” che riunisce i parenti delle vittime della strage di Viareggio - perché i padroni vogliono guadagnare e risparmiano sulla sicurezza”. E uno degli striscioni esposti durante il nutrito presidio recitava appunto: “Stop alle stragi del profitto. Questa economia uccide”. In un altro: “Per ricordare tutti i lavoratori uccisi nel nome del profitto”. E ancora: “La morte sul lavoro non è una fatalità ma un crimine contro l’umanità”. Un concetto ribadito da Moni Ovadia, presente al sit-in, che ha sottolineato: “I morti sul lavoro non sono incidenti ma una mattanza. La dignità del lavoratore non può essere negoziata”. In piazza anche Medicina Democratica e i familiari delle vittime del sisma che colpì Amatrice e altri comuni del centro Italia. Nel pomeriggio, sempre nel centro di Roma, ma questa volta vicino piazza Campo de’ Fiori, hanno organizzato una assemblea stilando una mozione da sottoporre all’attenzione dei politici ma soprattutto del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel documento preparato dal comitato “Noi, 9 ottobre”, oltre alla riforma delle norme che regolano i tempi della prescrizione per i disastri ambientali e sul lavoro, viene chiesta la modifica delle norme del Codice penale sul reato di disastro. E rivendicano la creazione di una Procura nazionale unica, una sorta di Superprocura come per la mafia, altamente specializzata per i disastri che riguardano reati sulla sicurezza del lavoro, ambientali, calamitosi e anche alimentari. Un vecchio pallino del magistrato Raffaele Guariniello che guidò l’accusa nei processi contro l’Eternit e la ThyssenKrupp. I manifestanti riuniti nel comitato chiedono, infine, di modificare la legge n.101/2011 che istituisce la “Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali” eliminando la parola “incuria”, che “minimizza le responsabilità”. Sarebbe un primo passo verso la verità. Don Puglisi, il parroco che cacciò i mafiosi dalla chiesa di Nino Fasullo* Il Manifesto, 10 ottobre 2021 Riflettere su padre Puglisi, specie in Sicilia, è sempre ora. Perché sul parroco di Brancaccio non si è compreso e detto abbastanza. Meno ancora si sono dette le cose più significative direttamente connesse con la fede. Non si sono colti finora gli aspetti nuovi, singolari, specifici della sua pastorale notoriamente antimafia: che è stata la causa determinante la sua tragica fine. Antimafia, parola negata, che alcuni tentano di cancellare dalla vita del parroco. E Puglisi può rappresentare così, al massimo, solo l’eccezione: senza seguito, senza repliche. Per cui si può affermare che don Pino è stato e è morto solo: a proprie spese e esclusiva testimonianza. In solitudine totale e radicale. Non a caso nella lunghissima storia della Sicilia mafiosa - 160 anni - non si sono avuti parroci uccisi per gli stessi motivi per cui è stato assassinato don Pino: il Vangelo e la coerente pastorale antimafia. Per cui l’aspetto più drammatico del parroco di San Gaetano non è tanto il prima quanto il dopo l’assassinio. Puglisi è più solo post mortem che in vita. Faticava, discorreva, si spendeva per tutti facendo, a viso aperto - da buon pastore sull’esempio di Gesù di Nazaret - libera e leale antimafia. Perciò don Pino viene “sentito”, in qualche modo, come uno che con la sua morte mafiosa ha messo in crisi, in difficoltà, il sistema, il modus vivendi, il patto non scritto ma rispettato. Come se importante fosse che la morte mafiosa resti fuori dagli spazi protetti. “Si ammazzino tra loro. La giustizia ha le sue esigenze che vanno rispettate. Anche Dio fa pagare le colpe. Perdona, ma fa pagare”. Cultura mafiosa, questa, assai diffusa e condivisa, nonostante sia estranea anzi opposta al Vangelo. Per questo i mafiosi sono molto religiosi, gentili con preti e prelati, e larghi in gesti di beneficenza. Una storia, da questo punto di vista, poco studiata e analizzata: come non interessasse nessuno. Un terreno sul quale meglio non avventurarsi, perché pericoloso. Chi sa, però: un’attenta riflessione forse, prima o poi, si farà strada: per correggere silenzi errori incomprensioni pregiudizi insensibilità morali e altro. Davanti al parroco Puglisi, che ha dato la vita in favore della città, è ancora possibile perdere l’ennesima opportunità, per i siciliani, di comprendere un po’ di Vangelo? C’è in giro una certa diceria secondo la quale don Puglisi non era un prete antimafia. Un paradosso gigantesco come negare, a Palermo, l’esistenza del Monte Pellegrino. Poiché la diceria implica apetti sensibili, abbozziamo qualche considerazione. La prima rinvia al pilastro portante della fede cristiana: la resurrezione di Gesù di Nazaret connessa ovviamente alla sua morte. Nessuno risorge che non sia morto. Gesù in croce per volontà degli uomini del tempio; Puglisi con le pallottole dei killer mafiosi. Tra le due morti e - secondo la fede - le due resurrezioni, di Gesù e di Puglisi, c’è un nesso così stretto da richiamare il concetto di simul stabunt simul cadent. Lo afferma, per caso, anche Paolo di Tarso. Per farla breve andiamo a un notissimo racconto evangelico. Narra l’evangelista Giovanni (20,24-28) che l’apostolo Tommaso si è rifiutato di credere in Gesù risorto “prima” di vedere con i propri occhi e toccare con le proprie mani le piaghe, i segni causati sul suo corpo dai chiodi della crocefissione. Segni che Gesù, al primo incontro, mostrò a Tommaso dicendogli: “Porta qui il tuo dito e guarda le mie mani, e porta la tua mano e mettila nel mio fianco…”. Il che significa che il Risorto conserva i fori (le piaghe) causati dai chiodi della sua croce. In breve, dopo il venerdì santo, un Gesù senza piaghe sarebbe solo un fantasma. Le piaghe sono ciò che lo identificano. Le porta con sé anche nel seno della santissima Trinità. Sono la sua storia (finale). Indispensabili al suo riconoscimento. Servono a convincere che il Gesù risorto è lo stesso Gesù morto in croce. Senza piaghe non c’è Gesù né morto né vivo. Ma allora la stessa “regola” vale per padre Puglisi. Anche don Pino conserva le sue piaghe: i fori delle pallottole partite dalla rivoltella dei suoi killer. Quelle del parroco, inoltre, sono le piaghe storiche del suo popolo, dei siciliani, la più grave delle quali è proprio Cosa nostra. Ma se a Puglisi viene negata la verità e la dignità della sua - a tutti nota - pastorale antimafia, causa del suo assassinio, come potrà l’apostolo Tommaso - come potranno i siciliani - riconoscere il parroco di Brancaccio assassinato dalla mafia? Riconoscere è anche un atto di giustizia che nessuno può permettersi di misconoscere. Anche Puglisi porta con sé i segni indelebili dell’assassinio subìto. I quali segni gli valgono come titoli, alti e decisivi, per partecipare, da servo buono e fedele, alla gloria del suo Signore. Altro che riduzionismo. Quella di Puglisi è stata la più alta testimonianza di fede data in Sicilia in tutta l’epoca moderna. Per questo la pastorale antimafia del parroco di San Gaetano rappresenta la speranza delle città dell’intera isola. Nessuno vorrà bruciare questa speranza. E Pino Puglisi non è solo. Con lui sono Falcone, Borsellino, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Chinnici, Livatino e molti, moltissimi altri. Tutte le vittime della mafia. Nessuno dirà che don Pino non era un prete antimafia. Negarlo serve solo al potere mafioso. Mai alla fede o alla chiesa. Ciò hanno compreso in molti, anche in rapporto a un “eguale” comportamento di Gesù e di Puglisi. Il primo cacciò i mercanti dal tempio, il secondo i mafiosi dalla chiesa. Finalmente un po’ di cristianesimo (evangelico) anche in Sicilia. *Direttore della rivista “Segno” Milano. Sesta Opera San Fedele, una raccolta fondi per il progetto “Rescue” agensir.it, 10 ottobre 2021 Metti una sera a cena in cascina per gettare un ponte di solidarietà sociale e materiale con l’umanità che vive l’esperienza del carcere e di altre misure restrittive. Con questa iniziativa Sesta Opera San Fedele, associazione di volontariato per l’assistenza penitenziaria e post-penitenziaria, che fa riferimento ai Padri Gesuiti di Milano, intende così promuovere una raccolta di fondi a sostegno di interventi di reinserimento sociale. L’appuntamento è per venerdì 15 ottobre a partire dalle 19.30 fino alle 23 per una serata conviviale all’aperto negli spazi messi a disposizione dalla Cooperativa Antonio Labriola Scarl, in via Falck 51, periferia nord di Milano, agevolmente raggiungibile in auto o con i mezzi pubblici (M1, San Leonardo). I fondi raccolti finanzieranno “Rescue”, provocatorio titolo del progetto che vuole sperimentare un percorso di ecologia integrale con i detenuti del carcere di Bollate, con il finanziamento di Regione Lombardia. Con la cena di solidarietà Sesta Opera vuole, in questi inizi di autunno, riaprire, grazie anche alla collaborazione della Coop Bonola - una nuova stagione di incontri e di interventi per sostenere l’inclusione, la valorizzazione delle differenze e fornire a chi sconta la pena strumenti per affrontare l’attuale società: valori che accomunano l’Associazione, Coop e la Cooperativa Antonio Labriola Scarl. Accompagnare la persona durante il periodo detentivo e dopo, nella delicata fase di reinserimento nella società, fa parte degli impegni principali di Sesta Opera. In Lombardia si contano circa 20mila persone tra detenuti e soggetti a provvedimenti cautelari e la filosofia dell’associazione, sottolinea il presidente Guido Chiaretti, “è lavorare su questa popolazione ‘scartata’ dalla società perché non sia essa stessa causa dello scarto di beni essenziali per la dignità delle persone e per una convivenza civile di quelle comunità. Occorre sensibilizzare sui temi di una economia circolare e sostenibile e sul senso di responsabilità perché questi soggetti possano diventare essi stessi attori del cambiamento nelle loro comunità”. A conclusione dell’incontro verrà anche lanciata una campagna di crowdfunding, nata in collaborazione con l’Università Luigi Bocconi e Citi Foundation, per finanziare anche il progetto “Pia” (povertà, inclusione, ambiente) finanziato dal Ministero del Lavoro. Bologna. Il volo del drone per violare la Dozza di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 10 ottobre 2021 Il piano sventato di un albanese: far arrivare via aria un telefono al fratello detenuto. L’uomo pedinato fuori dalla Dozza, dopo una segnalazione attivata la sorveglianza. Era arrivato appositamente dall’estero per portare a termine una missione delicata: consegnare telefoni cellulari e schede Sim all’interno del carcere della Dozza, grazie all’utilizzo di un drone. Ma la Squadra mobile era già sulle sue tracce e l’uomo, un cittadino albanese di 30 anni, è stato fermato e perquisito proprio mentre si accingeva a consegnare il suo bottino. L’obiettivo era consegnare i cellulari al fratello, detenuto con fine pena 2045. Era arrivato appositamente dall’estero per portare a termine una missione delicata: consegnare telefoni cellulari e schede Sim all’interno del carcere della Dozza, grazie all’utilizzo di un drone. Ma la Squadra mobile di Bologna era già sulle sue tracce e l’uomo, un cittadino albanese di 30 anni, è stato fermato e perquisito proprio mentre si accingeva a consegnare il suo bottino. La Squadra mobile, guidata dal dirigente Roberto Pititto, nell’ambito di un’indagine più articolata coordinata dalla Procura di Bologna che ha intensificato i servizi mirati a contrastare l’introduzione di apparecchi di comunicazione all’interno del carcere, in particolare nella sezione di alta sorveglianza, aveva acquisito dalla polizia di Frontiera la notizia dell’arrivo dall’estero in città del cittadino albanese, con precedenti alle spalle, fratello di un detenuto del carcere della Dozza, che ha un fine pena al 2045 per cumulo di condanne per rapina. La segnalazione arrivata alla polizia riguardava proprio l’intento di introdurre abusivamente in carcere, per il tramite di un drone radiocomandato, più apparati telefonici, dei microcellulari. Con il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia è stata quindi avviata la sorveglianza dell’uomo all’esterno del carcere, che era arrivato lunedì e aveva preso alloggio un albergo. “Il fatto che si dovesse trattenere per pochi giorni in città, i sopralluoghi che ha fatto in orari diversi della giornata nei dintorni del carcere, ci hanno convinto che volesse tentare di introdurre qualcosa, presumibilmente telefoni” ha spiegato ancora il dirigente Pititto. Sia mercoledì che giovedì, infatti, il 30enne, che a quel punto era già pedinato, è stato osservato mentre faceva sopralluoghi nei pressi della Dozza per poi, nel pomeriggio di giovedì, tornare con una valigia antiurto, che conteneva il drone, nelle aree di campagna confinanti con il lato nord-est del penitenziario. A quel punto è scattato il blitz della Mobile: l’uomo è staro fermato e perquisito in via del Gomito: nell’auto e nella sua stanza d’albergo sono stati trovati e sequestrati un drone professionale per volo teleguidato provvisto di 4quattro batterie di ricambio, fotocamera ad alta definizione, sistema di controllo remoto e dispositivo elettromeccanico di sgancio, un tablet di ultima generazione, 5 telefoni, di cui 2 iPhone e 3 microtelefoni di piccole dimensioni, tutti provvisti di cavi di alimentazione, materiale per imballaggio avvolgente antiurto e fascette autobloccanti, 4 sim-card. Il 30enne è stato denunciato a piede libero per tentata indebita introduzione in carcere di dispositivi idonei a consentire comunicazioni telefoniche e telematiche da parte di soggetti detenuti. La scorsa settimana, durante una perquisizione mirata della Penitenziaria nel circuito dell’Alta Sicurezza, tre detenuti erano stati trovati in possesso di smartphone e denunciati. Anche il fratello dell’albanese beccato con il drone, al quale era destinato il carico, è detenuto nel reparto destinato ai soggetti pericolosi e affiliati della criminalità organizzata. Il sindacato di polizia penitenziaria Sinappe, sottolineando in un comunicato “le mancanze dell’amministrazione penitenziaria in tema di formazione del personale, nonché nella fornitura di dotazione al reparto”, rivolge un appello “affinché vengano studiati e adottati sistemi di sicurezza adeguati per contrastare l’utilizzo delle nuove tecnologie” che permettono ai detenuti di eludere i controlli Gorgona (Li). Luisa, 94 anni e i detenuti come figli di Manila Alfano Il Giornale, 10 ottobre 2021 A Gorgona tra gli 86 galeotti del carcere a cielo aperto: “Perché dovrei andarmene?”