Boom di carcerazioni preventive, finisce l’effetto pandemia di Viviana Lanza Il Riformista, 7 novembre 2021 La pandemia da Covid ha avuto un impatto devastante sulla società, ma ha generato anche dei contraccolpi che i sarebbero potuti definire “positivi” se fossero stati davvero finalizzati non solo a contenere la diffusione del virus all’interno degli istituti di pena per fronteggiare l’emergenza sanitaria ma a limitare e contenere le carcerazioni “inutili”, quelle preventive, le misure cautelari a carico di persone sospettate di un reato, presunte innocenti secondo la Costituzione e la legge, in attesa di giudizio secondo i formalismi della burocrazia giudiziaria. Se si leggono i dati diffusi dal ministero della Giustizia e relativi ai detenuti in attesa di giudizio aggiornati al 31 ottobre 2021, ci si rende conto che i numeri sono impietosi e che la Campania indossa la maglia nera. Sono 1.288 i reclusi in attesa di primo giudizio nelle strutture di pena su una popolazione totale di 6.668 persone. Al secondo e terzo gradino del podio, dietro la nostra regione, ci sono la Sicilia, con 1.182 e la Lombardia con 1.084. Vuol dire che ci sono 1.288 vite sospese, presunti innocenti, persone che restano in cella senza che un giudice abbia pronunciato una sentenza di condanna. Possibile che siano tutti pericolosissimi criminali? Il Garante regionale dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, ha da tempo lanciato l’allarme sulle carcerazioni preventive che, se si considera che circa il 40% delle indagini si risolve in archiviazioni o assoluzioni, rischiano di rivelarsi una sorta di condanna preventiva, inaccettabile per uno Stato di diritto. La Campania è prima anche per numero di imputati che hanno chiesto un giudizio d’Appello, 588, e che intanto continuano a rimanere in cella. I condannati in primo grado, quindi non definitivi sono 1.220, mentre i definitivi sono 4.097. Non solo. In Campania c’è anche il maggior numero di detenuti in strutture alternative, come case lavoro, colonie agricole o altro. Complessivamente 54, a fronte dei 286 presenti sull’intero territorio nazionale. Numeri impietosi, dicevamo, che erano già emersi nel bilancio semestrale dello stato di salute delle carceri stilato dall’associazione Antigone. Secondo i dati, al 30 giugno, il 15,5% dei detenuti in Italia era recluso in attesa di primo giudizio, il 14,5% era condannato ma non ancora definitivo e il 69,4% stava scontando invece una condanna definitiva. Rispetto ai condannati non definitivi, il 48,4% risultava ancora in attesa del verdetto d’Appello, mentre il 39,2% aspettava la pronuncia della Corte di Cassazione. Poi ci sono i detenuti che vengono chiamati misti, ovvero quelli che hanno più procedimenti a carico, ma tutti aperti, cioè senza condanne definitive. In tutto il 12,4%. Negli ultimi due anni le cose sono andate gradatamente peggio. I reclusi in via definitiva, al 31 dicembre 2019, costituivano il 68,3% del totale, mentre a giugno 2020 erano scesi al 66,9%. Sei mesi dopo il bilancio è tornato a salire fino al 67,8%, poi c’è stato il picco del 69,4% di giugno. Senza parlare del cosiddetto affollamento reale che, nei primi sei mesi dell’anno, si è attestato al 113,1%. Secondo Antigone il 36% dei reclusi deve scontare meno di tre anni, mentre uno su sei è in attesa del primo giudizio. Il sovraffollamento è il comune denominatore dei penitenziari italiani. Sono 54 le carceri che hanno un affollamento fra il 100% e il 120%, 52 tra il 120% e il 150% e infine 11 istituti hanno un affollamento superiore al 150%. Con dati aggiornati a fine giugno, risultavano essere 7.147 le persone detenute in Italia a cui era stata inflitta una pena inferiore ai 3 anni (per 1.238 inferiore all’anno, per 2.180 compresa tra 1 e 2 anni e per 3.729 tra i 2 e i 3 anni). Oltre 8.200 reclusi hanno una pena inflitta compresa tra i 3 e i 5 anni, 11.008 tra i 5 e i 10 anni, 6.546 tra i 10 e i 20 anni e a 2.470 superiore ai 20 anni. E gli ergastolani? Sono oltre 1.800. Per quanto riguarda invece il residuo pena, al 30 giugno a 2.238 detenuti restavano da scontare più di 20 anni; a 2.427 tra 10 e 20 anni, a 5.986 tra 10 e 5 anni, a 7.281 tra 5 e 3 anni mentre a 19.271 reclusi, il 36% del totale, meno di 3 anni. Questi ultimi, se si eccettuano i condannati per reati ostativi, avrebbero potenzialmente accesso alle misure alternative. “Se solo la metà vi accedesse il problema del sovraffollamento penitenziario sarebbe risolto”, sottolinea Antigone. La chiave sembra essere sempre quella. Puntare sulle misure alternative per cercare di risolvere il problema delle carceri che scoppiano. Ma la coperta appare sempre corta e in cella ci resta anche chi, di fatto, non ha condanne. Come prevenire la radicalizzazione islamica nelle carceri? di Tatiana Santi sputniknews.com, 7 novembre 2021 Intervista a Roberto Piscitello, ex direttore generale Dap. Il rischio di radicalizzazione jihadista in Italia è reale. A lanciare l’allarme è il Copasir chiedendo un intervento legislativo non più rimandabile. Il web e le carceri sono un terreno fertile in cui può accelerare il processo di radicalizzazione o partire da zero per i soggetti sensibili. Come prevenire questo fenomeno? Nelle carceri italiane, così come in rete, prolifera la radicalizzazione dell’Islam. Secondo i dati del Viminale nell’ultimo anno sono 71 le persone espulse, 144 i foreign fighters monitorati dalle forze di sicurezza. Nelle carceri vi sono 313 detenuti sottoposti a monitoraggio e suddivisi in tre livelli di attenzione. Tra di loro le nazionalità maggiormente rappresentate sono quella algerina e quella marocchina. Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica ha sottolineato l’esigenza di una legge contro la radicalizzazione dell’Islam in Italia. Attraverso quali azioni concrete è possibile prevenire questo fenomeno nelle carceri dove i detenuti, soprattutto quelli stranieri, vivono già una situazione di disagio? Sputnik Italia per un approfondimento in merito ha raggiunto il magistrato Roberto Piscitello, ex pm del Dda (Direzione Distrettuale Antimafia) di Palermo, già direttore della direzione generale dei detenuti e del trattamento al Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Roberto Piscitello, quanto era diffuso il rischio di radicalizzazione islamica nelle carceri quando lei era ai vertici del DAP? Chiaramente non esistono indici scientifici per calcolare un coefficiente di rischio rispetto ad un fenomeno così liquido. Certo è che i nostri istituti erano e sono pieni di detenuti extra comunitari, detenuti che hanno altre provenienze culturali e che abbracciano altre religioni. Quando è stato dimostrato che spesso il terrorismo nasce da fenomeni di degenerazione integralista anche di carattere religioso è chiaro che tanto più è alto il numero di soggetti musulmani tanto più è alto il rischio. Va evitato che si creino in carcere occasioni in grado di costituire un alibi per una radicalizzazione, è quello che abbiamo cercato di fare al Dap quando c’ero io. Va detto che il fenomeno dell’integralismo religioso nel nostro Paese non riguarda gli italiani, così come accade in Inghilterra e altrove con immigrati di seconda e terza generazione. In Italia si è trattato di cittadini stranieri a tutti gli effetti, mi riferisco anche a quel cittadino tunisino che fu ospite nelle galere italiane e poi andò nei mercati di Berlino a fare una strage. Nel nostro Paese non abbiamo detenuti italiani, sono veramente pochissimi, si tratta principalmente di extra comunitari. Noi volevamo evitare di creare all’interno del carcere ulteriori situazioni di frustrazione. Come? Anche in accordo con le comunità islamiche presenti in Italia e con le minoranze religiose si è cercato di predisporre un discorso di mediazione culturale con il nuovo giunto. Il soggetto che entra in carcere vive già una situazione di disagio, spesso non parla la nostra lingua, è lontano dagli affetti e dal suo Paese. In carcere potrebbe trovare ulteriori vessazioni facendo del carcere un luogo di radicalizzazione per il trattamento che lì vi avviene, cioè quando questi soggetti si sentono ancora più stranieri e in difficoltà. Tutto ciò va evitato, noi abbiamo scritto dei protocolli che prevedevano la figura di un mediatore culturale, la possibilità che i musulmani potessero esercitare il proprio culto pregando in carcere, introducendo figure come gli imam che potessero gestire la preghiera. Vanno evitati errori che probabilmente sono stati fatti in passato. Quanto è difficile monitorare nelle carceri soggetti pericolosi o potenziali terroristi tenendo conto