Nelle carceri tra sovraffollamento, suicidi e nessun decreto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 novembre 2021 Disagi in diversi istituti: si chiedono interventi per ridurre la popolazione penitenziaria. Quest’estate, a differenza delle rivolte del 2020, le detenute delle Vallette e i reclusi di Oristano hanno intrapreso battaglie nonviolente. Aumentano i suicidi in carcere, cresce il sovraffollamento come denunciato dal Garante nazionale e dagli ultimi dati sviscerati dall’associazione Antigone. Gli stessi sindacati di polizia penitenziaria, come la Uilpa pol. pen., chiedono un decreto carcere affinché si inseriscano misure deflattive e aumento dell’organico. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, indubbiamente sensibile alla questione penitenziaria e che, senza alcuna ipocrisia, non nasconde le criticità nelle quali riversano le carceri, ha messo in campo una commissione che dovrebbe elaborare delle proposte, ma la storia recente insegna che le soluzioni a lungo termine rischiano di non concretizzarsi a causa dell’instabilità politica e il populismo penale che caratterizza il nostro tempo. Da più parti, principalmente dalla popolazione penitenziaria (detenuti e detenenti) proviene un’unica parola d’ordine: “Qui e ora”. Non in un futuro incerto quindi, ma adesso. Lo “sciopero del carrello” a Oristano e alle Vallette di Torino - Nel corso di quest’anno, a differenza delle rivolte del 2020, i detenuti hanno intrapreso una battaglia nonviolenta, chiedendo che vengano messo in campo quei piccoli, ma efficaci accorgimenti, che permettano di alleggerire la popolazione penitenziaria. Le prime ad attivarsi attraverso lo “sciopero del carrello” e altre forme di disobbedienza, sono state le ragazze della sezione Femminile del carcere delle Vallette di Torino. Lo hanno fatto con determinazione e, promettono, che non si arrenderanno nonostante il silenzio e disinteresse. Le detenute di Torino scrivono a Il Dubbio: “Visto che non ci aspettiamo regali da nessuno, né li vogliamo, continuiamo ad insistere con tutte le nostre possibilità e risorse, perché venga attivata la Libertà Anticipata e Speciale (75 giorni) a tutta la popolazione detenuta. Beneficio che si ottiene con la buona condotta”. Quello che chiedono, e quest’estate hanno trovato riscontro con i reclusi del carcere di Oristano che - grazie al coinvolgimento veicolato dall’Associazione Yairaiha Onlus - per primi hanno aderito in agosto allo sciopero del carrello partito proprio da loro, è mettere al centro dell’attenzione un solo obiettivo: riportare il carcere a uno stato di diritto. Grazie alla grande sensibilità e attivismo della garante locale di Torino Monica Gallo, le detenute delle Vallette hanno evidenziato diverse problematiche nazionali: dal sovraffollamento, chiedendo anche una riforma della legge sui giorni di libertà anticipata affinché da 45 diventino 75 (retroattivi dal 2015), alle opportunità di studio e lavorative, ridotte anche in conseguenza del Covid. Le detenute stesse, inoltre, hanno lamentano l’assenza di mediatori culturali e la mancanza totale di un’attenzione alle questioni di genere, troppo spesso ignorate. Servirebbe un decreto per ridurre la popolazione delle carceri - Tutte problematiche che ritornano con prepotenza al livello nazionale. Finito l’effetto pandemia che, grazie soprattutto al lavoro della magistratura di sorveglianza, il sovraffollamento era cominciato a scendere, ora si rischia di ritornare ai numeri allarmanti. Tutto questo, nonostante sia stato prorogato il decreto “ristori” per quanto riguarda il tema di licenze premio, permessi premio e detenzione domiciliare. Evidentemente non bastano, ma servirebbe un decreto ad hoc. Una terapia d’urto che disinneschi il malessere che affligge sia gli operati penitenziari che detenuti e detenute. Dai dati di Antigone emerge che i detenuti sono 54.000 - Vale la pena esporre gli ultimi dati. Secondo Antigone, tornano ad essere oltre 54.000 i detenuti presenti nelle carceri italiane, una cifra raramente toccata dall’inizio della pandemia e che segna un dato preoccupante rispetto ad un possibile ritorno di situazioni di sovraffollamento difficilmente gestibile. Più precisamente, al 31 ottobre, le persone recluse erano 54.307 (di queste 2.283 sono donne e 17.315 gli stranieri), per un tasso di affollamento ufficiale del 106,8%, conteggiando i circa 50.000 posti a cui, tuttavia, vanno tolti i circa 3.000 conteggiati ma non disponibili. In numeri assoluti la crescita dalla fine del mese scorso è di 377 unità, una crescita dello 0,7%, dell’1,2% negli ultimi tre mesi. Ma, sempre negli ultimi 3 mesi, questa crescita è stata del 5,5% in Umbria, del 3,8% in Emilia-Romagna e del 3,2% in Abruzzo, Calabria e Sardegna. Le regioni più affollate oggi sono il Friuli-Venezia Giulia (135,4%), la Puglia (129,5%) e la Lombardia (127%). Gli istituti più affollati sono Brescia “Canton Mombello” (197,9%), Grosseto (193,3%) e Varese (167,9%). In rialzo anche il numero di contagi di Covid-19. Al primo novembre erano 79 i detenuti positivi, 109 gli agenti penitenziari e 6 gli operatori amministrativi. L’ultimo suicidio il 2 novembre a Bollate - Di pari passo crescono le morti per “cause naturali” e suicidi. Dall’inizio dell’anno parliamo di un totale di 111 morti, tra i quali 48 suicidi. L’ultimo suicidio è stato reso noto da Riccardo Arena, conduttore del noto programma Radio Carcere, rubrica di Radio Radicale. Parliamo di Gaetano Conti, 40 anni, che si è ucciso il 2 novembre scorso nel carcere modello di Bollate. L’uomo, che si era da poco costituito per scontare la sua pena, si trovava, insieme a un altro detenuto, rinchiuso in una cella per effettuare la quarantena e, da quanto ha appreso Riccardo Arena, pare che si sia impiccato con un cappio rudimentale all’interno del bagno. “Va anche precisato che siamo venuti a conoscenza di questo ennesimo suicidio, solo grazie alla lettera che ci ha inviato Angelo ristretto appunto nel carcere di Bollate”, ha sottolineato il conduttore di Radio Carcere. Il 3 novembre, sempre nel carcere di Bollate è morta una detenuta di 70 anni, con fine pena 2026, per “cause naturali”. Lo scorso anno furono 62, con un tasso altissimo di suicidi per persone detenute. Quest’anno, purtroppo, sembra seguire lo stesso andamento. La lettera delle detenute della sezione femminile delle Vallette di Torino Le detenute della sezione femminile delle Vallette di Torino a marzo scorso fecero un appello alle autorità per chiedere la reintegrazione della liberazione anticipata speciale di 75 giorni estesa a tutta la popolazione detenuta, compreso il 4bis. Ci scrivono le detenute della sezione femminile delle Vallette di Torino. A marzo scorso fecero un appello alle autorità, sottolineando che erano ben consce dell’inattuabilità dell’indulto e amnistia a causa delle diverse visioni politiche, ma certe che l’unica strada percorribile fosse la reintegrazione della liberazione anticipata speciale di 75 giorni estesa a tutta la popolazione detenuta, compreso il 4bis. Quest’estate hanno intrapreso lo sciopero del carrello, coinvolgendo anche altri detenuti di diverse carceri, in particolar modo quello di Oristano. Ora le detenute ci scrivono, ricordando che, nonostante il silenzio, loro ci sono sempre. Siamo le ragazze di Torino (Sez. Femminile), nonostante il silenzio intorno alle carceri, noi ci siamo sempre: detenute, ma pronte ed attive! Ci terremo a ringraziarvi moltissimo per il vostro lavoro attento e costante sulle problematiche che, da nord a sud, isole comprese, affliggono i penitenziari. Sia per chi occupa le celle, ma anche per coloro che tentano di lavorarvi all’interno. Abbiamo letto di altri morti di suicidio o per “abbandono” delle istituzioni preposte e ne siamo sconcertate. Così come ci sconcerta il disinteresse dei più a queste tematiche. Ma visto che non ci aspettiamo regali da nessuno, né li vogliamo, continuiamo ad insistere con tutte le nostre possibilità e risorse (Il Dubbio è una di queste) perché venga attivata la Libertà Anticipata e Speciale (75 giorni) a tutta la popolazione detenuta. Beneficio che si ottiene con la buona condotta. Con questa nostra lettera vorremmo chiedervi di far giungere la nostra solidarietà ai reclusi del carcere di Oristano, che per primi hanno aderito in agosto allo sciopero del carrello partito proprio da questa nostra sezione. Non vogliamo che restino inascoltate le nostre voci, ci vorrebbe un’iniziativa comune, non violenta e supportata da giornali e/o associazioni per far tornare l’attenzione sul “problema carcere” e che alle parole rispondano fatti, concreti e tempestivi. Questo è un problema che riguarda le persone, il continuo rimandare non è degno di uno stato civile. “Il carcere sia l’extrema ratio”: le richieste dei Garanti per il sistema penitenziario del futuro redattoresociale.it, 9 novembre 2021 Inviato alla commissione ministeriale presieduta da Marco Ruotolo il contributo della Conferenza dei Garanti territoriali per la riforma e l’innovazione del sistema penitenziario e dell’esecuzione penale”. “Non si potrà tornare al passato, come se la pandemia fosse una nuvola passeggera”. “Il sistema penitenziario del futuro non potrà tornare a essere quello del passato, come se la pandemia fosse una nuvola passeggera”. È quanto si legge nel “Contributo della Conferenza dei Garanti territoriali per la riforma e l’innovazione del sistema penitenziario e dell’esecuzione penale”, indirizzato al presidente della Commissione l’innovazione del sistema penitenziario, Marco Ruotolo, recentemente istituita con decreto della ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Il documento è stato discusso e approvato dalla Conferenza rappresentativa dei Garanti delle persone private della libertà nominati dalle regioni, dalle province e dai comuni italiani, durante l’assemblea svoltasi a Roma venerdì scorso, nel corso della quale il Garante del Lazio, Stefano Anastasìa, è stato riconfermato portavoce della Conferenza stessa. “Con la costituzione della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, la Ministra della giustizia Marta Cartabia ha dato un nuovo impulso alle aspettative di riforma che l’intero settore dell’esecuzione penale nutre da tempo e che - dopo la stagione di speranze degli Stati generali della esecuzione penale promossi dal Ministro Orlando - sono state in parte deluse dalla mini-riforma del 2018, poi contestate da un indirizzo politico carcero-centrico e infine frustrate dalla emergenza pandemica - affermano i Garanti nel documento -. L’impresa, dunque, non è facile e deve fare fronte a tare storiche del nostro sistema penale e penitenziario, rinnovate e rese più evidenti dalla pandemia. Questo significa, innanzitutto, che il sistema penitenziario del futuro non potrà tornare a essere quello del passato, come se la pandemia fosse una nuvola passeggera, anche se la prima cosa da fare è sottoporre a un’attenta verifica le disposizioni del regolamento del 2000 e della legge del 2018 ancora inattuate, insieme con le indicazioni operative della Commissione Palma della passata legislatura”. “La pandemia - continuano i Garanti - ci ha insegnato che il penitenziario non può vivere in una condizione di perenne emergenza, con una capienza costantemente insufficiente alla domanda di incarcerazione. In queste condizioni, anche le minime misure di profilassi sanitaria, quelle che bisognerebbe assicurare anche al di fuori dello stato di emergenza, non possono essere garantite adeguatamente. Né la soluzione può trovarsi nell’ampliamento della capacità detentiva degli istituti penitenziari, visto che esso richiede una enorme quantità di risorse finanziarie e umane, non ha tempi di realizzazione rapidi e, come le vicende degli ultimi trent’anni dimostrano, finisce solo per inseguire la domanda di incarcerazione: negli ultimi venticinque anni la capienza degli istituti penitenziari, infatti, è aumentata di almeno quattordicimila unità, ma la popolazione detenuta è andata sempre e costantemente oltre. D’altro canto, proprio la pandemia ha messo in luce, più di quanto non fosse già a conoscenza degli operatori, la vulnerabilità sociale di buona parte delle detenute e dei detenuti, ospitati in carcere per minime condotte devianti e prive di riferimenti esterni per alternative al carcere. Il carcere come “extrema ratio” - I Garanti territoriali indicano, ancora una volta, il carcere come extrema ratio, con la valorizzazione di nuove forme di composizione dei conflitti tra autori e vittime di reato e attraverso nuove politiche di accoglienza delle persone detenute. Per i Garanti territoriali deve essere superato definitivamente il meccanismo delle preclusioni assolute nell’accesso ai benefici penitenziari, così come indicato dalla Corte europea dei diritti umani e dalla Corte costituzionale anche per gli autori dei reati più gravi. Inoltre, si legge nel documento, le videochiamate devono diventare strumento ordinario di comunicazione, accanto e non in sostituzione dei colloqui o delle telefonate, così come internet deve diventare accessibile sia per le attività didattiche, formative e lavorative che per l’accesso alla cultura e all’informazione. Per i Garanti, è necessario “dare efficace attuazione - si legge nel documento - sia agli investimenti per la individuazione di case famiglia, affinché nessun bambino sia più ospite dei penitenziari italiani, e per progetti di trattamento e reinserimento sociale di sex-offenders e maltrattanti”. Tra gli altri temi affrontati: la corrispondenza in forma elettronica; le coperture di spese degli affidamenti al minimo ribasso del servizio del vitto, come recentemente rilevato dalla Corte dei conti per il Lazio; il potenziamento delle forme partecipative dei detenuti, nella programmazione delle attività, così come nella gestione delle biblioteche e nel controllo delle forniture per il vitto e delle graduatorie per il lavoro; il passaggio dalle parole ai fatti in tema di diritto all’affettività e alla sessualità in carcere; il potenziamento dei servizi di telemedicina e l’adozione di una cartella clinica elettronica per garantire un’adeguata continuità assistenziale alle persone detenute e il potenziamento dei servizi di salute mentale, con una propria presenza multidisciplinare in tutti gli istituti di pena. Infine, i Garanti territoriali sostengono che nel piano dei ristori dovuti a seguito della pandemia, non possa mancare il risarcimento delle condizioni di detenzione particolarmente gravose subite durante l’emergenza, attraverso