Abbracci e libertà di Samuele Ciambriello* cronachedi.it, 8 novembre 2021 L’emergenza Covid in carcere ha reso più gravi e irrisolti i problemi del pianeta carcere. Il sistema penitenziario del futuro non potrà tornare ad essere quello del passato. C’è la necessità, subito, di tornare al diritto penale minimo, liberale e garantista e al carcere come estrema ratio, riservato solo agli autori di reati gravi. Aumenta la presenza dei detenuti nelle carceri, creando preoccupazione ed indignazione. Il sovraffollamento, condizione cronica di tutti gli istituti di pena del nostro Paese, ha aumentato il divario tra la certezza della pena e la qualità della stessa. L’emergenza Covid, che ha spezzato vite di detenuti ma anche di generosi operatori penitenziari, ha reso ancora più evidente che il carcere è una struttura classista che non rispetta gli obblighi della Costituzione, quasi nessuna strategia dei diritti. Contagiati, infreddoliti, senza la presenza di parenti, volontari, senza sorveglianza dinamica, senza occasioni ricreative, culturali, formative. Persino l’accesso degli avvocati è stato fortemente limitato. Come Garanti in quest’anno abbiamo richiesto interventi volti a ridurre il numero di detenuti e consentire quanto più possibile misure alternative alla pena detentiva. Abbiamo avuto interventi a macchia di leopardo di Magistrati di sorveglianza e di Procure. Abbiamo avuto magistrati di sorveglianza che non hanno firmato nessuna licenza o fatto ritornare in carcere detenuti contagiati dal Covid. Abbiamo avuto carceri, come Poggioreale e Secondigliano, dove complessivamente si sono fatti più di 5.000 tamponi e altre carceri dove il sistema di prevenzione e controlli è stato affidato alla buona volontà di Direttori di carceri e Direttori sanitari. Io sono abolizionista e allo stesso tempo realista. Sono idealista al punto di considerare giusto e sacrosanto un’amnistia, un indulto o una soluzione “politica” per coloro che hanno scontato decine e decine di anni di carcere, ma la Politica è sorda, pavida e cinica. Ed allora ribadisco che essere realisti significa battersi per la decarcerizzazione, per la depenalizzazione. Occorre limitare il numero dei reati che hanno una pena carceraria. Occorre abolire, abbattere, annullare, come volete voi, le leggi che riempiono le carceri italiane, o fanno tornare in carcere per residui pena brevi. Oggi sono detenute nelle carceri italiane ben 1.211 persone che devono scontare una pena inferiore ad un anno e ben 5.967 per una pena da uno a tre anni. Occorrono subito misure alternative alla pena di così lieve entità. In regione Campania al 30 giugno di quest’anno c’erano 753 detenuti condannati per pena residua fino ad un anno, mentre erano 733 da un anno a due. Attori diversi devono mettere in campo quindi risposte efficaci e repentine. Per fare questo è necessaria una pedagogia collettiva per tutti, compresa la politica. In fondo la pandemia ha messo in evidenza la disumanità del carcere. Basta con il populismo politico e il populismo penale. Si può fare tutto questo? Senza nessun pericolo sociale o senza allarmismi, nel rispetto della nostra Costituzione e di tutte le vittime, perché la pena non deve essere vendetta e non può essere contraria al senso di umanità e giustizia nel piano dei ristori dovuti alla Pandemia, non può mancare il risarcimento delle condizioni di detenzione particolarmente gravose subite durante la pandemia. Oggi, per noi Garanti, sarebbe giusto riconoscere ad ogni detenuto un giorno di liberazione anticipata per ogni giorno di detenzione scontato durante la pandemia. *Garante campano dei detenuti Rischio radicalizzazione nelle carceri. Intervista al cappellano di Rebibbia di Tatiana Santi sputniknews.com, 8 novembre 2021 Il Copasir ha recentemente risollevato il problema della radicalizzazione islamica nelle carceri italiane chiedendo urgentemente la creazione di una legge contro questo fenomeno. Una domanda cruciale da cui iniziare evidentemente sarebbe quella relativa alle condizioni in cui vivono i detenuti musulmani. Nonostante una presenza massiccia di detenuti musulmani nelle carceri italiane il numero di imam che hanno accesso all’interno degli istituti detentivi è irrisorio. È importante ricordare che il Dap nel 2015 ha firmato un protocollo con l’Unione delle Comunità islamiche italiane per permettere l’ingresso in carcere agli imam riconosciuti. Si tratta di 13 imam legati al protocollo e 43 ministri del culto islamico autorizzati al di fuori del protocollo. Come ha sottolineato in un’intervista a Sputnik Italia l’ex direttore del Dap (sezione detenuti e trattamento) Roberto Piscitello “bisogna fare in modo che tutti possano esercitare anche all’interno degli istituti di detenzione i propri diritti, fra i quali anche quello di manifestare il proprio culto. Se si agisse in questo senso sarebbe una buona forma di prevenzione della radicalizzazione”. Cerchiamo di capire in quali condizioni vivono i detenuti nelle carceri, in particolar modo i cittadini musulmani. Sputnik Italia ha raggiunto per un’intervista in esclusiva don Roberto Guernieri, cappellano di Rebibbia da 30 anni. Don Roberto, da quanti anni fa il cappellano a Rebibbia? Com’è iniziato questo percorso? Da trent’anni. Per Rebibbia mi ha chiesto il Cardinale Ruini nel giugno del 1991. Io sono sempre stato sulla strada, ho sempre combattuto con gli emarginati prima a Piazza Navona, poi alla Stazione Termini. Dal 1991 con i malati di AIDS e infine Rebibbia. Ci racconti in quali condizioni vivono i detenuti lei che conosce l’ambiente trovandosi lì in prima linea? Nonostante ci siano diverse opportunità di lavoro per loro sia come manutenzione della struttura, sia come torrefazione del caffè, sia come capacità di entrare nelle varie misure alternative organizzate dall’amministrazione la maggior parte delle persone vivono in una povertà estrema. A queste persone manca tutto, hanno bisogno anche delle cose principali, tante volte quando vengono arrestati e vengono prelevati così come sono senza possibilità di farsi un cambio. Cerchiamo di dare una mano noi procurando tutto ciò che serve dai vestiti ai prodotti per l’igiene. Li aiutiamo a contattare i propri cari tramite le videochiamate. Facciamo delle ricariche sui loro libretti. Hanno veramente bisogno di tutto. Qual è la percentuale dei detenuti stranieri? Rappresenteranno un 45%. Sono veramente tanti sia dai Paesi dell’Africa, del Sud America e soprattutto dai Paesi dell’Est. Veniamo al tema della radicalizzazione islamica nelle carceri. Secondo lei questo rischio è alto, Don Roberto, vista la presenza di numerosi stranieri? Il rischio c’è. Non saprei dire il livello di questo rischio. Noi siamo rispettosi, cerchiamo di dare una mano a tutti, il linguaggio della solidarietà è universale. Dal punto di vista religioso, ma soprattutto solidale noi diamo una mano a tutti, organizzando anche con la Comunità di Sant’Egidio la festa del Ramadan. Vedo che il rischio c’è però. La gravità della situazione dipende anche dai bisogni che hanno queste persone, loro forse più di tante altre. Da quello che ha visto i detenuti musulmani vengono seguiti da un imam oppure hanno altre figure di riferimento per trovare confronto? No, molto poco. Gli imam sono venuti soltanto raramente, soprattutto per la festa del Ramadan per organizzare incontri di preghiera. Non c’è una loro presenza costante. Per problemi linguistici, senza figure di riferimento e con gli affetti lontani evidentemente i detenuti musulmani si sentono abbandonati? Certamente. Si sentono soli. Attraverso il nostro agire di solidarietà, procurando le cose di cui hanno bisogno cerchiamo di andare oltre e di capire la loro storia. È molto difficile tante volte però andare oltre il bisogno che manifestano. Quale appello vorrebbe lanciare in chiusura? Lancio un appello di vivere da parte di tutte le istituzioni una maggiore attenzione verso questi fratelli, sono gli ultimi degli ultimi. Tutti hanno bisogno di una mano per andare avanti. Nessuno si giri, volti le spalle. Sono persone abbandonate che non hanno voce in capitolo. Hanno bisogno di essere ascoltate, accompagnate e capite. È difficile per i nostri fratelli italiani, figuriamoci per gli stranieri. Riforma Cartabia. Il passo avanti sulla giustizia e la fermezza del governo di Carlo Nordio Il Messaggero, 8 novembre 2021 Con un Decreto Legislativo di pochi giorni fa, il Governo ha dato attuazione alla Legge del 22 aprile scorso che, recependo una direttiva europea, mira a rendere più effettiva la presunzione di innocenza prevista dalla nostra Costituzione. Per realizzare lo scopo, è prevista una limitazione da parte dei Pm e della Polizia Giudiziaria nella divulgazione degli atti dell’inchiesta, ed è imposta una particolare attenzione nell’uso delle parole quando si riferiscono alla persona che ne è oggetto. Badate - dice in sostanza la legge - a non chiamare colpevole chi non sia stato definitivamente condannato. Nel Consiglio Superiore della Magistratura, investito di un parere preventivo, è intervenuta una novità. Due membri si sono opposti suonando il consueto mandolino piagnucoloso del bavaglio agli inquirenti e alla stampa libera. Ma la novità non sta in quello che hanno detto loro. Sta in quello che hanno detto, o non hanno detto, gli altri componenti. Salvo il rilievo di qualche criticità tecnica, tre si sono astenuti e tutti gli altri hanno votato a favore. Un miracolo. A prima vista, di questa Legge si potrebbe dire quello che si disse in altre più importanti circostanze: ciò che vi è di buono non è nuovo, e ciò che vi è di nuovo non è buono. In effetti, i saggi princìpi in essa enunciati a tutela dell’indagato erano già consacrati in precedenza: nella Costituzione, con il citato artico 27; nell’ordinamento giudiziario, che devolve al solo Procuratore Capo - o a un suo delegato - il potere di interloquire con la stampa; e infine dai codici penale e procedurale che definiscono il segreto istruttorio e ne sanzionano le violazioni. La legge in questione ha inteso ribadire e integrare queste clausole per la semplice ragione che erano sempre state trasgredite. Vedremo se funzionerà. Quanto alle novità non buone, esse consistono nel sovraccarico di lavoro per gli uffici giudiziari, essendo previsti vari tipi di ricorso, senza risorse aggiuntive. La norma di chiusura finanziaria dice infatti sostanzialmente: arrangiatevi con quello che avete. Ma le cose non stanno proprio così. Anche questa normativa, come la precedente riforma Cartabia, è un piccolo passo per la tutela della dignità del cittadino ma un balzo gigantesco sotto il profilo giuridico e politico. È un piccolo passo, perché gli investigatori, e i Pm in particolare, continueranno a disporre di mezzi ben più aggressivi delle conferenze stampa per delegittimare o - come disse una volta autorevolmente l’on. D’Alema - “sputtanare” i cittadini. Usando, ad esempio l’arma insidiosa delle intercettazioni (telefoniche, ambientali, direzionali e ora anche con il trojan) potranno selezionare conversazioni compromettenti e bersagli opportuni. E questo potrà avvenire sia in modo anomalo, non vigilando sulla loro custodia e consentendone di fatto la consegna a terzi, sia nella più perfetta legittimità: sarà sufficiente che nelle richieste di custodia cautelare - o in quelle di altro tipo - vengano trascritti i brogliacci della polizia giudiziaria nella parte che fa comodo, ed entro poche ore finiranno sui giornali. E poiché la demenziale e vergognosa disciplina attuale delle intercettazioni non è stata riformata, tutto resterà più o meno come prima. Ma perché allora è un grande balzo? Perché dimostra, anche qui per la prima volta, una coraggiosa iniziativa della politica nei confronti di una magistratura che nell’ultimo quarto di secolo ne ha usucapito l’autorità, con una pressione continua, ininterrotta e pubblica, anche se non sempre pacifica. Una pressione subita, e talvolta assecondata, da una classe dirigente intimidita e codarda. Orbene, una legge simile avrebbe trovato fino a ieri nel Csm un’opposizione feroce, come fu quella riservata al ministro Castelli quando riformò timidamente l’ordinamento giudiziario. E qui sorge la domanda: l’adesione del Csm è avvenuta perché la politica è diventata più forte, o perché la magistratura è diventata più debole? Risposta: per entrambe le ragioni. Da un lato l’autorevolezza, e l’intangibilità, del binomio Draghi-Cartabia, hanno confermato il “prendre ou laisser” che contrassegna quasi tutti i recenti provvedimenti. E dall’altro la magistratura, o meglio la parte più vociferante di essa, è così decaduta nella stima popolare e divisa al suo interno che la sua forza interdittiva è quasi azzerata. Il Csm, che dopo lo scandalo Palamara ha rischiato di finire come la sinfonia degli addii di Haydn, dove poco a poco se ne vanno tutti, deve risolvere scottanti questioni: al proprio interno, con il caso Ardita-Davigo, e all’esterno con la Procura di Milano. Di conseguenza, non può permettersi di entrare in conflitto con un governo tanto autorevole quanto determinato, e quindi ha votato quasi all’unanimità una legge un tempo invisa. Ed è questo è il grande balzo della politica verso la riappropriazione delle proprie funzioni. Speriamo solo che sia il primo, e non l’unico. Giustizia, l’Associazione nazionale magistrati si divide sulla riforma elettorale del Csm di Francesco Grignetti La Stampa, 8 novembre 2021 Se c’è un argomento che scatena davvero le passioni dentro la magistratura italiana, queste sono le elezioni al Csm. Il Consiglio superiore, organo di autogoverno delle toghe, là dove si decidono le carriere e si celebra la giustizia disciplinare, come ha raccontato lo scandalo Palamara, è il cuore del potere giudiziario. Ora, è in avvicinamento una riforma del Csm che a breve sarà licenziata dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. La riforma cambierà anche il sistema elettorale per approdare al Csm. E qui, al