. È l’unica che potrebbe fare avanti e indietro dall’isola perché i suoi vicini sono carcerati. E invece la signora Luisa Citti di attraccare sulla terraferma non ha nessuna voglia. A 94 anni vive così, nella sua bella casetta aperta a tutti, con i detenuti della Gorgona a farle compagnia, il carcere modello in effetti, 86 prigionieri in mezzo al mare, ventuno miglia di separazione. Potrebbe far paura tutto questo spazio, “Ma io non mi muovo da qui”, ti sorride e ti dice di vivere nel posto migliore del mondo e che si sentirebbe estranea in ogni altra parte. “Io sono una privilegiata. I figli? Si certo, mi chiedono di continuo di andare da loro a Firenze, ma io rispondo sempre allo stesso modo: venite voi qui”. E quando le fai notare che forse sarebbe più facile stare in un centro abitato con servizi essenziali come il medico, il supermercato, un bar ad esempio, lei da dietro i suoi occhiali ti dice “ma perché dovrei lasciare tutto questo? Qui ho tutto quello che mi serve, compreso i miei libri, i gialli che sono la mia passione”. Non vuole neppure sentir parlare di nostalgia o solitudine: “Sono passati tredici anni dall’ultima volta che ho preso il traghetto, non potevo dire di no, era un’occasione importante, si sposava mio nipote”. In realtà vivere qui non è facile, negli anni quest’isola si è spopolata, “una volta c’erano famiglie, bambini, le scuole con una ventina di alunni”. Oggi le case accanto alla sua sono vuote, non c’è più niente se non il carcere e l’inverno dev’essere lungo e monotono. Ma lei la battaglia non la fa per sé ma perché ci tiene davvero che l’isola torni a vivere. “Se almeno riaprisse la scuola, le famiglie delle guardie potrebbero venire a stare qui”. Intanto, ci sono i nipoti che la vengono a trovare regolarmente, e poi ci sono i detenuti che la proteggono come angeli custodi. “Sono diventata la zia di tutti, mi vogliono bene e per me sono tutti nipoti”. La porta di casa è sempre aperta e i pregiudizi e la paura sono stati abbattuti con i fatti; il passato resta alle spalle, gli errori si pagano e qui tutti scontano la loro pena. Poi però c’è anche il coraggio di dire la parola futuro: la rieducazione, il reinserimento nella società. Parole già sentite milioni di volte, ma qui lo vedi e lo vivi. “Questi muri di casa me li hanno ridipinti loro, e gli archi li hanno fatti rosa, non sono belli?”. Ci hanno messo mesi i muratori-galeotti per ristrutturare la casa di Luisa. “Alla mia età mi sono dovuta trasferire qui accanto - sorride - loro hanno lavorato duramente, prima l’esterno, poi la ristrutturazione interna. Sistemata come nuova. E poi mi hanno costruito due librerie”. Praticamente un’adozione. “Non mi serve un supermercato, quando mi manca qualcosa chiamo su allo spaccio della prigione e uno di loro mi porta la spesa”. Ecco cosa vuol dire carcere modello, una comunità che funziona perché ognuno fa la propria parte, come l’acciottolato che dal porticciolo porta in alto al borgo, risistemato come le case che fino a pochi anni fa erano decadenti e scrostate. Merito del direttore, Carlo Mazzerbo, che da sempre ha capito che quest’isola doveva avere il suo lato positivo, incarnare un sistema dall’avanguardia. “Si cerca di costruire una comunità dove la sicurezza si fa conoscendosi, un patto tra uomini”. E ce l’ha fatta; la chiamano l’isola dei diritti, meta ambita tra le carceri, dove le celle si aprono solo la notte per dormire, e per il resto la giornata è fatta di vita, con tanto lavoro nei campi o con gli animali, l’agricoltura e il pregiato vino Frescobaldi. C’è un campo da calcio, per invogliare allo sport, e un laboratorio di teatro che è partito due anni fa. Ieri, al Convegno organizzato dai penalisti di Livorno - presenti tra gli altri anche l’onorevole Verini, il presidente dell’Unione delle Camere Penali Caiazza, il numero uno del Dap Petralia e la segretaria dei Radicali Rita Bernardini- hanno messo in scena un lavoro emozionante che l’anno scorso ha vinto anche un premio, Ulisse o i colori della mente di Gianfranco Pedullà, perché ritornare a Itaca significa - dopo aver pagato per i propri errori - rientrare dalle famiglie, dalle mogli e dai figli che aspettano, trovare finalmente un posto utile nella società, perché in fondo la felicità è poi questa. Come quella di Luisa che sa di essere nel suo luogo, al suo posto. “Questo gattino me lo hanno regalato loro”. Salta sul tavolo della cucina e zampetta su un grande libro bianco. “Questo è il libro che mi ha portato Andrea Bocelli, da allora mi telefona, mi fa gli auguri di Natale”. Intanto sta calando la sera. Il traghetto riparte, è l’unica corsa. A bordo ci sono anche i familiari dei detenuti. Si interroga il cielo perché il vento non è sempre gentile e se si alza il libeccio si resta per giorni senza collegamento. Ma a Luisa tutto questo non spaventa. Firenze. La street art entra in carcere aprimapagina.it, 10 ottobre 2021 Si intitola “La scritta che buca” ed è il murale inaugurato alla casa circondariale Mario Gozzini. Taglio del nastro alla presenza, tra gli altri degli assessori Tommaso Sacchi e Cosimo Guccione e del presidente del Quartiere 4 Mirko Dormentoni. L’opera è stata finanziata dalla Fondazione CR Firenze e dal Comune, in partenariato con la direzione delGozzini e con l’Università di Firenze (Lab Critical Planning & design). La progettazione del murale è avvenuta attraverso un processo partecipativo che ha coinvolto un gruppo di detenuti e la sua realizzazione è stata affidata agli artisti dell’associazione culturale Toscana Elektro Domestik Force. L’opera rappresenta artisticamente il percorso di crescita e reinserimento sociale che si può realizzare all’interno degli Istituti Penitenziari, non solo luoghi di pena, ma soprattutto, come vuole la Costituzione, di riabilitazione e costruzione di nuove progettualità di vita. Il progetto “La Scritta che Buca” rientra nel percorso “Dal Giardino degli Incontri agli Incontri nel Giardino: oltre il muro tra carcere e città”, finanziato dall’autorità regionale per la garanzia e la promozione della partecipazione e coordinato dall’Università di Firenze (Lab Critical Planning & design) e dalla Fondazione Michelucci. “La direzione verso la quale tutti dobbiamo lavorare - ha dichiarato l’assessore al welfare Sara Funaro - è quella del recupero dei detenuti e in quest’ottica dobbiamo rafforzare, in linea con la direzione del carcere, il rapporto di Sollicciano con la città e il territorio, soprattutto per le sfere sociale e sanitaria. Sono felice che oggi si parli di carcere per un evento che manda un messaggio di incontro: questo murale è l’ennesimo segnale di dialogo e di una città che si deve avvicinare alla casa circondariale fiorentina per cercare di portare avanti tutti insieme azioni che la rendano un luogo migliore”. “Questo spazio dove presentiamo l’opera, il Giardino degli Incontri - ha sottolineato l’assessore alla cultura Tommaso Sacchi - è uno degli ultimi di Giovanni Michelucci e nel progettarlo il grande architetto sosteneva che il suo interesse principale non era il carcere ma la città, nel suo pensiero il carcere non era qualcosa di scollegato dalla città ma ne faceva indubbiamente parte. Qui Michelucci pensava alle famiglie, ai bambini, a un luogo di intreccio di vita tra chi è recluso e chi no, e questo murale rende sicuramente onore alla sua visione lungimirante e così profondamente umana”. “La ‘scritta che buca’ è una realtà - ha ricordato il presidente del Quartiere 4 Mirko Dormentoni - e non possiamo che esserne felici. È una vera soddisfazione per noi. Sono anche progetti come questo che aiutano le persone in difficoltà a rinascere e a ritrovare le proprie energie migliori. E sono azioni di rigenerazione urbana come questa che ci aiutano ad affermare un principio in cui crediamo fortemente: le strutture carcerarie di Sollicciano non sono un corpo estraneo, ma una parte integrante della città. Infine, la soddisfazione è legata alla consapevolezza del fatto che questo è uno dei risultati concreti del percorso partecipativo ‘Incontri nel Giardino’, svolto nel 2019, del quale il Quartiere 4 è stato tra i promotori e responsabile operativo”. Network istituzionale: Regione Toscana, Università di Firenze (Lab Critical Planning & design del Dipartimento di Architettura), Fondazione Michelucci, C.A.T. Cooperativa Sociale, Comune di Firenze, Quartiere 4, Comune di Scandicci, Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Toscana e dell’Umbria, Direzione della Casa circondariale Mario Gozzini, Casa circondariale Sollicciano, Garante dei diritti delle persone detenute della Regione Toscana, Garante dei diritti delle persone detenute del Comune di Firenze. Sei voci di un nuovo mondo di Cristina Taglietti La Lettura - Corriere della Sera, 10 ottobre 2021 Le urla dalle carceri egiziane, la ribellione alla poligamia in Camerun e Nigeria, l’uccisione di una beduina, i pianti dell’orfanotrofio di Mumbai. Si può guardare il mondo dal chiuso di una cella, da un passato che non passa, da uno spazio esistenziale abitato dai mostri dell’immaginario, da una condizione di doppia appartenenza oggi comune a tanti cittadini sospesi tra una madrepatria lontana, e forse neanche mai vista, e una nuova identità. L’Africa, l’India, l’America Latina, la Palestina: il Salone del libro accompagna in un giro del mondo letterario chi vuole scoprire voci nuovi di autori emergenti, oltre ai grandi nomi ormai entrati nel canone della contemporaneità. In quest’appuntamento che, dopo i mesi del distanziamento, rinnova il miracolo del corpo dello scrittore, ci saranno (molti in presenza, alcuni in streaming) Michel Houellebecq, Javier Cercas, André Aciman, Alicia Giménez-Bartlett, Marilynne Robinson, tanto per citarne alcuni, ma anche scrittori meno noti che raccontano, con varietà di stili e generi, altre storie e altri confini. Lontano dalle frontiere europee e dalla dominante cultura nordamericana, i sei scrittori che “la Lettura” presenta qui offrono, con esiti diversi, percorsi alternativi immersi nella realtà più stringente e drammatica (come quelli ospitati sopratutto in due format del Salone: Lingua madre e Anime arabe) o battano piste più dichiaratamente letterarie che, tuttavia, sotto il mantello di generi come il giallo o l’horror, raccontano qualcosa di profondo e, a volte, imprevedibile, delle relazioni umane. Una voce dietro le sbarre - “Tagliato fuori da qualsiasi tipo di lettura o notizie dal mondo, mi resta solo da chiedermi: perché mi trovo in prigione?”