del sovraffollamento? Devo dire che la polizia penitenziaria oggi ha assunto una straordinaria specializzazione. Pensi che quando lavoravo al Dap si facevano dei corsi di lingua araba per taluni poliziotti per essere più vicini e per avere una maggiore capacità di ascolto per quanto riguarda l’insorgere di possibili fenomeni terroristici. Agli albori dei primi attentati terroristici, come quello al Bataclan di Parigi o quelli avvenuti in Belgio, il campanello d’allarme scattò perché all’interno di alcune camere di pernottamento la polizia vide delle scene di gioia rispetto alle notizie in merito agli attentati. Questi sono i primi campanelli di allarme che imposero maggiore attenzione. Ovviamente quando questi fenomeni non hanno una forma esteriore diventano più difficili da intercettare e dunque prevenirli nella loro massima potenzialità. All’interno dei nostri istituti sono certo comunque ci siano professionalità tali da cogliere e disinnescare sul nascere fenomeni del genere. Che tipo di leggi occorrono secondo lei per prevenire la radicalizzazione? Premetto dicendo che io di tutto mi potrei occupare oltre che di fare leggi. Mi piace pensare che quanto più si possa anticipare la soglia di prevenzione tanto più facile sia evitare il fenomeno. Con questo intendo l’importanza di fare in modo che non si creino situazioni di ulteriori frustrazioni all’interno delle carceri. Questo attraverso le leggi, ma anche attraverso i regolamenti e le norme di carattere interno. Bisogna rendere quanto più masticabile il periodo di detenzione per i soggetti che potenzialmente potrebbero trovare in carcere le ragioni per virare verso l’integralismo. Bisogna fare in modo che tutti possano esercitare anche all’interno degli istituti di detenzione i propri diritti, fra i quali anche quello di manifestare il proprio culto. Se si agisse in questo senso sarebbe una buona forma di prevenzione. L’Europa bacchetta l’Italia per il sovraffollamento nelle carceri. Forse bisognerebbe partire da qui per risolvere tanti altri problemi in questo sistema? Dirò una cosa contro corrente. Dovremmo smetterla di parlare di sovraffollamento perché i problemi non sarebbero risolti senza il sovraffollamento. Non possiamo ritenere che l’unico problema nel carcere sia avere 4 persone in 20 metri quadri o 4 persone in 15 metri quadri o in 7 metri quadri. Il problema del carcere è che quelle persone, a prescindere dai metri quadri, hanno bisogno di risorse e figure professionali per avere un trattamento adeguato: assistenti sociali, personale di polizia penitenziaria, insegnanti, imprenditori esterni che procurino posti di lavoro. Ci vogliono un sacco di cose che rendano il carcere umano e un luogo dove poter fare trattamento. Esistono dei legami fra jihadismo e mafia? No, per l’esperienza che ho avuto io non mi è mai capitato di dover pensare di poter sovrapporre dinamiche di tipo jihadista a dinamiche di tipo mafioso. Certamente no per le mafie tradizionali come Cosa nostra, la ‘ndrangheta e la camorra. Potrebbe essere diversa la situazione per le nuove mafie che si affacciano nel nostro Paese come le mafie nigeriane, quelle russe e quelle cinesi. Non avendo dati in merito però non posso analizzare il problema. Il jihadismo e le mafie tradizionali italiane hanno statuti diversi, obiettivi diversi, hanno proprio un dna criminale molto diverso. Magistrati in tilt sulla legge elettorale di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 7 novembre 2021 Riforma del Csm. L’Anm bloccata dai tifosi del sorteggio, oggi un nuovo tentativo di darsi una linea sul metodo si voto per la componente togata del Consiglio. Che è sempre più urgente. Ci riproverà oggi il comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati a mettere a punto una proposta di riforma della legge elettorale del Consiglio superiore della magistratura. Fin qui non è stato possibile per la distanza siderale di posizioni tra le correnti dell’Anm. Dove c’è ancora chi spinge per un sistema non elettorale, cioè il sorteggio. L’ipotesi, bordeggiata in epoca Bonafede, è stata abbandonata dalla ministra Cartabia i cui uffici in questi giorni lavorano ai testi degli emendamenti governativi. Anche perché la commissione Luciani, incaricata dalla ministra di studiare la riforma, l’ha liquidata in poche righe: il sorteggio sarebbe un segnale di pesante sfiducia nel senso di responsabilità della magistratura. Il paradosso è che proprio l’Anm che non riesce a darsi una linea sul sistema di voto per eleggere la componente togata del Consiglio superiore, con più insistenza ricorda alla ministra quanto sia urgente intervenire. A luglio 2022 si voterà il rinnovo del Consiglio, assai atteso dopo i colpi dello “scandalo Palamara” (proprio ieri nella prima giornata del comitato centrale l’Anm ha deciso di costituirsi parte civile nel processo di Perugia all’ex magistrato perno della spartizione delle nomine). E perché il Consiglio abbia il tempo di adattare i regolamenti alle novità occorre che la legge di riforma sia in Gazzetta ufficiale, si calcola, entro maggio. Cartabia ha fatto solo un primo giro di tavolo con i partiti della maggioranza, anche loro divisi. E quando ha sentito i rappresentanti dell’Anm non ha avuto risposte precise. Questo perché, ha spiegato ieri il presidente dell’Anm Santalucia, “una recente elaborazione interna non si è formata”. Le toghe associate possono solo richiamare le conclusioni di un’assemblea generale in cui si era espressa “netta contrarietà a ogni ipotesi di sorteggio”. Ma è un precedente che viene contestato sia perché quell’assemblea non fu troppo partecipata, sia perché da allora sono passati 14 mesi. L’Associazione magistrati ha nominato una commissione riforma del Csm che sta lavorando, ma non ha ancora prodotto una sua proposta. Anche se ha provveduto a bocciare la proposta caldeggiata dalla commissione ministeriale Luciani (cioè il voto singolo trasferibile a impianto proporzionale). Epperò anche questa bocciatura fa testo fino a un certo punto perché alla commissione dell’Anm partecipa chi vuole su base volontaria e dunque, ha dovuto precisare ieri il segretario generale Casciaro, “non rispecchia la composizione del comitato direttivo e non esprime perciò il punto di vista dell’Anm”. E così alla ministra l’Anm ha potuto solo dire che le toghe associate sono prevalentemente contrarie al sorteggio e sono per un sistema che garantisca pluralismo, rappresentanza di genere e “componenti di proporzionalità”. E per non farsi mancare niente, mentre il segretario Casciaro incontrava la ministra (il presidente Santalucia assente per precedenti impegni) Cartabia riceveva una lettera della non corrente di Articolo 101 che negava alla delegazione ogni rappresentatività. Santalucia (Anm): “Così la riforma penale manderà in tilt gli uffici” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 novembre 2021 Il presidente Anm Giuseppe Santalucia: “Ai magistrati onorari in servizio bisogna dare le tutele che richiedono”. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati chiede l’immediata costituzione del “Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale”. Poi l’affondo: “Il decreto sulla presunzione d’innocenza? Scelte discutibili: irrigidita irragionevolmente la comunicazione sta stampa e procure”. Le nuove disposizioni sul processo penale “metteranno a dura prova gli uffici giudiziari in maggiore difficoltà organizzativa”. A sottolinearlo è il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, in apertura stamattina del Comitato direttivo centrale. Per questo auspica che entri presto in azione il monitoraggio previsto “perché gli uffici giudiziari non possono essere lasciati soli nell’affrontare una riforma, per dire eufemisticamente, complicata”. Nel dettaglio, leggiamo nella relazione di Santalucia, “la riforma del processo penale è già legge, l’orologio dell’improcedibilità è già in azione, ed è tarato nell’applicazione di una parte della disciplina transitoria - per i processi i cui atti siano già pervenuti, al momento di entrata in vigore della legge, presso il giudice dell’impugnazione - sui tempi più brevi - di un anno per il giudizio di cassazione e di due anni per il giudizio di appello a far data dal 19 ottobre scorso -, che metteranno a dura prova gli uffici giudiziari in maggiore difficoltà organizzativa. Non abbiamo notizie della costituzione del Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, previsto dalla legge di riforma, e credo si possa tutti convenire nell’auspicarne la rapida costituzione, perché gli uffici giudiziari non possono essere lasciati soli