momento di trovare unità e proporre una loro ipotesi alla politica, ieri i magistrati dell’Anm si sono spaccati ferocemente. Le famose correnti si sono confrontate. Di fatto si sono creati due schieramenti, pro o contro l’ipotesi su cui più lavora il governo (quella suggerita dal comitato di saggi presieduto dal costituzionalista Massimo Luciani). Da una parte, favorevoli, i centristi di Unicost e i progressisti di Area. Dall’altra, i conservatori di Magistratura indipendente, del gruppo Autonomia & Indipendenza che un tempo si rifaceva a Piercamillo Davigo, dei combattivi Articolo 101. Ma i due schieramenti alla fine si sono affondati a vicenda. Quelli di Articolo 101 in verità preferirebbero il sorteggio a qualsiasi elezione, perché convinti che non c’è altro modo per scardinare la presa delle correnti sugli appartenenti alla magistratura italiana, e magari perché sono gli ultimi arrivati e contano su piccoli numeri. Ma questa idea del sorteggio, che in Parlamento piace assai a tutto il centrodestra, e forse anche a qualcuno di centro e di centrosinistra, in magistratura è considerata un’eresia. Fatto sta che il meccanismo della commissione Luciani (il cosiddetto voto singolo trasferibile) ha diviso verticalmente i magistrati. E la proposta di uscire dall’impasse con un referendum interno, avanzata anche questa da Articolo 101 e da A&I, è stata bocciata da tutti gli altri. Risultato: impasse assoluta. L’Anm ne dovrà parlare in un’altra occasione. Anche se il tempo corre, perché il governo si esprimerà nelle prossime settimane e a gennaio il tema sarà in votazione in Parlamento. L’occasione dei referendum sulla giustizia di Michele Gelardi opinione.it, 8 novembre 2021 Possiamo ancora sperare che l’Italia imbocchi la strada dell’autentico liberalismo, il cui presupposto necessario è il reciproco riconoscimento di legittimità delle forze politiche antagoniste? Fin quando l’avversario politico sarà demonizzato come “nemico”, colpevole a priori di tutte le possibili nefandezze, e l’ostilità travalicherà i confini del confronto programmatico, giungendo nelle aule dei tribunali, la strada non potrà dirsi imboccata. In Italia la delegittimazione della destra comincia sotto le spoglie della “impresentabilità” culturale, ma finisce poi inevitabilmente in un capo d’imputazione, che dà vita a uno dei tanti “processi del secolo”. L’elenco sarebbe lungo e noioso; si dovrebbe risalire alla “destituzione” del presidente Giovanni Leone, passare per Giulio Andreotti, Calogero Mannino, colpevoli di nulla, ma ugualmente “incapacitati” per via giudiziaria, a esercitare il loro ministero politico, e giungere infine ai casi odierni. Attenendoci alle vicende dell’oggi, osserviamo che tutti i leader di centrodestra risultano “azzoppati” per via giudiziaria o almeno culturalmente delegittimati, in attesa di azzoppamento giudiziario prossimo venturo. Silvio Berlusconi è stato condannato da un tribunale, in composizione straordinaria, presieduto da un giudice, che non poteva essere, né tanto meno apparire, super partes, avendo espresso in più occasioni la sua immensa “stima” per quella “chiavica”; senza dimenticare che il leader di Forza Italia, mai processato prima, divenne improvvisamente “imputato a vita” in mille processi, dopo la sua “discesa in campo”. Matteo Salvini ha potuto sperimentare di persona la particolare predilezione dei tribunali italiani per gli imputati, appartenenti allo schieramento politico di centrodestra, essendo sottoposto in assoluta solitudine a un inverosimile processo penale, per una scelta politica condivisa da tutto il Governo. Il presidente del Consiglio è stato esentato dalla faticosa incombenza di andare in tribunale a difendersi, perché evidentemente in quelle riunioni del Consiglio dei ministri dormiva. Il nostro sleepy Giuseppi, a somiglianza del più moto sleepy Joe, appartiene di diritto alla categoria dei “presentabili”, sicché non è proprio il caso di farlo sedere accanto a un soggetto “impresentabile”, ancorché entrambi abbiano condiviso la responsabilità politica e giuridica del presunto “sequestro di persona”. Giorgia Meloni non ha avuto ancora l’onore di sedere tra i banchi degli imputati, ma c’è tempo. Non mancano nei suoi confronti le incolpazioni politiche, che domani potrebbero evolversi in accuse penali. Non è stato ancora formulato a suo carico un capo d’imputazione di “ricostituzione del disciolto partito fascista”, ma siamo a un di presso. È già iniziato il tiro al bersaglio, che potrebbe azzoppare domani, ma in ogni caso delegittima fin da oggi, il destinatario. Inoltre, per imboccare la via della nostra libertà è necessaria un’ulteriore “legittimazione”, culturale e giuridica. Il Parlamento e il Governo, il potere legislativo e il potere amministrativo, devono svolgere il loro compito in serenità, senza la spada di Damocle del fatale “avviso di garanzia”, che garantisce una sola cosa: la paralisi del “garantito”. Oggi basta un semplice “avviso” per delegittimare il politico di turno, giacché per la sua integrale legittimazione non è sufficiente il consenso elettorale, ma è molto più importante il gradimento dell’anonimo sinedrio dei “giudici”, all’interno del quale siedono in posizione di preminenza coloro che giudici non sono, ma esercitano un ufficio ben diverso dal giudicare, ossia l’ufficio di accusare, proprio del pubblico ministero. Poco alla volta, nel corso della Prima Repubblica, e dopo la sciagurata abrogazione dell’autorizzazione a procedere, con la velocità di una valanga, si è creato un pericoloso squilibrio tra i poteri costituzionali dello Stato, a tutto vantaggio del cosiddetto potere giudiziario, che sfugge a ogni tipo di controllo ed esercita una supremazia de facto, con effetti paralizzanti sull’attività di governo della res publica, a tutti i livelli (nazionale, regionale, comunale). Sottoposta al ricatto morale dell’”avviso”, la “politica” in quanto tale è divenuta impotente e rifugge dall’assunzione di responsabilità, chinandosi sovente alla “tecnica”. E i “tecnici”, chiamati a sostituire i politici, invocano un loro speciale scudo immunitario, se risulta insufficiente il cordone protettivo, nazionale e sovranazionale, dei “poteri forti” che non hanno bisogno del consenso popolare. Se sono vere queste premesse, ne discende necessariamente una conseguenza: l’occasione storica per imboccare la via dell’autentico liberalismo è offerta dalla risposta che il popolo italiano darà nella prossima primavera ai quesiti referendari sulla giustizia. La vittoria dei sì non potrà avere l’effetto miracolistico di riequilibrare immediatamente i poteri dello Stato, né di sottrarre al ricatto morale dell’”avviso” i politici di ogni sorta, e massimamente quelli di centrodestra, stranamente più graditi alle patrie galere e ai tribunali italiani, ma vivaddio potrà innescare un circolo virtuoso per le due legittimazioni decisive per le sorti della democrazia italiana: quella degli “impresentabili” di destra, contrapposti ai “virtuosi” di sinistra; quella dei politici tout court, investiti dal consenso elettorale, contrapposti agli “incontrollati” controllori della legalità e ai “tecnici” della nomenklatura, non investita da alcun consenso popolare. Stupisce che sia sfuggito ai tanti maestri del presunto liberalismo, parolaio e inclinato in direzione sinistrorsa, l’importanza di questo snodo, che può rivelarsi decisivo per la storia della nostra Repubblica; ed è sfuggita, chissà perché, la paternità politica dell’iniziativa referendaria. Riconoscendo la primazia storica al Partito Radicale, occorre prendere atto che la più grande battaglia liberale - autenticamente liberale - degli ultimi anni è stata promossa e combattuta dalla Lega del famigerato Salvini, “sovranista”, poco “europeista”, “sequestratore” di profughi e, perché no, “antidemocratico”. I tanti cantori di questo immenso “coro” del pensiero unico non si avvedono che in Europa non vige lo squilibrio dei poteri che affligge l’Italia; come non vige la stessa demonizzazione dell’avversario politico; la stessa succubanza della politica innanzi alla magistratura; la spada di Damocle della carcerazione preventiva. Uno sguardo all’Europa dovrebbe far loro capire che difendere gli interessi nazionali non equivale a rinnegare la coesione europea (se così fosse, il primo sovranista sarebbe Emmanuel Macron) e le “unicità” italiane, che ci mettono fuori dall’Europa, sono proprio quei privilegi tecnocratici di tutte le nomenklature (prima fra tutte la magistratura), cui tutti i coristi sono particolarmente affezionati. È possibile che questi coristi abbiano capito ben poco oppure, avendo capito molto e avendo in odio la libertà degli uomini, osteggino le autentiche battaglie liberali? Ed è possibile che infine la più grande battaglia liberale in Italia sia stata capeggiata proprio da Salvini? Presunzione di innocenza: tutte le modifiche al codice di procedura penale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2021 Gli interventi previsti dal Dlgs approvato ieri in Consiglio dei ministri aggiungono un articolo e ne modificano altri. Il Consiglio dei ministri, in ossequio alla normativa europea, ha approvato ieri lo schema di Dlgs sul rispetto del principio della presunzione di innocenza. Si tratta di un rilevante cambio di passo che interviene anche sul codice di procedura penale inserendo l’articolo 115-bis (Garanzia della presunzione di innocenza) e modificando l’articolo 314, comma 1, (aggiungendo un periodo); l’articolo 329, comma 2, (inserendo una parola); l’articolo 474 (aggiungendo il comma 1-bis). “È stato un lungo percorso - ha commentato il deputato di Azione Enrico Costa - partito con un mio emendamento alla legge di delegazione europea, per recepire la direttiva europea sulla presunzione d’innocenza”. “Dopo il sì praticamente unanime del Parlamento - prosegue Costa - il Governo e la Ministra Cartabia si sono impegnati per dare attuazione alla delega, dialogando con le commissioni giustizia di Camera e Senato. Ora occorre vigilare affinché quello che è uscito dalla porta - le inchieste spettacolo, il marchio di colpevolezza sugli indagati, i nomi alle inchieste, le conferenze stampa di magistrati e forze di polizia - non rientri dalla finestra”. Ma quali sono esattamente le modifiche al codice di procedura penale introdotte dal Decreto legislativo recante “Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, in attuazione della delega di cui all’articolo 1 della legge 22 aprile 2021, nr. 53 (Ministro della giustizia)”. Ebbene il testo approvato (6 articoli in tutto) prevede all’articolo 4 (Modifiche al codice di procedura penale), con riferimento alle possibili violazioni della presunzione di innocenza a mezzo di “decisioni” dell’autorità giudiziaria, l’inserimento nelle disposizioni generali sugli atti del procedimento, di cui al Titolo I del Libro III del codice di rito, dell’articolo 115-bis (lettera a)). L’articolo, “Garanzia della presunzione di innocenza”, riproduce nel contesto normativo del codice, il divieto di riferimenti pubblici alla colpevolezza in relazione ai “provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato”, dal quale vengono esclusi - conformemente a quanto previsto dalla direttiva - gli “atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato” (art. 115-bis, comma 1). Si precisa inoltre che nei provvedimenti che, pur non essendo diretti alla decisione sul merito della responsabilità penale dell’imputato, presuppongano comunque “la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza”, l’autorità giudiziaria sia tenuta a “limita[re] i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento” (comma 2). I rimedi - Per quanto concerne i rimedi, invece, si è riconosciuto all’interessato il diritto di richiedere la correzione del provvedimento, nei dieci giorni successivi alla conoscenza di esso (comma 3). Diversamente, dunque, da quanto stabilito in via generale dall’articolo 130 Cpp per la correzione degli errori materiali, in tal caso, oltre a replicarsi lo stringente termine perentorio di quarantotto ore già imposto dall’articolo 2, comma 3, del decreto a tutte le “autorità pubbliche” per la rettifica delle “dichiarazioni”, si è previsto che sull’istanza di correzione sia in ogni caso competente a provvedere il giudice che procede, anche quando il provvedimento sia stato adottato dal pubblico ministero. E si è altresì precisato che, nel corso delle indagini preliminari, la competenza spetti al Gip. La decisione andrà assunta nelle forme del decreto motivato, da notificarsi all’interessato e alle altre parti e comunicato al pubblico ministero. Nella formulazione originaria era stato previsto che avverso il decreto fosse proponibile, a pena di decadenza, nei dieci giorni successivi, opposizione innanzi al medesimo giudice che l’aveva adottato, il quale avrebbe dovuto provvedere in camera di consiglio a norma dell’articolo 127 cod. proc. pen. (comma 4). Le Commissioni Giustizia tuttavia hanno posto una duplice condizione, volta l’una a introdurre “un procedimento più snello per la correzione dell’errore in riferimento alla salvaguardia della presunzione d’innocenza”, l’altra ad attribuire “all’ufficio del giudice che lo ha emesso” (anziché “al giudice che lo ha emesso”) la competenza a decidere sull’eventuale opposizione alla decisione relativa all’istanza di correzione. La Relazione al decreto, spiega dunque, che è parso opportuno, al fine di rendere più completa la disposizione, prevedere che il rimedio sia proponibile innanzi al presidente del tribunale o della corte, salvi i casi di incompatibilità. Riguardo lo “snellimento” poi è stata eliminata, per l’opposizione, la previsione dell’udienza camerale partecipata, prevedendosi che essa venga decisa “con decreto senza formalità di procedura”. Facoltà di non rispondere - Nell’intervento sull’articolo 314 Cpp, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione (art. 4, comma 1, lettera b), è stata