. Alaa Abd el-Fattah al Lingotto non ci sarà, ma ci saranno le sue parole. Non può partecipare né in presenza né virtualmente, quest’attivista nato al Cairo nel 1981, entrato per la prima volta in prigione a 25 anni, nel 2006, fermato mentre si trovava nella stazione di polizia del suo quartiere, Doqqi, lo stesso dove abitava Giulio Regeni. Con la moglie Manal Hassan è il creatore della prima blogosfera araba, un aggregatore di blog che, attraverso un fluire cronologico, pubblicava in tempo reale tutti i post che uscivano dai diari virtuali egiziani raccontando quello che stava succedendo in Egitto tra quella generazione di giovani. “Manalaa.net è l’esempio più chiaro di una prima generazione di dissidenti: una comunità virtuale che si conosce attraverso la parola su supporto digitale, creando un embrione di letteratura politica. È il tempo dei samizdat elettronici, dell’informatica al servizio della libertà di parola”, scrive nella prefazione Paola Caridi che al Salone, con Lucia Sorbera, porta uno sguardo non convenzionale sull’altro lato del Mediterraneo con il format Anime arabe. Divenuto la figura simbolo della dissidenza egiziana, Alaa ha trascorso gli ultimi sei anni sempre dentro una cella, privato anche dei libri e della carta per scrivere. In Egitto, d’altronde, si stima siano reclusi oltre 60 mila detenuti politici e di coscienza, sottoposti a torture, ingiusto processo, lunghi periodi di detenzione preventiva ed esecuzioni capitali, in palese violazione dei diritti civili e umani. Non sei ancora stato sconfitto arriva in Italia con il marchio torinese Hopefulmonster grazie a una rete internazionale di editor, giornalisti, alla famiglia dell’autore, ad Amnesty International e all’Arci: per la prima volta, viene raccolta una parte del suo lavoro, tradotta da amici e familiari. Sono testi “in cui parla non solo in quanto “Alaa”, un uomo che ha subito infinite persecuzioni, ma come protagonista di un cambiamento storico, parla sapendo che per questo pagherà un prezzo e, malgrado ciò, non può fare a meno di parlare”, scrivono i curatori che spiegano anche come l’attivista abbia concepito la rete non soltanto come strumento per trasmettere verso l’esterno, ma anche per raccogliere e diffondere informazioni, mettere insieme materiale, come spazio di dibattito e diario personale: “Uno scrittore in grado di parlare dei grandi interrogativi della storia e delle piccole questioni burocratiche, coerente con sé stesso mentre si trova in mezzo a una folla inferocita oppure quando porge le sue condoglianze in una casa di martiri o sale sul palco durante una conferenza sull’alta tecnologia in California”, nei pochi momenti in cui è stato in libertà. Alaa, ora di nuovo in detenzione preventiva da oltre due anni, dal settembre 2019, si trova in carcere quando la moglie partorisce il loro primo figlio e sua madre è in sciopero della fame: eppure la sua richiesta di giustizia è all’interno di un quadro di legalità. Questa generazione la rivoluzione la fa anche così. Le voci delle impazienti - Anche Djaïli Amadou Amal è egiziana per parte di madre. Il padre è fulani, etnia nomale del nord del Camerun, dove la scrittrice è nata. La sua biografia parla per lei: a 17 anni la famiglia la dà in sposa a un cinquantenne. Quello che racconta nel romanzo Le impazienti (Solferino), attraverso le voci di tre donne, Ramla, Hindou e Safira, nate e cresciute in famiglie benestanti di Maroua, in Camerun, è un mondo in cui la poligamia e il matrimonio in età precoce sono un modello di controllo che trova falsi appoggi nei testi sacri e si traduce nell’apertura di ostilità tra vecchie e nuove mogli per la spartizione del patrimonio. “Dio ama le donne pazienti. Oggi ho compiuto il mio dovere di padre nei vostri confronti. Vi ho cresciute, vi ho educate e oggi vi affido a uomini seri” dice il padre alla protagonista del suo romanzo, e alla sorella prima di elencare un’infinita serie di sottomissioni a cui dovranno attenersi. Lei da quelle imposizioni, dal munyal (che letteralmente significa pazientare, accettare senza lamentarsi), è riuscita a liberarsi e a cominciare una nuova vita con un marito scelto da lei, lavorando, scrivendo e fondando un’associazione per l’istruzione femminile (Femmes du Sahel), deviando da un destino scritto e diventando la “voce dei senza voce”. Una voce dalla biblioteca - Uno scenario, quello dei matrimoni precoci, legati alle tradizioni, alla povertà e alla discriminazione di genere, che Djaïli Amasou Amal condivide con un’altra scrittrice africana presente al Lingotto, Abi Daré, nigeriana che da diciotto anni vive in Inghilterra. La dedica del suo romanzo La ladra di parole (Nord) è alla madre, Teju Somorin, dal 2019 “la prima donna a insegnare diritto fiscale e tributario in un’università nigeriana”. Ma anche questo romanzo - scritto in un broken English che in parte è inventato e in parte è quello usato dai nigeriani che non hanno studiato l’inglese, ma trovano un modo per esprimersi - prende le mosse, come quello di Amal, da retaggi antichi e patriarcali e inizia con un padre che comunica alla figlia, la quattordicenne Adunni, che la settimana successiva si dovrà sposare con un vecchio del villaggio “che guida il taxi e ha la faccia da caprone”, ha già due mogli e quattro figlie, nessuna delle quali va a scuola. Con quei soldi la famiglia pagherà l’affitto mentre per la retta degli studi non ce ne saranno. Il valore dell’istruzione, preclusa a molte ragazze dei Paesi poveri, la piaga della violenza e della schiavitù domestica in Nigeria sono le questioni che Daré porta alla luce, anche facendo precedere la narrazione da prologhi fattuali: “Sesta al mondo per esportazione di greggio, con un Pil di 568,5 miliardi di dollari, la Nigeria è la nazione più ricca dell’Africa. Più di 400 milioni di nigeriani vivono in povertà, con meno di un dollaro al giorno”. La storia di Adunni è una storia di dolore: “Perché le donne in Nigeria sembrano soffrire per tutto più degli uomini?”, si chiede. Sua madre, che la sosteneva, è morta (“In questo villaggio qui, se vai a scuola nessuno ti costringe a sposarti. Ma, se non vai a scuola, ti sposano con quello che ti capita appena hai quindici anni. L’istruzione è la tua voce, bambina”) e, nonostante le difficoltà, Adunni lotta per assicurarsi un’istruzione occidentale. Costretta a fuggire per non rischiare di essere accusata della morte della seconda moglie del taxista, finisce in una ricca dimora di Lagos, schiava di Big Madam, una donna crudele che la umilia e la maltratta. “Nel 2006 un rapporto dell’Unicef ha evidenziato che in Nigeria lavorano circa 15 milioni di bambini al di sotto dei 14 anni, sopratutto femmine”: anche questo è un fatto, ma la luce che a un certo punto si accende è quella della biblioteca della villa, dove il primo libro che legge - un dizionario - diventa il più prezioso dei lasciapassare. Le voci del deserto - È ancora la violenza contro una donna il punto da cui parte Adania Shibli, palestinese che vive tra Ramallah e Berlino, in Un dettaglio minore (La nave di Teseo), romanzo dalle atmosfere rarefatte, quasi metafisiche, selezionato tra i finalisti all’International Booker Prize 2021 e del National Book Award 2020. Una giovane palestinese, senza nome, legge un articolo sullo stupro e l’omicidio di una ragazza beduina nel 1949. Il “dettaglio minore” che la colpisce è che il fatto sia avvenuto il giorno del suo compleanno, 25 anni prima della sua nascita. Con le due narrazioni che si sovrappongono - la prima, glaciale, nella terza persona di un ufficiale israeliano; la seconda, altrettanto fredda, nella prima persona della ricercatrice palestinese - Adania Shibli evoca un presente che non può prescindere dal passato. Nel deserto del Negev, un anno dopo la guerra arabo-israeliana del 1948, militari israeliani di stanza nell’area devono “ripulire” il terreno da tutti gli arabi rimasti. Ne trovano, ancora vivi, disarmati, all’ombra di una piccola oasi. Li uccidono, insieme ai dromedari, e risparmiano solo una giovane beduina, “una ragazza raggomitolata come uno scarafaggio nel suo abito nero”, che puzza di selvatico e di benzina, e finirà stuprata e poi seppellita nella sabbia. L’altra donna che, anni dopo, a Ramallah, legge della violenza su un giornale decide di partire, guidata da quella ossessione, alla volta del Negev, per cercare un modo per raccontare la storia dal punto di vista della vittima. Il romanzo è il racconto di questa ricerca ma anche dell’attraversamento di un territorio pericoloso dove la “barriera della paura” prende forma “dalla paura della barriera, quella reale, del check point”. Le voci dell’assenza - Laila Wadia è una “narrastorie” plurilingue e senza confini. Nata a Mumbai nel 1966, vive a Trieste dal 1986, scrive in inglese e, da qualche anno, anche in italiano, si occupa di traduzioni ed è molto attiva nel Nordest tra le comunità degli immigrati in Italia, di cui scrive, anche lei con particolare accento sulla condizione delle donne. La doppia appartenenza, o forse l’”assenza, più acuta presenza” per usare la parole di Attilio Bertolucci, permeano racconti spesso ironici che offrono un racconto realistico della vita di famiglie immigrate in Italia, con il loro seguito di stereotipi e pregiudizi. Il piccolo editore mantovano Oligo ha pubblicato da poco Il giardino dei frangipani che prende il titolo dalla distesa di fiori che circonda l’orfanotrofio di Mumbai in cui la protagonista, Kumari, passa l’infanzia e l’adolescenza prima di essere assunta in una fabbrica di vestiti. Grazie alla sua bravura viene notata dal dirigente di una casa di moda italiana che la porta con sé a Roma. Due piani temporali separano l’orfana dalla giovane ricca e realizzata, tornata in India per vedere la tomba di chi, in Italia, ha abusato di lei: “La persona che era rimpatriata ora era una memsahib (una signora, ndr) con un seguito di quattro valigie Gucci. La ragazzina che per anni aveva dormito avvolta in un semplice lenzuolo sul freddo pavimento della Sunny Export e aveva passato intere giornate contando perline, oggi adagiava la testa su cuscini di finissimo cotone nei più lussuosi alberghi”. Quel ritorno è anche l’occasione, per Liala Waida, di raccontare la storia dei circa mille italiani sepolti nel cimitero di Sewri, a Mumbai, in seguito alla Seconda guerra mondiale. La voce della paura - Per andare oltre il realismo di una narrativa che mette al centro i temi della giustizia sociale, dell’uguaglianza, della ribellione, bisogna approdare in Ecuador con la trentatreenne Mónica Ojeda che quei temi li trasfigura manipolando generi come il gotico e l’horror, lo scavo psicologico con cui costruisce i personaggi, gli scenari inquietanti, le situazioni estreme, nell’ambito di quel perturbante che molta letteratura giovane latinoamericana sta esplorando con risultati interessanti. “L’esercizio della parola è un linguaggio della paura”, scrive in esergo citando Julia Kristeva, oltre a un rosario di altri riferimenti che vanno da Jacques Lacan a Herman Melville a Edgar Allan Poe. Il suo Mandibula (Polidoro editore) è una escalation di nevrosi e violenze che coinvolge due studentesse, le loro madri e l’insegnante Clara, in passato bullizzata dalle ragazze. Versione sadomaso e allucinata del romanzo di formazione in cui la famiglia è “il mostro sotto il letto”, la madre “un grande coccodrillo che ci tiene nella sua bocca”, la figlia “un proiettile che esce e poi ritorna per colpirti al cuore” mentre il corpo è un’incursione al confine tra piacere, dolore e violenza, in una idea di letteratura che dispiega, anche a livello formale, tutto il suo potenziale: “È ridicolo, ma la maggior parte del tempo ci dimentichiamo di essere animali formati da organi che sembrano usciti da un incubo. Il cuore, per esempio, è un organo orripilante. Sempre lì dentro, che batte, però non ci pensiamo mai perché se lo facessimo, forse impareremmo a temerlo”. A febbraio 2022 uscirà in Italia, sempre da Polidoro, il romanzo Nefando in cui la narrazione ruota intorno agli abusi sui minori, al dolore della ferita, ma anche ai meccanismi del desiderio. Il marketing editoriale lo definisce “gotico andino”, ma l’etichetta ne identifica soltanto in parte la natura che, oltre ai classici del terrore come Poe, H. P. Lovecraft e Mary Shelley, filosofi e psicoanalisti (Lacan, Georges Bataille, Kristeva), ingloba un frammentato immaginario fatto di serie tv, videogiochi, fenomeni della Rete. In marcia per la pace, i nuovi fuochi da spegnere di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 10 ottobre 2021 Non basterà, come da titolo dell’edizione 2021 della Perugia-Assisi, rivendicare “I Care”, io me ne occupo, ne prendo cura, per sanare ferite che si stanno facendo sempre più profonde e laceranti. Marciare è un verbo che male si concilia con la parola pace. Piuttosto con il suo contrario. I soldati marciano verso qualche battaglia, costretti dentro qualche guerra. Le milizie marciano al passo dell’oca, mentre la pace vola leggera come colomba, o farfalla gialla sopra un filo spinato. Eppure può avere un senso rubare per una volta un verbo ai seminatori di rabbia e disuguaglianze. La marcia della pace, l’ormai storica Perugia-Assisi che oggi compie sessant’anni, potrebbe stavolta diventare rumorosa, perché i valori da difendere sono sotto attacco e non basta più presenziare silenziosi per proteggerli. Il tentato assalto squadrista di ieri a Roma alla sede della Cgil, e le scene da guerriglia intorno ai Palazzi delle Istituzioni all’improbabile grido di “libertà dal green pass”, accendono altri fuochi in un clima a forte rischio di arroventarsi. Forse la marcia che unisce può diventare a questo punto anche una marcia che esclude: mentre abbraccia i tanti senza volto, vittime della fame, dell’ingiustizia, dell’indifferenza, nello stesso tempo allontana chi affama, chi semina paure, chi se ne frega, gli sfascisti, parenti prossimi di altri “ismi”, contro cui poco si fa per metterli dove devono stare: fuori di qui, fuori dalla nostra Costituzione, fuori dalle Carte su cui è stata fondata l’Europa. I dodici Paesi, dalla Polonia alla Grecia, che hanno chiesto soldi a Bruxelles per finanziare muri alle frontiere sono il segno che quell’Europa sta tradendo in ordine sparso l’ideale per cui è nata e che il nostro Presidente Mattarella ha da poco ricordato: “Sia patria, la nostra Europa, anche di chi fugge dalla schiavitù”. Più vaccini meno fucili, ha ammonito papa Francesco. Appelli disattesi o lasciati cadere nel vuoto. Farsi carico di qualche buona causa contempla necessariamente opporsi a chi ha provocato il danno e minaccia di perpetrarlo. Anche la pace, come la giustizia sociale, ha bisogno