nell’affrontare una riforma, per dire eufemisticamente, complicata”. Il Comitato a cui fa riferimento Santalucia è disciplinato dal comma 16 dell’articolo 2 della nuova riforma del processo penale di mediazione Cartabia, entrata in vigore lo scorso 19 ottobre: “Con decreto del Ministro della giustizia è costituito, presso il Ministero della giustizia, il Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria, quale organismo di consulenza e di supporto nella valutazione periodica del raggiungimento degli obiettivi di accelerazione e semplificazione del procedimento penale, nel rispetto dei canoni del giusto processo, nonché di effettiva funzionalità degli istituti finalizzati a garantire un alleggerimento del carico giudiziario”. Il Comitato è presieduto dal Ministro della giustizia o da un suo delegato e i suoi componenti durano in carica tre anni. E “nel perseguire tali obiettivi - prosegue Santalucia - si avvale della Direzione generale di statistica e analisi organizzativa del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi del Ministero della giustizia, dell’Istituto italiano di statistica nonché dei soggetti appartenenti al Sistema statistico nazionale e delle altre banche dati disponibili in materia. Il Comitato promuove la riorganizzazione e l’aggiornamento del sistema di rilevazione dei dati concernenti la giustizia penale e assicura la trasparenza delle statistiche attraverso pubblicazioni periodiche e i siti internet istituzionali”. A proposito delle riforme in atto e sulla necessitò di monitorarne gli effetti, due giorni fa con un tweet era stato proprio il commissario europeo alla Giustizia, Didier Reynders, dopo il suo incontro a Roma con la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, a dichiarare: “Le riforme della Giustizia in Italia sono ambiziose e mostrano impegni chiari. Sarà fondamentale un ampio monitoraggio per valutarne l’efficacia sul campo”. Il presidente Santalucia si è mostrato critico anche verso il recentissimo recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza: “entro una cornice di apprezzabile rafforzamento di alcuni presidi di garanzia, sono state compiute scelte discutibili. Si è irragionevolmente irrigidita la comunicazione con la Stampa dei Procuratori della Repubblica, che potranno servirsi esclusivamente di “comunicati ufficiali” e, nei casi di particolare rilevanza pubblica, di “conferenze stampa”. Regole che non renderanno un buon servizio, questo è il timore, all’esigenza di una corretta informazione su quanto accade nel processo durante la fase delicatissima delle indagini. L’Associazione dovrà essere pronta a rilevare le distorsioni applicative che oggi da più parti si prefigurano e non lasciare che siano soltanto i Procuratori della Repubblica a tenere alta l’attenzione su questi temi assai sensibili per l’effettività dell’assetto democratico della giustizia penale, di cui un tassello importante è proprio il rapporto con la Stampa”. Per quanto riguarda la riforma del processo civile ad intervenire criticamente è stato il Segretario dell’Anm Salvatore Casciaro: “Non sarebbe realistico pensare che rivitalizzando la struttura dell’Ufficio del processo si possa conseguire l’obiettivo storico della riduzione del 40% dei tempi dei processi civili. Tale sforzo organizzativo (apprezzabile, certo) andrebbe perlomeno affiancato con un serio progetto di revisione delle piante organiche e delle circoscrizioni giudiziarie, e ciò per ripensare globalmente in termini di maggiore funzionalità ed equità alla dislocazione delle risorse umane e materiali del settore giustizia”. L’Associazione nazionale magistrati torna dunque a esprimere i suoi dubbi sulla possibilità di centrare con la riforma dei giudizi civili il taglio del 40% della durata dei processi. La riforma non convince innanzitutto perché ci sono modifiche che “potrebbero rallentare l’iter dei processi”. E poi “ci si concentra sulla fase introduttiva del giudizio, i cui termini a comparire saranno oltremodo dilatati, e non sul vero problema per la celerità dei giudizi costituito dal momento decisionale”. Tutto questo senza considerare che gli operatori del settore sono concordi nel ritenere che la ricetta per accelerare i tempi dei processi civili sia racchiusa soprattutto “nel potenziamento delle risorse, rendendole adeguate al bisogno del pubblico servizio, coprendo in special modo gli organici dei magistrati e del personale amministrativo fino a renderli idonei a fronteggiare l’ingente mole del contenzioso”. Presunzione d’innocenza, Albamonte: “È una norma manifesto che produrrà solo danni” di Liana Milella La Repubblica, 7 novembre 2021 l segretario di Area critico sulla nuova legge che “va nella direzione opposta in cui camminano magistrati e giornalisti in Europa”. “Avverto un clima di rivincita e di ridimensionamento nei confronti della magistratura che mi preoccupa. Gli scandali ci sono stati, ma attenzione a limitare oltre misura la credibilità e l’azione dei pm e dei giudici”. Eugenio Albamonte, pubblico ministero a Roma e per la seconda volta segretario di Area, la corrente di sinistra delle toghe, legge le nuove norme sulla presunzione d’innocenza e a Repubblica dice: “L’Italia va in controtendenza rispetto all’Europa dove magistrati e giornalisti collaborano per fare buona informazione”. Diventa legge la presunzione d’innocenza e il suo maggiore sponsor, Enrico Costa di Azione, parla di “un momento storico per lo Stato di diritto”. Lei, da pm, come la vede? “A me sembra un fulgido esempio di norma manifesto che pare voler cambiare il mondo della giustizia, ma in verità non produrrà sostanziali effetti positivi. Al limite qualche danno”. Danni? Quali potrebbero essere? “Per formazione culturale sono sempre stato contrario alla censura e ho sempre creduto che la cattiva informazione si combatte con la buona informazione, non con nessuna informazione. Se poi vogliamo approfondire il merito, bisogna distinguere almeno due temi principali. Il primo è quello relativo alla scrittura dei provvedimenti giudiziari. Il secondo invece riguarda la comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero”. Perché pensa che l’effetto della nuova legge sulla presunzione d’innocenza sia quello di cancellare addirittura la cronaca giudiziaria? “Non credo che verrebbe cancellata, perché in qualche modo le notizie sulle attività giudiziarie continueranno a circolare. Semplicemente lo faranno in modo meno trasparente e sostanzialmente clandestino, magari attraverso l’attribuzione di un qualche privilegio a questa o a quella testata, o a questo o quel giornalista. Con la conseguenza di creare - adesso sì - una situazione opaca che rischia di contaminare le regole della libertà d’informazione perché si sa che il giornalista difficilmente assume un atteggiamento critico verso la fonte delle sue informazioni”. Lei considera un vero danno la stretta sulle conferenze stampa che si potranno tenere solo in casi eccezionali? “Dico di più. Il mondo gira in senso diametralmente opposto. Infatti in tutta Europa, presso i tribunali e presso le procure della Repubblica, anche nei paesi di recente ingresso nella Ue come la Romania, esistono degli uffici stampa, nei quali collaborano professionisti dell’informazione e magistrati proprio per dare a tutti, e in modo trasparente, le informazioni corrette, perché i tribunali devono essere delle case di vetro e la stampa e i cittadini devono conoscere, per poter valutare, quello che avviene lì dentro”. Un momento. Questa legge attua il principio della presunzione di innocenza. L’idea della politica, non solo di Costa, è che i magistrati utilizzino la stampa per accreditare la colpevolezza dei loro imputati. Nasce qui, del resto, la querelle sui nomi delle inchieste... “Certamente nel nostro Paese abbiamo assistito ad alcuni eccessi di comunicazione giudiziaria provenienti da alcuni procuratori che hanno caratterizzato negativamente innanzitutto la magistratura, ma alcuni limitati, seppur vistosi, esempi negativi, peraltro già censurabili nel sistema esistente, non possono giustificare una torsione di questo tipo”. Lei dice così, ma ormai nel palazzo della politica, a destra come a sinistra, c’è la convinzione che i pm parlano troppo con l’unico obiettivo di influenzare le decisioni dei giudici, danneggiando quindi gli imputati presunti innocenti... “Sul tema della comunicazione giudiziaria la politica dovrebbe farsi un esame di coscienza. Negli ultimi mesi le strumentalizzazioni a cui abbiamo assistito - ad esempio quelle sulla vicenda di Luca Morisi, ma anche quelle su Mimmo Lucano - sono state fatte dalla politica, tutta protesa a utilizzare le vicende giudiziarie per le loro ricadute politiche, senza curarsi minimamente del rispetto della dignità delle persone sottoposte alle indagini e al processo. Ma ci sono anche altre strumentalizzazioni”. Per esempio quali? “Quelle di certe trasmissioni televisive che, senza nessuna attenzione per la vicenda giudiziaria che si svolge nei tribunali, assumono posizioni colpevoliste o innocentiste semplicemente per ragioni di ascolti. Tutto questo non rischia di influenzare l’opinione pubblica e perfino i giudici che a torto vengono ritenuti così facilmente suggestionabili?”