recepita la condizione posta dalle Commissioni Giustizia di Camera e Senato. In particolare, la Commissione ha richiesto che “quanto all’articolo 7 della direttiva sul diritto al silenzio e sul diritto a non autoincriminarsi, sia specificato all’articolo 314 del Cpp che la condotta dell’indagato che in sede di interrogatorio si sia avvalso della facoltà di non rispondere non costituisce, ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, elemento causale della custodia cautelare subita”. La condizione, si legge nella Relazione tecnica, è finalizzata a neutralizzare il consolidato orientamento giurisprudenziale, ritenuto in contrasto con il diritto al silenzio riconosciuto dalla direttiva, secondo il quale “[i]n tema di equa riparazione per l’ingiusta detenzione, la condotta dell’indagato che, in sede di interrogatorio, si avvalga della facoltà di non rispondere, pur costituendo esercizio del diritto di difesa, può assumere rilievo ai fini dell’accertamento della sussistenza della condizione ostativa del dolo o della colpa grave poiché è onere dell’interessato apportare immediati contributi o riferire circostanze che avrebbero indotto l’Autorità Giudiziaria ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare” (sez. IV, Sentenza n. 24439 del 27/04 - 30/05/2018, Stamatopoulou, rv. 273744 - 01). Si è quindi provveduto ad aggiungere un ulteriore periodo al comma 1 dell’articolo 314, comma 1, in cui si prevede che “[l]’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo”. Potere di desegretazione - A seguito poi di uno specifico rilievo della Commissione europea si è intervenuti sull’articolo 329, comma 2, del codice, al fine di precisare che il potere di “desegretazione” sia esercitabile solo allorquando risulti “strettamente” necessario ai fini della prosecuzione delle indagini, così replicando la puntuale indicazione contenuta nell’articolo 4, paragrafo 3, della direttiva (articolo 4, comma 1, lettera c) b, dello schema di decreto). Misure di coercizione in udienza - È stato infine modificato l’articolo 474 del codice, con la specifica finalità di chiarire che l’eventuale adozione di misure di coercizione fisica nei confronti dell’imputato in corso di processo, per l’ipotesi in cui ricorra il pericolo di fuga o di consumazione di atti di violenza, debba costituire oggetto di specifica valutazione da parte del giudice. Ed anche se la direttiva non lo impone, si è previsto, al nuovo comma 1-bis, che tale valutazione sia formalizzata dal giudice in un’apposita ordinanza, da pronunciarsi in udienza nel contraddittorio delle parti e da revocarsi allorquando le anzidette esigenze di cautela risultino cessate. Resta invece pacifico che, anche in caso di adozione dell’ordinanza, “è comunque garantito il diritto dell’imputato e del difensore di consultarsi riservatamente”, la nuova disposizione consente ora che, a tal fine, possano essere impiegati anche “idonei strumenti tecnici”, laddove disponibili (art. 4, comma 1, lettera d), dello schema). Nuove regole su minori e web, la sfida di Macina di Valentina Stella Il Dubbio, 8 novembre 2021 Tra i meriti del governo va ascritta l’attenzione per le conseguenze relazionali della pandemia. Lo segnala la rinnovata attenzione del ministro Roberto Speranza per il diritto alla salute mentale, a cui fa da pendant il tavolo per la tutela dei minori che accedono ai social presieduto a via Arenula da Anna Macina. Obiettivo della sottosegretaria: individuare contromisure e progetti utili per gestire la vita digitale di bambini e giovanissimi, spesso troppo precoce e pervasiva. Una condizione che il covid ha degenerato in nuova dipendenza. “I bambini non possono essere lasciati da soli in rete, servono iniziative per limitare i rischi e per coinvolgere attivamente le famiglie. Il mondo del digitale corre veloce, dobbiamo stare al passo”, ha detto Macina al termine della prima riunione, tenuta giovedì scorso a ministero della Giustizia. Sono stati ascoltati Nunzia Ciardi, vicedirettore dell’Agenzia per la Cybersicurezza nazionale, Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro, Brunella Greco e Giusy D’Alconzo di Save The Children. Si è trattato della prima giornata di audizioni, con cui si punta ad approfondire i tre ambiti individuati nel “Tavolo Macina”: l’età di accesso dei minori ai social e i relativi sistemi di controllo, utilizzo e sfruttamento dell’immagine dei minori in rete, le campagne di sensibilizzazione rivolte alle famiglie. Oltre al dicastero di via Arenula, l’iniziativa coinvolge tre autorità garanti: Privacy, Infanzia e adolescenza, Agcom. “Ringrazio tutti i partecipanti”, ha detto la sottosegretaria alla Giustizia, “i lavori procedono spediti, abbiamo anche già avviato un confronto con le principali piattaforme digitali sulla base di un questionario molto specifico, a cui risponderanno”. Si tratta di Google, chiamata in causa per Youtube, Facebook, che detiene anche Instagram, e Tik tok. Colossi che a dicembre, insieme con Macina, potrebbero essere chiamati a un confronto diretto e a contribuire alla stesura di un vero e proprio codice. Tra i nodi da sciogliere, la necessità di rendere effettiva la soglia anagrafica per l’accesso ai social, fissata a 13 anni ma quasi sempre disattesa. Le soluzioni normative, sulla cui forma si deciderà a breve, potrebbero riguardare anche un “diritto all’oblio” per chi vuole veder rimosse dalle piattaforme le immagini postate da familiari all’epoca in cui era bambino, Tutela che in Francia, ad esempio, è già prevista. Legali pronti alla sfida dei diritti umani: l’obiettivo di “Help” che coinvolge il Cnf di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 8 novembre 2021 Al via oggi il corso per gli avvocati che vogliono patrocinare alla Corte Europea dei diritti umani: iniziativa di Consiglio d’Europa e istituzione forense. Avvocati e avvocate con un approccio sempre più internazionale e conoscenze sempre più specialistiche. A queste due esigenze risponde il programma del Consiglio d’Europa denominato Help (Human rights education for legal professionals). Un ruolo da protagonista lo svolge il Consiglio nazionale forense, che attraverso la Commissione centrale per l’accreditamento della formazione e la delegazione italiana a Bruxelles partecipa alle attività di formazione dei professionisti in materia di diritti umani. I corsi online, in lingua italiana e della durata di circa tre mesi, iniziano proprio oggi, 8 novembre, e verteranno sui seguenti temi: “Etica per giudici, procuratori e avvocati”, “Imprese e diritti umani”, “Violenza contro le donne e violenza domestica”. Ai partecipanti sarà offerta una panoramica del quadro giuridico internazionale ed europeo e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La sessione introduttiva servirà a presentare le caratteristiche dei corsi e fornirà alcune informazioni sull’utilizzo della piattaforma e-learning sulla quale si svilupperà tutta l’attività formativa, sotto la supervisione di un tutor. Al termine del corso gli avvocati otterranno i certificati emessi dal Consiglio d’Europa in collaborazione con il Cnf. Gli obiettivi di “Help” - Ma quali sono gli obiettivi del programma Help? Prima di tutto sensibilizzare e supportare gli Stati membri del Consiglio d’Europa affinché a livello nazionale la Convenzione europea dei diritti dell’uomo possa trovare piena applicazione. Tutto ciò in conformità alla Raccomandazione (2004)4 del Comitato dei Ministri, alle Dichiarazioni di Brighton del 2012 e di Bruxelles del 2015. Un altro ambizioso obiettivo che si prefigge Help è quello di dare appunto centralità al lavoro degli operatori del diritto (avvocati, giudici e pubblici ministeri), rafforzando così l’applicazione della Convenzione Edu in tutti i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa, con un’offerta formativa di qualità. Da qui l’esigenza di un continuo aggiornamento sugli standard e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Le testimonianze dei legali - Anche gli avvocati italiani saranno impegnati nelle attività di formazione di Help in procinto di partire, consci della grande opportunità offerta. “Non è la prima volta - dice al Dubbio l’avvocata Chiara Dolcini del Foro di Milano - che partecipo alle tappe formative del programma Help. Ho sempre trovato gli argomenti proposti molto peculiari, spesso sottovalutati e comunque delicati sia per tematiche sia per aree di interesse. Partecipando attivamente ai corsi, soprattutto quelli presentati con l’assistenza di un tutor, ho riscontrato una grande preparazione degli argomenti, una vastità di proposte di interazione con i fruitori e un livello di coinvolgimento molto approfondito”. Dolcini è membro del Ccbe-European Lawyers, con sede a Bruxelles, e ritiene che l’alta formazione per gli avvocati sia indispensabile a maggior ragione in questo periodo. “Una formazione di carattere sempre più internazionale - evidenzia - è fondamentale per poter svolgere la professione in Italia. Ormai si sta andando negli ultimi anni sempre più verso una professione internazionalizzata, grazie anche all’avvento delle nuove tecnologie e mezzi di comunicazione anche social, che ci permettono di comunicare con tutto il mondo avanzato in un click, partecipando a corsi, udienze, incontri professionali, webinar, in un modo che solo vent’anni fa era considerato fantascienza. Negli ultimi due anni tale direzione ha ricevuto una forte spinta anche dal periodo pandemico che stiamo vivendo, ma in ogni caso già nell’ultimo decennio le basi per una professione senza confini erano state poste, per poi essere approfondite, migliorate e contestualizzate nella nostra storia più recente”. Il Cnf svolge un ruolo rilevante nell’incentivare l’alta formazione. “Sono venuta a conoscenza -aggiunge Dolcini - di questa innovativa possibilità offerta dal programma Help attraverso una comunicazione diretta da parte del Cnf. Sono convinta, e lo sarò sempre, di aver effettuato la scelta migliore nel momento in cui ho aperto il link di riferimento e mi si è aperto un mondo sugli argomenti trattati nei vari moduli proposti. Sono stata attratta soprattutto da quelle tematiche che riguardano la mia attività più da vicino. Mi riferisco alla tutela dei diritti delle donne vittime di violenza, di cui mi occupo tra le altre materie, alla tutela dei diritti delle minoranze, all’etica professionale per i ruoli nel mondo del diritto, alla tutela del diritto alla salute. Ma anche a come poter essere un legale preparato e specializzato per le società proprie clienti”. “Un impegno doveroso” - I corsi del programma Help sono un’occasione di crescita professionale e umana. Di questo è convinta l’avvocata Mara Giuseppina Bottone, con studio legale a Genova. “Ho incontrato - afferma - colleghe e colleghi molto preparati e il confronto è proseguito anche dopo il singolo corso. Il motivo che mi ha spinta a partecipare al corso sulla “Violenza contro le donne e violenza domestica” è legato al forte interesse nei confronti di questa materia sia come avvocata che come donna. In Italia solo nel 2021 sono stati riportati più di cinquanta casi di femminicidio. Purtroppo, viviamo ancora in una società con un forte retaggio maschilista. Studiare e approfondire le strategie per difendere i diritti delle donne è per me un dovere che va al di là dell’obbligo deontologico”. “Nel 2017 ho partecipato al corso “Lotta al razzismo, alla xenofobia, all’omofobia e transfobia”. È stata l’iniziativa più vicina alle materie affrontate nella vita professionale, per cui è stato facile trovare una rapida sintonia con tutti i partecipanti. Il secondo corso, quella di Bioetica, è stato il più impegnativo poiché molti argomenti erano per me completamente nuovi, per esempio il fine vita. Il corso è stato coordinato in maniera eccellente dal tutor e collega Giovanni Pansini che ha saputo coinvolgere tutti i partecipanti e ci ha fatto lavorare sodo con la redazione di un articolo di approfondimento. Il Consiglio nazionale forense da sempre è attento al tema dei diritti umani. Non solo con il Consiglio d’Europa, ma anche con altri organismi si fa promotore di valide iniziative volte a promuovere la cultura dei diritti fondamentali”. Secondo l’avvocata Bottone, la formazione europea è la sfida più impegnativa che i legali saranno chiamati ad affrontare nel futuro prossimo. “L’aggiornamento - commenta - è uno degli strumenti per poter sostenere queste sfide. Sono una cittadina europea, per me è doveroso essere aggiornata sulle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Il rispetto dei diritti umani, la democrazia, lo stato di diritto non sono qualcosa che si conquistano una volta e per sempre. La battaglia per i diritti umani è quotidiana, non possiamo permetterci il lusso di abbassare la guardia. L’applicazione del diritto dell’Unione europea e del diritto internazionale fatica ancora ad essere riconosciuta nella vita di tutti i giorni. Penso a molti uffici sia amministrativi che giudiziari, che ancora stentano a riconoscere la supremazia del diritto dell’Unione europea sul diritto nazionale”. Da Torreggiani a Contrada: per la Cedu peggio dell’Italia solo Russia e Turchia di Valentina Stella Il Dubbio, 8 novembre 2021 Dal 1959 al 2020 il nostro Paese ha subìto 2.427 condanne da parte dei giudici di Strasburgo. Oltre mille hanno riguardato i ritardi delle sentenze “domestiche” e il diritto a un giusto processo. Sono diverse le sentenze della Cedu che hanno riguardato il nostro Paese. Secondo le statistiche pubblicate sul sito ufficiale, dal 1959 (anno di istituzione) al 2020 l’Italia ha subìto 2427 giudizi, di cui 1857 hanno riscontrato almeno una violazione. Di questi 1202 hanno riguardato la lunghezza dei processi e 290 il diritto a un giusto processo. Peggio di noi sono Russia e Turchia. Vediamone alcune. Nel 2013 ci fu l’importantissima sentenza Torreggiani. Alcuni detenuti degli istituti penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza avevano