forme di liberazione anticipata speciale. Rieducare in carcere è possibile: grazie a scrittura, cucina e arte politicamentecorretto.com, 9 novembre 2021 I concorsi di Artisti Dentro Onlus. Sarà presentata il prossimo 19 novembre l’Antologia 2021 di Artisti Dentro Onlus, il volume, edito da Il Prato Edizioni, che racchiude le opere dei finalisti di tre concorsi - Scrittori Dentro (narrativa, poesia e testi rap), Cuochi dentro (ricette rigorosamente replicabili in cella) e Pittori Dentro (creazione di una cartolina viaggiante, la mail-art) - che si rivolgono unicamente ai detenuti con sentenza definitiva nelle carceri di tutto il territorio nazionale. “Credo - precisa Sibyl von der Schulenburg, presidente dell’Associazione Artisti Dentro Onlus - nel potere terapeutico della scrittura e dell’arte in generale e so per esperienza diretta che riesce a smuovere energie interne, anche in soggetti poco inclini all’introspezione. Abbiamo organizzato il primo concorso nel 2014 e, fino ad oggi, abbiamo registrato oltre mille partecipazioni, con il coinvolgimento di un centinaio di istituti di pena. La scelta di questa modalità non è casuale: ci ha permesso, infatti, di raggiungere persone di ogni parte d’Italia, anche durante il periodo dell’emergenza Coronavirus. Le giurie di tutte le edizioni sono sempre di altissimo livello e quelle del 2021 non fanno eccezione: tra i presidenti di giuria, abbiamo, infatti, Lella Costa per la scrittura, Victoire Gouloubi per la cucina e Domenico Piraina per l’arte visiva. Davide Shorty è, infine, giudice monocratico per i testi rap”. La creatività come strumento per ritrovare i propri spazi mentali, anche in carcere. “L’articolo 27 della Costituzione - aggiunge Sibyl von der Schulenburg - riconosce ai detenuti il diritto alla rieducazione, anche se in Italia questo diritto non è sempre tutelato tanto che il tasso di recidiva si aggira intorno al 70-75% (quello norvegese è del 20%). L’unica eccezione è il carcere di Bollate, una struttura modello che vanta un tasso di recidiva pari al 17%. Un detenuto mentalmente più sano sarà anche più facilmente recuperabile, con un vantaggio per lui e soprattutto per l’intera collettività. Con i concorsi proviamo a dar voce ai detenuti e diamo loro la possibilità di aprirsi al mondo, non solo metaforicamente affinché possano, in qualche modo, partecipare alla vita del mondo libero con un duplice scambio: loro si aprono al mondo e il mondo si apre a loro”. Scrittori Dentro 2021: i dettagli del concorso letterario. Coloro che desiderano partecipare possono presentare racconti brevi, poesie o testi rap. Il concorso non si esaurisce con la presentazione dei lavori ma, per i finalisti, prosegue con un effettivo lavoro di editing affidato ad un professionista esterno. Da quest’anno, inoltre, è stato scelto anche un editor interno: Cesare Battisti. Tra i partecipanti ci sono noti nomi della cronaca, condannati per delitti di mafia, assassini di ogni tipo e calibro, sex offender e ogni altro tipo di criminale. La maggior parte dei detenuti si firma con nome e cognome, solo pochissimi scelgono, invece, uno pseudonimo. “Molti - precisa Sibyl von der Schulenburg - non hanno paura di firmarsi, anzi, sono orgogliosi di poter dimostrare di saper fare anche qualcosa di buono e sono fieri di essere pubblicati nella nostra antologia. Non dimentichiamo, infatti, che la pubblicazione e la possibilità di avere qualcuno che legga le proprie opere sono la massima soddisfazione per chi scrive”. Cuochi Dentro 2021: i dettagli del concorso culinario. I partecipanti devono realizzare ricette culinarie rigorosamente eseguibili con i mezzi a disposizione nelle celle dei penitenziari italiani. È uno dei concorsi più apprezzati e mostra la creatività di molti detenuti che, all’interno degli istituti di pena, cucinano sui fornelli da campeggio trasformati - grazie all’ingegno - in veri e propri forni. Scontro sulla giustizia, le due linee del M5S sbattono sul Pd di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 9 novembre 2021 Alla camera. Il Movimento torna ad attaccare l’ex sindaco di Lodi, condannato e poi assolto e al centro di una campagna la quale Di Maio aveva fatto autocritica. I dem reagiscono duramente, ma lo scontro è soprattutto all’interno del gruppo grillino. Il commento arriva in diretta dall’aula di Montecitorio. Lo posta il deputato Pd Filippo Sensi su twitter, avendo in testa l’abbraccio sempre più stretto tra il suo partito e il M5S: “Sto sentendo in aula un intervento di un cinque stelle sulla giustizia che mi fa letteralmente orrore. Non ho altre parole se non due: pensarci bene. Ma bene bene”. Il cinque stelle è l’ex sottosegretario alla giustizia Vittorio Ferraresi che è stato con Bonafede in via Arenula tanto nel Conte uno quanto nel Conte due (ora, con Cartabia, il Movimento lo ha sostituito con la sottosegretaria Macina). Ferraresi, che pure annuncia il voto favorevole al decreto in discussione che si occupa di giustizia e referendum, ci tiene a fare alcune precisazioni. Non gli piace che il governo si sia adattato a una decisione della Corte di giustizia Ue per la quale i tabulati telefonici vanno chiesti da un giudice e non solo da un pm. Non gli piace che, nel respingere alcuni emendamenti, la ministra Cartabia abbia fatto sapere che sono in arrivo regole per limitare l’uso del trojan. Ma soprattutto Ferraresi vuole dire la sua sul caso, vecchio di diversi mesi, dell’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti. Si ricorderà che l’amministratore del Pd era stato condannato in primo grado per turbativa d’asta, e all’epoca la Lega e i 5 Stelle fecero a gara nel comiziargli contro e mimare le manette, ma è stato poi assolto in appello. Nel dibattito di ieri mattina in aula alla camera è la deputata di Italia viva Silvia Fregolent a recuperare la memoria di quella vicenda, per imbastire un paragone con il suo leader Matteo Renzi le cui cronache giudiziaria sono oggi squadernate su giornali e social media. Ferraresi punta l’indice: è vero che Uggetti è stato assolto, ma “sicuramente aveva commesso attività, che, politicamente, contrastavano con i principi di trasparenza e di onore con cui si devono portare avanti le funzioni pubbliche”. Uggetti, insomma, assolto ma comunque colpevole, “politicamente”. E questo perché ha riconosciuto lui stesso di aver fatto degli errori, ma non ha ammesso alcun reato. A Ferraresi la replica arriva immediatamente dal deputato Pd Ceccanti che è anche il relatore sul decreto legge in questione: “È stato Di Maio a definire la campagna orchestrata da alcune forze politiche contro il sindaco Uggetti “attacchi profondamente sbagliati e condotti con modalità grottesche e disdicevoli”. Io sono d’accordo con Di Maio”. A seguire arrivano critiche simili dalla capogruppo al senato Malpezzi, dell’ex capogruppo Marcucci e della responsabile giustizia del Pd Rossomando, oltre che da Fregolent di Iv (ma va detto che quando Uggetti fu spettacolarmente arrestato, nel 2016, né Renzi né il Pd mostrarono particolare solidarietà). Del caso Uggetti si tornerà a parlare entro fine mese, quando la corte d’appello di Milano depositerà le motivazioni dell’assoluzione. Di certo, nell’attaccarlo, Ferraresi non ignorava l’autocritica di Di Maio. Ma Ferraresi, via Bonafede, è più vicino all’ex presidente Conte che al ministro degli esteri. Ieri in aula ha dato voce ai non pochi grillini che le scuse di Di Maio non hanno mai digerito. Perché gli scontri del M5S con il Pd sono sempre, anche, scontri interni L’Italia è un paese garantista: non c’è bisogno di altri bavagli di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2021 Il Cdm ha approvato un decreto legislativo, sulla scia di una direttiva Ue del 2016, per rafforzare la presunzione di innocenza. Ce n’era proprio bisogno? Forse no. Siamo un Paese fra i più garantisti al mondo: giusto processo con relativa presunzione di innocenza consacrati e garantiti fin dalla Carta costituzionale; tre gradi e oltre di giudizio che nessun altro sistema accusatorio si sogna; agli imputati il diritto di non rispondere e se rispondono quello di mentire impunemente; la prescrizione (alias improcedibilità) che cancella tutto consentendo a fior di “galantuomini” di sfangarla. Ogni attività pubblica deve assoggettarsi a un rigoroso controllo sociale circa la sua correttezza, coerenza e affidabilità. Più di tutte l’attività giudiziaria, perché si esercita “in nome del popolo italiano”. Può accadere che alcuni pm “sbandino” nel fornire all’opinione pubblica elementi di valutazione del proprio lavoro. Checché se ne dica, succede di rado: anche i magistrati infatti praticano il self restraint. Ma non è un giusto rimedio alle disfunzioni mettere un bavaglio (o quasi) a magistrati e giornalisti, costringendoli a dosare ogni parola col bilancino del farmacista, con inevitabili ricadute negative sul loro lavoro. Vladimiro Zagrebelsky ha parlato di “riforma irragionevole nella sua assolutezza e nella pretesa di limitare le forme di comunicazione… che va oltre la necessità di rispettare la presunzione di innocenza, investendo e limitando tutta la informazione sui procedimenti penali”. Di più. Se i pm non parlano o possono parlare solo in casi eccezionali indossando una specie di camicia di forza, per giornali, radio e tv l’alternativa sarà chiudere i servizi di cronaca o trovare altre fonti, facendo suonare campane anche non trasparenti o interessate. Mi viene in mente l’arresto di un tal Carnelutti (omonimo del grande giurista), emigrato dal Lodigiano a Torino per farsi operaio Fiat e così raccogliere dati per i “diari di fabbrica” delle Brigate rosse. Ero stato educato alla riservatezza “sabauda” che non prevedeva rapporti coi giornalisti (proverbiale il “correte correte, tanto non mi prenderete mai”, rivolto ai giornalisti dal procuratore Caccia uscendo dalla casa di Sossi appena “rilasciato” dalle Br). Perciò, avvicinato da un cronista che mi chiedeva dell’arresto, rifiutai ogni informazione. Lui, seccato, se ne andò annunziandomi che avrebbe comunque pubblicato quel che aveva. Il giorno dopo ecco in bella evidenza un comunicato di sedicenti parenti del Carnelutti che mi accusavano di sequestro e torture! Fu da allora che Caccia e io decidemmo di tenere regolari conferenze stampa, perché in tema di indagini di terrorismo non suonasse - stonando - soltanto una campana. La logica necessità di più campane è ancor più evidente nel caso (esaminato da Mittone-Gianaria nel libro L’avvocato necessario) che l’indagato sia “molto più interessato a vedere soddisfatti i propri interessi che a vedere riconosciuti i propri diritti”, tanto da richiedere al legale non solo un impegno “tecnico” ma anche un aiuto per arginare ciò che può colpire la sua immagine nell’opinione pubblica. Una “committenza forte”, che contiene anche una forte richiesta di “aiuto” nei rapporti con l’informazione. Dunque, si dica pure “basta con la spettacolarizzazione dei processi; gli indagati sono presunti innocenti e non debbono essere bollati come colpevoli”. Ma è sbagliato non fare i conti anche con la realtà concreta: evitando forzature e strumentalizzazioni (magari per ansia di propaganda politica); nonché squilibri che ancora una volta si risolverebbero in privilegi per chi può e conta; andando ben oltre i confini del classico e logoro “ce lo chiede l’Europa”. Reati fatti apposta? Condoniamoli! di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2021 Nella selva di proposte di modifica della norma penale, quella della Lega vuole rendere lecite violazioni di legge dolose. Di questi tempi molti invocano scudi rispetto alla responsabilità penale (e per la conseguente responsabilità civile discendente da reato). Si è operato e si chiede di operare per limitare la responsabilità di medici, altri operatori sanitari, giornalisti, professionisti vari e amministratori locali e non solo. Chissà perché non si pensa di limitare la responsabilità penale (che è piena) dei magistrati (che pure svolgono funzioni almeno altrettanto delicate), anzi, con un referendum, si vuole estendere la loro responsabilità civile consentendo l’azione diretta (oggi in sede civile si deve agire contro lo Stato, che è poi obbligato a rivalersi sul magistrato, mentre in sede penale è ovviamente possibile la costituzione di parte civile contro il magistrato imputato). Stanno così fiorendo disegni di legge volti a limitare la responsabilità dei sindaci e non solo. Il disegno di legge “modifica all’articolo 54 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, in materia di responsabilità penale degli amministratori locali”, di iniziativa del senatore Vincenzo Santangelo e di altri dieci appartenenti al Gruppo del Movimento 5 Stelle, affronta il problema limitatamente alla responsabilità per colpa lieve dei sindaci nell’ipotesi di non aver impedito un evento che si ha l’obbligo giuridico di evitare (l’art. 40 comma 2 codice penale prevede infatti che non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di evitare equivale a cagionarlo). Il disegno di legge “Disposizioni in materia di responsabilità penale, amministrativa e contabile dei sindaci” presentato dal senatore Dario Parrini e da altri 14 senatori iscritti al Gruppo del Partito democratico, oltre che sulla responsabilità omissiva si propone di intervenire sul reato di abuso d’ufficio e sulla responsabilità erariale e contabile con specifico riferimento ai sindaci. Il disegno di legge avente a oggetto “Modifica dell’articolo 323 del codice penale in materia di reato di abuso d’ufficio”, di iniziativa dei senatori Andrea Ostellari e da altri 52 senatori appartenenti al Gruppo Lega-Salvini premier - Partito Sardo d’Azione, si propone di cambiare la portata del reato di abuso d’ufficio. Il testo attuale dell’art. 323 codice penale (in vigore dal 17.7.2020 dopo l’ennesima modifica) è il seguente: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”. Avevo già riferito in un articolo, pubblicato su questo giornale il 5 marzo 2021, come dopo le modifiche apportate dal 17 luglio 2020, il presidente della Sesta Sezione penale della Corte suprema di cassazione Giorgio Fidelbo, in una (allora) recente intervista aveva affermato che, alla luce di tale restrizione, tanto vale abolire il reato di abuso d’ufficio. Il disegno di legge presentato dai senatori del Gruppo Pd propone di inserire nell’articolo 323 del codice penale, dopo il primo comma, il seguente: “Quando il fatto di cui al primo comma è compiuto dal sindaco, la violazione si intende riferita a