. Però è un fatto che la nuova legge sulla presunzione d’innocenza non ha trovato alcuna opposizione politica. Non le sembra la conseguenza di un clima del tutto nuovo che accusa sempre la magistratura di comportamenti scorretti? “Che la magistratura sia stata colpita da gravi scandali è un fatto. Che su questi scandali sia in atto un tentativo di ridimensionare complessivamente il ruolo della magistratura stessa e la sua capacità di svolgere pienamente la sua azione è un altro fatto. Questa vicenda si collega ad altre come quella dei tabulati telefonici, o il tentativo, per il momento abortito, di ridurre in modo consistente l’uso delle più moderne tecnologie di intercettazione, e in prospettiva le iniziative referendarie”. Da magistrato pensa che la politica oggi, di destra e di sinistra, voglia ridurre il peso della magistratura cominciando a delegittimarla? “Io mi limito a mettere insieme tutte le occasioni in cui si può leggere il tentativo di rivincita rispetto a vecchie vicende giudiziarie che hanno visto la contrapposizione tra politica e magistratura e che evidentemente ancora non sono state dimenticate, come più in generale è sempre vivo l’istinto non solo di alcuni segmenti della politica, ma anche dell’economia, e più in generale della società, di limitare il più possibile l’attività giudiziaria”. A questo proposito come giudica la proposta bipartisan - Pd, M5S, Lega - di ridurre drasticamente la portata dell’abuso d’ufficio per quella che i sindaci hanno battezzato la “paura della firma”? “Negli anni il reato di abusivo d’ufficio è stato più volte modificato, fino a ridurne enormemente la portata. Ora è molto difficile che qualcuno venga condannato per questo reato, ma ci si preoccupa comunque del rischio di essere sottoposti alle indagini. Forse perché si sa che l’informazione di garanzia è diventata soprattutto strumento di contrapposizione politica per additare la persona che ne è colpita all’elettorato e all’opinione pubblica senza, appunto, alcun rispetto per i diritti dell’indagato a non essere rappresentato come colpevole”. Se il clima della politica è quello che lei descrive cosa si aspetta dalla prossima legge sul Csm? Perché è proprio da lì che può arrivare una stretta finale sui magistrati. “Mi aspetto il meglio, ma temo il peggio. Mi aspetto cioè che si sia in grado di affrontare il delicato tema della riforma del Csm risolvendone le storture che ne hanno condizionato fortemente il ruolo, senza offenderne, ma anzi rafforzandone, il prestigio e l’autorevolezza, quale garante dell’indipendenza dei magistrati e tramite essa del diritto dei cittadini ad avere giustizia. Sono però preoccupato proprio per questo clima di rivincita e di ridimensionamento di cui abbiamo parlato che ciò non possa avvenire. Sarebbe un grave danno per le istituzioni della Repubblica che devono sostenersi e rafforzarsi e non demolirsi reciprocamente”. Sassari. Detenuto trasferito da Bancali a Uta trovato morto in cella di Luca Fiori La Nuova Sardegna, 7 novembre 2021 Sarà la Procura della Repubblica di Cagliari a fare chiarezza sulla morte di un detenuto di nazionalità tunisina trasferito di recente dal carcere di Bancali a quello di Uta. Il magistrato ha disposto che venga eseguita l’autopsia sul corpo del giovane trovato senza vita, mercoledì mattina, nel letto della sua cella. I familiari, tutti residenti da tempo a Sassari, si sono rivolti a un avvocato con l’obiettivo di far luce su questa tragedia. Stando alle prime informazioni il ragazzo sarebbe morto nel sonno e solo a metà mattinata il personale dell’istituto penitenziario si sarebbe reso conto di quanto era accaduto. Immediatamente sono intervenuti i soccorsi con i medici che hanno tentato per oltre mezz’ora di rianimarlo ma ormai per il giovane detenuto non c’era più niente da fare. Informato il magistrato di turno, è stata avviata un’indagine per chiarire cosa abbia causato il decesso del tunisino. Parma. Quella lettera dal 41bis è la lettera di Domingo dalla fine del mondo di Gioacchino Criaco Il Riformista, 7 novembre 2021 “Mi rendo conto di quanto ingrato sia il compito, fratello, e il nostro potrebbe sembrare un gesto da malfattori…”. Sembra una lettera dalla fine del mondo, quella pubblicata da Rita Bernardini sul Riformista. Il mittente potrebbe essere uno dei 39 marinai lasciati a presidio dell’isola Hispaniola da Cristoforo Colombo, nel 1493. Ma A.T. non somiglia al Domingo di Josè Manuel Fajardo. E il carcere di Parma i colori smaglianti delle perle caraibiche non potrebbe recuperarli neppure dentro una spropositata sbronza. Pure se il carcere, in Italia, un po’ lo è la fine del mondo: soprattutto se si finisce nei gironi infernali del 41bis. Che il 41bis è un mondo di infinito dolore, impossibile da raccontare. Impossibile da credere, fuori, in Italia. Neppure se lo si raccontasse benissimo. Sta nelle categorie degli incubi, si rimuovono appena aperti gli occhi. E gli occhi, in Italia, sul 41bis, nessuno quasi vuole o osa tenerli aperti. Lo fanno in pochi, pochissimi sopravvissuti di una cultura libertaria o di qualche setta umanistica. In questo senso, Rita Bernardini è un reperto preistorico, un ombrellone aperto d’inverno su una spiaggia deserta. Scrive A.T. di trovarsi da più di tre anni al 41bis, e dopo i primi mesi trascorsi nel circuito, generico, meno afflittivo solo per modo di dire, di essere stato trasferito nell’area riservata del 41, il regime più ferreo. Ciò senza un necessario provvedimento giudiziario o ministeriale. Intanto, nei tre anni di area riservata, la sua condizione processuale è pure mutata, è stato assolto dal 416bis, che è condizione per il differimento penitenziario. Si scrive e si pensa: ma chi la legge questa roba? Chi vuole sentirsi complice di questo inferno? Pochi. I pochissimi come la Bernardini che sono ormai le ossa assise dal sole e dal sale sopra una sabbia fine e bianchissima. A.T. nell’area riservata del carcere di Parma, a suo dire, ci sta per una decisione interna, che ritiene illegittima. Fa la dama di compagnia a un super boss, di quelli destinati a consumarsi nel girone più duro del 41. Scioperi della fame, lettere, l’attesa del ricorso. Parole. A.T. è Domingo, che scrive una lettera dalla fine del mondo, e non si capacita di essere stato mollato su un’isola, e non ci crede al ritorno della Nina o della Pinta o della Santa Maria. E nemmeno Rita Bernardini può andarlo a trovare. Un colloquio al mese, video e audio registrato, al di là di un vetro, la posta censurata. Una recita di un’ora perché ogni parola, ogni gesto, possono essere fraintesi, puniti. Dieci chili fra mangiare e vestire e ci si rivede, forse, fra un mese. Uno, due anni, poi il cervello fa acqua, la mente s’ingroppa a una barchetta alla deriva. A.T. scrive lettere, si lamenta di stare nell’area riservata del 41bis, senza ragione. Fa la dama di compagnia, come un tempo le nobildonne di rango inferiore a quelle di sangue più blu. Ma la sua cella è distante, in un castello che sta alla fine del mondo, pure se è a Parma. E l’Italia è lontana, da tempo ormai, dall’altra parte della luna. Venezia. Mary, l’ex insegnante angelo dei detenuti: “A loro serve aiuto” di Massimiliano Cortivo Corriere del Veneto, 7 novembre 2021 Voltolina: carceri in centro storico, un errore spostarle. “L’arrivo delle sigarette, il martedì. Le rosette con la polpa di granchio. Il passaggio guardingo dei caprioli nel sottobosco. La voce di mia figlia al telefono. Le persone anziane contente…”. Un lunedì pomeriggio del luglio scorso gli avevano chiesto che cosa li rendesse felici. E Andrea, Igor, Leonard, José e altri avevano risposto così, creando tutti assieme una lunga poesia salutata da un applauso alla lettura finale. Il laboratorio di narrazione faceva parte del progetto “Vivere e convivere” e ad animarlo, assieme ad altri volontari, c’era Maria Voltolina. Settant’anni compiuti lo scorso anno, tredicesima di quindici figli, Maria (o Mary come la chiamano molti amici) c’era e c’è: da più di vent’anni quasi ogni giorno tra il carcere maschile di Santa Maria Maggiore e quello femminile della Giudecca. Presidente dell’associazione Il Granello di Senape, ex insegnante di lingua inglese al liceo Sperimentale Stefanini e poi al Benedetti, Voltolina è uno dei simboli del volontariato penitenziario in città. Una realtà che spesso rimane nell’ombra. “Tutto ciò che ha a che fare con il carcere fatica ad arrivare sotto i riflettori” racconta. “In una parte dell’opinione pubblica e sovente nei decisori tutto questo mondo viene nascosto o quantomeno ignorato. A partire dalla stessa struttura circondariale. Quante volte abbiamo sentito parlare di trasloco in terraferma, magari a Tessera? Niente di più sbagliato - prosegue Voltolina. Il carcere, sia quello di Santa Maria Maggiore che quello della Giudecca, è e deve rimanere uno spazio della città”. E non è per una romantica e idealistica visione del “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, no, le ragioni sono pragmatiche, così com’è pragmatica Maria: “Allontanare il carcere significherebbe in primis mettere in difficoltà il volontariato e isolare ancor di più detenute e detenuti”. Di attività Maria e Il Granello di Senape ne fanno moltissime, elencarle tutte porterebbe via troppo spazio, dai progetti culturali e ricreativi alla gestione della biblioteca, alla spesa settimanale ad eventi specifici in occasioni particolari come ad esempio il Natale. In tutte troviamo lei. Che precisa, sorridendo con gli occhi: “Non sono mossa da alcuna vocazione, eh. Ho iniziato per caso vent’anni fa - racconta -. Volevo fare qualche cosa di concreto oltre all’insegnamento, ho visto un foglietto attaccato ad un muro che pubblicizzava il volontariato in carcere, ed eccomi ancora qua”. Con l’associazione che l’ha assorbita. “Mi è entrata letteralmente in casa - ride - la sede infatti è casa mia. Ma anche stavolta non è una mia scelta, figuriamoci. Uno spazio l’abbiamo chiesto più volte al Comune, abbiamo partecipato a molti bandi, ma niente (fa una pausa e pesa le parole, ndr): diciamo che faticano a risponderci, ecco”. Ascoltandola parlare nella corte del bacaro gestito dal figlio Alvise, in Ghetto, viene sempre in mente un’unica domanda: perché proprio il volontariato penitenziario? “Credo molto nel privilegio di nascita. Se siamo cresciuti in un contesto che ci ha permesso di studiare, di coltivare delle buone relazioni, di vivere la nostra vita in modo sereno... beh, non possiamo non pensare di essere dei privilegiati. E non possiamo non aver voglia di restituire qualcosa a chi è stato meno fortunato di noi”. Perché dietro gli errori che hanno compiuto le persone arrivate in carcere c’è spesso qualcos’altro: “La mancanza di aiuto. Molti sono a Santa Maria Maggiore perché non hanno trovato nelle loro vite chi li abbia aiutati, chi li abbia fatti riflettere, chi li abbia fermati”. Riflessioni e supporto che ora giungono anche semplicemente tra chiacchiere, ascolto e piccoli gesti. Come portare qualcosa di buono da mangiare, “ti piacerà”, come consigliare un bel libro, “ti appassionerà, vedrai”. In fondo, qualcuno al laboratorio di luglio l’aveva anche detto: “La felicità? È quando faccio del bene”. Oristano. La denuncia di Sdr: “A Massama detenuti ancora in sovrannumero” linkoristano.it, 7 novembre 2021 Maria Grazia Caligaris commenta i dati forniti dall’Amministrazione penitenziaria: 259 posti, 273 presenze. “È ancora la casa di reclusione ‘Salvatore Soro’ di Oristano-Massama il carcere dove si è registrato a ottobre il numero di detenuti oltre il limite regolamentare. Sono infatti 273 per 259 posti disponibili, pari al 105,4%”. Lo segnala Maria Grazia Caligaris, dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, prendendo in esame i dati dell’Ufficio statistica del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aggiornati al 31 ottobre. “Una condizione resa ancora più grave dal tipo di ristretti, prevalentemente ergastolani”, dichiara Caligaris, “e dalla grave carenza di personale penitenziario, agenti ‘anziani’ e 40 ispettori in meno rispetto alla pianta organica. Difficile la condizione anche dei funzionari giuridico-pedagogici, solo due in servizio per poter garantire a tutti le attività trattamentali”. Criticità, queste ultime, evidenziate più volte da Caligaris. “Non si può dimenticare”, sottolinea l’esponente di Sdr, “che il carcere di Oristano è stato oggetto di una protesta da parte di 160 detenuti per l’assenza di attività trattamentali, per le condizioni di vita in celle dove filtra l’acqua e per un istituto dove gli ergastolani non possono disporre di celle singole e accedere al lavoro. Di recente sulle problematiche è anche intervenuta la Camera Penale oristanese con una delegazione guidata dalla presidente Rosaria Manconi che ha fatto visita alla struttura. Quella di Oristano insomma appare come una realtà particolarmente complessa, nonostante l’abnegazione degli operatori penitenziari”. Le problematiche relative al sovraffollamento delle carceri non riguardano però soltanto la struttura di Massama. “Dal quadro elaborato dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria”, osserva ancora Maria Grazia Caligaris, “emerge complessivamente uno spaccato contraddittorio sulla situazione detentiva nell’isola che, peraltro, mese dopo mese vede crescere il numero di detenuti, in particolare quelli dell’alta sicurezza. La situazione non è facile neanche a Tempio. Nella casa di reclusione ‘Paolo Pittalis’ di Nuchis sono infatti ristretti 165 detenuti per 170 posti. Insomma, mentre gli istituti di reclusione e quelli circondariali sono sempre al limite della capienza di persone private della libertà, le tre colonie penali risultano semivuote. Un paradosso non più accettabile in quanto la Sardegna è l’unica regione italiana che ospita tre case di reclusione all’aperto nei comuni di Isili, Is Arenas e Onanì, con un territorio a disposizione pari a oltre 6mila ettari, molti dei quali in aree particolarmente interessanti dal punto di vista ambientale”. “I numeri”, continua l’esponente di Sdr, “non hanno bisogno di commenti, parlano da soli. 1210 su 1988 ristretti (2.605 posti) si trovano nelle case circondariali di Cagliari (547), Nuoro (274), Sassari (389), tutte strutture dove si trovano sezioni di alta sicurezza e a ‘Bancali’ anche 90 detenuti al 41bis. Un caso a parte è casa circondariale di Lanusei, tradizionalmente destinata ai ‘protetti’. 585 sono invece i reclusi nelle case di reclusione e 222 nelle tre colonie penali, che dispongono però di 613 posti. È evidente che nell’isola, indicata come una regione senza sovraffollamento, i conti non tornano, perché tra carenze strutturali e di personale la situazione appare davvero preoccupante”. Sassari. Il Garante dei detenuti all’esame di Palazzo Ducale di Roberto Sanna L’Unione Sarda, 7 novembre 2021 Caso Unida, convocata una riunione dei capigruppo per lunedì mattina. La Camera penale: “Deve essere rimosso”. Partita da Facebook, la vicenda del Garante dei detenuti senza green pass, Antonello Unida, è transitata su network nazionali e infine tornerà in quella che è la sua sede naturale: Palazzo Ducale, cuore delle decisioni. Dopo alcuni giorni a dir poco tumultuosi su vari fronti, il presidente del consiglio comunale Maurilio Murru ha firmato ieri una convocazione urgente dei capigruppo per lunedì mattina. Uno solo il punto all’ordine del giorno: “Garante dei diritti delle persone private della libertà personale”. Sarà una mattinata calda perché è proprio il consiglio comunale l’organo deputato alla nomina e alla revoca dell’incarico. E al Comune è arrivata una comunicazione ufficiale dalla direzione dell’istituto penitenziario di Bancali nella quale si informa che da diversi giorni il Garante non si presenta in carcere, dove però può entrare soltanto se provvisto di green pass. Stesso requisito, peraltro, necessario per frequentare gli uffici di Palazzo Ducale, dove il Garante ha la sua stanza. Possibile quindi che a questo punto ad Antonello Unida, al quale nessuno ha contestato la decisione di non vaccinarsi ma sono state espresse perplessità sulla compatibilità di tale scelta col suo incarico, venga chiesto di dotarsi della certificazione. Nei giorni scorsi, tra l’altro, il suo video girato alla Pelosa nel quale rendeva noto il suo pensiero è finito al centro di due trasmissioni a carattere nazionale. Una televisiva su Rete 4, “Diritto e rovescio”, durante il quale il video è stato commentato senza però contradditorio. Unida è stato invece sentito al telefono nel corso del programma radiofonico “La zanzara”, condotto