adito la Cedu lamentando che le loro rispettive condizioni detentive costituissero trattamenti inumani e degradanti ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione. Essi avevano denunciato la mancanza di spazio vitale nelle rispettive celle (nelle quali avrebbero avuto a disposizione uno spazio personale di 3 metri quadrati), l’esistenza di gravi problemi di distribuzione di acqua calda e una insufficiente aerazione e illuminazione delle celle. La Corte accolse il ricorso, prendendo atto che l’eccessivo affollamento degli istituti di pena italiani rappresentava un problema strutturale dell’Italia e decise di applicare al caso di specie la procedura della sentenza pilota, ordinando all’Italia di rimediare al sovraffollamento nel giro di un anno. Nel 2015 arriva la famosa sentenza, in materia di legalità dei reati e delle pene, sul caso di Bruno Contrada, ex dirigente della Polizia di Stato, condannato nel 2007 in via definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. La Cedu ha condannato lo Stato Italiano per la violazione dell’art 7 della Convenzione in quanto al momento della condanna il reato non era ancora previsto dal nostro ordinamento. Nello stesso anno la Corte interviene nel caso del signor Cestaro che, invocando in particolare l’articolo 3, relativo alla proibizione della tortura, lamentava di essere stato vittima di violenze e sevizie al momento dell’irruzione delle forze di polizia nella scuola Diaz, durante il G8 di Genova. Non solo ebbe ragione ma la Cedu invitò il nostro Paese a dotarsi di una norma specifica sul reato di tortura. Nel dicembre 2016 la Grande Camera della Cedu sul caso Khlaifia v. Italia confermò la condanna del nostro Paese per il trattenimento illegittimo dei cittadini stranieri (violazione art. 5) nel centro di accoglienza di Lampedusa e sulle navi divenute centri di detenzione in quanto non vi era alla base un provvedimento di un giudice che legittimasse tale detenzione. Inoltre la mancanza di un provvedimento che legittimasse la detenzione e la privazione della libertà ha reso di fatto impossibile un ricorso effettivo (violazione art. 13) per contestare eventuali violazioni. Un’altra decisione di rilievo in materia carceraria è stata quella del caso Viola c. Italia con cui la Cedu nel 2019 negò la compatibilità dell’ergastolo ostativo con l’art. 3 della Convenzione, laddove non consente mai misure di affievolimento della restrizione carceraria e, in prospettiva, di liberazione anticipata, in mancanza della decisione del detenuto di collaborare con la giustizia. Nello stesso anno arrivò dinanzi ai giudici europei anche il caso Amanda Knox, in materia di diritto a un processo equo. Il nostro Paese fu condannato per violazione degli articoli 3 e 6 avendo negato alla ragazza l’assistenza linguistica inadeguata e la presenza di un difensore durante l’interrogatorio della polizia e per la mancanza di effettive indagini su asserite percosse durante l’interrogatorio. In materia di libertà di espressione, la Cedu si è espressa sempre nel 2019 sul caso di Alessandro Sallusti, allora direttore del quotidiano Libero, condannato a un anno e due mesi di reclusione, per diffamazione e per omesso controllo su un articolo che recava falsità in danno di un magistrato. La Corte gli diede ragione perché la pena detentiva per l’attività giornalistica viene considerata un rimedio estremo i cui presupposti nel caso di Sallusti non furono ravvisati. Sempre in tema di libertà di stampa, nel marzo 2020, nel ricorso promosso da Renzo Magosso e Umberto Brindani, nel 2004 rispettivamente giornalista e direttore responsabile del periodico Gente, la Cedu ha riscontrato la violazione dell’art. 10 (libertà di espressione). Come ha reso noto il ministero della Giustizia, “il tema della causa riguardava la pubblicazione di un articolo, intitolato “Tobagi poteva essere salvato”, sulla vicenda dell’omicidio di Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera ucciso il 28 maggio 1980 da un commando terroristico di estrema sinistra. Il contenuto del pezzo giornalistico aveva provocato la reazione di due ufficiali dei Carabinieri che si erano sentiti diffamati”. I due giornalisti furono condannati in via definitiva. Per la Cedu la sentenza adottata in sede nazionale si è tradotta “in una ingerenza sproporzionata del diritto alla libertà di espressione degli interessati, non necessaria in una società democratica”. Il 27 maggio di quest’anno la Cedu ci ha condannati per aver violato i diritti di una presunta vittima di stupro per una sentenza che conteneva passaggi che non hanno rispettato la sua vita privata e intima. In particolare la Corte ha ravvisato la violazione del diritto alla vita privata nelle considerazioni irrispettose della dignità della ragazza, presenti nelle motivazioni della sentenza d’appello che ha assolto gli imputati. Ad agosto, inoltre, la Cedu ha depositato la sentenza relativa al ricorso, presentato da Radicali Italiani e Marco Pannella, contro l’Italia riguardante l’interruzione dal 2008 delle tribune politiche nel periodo non elettorale. È stata riconosciuta la violazione dell’art. 10 in quanto la Lista Pannella “era stata assente da tre programmi televisivi e si era trovata, se non esclusa, almeno altamente emarginata nella copertura mediatica del dibattito politico”. Recentissima è invece la decisione Succi c. Italia del 28 ottobre con cui la Cedu ha riscontrato la violazione dell’art. 6 della Convenzione per l’eccessivo formalismo dei criteri di redazione dei ricorsi in Cassazione. Attualmente pende dinanzi alla Cedu il ricorso di Silvio Berlusconi c. Italia che, successivamente alla sentenza definitiva di condanna per frode fiscale, ha attivato un ricorso lamentando di aver subito la violazione dei diritti ad un equo processo, all’applicazione irretroattiva della legge penale e a non essere giudicato due volte per lo stesso fatto. C’è un giudice a Strasburgo per chi non si sente tutelato “a casa” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 8 novembre 2021 Oliverio Mazza, ordinario di diritto processuale penale all’Università Bicocca: “Eppure non mancano situazioni contraddittorie”. Nel programma Help il riferimento alla Corte europea dei diritti dell’uomo è costante. Questo organo giurisdizionale, istituito nel 1957 con sede a Strasburgo, assicura il rispetto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) da parte di tutti gli Stati contraenti. L’articolo 32 della Cedu stabilisce che la Corte ha la competenza nel giudicare “tutte le questioni riguardanti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli”. Può essere adita nel momento in cui vengono esauriti tutti i rimedi interni, previsti dal diritto nazionale, secondo i principi di sovranità dello Stato, di dominio riservato e di sussidiarietà. Dunque, uno Stato prima di essere chiamato a rispondere di un proprio illecito sul piano internazionale, deve avere la possibilità di porre fine alla violazione all’interno del proprio ordinamento giuridico. A ciascuno Stato contraente è garantita la rappresentatività nella Corte, composta da un numero di 47 membri. I componenti vengono scelti tra giuristi in possesso, secondo quanto indicato dall’articolo 21 della Cedu, di “requisiti richiesti per l’esercizio delle più alte funzioni giudiziarie o giureconsulti di riconosciuta competenza”. I giudici della Corte vengono eletti dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ed il loro mandato dura sei anni con la possibilità di essere rinnovato. Riunita in seduta plenaria, la Corte elegge, a scrutinio segreto, il presidente, uno o due vicepresidenti e i presidenti delle sezioni, in carica per tre anni. L’elezione è prevista pure per il Cancelliere (Greffier) che rimane in carica cinque anni. Nella Corte operano i Comitati, composti da tre giudici. Sono loro che esaminano o respingono, se vi è unanimità, i ricorsi manifestamente irricevibili. Le Camere (Chambre), invece, sono composte da sette giudici e trattano i ricorsi in prima battuta. La Corte europea dei diritti dell’uomo viene adita con ricorso. Tale atto può essere “interstatale”, quando è proposto da ciascuno Stato contraente, oppure “individuale”. In questo caso si esalta al massimo il sistema di tutela dei diritti umani con la possibilità che il ricorso sia presentato da una persona fisica, da un’organizzazione non governativa o da un gruppo di individui. Il ricorso va proposto sempre nei confronti di un Stato contraente. Non è prevista la possibilità di ricorrere con atti diretti contro privati (persone fisiche od istituzioni). Il ricorso può essere introdotto dalle persone fisiche, dalle organizzazioni non governative o dai gruppi privati personalmente o per mezzo di un rappresentante. Gli Stati contraenti sono rappresentati invece da agenti, che possono farsi assistere da avvocati o consulenti. Instradare un procedimento davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo non è semplice, come ci conferma Oliviero Mazza, ordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Milano Bicocca. “L’attività processuale - dice il professor Mazza - è certamente complessa perché la Corte europea vive una situazione analoga a quella delle nostre magistrature superiori nazionali. La Corte si è riorganizzata nel corso del tempo. Si è divisa in Camere e ha attivato dei filtri di ingresso di ammissibilità dei ricorsi molto stringenti perché si basano su criteri formali. Ad esempio, l’esaurimento delle vie di ricorso interne e l’esatta compilazione del formulario. Sono tutte questioni di forma che incidono sulla ammissibilità del ricorso, che in Europa prende il nome di irricevibilità. In tutto ciò abbiamo un paradosso: la doglianza nel merito può essere molto rilevante se attiene a violazioni gravi dei diritti dell’uomo e nonostante ciò deve passare attraverso il formalismo esasperato del ricorso alla Corte europea. Qui il sistema va in contraddizione. È recentissima la sentenza sulla Cassazione civile “Succi e altri contro Italia” del 28 ottobre scorso. Il nostro Paese è stato condannato per i filtri di accesso alla Cassazione per l’eccessivo formalismo di alcuni passaggi procedurali, nel civile, con conseguente violazione del diritto di accesso ad un giudice, diritto fondamentale. Poi però è la stessa Corte europea che incorre sostanzialmente nella medesima violazione”. Altro tema esaminato dal professor Mazza riguarda il filtro di irricevibilità che passa attraverso un giudice monocratico. In questo caso il legame con il modello dell’Ufficio per il processo è forte per non dire replicato a livello comunitario. “Il giudice monocratico - evidenzia Mazza - quasi sempre delega la valutazione al suo assistente di studio. Il ricorso alla Corte europea, che dovrebbe essere l’atto estremo per le violazioni più gravi, rischia di essere deciso da uno stagista. Anche questa situazione è a dir poco paradossale. La decisione di irricevibilità, fino a quando non entrerà in vigore un nuovo protocollo, già approvato ma non ancora in vigore, è sostanzialmente immotivata. Abbiamo una decisione di tre righe, che si esprime, per esempio, sul mancato esaurimento delle vie di ricorso interno, ma non ci dice qual è la via di ricorso interno che avremmo dovuto adire prima di arrivare alla Corte europea”. Interdittive antimafia: garanzie per frenare gli stop alle imprese di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2021 Il Dl Recovery ha introdotto il contraddittorio e un percorso di bonifica prima del varo del provvedimento. Restano alcuni nodi applicativi. In cinque armi le interdittive antimafia emesse dai prefetti per bloccare in via preventiva l’attività delle imprese sospettate di essere infiltrate dalla criminalità organizzata sono più che raddoppiate: i provvedimenti amministrativi che congelano ogni rapporto conia Pa, fermi a 972 nel 2017, sono stati più di 2.000 nel 2020 e al 31 ottobre scorso erano già 1.789. Ora il Governo prova a limitare il ricorso all’interdittiva per favorire la continuità aziendale, senza abbandonare il contrasto alle mafie. Il decreto legge Recovery mette infatti in campo due nuovi strumenti affidati ai prefetti: il contraddittorio con l’impresa sospettata di infiltrazione e poi, se il contatto è solo “occasionale”, il percorso di bonifica della “prevenzione collaborativa” che anticipa, in sede amministrativa, il controllo giudiziario. Ma il rischio di allungare i tempi e dubbi applicativi possono pesare sull’applicazione concreta. Per aumentare le garanzie dell’impresa il Dl stabilisce che prima di emettere un’interdittiva venga instaurato un contraddittorio con l’azienda sospettata di infiltrazioni in base alle verifiche effettuate dal prefetto. Il confronto permetterà all’azienda di difendersi con osservazioni, documenti e chiedendo di essere ascoltata. Solo al termine il prefetto deciderà se rilasciare la liberatoria, emettere l’interdittiva o, se l’infiltrazione è riconducibile ad agevolazioni “occasionali”, disporre la nuova “collaborazione preventiva”. Con questo strumento il prefetto può condurre l’impresa verso la “bonifica”, prescrivendo misure da rispettare per un periodo da sei mesi a un anno: a partire dall’adozione di modelli organizzativi (come quelli del decreto legislativo 231/2001 per la responsabilità amministrativa degli enti) per rimuovere le cause di agevolazione occasionale, e dal monitoraggio di movimenti di denaro (sopra i 7mila euro) e contratti. Concluso il periodo, il prefetto dovrà verificare la situazione e, se i rischi di infiltrazione sono stati eliminati, rilascerà un’informazione antimafia liberatoria. Benefici e rischi Un nuovo sistema, quindi, che punta a “proteggere le imprese sia dai condizionamenti che dalla morte”, osserva Costantino Visconti, direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Palermo e precursore dell’uso dei modelli organizzativi per bonificare le imprese. “Intervenire sull’organizzazione - spiega - permette di arginare i