di un esercito pronto a presidiarne i confini, e se possibile allargarli. Una sfilata colorata dove ci si sente tutti più buoni per un giorno, come a Natale, per poi rassegnarsi alla convivenza con i virus della corrosione di umanità, è un segno lodevole ma non sufficiente. L’agenda delle cose da fare va di pari passo con quelle da non permettere che siano fatte, perché vietato dalla Legge e dalle leggi non scritte ma vigenti in ogni democrazia. Ed è un’agenda di impegni da onorare con una sorveglianza politica quotidiana. Credenti e non credenti insieme, come è storia per i 24 coloratissimi chilometri della Perugia-Assisi. Senza etichette politiche, ma anche senza confusioni partitiche: quando si tratta di pilastri della nostra civiltà, la scelta da quale parte stare non è appannaggio di uno schieramento ma patrimonio impossibile da non condividere per chiunque, dentro uno Stato liberale, ambisca a un ruolo qualsiasi di rappresentanza. Uno dei primi allarmi, anche se sembra venire dal trapassato remoto, è un ritorno di fiamma sottovalutato per difetto di memoria o conclamata miopia. Riepiloga la senatrice a vita ed ex deportata Liliana Segre: “Per anni, dopo la Seconda guerra mondiale, ci si vergognava di parlare di Nazismo e di Fascismo. Oggi, in modo osceno, sono parole che riaffiorano senza più alcun pudore. Non posso non ricordare che cosa abbia voluto dire essere vittima delle leggi razziali. E vedere che tornano quei pregiudizi, quella caccia all’uomo, mi mette dentro un gran disagio di vivere. Questa istigazione all’odio, questo insistere sulla razza bianca, sulle differenze, è molto pericoloso per l’Italia”. Pericoloso, anticostituzionale e quindi illegale, visto che esistono leggi, che dal principio fondante della nostra Carta discendono, che questi “ritorni di fiamma” li vietano e li puniscono. O dovrebbero. Come dovrebbe trovare un qualche ascolto l’ultimo, ennesimo, report dell’Onu sulla Libia, che documenta con precisione lancinante il ciclo di violenze subite da bambini, donne, uomini, dalla cattura in mare agli stupri alla “vendita” ai mercanti, il tutto sotto il controllo assoluto delle autorità, con cui noi italiani abbiamo appena rinnovato un molto discusso e discutibile accordo di cooperazione. Libia come una parte per il tutto, simbolo dell’umanità che resta chiusa fuori, con i Paesi di possibile approdo che nel mondo alzano i loro ponti levatoi e si serrano dentro, in un medioevo di fortezze arcigne senza rinascimento alle viste. Sbiadisce fino a sembrare irreale il ricordo di quella “Marcia della pace per la fratellanza dei popoli”, scritto su un lenzuolo bianco alla prima Perugia-Assisi, 1961, con in testa alla colonna un filosofo della non violenza come Aldo Capitini, un pioniere radicale (Pio Baldelli), e la sagoma magra di Italo Calvino, ancora fresco ex partigiano e già maestro scrittore. Le parola “fratellanza” è stata espulsa dai dizionari correnti. Suona persino blasfema se si pensa ai nomi di alcuni ragazzi italiani che ormai sono spina nella coscienza di chi ne ha una: Giulio Regeni, terminato in Egitto nel 2016, ancora in attesa di un perché e di un da chi, cioè di giustizia, unica consolazione possibile per chi è rimasto a piangerlo e a tutelarne la memoria; Mario Paciolla, giornalista e cooperante Onu, morto nella Colombia amazzonica nel 2020 per un suicidio a cui credono soltanto le autorità di quel Paese; Andrea Rocchelli, fotoreporter abbattuto sul fronte del Donbass dal fuoco ucraino nel 2014, senza che il suo ricordo, per un vizio di forma, possa almeno riposare con una sentenza definitiva di condanna per chi gli ha sparato. E l’unico ancora in vita, Patrick Zaki, studente a Bologna, egiziano che il nostro parlamento pretenderebbe anche italiano, in prigione da venti mesi, la cui unica reale speranza di futuro è legata a un filo sottilissimo che dal carcere del Cairo arriva fino al corpo lungo di chi, a piedi, alzando cartelli e speranze, unirà Perugia ad Assisi e a quell’Italia che non vuole arrendersi all’oblio dei diritti. In molti si sono già arresi: come se fosse una battaglia persa pretenderne il rispetto, e in qualche caso il ripristino. Adesso che la pandemia sembrerebbe quasi finita, almeno da noi, non sono rimandabili questioni di principio, anzi di principi, rimaste in lista d’attesa causa spaesamento e isolamento da virus. C’è tanto ritardo da recuperare su questo fronte, per rimuovere i macigni che si stanno accumulando sulla pelle degli ultimi della fila e sullo spirito vitale della nostra Costituzione. Non basterà, come da titolo dell’edizione 2021 della Perugia-Assisi, rivendicare “I Care”, io me ne occupo, ne prendo cura, per sanare ferite che si stanno facendo sempre più profonde e laceranti. Anche la presidente della Ue, Ursula von der Leyen, ha solennemente proclamato che “I Care” deve diventare il motto dell’Europa. La manutenzione della pace e della fraternità, mai così a rischio di rottamazione, richiede uno sforzo concreto e continuato di resistenza. Diceva Gabriel Garcia Marquez: “Non è vero che le persone smettono di inseguire i sogni perché invecchiano. Invecchiano perché smettono di inseguire i sogni”. Anche le marce più edificanti invecchiano se diventano soltanto parate di un giorno. Contro la guerra, per la società della cura di Flavio Lotti* Il Manifesto, 10 ottobre 2021 Marcia Perugia-Assisi. I prossimi 10 anni saranno decisivi per fermare il cambiamento climatico e per realizzare l’Agenda 2030. In questo decennio dovremo impegnarci per ridurre le ingiustizie e le disuguaglianze. Oggi migliaia di persone, insieme a Cecilia Strada, Mimmo Lucano e Zakia Seddiki, tornano a marciare per la pace da Perugia ad Assisi. Sarà la prima volta dopo che la pandemia ci ha costretto a chiuderci in casa, a stare fermi e distanziati. Come a Milano contro i bla-bla-bla di tanti governi sul clima, ci saranno tanti giovani anche se il Covid ha costretto molti di loro a restare a casa. Altra prova che le disgrazie aumentano le disuguaglianze e tra i più colpiti ci sono i giovani. Questa marcia, come tutte le altre che abbiamo fatto negli ultimi dieci anni, è innanzitutto la loro. A che serve marciare per la pace il giorno dopo che gli americani si sono ritirati dall’Afghanistan? Normalmente le manifestazioni per la pace si fanno quando gli americani accendono i motori dei loro cacciabombardieri e il loro rombo diventa particolarmente assordante. Fare una marcia della pace quando, al contrario, smettono di bombardare e si ritirano nelle caserme non è tanto normale. Il fatto è che di normale, nel tempo che stiamo vivendo, c’è ben poco. Non è normale che dopo venti anni di stragi e devastazioni in Afghanistan si torni a casa senza alcuna seria considerazione per le donne e gli uomini che abbiamo promesso di aiutare. Non è normale che l’Europa chiuda le porte alle decine di migliaia di afghani che cercano disperatamente di fuggire dall’inferno che abbiamo lasciato. Non è normale che si tenti di rimuovere questo disastroso fallimento dall’attenzione dell’opinione pubblica. Non è normale che i potenti fari mediatici continuino a oscurare le decine di altre orribili guerre che continuano in tante parti del mondo a fare strage di vite umane. Spesso le abbiamo definite “guerre dimenticate”. D’ora in avanti le dovremo chiamare “guerre da dimenticare” perché il loro oscuramento non avviene per caso. Non è normale che ci siano 82 milioni di persone in fuga, che in Europa si siano già costruiti 16 nuovi muri contro di loro, che anche quest’anno nel mondo si siano spesi duemila miliardi di dollari in armi e che ogni anno lasciamo morire 9 milioni di persone per fame. Non è normale che non ci siano abbastanza soldi per la salute e si continuino ad aumentare le nostre spese militari e che i nostri generali vogliano comprare i missili nucleari Cruise che 40 anni fa sono stati eliminati dall’Europa. Non è normale che ogni giorno, nelle nostre case, si uccidano delle donne e nei luoghi di lavoro si continui a morire di sfruttamento, competizione e incuria. Non è normale che bombe d’acqua, uragani e incendi continuino a trovarci impreparati. Tutto questo non è normale e non è pace, anche se nessuno ci costringe a fare quello che vuole puntandoci un fucile alla testa e andiamo a dormire senza aver la paura di essere sgozzati nel buio da qualche invasato jihadista come succede in sempre più numerosi villaggi dell’Africa. Per questo, siamo andati a Barbiana, abbiamo staccato il cartello “I Care” che don Milani aveva appeso alla porta della sua scuola e abbiamo organizzato una nuova Marcia PerugiAssisi con l’ambizione di inaugurare un nuovo cantiere di futuro all’insegna della “cura”. Cura è il nuovo nome della pace. I prossimi 10 anni saranno decisivi per fermare il cambiamento climatico e per realizzare l’Agenda 2030. In questo decennio dovremo impegnarci per ridurre le ingiustizie e le disuguaglianze; uscire dalla crisi sociale ed economica; promuovere l’uguaglianza e la parità tra donne e uomini; effettuare la transizione ecologica; democratizzare la rivoluzione digitale; affrontare e prevenire nuove grandi migrazioni; scongiurare nuove pandemie; mettere fine alle guerre, realizzare il disarmo, impedire una nuova guerra mondiale e risanare tante altre ferite aperte. Per affrontare questi grandi-problemi-comuni-glocali, dobbiamo “sviluppare una mentalità e una cultura del prendersi cura capace di sconfiggere l’indifferenza, lo scarto e la rivalità che purtroppo prevalgono” (papa Francesco). Questo vuol dire cura delle giovani generazioni, cura della scuola e dell’educazione, cura degli altri, cura del pianeta, cura del bene comune e dei beni comuni, cura della comunità e della città, cura dei diritti delle donne, cura dei diritti umani, cura della democrazia, della Repubblica e delle istituzioni democratiche dal quartiere all’Onu… In altre parole, abbiamo bisogno di costruire non solo una cultura della cura, ma una società, una politica e un’economia della cura. Facciamolo con lo spirito giusto. Diciamo ai giovani e ai nostri figli, insieme con Ariane Mnouchkine, che “siamo all’inizio di una nuova storia e non alla sua disincantata fine”. Diciamolo chiaro e forte, perché alcuni di loro hanno udito il contrario e ormai disperano. Diciamo loro che “non saranno muti ingranaggi ma, al contrario, inevitabili autori”. Buon cammino a tutte e tutti. *Coordinatore della Marcia PerugiAssisi “La mia guerra per la verità contro le menzogne su Facebook” di Francesca Mannocchi L’Espresso, 10 ottobre 2021 Nobel per la pace alla giornalista Maria Ressa. “I social sono usati dal potere per creare odio e ottenere consenso. Il giornalismo deve rispondere con coerenza, trasparenza e responsabilità”. La testimonianza della giornalista filippina insignita del Nobel per la Pace 2021 insieme Dmitry Muratov, caporedattore del giornale d’inchiesta russo Novaya Gazeta. L’8 ottobre 2021 la giornalista filipppina Maria Ressa è stata insignita del Premio Nobel per la Pace insieme al giornalista Dmitry Muratov, caporedattore del giornale d’inchiesta russo Novaya Gazeta. Il Norwegian Nobel Committee, si legge nella motivazione, ha deciso di premiare i due cronisti per “i loro sforzi per salvaguardare la libertà di espressione, che è una precondizione per la democrazia e una pace duratura”. Maria Ressa è per Time una “guardiana della verità”, è cioè una dei giornalisti scelti dal settimanale come persona dell’anno, insieme a Jamal Khashoggi (assassinato nel consolato saudita di Istanbul), a Kyaw Soe Oo e a Wa Lone (due giornalisti Reuters detenuti nel Myanmar) e all’intero staff della “Capital Gazette”, il giornale di Annapolis, Maryland, attaccato lo scorso giugno da un killer che ha ucciso quattro giornalisti. Maria Ressa è filippina, ha 55 anni, capelli corti neri, sguardo profondo e un sorriso sempre gentile. La determinazione di Maria ha la voce della pacatezza, della pazienza e del coraggio: nel 2012 ha fondato a Manila il sito investigativo Rappler; dal 2016, anno in cui è stato eletto Rodrigo Duterte, racconta gli assassini extragiudiziali nel paese, la guerra alla droga del Presidente. Rappler ha documentato come Duterte abbia usato e armato i social media per mettere a tacere il dissenso e costruire consenso. In risposta, Maria Ressa e il suo gruppo sono stati presi di mira, accusati di evasione fiscale. Accuse che Maria definisce “semplicemente ridicole”. L’uso e l’abuso dei social media nella costruzione del consenso sono uno dei temi cruciali del lavoro di Maria Ressa e del suo gruppo. Lo scorso gennaio durante un’audizione alla commissione del Senato sull’informazione la Redda ha citato uno studio di FreedomHouse.org che mostra che “in 30 dei 65 paesi inclusi nel report, i social media rappresentano un esercito a basso costo per potenziali autoritari e dittatori per controllare l’opinione pubblica”. Invece di controllare le informazioni “il mercato viene inondato di menzogne”. La guerra contro queste menzogne è la guerra di Maria. Il 97 per cento delle persone nelle Filippine è su Facebook, è il mezzo per informarsi e per il potere è il mezzo per veicolare menzogne e alimentare odio... “Le Filippine stanno diventando un regime autoritario. I social media sono