specifiche regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge relative a competenze espressamente attribuite al sindaco e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Dal punto di vista tecnico non riesco a capire la reiterazione del richiamo alle regole di condotte ecc. quando bastava scrivere che se il fatto è compiuto dal sindaco si deve trattare di competenze espressamente attribuite al sindaco. Si prevede poi una modifica nello stesso senso dell’art. 40 comma 2 del codice penale. Il disegno di iniziativa dei senatori del Gruppo Lega ecc. propone il seguente nuovo testo: “Art. 323 - (Abuso di ufficio) - Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, omettendo di astenersi in presenza dell’interesse proprio o di un prossimo congiunto, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”. Ovviamente le scelte legislative sono di competenza dei Parlamentari e non intendo entrare ora nel merito delle valutazioni politiche sottese. Vorrei però che un partito politico che ha condotto la campagna anche per il referendum sulla responsabilità dei magistrati con lo slogan “Con la Lega chi sbaglia paga” riflettesse sulla propria coerenza. Quando ero bambino, un giorno mentre tiravo sassi contro il muro fui ammonito che avrei potuto rompere un vetro. Imperterrito continuai e ruppi un vetro. Mi arrivò un ceffone accompagnato dalla frase: “Così impari” (funzione rieducativa della pena). Mi giustificai dicendo che non lo avevo fatto apposta e me ne arrivò un altro con la frase: “Ci mancherebbe”, così capii la differenza fra dolo (farlo apposta) e colpa (quando l’evento non è voluto). Abolendo, come vorrebbe il progetto leghista, la punibilità per la “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità […] intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto” significa rendere penalmente lecite violazioni di legge dolose, cioè fatte apposta (anche per i magistrati). Diventerebbero così leciti comportamenti come per esempio (spigolando da sentenze): il demansionamento di un dipendente comunale attuato con intento discriminatorio o ritorsivo (Cass. 22871/2019); il rilascio di un permesso in sanatoria in contrasto con lo strumento urbanistico di zona e per opere non sanabili nonché l’omessa revoca del permesso di costruire e la mancata emissione dell’ordinanza demolitoria (Cass. 4140/2017); la lesione delle prerogative parlamentari, nell’ipotesi di acquisizione agli atti di un procedimento penale di tabulati, relativi a comunicazioni intercorse su utenze riferibili a deputati o senatori, senza la preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza di questi ultimi, ovvero nell’ipotesi di elaborazione di tali dati, illegittimamente acquisiti, da parte del magistrato o di un suo collaboratore (Cass. 49538/2016). La Lega dovrebbe allora cambiare il suo slogan in questo modo: “Con la Lega chi sbaglia paga, a meno che non lo abbia fatto apposta” almeno salverebbero la coerenza anche se non il buon senso. I mille avvocati di strada che restituiscono dignità ai senza dimora (e agli ultimi) di Maria Novella De Luca La Repubblica, 9 novembre 2021 Sono lo studio legale più grande d’Italia, tutti “soci” volontari, con il fatturato più povero: zero euro. Assistono persone precipitare nella povertà dopo licenziamenti, sfratti, divorzi, costrette oggi a vivere sui marciapiedi, nei dormitori, in auto. Per tutti la sfida più grande: ottenere un indirizzo di residenza per non essere più invisibili. Sono lo studio legale più grande d’Italia (mille “soci” tra civilisti e penalisti) e anche il più povero: fatturato euro zero. Del resto i loro clienti, nella scala sociale, sono gli ultimi degli ultimi, così privi di tutto da non avere nemmeno un indirizzo: sono clochard, senza tetto, senza fissa dimora. Si chiamano “avvocati di strada”, sono riuniti in un’associazione fondata nel 2001 da Antonio Mumolo, avvocato giuslavorista che nelle fredde notti di Bologna, da volontario portava cibo e coperte a chi viveva sui marciapiedi o sotto rifugi di cartone. “E molti di loro, conoscendo il mio mestiere, mi facevano domande legali, raccontandomi di pensioni perdute, di eredità negate, di figli mai più incontrati per mancanza di un indirizzo di residenza, di fallimenti economici per crediti inesigibili, di assistenza sanitaria negata. Capii che quel mondo di invisibili finiva per strada non soltanto per tossicodipendenza, alcolismo o per problemi psichiatrici, ma soprattutto per diritti negati”. Insieme a un solo altro collega, Mumolo fonda la onlus “Avvocato di strada”, oggi presente in 56 città, con mille legali che offrono assistenza (gratuita) ai senza dimora, trentottomila persone seguite dal 2001 ad oggi, tremila pratiche aperte ogni anno, centinaia di cause vinte, ma soprattutto centinaia di ex drop-out tornati a vivere dal mondo di sotto al mondo di sopra. Con il motto non “esistono cause perse”, “Avvocato di strada” ha dedicato ai sessantamila clochard italiani addirittura un festival nell’ottobre scorso, per raccontare questo estremo segmento di povertà. Spiega Antonio Mumolo: “Il senzatetto che dorme sui cartoni è solo la forma più evidente di questa emarginazione, figlia delle ripetute crisi economiche che hanno devastato l’Italia. A differenza di vent’anni fa quando i senza dimora erano persone con storie di alcol o malattie mentali, oggi sono cittadini, all’ottanta per cento italiani, che da un giorno all’altro perdono il bene fondamentale: la casa. Ci vuole poco: un licenziamento, le rate di mutuo non pagate, lo sfratto, una pensione troppo misera, un divorzio e ci si ritrova a dormire in auto, nei dormitori pubblici, negli edifici occupati, in fila alla mensa, alle docce, alle distribuzioni di vestiti usati. Bussando da una porta all’altra alla ricerca di lavoro”. La storia di Francesca, da commessa in un supermercato ad una vita senza più figlie né una casa Come accade a F. che chiameremo Francesca, nelle tante storie che “Avvocato di strada”, pubblica sul suo bilancio sociale ogni anno. Francesca è italiana, ha 40 anni, è mamma di due bimbe di 6 e 8 anni. Emblema e paradigma di come si possa passare da una situazione dignitosa alla povertà in un tempo brevissimo, fulmineo. Un capitombolo nel baratro. “F. era commessa in un supermercato, conviveva con il suo compagno e padre delle bambine, finché i due non decidono di separarsi e l’uomo, abbandonata la casa, smette di prendersi carico delle spese. F. non ce la fa, il suo stipendio è troppo basso per pagare un affitto e gestire, da sola, due figlie. Arriva lo sfratto e le bimbe vengono affidate ai nonni paterni. Costretta a dormire in macchina, Francesca si rivolge ad “Avvocato di strada” perché è inverno, i soldi stanno finendo e pagare la benzina per arrivare al lavoro diventa impossibile”. F. si ammala di broncopolmonite, viene aggredita nella notte, la macchina si guasta irreparabilmente. Sul lavoro le assenze diventano troppe e Francesca viene licenziata. “Dopo aver messo in contatto Francesca con i servizi sociali della città - ricorda Agostina, avvocata di strada di Milano - siamo riusciti a farle ottenere la residenza fittizia, grazie alla quale ha potuto cercare un nuovo lavoro e un alloggio”. Piano piano Francesca riemerge dal buio e ricostruisce un rapporto con le figlie. Con il sogno, oggi, di riaverle con sé. Per chi nella vita ha sempre avuto un indirizzo e un nome sul citofono, la parola residenza evoca soltanto un fastidio burocratico da espletare quando, magari, si cambia casa o città. Invece no: la residenza è un diritto fondamentale che determina lo spartiacque tra l’esistenza e la non esistenza. Tra l’essere cittadini o clandestini. Essere invisibili oggi è non poter fornire un indirizzo, dunque ottenere una carta d’identità, quindi un lavoro e l’assistenza sanitaria. Gli avvocati di strada ricostruiscono i fili spezzati di queste vite, cuciono una tela che riannoda affetti, patrimoni, dignità. Portano in tribunale comuni e datori di lavoro, enti previdenziali e familiari disonesti. “I comuni - dice Mumolo - spesso violano l’obbligo di assegnare per legge ai senza dimora una di quelle vie fittizie inventate proprio per dare una residenza a chi non ce l’ha”. Come via Modesta Valenti a Roma, clochard che morì di stenti, o via della Speranza, o via dei Senzatetto in altre città. Si sentono rinascita e resistenza nelle storie degli avvocati di strada. C’è M, italiano, che viveva in un dormitorio dopo una dolorosa separazione. Grazie all’assistenza legale riesce a definire il divorzio, trova alloggio in co-housing. “La cosa più bella - è stata sentirmi di nuovo chiamare papà”. La storia di Stella, da clandestina a una vita alla luce del sole - C’è S. la chiameremo Stella, ucraina, mamma di un bellissimo bambino con cui viveva, però, quasi nascosta. “Nel periodo in cui è venuta al nostro sportello viveva in una situazione totalmente precaria fuori Genova. Non aveva documenti, non riusciva ad ottenere un permesso di soggiorno ed era costretta a vivere nella clandestinità, nella paura, senza assistenza sanitaria, senza potersi rivolgere ai servizi sociali, né poter iscrivere suo figlio a scuola” Stella era invisibile. Gli avvocati strada rintracciano in Grecia il padre del bambino, ottengono i suoi documenti, regolarizzano la posizione di Stella. “Oggi a lei ed al suo piccolo è stata restituita la dignità e il riconoscimento che per troppo tempo erano stati loro ingiustamente sottratti”. E Stella e il suo bambino non hanno più paura di camminare alla luce del sole. La storia di Giuseppe, non aveva più una residenza ora l’ha ottenuta - C’è G, lo chiameremo Giuseppe, napoletano. “Arrivò ad Avvocato di strada dopo girato tutti servizi della città senza essere riuscito a far rispettare un suo diritto essenziale, quello alla residenza anagrafica. G. che un tempo aveva una casa e un lavoro, aveva camminato tanto, tra uffici freddi e pieni di inutile burocrazia, trovando tutte le porte chiuse. Quando arrivò da noi era veramente esausto e sfiduciato. Aveva perso la speranza e la sua voglia di credere in una società giusta e civile. In breve tempo, grazie al preziosissimo aiuto di una nostra volontaria, G. ottiene la residenza nella via fittizia. Oggi ha nuovamente diritto di voto, accesso alle cure mediche. È tornato a godere di tutti quei diritti fondamentali di cui gode un cittadino italiano residente sul territorio”. Antonio Mumolo cita una frase “cult” del libro di John Grisham “L’avvocato di strada”: “Prima di tutto sono un essere umano. Poi un avvocato. È possibile essere entrambe le cose”. Via D’Amelio: anomalie e zone d’ombra, ma fu strage mafiosa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 novembre 2021 Nelle motivazioni della sentenza emessa lo scorso 5 ottobre dalla Cassazione viene confermata sostanzialmente la decisione della Corte d’appello del Borsellino quater. Nell’inchiesta sulla strage di Via D’Amelio ci sono stati “abnormi inquinamenti delle prove che hanno condotto a plurime condanne di innocenti”. Non solo: per quanto riguarda l’esecuzione della strage dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta, “i dati probatori relativi alle “zone d’ombra” possano al più condurre a ipotizzare la presenza di altri soggetti o di gruppi di potere (co)-interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino, ma ciò non esclude il riconoscimento della paternità mafiosa”. Sono alcuni passaggi delle motivazioni, appena depositate, della sentenza di Cassazione che ha confermato la condanna di appello del Borsellino quater. Ricordiamo che la sentenza della Cassazione c’è stata il 5 ottobre scorso e dunque sono definitive le condanne all’ergastolo per i capomafia Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e quelle per calunnia per Calogero Pulci (dieci anni) e Francesco Andriotta che ha ottenuto un piccolo sconto di pena (da 10 anni a 9 anni e 6 mesi) per la prescrizione di due calunnie ai danni del falso pentito Vincenzo Scarantino, mentre da una terza accusa di calunnia, sempre ai danni di Scarantino, è stato assolto. Le motivazioni della Cassazione confermano sostanzialmente la decisione della Corte d’appello del Borsellino quater. Gli avvocati dei mafiosi hanno portato avanti anche la tesi sulla cosiddetta trattativa Stato Mafia. Tesi non accolta dalla Corte (e confermato dalla Cassazione), sottolineando che l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, “inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria”, rispondeva a più finalità di Cosa Nostra, una finalità di vendetta che chiama in causa la vita professionale del magistrato, una finalità preventiva, perseguita da Cosa Nostra in relazione “alla possibilità che il giudice Borsellino divenisse capo della Procura Antimafia, e una “finalità di destabilizzazione”, volta a “esercitare una pressione sulla compagine politica e governativa” e “a mettere in ginocchio lo Stato”. L’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, commentando con l’Adnkronos le motivazioni della Cassazione sul processo Borsellino quater, ha sottolineato che “in questo scenario bisogna anche collocare l’abnorme inquinamento probatorio di cui parla anche la Cassazione perché l’uccisione e il depistaggio sono legati”. E aggiunge: “C’è una finalità preventiva, non bisognava, secondo noi, sviluppare il versante delle indagini “mafia e appalti”. Perché i livelli delle cointeressenze erano alti”. Quali? “Le cointeressenze di Cosa nostra - ha spiegato l’avvocato Trizzino - con importanti imprenditori e società del Nord, i cui sviluppi si sarebbero potuto meglio vedere solo attraverso una giusta valorizzazione del dossier mafia e appalti. Cosa che Borsellino non ha potuto fare”. In effetti, le motivazioni del Borsellino Quater di secondo grado sono chiare. Borsellino fu ucciso “per vendetta e cautela preventiva”. La vendetta è relativa all’esito del maxiprocesso, mentre la “cautela preventiva” è relativa alle sue indagini, in particolare quelle su mafia-appalti. Quest’ultima ipotesi - scrive la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza di secondo grado - “doveva, peraltro, essere anche collegata alla circostanza riferita dal collaboratore Antonino Giuffrè sui “sondaggi” con “personaggi importanti” effettuati da Cosa Nostra prima di decidere sull’eliminazione dei giudici Falcone e Borsellino oltre che sui sospetti per i quali lo stesso Borsellino, il giorno prima dell’attentato, aveva confidato alla moglie “che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse”“. Calabria. Consiglio regionale, illegittima