tentativi di infiltrazione, inevitabili in certi contesti. Ma le imprese devono attuare i modelli e le Pa comprenderne il valore”. Giudizio positivo anche dall’Unione camere penali, che però contesta l’aumento del ruolo dei prefetti e la mancata giurisdizionalizzazione della procedura. Perché gli strumenti funzionino vanno però risolti dubbi normativi e problemi applicativi. Il contraddittorio, ad esempio, si potrà “saltare” solo in caso di “particolari esigenze di celerità del procedimento”, che la norma non specifica. Potrebbero riguardare appalti di lavori che non possono sopportare tempi più lunghi: il contraddittorio dovrà concludersi entro 60 giorni, che si aggiungono ai 30 (45 per verifiche complesse) già previsti. Mai casi potranno essere altri e sarà il prefetto a decidere. Inoltre, nelle aree con più procedimenti, potrebbe essere complesso organizzare contraddittorie dispone percorsi di bonifica, per cui servono tempo e personale. Appare delicata, inoltre, la valutazione sull’occasionalità dell’infiltrazione, che spetta sempre ai prefetti. E se il percorso di bonifica non andasse a buon fine, l’interdittiva porterebbe alla revoca di appalti o contributi eventualmente già ricevuti dall’azienda. Con il rischio di allungare i tempi e accrescere il contenzioso. L’inchiesta di Voghera finisce sul tavolo della ministra della Giustizia: “Troppi punti oscuri” di Luca De Vito La Repubblica, 8 novembre 2021 Il caso Voghera finisce sul tavolo della ministra della Giustizia. E solleva richieste di chiarimenti, tra politici e penalisti, dopo l’inchiesta di Repubblica che ha sottolineato una serie di dubbi sulle indagini per la morte del 38enne Youns El Boussettaoui, ucciso il 20 luglio scorso da un colpo di pistola partito dall’arma dell’ex assessore leghista del Comune pavese, Massimo Adriatici. “Fermo restando che in ogni caso giudiziario c’è sempre la presunzione di non colpevolezza per tutti fino alla sentenza definitiva, ci sono due cose che mi colpiscono nella vicenda di Voghera - dice Giuliano Pisapia, eurodeputato del Partito democratico, ex sindaco di Milano e avvocato penalista -. Per prima cosa i dubbi e le modifiche sul reato ipotizzato inizialmente: omicidio volontario o eccesso colposo in legittima difesa? È abbastanza normale che il reato contestato in prima battuta possa poi essere modificato, ma di solito questo avviene alla conclusione delle indagini, quando sono stati fatti tutti gli accertamenti”. Una serie di ombre si è allungata sul procedimento della procura di Pavia. Come l’autopsia effettuata in tempi record e senza avvisare gli avvocati, il video che mostra come Adriatici abbia parlato con i testimoni la sera stessa, le immagini che mostrano la familiarità dell’ex assessore con gli agenti della scientifica ancora in piazza Meardi, luogo della sparatoria. Fino all’incontro elettorale a tre giorni dal ballottaggio per le Comunali di Legnano del 2020 che vide la partecipazione dell’allora procuratore aggiunto di Pavia (e attuale reggente) Mario Venditti, alla presenza del leghista Angelo Ciocca. “L’altro aspetto che mi colpisce, ed è una perplessità di carattere generale, è la partecipazione di un pubblico ministero, tanto più se procuratore aggiunto, a un evento elettorale della Lega o di qualsiasi altro partito - aggiunge Pisapia -. Non ha una rilevanza dal punto di vista delle indagini, ma sicuramente rappresenta un problema di opportunità. Sono molto utili i dibattiti e i convegni con magistrati, avvocati e legislatori che si confrontano sui temi della giustizia in generale, ma è ben diverso partecipare a un dibattito chiaramente elettorale, tanto più su temi peraltro delicati, come quello di una commissione antimafia”. Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra italiana, ha annunciato un’interrogazione parlamentare alla ministra Cartabia: “Non ci possono essere in questa vicenda terribile zone d’ombra e punti oscuri - ha detto - I molti, troppi dubbi sulla gestione dell’indagine da parte della locale procura devono essere sgombrati al più presto, deve farlo lo Stato anche per rispetto nei confronti dei familiari della vittima. Presenteremo per questo un’interrogazione parlamentare alla ministra Cartabia affinché sia attivata un’ispezione ministeriale che verifichi la veridicità delle accuse”. Anche la famiglia di Youns è decisa ad andare fino in fondo e a scoprire la verità. “Dietro a questa storia non c’è solo la sparatoria di un assessore e un maghrebino rimasto ucciso - dice Debora Piazza, avvocata che assiste i familiari -, ma c’è ben altro. Siamo davanti a fortissimi gruppi di potere che cercano di calpestare i diritti delle persone più deboli”. Volterra (Pi). Ergastolano fa condannare lo Stato che lo ha sottopagato di Pietro Barghigiani Il Tirreno, 8 novembre 2021 È in carcere dal novembre 2004 e all’ufficio matricola accanto al suo nome compare la dicitura: fine pena mai. C’è un duplice omicidio nella storia di un uomo che sconta l’ergastolo a Volterra e che dietro le sbarre tenta di dare un senso a un’esistenza segnata per sempre. Condannato per aver ucciso una coppia di connazionali a colpi di piccozza in testa, un 39enne lituano ha vinto una causa contro il suo datore di lavoro nonché “padrone” di casa. Il Tribunale di Roma, competente per materia, ha condannato il ministero della Giustizia a pagargli 41.770 euro, la differenza tra quanto percepito come mercede carceraria (gergo tecnico per le paghe dei detenuti-lavoratori) e quanto prevede il contratto collettivo nazionale per le mansioni svolte negli anni. Il detenuto ha preso parte anche a diversi spettacoli messi in scena dalla Compagnia della Fortezza. Nel novembre 2004 nel Foggiano confessò il duplice omicidio, commesso con un complice, spiegando di essere stato sfruttato e deluso dalla coppia, che aveva li aveva fatti arrivare dalla Lituania trovando loro un lavoro, ma alla quale dovevano cedere il 50 per cento del loro salario. La documentazione allegata nella causa racconta in modo puntuale luoghi, lavori e pagamenti, con tanto di cedolini prodotti, ricevuti nel corso degli anni dall’ergastolano. Dal gennaio all’agosto 2008 è stato carcere di Teramo e dal gennaio 2009 e fino all’agosto 2020 nel carcere di Volterra. Nel tempo ha svolto varie mansioni. Scopino, porta vitto, piantone, aiuto cuciniere, cuciniere, addetto alla cucina, apprendista lavorazione tessuti, aiuto sarto, muratore qualificato. Il Tribunale di Roma sottolinea la “completezza e la condivisibilità dei conteggi prodotti dalla difesa del ricorrente, in relazione alle differenze retributive oggetto della odierna domanda, sulla scorta della chiara verificabilità dei medesimi in forza del confronto tra gli importi ricevuti - e riscontrabili dalle buste paga - e quelli di cui alle tabelle allegate al Ccnl, ben potendosi ritenere la correttezza degli stessi in relazione alle singole voci indicate ed ai criteri di calcolo utilizzati, coerentemente elaborati in base a quanto accertato in questa sede. Ne consegue la condanna dell’amministrazione convenuta (ministero della Giustizia, ndr) al pagamento della differenza fra quanto spettante, sulla scorta delle superiori statuizioni, e quanto corrisposto al ricorrente, per un totale di 41.770 euro maggiorato di interessi legali dalle singole scadenze fino al soddisfo”. Roma. Nasce il nuovo Polo Penitenziario dell’Università Sapienza di Marco Belli gnewsonline.it, 8 novembre 2021 Nasce il Polo Universitario Penitenziario Sapienza. Si tratta di un’infrastruttura di servizi creata nell’ambito dell’ateneo romano per promuovere e facilitare tutte quelle attività funzionali a garantire, ai detenuti presenti negli istituti penitenziari della Capitale, il diritto allo studio e il conseguimento dei titoli universitari. La decisione, deliberata dal Senato accademico della prima università di Roma nella seduta di ieri, dà attuazione al protocollo d’intesa sottoscritto nel settembre 2019 dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia e dalla Conferenza Nazionale dei Poli Universitari Penitenziari nonché alle linee guida recentemente adottate da DAP e CNUPP sulle modalità di collaborazione tra le istituzioni penitenziarie e le università. Il nuovo Polo della Sapienza si occuperà di interagire con la platea dei destinatari, offrendo il proprio supporto per la gestione delle pratiche amministrative, l’orientamento allo studio, la didattica dedicata, l’utilizzo di materiale delle biblioteche e l’eventuale inserimento dei laureati nel mercato del lavoro. “La nascita di questo nuovo Polo Universitario Penitenziario - afferma il Capo del DAP, Bernardo Petralia, commentando con soddisfazione la notizia - costituisce un nuovo e significativo passo che la società esterna, e in questo caso il mondo accademico, muove verso la realtà del mondo penitenziario. Un passo che è testimonianza di un comune impegno rivolto al recupero e al reinserimento dell’individuo, garantito dalla nostra Carta Costituzionale, di cui il diritto allo studio rappresenta uno dei caposaldi”. “Il Polo Universitario Penitenziario rappresenta uno strumento efficace e diretto per attivare procedure che aprano le porte del sapere e dell’università, in un’ottica inclusiva e di Terza Missione, stimolando concreti percorsi di riabilitazione e di reinserimento sociale”, sottolinea la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni. Alla cui voce si aggiunge quella di Pasquale Bronzo, delegato dell’ateneo per il Polo: “La scommessa è fare in modo che la detenzione non sia un tempo sospeso. La presenza delle università nei luoghi di detenzione ha, in questo senso, una profonda valenza culturale per il Paese”. Napoli. Si inaugura il nuovo anno accademico del Polo Universitario Penitenziario unina.it, 8 novembre 2021 Si terrà lunedì 8 novembre 2021 l’inaugurazione dell’Anno Accademico 2021-2022 del Polo Universitario Penitenziario della Federico II - PUP. La cerimonia si terrà alle 11 nel Centro Penitenziario Pasquale Mandato di Secondigliano, sede del Polo campano. È il quarto anno dalla sua istituzione. Nel corso della cerimonia sarà anche firmata la convenzione tra l’Università degli Studi di Napoli Federico II, il Dipartimento di Farmacia, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli, l’ASL NA1 e il Provveditorato Amministrazione Penitenziaria Campania, per l’attivazione del primo tirocinio interno per gli studenti del Corso di Laurea in Scienze erboristiche, che si svolgerà nella farmacia dell’Istituto. Il Polo Universitario Penitenziario della Federico II conta oggi circa 100 studenti, divisi in 8 corsi di studio. È ubicato nel Centro Penitenziario di Secondigliano, dove sono state destinate agli studenti detenuti due sezioni, la sezione Ionio per i detenuti in regime di alta sicurezza e la Mediterraneo per quelli di media sicurezza. All’interno delle sezioni gli studenti hanno un regime diverso, hanno le celle aperte tutto il giorno, spazi per lo studio, per le lezioni, per l’incontro con professori e tutor. 7 sono i Dipartimenti federiciani coinvolti, più di 100 a semestre i docenti che vi insegnano e 26 i tutor tra studenti e dottorandi impegnati nel progetto. Agli studenti del Polo sono garantite lezioni, seminari, orientamento per la preparazione degli esami, assistenza alla preparazione delle tesi di laurea, e naturalmente lo svolgimento degli esami e delle sessioni di laurea. È il primo polo universitario penitenziario del Meridione d’Italia, nato da un importante lavoro di collaborazione tra l’Università degli Studi di Napoli Federico II e il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania. È una iniziativa molto importante per l’affermazione e la concretizzazione del diritto allo studio di persone in regime di restrizione della libertà personale nel solco di una concezione della pena rieducativa, come recita l’art. 27 della nostra Costituzione che mette insieme l’istanza personalistica cioè il principio di umanità, con l’istanza solidaristica cioè il principio rieducativo. Lo dimostrano la partecipazione, l’impegno e i risultati ottenuti dagli studenti in regime di restrizione nei 3 anni accademici trascorsi dalla sua istituzione. Napoli. “Barre”: un viaggio attraverso le carceri minorili di Martina Maiorano linkabile.it, 8 novembre 2021 Si è tenuta presso l’ex OPG di Napoli, la presentazione del libro “Barre” di Francesco Carlo, in arte Kento, rapper di Reggio Calabria. L’artista ha raccontato le esperienze negli istituti di detenzione minorile dove lui stesso insegna il rap ai giovani. Strutture come Casal di Marmo, Beccaria e Paternostro dove musica e poesia rappresentano due elementi fondamentali durante il periodo della reclusione. Nelle 177 pagine del volume, Kento racconta la sua esperienza maturata in oltre dieci anni di laboratori in vari istituti penitenziari italiani, a contatto con centinaia di ragazzi detenuti, insieme ai quali ha scritto strofe, ritornelli e punchline. Oltre a descrivere la vita e le difficoltà nelle carceri, nel testo c’è una forte riflessione sulla giustizia italiana e sul futuro incerto dei ragazzi, che stimola il lettore a meditare sulla questione proposta. Kento, infatti, dichiara che la sua voglia di scrivere questo testo deriva proprio dalla mancanza di fonti riguardo le carceri minorili, una questione che doveva essere raccontata in qualche modo, perciò ci dice che “non è un libro per chi lavora nelle carceri, ma per tutti”, rivelandoci lo scopo reale del testo. Dopo aver citato l’articolo 27 della Costituzione, che prevede il reinserimento e la rieducazione del detenuto, ci ha lasciati con un quesito: “Se un ragazzo non è mai stato inserito in società, come si applica tale principio?”