stati armati e i primi bersagli di queste armi sono i giornalisti. Duterte è stato eletto a maggio 2016 e a partire dal luglio 2016 la mia squadra usciva per strada tornando in redazione con resoconti di una media di otto cadaveri al giorno. Sono due anni e mezzo che combattiamo attacchi sui social media perché proviamo a raccontare la verità. Quando noi di Rappler abbiamo cominciato a denunciare Duterte, lui ha tentato di screditarci. A luglio 2017 ha detto che eravamo di proprietà degli americani e che stavamo lavorando per far cadere il governo. Gli ho risposto: presidente, si sbaglia. Dopo una settimana ero sotto indagine. Il governo filippino ha anche cercato di revocare la licenza di Rappler per operare all’inizio di quest’anno”. La tua parola d’ordine è: resistere... “Non è coraggio, sai? È sapere chi sei e quali sono i valori per cui hai vissuto e vivi. Faccio la giornalista da trent’anni, e non solo non ho perso l’entusiasmo e la voglia di svelare le menzogne, ma penso che le sfide che ci troviamo di fronte oggi richiedano ancora più forza. Non è un momento facile per fare il nostro lavoro, ma è forse quello in cui ha più senso farlo, perché oggi i nostri valori e la nostra missione sono più chiari. La tecnologia non ha morale e non ha valori: e i leader autoritari hanno capito come sfruttare questa mancanza di etica”. Rappler non è il solo organo di informazione inviso a Duterte. Il presidente ha provato a ostacolare altri media, come la tv filippina ABS-CBN che lo aveva criticato. E ha anche attaccato il filippino “Daily Inquirer” accusando i proprietari di evasione fiscale: ora il giornale sta per essere venduto al miliardario (e sponsor di Duterte) Ramon Ang... “I leader autoritari hanno il megafono più potente e attaccando l’informazione il potere propaganda i suoi messaggi all’infinito. Il senso del giornalismo è sempre stato fare domande, è il solo modo di accreditarci e costruire fiducia verso chi ci legge e chi ci ascolta: controllare il potere e fare domande. Il potere dovrebbe rispondere alle nostre domande. Oggi invece risponde militarizzando i social media. E la risposta sono regimi e governi sempre più autocratici, che usano i social media per ottenere il potere e mantenerlo”. Stiamo assistendo a fenomeni simili anche in Europa e in Italia. Alcuni esponenti di governo alimentano un clima d’odio attraverso i social media, rispondono alle critiche con insulti e hate speech... “Io parlo di tre C, cioè i mezzi in cui il governo fa sì che i cittadini facciano ciò che fa comodo al potere: corruzione, coercizione, cooptazione. Tutto questo sposta la democrazia, la erode. La fa diventare qualcosa che stento a riconoscere. Quando io ero giovane le cose erano più chiare, ho imparato gli standard etici del nostro lavoro e ho imparato a tenere una distanza dal potere che è quello che i giornalisti devono fare, chiamare le cose con il loro nome, seduti di fronte al potere e non accanto a esso. Ora i media sono frammentati, il loro ruolo è molto cambiato. Nel mio paese le persone si informano tramite Facebook perché come in tanti paesi in via di sviluppo Facebook è la prima dotazione in una scheda telefonica, ed è gratuito. Quando abbiamo iniziato l’avventura di Rappler sapevamo che i social media erano una sfida e che dovevamo imparare a gestirli e non subirli. Piano piano tutto è diventato meno formale, poi informale, poi amichevole, poi troppo informale, poi violentissimo. E a causa dei social media, le persone oggi hanno la soglia di attenzione di un pesce rosso, il flusso di informazioni, la velocità, la superficialità hanno disintegrato la concentrazione degli utenti, che sono nutriti da menzogne”. Nel 2016 hai contattato Facebook per denunciare la presenza di fake news che screditavano il lavoro di Rappler, tuttavia queste pagine sono state rimosse solo dopo due anni. Lo scorso anno hai incontrato Zuckerberg. Che gli hai detto? “Gli ho detto: “Mark, lo sai che il 97 per cento dei filippini su Internet è su Facebook?” e l’ho invitato a venire nelle Filippine perché doveva vedere l’impatto dei social media sulla gente. Lui ha aggrottato la fronte e ha detto: “Cosa sta facendo l’altro 3 per cento, Maria?” Gli ho risposto che tentavamo di tenere viva la democrazia. Quando siamo entrati in Facebook non abbiamo realizzato che l’algoritmo che usava per distribuire le news non distingueva in alcun modo la verità dalla menzogna. E come sai le bugie corrono più della verità, la fiction si diffonde più facilmente. E questo è parte delle ragioni della attuale debolezza delle democrazie. Le persone non sanno cosa sia vero. E i leader di stampo autoritario lo sanno bene, fanno ciò che chiamiamo “trolling patriottico”“. Mi capita spesso di lavorare in paesi che hanno avuto esperienza di dittatura e l’attitudine dei governi occidentali oggi è piuttosto indulgente, penso al caso Regeni in Egitto e alle centinaia come lui, ai giornalisti locali minacciati, a Khashoggi... “L’indulgenza dei paesi occidentali verso le nuove dittature è determinata dal fatto che queste forme di potere autoritario sono considerate garanzia di stabilità politica, non importa a quale prezzo. Penso che i paesi occidentali e gli Stati Uniti in particolare siano persi e confusi, se hai un leader come Trump in un paese che presuntamente è campione di democrazia e lo stesso paese non sta chiedendo con urgenza un’azione forte e risoluta per scoprire la verità sull’assassinio di Khashoggi e il barbaro smembramento del suo corpo, è chiaro che questo incoraggia l’impunità per ogni governo, tutti si sentono autorizzati a minacciare o uccidere i giornalisti. E se tu senti che nemmeno i paesi europei o gli Stati Uniti difendono la funzione dei giornalisti, per noi diventa sempre più difficile. Nel mio paese le prime vittime dell’assenza di verità sono le persone uccise in nome della guerra alla droga. Il governo vuole nasconderle, vuole nascondere i numeri, la ferocia, l’arbitrarietà. Ora parliamo di 5 mila persone uccise che sono i casi ammessi dalle forze dell’ordine poi ci sono 25 mila casi di omicidi sotto investigazione. 25 mila, in due anni e mezzo. L’unica giustizia per questi morti è il giornalismo, la verità”. È il grande dibattito tra la verità e ciò che viene giustificato in nome della sicurezza... “Populismi e leader autoritari sfruttano il tema della sicurezza. I leader che usano politiche demagogiche e autoritarie stanno nutrendo i propri elettorati di paura e la paura genera richiesta di maggiore sicurezza e la richiesta di maggiore sicurezza genera controllo e in nome di questa sicurezza nascono abusi e impunità. Duterte per esempio sta usando la guerra alla droga come una tattica politica, di cui la violenza diventa mezzo privilegiato. La violenza genera paura nelle persone e per giustificare questa violenza Duterte continua a mentire. La sola risposta è continuare a fare ciò che facciamo, con forza e rigore”. Ti senti appoggiata dalle persone nelle Filippine o è capitato che ti sia domandata: chi me lo fa fare? “Mi sono esposta per essere coerente con me stessa ed è il modo in cui ho sempre vissuto mie le scelte. Sono una giornalista, ho sempre fatto questo. La nostra ultima serie è sui killer che ammettono di essere stati pagati dalla polizia e siamo stati violentemente attaccati per questi pezzi, perché siamo stati i primi a farlo, a cambiare il punto di vista. La violenza dei social media sta scoppiando nel mondo reale, chiunque si sente giustificato a dare sfogo alla propria rabbia e al proprio livore, perché chi dovrebbe arginarlo sfrutta invece la stessa rabbia e lo stesso livore per gestire il potere”. Cosa ti aspetti dal futuro? “Ci avviciniamo alle elezioni e al momento i giornalisti hanno meno forza dei social media. Il nostro progetto di lungo termine deve essere una nuova educazione all’attenzione, alla concentrazione, alla critica. In quanto a Rappler, la mia sola strategia è: continuare a raccontare e a denunciare ogni abuso, ogni bugia. Continueremo la nostra opera di svelamento della verità. È il modo per dire a chi ci segue: non siete soli”. È più pericoloso raccontare le guerre o gli abusi del potere? “Ho lavorato in zone di guerra, raccontato conflitti. Ma in guerra puoi distinguere chiaramente i giocatori. Paradossalmente è tutto più chiaro, puoi mappare la situazione e scegliere il modo migliore per raccontare una situazione. Gli attacchi esponenziali, la militarizzazione dei social media hanno qualcosa di diverso, sono attacchi psicologici, gli attacchi sono personali, ti rendono vulnerabile. Ci svegliamo subendo attacchi violenti e con la stessa violenza andiamo a dormire. È una brutalità che vorrebbe stremarti e spingerti a tacere e non dobbiamo rassegnarci, mai a campagne di odio e molestie sponsorizzate dallo stato per intimidirci e metterci a tacere. La strategia di odio è globale e allo stesso modo, la risposta a questo odio deve essere globale”. Tre parole chiave per il giornalismo, oggi... “Trasparenza, responsabilità e coerenza”. No vax e neofascisti in corteo, assalto alla Cgil e Montecitorio di Gilda Maussier Il Manifesto, 10 ottobre 2021 Manifestanti no Green pass danneggiano la sede del sindacato e tentano di arrivare a Palazzo Chigi. Alla Bocca della Verità il sit-in del movimento “Forza del popolo” contro la “dittatura sanitaria”. “Noi siamo il popolo, noi siamo il popolo”. Mentre, a sera, dopo aver assaltato la sede della Cgil, migliaia di persone urlano queste parole a pochi metri da Palazzo Chigi, fermati nel loro ennesimo tentativo violento della giornata da due cordoni di polizia in assetto antisommossa, con cariche di alleggerimento, idranti e diversi lacrimogeni, a un paio di chilometri di distanza, alla Bocca della Verità, qualche centinaio di persone davanti a un mega schermo lancia una nuova formazione politica, “Forza del Popolo”. Stesse parole d’ordine, stessi contenuti, stessa aggressività. La contrarietà al Green Pass (e al vaccino, naturalmente) li accomuna, ma davanti allo schermo si invoca Dio e si snocciolano rosari; la platea è decisamente più matura e sventola i simboli del nuovo movimento che sul sito mette in mostra il logo “La nuova Norimberga” e che dice di perseguire la “progressiva destrutturazione del “potere dello stato” e la contestuale ricostruzione del sistema istituzionale in “organi a servizio del cittadino”“. In corteo non autorizzato, invece, una decina di migliaia di giovani e giovanissimi, partiti da Piazza del Popolo nel pomeriggio, urla cori da stadio e sventola bandiere tricolori ma senza altri simboli di partito. Camuffati, mescolati con tanta gente comune e forse in parte strumentalizzata, centinaia di attivisti di Forza nuova e altre formazioni di estrema destra fomentano la manifestazione. Tra gli organizzatori l’attentatore del manifesto, Andrea Insabato. Come da tradizione, in clima elettorale la piazza violenta trova sempre un motivo per riempirsi. “Assassini, assassini”, “libertà, libertà”, “giornalisti terroristi”, “No Green pass, no vaccini, sì cure, sì brain pass”. Cartelli scritti a mano e tanta inutile foga. “Siamo 100 mila. Oggi fermiamo il certificato verde. La forza della piazza contro la tirannia sanitaria, la forza della gente contro le emergenze inventate”, commentava il leader romano di Forza Nuova Giuliano Castellino prima che un manifestante salisse sul tetto di un blindato della polizia dando inizio ai disordini. Dapprima si sono riversati in piazzale Flaminio bloccando il traffico, poi si sono divisi, con la maggior parte che si è diretta verso Piazza San Silvestro, ha lanciato fumogeni su via del Tritone e ha tentato di raggiungere Montecitorio, attraendo così la parte più consistente delle forze dell’ordine. E un altro gruppo di manifestanti che è riuscito ad assaltare la sede della Cgil ed entrare negli uffici di Corso d’Italia al grido “Landini dimettiti”, perché “Nessuno può toglierci il lavoro che ci siamo conquistati onestamente e duramente”. Hanno divelto una tapparella, i portoni sono stati aperti con l’allarme che ha continuato a suonare ininterrottamente. Tra i manifestanti, oltre a Castellino, anche il fondatore di Forza nuova, Roberto Fiore. Molti però protestano perché non hanno un lavoro, molti si sono misurati (forse) solo con il precariato. Non hanno molti argomenti, solo tanta voglia di rompere tutto. Fino a tarda sera il corteo che ha attraversato via del Corso ha tentato di forzare i cordoni di polizia attorno al Parlamento, lanciando bombe carta e armandosi di sampietrini divelti dal selciato di Piazza San Lorenzo in Lucina. Anche a Milano, per il dodicesimo sabato consecutivo i No Pass sono scesi in piazza organizzati, tra gli altri, dal leader di Italexit, Gianluigi Paragone. Anche qui un corteo non autorizzato ha attraversato la città, ma senza l’impatto che si è visto nel centro di Roma, dove la città è rimasta paralizzata per ore. “La nostra sede nazionale, la sede delle lavoratrici e dei lavoratori, è stata attaccata da Forza Nuova e dal movimento no vax. Abbiamo resistito allora, resisteremo ora e ancora”, è la reazione della Cgil nazionale che torna a chiedere di sciogliere le “organizzazioni che si richiamano al fascismo”. “È un atto di squadrismo fascista. Un