la nomina del Garante dei detenuti Corriere della Calabria, 9 novembre 2021 Accolto il ricorso dell’ex consigliere nazionale dei radicali Quintieri. Decaduto l’incarico di Siviglia. Alla fine l’ha spuntata il radicale Quintieri. Il Tribunale amministrativo regionale della Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, con sentenza n. 850/2021 del 22 settembre 2021, depositata l’8 novembre 2021, ha accolto il ricorso proposto dall’ex consigliere nazionale dei Radicali Italiani Emilio Enzo Quintieri, difeso dall’avvocato Fabio Spinelli del Foro di Paola e, per l’effetto, ha annullato il decreto del Presidente del consiglio regionale della Calabria n. 5 del 30 luglio 2019 con il quale l’ex presidente del Consiglio Nicola Irto (Partito democratico), sostituendosi al Consiglio regionale, aveva nominato l’avvocato Agostino Siviglia del Foro di Reggio Calabria, Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Calabria. I giudici amministrativi (Caterina Criscenti, presidente estensore, Agata Gabriella Caudullo, referendario e Andrea De Col, referendario), hanno accolto tutte le censure sollevate dalla difesa di Quintieri, respingendo sia quelle dell’ex presidente della Regione Calabria Mario Oliverio, difeso dall’avvocato Angela Marafioti dell’avvocatura regionale che quelle del Garante regionale Agostino Siviglia, difeso dall’avvocato Francesco Fabbricatore, perché prive di fondamento in fatto e in diritto. La ricostruzione - “L’ex Consigliere Nazionale dei Radicali Italiani, esperto di diritto penitenziario e promotore ed estensore della Legge Regionale n. 1 del 2018 istitutiva del Garante Regionale - è scritto in una nota - tra le altre cose, aveva lamentato l’illegittimità della nomina per incompetenza relativa, eccesso di potere, violazione e falsa applicazione della Legge Regionale istitutiva, dello Statuto della Regione e del Regolamento Interno del Consiglio regionale ed altre Leggi dello Stato poiché il Garante Regionale avrebbe dovuto essere eletto dal Consiglio Regionale e non nominato dal Presidente in quanto non era previsto in capo allo stesso alcun potere sostitutivo. Tale motivo secondo il Tar è fondato poiché per il Garante la legge istitutiva ha previsto all’art. 3, non già la designazione o la nomina, ma l’elezione da parte del Consiglio regionale a maggioranza qualificata, consentendo, altresì, per il caso di mancato raggiungimento del quorum, che l’elezione possa aver luogo a maggioranza semplice”. “Questo dato normativo - è detto ancora - per il Collegio giudicante è particolarmente significativo. Per un verso, infatti, la previsione del meccanismo elettorale si raccorda in maniera sintonica con la natura di figura di garanzia, indipendente e autonoma, non sottoposta ad alcuna forma di controllo gerarchico o funzionale, ma pur sempre espressione di un’ampia maggioranza dei componenti del Consiglio Regionale, natura che, invece, mal si concilierebbe con la nomina diretta da parte di un organo monocratico. Per altro verso, la norma regionale si fa previamente carico di una plausibile difficoltà nella convergenza del consenso allargato su un candidato, prevedendo, alla terza votazione, l’elezione a maggioranza semplice. Questi due aspetti militano e confluiscono entrambi a sorreggere la tesi prospettata in ricorso”. Il potere sostitutivo che con l’atto impugnato il presidente ha inteso esercitare è, infatti, correlato sul piano logico e del diritto positivo, ai casi di nomina, che vengono deliberate secondo le ordinarie regole degli organi collegiali, e non già ai casi di elezione per i quali la legge può prevedere modalità peculiari e, come nel caso di specie, quorum anche rafforzati. Tali previsioni della normativa regionale calabrese sono in totale sintonia con le linee guida del 2 novembre 2016 dettate dal Garante Nazionale per l’istituzione dei Garanti Regionali, laddove al punto 1. sulle “modalità di elezione” è specificato che “La prima garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia del Garante Regionale proviene dalle modalità della sua istituzione. In primo luogo, la designazione deve provenire dall’elezione da parte del Consiglio Regionale, giacché un atto di nomina di fonte governativa renderebbe l’organismo inevitabilmente legato, se non altro nella forma, al potere politico della Giunta in carica. In secondo luogo, il sistema di elezione deve assicurare che la nomina sia condivisa il più possibile ma, allo stesso tempo, deve evitare che si creino poteri di veto in capo ai partiti o alle forze politiche rappresentate nel Consiglio. In tale prospettiva, si può prevedere l’elezione a maggioranza qualificata per un numero limitato di consultazioni e il successivo eventuale passaggio alla maggioranza assoluta per altrettanto numero limitato di consultazioni, a cui può seguire il voto a maggioranza semplice.”. Della sussistenza di una precisa volontà legislativa di attribuire e mantenere nel caso del Garante per i detenuti la sua natura elettiva, si trae, inoltre, indiretta ma chiara conferma dalle differenti previsioni delle leggi regionali istitutive di altri Garanti o figure affini”. Le motivazioni - Per i Giudici del Tar di Reggio Calabria non solo il potere sostitutivo non è contemplato dalla legge istitutiva del Garante che prevede e regolamenta in maniera articolata la sua elezione, ma neppure può farsi applicazione della Legge Regionale n. 39 del 1995 visto che la figura del Garante non rientra nel suo ambito applicativo dal punto di vista soggettivo. È accaduto, infatti, che la proposta, sebbene più volte iscritta all’ordine del giorno dei lavori dell’Assemblea, non sia mai stata posta in votazione perché sempre preliminarmente rinviata. Nessuna votazione è stata, infatti, svolta sui nominativi dei soggetti che avevano presentato le loro candidature. Non vi era, dunque, spazio, per questa residuale ragione, per un intervento sostitutivo del Presidente cui spetta, tra gli altri, il compito di assicurare il buon funzionamento del Consiglio e provvedere al regolare andamento dei suoi lavori. Risulta, infatti, quantomeno singolare che per più sedute si sia autorizzata una riformulazione dell’ordine del giorno, consentendo che la votazione per il Garante non avesse mai luogo, e poi si sia intervenuti provvedendo direttamente alla nomina di uno fra i diciassette aspiranti. In definitiva, il potere sostitutivo del Presidente del Consiglio Regionale, non poteva essere esercitato. Quintieri: “Riconosciuta la fondatezza dei rilievi eccepiti” - “Mi dispiace che l’annullamento di questa nomina illegittima non sia stato tempestivo come avevo richiesto - ha commentato l’ex consigliere nazionale dei Radicali Italiani Emilio Enzo Quintieri - ma sono comunque soddisfatto dell’esito del giudizio perché riconosce totalmente la fondatezza delle censure da me prospettate nel ricorso. Mi auguro che, adesso, il nuovo Consiglio Regionale della Calabria, appena la sentenza diverrà definitiva, provveda al più presto alla elezione del Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione, questa volta nel rispetto di quanto stabilito dalla Legge e dalla stessa sentenza del Giudice Amministrativo”. Torino. Muore in carcere a 55 anni, scontava l’ergastolo La Stampa, 9 novembre 2021 Vito Marino, 55 anni di Paceco (Tp), figlio del boss Girolamo, detto “Mommo u nano”, ucciso del 1986, è morto ieri nel carcere di Torino dove stava scontando una pena all’ergastolo. Marino era detenuto in quanto accusato della strage avvenuta a Brescia nel 2006, dove vennero uccisi Angelo Cottarelli, la moglie e il figlio 17enne. Per la strage è stato indagato pure il cugino di Marino, Salvatore. I processi sono stati caratterizzati da condanne e annullamenti con rinvio. Per Vito Marino la pena era diventata definitiva. Per il cugino è in corso il quarto processo d’appello. La Procura di Torino ha disposto l’autopsia. Il corpo è stato rinvenuto dagli agenti, stamani, all’interno della sua cella. Caltagirone (Ct). Morto in carcere, compagno di cella lo ha soffocato nel sonno La Sicilia, 9 novembre 2021 Le indagini della Procura hanno portato a questa verità a distanza di mesi. Non è stata resa l’identità dell’indagato né il movente. Era sembrata una morte dovuta a cause naturali quella di un detenuto del carcere di Caltagirone il 31 gennaio scorso, ma accertamenti medico legali hanno permesso di accertare che invece Giuseppe Calcagno, 46 anni, era stato assassinato. E per la Procura ad ucciderlo sarebbe stato il suo allora compagno di cella, che lo avrebbe strangolato nel sonno. L’indagato per l’omicidio, che era ai domiciliari, è stato arrestato dai carabinieri. Nei suoi confronti militari dell’Arma hanno eseguito un’ordinanza del Gip emessa su richiesta del procuratore di Caltagirone, Giuseppe Verzera, e del sostituto Samuela Maria Lo Martire. La vicenda è stata resa nota, con un comunicato, dalla Procura di Caltagirone che parla di omicidio di quello che all’inizio era stato considerato un decesso per cause naturali. “La minuziosa attività investigativa svolta - scrive la Procura nel comunicato senza indicare né l’identità né l’età dell’indagato e neppure il movente - corroborata da inequivocabili accertamenti medico-legali, permetteva di fare luce sulle cause del decesso del detenuto, inizialmente apparsa quale morte naturale”. “Al contrario, le indagini eseguite,” spiega la Procura di Caltagirone, “accertavano che “G.T., mediante strangolamento, attingendo il collo del Calcagno, mentre questi dormiva, cagionava la morte di Calcagno”, suo compagno di cella. L’indagato, che era detenuto per un altro reato, è stato poi scarcerato e posto agli arresti domiciliari. Dopo i nuovi sviluppi, “l’indagato, peraltro già condannato in passato per omicidio e tentato omicidio” è stato nuovamente arrestato e, dopo le formalità di rito, ricondotto in carcere. Il provvedimento cautelare del Gip è stato eseguito da carabinieri della locale sezione di Polizia giudiziaria della Procura di Caltagirone coadiuvati da militari dell’Arma della locale compagnia. Firenze. Il sindaco Nardella: “Cartabia venga a visitare il carcere di Sollicciano” di Antonio Passanese Corriere Fiorentino, 9 novembre 2021 “Sarebbe un grande gesto di attenzione. Sollicciano è una vergogna dell’architettura carceraria del nostro Paese”. Sovraffollamento, autolesionismo e struttura fatiscente. Il carcere di Sollicciano “è una vergogna dell’architettura carceraria del nostro Paese, con tutto il rispetto per chi l’ha disegnata”. Parole forti, nette, quelle pronunciate dal sindaco Dario Nardella oggi, lunedì, in Consiglio comunale dopo aver ascoltato la relazione annuale del garante dei detenuti Eros Cruccolini. “Quella struttura - ha aggiunto il primo cittadino - non è pensata per aiutare il detenuto e per la rieducazione della pena. Chiedo alla ministra Cartabia di venire a visitare il carcere di Sollicciano, sarebbe un grande gesto di attenzione”. Soprattutto dopo la plateale protesta di 8 detenuti, che nel luglio scorso sono saliti sul tetto, e la denuncia, a settembre, di Sandra Rogialli, direttrice Salute in carcere nei presidi penitenziari fiorentini. Che paragonava Sollicciano “a un manicomio”. Nardella nel suo intervento nel Salone de’ Dugento ha ricordato che “ogni detenuto costa alla comunità 154 euro al giorno, di cui solo sei per il mantenimento, solo 35 centesimi per la sua rieducazione, quella di cui parla la Costituzione italiana. Spesso l’opinione pubblica ritiene il carcere come qualcosa” su cui non porre attenzione “e spesso si dice alla persona che si deve sbatterlo in galera e buttare via la chiave. Questo concetto è lesivo, bisogna fare un grande lavoro”. Per il sindaco di Firenze, “dobbiamo riprendere in mano la Costituzione per evitare il sovraffollamento: serve ripensare a misure alternative e a non doversi trovare così costretti a votare l’ennesimo provvedimento svuota carceri”. È fondamentale, ha aggiunto, la “rieducazione, che ci consente di dare una opportunità a questi detenuti. Qui c’è in gioco la civiltà: il carcere va ripensato e ricostruito. E devo ripeterlo: il carcere di Sollicciano è una vergogna dell’architettura carceraria del nostro paese. Quella struttura non è pensata per aiutare il detenuto, non è pensata per la rieducazione della pena”. Firenze. La direttrice: “Tanti progetti su Sollicciano. Carcere nuovo? È fuori tempo” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 9 novembre 2021 “Sollicciano è un carcere malato, ma sono in corso progetti che lo rivoluzioneranno”. Antonella Tuoni, direttrice di Sollicciano, spazia a tutto tondo sulle criticità del penitenziario e sui progetti in corso per tentare di risolverle. Ma lei oltre a Sollicciano dirige anche il Gozzini. Non è un problema essere direttrice part time? “Sì, però è vero che ho accettato questo incarico con impegno e volontà; dovremmo sapere presto, in base agli esiti della procedura concorsuale, chi sarà il nuovo direttore: sono tra i candidati”. Negli ultimi mesi ci sono state decine di aggressioni agli agenti... “È vero, le aggressioni ci sono state ed è un dato di fatto, ma dipende come vengono veicolate le informazioni. Queste aggressioni non sono state così gravi come si vorrebbe far credere”. Qualcuno ha strumentalizzato? “Ognuno fa il suo mestiere, i sindacalisti fanno il loro, è loro interesse enfatizzare certe notizie, stiamo intervenendo”. In che modo? “Ci sono troppo pochi agenti, ne vorremmo almeno 50 in più e ci stiamo impegnando col dipartimento e il provveditorato”. A settembre un detenuto è morto con la testa tra le sbarre e l’autolesionismo è un’urgenza: nel 2020, 700 episodi... “Gli atti di autolesionismo provengono da detenuti non italiani e quindi necessitano di essere approfonditi anche sotto il profilo culturale. Per questo mi sono recentemente incontrata con un centro di etnopsichiatria per prevedere, attraverso il finanziamento con fondi europei, l’ingresso in carcere di etnopsichiatri capaci di decifrare professionalmente questi comportamenti autolesionisti e prevenirli”. Ma perché queste cose accadono? “Perché molte sono persone in ozio che passano 20 ore su 24 in cella. Dobbiamo pensare ad una maggiore apertura dei reclusi che deve però essere accompagnata da un tempo fuori dalle celle con contenuti”. Il riferimento è al lavoro? “Sì, nel prossimo futuro avremo un edificio per lo svolgimento di attività formative per detenuti. È stato recentemente completato un laboratorio di pelletteria che ha impegnato 12 detenuti”. Bambini in carcere con madri detenute. Non è una