. All’evento hanno anche partecipato tre ospiti speciali. Giusy Santella, giornalista di “Mar dei Sargassi”, che ha spiegato brevemente di cosa tratta il libro, sottolineando il grave problema della detenzione come scelta estrema ed invitando a riflettere il lettore: “Ciò che accade negli istituti di detenzione riguarda tutti non solo chi se ne occupa”. Ha partecipato all’evento, Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, che ha introdotto il discorso parlando proprio della sua vita, gli inizi in alcune carceri e delle associazioni “Agorà” e “La Mansarda”, da lui stesso fondate. Paragonando i ragazzi dell’epoca a quelli della società odierna, ha affermato che: “Oggi questi adolescenti hanno la morte nel cuore, sono adolescenti a metà”, a causa dei reati pesanti da loro commessi. Essenziale risulta la questione dello Stato, assente in questa situazione e della società malata in cui viviamo, la quale abbandona il giovane senza alcun aiuto. Alla fine ci ha lasciati con un impegno, quello di essere: “Liberarci dalla necessità del carcere ed uomini della speranza e garantisti, perché il garantismo è rivoluzionario e di sinistra”. Per ultima è intervenuta Serena Voluttuoso, attivista di “Rete di solidarietà popolare”, che ha esposto lo scopo dell’associazione: “Creare un ponte tra interno ed esterno” per far capire davvero cosa non funziona. Obiettivo raggiungibile con i numerosi progetti della Rete e con volontari, che possano denunciare affinché lo Stato agisca concretamente. Roma. Iniziati a Santo Stefano i lavori per recuperare lo storico penitenziario di Valerio Calzolaio ilbolive.unipd.it, 8 novembre 2021 C’era una volta, millenni fa, un minuscolo isolotto di un piccolo arcipelago del Mediterraneo non distante dalla Roma antica e moderna. C’era una volta, secoli fa, un sofisticato carcere su quest’isola con poca terra e poche specie fertili, costruito da monarchi per controllare scientificamente criminali e politici avversari. C’erano una volta, da decenni, le abbandonate vestigia fatiscenti di quella struttura sull’isola disabitata, e un’area marina protetta intorno per difendere valori ambientali e naturalistici. Forse è proprio giunto il momento di intervenire pubblicamente sul complesso della storia narrata, questa svolta è in corso. L’isola vulcanica di Santo Stefano fa parte con Ponza (la più grande, 7,5 km²) e Ventotene (1,89) delle Isole Ponziane: è la più piccola, solo 29 ettari, molto meno di un chilometro quadrato, forma quasi circolare, oltre 500 metri di diametro. La storia antica, moderna e contemporanea dell’isola si mescola e confonde con quella proprio di Ventotene, meno di due chilometri a ovest, ben conosciuta nel Neolitico, soprattutto come riserva di ossidiana, il materiale usato per lame e utensili, utile tappa sulle rotte tirreniche di vari popoli e gruppi umani (compresi i greci), già sede di esilio forzato in epoca romana (Giulia, Agrippina Maggiore, Flavia Domitilla). Nel periodo romano entrambe avevano diversa varia denominazione: da una parte Pandateria, Pandotira (dal greco), Pantatera, Ventatere, Bentetien, Vendutena, Ventotiene quella che è Ventotene; dall’altra Partenope (dal greco), Palmosa, Dommo Stephane, Borca quella che è Santo Stefano, che fa oggi pure amministrativamente parte del comune di Ventotene. Da sempre poco e male abitabile in modo residenziale per le scogliere ripide e i rari punti di complicato approdo (da scegliere comunque a seconda dei venti), oggi Santo Stefano è assolutamente disabitata ma precariamente visitabile. L’unico edificio ancora presente sull’isola è l’antico carcere, la struttura denominata Ergastolo, all’inizio mirabilmente circolare con 99 celle (celle poi sdoppiate, numero poi ulteriormente cresciuto per ristrutturazioni e aggiunte di una sezione), fatto edificare a fine Settecento da Ferdinando IV di Borbone, restato in vario uso sotto successive forme di stato e governo fino al 1965. La svolta verso l’isola carcere (esclusivamente carcere) si ha con il Regno delle Due Sicilie. Ferdinando I decise di installare sull’isola un penitenziario a struttura cellulare che servisse a separare fortemente i detenuti dal resto della società. Incaricò del progetto e della realizzazione nel 1794-97 il maggiore del genio militare Antonio Winspeare, in collaborazione con l’architetto Francesco Carpi. L’istituto penitenziario di Santo Stefano ha le proporzioni del Teatro San Carlo di Napoli ed è una variante concreta della proposta di nuovi carceri emersa dai principi illuministici propugnati dal filosofo inglese Jeremy Bentham (1748-1832), secondo il quale “nei tentativi di recupero dei detenuti” sarebbe “possibile ottenere il dominio di una mente sopra un’altra mente” tramite un’adeguata struttura edilizia, una sorta di carcere ideale, denominato Panopticon: tutti i detenuti, rinchiusi nelle proprie celle disposte a semicerchio, in teoria potrebbero essere individualmente sorvegliati da un unico guardiano posto in un corpo centrale, senza peraltro loro sapere se in quel momento risultano osservati o meno. Le celle avrebbero avuto l’unica apertura rivolta verso il centro della struttura, cieche verso il mare. L’isola carcere venne destinata a ergastolani e condannati ai ferri, appunto. Ve ne furono simili esempi in varie parti del mondo, addirittura in Australia nella Rottnest Island, una prigione per gli aborigeni. Così, la dissuasione a fare il male sarebbe derivata dalla consapevolezza di essere costantemente sotto controllo. Ciò nonostante, non mancarono tentativi di evasione. Il 26 agosto 1797 nel nuovo carcere vi fu un tentativo di evasione di massa, il quale poté essere domato solo grazie all’arrivo di rinforzi da Napoli e lasciò sul terreno due morti e numerosi feriti. Un altro tentativo fu effettuato nel 1798, e l’anno seguente la struttura accolse progressivamente una parte dei condannati per i moti rivoluzionari del 1799. Identica sorte ebbero i rivoluzionari del 1848, tra cui si annoveravano numerose personalità di rilievo, come Silvio Spaventa e Luigi Settembrini (che vi rimase tristemente dal 1851 al 1859). Nell’ottobre 1860 vi fu una nuova e violenta rivolta, durante la quale gli 800 carcerati, principalmente camorristi della Bella Società Riformata che erano stati esiliati nell’isola dal governo borbonico, presero il controllo del carcere. L’occasione fu data dalla partenza del distaccamento dell’Esercito delle Due Sicilie per unirsi alla resistenza organizzata a Capua dopo l’invasione sarda. Una volta messe le quaranta guardie in condizione di non nuocere, i camorristi istituirono la cosiddetta Repubblica di Santo Stefano, le cui redini furono offerte al capintrito (capobanda) Francesco Venisca. L’effimera Repubblica ebbe il tempo di dotarsi di uno statuto di convivenza tra gli ex detenuti e gli abitanti dell’isola, ma finì nel gennaio 1861, disfatta dall’arrivo delle truppe sarde a ripristinare l’ordine e l’isolamento detentivo. In quegli anni di passaggio di regno anche in altri carceri (come a Favignana) si ristrutturano dinamiche e gerarchie interne al micromondo carcerario, soprattutto per il ruolo della criminalità organizzata. Anche dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie, il carcere mantenne il proprio ruolo sotto la monarchia italiana. In questo periodo, il carcere continuò ad accogliere detenuti comuni e speciali, tra cui il più noto capobrigante post-risorgimentale Carmine Crocco e l’anarchico Gaetano Bresci che aveva ucciso re Umberto I di Savoia e con ogni probabilità fu impiccato in cella dai secondini e seppellito frettolosamente. Durante il ventennio fascista il carcere continuò a essere un luogo privilegiato per la collocazione di dissidenti politici. Detenuti famosi di questo periodo furono Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro, Rocco Pugliese e Sandro Pertini (il quale ne parlò in aula già nel 1947, ricordando come lì vi fu “suicidato” Bresci) che più tardi come noto è divenuto il settimo Presidente della Repubblica Italiana (1978-1985). Altri antifascisti furono confinati dal regime sull’isola di Ventotene, ma non furono mai carcerati a Santo Stefano: per esempio Giuseppe Di Vittorio, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Proprio e soprattutto a questi ultimi tre si deve la redazione del cosiddetto Manifesto di Ventotene che nel 1941, in pieno conflitto mondiale, chiedeva l’unione dei paesi europei e costituirà, negli anni successivi (la prima distribuzione clandestina risale al gennaio 1944), il riferimento ideale cui guarderanno in molti per il successivo processo di integrazione continentale, proseguito per decenni e ancora in corso. Al termine della seconda guerra mondiale, il carcere borbonico riprese la sua funzione di severa pena detentiva nei confronti dei delinquenti comuni. Significativo fu il periodo, otto anni dall’estate 1952 all’estate 1960, in cui fu direttore Eugenio Perucatti (1910), che riuscì a cambiare profondamente le strutture, le regole e l’atmosfera stessa del penitenziario. Trovandosi di fronte al regolamento obsoleto (peraltro proprio di tutti le carceri) si adattò a violarlo palesemente: la prima cosa che fece fu far leggere ai suoi collaboratori il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione italiana, in vigore da appena cinque anni: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.” Nel 1956 Perucatti espresse idee e proposte complessive in un volume significativamente intitolato: ““Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata”. L’istituto di Santo Stefano è stato definitivamente chiuso nel 1965 e, da allora, la struttura è andata incontro a una lenta e progressiva decadenza. Benito Lucidi era stato l’unico detenuto riuscito a evadere in tempi moderni, nel 1960. Nel 1981, sopra il portone di accesso alla fortezza, fu apposta una grande lapide in marmo candido del Monte Altissimo (Alpi Apuane) per ricordare i patrioti dell’Ottocento e i prigionieri dell’epoca fascista. All’interno del penitenziario è stato girato il film L’urlo (1970) di Tinto Brass e alcune sequenze di Ostia di Sergio Citti e di Sul mare di Alessandro D’Alatri. Isola e carcere s’identificano da secoli, il contesto culturale temporale e artificiale del carcere è la sostanza dell’identità insulare, non se ne può prescindere per gli umani di oggi e forse del futuro. Nei decenni recenti sono stati proposti alcuni progetti di recupero, ivi compresa un’improvvida iniziativa privata che mirava a trasformarlo in struttura alberghiera. Di notevole rilievo è ora il progetto di restauro e riuso del Complesso dell’ex Carcere dell’isola di Santo Stefano-Ventotene, promosso nel 2016 e rilanciato nell’ultimo biennio, fra l’altro con un finanziamento di 70 milioni di euro. Per assicurare il coordinamento tra le almeno otto amministrazioni pubbliche coinvolte e dare un impulso operativo all’attuazione degli interventi previsti, a fine gennaio 2020 è stato affidato a Silvia Costa il ruolo di Commissario straordinario. Dapprima è stato così approvato il piano operativo 2020-2023 e impostato uno Studio di Fattibilità (approvato poi a maggio 2021) in base al quale Santo Stefano dovrebbe diventare una “Scuola di alti pensieri” di respiro europeo su tre assi tematici: Storia/Cultura, Ambiente/ Natura, Europa/Mediterraneo, con la realizzazione di percorsi sia museali che naturalistici. Sono stati inoltre eseguiti da novembre 2020 i primi lavori d’urgenza per la messa in sicurezza del nucleo storico; è stato bandito il Concorso Internazionale di Progettazione per l’intero Complesso dell’ex carcere; è stato allestito ad aprile 2021 un Infopoint al porto di Ventotene; tramite procedura aperta è stato affidato l’appalto della “messa in sicurezza degli edifici”, i cui lavori stanno iniziando a fine 2021; è in corso la Valutazione di Impatto Ambientale del progetto di realizzazione per il delicato nuovo approdo. Oggi esiste anche l’area protetta a mare e l’intero comune di Ventotene (compresa Santo Stefano) include una Riserva naturale statale e l’Area marina protetta, con tutti i vincoli di legge. Forse bisognerebbe partire anche da lì per pianificare una forma di esistenza integrata, leggera e sostenibile. La vocazione biologica dell’isolotto di Santo Stefano non è residenziale per gli umani, pur avendo la nostra specie reso immigrabile e abitabile ogni ecosistema, ogni lembo di terra e di mare, via via nel corso dei millenni e dei secoli. In linea di massima si potrà anche dover e poter dormire a Santo Stefano, non è un peccato in sé, tuttavia solo funzionalmente ad attività di alta formazione culturale, manutenzione, studio, visite guidate, documentazione, ricerca e osservazione naturalistica (marina e terrestre), non come residenza civile o turismo o spettacolo. Le forme possibili sono tante: esistono foresterie, ostelli per studenti, appartamenti d’appoggio temporaneo o stagionale per lavoratori residenti altrove, comunque sempre riferendosi a poche decine di persone in tutto. Non avrebbe senso lavorarci, spendere e recuperare per poi abbandonare di nuovo l’isolotto con gli edifici ben ristrutturati (con pochi e sostenibili impatti ambientali), destinati proprio a meglio conservare e valorizzare memorie di storia umana e di 170 anni di vita penitenziaria, da fruire con utilità morale e civile pubblica, prima possibile. Il flusso stabile di visite verso Santo Stefano, con imbarcazioni autorizzate provenienti esclusivamente da Ventotene, è previsto per il 2026, massimo 280 persone al giorno per otto mesi l’anno. Viaggio nella giustizia di oggi proposto da due figure chiave della magistratura di Valentina Stella Il Dubbio, 8 novembre 2021 Gli ex magistrati Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte sono da poco in libreria con La giustizia conviene Il valore delle regole raccontato ai ragazzi di ogni età (Piemme Editore, pagine 221, euro 16,50). Il contesto è quello in cui “giustizia e legalità fanno sempre più fatica ad assolvere ai propri compiti, ovvero garantire i diritti dei cittadini e il rispetto delle regole della convivenza civile”. Molteplici, per gli autori, le cause di questo scenario: un processo “farraginoso e incomprensibile”, “una vischiosa rete di relazioni torbide culminate nei casi tristemente noti del magistrato Palamara e dell’avvocato Amara”, episodi di “diritti calpestati”. Per fronteggiare tutto questo, secondo Caselli e Lo Forte, non bastano lo sdegno e la denuncia, bisogna credere e difendere la giustizia e la legalità, che rappresentano un bene comune. Ma prima di tutelare entrambe, occorre conoscerle, nei loro pregi e nei loro difetti applicativi. “Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare”. Nella più famosa delle sue Prediche inutili Luigi Einaudi poneva una domanda che ancora oggi è fondamentale: “Come si può deliberare senza conoscere?”