attacco alla democrazia e a tutto il mondo del lavoro che intendiamo respingere”, scandisce Maurizio Landini convocando d’urgenza per questa mattina l’assemblea generale della Confederazione “per decidere tutte le iniziative necessarie”. Il presidente Mattarella telefona personalmente al segretario della Cgil mentre il premier Draghi afferma in una nota che “i sindacati sono un presidio fondamentale di democrazia e dei diritti dei lavoratori. Qualsiasi intimidazione nei loro confronti - aggiunge - è inaccettabile e da respingere con assoluta fermezza”. Solidarietà anche dalla Cisl e dalla Uil che parla di “attacco fascista compiuto da squadristi che gridano libertà e usano la violenza. Non ci faremo intimorire”, twitta Pierpaolo Bombardieri. “La realtà si è incaricata di smentire chi sostiene che il fascismo sia solo folklore o nostalgia”, fa notare Enrico Borghi della segreteria nazionale del Pd. Mentre Gianni Letta sollecita: “Il Paese tutto risponda unito a queste degenerazioni intollerabili”. Per il ministro della Salute, Roberto Speranza si tratta di “squadrismo inaccettabile”, e Luigi Di Maio attacca: “Questi non sono manifestanti, sono delinquenti”. Il leader del M5S invita tutta la politica a condannare “senza se e senza ma”. La condanna è effettivamente unanime, o quasi. Matteo Salvini a sera balbetta un timido: “Solidarietà alla Cgil per l’attacco subito, sono vicino a lavoratrici e lavoratori che difendono, pacificamente, i loro diritti e le loro libertà”. Giorgia Meloni è più decisa nel definire “immagini vergognose” quelle di Roma sotto attacco, ma esprime anche solidarietà alle “migliaia di manifestanti scesi in piazza per protestare legittimamente contro i provvedimenti del governo e di cui nessuno parlerà per colpa di delinquenti che usano ogni pretesto per mettere in atto violenze gravi e inaccettabili”. Filo spinato, telecamere, scanner: un nuovo campo profughi che sembra un carcere di Bianca Senatore L’Espresso, 10 ottobre 2021 Sull’isola greca di Samos è stato inaugurato il centro ad accesso chiuso e controllato per tremila persone. “Si preparano a un massiccio arrivo di rifugiati dall’Afghanistan. Da qui a fine anno sarà un macello”. “Non sei contento di trasferirti? Lì è più grande, ci sono anche i campetti per giocare a basket”. Il ragazzo siriano accenna una smorfia al poliziotto che presidia l’area intorno al vecchio campo profughi. Siamo a Vathy, capoluogo di Samos, una delle isole più settentrionali della Grecia, a pochi chilometri dal confine turco. È proprio qui che sabato 18 settembre è stato inaugurato il nuovo centro “ad accesso chiuso e controllato” per rifugiati. Doppia parete di filo spinato a circondare l’intero perimetro, torrette di sorveglianza, migliaia di telecamere, scanner a raggi X, porte magnetiche, tornelli. Sembra un carcere ma alla presentazione ufficiale, alla presenza delle autorità di Atene e di Bruxelles, è stato descritto come un grandioso progetto all’avanguardia per l’accoglienza europea. “Qui le persone staranno meglio e saranno libere di uscire dalle 8 alle 20”, ha voluto precisare il segretario generale per l’asilo presso il ministero greco della migrazione Manos Logothetis. Peccato però che il nuovo centro sia stato costruito in cima a una collina a Zervou, nella parte più remota dell’isola. Per arrivarci in macchina da Vathy occorre un quarto d’ora tutto in salita, mentre a piedi il primo centro abitato è a un’ora e mezza di distanza, che diventano due ore al ritorno con la strada in forte pendenza. “È una trappola: di fatto saranno prigionieri di una struttura che emargina i migranti e li allontana da tutte le attività che in questi anni li hanno impegnati in città”, commentano gli abitanti dell’isola, che in questi giorni hanno protestato contro l’apertura del centro. Già, perché qui verranno via via spostati tutti i 700 abitanti del vecchio campo, che si trova proprio nel centro di Vathy. La notte precedente ai primi trasferimenti, tra le baracche è scoppiato un grosso incendio appiccato per protesta, perché quasi nessuno dei residenti vuole farsi rinchiudere così lontano. Il sole è a picco, fa caldo. Nel nuovo centro non ci sono né alberi né coperture, è una immensa distesa di cemento e baracche che in inverno sarà probabilmente ancora più spaventosa. Tra i due livelli di recinzione passa una strada su cui sfrecciano le auto della sicurezza privata che controllerà il centro, faranno una ronda 24 ore su 24 e ci saranno le vedette sulle torrette di avvistamento. Solo quando dormiranno i migranti non saranno sorvegliati. I dormitori sono corridoi lunghi con stanzette da un lato e dall’altro, in ognuna ci sono cinque letti, ma i bagni sono fuori, in comune. La capienza massima è di 3mila persone, uno spazio enorme che probabilmente si riempirà velocemente. “Dicono che porteranno qui dei profughi dalla terraferma e svuoteranno un po’ Lesbo”, confida in segreto un operatore di Frontex: “Ma credo che si preparino a un arrivo massiccio dall’Afghanistan. Credo che da qui a fine anno anche questo centro diventerà un macello”. All’ingresso sventolano la bandiera greca e quella dell’Unione europea, perché il centro di Zervou è stato finanziato interamente da Bruxelles e rappresenta il primo esempio di altre quattro strutture che l’Unione europea aprirà nelle isole di Lesbo, Chios, Leros e Kos. Spesa totale 276 milioni di euro. A Samos gli ultimi sbarchi dalla Turchia sono avvenuti in agosto e la popolazione del campo è cresciuta fino a settecento persone. Poche in più rispetto alla capienza di 680, mentre tra il 2015 e il 2016 hanno vissuto insieme settemila persone, accampate anche ai bordi dell’insediamento ufficiale, senza acqua, con pochi servizi, tra topi e sporcizia. La situazione oggi è più tranquilla anche se gran parte di coloro che sono ancora qui, a Samos, vive sull’isola ormai da tre, quattro, anche cinque anni. Sono migranti afghani, siriani, della Costa d’Avorio la cui domanda d’asilo è bloccata, dispersa nei meandri della burocrazia ateniese. E così, nel corso del tempo, quelli che sono arrivati bambini sono diventati adolescenti, parlano greco e vanno a scuola. Ora nel nuovo campo la scuola non c’è. “Questo nuovo centro è solo una vetrina per l’Europa, ma in realtà rappresenta un peggioramento della vita per i migranti”, racconta uno degli attivisti della Ong Samos Volunteers: “Nel nuovo centro non c’è uno spazio sicuro per le donne, non ci sono meccanismi di protezione, in particolare per la vita, la sicurezza e la salute mentale dei profughi Lgbtqi+ che saranno ora ulteriormente tagliati fuori dalle reti di solidarietà. Inoltre è totalmente inapplicato il diritto all’istruzione per tutti i bambini e gli adulti confinati all’interno del campo”. Con il trasferimento, dicono le associazioni, tutte le reti di solidarietà vengono allentate, con un ulteriore impatto anche sulla salute mentale dei rifugiati. Medici Senza Frontiere si occupa dei migranti a Samos da anni, con un punto di assistenza proprio a pochi passi dal vecchio campo, nel centro di Vathy. Ora che è stato aperto il nuovo centro, però, l’intero team sta organizzando un altro accampamento più vicino. “È necessario essere sul posto”, spiega Dora Vangi di Msf Grecia mentre mostra le tende in allestimento. Adattare lo spazio è un lavoro complesso, perché sul crinale della collina il terreno è molto arido e polveroso e c’è sempre molto vento, una benedizione d’estate ma d’inverno, invece, sarà molto difficile. “Sono mesi che i pazienti della nostra clinica hanno il terrore di essere rinchiusi nel nuovo centro”, aggiunge Vangi: “Per coloro che sono sopravvissuti alla tortura, questa nuova sistemazione significherà non solo la perdita della libertà, ma anche il rivivere le passate esperienze traumatiche”. “La maggior parte dei nostri pazienti presenta sintomi di depressione e disturbo da stress post-traumatico”, aggiunge Betty Siafaka, psicologa di Msf a Samos. “Tra aprile e agosto 2021, il 64 per cento dei nuovi pazienti che hanno raggiunto la nostra clinica ha presentato pensieri di suicidio e il 14 per cento era a rischio effettivo di suicidio. Speriamo di riuscire a lavorare ancora con loro”. Per Msf l’incertezza, il disprezzo per la vita umana e la totale mancanza di una protezione effettiva per i richiedenti asilo sollevano seri interrogativi a cui le autorità greche o europee non riescono a rispondere. Qual è il risultato di tutto questo? I primi autobus sono arrivati nel nuovo centro il 20 settembre mattina. I migranti sono stati perquisiti ed è stato dato loro un badge magnetico col quale potranno muoversi nel campo. “Adesso sono davvero in prigione”, sussurra Jasmina, 44 anni, scappata via dalla Siria e arrivata in Grecia insieme ai suoi due figli. La sua domanda d’asilo è stata respinta già due volte. “Quando ho fatto richiesta per trasferirmi sulla terraferma mi hanno chiesto perché ero in pericolo in Siria, ma poi mi hanno chiesto perché mi sentivo in pericolo anche in Turchia e io a questa domanda non ero preparata”. Ed è arrivato un altro rifiuto mentre la pratica si è di nuovo persa nella montagna di richieste. Il programma dell’Unione europea di “relocation” gestito dal governo greco ha portato in più di un anno al trasferimento in altri Paesi di circa quattromila persone, ma il numero delle richieste è di molto superiore e i tempi si allungano. Intanto l’Europa finanzia i centri come quello di Samos per tenere i migranti sempre più bloccati e nello stesso tempo sovvenziona i governi scaricando su di loro la responsabilità di tenere i migranti fuori dall’Europa: nel Mediterraneo centrale, davanti alle coste libiche, così come su questo lato dell’Egeo. La sera dell’inaugurazione del nuovo campo, nella piazza di Vathy diversi gruppi hanno organizzato in maniera spontanea una protesta e su uno striscione era scritto: “Questo centro rappresenta il fallimento delle politiche d’accoglienza dell’Europa”. “Sbagliatissimo: questo progetto è l’attuazione perfetta della politica europea sulle migrazioni, pensata e concretizzata con l’obiettivo di creare barriere”, commenta Simone, di Samos Volunteers. Barriere e muri. Il governo greco ha terminato lo scorso agosto la costruzione degli ultimi 40 chilometri di muro a Evros, al confine con la Turchia, con un sistema di protezione a tre livelli. “Le nostre frontiere rimarranno inviolabili”, ha detto il ministro greco Michalis Chrisochoidis, pronto a respingere tutti gli afghani che scappano dai talebani. “Dov’è il mio diritto inviolabile a non morire e non finire abbrutito in qualche centro di detenzione?”. Lo urla Ahmad, poi il tornello si chiude dietro le sue spalle. Stati Uniti. Benvenuti in Texas, Taliban State di Andrea Bajani La Repubblica, 10 ottobre 2021 I migranti frustati alla frontiera, le norme contro l’aborto, l’accesso al voto ostacolato. Con dieci nuove leggi lo Stato è diventato il posto più integralista d’America. Ogni decina di minuti un tizio attraversa il parcheggio della clinica in pantaloncini, t-shirt e mascherina (entrambe con il logo di Planned Parenthood) e quando arriva al cancello urla di lasciare libero il marciapiede. Falcia l’aria con le mani, scaccia le persone assiepate come fossero le cavallette dell’apocalisse. Da sopra la mascherina punta gli occhi contro la torma che, senza mascherina, beffardamente lo ignora. Le persone, al momento una trentina tra uomini e donne, scendono dal marciapiede, e appena il tizio si volta risalgono su. Ma non smettono di brandire i loro cartelli. “Babies are murdered here!”, c’è scritto su uno di questi, sollevato da una ragazzina che avrà a dir tanto nove anni. “Qui dentro ammazzano bambini!”. Canti, proteste e rosari - Planned Parenthood (genitorialità programmata) è la clinica più famosa d’America, il punto di riferimento per ogni donna sin dalla prima pubertà, il luogo dove ciascuna porta i primi dubbi su sessualità e contraccezione senza chiedere il permesso ai genitori. Ed è anche il posto dove, volendolo, si può interrompere una gravidanza. Da cui il drappello di persone che ogni giorno si riunisce davanti ai cancelli a manifestare il proprio dissenso. E a pregare, accompagnando con violenti canti di pace i dottori e le dottoresse che vanno al lavoro. Uomini e donne fanno avanti e indietro sul marciapiede sgranando un rosario. Due di loro, sulla strada mostrano alle macchine in transito un altro cartello, “Pray to end abortion”. Tutti circumnavigano l’edificio vetrato lentamente, senza fermarsi mai. L’addetto della clinica riattraversa il parcheggio, ricompare sulla soglia, stesso urlo di lasciare libero il passaggio, questa volta punta me che gli dico che non c’entro niente con loro. Ma sto parlando con una donna, cappello texano e rosario in mano, che mi sta dicendo: “Li ha visti i cortei contro Trump? Sono pieni di gay e lesbiche gonfi di rancore perché non possono riprodursi”. Il traffico dell’Interstate 45, che corre verso il golfo del Messico porta via come una specie di pudore le altre parole che mi dice. Quando il vigilante se ne va, la donna commenta: “L’ha visto il parcheggio vuoto? La nuova legge ha tagliato le gambe al loro cazzo di business!”