vergogna? “Dobbiamo fare in modo che stiano fuori, sono favorevole alla nascita dell’istituto per le detenute madri”. Il sindaco Nardella ha lanciato la proposta di un nuovo carcere... “Le opinioni sono legittime ma considerato che stiamo investendo tanti soldi per Sollicciano pensare di costruire un nuovo penitenziario mi sembra intempestivo”. Quali sono i lavori in corso? “Abbiamo tanti cantieri: la manutenzione delle coperture e delle facciate dei reparti detentivi eliminerà il problema infiltrazioni. Poi c’è la revisione delle sottocentrali termiche e la realizzazione delle dorsali degli impianti idricosanitari, che aiuterà la presenza di acqua calda nelle docce. È in previsione la realizzazione delle docce in tutte le celle, oltre che l’installazione del fotovoltaico sui tetti. E ancora la messa in sicurezza del muro di cinta e il potenziamento della videosorveglianza. E infine il completamento di un campo sportivo”. Quando dovrebbero concludersi tutti i lavori? “Entro il 2024. Ma c’è un altro progetto che ritengo prioritario: ed è il giardino degli incontri come luogo di apertura del carcere alla città, dove coinvolgere i detenuti che qui potranno vedere mostre, spettacoli. Il carcere non dev’essere la discarica della città, ma parte di essa. La valorizzazione del giardino fa parte di un progetto di ben più ampio respiro, con i Comuni di Firenze e Scandicci, il dipartimento di architettura e la fondazione Michelucci, per rigenerare l’area industriale attorno al carcere”. Trento. L’allarme della Garante: “Mancano agenti e medici, subito un confronto tra enti” di Tommaso Di Giannantonio Corriere del Trentino, 9 novembre 2021 Raddoppiati i casi di autolesionismo, cresce il disagio. Mentre “fuori” si sta tornando gradualmente alla normalità, tra le mura della casa circondariale di Trento si assiste ad una concentrazione di criticità che desta “molta preoccupazione”: dalla carenza di personale (155 operatori su una pianta organica di 227 unità) alla mancata attivazione del centro diurno per le persone con grave infermità psichica, dall’interruzione del servizio medico h24 alla sospensione prolungata dei trasferimenti. L’autolesionismo - Che la situazione sia allarmante lo testimoniano le recenti denunce dei sindacati sulle aggressioni ai danni degli agenti penitenziari (“commesse nella quasi totalità dei casi da persone affette da gravi disagi psichici”) e dall’aumento significativo di atti di autolesionismo nel 2020: 59 casi contro i 29 del 2019 (la media degli ultimi 5 anni è di 32 atti). Fortunatamente non si sono registrati suicidi e sono diminuiti leggermente i casi di tentato suicidio (da 18 a 14), anche se la cifra rimane elevata. “Nel carcere si sta attraversando un momento molto difficile che richiede urgentemente un tavolo di confronto tra tutte le istituzioni provinciali competenti - ha detto nel corso della presentazione del suo rapporto annuale Antonia Menghini, garante dei diritti dei detenuti del Trentino -. Da questo punto di vista è di buon auspicio la volontà del nuovo commissario del governo di convocare una riunione del comitato sicurezza sulla situazione carcere”. Meno agenti e attività - Per prima cosa risulta particolarmente preoccupante la progressiva riduzione di personale. A partire dalla direzione: dal novembre 2019 la direttrice Annarita Nuzzaci, di cui più volte la garante ha rimarcato l’impegno, dirige a scavalco anche la casa circondariale di Bolzano. Continua a persistere, poi, la carenza di organico nell’area educativa: da oltre un anno e mezzo ci sono 3 educatori invece di 6. Ancora più critico l’andamento del personale penitenziario, in flessione continua: 155 unità rispetto alle 227 previste in rapporto alla capienza originaria di 240 detenuti. Ed oggi nel carcere di Trento sono ristrette circa 300 persone. “Non è possibile alcun percorso trattamentale - è stata la denuncia di Menghini - se non ci sono risorse di personale che possono seguire le singole attività educative”. Assistenza sanitaria - Centrale rimane il problema del disagio psichico in carcere, “nonostante gli ingenti e più che positivi investimenti fatti nel 2019 dall’Azienda sanitaria” ha precisato la garante. Ad oggi, infatti, non è stato ancora realizzato il “centro diurno” per le persone con grave infermità psichica, che rappresentano il 10% della popolazione carceraria. “Fermo restando che coloro che presentano gravi disagi psichici non dovrebbero eseguire la pena in carcere - ha considerato Menghini - è necessario attivare un luogo in cui queste persone potrebbero essere adeguatamente seguite”. Inoltre, sul piano dell’assistenza sanitaria, dal 25 ottobre è stato interrotto per carenza di organico il servizio medico h24: manca un dirigente medico (per cui è stato bandito il concorso recentemente) e 3 medici di medicina generale a tempo pieno (i bandi sono andati deserti). Su quest’ultimo punto, per aumentare l’attrattività del posto, “abbiamo incremento la retribuzione dei medici che prestano servizio in carcere nell’accordo sulla medicina generale”, ha riferito l’assessora Stefania Segnana. Trasferimenti - Infine, fra le tante limitazioni imposte dalla pandemia, la più impattante (sul piano psicologico) ha riguardato la sospensione dei trasferimenti, dall’inizio della pandemia fino allo scorso agosto. “Ai detenuti - ha affermato Menghini - è stato negato il diritto di eseguire la pena nell’istituto più prossimo alla famiglia”. Dunque, “la vera sfida dei prossimi mesi sarà tentare un vero ritorno alla normalità, con tutto ciò che questo comporta - scrive la garante nella sua relazione -. La percezione è infatti quella che la pandemia abbia contribuito ancora di più ad alimentare quella dimensione estraniante che già caratterizzava le nostre carceri, alimentando la percezione di una vita sospesa in una bolla, lontana, troppo lontana dal mondo libero”. Milano. “Ambrogio Crespi garante dei detenuti”, in centinaia sottoscrivono l’appello al sindaco Il Riformista, 9 novembre 2021 Avvocati, testimoni di giustizia, forze dell’ordine, persone vittime della giustizia uniti per Ambrogio Crespi Garante dei detenuti a Milano. Un’ondata di firme che in pochi giorni ha superato quota 160. Tanti i nomi che hanno sottoscritto l’appello: quello dell’ex sottosegretario Sandro Gozi, europarlamentare eletto con Macron, e di Giuseppe Gulotta, noto per il clamoroso errore giudiziario di cui è stato vittima. Ma anche quello di Augusto Di Meo, testimone di giustizia dell’omicidio di don Peppe Diana, e del testimone di giustizia Benedetto Zoccola. E poi il nome di Francesco Pace (Associazione nazionale carabinieri), del docente esperto in Criminalistica Riccardo Sindoca, del presidente della Provincia di Caserta Giorgio Magliocca. Fra le firme, poi, anche quelle di esponenti della società civile come Luciano Roffi, la voce italiana di Quentin Tarantino in ‘Pulp Fiction,’ e Giusy Regalino, amministratrice della tv Rti Calabria. L’appello, partito due settimane fa da 13 cittadini fra cui l’avvocato Gaetano Berni, già Consigliere di Cassazione, e Raffaele Sollecito, chiede al sindaco di Milano, Beppe Sala, di tenere conto del percorso del milanese Ambrogio Crespi, che oltre ad essere stato detenuto nel carcere di Opera nell’ambito di un caso giudiziario molto discusso, ha realizzato vari docufilm: sulla storia di Enzo Tortora, contro le criminalità organizzate (‘Terra Mia’), e poi ‘Spes contra spem’, in cui ha saputo ascoltare e far parlare detenuti condannati per pesanti reati di mafia, creando uno dei più convincenti atti di accusa contro la criminalità organizzata non senza elogi da parte delle istituzioni. Un percorso, quello di Crespi, che ha portato alla recente Grazia parziale da parte del Presidente Mattarella. Firme per Ambrogio Crespi a Garante dei detenuti Sandro Gozi, deputato del Gruppo Renew Europe al Parlamento europeo, già Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega agli affari europei; Avvocato Gaetano Berni già Consigliere di Cassazione per “meriti insigni” (art. 106, 3° comma, Cost.”; Avvocato Giampaolo Berni, Presidente della Associazione Milano Vapore; Raffaele Sollecito; Mirko de Carli, consigliere nazionale del Popolo della Famiglia; Massimiliano Esposito, conduttore dirette Facebook Feedback & Dialoghi; Simone Sollazzo già consigliere comunale a Milano; Fiorello Cortiana; Pierpaolo Antonelli ex detenuto; Gianni Rubagotti Segretario Associazione per l’Iniziativa Radicale Myriam Cazzavillan; Francesco Monelli, tesoriere Associazione per l’Iniziativa Radicale Myriam Cazzavillan; Alberto Pacchioni ex consigliere comunale di Paullo; Fausto Bagnato; Pierluca Oldani, sindaco di Casorezzo; Alessandro Cucciolla, giornalista; Massimo Martini, giornalista; Marisa Summa, Social Media Manager; Benedetto Zoccola, testimone di giustizia; Greta Merlino dal Texas; Andrea Superchi dal Texas; Vincenzo Zurlo, carabiniere; Davide Riccardo Romano, già assessore della cultura della Comunità ebraica di Milano; Rosanna Favulli - responsabile welfare, terzo settore e politiche per le famiglie di Piattaforma Milano; Dario Dimitri Buffa, giornalista; Elisabetta Rampelli; Ernesto Caccavale, già europarlamentare; Avvocato Andrea Nicolosi; Alessandro Arrighi, Professore universitario; Pietro Funaro, giornalista e docente universitario; Mimma Cacciatore, Preside Coraggio; Bruno Cappuccio, Presidente Associazione Amici del Bosco; Edi Morini, giornalista; Andrea Bonetti, avvocato; Andrea Micb, carabiniere; Manuela Cerulli; Marco Cello, President CelloGroup CA; Marisa Denaro, Componente Comitato Sentinelle - per Capitano Ultimo.; Francesco Pace, Associazione Nazionale Carabinieri; Evelina Mucerscaia, influencer; Antonella Angelucci, attrice; Roberta Russo, studente; Antonella Reda; Camillo Maffia; Vincenzo Scatola, Comandante Prov. Napoli Guardie Zoofile presso FareAmbiente - Movimento Ecologista Europeo; Maria Paola de Stefano; Alfonso Magliocca; Clarice Mannucci, Socio fondatore presso Piccola Accademia Creativa; Victoria Colantonio, studente; Michele Saulle; Marcella De Conto; Francesco Simone; Gianni Roberto; Francesco Panico; Gabriel Principe, agente della polizia penitenziaria; Clotilde Recchia; Ylenia Shepherd Battimelli; Andrea Cavenaghi, Coordinatore Popolo Della Famiglia Lombardia; Cinzia Belligoni; Pierluigi Shrivastava, carabiniere; Nicola Fortuna, segreteria nazionale Partito Liberale Italiano; Giancarlo Morandi ex presidente del Consiglio Regionale della Lombardia; Elena Baldi, avvocato; Massimiliano Peluso Gaglione; Mattia Moro; Enrico Borg, ex consigliere provinciale a Milano; Davide Nunziante, giornalista; Massimo Diana; Anthony Puzzangaro; Alessandro Zingaretti; Alessandro Celuzza; Alessio Alberti coordinatore di Italia Viva in Brianza; Giuseppe Gulotta, vittima della malagiustizia; Marcello Lala avvocato; Anna Chiara Moggia; Monica Arcadio, giornalista; Nicoletta Nardi; Alberto Nigra; Amedeo Canale; Ylli Hyseni; Domenico Letizia, giornalista.; Massimo Mancarella; Simone Di Meo scrittore e giornalista; Augusto Di Meo testimone di giustizia di Don Beppe Diana; Pasquale Antonio Riccio; Paolo Cagna Presidente Upre Roma; Roberto Sorcinelli, segreteria nazionale PLI; Paolo Di Donato; Pasquale Valentina Malena; Angelica Iodice; Giorgio Magliocca, Presidente della provincia di Caserta; Giuseppe Inchingolo; Domenico Paparo; Chiara Macchione; Monica Bizaj Monica di Art.27 - Associazioni in Rete per il Territorio; Mirella Iezzi; Donatella Marchese; Ilaria Scacchetti; Federica Marchio; Leonardo Malgarini; Laura Iori; Maruska Albertazzi, Autrice e regista; Elisabetta Berti; Maria Tridico; Cinzia Lollobattista; Marta Lamberti; Alessandra Pontecorvo, Media relations; Daniela Oddo, infermiera; Simona Silicurti, Chef; Alessandro Salvaneschi, Capo Ufficio Studi di Forza Italia al Senato; Emilia Li Gotti; Silvia Sabatini; Paola Cimino, avvocato; Flaminia Camilletti, giornalista; Giusy Moriggi, media relations; Riccardo Sindoca, Docente Esperto in Criminalistica; Aldo Torchiaro, giornalista; Federica Moretti; Maria Luisa di Giorgio; Angela Pellacchia - Psicologa; Vincenzo di Nanna, Avvocato e segretario di Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi; Francesca Natalini; Valentina Bracciali-Imprenditrice; Reda Mazzini - chef; Franca Garreffa; Vittoria Iaquinta; Luigi Di Gregorio - professore universitario; Giusy Regalino, RTI Calabria; Alessandro Miglio(Brigante); Federico Menna; Luciano Roffi, attore e doppiatore di Quentin Tarantino in Pulp Fiction; Erika Andretta; Lucia Lo Palo, imprenditrice ed editore; Alberto De Pisis, influencer; Rosalia lo Palo, beauty consultant; Augusto Passoni, imprenditore agricolo; Maria Mangoni, casalinga; Roberta Pedemonti, commessa; Manolo Mangoni, vigile e pompiere; Carla Poloni, pensionata; Carlo Curnis, Avvocato; Marco Carnevale, imprenditore e costruttore; Lucia Valli, imprenditrice proprietaria orobica marmi; Maurizio Valli, imprenditore; Lelio Degagnutti, pubblicista e studente; Fabio D’Introno, commercialista; Marcello Elia, avvocato; Antonio Lattanzi, vittima malagiustizia; Barbara Rosati; Silvana Virga, commercialista; Simona Sacco, insegnante; Carmelo Virga, pensionato; Pietro Cavallotti, avvocato; Massimo Niceta, imprenditore; Massimiliano Vicari, impiegato; Salvatore Pirrone, chef; Francesco Catalano, agente immobiliare; Daniele Bucalo, assistente di volo; Donatella Virga, geologo; lofaso Antonino, imprenditore; Pierangelo Ardizzone, agente di commercio; Salvatore Virga, ingegnere; Luigi Lucente, avvocato; Rossana Sparta; Bologna. Chiudere subito il Centro di accoglienza di via Mattei, dormitorio per schiavi di Giovanni Stinco Il Manifesto, 9 novembre 2021 L’appello del Coordinamento migranti al neosindaco Matteo Lepore. Lo aveva promesso in campagna elettorale, e ora c’è chi pretende il rispetto di quella promessa. A Bologna il Coordinamento migranti chiede pubblicamente al neo sindaco Pd Matteo Lepore di chiudere l’hub di via Mattei, l’ex Cie poi riconvertito in un centro di accoglienza per migranti. “Va abbattuto e nemmeno ricostruito”, aveva detto il primo cittadino. La sfida ora è farlo davvero. “Convochi subito un tavolo con la Prefettura per chiudere il Mattei!”, scrive il Coordinamento che ricorda “i migranti del Centro Mattei che continuano a vivere stipati in camerate, nonostante le numerose proteste e nonostante la legge Lamorgese stabilisca il superamento dei grandi centri di accoglienza a favore di forme comunali di accoglienza diffusa”. Nel 2013 il centro, all’epoca un Cpt e quindi un carcere per migranti, fu definito “il cuore di tenebra di Bologna” da parte dell’ex sindaco Merola. Fu chiuso, e poi riaperto. Non più con i migranti costretti dietro alle sbarre, ma come centro di smistamento, e poi di accoglienza. Sul tema il Comune fa sapere di essere già al lavoro per rilanciare l’accoglienza diffusa in città, e in prospettiva per riflettere sul ruolo del centro. I tempi però non saranno stretti, visto che il Mattei andrà a gara per rimanere aperto almeno per tutto il 2022. Il coordinamento racconta come l’hub bolognese nel tempo sia diventato “il dormitorio dove le agenzie interinali reclutano migranti da far lavorare” all’Interporto di Bologna, “con contratti a chiamata e turni di lavoro massacranti”. Proprio all’Interporto nelle ultime settimane un migrante di 21 anni è morto schiacciato mentre un altro ha perso sei dita. La richiesta del Coordinamento in questo caso è di intervenire su tutti i fronti, compreso quello dei trasporti prevedendo un servizio di bus che da Bologna porti all’Interporto, non costringendo i migranti ad andarci in bici o a piedi di notte. Il coordinamento denuncia anche la “discrezionalità amministrativa con cui il Comune ostacola le pratiche per la residenza e l’idoneità abitativa”, il certificato cioè necessario “per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno, per i ricongiungimenti familiari e per poter vivere in un appartamento una volta usciti dai centri di accoglienza”. Ad esempio, spiega il coordinamento, “per ottenere la residenza non basta più l’accertamento della Polizia municipale. Solo e soltanto ai migranti viene chiesto che i proprietari di casa li accompagnino all’anagrafe”. Lecce. Imputato morto da cinque mesi viene comunque condannato dal Tribunale di Francesco Oliva La Repubblica, 9 novembre 2021 Il caso arriva da Lecce dove, nei giorni scorsi, un giudice ha inflitto 3 mesi di reclusione ad un 42enne di Gallipoli nonostante l’imputato fosse deceduto il 12 giugno scorso. In tutti questi mesi, però, la morte dell’uomo non è mai stata comunicata e il processo si è celebrato comunque con tanto di condanna emessa a conclusione di un’istruttoria andata avanti per un paio di mesi. Così uno dei tanti processi che si celebrano ogni giorno in Tribunale (di quelli che più di tutti ingolfano la macchina della giustizia dilatando i tempi di una sentenza) si è rivelato un flop giudiziario. Il caso è quello di un uomo accusato di aver violato la misura di prevenzione personale del foglio di via obbligatorio disposta dal questore di Lecce con un provvedimento emesso il 27 settembre del 2017. In sintesi, l’imputato non avrebbe dovuto più mettere piede a Melissano e nelle vicine frazioni nei successivi tre anni. Il 26 gennaio del 2019, però, viene sorpreso dai carabinieri in una contrada del comune del basso Salento. E, sulla scorta di un decreto di citazione diretta a giudizio a firma della procura salentina, il 42enne venne mandato a giudizio senza il filtro dell’udienza preliminare. E dire che lo scorso settembre il suo avvocato d’ufficio gli aveva anche provveduto a inoltrargli una lettera per conoscerlo e concertare una strategia difensiva che potesse essere condivisa in vista dell’imminente inizio del processo. Ovviamente il legale non ha mai ricevuto risposta e l’istruttoria è iniziata regolarmente a fine settembre. Il 28 ottobre il giudice ha dichiarato chiusa l’istruttoria dopo aver ammesso i mezzi di prova indicati dal pm e dalla difesa e acquisito tutti gli atti d’indagine. Quel giorno stesso è stata emessa la sentenza: il Tribunale, dopo una rapida camera di consiglio, ha condannato l’imputato morto a 3 mesi di reclusione “perché le risultanze dibattimentali hanno fornito la prova certa della penale responsabilità”. C’è di più a rendere l’intera vicenda ancora più singolare ed è contenuta in un passaggio delle motivazioni contestuali quando il giudice scrive che “a fronte di tali risultanze (...) non ha fornito nel corso del processo alcuna spiegazione alternativa, o alcuna giustificazione, circa l’accaduto. Pertanto, si appalesano perfettamente integrati, in diritto, tutti gli elementi costitutivi del reato contestato”. La scoperta di aver celebrato un processo fantasma è arrivata solo nei giorni scorsi quando l’avvocato d’ufficio si è presentato negli uffici del Registro generale del Tribunale per chiedere un estratto del casellario giudiziario del cliente, un passaggio propedeutico per poter scrivere l’atto d’appello. Nella documentazione acquisita era chiaramente specificato che una precedente sentenza a carico del 42enne (un patteggiamento per resistenza e altri reati) era stata già dichiarata estinta per la morte del reo a giugno. Mesi dopo lo stesso imputato è stato nuovamente processato in un periodo storico in cui, a causa della pandemia, la giustizia è alle prese con troppi processi da smaltire dopo i mesi di stop e che spesso possono trasformarsi in veri e propri casi di blackout della macchina della giustizia. Parma. Vivere e non Sopravvivere: si parla di giustizia riparativa di Marco Vasini La Repubblica, 9 novembre 2021 All’auditorium Paganini con Agnese Moro, Giorgio Bazzega, Manlio Milani, Franco Bonisoli, Adriana Faranda e Fiammetta Borsellino. La giustizia riparativa torna a Parma il prossimo venerdì 12 novembre, all’auditorium Paganini, con la terza edizione di Vivere e non Sopravvivere, in un evento, promosso dal Comune di Parma insieme a Cgil Parma, in collaborazione con Rinascimento 2.0 aps e con il patrocinio della Provincia di Parma. La conduzione dell’incontro, che vedrà tra il pubblico numerose classi delle scuole superiori del territorio, sarà affidata al giornalista e saggista Gad Lerner. “Si tratta di un progetto coraggioso vista la tematica che abbiamo apprezzato e nel quale abbiamo creduto fin da subito. I complessi e delicati percorsi personali dei singoli protagonisti assumono una valenza collettiva molto importante soprattutto per le nuove generazioni: il dialogo, l’incontro e l’ascolto come strumento per provare a curare le proprie ferite e cercare di rimarginarle”, sottolinea il presidente del Consiglio Comunale Alessandro Tassi-Carboni. “Il tema della giustizia riparativa su cui si fonda il progetto - spiega Massimiliano Ravanetti, Filctem Cgil Parma - offre la possibilità, soprattutto ai giovani, di conoscere e capire, attraverso le testimonianze dirette dei protagonisti, una modalità importante di approccio ai conflitti, fatta di dialogo e avvicinamento. Siamo noi a dover cercare di fornire questi strumenti ai ragazzi anche per contestualizzare quel periodo storico e guardare al futuro con altri occhi”. “La nostra Associazione - afferma Manlio Maggio, presidente Rinascimento 2.0 - si occupa non solo di cercare di valorizzare luoghi cittadini attraverso significative iniziative culturali, ma anche di supportare e collaborare in favore di eventi in cui crediamo come questo che presentiamo oggi: una iniziativa fondamentale nella lotta all’oblio di questo tempo per dimostrare come la conoscenza possa spezzare l’odio, all’interno di percorsi di violenza e sofferenza, spesso difficili da affrontare anche dopo molti anni”. “Abbiamo aderito all’intuizione di Massimiliano Ravanetti - le parole di Lisa Gattini, segretaria generale Cgil Parma - attraverso un percorso complesso e di confronto, ma abbiamo deciso di promuovere questo evento, e ringraziamo il Comune per averci affiancati, perché non lascia spazio a giudizi o sentenze ma mette l’accento sull’importanza dell’ascolto. L’ascolto delle vittime e degli esecutori dei crimini, che hanno intrapreso un percorso di dialogo e avvicinamento per provare a vivere e non sopravvivere appunto, con grande senso di responsabilità, senza cedere a buonismi e senza fare sconti a nessuno, con la consapevolezza di quanto il linguaggio e la parola (a cui è dedicata questa edizione) possano costruire la realtà nella quale viviamo”. A Parma interverranno Agnese Moro, figlia dello statista Aldo ucciso dalle Br nel ‘78, Giorgio Bazzega, figlio del poliziotto Sergio ucciso dal brigatista Walter Alasia in un conflitto a fuoco, Manlio Milani, marito di Livia morta nella strage di Piazza della Loggia a Brescia, Franco Bonisoli, ex brigatista componente del comitato esecutivo delle Br, Adriana Faranda, membro della colonna Romana delle Br, Fiammetta Borsellino, figlia del giudice Paolo ucciso dalla mafia. L’incontro del 12 novembre all’auditorium Paganini intende mettere l’accento sulla centralità del linguaggio come strumento per disattivare la violenza, partendo da quelle storie per interrogarsi su quanto la comunicazione e l’uso delle parole (nei linguaggi politici come nei rapporti tra le persone) possano veicolare un messaggio di non violenza e di “riparazione” di ferite e comunque di confronto rispetto a posizioni diverse. Milano. Inaugurazione della mostra “San Vittore: quartiere della città” arche.it, 9 novembre 2021 Umanizzare il carcere, trasformarlo da luogo della chiusura a luogo dell’incontro e dello scambio. È l’auspicio espresso dal presidente di Arché, p. Giuseppe Bettoni, nel corso dell’inaugurazione della mostra “San Vittore: quartiere della città” di sabato 6 novembre presso la biblioteca di Quarto Oggiaro, zona dove si svolgerà il progetto “Apriti cielo” di “Verso Itaca APS” con la partecipazione della Fondazione. Sabato, la prima a prendere la parola è stata la fotografa Margherita Lazzati che ha spiegato l’idea che l’ha portata prima all’interno di San Vittore a scattare le foto e a raccogliere alcune testimonianze e poi all’esterno in vari luoghi della città, tra cui appunto Quarto Oggiaro, a raccontare con voci e fotografie la quotidianità dei detenuti e delle detenute del carcere milanese e le loro interazioni con l’esterno. All’inaugurazione sono intervenute anche le ideatrici della mostra Carla Chiappini e Laura Gaggini dell’associazione “Verso Itaca APS”, e gli amministratori comunali, come il consigliere Alessandro Giungi, e del municipio 8, come Serenella Calderara e Sara Spadafora. Tutte e tutti hanno mostrato apprezzamento per la mostra e hanno ribadito la necessità di impegnarsi per rendere il carcere il luogo dove possa pienamente realizzarsi il dettato costituzionale: “tendere alla rieducazione del condannato”. Proprio su questo aspetto si concentrano anche le attività di Fondazione Arché nei confronti dei detenuti e delle detenute del carcere: “favoriamo il loro reinserimento lavorativo”, ha spiegato p. Giuseppe Bettoni, aggiungendo che alle persone accolte dagli istituti penitenziari chiede sempre: “come ti immagini sarebbe stata la tua vita senza il reato?”. Spesso, però, fintantoché si rimane in quel contesto, le risposte non sono in grado di immaginare un percorso diverso. Le cose cambiano una volta fuori, inseriti in percorsi di reinserimento e fianco di persone diverse: “è importante rimettere al centro le relazioni”, è stata la conclusione di p. Giuseppe. Asti. Nel carcere presentazione libro: “Seimila gradi di separazione, romanzo in 24 storie” lavocediasti.it, 9 novembre 2021 L’evento fa parte della rassegna del Salone del Libro, ‘Voltapagina’. La direttrice: “Un progetto di impegno sociale”. Nei giorni scorsi, nel teatro della Casa di Reclusione di Asti, si è tenuta la presentazione del libro “Seimila gradi di separazione, romanzo in 24 storie” con la presenza dell’autore Bruno Ventavoli responsabile dell’inserto de La Stampa “Tuttolibri”. L’evento, condotto da Beppe Passarino, rientrava nell’ambito del Progetto “Voltapagina”, iniziativa del Salone Internazionale del Libro di Torino nata nel 2007 per portare i grandi autori della narrativa italiana negli Istituti Penitenziari durante il periodo di apertura del Salone. “Un progetto di impegno sociale, spiega la direttrice Francesca Daquino, cresciuto negli anni per apprezzamento e partecipazione di scrittori, detenuti e pubblico esterno organizzato in collaborazione con il Ministero della Giustizia. Le precedenti edizioni di “Voltapagina” hanno avuto un grande successo, grazie anche alla presenza di un pubblico esterno. Quest’anno a causa dell’emergenza Covid l’invito è stato esteso ai soli rappresentati di associazioni ed enti che collaborano con la Casa di Reclusione di Asti”. Tra questi hanno aderito all’evento lanpresidente della Fondazione Biblioteca Astense “G. Faletti” Roberta Bellesini, il presidente della Fondazione “Giovanni Goria” Marco Goria, la presidente della Associazione ASO Asti Sistema Orchestra Antonella Pronesti, il Garante Regionale delle persone private della libertà on. Bruno Mellano e la Garante Comunale delle persone private della libertà Paola Ferlauto. Anche quest’anno l’evento ha visto la partecipazione attiva dei detenuti, preparati dalla professoressa Paola Savio dell’istituto scolastico Cpia di Asti, che hanno interagito con l’autore, ponendo domande che la lettura dell’opera ha suscitato e riflessioni che i vari episodi presenti nel testo hanno richiamato. “Ciò - spiega ancora Daquino - ha permesso di raggiungere il principale obiettivo che il progetto si prefigge”. Bruno Ventavoli al termine si è impegnato, anche su richiesta dei presenti a coinvolgere ed invitare altri autori, anche al di fuori del progetto in atto. “Oltre che costituire un importante momento di promozione culturale, questa iniziativa conferma la volontà della Casa di Reclusione di favorire momenti d’incontro permanenti tra la realtà carceraria e quella esterna”. Hans Kelsen, l’uomo che amava lo stato di diritto di Bruno Quaranta La Repubblica, 9 novembre 2021 Torna in libreria l’opera più importante del grande filosofo e giurista novecentesco. E qui il curatore italiano, Mario G. Losano, ci racconta perché rileggerlo è ancora un antidoto all’oscurantismo e all’arbitrio. La prima edizione italiana è del 1952. Fra chi la compulsò, preparando l’esame di Filosofia del diritto, Alberto Arbasino, che ricordava: “Noi studenti d’allora la trovavamo assai elegante non solo per la copertina (lo stesso design dei Saggi, però in grigioperla e non arancione), ma perché la dottrina “pura” - viennese come Wittgenstein e Adolf Loos - insegnava a considerare il diritto senza ideologie”. Ritorna per Einaudi “La dottrina pura del diritto” di Hans Kelsen, a cura di Mario G. Losano. Allievo di Norberto Bobbio, dal professore venne incaricato di tradurre l’edizione ampliata dell’opera rispetto a quella che vide la luce nel 1934. La dottrina pura, ovvero la scienza che studia il diritto valido, esistente, non proponendosi di legittimarlo come giusto o di squalificarlo come ingiusto. Oltre