da Giuseppe Cruciani e David Parenzo. Sull’argomento interviene anche la Camera penale “Enzo Tortora”, presieduta dall’avvocato Danilo Mattana, che ha inviato una nota molto dura al sindaco e al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria: “Il ruolo del Garante non può essere concretamente espletato esclusivamente al di fuori del carcere e il protrarsi nel tempo di questa situazione ha indebitamente sottratto ai detenuti, ed alle altre figure che ruotano nell’universo carcerario, un riferimento imprescindibile. Inoltre le sue esternazioni lo rendono incompatibile con la funzione e con il delicatissimo equilibrio raggiunto dalla fragile comunità carceraria solo grazie alla stretta osservanza delle normative di prevenzione e grazie al fatto che la quasi totalità dei soggetti sono vaccinati. Chiediamo pertanto l’immediata rimozione e l’altrettanto immediata sostituzione con altra figura che possa garantire concretamente la funzione”. Su un’eventuale rimozione, il regolamento dispone che può essere disposta “per gravi motivi connessi all’esercizio delle sue funzioni o gravi inadempimenti nei compiti affidati”. E lunedì i capigruppo si confronteranno proprio su questo tema. Geraci (Pa). Una nuova vita per i detenuti minorenni, progetto di reinserimento in comunità di Roberto Chifari Corriere del Mezzogiorno, 7 novembre 2021 Convenzione firmata con la società che si occupa del servizio di igiene ambientale: obiettivo, formare due unità da assumere in futuro. C’è un futuro tutto da scrivere dopo la detenzione, soprattutto se si tratta di minorenni, ovvero, permettere loro un completo reinserimento nella società. L’accordo nasce tra la cooperativa sociale Primavera di Geraci Siculo, la società “Ama rifiuto è risorsa” di Castellana Sicula, il centro per la giustizia minorile per la Sicilia e il comune di Geraci Siculo. Da tempo, ormai, la cooperativa sociale Primavera a Geraci ospita sei ragazzi “in esecuzione di misure penali esterne”. Si tratta di quei soggetti premiati dal giudice con una seconda possibilità: piuttosto che il carcere, li trasferisce all’interno di queste comunità, dove potranno essere impegnati in varie attività lavorative. A Geraci i ragazzi si occupano della gestione di un’azienda agricola e zootecnica, coltivando quindi frutta e verdura e pascolando gli animali. La convenzione di oggi ha voluto coinvolgere in questa attività anche la società “Ama” che si occupa sulle Madonie del servizio di raccolta dei rifiuti e della differenziata. Due giovani saranno inseriti all’interno delle squadre e affiancheranno gli operai che si occupano nel borgo madonita delle attività di spazzamento e raccolta dei rifiuti dopo un necessario periodo di formazione (oltre a un’apposita assicurazione per gli infortuni sul lavoro). Ai giovani sarà riconosciuto un gettone di presenza. “Ritengo che sia un fondamentale percorso di reinserimento sociale - spiega il sindaco di Geraci Siculo Luigi Iuppa. Tocca adesso alla nostra comunità mostrare tutta la sensibilità possibile verso questi ragazzi che, è vero, hanno commesso degli errori, ma che stanno facendo di tutto per rimettersi sulla giusta via. Geraci Siculo ha sempre mostrato la sua solidarietà sociale. Lo abbiamo visto nel periodo della pandemia. Ora dobbiamo accompagnare questi giovani verso la loro rinascita”. Cuneo. In mostra le opere ispirate all’Inferno dantesco e realizzate dai detenuti targatocn.it, 7 novembre 2021 Le opere saranno esposte nel Comune. Inaugurazione il prossimo 12 novembre alle 17.30. Presso il Salone d’Onore del Comune di Cuneo (via Roma 28) inaugurazione dell’esposizione fotografica ed artistica “Nel mezzo del cammin di nostra vita...”, ispirata alle illustrazioni di Gustave Dorè della Divina Commedia, e in particolare dell’Inferno, realizzate dai detenuti della Casa di Reclusione “San Michele” di Alessandria. In occasione del 700° anniversario della morte di Dante, nell’arco di tutto l’anno 2021 in tutta Italia sono realizzati o sono previsti eventi e celebrazioni per ricordare il Sommo poeta: la mostra sarà inaugurata venerdì 12 novembre alle ore 17,30 e rimarrà visitabile fino al 12 dicembre. Con il sindaco Federico Borgna e l’assessore Patrizia Manassero, saranno presenti i fotografi volontari che hanno seguito il progetto in carcere e i Garanti comunale, Alberto Valmaggia, e regionale, Bruno Mellano, che hanno dichiarato: “Particolarmente significativo ed evocativo che, in questo caso, siano state proprio le persone recluse ad immedesimarsi nei personaggi dei gironi danteschi e ad utilizzare la chiave dell’alta cultura per poter parlare delle miserie umane, proprie della vita reclusa nelle patrie galere”. Le opere esposte sono il frutto di un gruppo di lavoro che è stato animato dai volontari dell’Associazione “ICS ets” di Alessandria nell’ambito del progetto “Artiviamoci” e - nello specifico di queste realizzazioni - con l’aiuto degli esperti volontari dell’Associazione “PASSOdopoPASSO”. I 16 pannelli che compongono la mostra, presentata anche presso l’URP del Consiglio regionale del Piemonte, riflettono, con grande efficacia comunicativa, sulla condizione umana delle persone detenute. Disegni, incisioni e stampe xilografiche a partire dalla lettura dei canti dell’Inferno dantesco associati a riprese fotografiche dei detenuti attori. La realizzazione dell’opera è stata occasione per i detenuti di raccontarsi, di riflettere sul proprio vissuto e di riaffermare la propria dignità personale. Il progetto artistico è stato sviluppato in carcere con il supporto dei fotografi Monica Dorato, Bruno Appiani e Valter Ravera per la sezione fotografica della Associazione “PASSOdopoPASSO”: i fotografi saranno presenti per illustrare il progetto e le opere esposte. Il Garante regionale Bruno Mellano ha infine dichiarato: “Sono molto contento che si sia riuscito a creare una relazione fra tanti soggetti diversi e così si possa realizzare l’esposizione della mostra - che abbiamo già allestito a giugno presso l’URP del Consiglio regionale a Torino e poi a settembre a Verbania, con la preziosa sinergia con la Società Dante Alighieri. L’occasione della mostra di Cuneo coincide anche con un passaggio di consegne fra Mario Tretola e Alberto Valmaggia nel delicato ruolo di Garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, e sarà quindi un momento ulteriore di conoscenza della comunità penitenziaria. L’invito è, dunque, a visitarla”. La “rivoluzione” del diritto in Europa di Andrea Manzella Corriere della Sera, 7 novembre 2021 Non si tratta di essere pro o contro il sovranismo polacco, ma di essere o no dalla parte della nostra Costituzione. La disputa polacca contro il “primato” del diritto europeo su quello nazionale tocca molto da vicino quella che la Corte costituzionale italiana ha definito la “chiave di volta” della nostra Costituzione e la storia delle sue origini. Questa storia è nel Manifesto che, proprio ottanta anni fa, cittadini privi della libertà personale scrissero a Ventotene. Quello che non fu soltanto un atto di Resistenza contro il “modello” dello Stato totalitario allora prevalente in Europa (non unicamente quindi contro quello fascista). Fu soprattutto un atto di natura “rivoluzionaria”, in ragione del suo radicale rifiuto del dogma della sovranità statale assoluta. Fu per prima la Costituzione italiana del 1948 a tramutare questo programma in una formula giuridica. È l’articolo 11: “L’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. La limitazione della sovranità statale non era solo una “rivoluzione” costituzionale italiana: era un capovolgimento di tutte le concezioni dominanti del costituzionalismo europeo. Un anno dopo la Costituzione di Bonn si porrà sulla stessa scia; poi gli Stati degli allargamenti successivi, com’è storia. Quella clausola di “limitazioni” della sovranità sarà dunque il modello di intarsio delle Costituzioni nazionali con un ordinamento sovrastatuale: che da quelle “limitazioni” derivava appunto il suo “primato”. In quel reciproco intersecarsi di ordinamenti si realizza così, secondo le attribuzioni, una “unità nella diversità”. Da un lato, un “quadro istituzionale unico” che vincola gli Stati che hanno aderito. Dall’altro, l’incorporazione nel diritto dell’Unione delle “tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri” e il “rispetto dell’identità nazionale” (di cui parlano gli articoli 4 e 6 del Trattato europeo). Ma cos’è l’”identità nazionale”? Finora è stato ragionevole pensare che in essa rientrino istituti e procedure legati alla storia sociale degli Stati come, ad esempio, la materia del diritto