. E infatti da qualche settimana, il Texas ha approvato il cosiddetto SB8, Senate Bill 8 (momentaneamente sospeso da un giudice federale), che di fatto rende illegale l’aborto nello Stato. Viene detto “Heartbeat bill”, perché sottilmente lo vieta a partire dal momento in cui è possibile intercettare il battito cardiaco del feto, cioè all’incirca a sei settimane dall’ultima mestruazione, quando molte non sanno ancora di essere incinte. L’America insorge, il presidente in testa, le associazioni per la tutela dei diritti civili organizzano manifestazioni, ma la Corte suprema non ha bloccato la legge. Perché con una sorta di diabolico cavillo giuridico, non è lo Stato a intervenire direttamente: la SB8 demanda ai cittadini, istiga alla delazione. Chiunque può denunciare chiunque favorisca l’aborto in Texas. Amici, parenti, autisti, taxisti, dottori, infermieri. Nessuno sfugge al Grande Fratello autogestito. La pena, 10 mila dollari ciascuno. Cowboy contro nativi - A poche ore di auto da qui, a Del Rio, la polizia di frontiera col Messico prende a frustate famiglie di disperati in fuga da Haiti, in un inquietante revival dei western “cowboy contro nativi”. In assenza di un muro reale, il governatore Greg Abbott ha ordinato di disporre centinaia di auto in una barriera di pneumatici e lamiera. In tanti sono già passati e si sono disposti a bivacco sotto il ponte dell’autostrada. Biden torna ancora una volta a condannare il Texas, è una specie di monito costante negli ultimi mesi. Dice che è “indegno”, che è inaccettabile il comportamento degli agenti del Border Patrol. Poi però ordina i rimpatri, e migliaia ritornano al via senza poter presentare domanda d’asilo, riportati in una Haiti devastata dai terremoti e dalla violenza, in un posto in cui i più non hanno né casa né legami. Un luogo da cui quasi tutti sono fuggiti anni fa, transitando per Guatemala, Cile, Honduras e Messico, per poi attraversare il Rio Grande in un tratto in cui l’acqua consente di guadare a piedi tenendo in braccio un bambino o quel poco di scorta che la fuga concede. Fino, per l’appunto, a trovarsi a un passo dagli Stati Uniti e poi di colpo, di nuovo, in mezzo all’Atlantico. Alcuni si salvano, nessuno sembra conoscere le ragioni per cui in pochi proseguono verso la salvezza e altri vengono rideportati alla vita da cui cercavano di scappare. Né passaporti né mascherine - È così che il Texas in poche settimane si guadagna sul campo i galloni di “Taliban State”, con dieci leggi varate alla fine di un’estate che solo ora allenta la morsa del caldo. Tra queste una legge elettorale che mette i bastoni tra le ruote alle modalità di voto tradizionalmente progressiste, quello per corrispondenza, il drive-thru antipandemico e il voto anticipato, il che è nei fatti una discriminazione di classe, tiene fuori chi non può permettersi di votare di martedì senza perdere il posto. A cui si aggiunge lo sdoganamento definitivo dell’open carry, il diritto di andarsene in giro con pistola o fucile alla mano dai 21 anni in avanti, senza bisogno di permessi o addestramento. E un discutibile, e per tutti un po’ opaco, provvedimento che vieta l’insegnamento nelle scuole della critical race theory, dibattito in realtà solo accademico, poi frainteso dai conservatori, che hanno così imposto il divieto di insegnare ciò che già non si insegnava. Il tutto mentre qui il Covid fa più vittime che altrove in America, il doppio rispetto alla California. E Abbott si applaude da solo mentre firma provvedimenti davanti alle telecamere dichiarando orgoglioso che il Texas è aperto al 100 per cento, che i texani devono essere liberi di andare dove gli pare, che “è fatto divieto a ogni esercizio pubblico e privato di richiedere passaporti vaccinali o qualsiasi altra informazione sul vaccino”. Questo dopo aver abolito prima dell’estate ogni provvedimento restrittivo, niente mascherina né all’aperto né al chiuso, tutti felici a tossire insieme al supermercato, e dall’altra, gli sms un po’ ingenui che riceviamo dalla contea di Harris: 100 dollari cash a chi accetta la prima dose. Risultato, duecento morti al giorno la media, e un contagio che prende No vax e vaccinati indistintamente. In fila davanti alla clinica - Intanto davanti alla clinica il drappello di militanti antiabortisti convince una coppia a salire su un bus parcheggiato di fronte. Ne esce un quarto d’ora più tardi e prende a piedi verso la macchina parcheggiata. Invitano a salire anche me, li invito a mettersi la mascherina. Mi mostrano un luogo angusto, stanzine ricavate nella luce sporca del bus e in fondo, in uno spazio più ampio, il lettino, il gel per l’ecografia e un monitor sulla parete. Nessuno che veda il proprio figlio, mi dicono, avrà il coraggio di ucciderlo. E poi una cesta di vimini, poco lontana, in cui sono piegate e riposte coperte di neonati donate dalle famiglie. Se chi va via ne prende una con sé, mi spiegano, è segno che non lo farà. Se non la prende, attraversa la strada e finisce nelle mani degli altri. Nel parcheggio di Planned Parenthood ora le auto sono poche più di prima. È il vuoto che segue gli assembramenti del 31 agosto sera, quando centinaia di donne si sono affollate all’ingresso delle cliniche texane per interrompere gravidanze visto che dal giorno dopo sarebbe stato illegale. Fino allo scoccare della mezzanotte i dottori hanno operato legalmente, lasciando fuori donne in lacrime arrivate oltre il termine stabilito dalla nuova legge. Sapevano che dal giorno dopo ne avrebbero mandate via molte di più, che avrebbero mostrato loro il battito cardiaco del feto come una sconfitta, non della vita ma della libertà di scegliere cosa fare del proprio corpo. E sapendo anche, come tutti, che nulla le avrebbe fermate e le fermerà, che l’aborto tenteranno di procurarselo da sole, senza saperlo fare, rischiando la pelle con metodi appresi navigando in rete. O che passeranno la frontiera - quelle che avranno il denaro e il tempo per farlo - verso il New Mexico, l’Oklahoma, il Nevada, il Wyoming, dove l’aborto è ancora legale. In direzione contraria, cioè, a quella di chi vuole entrare in Texas e si trova un muro di auto, quando va bene, o un poliziotto a cavallo che gli urla contro e lo frusta come fosse bestiame. Germania. La cartellina della vergogna di Alfonso Raimo agenziadire.com, 10 ottobre 2021 La giustizia a scoppio ritardato, è davvero giustizia o una specie di esibizione? La cartellina azzurra con cui il 102enne Josef Schutz si copre il volto nell’aula del tribunale di Brandenburg-Havel ha fatto il giro del mondo. Aggrappato a un deambulatore, il vecchio si trascina al banco mentre l’avvocato gli regge la cartellina sul volto. Quindi assiste all’udienza coperto da quel cartoncino azzurro. Non vedremo i suoi occhi, non capiremo come si possa vivere una lunga vita col rimorso per la morte di 3.518 prigionieri, uccisi tra il 1942 e il 1945 nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Schutz era il guardiano dell’inferno. Il suo e’ un processo per complicita’ nei crimini del nazismo, processi intentati senza la prova del coinvolgimento in uno specifico assassinio. Ma quanti tedeschi sono stati complici della tragedia nazista? Il primo processo di questo tipo e’ stato intentato a John Demjanjuk, condannato il 12 maggio del 2011 a 5 anni. Aveva 91 anni. E’ stato messo in liberta’, ed e’ morto l’anno successivo in una casa di cura. L’anno scorso tocco’ a Bruno Dey, guardiano delle SS nel lager di Stutthof, condannato a 3 anni per 5230 morti. Aveva 93 anni, la pena e’ stata sospesa. Anche lui, in tribunale si copri’ il volto con la cartellina azzurra. Irmgard Furchner nonostante i 96 anni, lo scorso 30 settembre ha scelto un’altra strada, quella della fuga (in taxi, verso Amburgo) per sottrarsi al processo che la vedeva rinviata a giudizio dalla procura di Itzehoe, nello Schleswig-Holstein. E’ accusata di complicità nello sterminio di 11.412 persone e per il tentato omicidio di altre 18. Novantenni processati per crimini compiuti quando loro stessi erano giovanissimi, spesso minorenni. E’ giusto farlo? Si’, sono crimini atroci, imprescrivibili. Ma ci si puo’ domandare perche’ la giustizia tedesca abbia atteso tanto per chiedere conto del loro operato. Perche’ si manifesti ora, nella forma di un atto di accusa a un vecchio, e si esprima in una prevedibile condanna a una persona che non potra’ espiare la sua pena. Perche’ si sia consentito che per lunghi decenni quei crimini fossero nascosti nella vita di un popolo. E’ lecito supporre che dopo i processi di Norimberga, imposti dai vincitori del conflitto ai gerarchi nazisti, la giustizia tedesca non abbia brillato per efficienza, quando si e’ trattato di fare i conti con le colpe dei tanti che affiancavano i carnefici, prestando un’opera silenziosa, non meno raccapricciante. “Dal 1949, furono condotti dalla Repubblica Federale Tedesca più di 900 procedimenti contro imputati dell’era nazionalsocialista. Questi procedimenti sono stati spesso criticati perché la maggior parte degli imputati sono stati assolti o hanno ricevuto sentenze leggere. Inoltre, migliaia di funzionari e presunti criminali di guerra nazisti non hanno mai affrontato un processo e molti sono tornati alle professioni che avevano esercitato sotto il Terzo Reich. Ad esempio, la maggioranza dei giudici nella Germania occidentale fu costituita da ex ufficiali nazisti per diversi decenni dopo la guerra”, scrive l’enciclopedia dell’Olocausto. Molti degli accusati di oggi, prendevano parte ai processi in qualita’ di testimoni. Dunque questa giustizia a scoppio ritardato, e’ davvero giustizia o una specie di esibizione? Tra Terzo Reich e Repubblica federale c’e’ stata continuita’, come hanno accertato sentenze della giustizia italiana, alla ricerca - vana - di risarcimenti per i parenti delle vittime dei nazisti. Forse lo Stato tedesco non ha mai fatto fino in fondo i conti col suo passato atroce. La vicenda della dattilografa novantaseienne e’ a suo modo la prova dell’atteggiamento usato dalla giustizia tedesca verso i connazionali coinvolti nei crimini del Reich. Irmgard Furchner era infatti la segretaria dell’ufficiale nazista Paul Werner Hoppe, comandante delle SS-Totenkopfverbände presso il campo di sterminio di Auschwitz e dal 1943 al 1945 responsabile del campo di sterminio di Stutthoff, vicino a Danzica. Hoppe venne catturato dagli inglesi nel 1946 ma riuscì a rientrare in Germania dove lavorò come giardiniere fino al 1953. Arrestato, sconto’ una condanna a nove anni fra il 1956 e il 1966 per poi morire da libero cittadino nel 1974. Nove anni di carcere per decine di migliaia di morti. Questo e’ un processo farsa Il cambio di linea a Berlino - che probabilmente ispira lo zelo giudiziario di questi mesi - e’ molto recente ed e’ ispirato da due prese di posizione politiche. Nel 2013 Angela Merkel dice: “Abbiamo una responsabilità permanente per i crimini del nazionalsocialismo, per le vittime della seconda guerra mondiale e, anzitutto, anche per l’Olocausto”. Il 15 gennaio 2020, la Cancelliera per la prima volta nel suo lungo ‘regno’ entra ad Auschwitz. Il 26 agosto del 2019 Frank-Walter Steinmeier, primo presidente della Repubblica a farlo, chiede perdono per i crimini tedeschi. Dice di provare “vergogna”. Accade settantaquattro anni dopo la fine della guerra. Oggi sfilano alla sbarra cadenti ex nazisti, nei loro ultimi mesi di vita. Vecchissimi, decrepiti, sono i sopravvissuti del nazismo minore, di popolo, variamente collaborazionisti, diversamente complici, di volta in volta come guardie, custodi, dattilografi. Pochi superstiti di un esercito fatto da migliaia e migliaia di persone. A loro modo ispirano pieta’. Si coprono il viso con la cartellina azzurra, per la vergogna o il pudore di farsi ricordare per quell’altra vita, quella che hanno condotto cercando di dimenticare. Ma di fronte alla giustizia non ci si nasconde, nemmeno a 102 anni. Mostrino il proprio pentimento, se c’e’. “E’ accaduto, dunque puo’ accadere di nuovo”, scriveva Primo Levi. Se la giustizia diventa una farsa, la reazione degli uomini e’ tutto quello che vale. Libia. Caos a Tripoli, sei migranti uccisi a colpi di arma da fuoco ad Al Mabani di Giansandro Merli Il Manifesto, 10 ottobre 2021 Mediterraneo. In seguito ai rastrellamenti di massa triplicato il numero di persone recluse. In centinaia riescono a fuggire dai centri di prigionia. Proteste davanti a una sede dell’Unchr: “Dovete evacuarci”. La situazione dei migranti nella capitale libica è sempre più drammatica. Giovedì almeno in sei sono stati uccisi e in 24 colpiti da colpi di arma da fuoco nel centro di detenzione di Al Mabani. Lo ha confermato ieri l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) che in un comunicato parla di “migranti feriti, stesi a terra in pozze di sangue”. I numeri potrebbero essere più alti, perché la situazione è caotica e tensioni ci sono anche in altri luoghi di prigionia e nelle strade. In rete circolano video che mostrano centinaia di persone fuggire da Al Mabani e riversarsi nelle strade di Tripoli. Si tratta di una conseguenza diretta degli arresti di massa realizzati la settimana scorsa nella capitale libica, in particolare nel quartiere di Gergaresh a forte concentrazione di migranti. Sarebbero almeno 5mila le persone rastrellate da case e alloggi