. Ed è anche un po’ questo, a parere di chi scrive, il compito che il libro di Caselli e Lo Forte vuole assegnare a tutti noi, ragazzi e adulti. Non essere indifferenti ai temi della giustizia per acquisire quella consapevolezza atta a farci interpretare correttamente la realtà e a decidere pure da che parte stare, motivando razionalmente la nostra posizione. Ad esempio in tema di carcere, di immigrazione, di contrasto alle mafie. In un periodo storico in cui si tende a semplificare i fenomeni, è invece importante capirne la complessità. Scrivono, ad esempio, gli autori: “È innegabile che vi sia un diritto alla sicurezza. Il tema è decisivo, ma non può essere esclusivo, pena il rischio che i diritti diventino ostaggio della sicurezza fino a giustificare il ricorso a un uso spropositato e illusorio della legge penale, considerata ‘cinicamente come un mezzo a basso costo per tranquillizzare la paura prima ancora che neutralizzare rischi, pericoli ed eventi lesivi’. In questo contesto ecco l’equiparazione dei poveri, dei neri e degli immigrati ai delinquenti, le eterne ‘classi pericolose’ dalle quali occorre proteggere la ‘gente per bene’; ecco che vengono varate norme manifesto, misure che sembrano destinate a produrre soltanto effetti psicologici e di scarsa efficienza, e invece alterano progressivamente il sistema delle garanzie”. Come non essere d’accordo? Lo stesso vale per il capitolo sul carcere: “Si tratta piuttosto di concepire la pena detentiva davvero come extrema ratio. Come? Per esempio organizzando le misure alternative al carcere secondo modalità praticabili che rispondano realmente al bisogno concreto di sicurezza. Con la prospettiva che alla fine maturino tempi e condizioni perché il carcere possa non rappresentare più il luogo centrale del sistema sanzionatorio”. Ciò nonostante gli autori criticano però “la demolizione dell’ergastolo ostativo”, in corso grazie - diciamo noi - a sentenze sovranazionali e della Corte Costituzionale. Non condividiamo neanche l’approccio relativo alla dialettica tra giustizialisti e garantisti. Per Caselli e Lo Forte contro l’indipendenza del magistrato arrivano le accuse di politicizzazione o di “giustizialismo”, una parola “astutamente riciclata con la cinica finalità mediatica di fondare il dibattito su una sorta di verità rovesciata, dove esercitare la giustizia senza privilegi per nessuno sarebbe appunto giustizialismo”. In realtà, quando si criticano gli approcci “giustizialisti” della politica e della magistratura si fa riferimento, volendo fare una breve e sommaria elencazione certamente non esaustiva, a una concezione etica e non laica del processo, alla revisione in senso inquisitorio del codice di rito, ai doppi binari processuali, alla legislazione di emergenza, all’opposizione alla prescrizione, al ruolo, per molti versi improprio ed abnorme, assunto dal pubblico ministero a scapito del giudice. Un capitolo del libro è dedicato all’avvocatura che, come vi raccontiamo spesso da queste pagine, è presa di mira quando ci si trova a difendere i peggiori criminali. Ma proprio Caselli e Lo Forte, i quali nella loro lunga carriera hanno incontrato e combattuto i più pericolosi banditi, ricordano un principio fondamentale: “Un processo senza difensori in democrazia non è neppure concepibile; sarebbe una farsa”. Sembra quasi di rileggere il famoso avvocato siracusano Ettore Randazzo che in L’avvocato e la verità (Sellerio Editore) scriveva: “solo i nemici della democrazia e della libertà possono temere l’avvocatura”. La figura del difensore è inserita nel più ampio spazio dedicato alle figure e ai tempi che contraddistinguono il processo. Gli autori, infatti, nel ripercorrere, ovviamente in chiave divulgativa e non tecnica, la storia della prescrizione e della nuova improcedibilità non possono non fare a meno di evidenziare un male di cui soffriamo, ossia la denegata giustizia, frutto di un “arretrato di milioni di processi, civili e penali, accumulatosi per anni”. Una soluzione proposta dagli autori sarebbe quella di “abolire l’assurdo retaggio di un passato ormai remotissimo, il cosiddetto divieto di reformatio in pejus, grazie al quale se a ricorrere è soltanto l’imputato non rischia assolutamente nulla, perché è vietato peggiorare anche di un solo giorno o di un solo euro la condanna già inflitta. Comodo, no? Al punto che per l’imputato non ricorrere è masochismo”. E tuttavia, come ricordò il professor Giorgio Spangher in una intervista al nostro giornale, “nemmeno il fascismo riuscì a eliminare il divieto di reformatio in peius e l’appello, che sono alla base della nostra cultura giuridica”. A proposito di fascismo, gli autori nel capitolo “Magistratura ieri e oggi” riportano alla memoria un interessante episodio: “Il passaggio dal fascismo alla democrazia è avvenuto all’insegna della continuità. A parte la rifondazione dell’Anm, i segnali normativi e politici di novità nel settore giustizia sono stati pochi, per di più segnati dalla mancanza di un significativo rinnovamento personale e di mentalità. Tra i magistrati compromessi col regime, che tuttavia riuscirono a fare prestigiose carriere, meritano una segnalazione speciale l’ex procuratore generale della Repubblica di Salò Luigi Oggioni e l’ex presidente del tribunale della razza Gaetano Azzariti, che raggiunsero addirittura la presidenza della Corte di Cassazione e quella della Corte Costituzionale”. Storia di Guido Rossa. Operaio e gentiluomo di Miguel Gotor* La Repubblica, 8 novembre 2021 Un saggio di Sergio Luzzatto sul militante della Cgil ucciso dai brigatisti ci regala un ritratto antiretorico, al di là del destino tragico del protagonista. Guido Rossa era un operaio comunista che faceva il fresatore ed era cresciuto a Torino, figlio di immigrati bellunesi. È stato ucciso il 24 gennaio 1979 da un operaio brigatista, anche lui fresatore, Vincenzo Guagliardo, nato in Tunisia, figlio di immigrati siciliani. Il motivo? Nell’ottobre 1978 l’operaio comunista Rossa, la “spia berlingueriana” nel truce lessico dei suoi assassini, aveva denunciato alle autorità un altro operaio brigatista, Francesco Berardi, il quale, un anno esatto dopo l’arresto, si sarebbe suicidato in carcere. Sergio Luzzatto, con il libro “Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa” (Einaudi), fornisce un ritratto di Rossa che arriva dopo i lavori della figlia Sabina con Giovanni Fasanella (2006), di Paolo Andruccioli (2009) e di Giovanni Bianconi (2011). L’originalità del contributo sta nell’avere adottato la tecnica del chiaroscuro, uno stile necessario per rendere realistico qualsiasi ritratto che è sempre, proprio come la vita, un equilibrio tra luci e ombre giocato sulle sfumature, ma anche sul rispetto delle proporzioni. A questo proposito il ritrattismo di Luzzatto comporta la tendenza a depoliticizzare la figura di Rossa a favore di una valorizzazione degli ambienti e dei personaggi di contorno messi a fuoco con la solita piacevole acribia. L’altro Rossa che la penna dell’autore lumeggia è quello dell’infanzia a Torino, trascorsa in una tipica famiglia di immigrati impegnata a “sbarcare il lunario” nell’Italia della ricostruzione: a quindici anni il lavoro in fabbrica, dai diciotto in poi l’affermazione come alpinista tra i più forti della sua generazione, a ventidue i lanci col paracadute, a venticinque l’ingresso a Mirafiori, a ventisette, da padre di famiglia, il trasferimento all’Italsider di Genova, a ventotto, nel 1962, la partenza per conquistare un settemila in Nepal, membro di una drammatica spedizione in cui sarebbero morti due partecipanti, ma che segnò una svolta anche psicologica nella vita dell’uomo, sopravvissuto, due anni dopo, a un volo di ottanta metri in montagna. Luzzatto ha avuto accesso per la prima volta all’archivio della famiglia Rossa e riesce a mettere in rilievo anche lo scultore e il fotografo dilettante, l’appassionato di archeologia romana, il marito e il padre di famiglia che, sempre nell’alpinismo, trovò la forza per superare la suprema delle tragedie, la morte a soli due anni del primogenito a causa di una fuga di gas. La ricostruzione dell’altra vita di Rossa restituisce anche un paio di impressionanti e profetiche coincidenze: a metà degli anni Cinquanta, a Viterbo, il suo istruttore di paracadutismo fu il carabiniere Oreste Leonardi, il capo scorta di Aldo Moro ucciso dai brigatisti il 16 marzo 1978; Rossa a Genova abitava in via Fracchia, ossia nella stessa strada dove, nel marzo 1980, i carabinieri guidati da Carlo Alberto Dalla Chiesa avrebbero ammazzato quattro brigatisti, tra cui proprio Riccardo Dura, ossia l’autore del colpo di grazia al corpo del sindacalista. Luzzatto ha il merito di superare l’estenuante logomachia tra vittime e carnefici che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni del dibattito pubblico sul terrorismo italiano. Egli non delinea, quindi, l’ennesimo santino laico, essendo consapevole dei limiti di una prospettiva soltanto vittimaria, non meno fuorviante di quella esclusivamente memorialistica di parte brigatista che ha dominato a lungo la scena. Le vittime del terrorismo, infatti, rischiano di diventare figure retoriche esangui che, venendo poste su un monumentale piedistallo e inquadrate sotto la luce deformante dell’eroismo, non riescono a significare per davvero le ragioni profonde della loro vita, in cui si iscrivono sempre i motivi della propria morte. Anche Rossa è consapevole di essere l’ennesimo dead man walking della storia italiana, ma non ricevette alcuna protezione e si recò da solo all’udienza in cui effettuò il riconoscimento dell’operaio Berardi che gli costò la vita. Luzzatto rinuncia a lucidare il piedistallo sul quale Rossa poggia a causa della sua tragica morte perché sa che i processi vittimari e quelli eroicizzanti degli altri servono spesso a occultare un disagio dovuto al senso di colpa: in questo caso quello dei compagni operai, del Pci e del sindacato di averlo lasciato solo davanti ai suoi carnefici, come lo stesso segretario della Cgil Luciano Lama ebbe l’onestà di denunciare il giorno dei suoi funerali. Questa scelta di metodo lo ha indotto a ricostruire l’educazione politica di Rossa che da una formazione giovanile superomistica (il culto misticheggiante per le alte vette, la passione per il paracadutismo, l’amore per le pistole e per l’esplosivo) si converte gradualmente all’impegno politico e civile prima nel Pci (cui si iscrive nel 1967) e poi nel sindacato mediante la presa di coscienza della propria condizione di operaio. Così anche ha significato approfondire l’effettivo ruolo svolto da Rossa nella fabbrica che, secondo un’autorevole testimonianza raccolta di recente, fu effettivamente quello di informatore fiduciario del Pci, uno degli uomini selezionati da Botteghe oscure per contrastare l’emergenza terroristica. Scelto, sin dall’inizio degli anni Settanta, per monitorare in fabbrica le trame eversive dell’estrema destra nel contesto della strategia della tensione e poi per arginare la penetrazione delle Brigate rosse. Per un verso, risalendo la filiera tra l’interno e l’esterno dello stabilimento e, per un altro, aggredendo la zona grigia della media borghesia sovversiva, quella lingua di terra infida che portava ai professori Gianfranco Faina ed Enrico Fenzi e all’avvocato Edoardo Arnaldi, suicidatosi anche lui come Berardi, di cui era stato il difensore al processo, per evitare di essere arrestato. Da questo percorso sarebbe derivata la spinta, come Rossa scrisse in una lettera a un amico nel 1970, a “scendere giù in mezzo agli uomini a lottare con loro”: tutti gli uomini, quelli che gli hanno voluto bene e quelli - operai come lui - che in una fredda alba d’inverno lo hanno ucciso a soli 44 anni perché era un sindacalista, un comunista italiano, un cittadino democratico. *Assessore alla Cultura del Comune di Roma Silvio Orlando: “Così ho esplorato il drammatico mondo delle carceri” di Andrea Aversa Il Mattino, 8 novembre 2021 Silvio Orlando alla Fondazione Premio Napoli: “Così ho esplorato il drammatico mondo delle carceri”. È uno degli attori più brillanti d’Italia, capace con grande facilità, di salire sopra al palco di un teatro e di essere allo stesso tempo protagonista nel grande schermo. Ciò che più lo caratterizza, è la versatilità del suo stile di recitazione: Silvio Orlando è in grado di farti ridere e piangere, con quel suo volto dalle mille maschere e le sue indimenticabili interpretazioni. Questa mattina l’attore napoletano è stato ospite dell’avvocato Domenico Ciruzzi presso la Fondazione Premio Napoli al Palazzo Reale di Napoli. Un evento durante il quale si è discusso dell’ultimo film con Silvio Orlando appena uscito nelle sale cinematografiche: “Il bambino nascosto”. Presente il regista Roberto Andò, autore anche del romanzo omonimo che ha ispirato la pellicola. “Questo film è un breve apprendistato sentimentale - ha spiegato Silvio Orlando - è l’incontro di un bambino in fuga dalla violenza con un maestro che conosce solo l’arte della musica. Insieme riscopriranno l’amore per la vita e la speranza per un futuro migliore”. L’attore è stato impegnato in un altro film molto bello, uscito lo scorso mese di ottobre. Un lungometraggio che lo ha visto condividere il set con un altro gigante del cinema, Toni Servillo. Stiamo parlando di “Ariaferma”, girato da Leonardo Di