di famiglia. Non si è mai pensato che con essa si potessero cancellare garanzie fondative per uno Stato democratico come l’indipendenza dei giudici o la libertà di voto. Anche, semplicemente, perché quelle garanzie sono state richieste come condizioni per essere ammessi nell’Unione. E di qui il diritto della Corte europea di verificarne il mantenimento. Profetico, nel 1941, il Manifesto sosteneva la legittimità del diritto di ingerenza dell’ordinamento sovrastatuale nella vita istituzionale degli Stati membri. “Assurdo il principio secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la Costituzione interna ad ogni singolo Stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri Paesi europei”. A Bruxelles la Merkel ha usato poche parole: “Chi è entrato nell’Unione conosce i Trattati che ha firmato”. Ha così mitemente affermato la non negoziabilità del primato del diritto europeo: che qualsiasi “accomodamento” non potrebbe smentire. Quanto a noi italiani, non si tratta di essere pro o contro il sovranismo polacco. Si tratta di essere o no dalla parte della nostra Costituzione e della sua storia. Il dopo Zan è un vento che cresce: nuovi ddl, referendum e un nome per il Colle di Simone Alliva L’Espresso, 7 novembre 2021 Dopo la bocciatura del disegno di legge contro l’omotransfobia le piazze si sono riempite in nome dei diritti di tutti. Mentre la politica osserva, il Movimento Lgbt è pronto a un’altra battaglia. E punta su uno scranno più alto. “Nessuno ci regalerà niente, bisogna pretendere e farlo adesso”, gli attivisti Lgbt lo ripetono in chat, video conferenze, telefonate, nelle sedi delle associazioni. Il post-Zan è già arrivato. Ha invaso le piazze italiane per giorni dopo la sua bocciatura. Più di 50 sit-in organizzati in pochissime ore e uno slogan comune: “Molto più di Zan”. Dopo venticinque anni di fallimenti la comunità arcobaleno è stanca ma non è più sola. Tra le migliaia di persone ci sono ragazzi e ragazze, studenti, lavoratori, migranti, persone con disabilità, femministe. La battaglia per i diritti di tutti può chiamare a raccolta forze imprevedibili. Così più che una battuta d’arresto lo stop alla legge contro l’omotransfobia, la misoginia e l’abilismo ha segnato l’inizio di un nuovo corso. Venerdì il movimento Lgbt italiano si riunirà, come fa da mesi ogni settimana, sulla piattaforma Zoom: “Cerchiamo di capire dove possiamo andare”, dice Rosario Coco, segretario di GayNet, l’associazione fondata da Franco Grillini. Al vaglio c’è una proposta di legge iniziativa popolare, il successo delle firme sul fine vita e sulla cannabis hanno dimostra che dal basso si può raccogliere un milione di firme facendo clic da casa. Si potrebbe puntare anche su altro. Molto più di Zan, appunto. Una legge sul matrimonio egualitario, contro le terapie di conversione dell’omosessualità ancora presenti in Italia, proposte di riforma per le adozioni e per la legge 164 del 1982, cioè sul cambio di sesso: “Stiamo ragionando su iniziative che possano avere una caduta parlamentare” dice Coco, “non è auspicabile rinunciare del tutto alla battaglia in Aula in questo momento. I contenuti sono tanti. Riflettiamo sull’agenda a 360°. Lo scopo è stimolare tutta l’area progressista della politica per un’attenzione più inclusiva”. È un gran lavorio di fondo che tiene dentro chiunque: “Il futuro dei diritti è già qui, solo che è mal distribuito” spiega Alessia Crocini, presidente di Famiglie Arcobaleno: “La voglia di rilanciare è forte. Lo avevamo sempre detto che avremmo continuato a chiedere ciò che ci spetta. Per noi è vitale discutere di una legge sul riconoscimento dei nostri figli. Basterebbe dare piena uguaglianza a temi che sono di fatto diritti ad appannaggio delle persone etero: matrimonio, riconoscimento di figli alla nascita, l’adozione e per le donne single e in coppia lesbica l’accesso alla PMA. Quattro cose che mia sorella e mio fratello possono fare, io no”. E così in una sinergia che coinvolge altre associazioni, come Avvocatura per i diritti Lgbti - Rete Lenford, si scrivono proposte di legge e referendum. Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay ha ben chiaro il momento storico: “Ci troviamo di fronte a una nuova fase politica per questa legislatura e non ci facciamo illusioni sul presente ma ci poniamo il problema del futuro. Riprendiamo il filo del discorso di tutte le istanze legislative da porre ai partiti. La fine del ddl Zan ha portato a un’unità di intenti per tutte le associazioni”. Piazzoni sulle proposte buttate in campo dal centro-destra è chiaro: “Chi oggi parla di una legge contro l’omotransfobia dopo averla affossata fa una boutade. Anche riproporre la legge Scalfarotto ha poco senso, è già stata bocciata nel 2013 perché dovrebbe avere un finale diverso? Noi chiediamo di più”. La politica resta in ascolto e si muove osservando le piazze e le dichiarazioni di chi le agita. Decretata la fine del ddl Zan era stato Franco Grillini, ex deputato e presidente onorario di Arcigay a rilanciare: “immediatamente un testo brevissimo (uno, massimo due articoli) che estende seccamente la Mancino per ragioni di orientamento sessuale e identità di genere”. Matteo Renzi non ha perso tempo, raccontano, una lunga telefonata tra lui e Grillini dai toni cortesi ma senza lieto fine: “Appoggio la tua proposta ma presentiamo la legge Scalfarotto. Cioè via identità di genere e mettiamo omofobia e transfobia”. Niente di fatto. “Sono termini incostituzionali ma Renzi non ne vuole sentire”. Tra Italia Viva e il movimento Lgbt la distanza è siderale. Va da sé che il Palermo Pride, uno degli eventi più importanti per la comunità arcobaleno, ha deciso organizzare una vera contestazione nei confronti del sottosegretario Ivan Scalfarotto, presente a Palermo per la presentazione di un libro. Dal centro-destra resta sul tavolo la proposta di legge presentata insieme a Matteo Salvini, dalla vicepresidente del gruppo Forza Italia al Senato, Licia Ronzulli: “Se davvero si vuole punire la discriminazione e la violenza e non semplicemente piantare una bandierina” dice Ronzulli “si può partire da questo ddl”. Non usa mezzi termini per commentare il deputato del Pd Alessandro Zan: “Quel disegno di legge è pericoloso perché è un attacco alla legge Mancino, vorrebbero trasformare gli aggravanti per crimini d’odio razziale e religioso in futili motivi. Ci farebbe fare passi indietro sul contrasto al razzismo, all’antisemitismo e all’odio religioso. La verità? Vogliono utilizzare l’omotransfobia per dare un colpo mortale alla legge Mancino”. Dentro il Partito Democratico la sintonia con l’associazionismo Lgbt resta: “Il Pd ha dato prova di lealtà al Movimento” spiega Monica Cirinnà, senatrice e responsabile del dipartimento diritti del Partito Democratico: “Chiedeva nessuna modifica e noi non abbiamo ceduto sulla cosa più importante: l’identità di genere. Perché nessuno deve essere lasciato indietro”. Sul futuro il Pd ha già le carte in mano: “Abbiamo delle proposte già depositate sul matrimonio egualitario (a firma della stessa senatrice n.d.r), altre sull’omotransfobia che non sono state accorpate, la questione sul cognome del madre. Il dipartimento diritti ha un tavolo con la comunità Lgbt e una chat. Sappiamo che il movimento trans scenderà in piazza il 20 e chiede a pieno titolo visibilità dopo questi mesi in cui è stata a lungo ostracizzata. Noi abbiamo dimostrato di essere leali non cedendo sull’identità di genere cioè quello che volevano Renzi e Salvini. Perché voglio ricordare che se non nomini identità di genere non metti tutte le soggettività al loro interno. Chiedo a Renzi come protegge le persone in transizione? È fuffa. Il Ronzulli-Salvini? Aria fritta”. Per il M5s che negli ultimi mesi si è avvicinato alla comunità Lgbt grazie al lavorio della senatrice Alessandra Maiorino le proposte che saranno avanzate sono “una dichiarazione di intenti. Abbiamo capito che con questo Parlamento sarà difficile approvarle ma è un segnale che vogliamo dare al Paese” dichiara Maiorino: “L’Italia ha perso un’occasione. C’è un problema di ordine europeo se pensiamo che la Commissione Ue per i temi dell’uguaglianza sta lavorando a una proposta per estendere l’elenco dei reati europei per includere tutte le forme di reato d’odio e incitamento all’odio. Certamente riproporremo questa legge” insiste con una specifica che sembra una stoccata a Italia Viva: “procedere sul 604bis, l’articolo del codice penale è inevitabile ma servono anche i percorsi di educazione al rispetto, serve un approccio culturale, il penale non basta”. Sulle richieste del movimento non