la psicologia, la sociologia, l’etica, la teoria politica. Più che attuale, Kelsen non è un classico? “Che cosa c’è di classico in Kelsen? Il marchio di fabbrica della sua teoria: le norme sono valide perché organizzate in un ordinamento piramidale. È la struttura che consente di unificare il diritto vigente. In che cosa è attuale? È il teorico della democrazia parlamentare, da cui nasce la piramide giuridica”. L’ordinamento giuridico, secondo Kelsen, è valido perché si fonda sulla norma fondamentale. In che cosa consiste? “È una norma - qui una contraddizione del giurista - non posta dal legislatore, ma presupposta: ‘Bisogna ubbidire alla Costituzione’“. Un’accusa paradossale è stata rivolta alla dottrina di Kelsen, se si pensa alle sue origini ebraiche e alle sue frequentazioni socialiste nei primi anni viennesi: essere applicabile anche ai totalitarismi, a cominciare dal nazismo... “Kelsen distingue fra diritto e giustizia. I contenuti delle norme non sono affar suo. La sua teoria pura del diritto spiega anche il diritto dello Stato nazista però senza giustificarlo”. Perché Kelsen fu critico verso il processo di Norimberga? “Perché non esisteva una norma di diritto positivo anteriore ai fatti. È la giustizia del vincitore a imporsi. Il potere condiziona la realtà del diritto”. Venendo a oggi. Kelsen sarebbe accusato di giustificare il regime talebano in Afghanistan, là dove la sharia è il diritto positivo. “A mancare è l’appiglio formale. Le norme coraniche non si inseriscono in un sistema piramidale. Il testo fondante, il Corano, non è giuridico, contiene indicazioni giuridicamente rilevanti solo in misura minima. Quella di Kelsen è una teoria del diritto europeo continentale, a misura dell’era industriale”. Sottraendo il diritto all’ideologia, Kelsen salvaguarda la scientificità di opere come il codice penale Rocco, risalente al Ventennio. “E come il Codice civile del 1942. L’uno e l’altro ancora vivi. Due pregevoli costruzioni giuridiche”. Settecentocinquanta anni fa moriva Dante. Il primo saggio di Kelsen verte su “De Monarchia”. Che cosa lo accomuna all’Alighieri, alla sua visione statuale? “Una sicura suggestione: l’impero absburgico come stato nazionale, nell’immaginario epigono del Sacro romano impero della nazione tedesca. Un solco in cui lievita la stessa idea contemporanea dell’Europa: Schumann, Adenauer, De Gasperi, i padri fondatori, hanno in comune il medesimo humus germanico”. Kelsen si è occupato in due saggi (1920-1925) della democrazia parlamentare, della sua crisi. Passa il tempo, la questione resta. Come suggerirebbe di affrontarla? “Invitava a contemperare la rappresentanza politica con interventi correttivi o integrativi di democrazia diretta. Come il referendum. La sua concezione della democrazia parlamentare risalta nella Costituzione austriaca del 1920, che lo ebbe tra i suoi autori. Inoltre è l’artefice della Corte costituzionale moderna, come quella italiana: essa elimina le norme in contrasto fra loro, tutela cioè il funzionamento della piramide normativa”. La fortuna italiana di Kelsen è torinese... “Fu Gioele Solari a orientare verso la Germania Treves e Bobbio. Non dimenticando che a Torino, nell’800, era in cattedra Pietro Luigi Albini, pioniere della filosofia del diritto”. Singolare Torino. Vi insegnarono i capifila del giuspositivismo e del giusnaturalismo, rispettivamente Norberto Bobbio e Alessandro Passerin d’Entrèves. Lei in che senso può definirsi giusnaturalista? “Per il mio ideale di società, dove cardinali sono i diritti sociali, l’articolo 1 della Costituzione. Kelsenianamente”. Sublimare serve a dominare l’odio di Dacia Maraini Corriere della Sera, 9 novembre 2021 Mi chiedo: ci stiamo talmente abituando ai femminicidi da non considerarli prodotto di una cultura misogina e prevaricatrice su cui riflettere pubblicamente? Un altro femminicidio. Questa volta a Ostia Antica (Roma). Un uomo di 79 anni, Mauro Piunti, uccide a fucilate la moglie Elena Di Maulo, di 77, che era costretta a letto perché aveva da poco subito un’operazione al ginocchio. Un uomo incensurato, era “grande lavoratore e mai violento”, così lo hanno descritto i conoscenti. Piunti era un cacciatore e possedeva due carabine e l’automatico Bonelli con cui ha sparato alla moglie. La notizia appare in piccolo, quasi fosse un normale incidente di cronaca nera. Mi chiedo: ci stiamo talmente abituando ai femminicidi da non considerarli prodotto di una cultura misogina e prevaricatrice su cui riflettere pubblicamente? L’uomo era incensurato, come tutti coloro che da anni (in un ritmo costantemente crescente) uccidono le mogli o le compagne. E di solito si fanno arrestare senza reagire. Segno che stanno vivendo una vera tragedia interiore. Insomma non si tratta solo di egoismo o prepotenza, ma di una profonda adesione a una antica cultura della divisione dei generi purtroppo ancora diffusa, che andrebbe analizzata e combattuta consapevolmente. Le donne, se abbandonate o se in lite con il proprio uomo, non pensano di ucciderlo. E non perché siano strutturalmente più pacifiche e generose, ma perché hanno imparato (il più delle volte costrette dalle leggi dei Padri) a sublimare. Un esercizio di grande civiltà che sta alla base di ogni progetto democratico. Per questo sarebbe bene avere più donne nel governo della res publica. Sarebbe un guaio se, nell’importante processo di emancipazione, le donne buttassero a mare questa grande qualità conquistata a caro prezzo, adeguandosi ai valori storicamente maschili del possesso e del controllo sul più debole. Un uomo che non impara a sublimare, diventa vittima di quelle forze primordiali che portano all’aggressione, alla volontà di possesso e all’odio verso chi vi si oppone. Il caso Piunti ci fa capire ancora una volta quanto male può portare la divisione dei ruoli, la legittimazione di un potere di genere e l’abitudine storica, tollerata e spesso incoraggiata, al dominio e alla prevaricazione. La democrazia del cyberspazio di Paola Pisano* Corriere della Sera, 9 novembre 2021 Esistono soluzioni tecnologiche efficaci ma è una questione tecnica? Purtroppo no. Quella con cui abbiamo a che fare oggi è una questione umana che riguarda tutti. Con l’inizio dell’”Internet Governance Forum” a Cosenza, si riaccende il dibattito sul mondo di Internet. Nella storia dell’umanità mai abbiamo avuto opportunità sconfinate come oggi. Internet ha reso il mondo meno sconosciuto dandoci la possibilità di immergerci in culture diverse, condividere pensieri e idee con più di 4 miliardi di persone. A detta della commissaria europea per la Concorrenza Margrethe Vestager nel suo discorso del 21 ottobre scorso presso l’Università di Humboldt, “... uno strumento incredibile, forse unico, per preservare e animare il nostro demos, rendendo le nostre società più inclusive”. In teoria. In pratica però questo non accade. La nostra democrazia online è stata negli anni congegnata da piattaforme capaci di ordinare dialoghi, immagini, espressioni e azioni secondo uno standard ben preciso. Non certo conforme ai principi di inclusività, uguaglianza, onestà o veridicità. Ma semplicemente alla potenzialità e alla capacità di essere virale. Lo standard della viralità, miccia della competizione e dei conflitti sociali in Rete, elemento essenziale per una strategia di marketing globale, è alla base del profitto digitale. Con una aggravante. Questa massa di contenuti virali sta contaminando lo spazio delle dinamiche politiche degli Stati e delle vite private di noi cittadini. L’ultima prova, tra le più crude, perché testimoniata da documenti riservati e interni all’azienda, è dello scorso settembre. È stata diffusa da Frances Haugen, ex manager della piattaforma più onnipotente del cyberspazio, Facebook. Molte delle notizie hanno amareggiato, ma non certo stupito. Dal permesso di postare immagini e frasi che incitano alla violenza a personaggi famosi, alle analisi che evidenziano un aumento del tasso di ansia, depressione, anoressia nelle adolescenti che utilizzano Instagram. Dall’attenzione particolare verso i preadolescenti, prezioso target di utenti non ancora sfruttato, all’aumento della rabbia sulla piattaforma a causa di un cambio nell’algoritmo. Fino ad arrivare a spazi dedicati ai trafficanti di esseri umani in Medio Oriente, a gruppi armati in Etiopia contro le minoranze etniche, alle azioni del governo vietnamita contro il dissenso politico. Vendita di organi, esseri umani e pornografia. Possono esserci delle soluzioni tecnologiche per invertire la tendenza? Certo che sì. Ne sono esempi l’age verification forte, per non permettere ai minori di 14 anni di utilizzare i social network, la limitazione dei like e del numero di condivisioni, per diminuire la diffusione della disinformazione, algoritmi che siano capaci di rappresentare equamente le opinioni includendo un bilanciamento del volume delle voci. È una questione tecnica? Purtroppo no. Quella con cui abbiamo a che fare oggi è una questione umana che riguarda tutti. La democrazia non si crea da sola, tantomeno nello spazio cibernetico. Sono certa che traslare le regole del mondo reale in quello digitale sarebbe già un grande traguardo, ma non basta. La democrazia del cyberspazio sarà difficile da plasmare se il modello di business dei social rimarrà ancorato ai soli meccanismi ormai obsoleti che sostengono un modello capitalista forte. In ogni caso anche se meglio attrezzate dei governi, non spetterà alle grandi piattaforme decidere le regole del gioco, domani. Spetta a coloro che abbiamo eletto, oggi. *Ex ministro per l’Innovazione e la Digitalizzazione Migranti, la vergogna dell’Europa di Bernard Guetta* La Repubblica, 9 novembre 2021 Insieme alla Polonia, che respinge uomini, donne e bambini al confine con la Bielorussia, tutta l’Unione europea si rende complice del reato di violazione dell’obbligo di soccorso a persone in grave pericolo. Devo confessarlo, per quanto sia ironico, per quanto sia doloroso. Devo ammettere che i polacchi non possono aprire le loro frontiere a tutti quei rifugiati mediorientali che la dittatura bielorussa lascia accorrere fino a Minsk facendo balenare la prospettiva di una facile via d’ingresso nell’Unione europea. Se lasciassero aperta solo un po’ la loro porta, i polacchi sarebbero inondati da una fiumana sempre più grande di uomini, donne e bambini. Pertanto, non resta loro altro da fare che sistemare reticolati di filo spinato - non è così? - se non fosse che... Se non fosse che alla frontiera tra la Bielorussia e la Polonia le temperature sono così rigide che i rifugiati muoiono di freddo, nel vero senso della parola. Nondimeno, dramma umano o no, i polacchi non possono cedere a questo ricatto morale senza incoraggiare altri curdi e altri siriani ancora a credere a loro volta all’illusione bielorussa. In guerra come in guerra, se non fosse che... Se non fosse che a tutte quelle persone che hanno già creduto alla promessa di Minsk non resta altro da fare che cercare di entrare in Polonia, perché le guardie bielorusse alla frontiera non permettono loro di fare inversione di marcia. Li respingono senza riguardi e, a fronte tanta crudeltà, i polacchi hanno dovuto - non è forse così? - dispiegare circa 17mila tra guardie di frontiera e soldati per vigilare affinché nessun rifugiato riesca a strisciare sotto i reticolati. Non soltanto i loro 26 partner dell’Unione europea non hanno motivo di preoccuparsi ma, come dice Varsavia, cofinanziando la costruzione del muro appena approvato dalla Dieta polacca, di fatto proteggerebbero la nostra frontiera comune. Si tratterebbe - non è così? - di un segno di comunanza tra europei, di solidarietà a fronte di una dittatura che dimostra il suo cinismo, se non fosse che... Se non fosse che Lukashenko, bando all’ironia, ha già vinto la sua scommessa facendo precipitare la Polonia e l’Unione tanto in basso quanto è lui. La Polonia che accoglie così generosamente i rifugiati bielorussi e li sostiene senza risparmiarsi nella loro lotta per la libertà, la Polonia che nel 1980 aveva segnato la fine del comunismo senza aver mai smesso di combatterlo dal 1956, in questa circostanza evidenzia una mancanza assoluta di solidarietà nei confronti di altri esseri umani che fuggono dalla miseria e dalla morte. Così facendo, la Polonia non soltanto tradisce sé stessa e qualsiasi sentimento di compassione umana e perfino quella fede cristiana che professa in modo così prevalente ma, oltre a ciò, la totalità dell’Unione europea si rende complice del reato di violazione dell’obbligo di soccorso a persone in grave pericolo. Così pronta a difendere e patrocinare sempre i suoi valori, l’Unione permette che questo rimpallo di esseri umani alla frontiera tra Polonia e Bielorussia prosegua perché vuole evitare che si moltiplichino i temi di conflitto con Varsavia, e perché la Commissione e il parlamento europei sanno bene che l’accoglienza dei rifugiati non è proprio popolare tra l’opinione pubblica europea, e perché un braccio di ferro con i dirigenti polacchi a questo proposito non si risolverebbe necessariamente a vantaggio dell’Unione. Non so voi ma, quanto a me, io provo vergogna. Provo vergogna che una dittatura riesca a prenderci in trappola così facilmente nelle nostre contraddizioni. Provo vergogna prendendo atto che l’opposizione polacca non trova quasi niente da dire contro la ricostruzione di un muro nel cuore stesso dell’Europa. Provo vergogna che nel suo complesso l’Unione abbia paura dei rifugiati perlopiù perché sono musulmani. Provo vergogna per il fatto che non siamo capaci di trovare il modo di far capire a Lukashenko che il suo giochetto deve finire una volta per tutte. Provo vergogna per la mia stessa impotenza e perché comprendo sempre meglio, nel mondo di oggi, come il mondo in passato abbia potuto coprirsi gli occhi e tapparsi le orecchie davanti a Hitler e a Stalin. *Traduzione di Anna Bissanti Scontro Minsk-Varsavia, migranti in trappola di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 9 novembre 2021 Spinti dal regime di Minsk verso la frontiera con la Polonia e respinti indietro a colpi di lacrimogeni dalla polizia polacca. Tra i tre e i quattromila migranti ieri si sono trovati tra due fuochi, strumento involontario degli “attacchi ibridi” del dittatore Alexander Lukashenko, che li utilizza per punire l’Unione europea per le sanzioni adottate contro il Paese. Ma anche vittime del governo di Varsavia, che lungo il confine con la Bielorussa ha schierato ormai 22 mila uomini pur di impedire a una massa sempre più