Costanzo. “All’inizio ho avuto delle difficoltà ad entrare dentro questo film - ha dichiarato l’attore -. Il mondo delle carceri per quanto tu possa riuscire a raccontarlo, resta sempre difficile da descrivere: il senso di angoscia, lo spreco del tempo, l’utilità della vita, sia per i detenuti che per gli agenti penitenziari. È stato un esperimento avvenuto in un ambiente nel quale c’è una sorta di amnesia collettiva. Il carcere è vissuto da una parte come vendetta nei confronti di persone che hanno sbagliato, dall’altra come un universo di sola violenza”. Silvio Orlando vive a Roma ma spesso e volentieri torna a Napoli, una città, “diventata un centro mondiale del turismo. Mi auguro che questo resti un fenomeno positivo e che non sottragga a Napoli la sua identità, la sua anima. Sarei una grande scrittore se riuscissi a sintetizzare tutte le emozioni che provo ogni volta che torno”. Infine, il futuro. In merito ai prossimi progetti cinematografici Silvio Orlando non ha voluto svelare nulla (“meglio parlare di un film una volta che lo si è già fatto”), l’attore ha invece parlato di una rappresentazione teatrale della quale è protagonista: “Sarò anche a Napoli, la terza settimana di dicembre al Mercadante con “La vita davanti a sé” di Romain Gary”. Gli odiatori in Rete e le belle speranze di Giusi Fasano Corriere della Sera, 8 novembre 2021 Assia è stata vittima di una marea di offese via social per le foto con il velo islamico pubblicate in campagna elettorale. Ma le indagini non hanno prodotto alcun risultato. Assia Belhadj, una ragazza italo-algerina di 26 anni, in Italia da 16, denuncia in procura - a Belluno - di aver ricevuto una marea di offese via social. In pochi giorni sono arrivati centinaia di insulti, ingiurie e qualche minaccia a sfondo razziale e religioso, dopo le sue fotografie con il velo islamico postate durante la campagna elettorale per le Regionali di settembre 2020 (era candidata con “Il Veneto che vogliamo”). Timbri, Digos, polizia postale, ufficio del pubblico ministero, l’ipotesi della diffamazione e adesso - ha fatto sapere lei stessa l’altro giorno - è arrivata la decisione: il pm Katjiuscia D’Orlando ha chiesto l’archiviazione e la giudice delle indagini preliminari Enrica Marson gliel’ha concessa. Quindi il fascicolo si è chiuso con un nulla di fatto. Ci sta. Chiedere che un’accusa venga archiviata fa parte dei possibili esiti di un procedimento penale. Tanto più se “le indagini non hanno consentito di identificare in modo chiaro gli autori di quei post”, come ha tenuto a precisare il procuratore Paolo Luca. Ma certo è quantomeno bizzarro che nel provvedimento di archiviazione si dica che fra i motivi della mancata identificazione c’è anche il fatto che “la Rete in uso all’ufficio non consente l’accesso a Facebook”. Anche perché è quasi matematico che, pur avendo quell’accesso, non sarebbe cambiata la sorte del caso specifico, poiché Facebook e gli altri gestori Internet statunitensi non rispondono quasi mai alle richieste delle procure italiane per risalire all’identità degli odiatori protetti dall’anonimato. Tra l’altro, al di là dell’oceano quello che noi denunciamo come diffamazione in molti Stati non è nemmeno reato ma pura libertà di opinione, come ci ha ricordato con una nota ufficiale del 2016 il Dipartimento di Giustizia americano sperando così che avremmo dato un taglio alle continue richieste. Non a caso lo stesso procuratore Paolo Luca ha ricordato proprio quella nota del 2016 intervenendo dopo il polverone sollevato dalla storia di Assia. Una storia “sconcertante e all’apparenza incredibile”, per dirla con la presidente del gruppo Pd alla Camera Debora Serracchiani, che chiede chiarimenti e confida nel fatto che “gli odiatori in Rete abbiano la certezza di essere riconosciuti e chiamati a rispondere dei loro atti”. Nulla più che una bella speranza, al momento. Green senza diseguaglianze di Mario Calderini La Repubblica, 8 novembre 2021 Ambiente e giustizia sociale. In questi giorni, a Glasgow, la politica sta ancora una volta provando a trovare una convergenza sulle azioni da mettere in atto per contrastare il cambiamento climatico e i suoi effetti devastanti. Nel frattempo, 35 mila miliardi di dollari continueranno ad essere investiti in imprese e progetti scelti secondo criteri che, sulla carta, dovrebbero concorrere agli stessi obiettivi che vengono discussi a Glasgow ed invece sono viziati da elementi che rischiano di rendere vano ogni sforzo politico. Su questo fronte, i grandi leader del mondo si ritrovano in Scozia con una novità sgradevole. La grammatica che chiamiamo criteri Esg, con la quale misuriamo le prestazioni ambientali e sociali delle imprese e dei portafogli finanziari e consideriamo una preziosa alleata per uno sviluppo più sostenibile, non solo è fragile e incoerente (questo lo sapevamo da tempo), ma incorpora alcune caratteristiche che riflettono e amplificano le deviazioni del sistema capitalistico, invece di correggerle. Una in particolare, riflessa limpidamente nell’intervista del presidente Sànchez a Repubblica, è quella di dover conciliare la transizione ecologica con elementi di giustizia sociale. Se leggiamo il problema della cosiddetta transizione giusta dentro il quadro definito dagli Esg, vediamo che quella grammatica è fatta da una E (di ambientale) molto grande, rispetto a una S (di sociale) sproporzionatamente piccola e terribilmente mal misurata. Le ragioni sono facilmente comprensibili: la E è più facile da misurare quantitativamente ed è relativamente poco rivale agli obiettivi di profitto e rendimento e per questo molto meno sgradita ai grandi operatori finanziari e alle imprese. La S di sociale è invece complessa da misurare e spesso direttamente conflittuale con gli obiettivi di profitto. Per questo, i mercati finanziari trovano conveniente vestire di verde i propri propositi di sostenibilità, sbarazzandosi di tutto ciò che ha a che fare con disuguaglianze, esclusione e povertà. Una strategia esplicita che si è sviluppata in due fasi, prima tentando di far sparire la S dalla narrativa e dalle metriche di sostenibilità, poi cercando di misurare la S nel modo più innocuo possibile: riferendosi a obiettivi di livello talmente alto (l’adesione alla dichiarazione dei diritti universali dell’uomo) o talmente piccoli (la palestra per i dipendenti in azienda) da essere in entrambi i casi irrilevanti e non conflittuali rispetto alle strategie di profitto. Questo modo bipolare di tener conto degli aspetti sociali lascia scoperta una terra di mezzo enorme, dentro cui stanno gli obiettivi di riduzione delle diseguaglianze sociali e territoriali, i rapporti con le comunità, l’inclusione degli svantaggiati e in generale tutto ciò che ha a che fare con forme strutturali di uguaglianza e giustizia. I criteri Esg sono preziosi, ma se non si affronta seriamente la questione delle metriche, gli Esg così come li conosciamo oggi - fragili, casuali, dilaniati da battaglie interne tra diversi standard e strabici - non guideranno i mercati verso una transizione giusta oltre che verde. C’è un secondo fronte aperto in questi giorni, a Bruxelles oltre che a Glasgow. Lì la Commissione Europea sta macchinosamente cercando di rimediare al ritardo con il quale ha messo mano alla cosiddetta social taxonomy, la tassonomia con cui si regolamenta la definizione della S, così come era stato fatto colpevolmente solo per la E già qualche anno fa, a dimostrazione di quanto sopra. Sulla proposta di tassonomia oggi in consultazione ci sono fortissime pressioni dal mondo finanziario e industriale per rendere la misura della S la più sciatta possibile. Anche su questo si gioca la possibilità di affrontare seriamente la questione del rapporto tra contrasto al cambiamento climatico e giustizia sociale ed in ultima analisi la speranza che dopo Glasgow ci si metta seriamente in cammino. Il domino dell’Africa che può ricadere sull’Italia di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 8 novembre 2021 I sommovimenti politici, sociali ed economici in atto suonano come un allarme. Ma la Ue sembra non vedere il rischio di destabilizzazione che corriamo. Il domino della disperazione ricomincia dall’altra parte del nostro mare. Mentre gli ultimi millecento migranti vedono le coste italiane proprio in queste ore, a noi conviene forse allungare lo sguardo oltre il Mediterraneo: là, dov’è il cuore del problema. A conti fatti, su circa 200 milioni di cittadini nordafricani, 150 sono scontenti dei loro governi, convinti di avere compiuto “passi indietro gravi nel campo dei diritti e delle libertà personali tra il 2019 e il 2020”. A dieci anni dalle prime rivolte, il fallimento delle cosiddette Primavere arabe, così fotografato dal centro studi “Arab Barometer”, incrociando il Covid e il cambiamento climatico, provoca in Nordafrica vasti sommovimenti politici, sociali ed economici. E suona come allarme per l’Europa: per i suoi Paesi rivieraschi, più esposti ai flussi di profughi e, in particolare, per noi, con la nostra infinita frontiera marittima. Nel dibattito pubblico italiano la questione è ancora schermata dai timori per una quarta ondata di pandemia, ma sta già riaffacciandosi con prepotenza negli slogan sovranisti: da qui alle prossime elezioni legislative potrà esplodere nuovamente con tutte le contraddizioni che ha generato in passato. Quando i battelli ong Ocean Viking e Sea Eye 4 hanno raccolto l’ennesima ondata di fuggiaschi, a lungo in attesa di un approdo, Luciana Lamorgese ha ricordato che “è giusto salvare queste persone ma è ingiusto che a farsene carico sia un solo Paese, il nostro, solo perché di primo arrivo”. Lo ripetiamo invano da anni. Il mai riformato trattato di Dublino, i poco applicati accordi di Malta, le cento promesse di un’Unione molto solidale contro il coronavirus, ma del tutto assente di fronte alle grandi ondate di sfollati (perché condizionata dall’ostruzionismo del blocco di Visegrad), sono altrettante spine per chi debba governare il fenomeno dal Viminale. I dati del “cruscotto” del ministero dell’Interno al 5 novembre sono espliciti: con 54 mila sbarchi da gennaio, a fronte dei 29 mila del 2020 e dei 9 mila del 2019 nel medesimo periodo, gli arrivi si sono moltiplicati per sei in due anni; naturalmente Matteo Salvini intona il facile mantra del “quando c’ero io...”, ignorando però volutamente un contesto geopolitico assai mutato. Non è un’emergenza, intendiamoci: siamo appena a un terzo dei flussi che l’Italia affrontò durante la grande crisi del 2014-17 (risolta dal “memorandum” del ministro Minniti, a tutt’oggi assai contestato dalla sinistra e dalle associazioni umanitarie per il feroce trattamento imposto ai migranti dai guardacoste di Tripoli e nei campi libici). Tuttavia, segnala una tendenza preoccupante, a fronte di un sistema d’accoglienza ancora da riformare, se non da rifondare. E conferma la specificità nordafricana: tunisini (14 mila) ed egiziani (seimila) costituiscono quasi il 40% dei migranti sbarcati da noi nel 2021. L’allarme viene rilanciato da Ispi e Consiglio Atlantico nell’ultimo dossier sul Nordafrica, “2030 quale futuro attende la regione”. I ricercatori ne paventano uno decisamente “tetro” di fronte a sfide che includono una disoccupazione giovanile del 49% in Libia (un dato mai raggiunto) e tassi analoghi a prima delle Primavere arabe in una Tunisia piagata dall’instabilità politica, un’urbanizzazione senza servizi per il 56% dei nordafricani affluiti nelle metropoli, una transizione energetica potenzialmente esiziale per gli Stati “rentier” (Algeria e, ancora, Libia) abituati a contare sull’oro nero come su un bancomat senza limiti. Questo disastro ci riguarda. “Se i cittadini nordafricani continuano a credere che la loro opzione migliore sia migrare a Nord, la pressione migratoria verso l’Unione europea potrà solo aumentare, come già è accaduto nel periodo post Covid (il numero dei passaggi irregolari dal Nordafrica all’Europa è cresciuto da 40 mila nell’anno precedente il marzo 2020 a 110 mila negli ultimi dodici mesi)”, notano, introducendo il dossier, l’ambasciatore Giampiero Massolo, presidente dell’Ispi, e il Ceo del Consiglio Atlantico, Frederick Kempe. Se anche uno ogni mille di quei 150 milioni d’inquieti nordafricani descritti dall’”Arab Barometer” decidesse di seguire oggi la rotta mediterranea verso l’Europa, genererebbe all’istante una nuova crisi migratoria in Europa e soprattutto in Italia. Per quale via se ne esce? C’è chi, come Gennaro Migliore, immagina “un vero Pnrr africano”. Il tema del sostegno economico all’Africa è antico e controverso: infatti, il presidente italiano dell’Assemblea parlamentare del Mediterraneo invoca anche “una forza di sicurezza europea che lo accompagni, per fare ciò che facevano prima gli Stati Uniti”. Vasto programma, direbbe De Gaulle, nelle continue baruffe tra Bruxelles e Stati nazionali. Eppure, la forte avanzata del terrorismo islamista nel Sahel, generata dal Covid (causa ritiro delle truppe e fuga dei jihadisti dai campi di detenzione siriani non più controllati) suggerirebbe davvero un’azione comune: “Il Sahel può essere un Afghanistan alla enne nel cuore dell’Africa”, dice Migliore. E i tormenti della regione subsahariana possono arrivare fino a noi: “L’attuale volatile situazione del Sahel ha aggravato le condizioni economiche e bloccato ogni miglioramento, fattori che influenzano la migrazione verso il Nordafrica e, di conseguenza, verso l’Europa”, spiega l’Ispi. Famiglie, mamme, ragazzini fuggono dal nuovo Isis, dalle dittature, dagli scontri interetnici, innescando un moto collettivo verso Nord che ha le nostre coste come casella d’approdo. Che una Unione capace di investire tanto sull’Italia del post pandemia non veda come questo domino disperato possa destabilizzarci, premiando proprio le forze all’Europa più ostili, è uno di quei paradossi dietro i quali la storia si diletta a nascondersi: fino a rivelarsi quando ormai è troppo tardi.