di fortuna. Fonti locali parlano di 250 bambini e 600 donne. Anche in questo caso i numeri potrebbero essere molto più alti. L’arrivo di migliaia di persone nei già sovraffollati centri di prigionia ha scatenato il caos. Medici senza frontiere (Msf) è tornata a visitarne tre nella capitale, dopo aver sospeso per 90 giorni ogni intervento a causa dei livelli di violenza insostenibili. Ha denunciato che in cinque giorni i reclusi sono triplicati e che sono state imprigionate intere famiglie. “Le persone sono state picchiate sulle gambe e hanno riportato fratture. Mi hanno colpito in testa con una pistola e ho gravi ferite”, ha raccontato un rifugiato agli operatori Msf. Quello di Al Mabani è un centro governativo aperto a gennaio scorso. A febbraio vi erano rinchiuse 300 persone. L’altro ieri, secondo l’Oim, ce n’erano 3.440, tra cui 356 donne e 144 bambini. Nella prigione non c’è acqua potabile, le celle non hanno finestre. Ad aprile le guardie hanno sparato contro i migranti uccidendo un uomo e ferendo due ragazzi di 17 e 18 anni. Quando Msf ha portato assistenza medica dopo i rastrellamenti ha trovato celle talmente sovraffollate da impedire alle persone di stendersi o sedersi, migranti che non mangiavano da tre giorni, uomini in stato di incoscienza e bisognosi di cure urgenti. Il personale della Ong ha anche assistito a un tentativo di fuga fermato con una “violenza inaudita” e ha visto “uomini picchiati in modo indiscriminato e poi stipati con forza in alcuni veicoli verso una destinazione sconosciuta”. La feroce quotidianità dei centri di prigionia sostenuti e finanziati dall’Italia e dall’Europa si è ulteriormente degradata nel corso di quest’anno a causa dell’impennata delle detenzioni. Oltre ai rastrellamenti di Gergaresh, le cause sono l’aumento delle intercettazioni in mare operate dalla sedicente “guardia costiera libica” (11.891 in tutto il 2020; 25.823 fino al 2 ottobre 2021) e lo stop imposto dal governo di Tripoli ai già limitati voli di evacuazione dell’Unchr e ai rimpatri volontari dell’Oim, a cui i migranti sono spesso costretti pur di lasciare il paese. In queste ore centinaia di persone sono accampate davanti al Community day Centre dell’Unhcr di Tripoli. Protestano, chiedono protezione, cure mediche e soprattutto l’evacuazione dall’inferno libico. Ma il centro ha chiuso i battenti per diverse ore. Contattato dal Manifesto uno dei rifugiati che ha cercato riparo lì di fronte ha risposto: “Vi ricordo che questa situazione è l’effetto dei soldi che il vostro paese e altri Stati membri danno alle autorità libiche per rinchiuderci arbitrariamente in condizioni disumane, estorcerci soldi e sottoporci a violenze di ogni genere”. Tripoli esegue, ma le responsabilità sono a Roma e Bruxelles. Altro che “nuova Libia”. Ecuador. I cartelli della droga fanno strage in carcere: una sfida alla sovranità e ai diritti umani Diego Battistessa Il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2021 È successo ancora. In Ecuador abbiamo assistito il 28 settembre ad una strage efferata di persone detenute nel carcere del litorale a Guayaquil (chiamata anche Centro de Privación de Libertad Número 1): un’ecatombe senza precedenti che ha fatto impallidire gli altri orribili massacri del 22 luglio e del 23 febbraio scorso. Sarebbero 118 i morti e 79 i feriti (si stanno ancora identificando alcuni cadaveri), prodotto di uno scontro per il controllo del narcotraffico tra gruppi criminali afferenti a due cartelli messicani: da un lato il Cartello di Sinaloa e dall’altro il cartello Jalisco Nueva Generación. Anche se alcune versioni parlano della presenza e influenza di bande brasiliane che avrebbero sparigliato la scacchiera criminale della zona. Quel che è certo è che ci sono voluti 5 giorni perché la polizia e l’esercito potessero entrare nel carcere e mettere fine all’ammutinamento più sanguinoso del 2021. Una volta fatto breccia nel penitenziario, la scena è stata agghiacciante. Sangue, cadaveri dappertutto, segni di violenza e tortura, 5 detenuti decapitati e decine di feriti. Nel frattempo, fuori dalla struttura si accalcavano, tra urla e pianti, i familiari dei detenuti, cercando di avere notizie dei propri cari. L’operazione militare di “riconquista” del penitenziario segue all’azione del neoeletto presidente dell’Ecuador, Guillermo Lasso, che venerdì 1 ottobre ha dichiarato lo stato di eccezione nel Paese: misura che avrà una durata di 60 giorni e che mira a salvaguardare l’integrità fisica dei detenuti. La popolazione carceraria in Ecuador si attesta intorno alle 40.000 persone, di cui 8.542 nel carcere diventato lo scenario di questo bagno di sangue. I problemi del settore penitenziario in Ecuador vengono da lontano e vanno da un tasso di sovraffollamento nazionale del 55% (il 62% nel carcere del litorale), alla sproporzione del rapporto tra guardie carcerarie e detenuti (primicias.ec parla di 1 guardia ogni 27 detenuti), passando per corruzione dilagante e un deficit enorme di controllo reale delle strutture: come dimostrato dai continui ammutinamenti e omicidi. Più di 50 omicidi nel 2019, 103 nel 2020 e 237 le persone assassinate nelle carceri ecuadoregne in questi primi 10 mesi del 2021. Le bande ecuadoregne che si sono disputate il controllo del carcere sono i Choneros (vincolati al Cartello di Sinaloa) e i Tiguerones, i Lobos e i Lagartos che invece sono legati al cartello Jalisco Nueva Generación. La miccia dello scontro sarebbe stata il controllo del padiglione 5 del carcere, dove uno scontro iniziale avrebbe prodotto alcuni morti e scatenato poi una rappresaglia trasformatasi in una vera e propria battaglia campale. Il carcere di Guayaquil (seconda città più importante dell’Ecuador) è un punto cruciale per il traffico della cocaina, giacché da questo enorme porto si articolano le rotte che hanno trasformato l’Ecuador nella “autostrada della cocaina” verso gli Usa e l’Europa. Ad oggi infatti la produzione di cocaina colombiana viene deviata per un 35% verso il vicino Ecuador e da lì mobilizzata e gestita dai cartelli messicani per la commercializzazione ad altre latitudini. A riprova di ciò, il dato fornito dalle autorità ecuadoregne, che nel 2020, nonostante la pandemia, hanno sequestrato ben 128,4 tonnellate di droga nel Paese (l’operazione più grande degli ultimi 10 anni). Questo episodio, che come abbiamo visto è tutt’altro che isolato, costituisce una vera e propria sfida alla sovranità territoriale e statale del Paese sudamericano, che non sembra avere gli strumenti per opporsi ad un attacco frontale dei cartelli della droga messicani. Anche l’Onu si è nuovamente pronunciata rispetto alla situazione (lo aveva già fatto a febbraio scorso insieme alla Commissione Interamericana dei Diritti Umani - Cidh) chiedendo un’indagine rapida ed imparziale, ma soprattutto una gestione di crisi come questa che rispetti gli standard internazionali in materia di diritti umani. Da quanto successo nel 2021 si può infatti dire che lo Stato ecuadoregno non è in grado di garantire l’integrità fisica di un detenuto, che spesso si trova in carcere non per una condanna, ma solo in attesa di giudizio. Afghanistan. “Avevamo già perso, nessun presidente ebbe il coraggio di ammetterlo” di Viviana Mazza Corriere della Sera, 10 ottobre 2021 Il giornalista del Washington Post Craig Whitlock e il dossier che fa discutere in America. “Siamo stati là vent’anni e non abbiamo capito il Paese”. “Tutto è cominciato con una soffiata”, racconta il reporter del Washington Post Craig Whitlock. “Nell’estate del 2016, avevo sentito che un’agenzia federale poco nota, chiamata Special Inspector General for Afghanistan, aveva intervistato Michael Flynn, generale in pensione diventato famoso perché faceva campagna elettorale per Donald Trump. Il governo federale lo aveva intervistato sulla guerra perché era stato a capo dell’intelligence militare della Nato e degli Stati Uniti in Afghanistan durante l’amministrazione Obama. Era noto come un generale molto franco, non aveva paura di criticare nessuno. Pensavo che sarebbe stato facile ottenere una copia delle sue dichiarazioni, invece fu necessario fare causa per averle. Flynn sosteneva che il governo non era stato onesto perché dichiarava che stavamo vincendo, mentre in realtà stavamo perdendo”. Flynn non era una fonte del tutto obiettiva, ma il governo non intervistò solo lui: furono sentite quasi mille persone che avevano avuto un ruolo nella guerra a partire dal 2001. Dopo tre anni di cause, il Washington Post è riuscito a ottenere quelle testimonianze. Il verdetto: George W. Bush, Barack Obama e Donald Trump sapevano “che non c’erano prospettive realistiche di vittoria in Afghanistan, ma nessuno di loro ha voluto ammettere la sconfitta”. Whitlock tre volte finalista al Premio Pulitzer, lo racconta in un libro-caso, The Afghanistan Papers. A Secret History of the War, uscito negli Stati Uniti il 31 agosto e che in Italia viene pubblicato da Newton Compton il 14 ottobre, con il titolo: Dossier Afghanistan. La storia della guerra attraverso i documenti top secret. L’opinione pubblica americana ha prestato attenzione all’inchiesta? “Era il dicembre 2019 quando pubblicammo i documenti, nel bel mezzo dell’ impeachment di Trump. Temevo che pochi avrebbero prestato attenzione e invece fu il nostro progetto più letto dell’anno. La reazione fu di rabbia. Bush, Obama e Trump non solo non avevano ammesso la sconfitta, ma avevano continuato a promettere la vittoria. Leggendo i documenti era evidente il contrasto tra ciò che veniva detto in pubblico e ciò che era noto in privato, cioè che la guerra non si poteva più vincere”. Perché nessuno ha voluto ammetterlo? “Quella in Afghanistan era vista come una guerra giusta dopo l’11 settembre. Nessun politico o generale era pronto ad ammettere che stavano lentamente perdendo la guerra che gli americani avevano appoggiato con forza e che credevano di aver vinto. Nel 2001-2002, i talebani erano stati rimossi dal potere, Al Qaeda era sparita dall’Afghanistan. Ma col tempo la guerra ha cominciato a prendere la direzione sbagliata. Nessun presidente americano voleva confessarlo”. Anche Biden voleva evitarlo, ma le circostanze lo hanno reso evidente. Ora l’America come vive il fallimento? “È difficile, ci sono accuse reciproche, si dibatte se sia colpa di Biden, Bush, Obama o Trump. Ma tutto questo ha fatto capire all’America di non essere invincibile. C’è una grande riluttanza ora a intervenire militarmente nel mondo, la gente è focalizzata sui problemi in patria. Penso che gli americani vorranno una spiegazione molto più chiara prima di mandare truppe all’estero in futuro: però è anche vero che tuttora in Siria e Iraq ci sono nostri soldati e non abbiamo definito chiaramente né gli obiettivi né la durata. Non so se abbiamo davvero appreso la lezione. Per i veterani - i quasi 800.000 che hanno servito in questa guerra - la situazione è particolarmente dura da accettare: pensavano di servire una nobile causa e di aiutare il governo e il popolo afghano. Adesso i talebani si sono ripresi l’intero Paese e i veterani si chiedono quale sia stato il significato del proprio sacrificio e dei compagni uccisi. Ci vorrà molto tempo per capire ciò che è successo e perché. Penso che il dibattito sia appena iniziato”. Un grande problema è stato l’alleanza con i leader afghani. C’erano alternative? “L’America e la Nato hanno collaborato con personaggi problematici: volevano rafforzare un governo che la popolazione non amava. Gli afghani ritenevano che i loro leader avessero avuto tutte le opportunità e le risorse per risollevare il Paese ma erano troppo corrotti o incompetenti per farlo. A molti afghani non piacciono i talebani ma disprezzavano il proprio governo. E nelle zone rurali, se costretti a scegliere, in molti casi preferiscono i talebani. Moltissimi afghani vogliono semplicemente che il conflitto abbia fine. Il problema è che gli Stati Uniti hanno cercato di dividere il Paese tra buoni e cattivi e, come si vede dai documenti nel mio libro, avevano una visione semplicistica: i talebani erano i cattivi, l’alleanza del Nord e i Signori della guerra i buoni. Ma il popolo afghano non la vedeva così: gli Stati Uniti si sono alleati con personaggi corrotti o molto brutali. Stiamo stati là vent’anni e non abbiamo capito il Paese”. Il generale Petraeus ha criticato il ritiro di Biden. Lui ha capito l’Afghanistan meglio di altri? “Un grosso problema dell’approccio americano, incluso quello di Petraeus, è che gli Stati Uniti hanno creduto che ci fosse una soluzione militare. Pensavano di poter eliminare o sconfiggere del tutto i talebani, ma non è possibile perché fanno parte del tessuto della società afghana. Si sarebbe potuto tentare, nel 2001 o anche nel 2004, quando erano deboli, di includerli nel sistema politico, in modo da porre fine all’insurrezione, ma solo negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno capito che si doveva negoziare. Era troppo tardi, i talebani erano ormai troppo forti e il governo troppo debole. L’Afghanistan è cambiato dal 2001, in particolare Kabul. Ma per tutto questo tempo il conflitto è continuato. Gli Stati Uniti hanno provato a trasformare e ricostruire una società in guerra e non è possibile”.