numerosa di disperati di attraversare il suo territorio per arrivare in Germania. “Siamo pronti a difendere la frontiera”, ha ribadito anche ieri il ministro polacco della Difesa Mariausz Blaszczak. È un confine sempre più caldo quello tra Polonia e Bielorussia, al punto che la crisi dei migranti creata ad arte da Minsk rischia adesso di sconfinare verso scenari imprevedibili quanto pericolosi. Con la Nato, chiamata in causa dell’ex presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, oggi leader dell’opposizione al governo populista di Diritto e giustizia (Pis), attenta a quanto accade e “pronta ad assistere gli alleati”, dall’altra parte, Mosca che difende e giustifica il regime bielorusso. Gli sconfinamenti, in verità, vanno avanti da agosto ma mai si erano visti così tanti migranti provare a entrare tutti insieme in territorio polacco come ieri quando al checkpoint di Kuznica è arrivato un fiume di uomini, donne e bambini che camminavano in fila verso il confine “scortati” dalla polizia di frontiera bielorussa. Ed è proprio nei dintorni di questo villaggio della Podlachia, nel profondo nordest del paese, che la voce di un buco nella rete delle recinzioni avrebbe convinto i profughi a tentare il tutto per tutto nella giornata di ieri. Secondo fonti riportate dal portale polacco di giornalismo investigativo Oko.press, la maggior parte delle persone confluite a piedi verso il confine polacco provenivano da una manifestazione organizzata dai migranti iracheni presenti in Bielorussia. NEL POMERIGGIO POI una parte della recinzione di filo spinato ha cominciato a cedere in più punti. “I bielorussi vogliono provocare un incidente di dimensioni significative, preferibilmente con proiettili sparati e vittime”, ha dichiarato il vice ministro degli Esteri polacco, Piotr Wawrzyk. Anche se ai giornalisti in Polonia resta vietato l’accesso alla zona chiusa di 3 chilometri lungo la frontiera con il vicino, è stato quasi impossibile non accorgersi di questa massa umana fotografata a più riprese dall’alto e sorvegliata da un elicottero militare polacco. Fino a ieri, in attesa della costruzione di un muro vero e proprio, la strategia di push-back indiscriminato, messa in atto dal Pis aveva funzionato. Ma con questi numeri a saltare sono tutti gli schemi. A Kuznica è successo di tutto. Esercito e polizia hanno utilizzato lacrimogeni per disperdere i migranti, mentre alcuni profughi hanno provato a sfondare le recinzioni utilizzato tronchi di alberi a mo’ di arieti. Tuttavia, c’è anche chi in patria continua a dare prova di solidarietà nei confronti di esseri umani usati come pedine di un gioco politico imprevedibile e crudele che al momento coinvolge Varsavia, Minsk e Bruxelles. Dalle luci verdi accese all’esterno delle abitazioni dagli abitanti dei villaggi polacchi di confine per segnalare la propria disponibilità ad offrire soccorso ai migranti, passando per gli appelli firmati da personalità della cultura, c’è anche una Polonia che sembra disposta ad aiutare il prossimo, o quanto meno, pronta ad indignarsi. In una lettera indirizzata al Consiglio d’Europa e al parlamento europeo le premio Nobel per la letteratura Svjatlana Aleksievic, Elfriede Jelinek, Herta Müller e Olga Tokarczuk denunciano la “catastrofe umanitaria” che si consuma ogni giorno al confine. Con migliaia di soldati schierati nella zona, Varsavia spera di poter gestire l’emergenza senza coinvolgere Bruxelles. Un eventuale coinvolgimento di Frontex potrebbe essere interpretato come un cedimento all’idea di sovranità che il Pis vuole continuare a trasmettere ai suoi elettori, dopo aver detto “nie” nel 2015 al ricollocamento forzato di immigrati sul proprio territorio. Intanto il tema della crisi migratoria verrà affrontato “con urgenza” la settimana prossima dai ministri degli Esteri. “Invito gli Stati membri ad approvare finalmente il regime di sanzioni esteso alle autorità bielorusse responsabili di questo attacco ibrido”, ha chiesto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Medio Oriente. Attivisti e difensori dei diritti umani palestinesi hackerati con Pegasus di Michele Giorgio Il Manifesto, 9 novembre 2021 Non c’è la prova che sia stato Israele ma i palestinesi sospettano che lo spionaggio elettronico sia legato alla recente designazione da parte del ministro della difesa Gantz di sei ong come organizzazioni terroristiche. Era metà ottobre quando Ghassan Halaika, un attivista palestinese di Gerusalemme piuttosto noto e ricercatore del centro per i diritti umani Al-Haq di Ramallah, una organizzazione storica della società civile palestinese, ha cominciato a sospettare che il suo telefono fosse sotto controllo. L’apparecchio si bloccava di frequente, altre volte, durante le conversazioni, emetteva qualche ronzio. Colleghi e amici gli hanno suggerito di rivolgersi agli irlandesi di Front Line Defenders (Fld), che dal 2001 monitorano le attività di cyber intelligence a danno di esponenti della società civile. Un esperto di Fld ha scansionato il suo telefono e vi ha trovato lo spyware Pegasus, prodotto dalla NSO, azienda israeliana controllata dal ministero della difesa a Tel Aviv, al centro dello scandalo esploso in estate. Grazie ad Amnesty International e a Citizen lab, si è scoperto che attivisti dei diritti umani, giornalisti, uomini politici e dissidenti di mezzo mondo sono stati tenuti sotto stretta osservazione da Pegasus capace di controllare tutto ciò che entra ed esce da uno smartphone. Uno scandalo, a dir poco, così ampio e grave che la scorsa settimana persino il Dipartimento del Commercio degli Stati uniti ha aggiunto NSO e un’altra azienda di spyware israeliana Candiru, insieme a società russe e di Singapore, alla sua Entity List per le attività contrarie alla sicurezza nazionale o agli interessi della politica estera americana. Il ritrovamento di Pegasus nel telefono di Halaika è stato poi confermato da ulteriori accertamenti svolti dagli specialisti di Amnesty e di Citizen Lab. L’indagine quindi si è ampliata. Sono stati scansionati altri 75 iPhone appartenenti a palestinesi membri di ong e associazioni varie. Alla fine, sono stati trovati altri cinque smartphone “infetti”. I telefoni sono stati hackerati, tra l’estate del 2020 e nel 2021 senza che le vittime avessero eseguito alcuna azione come cliccare su un link o aprire un allegato. A clic zero dicono gli esperti. Solo tre delle vittime dell’hacking hanno acconsentito alla divulgazione dei loro nomi. Sono, appunto, Ghassan Halaika, Salah Hammouri, avvocato di Addameer, che assiste legalmente i prigionieri politici palestinesi, e Ubai Al Aboudi, direttore del Centro Bisan che è anche un cittadino statunitense. Due anni fa Al Aboudi è stato incarcerato per alcune settimane senza processo con l’accusa di far parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp). La scorsa estate è stato arrestato dalla polizia dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen per aver partecipato alle proteste per l’omicidio, compiuto da agenti dei servizi di sicurezza palestinesi, dell’attivista e oppositore politico Nizar Banat. Hammouri, di Gerusalemme, è anche cittadino francese. Da giovane ha scontato sette anni di carcere, con l’accusa di far parte del Fplp e di aver partecipato ad azioni di quel partito. Due settimane fa la ministra dell’interno israeliana, Ayelet Shaked, ha revocato la sua residenza a Gerusalemme sostenendo che “le sue attività costituiscono una violazione del rapporto di fiducia con lo Stato di Israele”. Halaika di recente si è visto spesso nel quartiere di Sheikh Jarrah di Gerusalemme est, centro delle proteste di 28 famiglie palestinesi che rischiano l’espulsione per far posto a coloni israeliani che rivendicano la proprietà dei terreni dove sono state costruite le loro case. “Non possiamo dire chi ha installato lo spyware. Possiamo solo immaginare chi ha l’interesse e la capacità di farlo”, ha commentato con ironia Salah Hammouri. I palestinesi hanno pochi dubbi su chi sarebbe dietro l’attività di spionaggio attraverso Pegasus. E puntano il dito contro Israele. “Abbiamo il sospetto concreto che ci sia un legame tra la scoperta del Pegasus nei telefoni di nostri colleghi difensori dei diritti umani e la recente designazione di sei ong palestinesi come organizzazioni terroristiche fatta dal ministro della difesa israeliano Gantz”, ha detto ieri al manifesto Tahsin Alayyan, un membro di al Haq al termine della conferenza stampa che le ong per i diritti umani, accusate da Israele di essere “una copertura per le attività del Fplp”, hanno tenuto a Ramallah. “Quella designazione - ha aggiunto - qualche ora fa è stata estesa territorialmente dall’esercito israeliano alla Cisgiordania. E questo significa che in qualsiasi momento Israele può chiudere i nostri uffici ed arrestarci”. Alayyan ha invocato un maggior sostegno internazionale alle sei ong colpite dal provvedimento israeliano. “Abbiamo ricevuto messaggi di solidarietà e di vicinanza ma abbiamo bisogno di un appoggio più forte e robusto e passi concreti in particolare dell’Europa per bloccare le intenzioni di Israele”, ha concluso. Algeria e Libia, i nervi scoperti dell’Italia di Alberto Negri Il Manifesto, 9 novembre 2021 La visita del presidente Sergio Mattarella in Algeria ha toccato i nervi scoperti del Nordafrica e del Medio Oriente. Dal Marocco a Israele, dalla Libia al Sahara, dal Sahel alle migrazioni, compresa la mai sopita competizione con la Francia con l’omaggio ad Algeri a Enrico Mattei, il fondatore dell’Eni - pilastro strategico dell’energia e della politica estera - scomodo attore negli anni 50-60 del petrolio e del gas, ben poco amato dalle potenze e dalle Sette Sorelle dell’oro nero, e soprattutto sponsor dell’indipendenza algerina da Parigi. Caduto Gheddafi nel 2011, l’Algeria è il nostro maggiore alleato sulla Sponda Sud, il primo partner commerciale dell’Italia in Africa e nell’area Medio Oriente: certo non può sostituire il raìs libico ma senza dubbio è il Paese con cui abbiamo le maggiori assonanze, oltre che essere il secondo fornitore di gas dopo la Russia. Non è un alleato facile: l’Algeria è in rotta di collisione con il Marocco ma anche con la Francia di Macron, come ha dichiarato lo stesso presidente algerino Tabboune. Algeri rimane comunque un attore importante anche per la Libia, dove in Tripolitania c’è la Turchia di Erdogan e dall’altra parte il generale Khalifa Haftar - sostenuto da Russia, Emirati, Egitto e Francia - che l’altro giorno ha mandato in Israele il figlio Saddam con l’intenzione di negoziare, nel caso fosse eletto presidente, l’adesione della Libia al patto di Abramo. Insomma nella campagna elettorale libica - dove il 24 dicembre si dovrebbe votare per le presidenziali e le legislative (come annunciato dal capo del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh) entra pure Israele che assistenza militare alla Cirenaica di Haftar l’ha già fornita in chiave anti-turca (gli accordi sul gas di Israele, Cipro e Grecia per il gasdotto EastMed si contrappongo a quelli tra Turchia e Tripoli). Ma il patto di Abramo voluto da Trump per allacciare relazioni diplomatiche ufficiali tra Israele, Bahrein Marocco, Sudan, forse sta portando più destabilizzazione che governabilità in Africa. Basta vedere l’enigmatico colpo di stato sudanese, gli effetti sulla guerra civile in Etiopia e le pesantissime tensioni tra Algeria e Marocco per la questione del Sahara occidentale dove il popolo saharawi aspetta ancora invano un referendum sull’indipendenza. Era stato proprio Trump nel dicembre 2020 a riconoscere la sovranità del Marocco sul Sahara occidentale, conteso tra Rabat e il Fronte Polisario, in cambio della normalizzazione delle relazioni di Rabat con Israele. Ecco che cosa significa toccare i nervi scoperti del Sahara e del Sahel dove l’Unione europea agisce con i suoi contingenti militari in Niger a Mali contro le forze jihadiste. Ci attendono forse sorprese, e non tutte piacevoli. E ora queste grandi manovre - da cui non è escluso il Libano, sull’orlo del collasso e nel mirino dell’Arabia saudita - potrebbero far sentire i loro effetti anche in quella Libia che in vista delle elezioni si sta dibattendo con i fantasmi di Gheddafi e l’ancora incerta (e contestata) candidatura presidenziale del figlio del raìs, Saif Islam. In questo quadro va visto l’annuncio del Consiglio presidenziale di sospendere per due settimane la ministra degli Esteri Najla Mangoush, poco gradita ai Fratelli Musulmani, dopo che parlando alla Bbc si era detta disponibile a considerare l’estradizione negli Usa dell’ex dirigente dei servizi segreti di Gheddafi, Abu-Aqila Mohammed Massoud, accusato di avere organizzato l’attentato contro il Boeing 747 Pan Am che nel dicembre 1988 esplose nei cieli scozzesi di Lockerbie con oltre 270 morti. Vicenda chiusa dai libici con il risarcimento delle famiglie. Eppure il premier ad interim Abdul Hamid Dabaibah ha confermano che Mangoush sarà alla conferenza di Parigi del 12 novembre dove Macron vuole rilanciare il ruolo libico della Francia, che nel 2011 volle la caduta di Gheddafi trascinandosi dietro Usa, Gran Bretagna e Nato, Italia compresa, poi precipitata nella crisi dei migranti e nei rapporti ambigui, riconfermati anche dal governo Draghi, con la criminale guardia costiera libica. Non è un caso che il presidente algerino, in contemporanea con la visita di Mattarella, abbia attaccato Macron in un’intervista al settimanale tedesco Der Spiegel. “Non sarò certo io a fare il primo passo per normalizzare le relazioni con la Francia”, ha dichiarato Abdelmajid Tabboune dopo che Macron aveva affermato che “prima dell’arrivo della Francia, l’Algeria non aveva un’identità nazionale”. E ha confermato le ritorsioni: gli aerei militari francesi diretti in Niger e Mali non potranno sorvolare i cieli algerini, portando così i tempi di volo da quattro a nove ore. A nessuno è sfuggito che il momento centrale della visita di Mattarella sia stata ad Algeri l’inaugurazione dei giardini e del busto dedicati a Enrico Mattei, rimasto ucciso in un sospetto incidente aereo a Bascapé nel 1962. Mattei sostenne e finanziò il Fronte di liberazione nazionale algerino (Fln) nella lotta anti-francese. Si è quindi dovuti andare ad Algeri per parlare dell’ex partigiano che fondò l’Eni, nonostante gli americani e gli inglesi nel dopoguerra avessero chiesto con insistenza la liquidazione dell’Agip e dei nostri asset energetici. Ecco perché il passato è vicino alle vicende di oggi, ecco perché Mattei è ancora così scomodo. Nervi scoperti.