ha dubbi: “Sono scesa nelle piazze della comunità, chiedono molto più di Zan e hanno ragione. Nella nostra carta dei valori è stato inserito il rispetto dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale, chiederò che venga inserito nel nostro programma il matrimonio egualitario perché il nostro paese prevede istituti di serie A e B e posso annunciare che presenterò una proposta di matrimonio egualitario”. Il dopo-Zan è un vento che cresce, le piazze continueranno a riempirsi con appuntamenti previsti anche nelle prossime settimane e intanto i Palazzi osservano, misurano la distanza fisica, emotiva e ideale fra gli eletti e i possibili elettori. Il Movimento Lgbt però è pronto a un’altra battaglia che scavalca quella delle leggi per i diritti che mancano e punta su uno scranno più alto. L’idea è quella di una raccolta firme per proporre un personaggio di peso e dichiaratamente gay al Quirinale. Possibilità di successo: scarse. Ma nella mobilitazione che si gonfia ogni giorno anche solo la sua nomina rappresenta un simbolo dei tempi che cambiano, racconta una storia che basta alzare gli occhi per capirla. La prova di forza di un grande movimento politico e di opinione che dopo cinquant’anni ha ancora la capacità di riempire le piazze, aprire dibattiti e porre problemi impossibili da ignorare. Così la Francia ha arginato le nuove povertà da Covid Lezioni per l’Italia e l’Europa di Francesco Saraceno Il Domani, 7 novembre 2021 La stabilità del tasso di povertà può essere attribuita al massiccio sforzo del governo francese (come degli altri paesi europei) per sostenere i redditi. Ma ora il clima sta cambiando. Mercoledì scorso l’istituto statistico francese, l’Insee, ha pubblicato una stima dell’evoluzione dei redditi in Francia durante il primo anno di pandemia. La conclusione principale del rapporto è che nonostante la crisi sanitaria il tasso di povertà monetaria nel 2020 è rimasto stabile al 14,6 per cento della popolazione. 9,3 milioni di persone in Francia hanno un tenore di vita inferiore a 1.063 euro al mese, una soglia corrispondente al 60 per cento del reddito mediano. Per questa conclusione, sorprendente e contraria a stime che circolavano da mesi (che parlavano di un milione di nuovi poveri), la nota ha avuto molta risonanza prestandosi a considerazioni che vanno al di là del caso francese. Le stime e la tendenza - La cifra in sé non va presa alla lettera, per una serie di limiti metodologici evidenziati dagli autori stessi e addirittura dal presidente dell’Insee in un post: intanto, la stima sull’evoluzione dei redditi si basa su microsimulazioni a partire dalle ultime dichiarazioni dei redditi disponibili (2019), anche se questo non pone particolari problemi, perché il metodo si è rivelato affidabile in passato. Tuttavia, proprio perché basata sulle dichiarazioni, la stima esclude l’economia informale e alcune tipologie di lavoro (per esempio degli studenti) che sono esenti da tassazione sul reddito. Inoltre, il campione dell’Insee non copre le persone che vivono in comunità (residenze studentesche, case di riposo, etc.); ora, la perdita di redditi non dichiarati al fisco (ad esempio per i lavori domestici o i lavori saltuari) è stata significativa durante il primo lockdown. Infine, la povertà non può essere ridotta al solo reddito. Proprio a causa di tutte queste limitazioni, non è sorprendente che altri indicatori, come ad esempio il maggior ricorso ai banchi alimentari, mostrino un aumento della povertà assoluta. Insomma, se è vero che la crisi sanitaria non ha spinto una parte significativa della popolazione al di sotto della soglia di povertà nulla ci dice che la situazione dei 9,3 milioni di poveri in Francia non è peggiorata. Tuttavia, anche se le cifre saranno riviste al rialzo quando i dati sui redditi 2020 saranno disponibili, l’impatto della pandemia sulla povertà è stato inferiore alle attese. Questa notizia non può che essere accolta con soddisfazione. Lo stato protettore - La stabilità del tasso di povertà può essere attribuita al massiccio sforzo del governo francese (come degli altri paesi europei) per sostenere i redditi. Nel caso francese è stata particolarmente efficace l’estensione della cassa integrazione (l’activité partielle) alla quasi totalità dell’economia (che solo nel 2020 è costata circa 27 miliardi). Insieme agli aiuti eccezionali alle famiglie più povere (sussidi per la casa e per i minori a carico, ad esempio) e a misure a sostegno delle imprese il quoi qu’il en coute, versione autarchica del whatever it takes di draghiana memoria, ha assorbito il colpo e protetto lavoratori salariati, piccole imprese e lavoratori autonomi. Anche per l’Italia la cassa integrazione ha svolto un ruolo centrale nel limitare l’aumento della povertà, come documentato da Maurizio Franzini e Michele Raitano su queste pagine. Ma, in Francia, come da noi e altrove in Europa, dalle maglie della rete protettiva dispiegata dai governi sono sfuggite proprio quelle categorie che la stima dell’Insee non ha potuto catturare: microimprese, lavoratori in nero o a tempo parziale, piccoli artigiani, studenti, pensionati; categorie nelle quali, peraltro sono sovra rappresentati alcuni gruppi particolarmente fragili: i giovani, ovviamente, ma anche le donne e gli immigrati. Contro la precarietà - È per questo che si dovrebbe evitare di esultare troppo per il relativo successo nel contenere l’impatto della pandemia sui redditi, che maschera l’assenza di misure strutturali per contrastare la tendenza di lungo periodo all’aumento della precarietà e alla pauperizzazione di interi segmenti della società e del mercato del lavoro. Anzi, la crociata ripartita subito dopo la parentesi della pandemia contro l’assistenzialismo non è altro che la faccia (teoricamente) presentabile della battaglia di lungo periodo contro la protezione sociale, che invece dovrebbe essere ripensata e rafforzata per adattarla al nuovo mondo del lavoro. In Francia come da noi, su pensioni, sostegno ai redditi, mercato del lavoro, è stata riaccesa la miccia della guerra tra poveri, un’arma di distrazione di massa per togliere dall’agenda politica il tema della disuguaglianza. Al contrario, è utile ricordare che prima della pandemia infuriava il dibattito sulla riduzione della tassazione per capitale e redditi più elevati. Proprio in Francia, le prime misure del presidente Macron nel 2017 gli avevano valso l’etichetta di “presidente dei ricchi”: il tasso di povertà della cui stabilità al 14,6 per cento oggi ci si inorgoglisce, era al 14,1 per cento nel 2017, all’inizio del mandato (e al 12,5 per cento nei primi anni Duemila). Le idee per invertire la tendenza non mancano e, come la povertà e la precarietà, sono multidimensionali. Si pensi, per il nostro paese, alle proposte del Forum disuguaglianze e diversità che vanno dal ripensamento delle norme sugli appalti e degli incentivi e alle imprese per premiare comportamenti virtuosi in tema di tutela del lavoro e dell’uguaglianza di genere, al trattamento di istruzione e proprietà intellettuale come beni comuni, a nuove politiche per ridurre le disuguaglianze territoriali, al ripensamento del diritto del lavoro e della contrattazione collettiva, fino alla riforma del sistema fiscale per migliorare la giustizia sociale e far ricadere sulle spalle di chi inquina di più il peso della transizione ecologica. Quello che manca, quasi ovunque in Europa, è un vettore politico che metta al centro dell’agenda dei prossimi anni il tema della distribuzione del reddito. Egitto. Zaki sarà trasferito in nuova prigione di Marta Serafini Corriere della Sera, 7 novembre 2021 Gli attivisti: “Preoccupati che le condizioni di detenzione peggiorino”. La notizia ai genitori durante l’ultima visita. Non si conosce ancora il nome del nuovo carcere in cui verrà rinchiuso lo studente dell’Università di Bologna. Zaki verrà trasferito in una nuova prigione. Niente più carcere di Tora per lo studente dell’università di Bologna che si trova in stato di detenzione dal febbraio 2020. A darne notizia sono gli attivisti della campagna per la liberazione di Patrick che su Facebook scrivono: “Oggi i genitori di Parick sono andati a trovarlo nella prigione di Tora e lui ha detto loro che è stato informato che la struttura della prigione di Tora sta chiudendo, il che significa che dovrà essere trasferito in un’altra struttura di detenzione”. Sempre secondo gli attivisti non è ancora dato sapere in quale nuovo istituto penitenziario sarà rinchiuso Patrick. “Non sono ancora state fatte dichiarazioni ufficiali, quindi non sappiamo quando e dove sarà trasferito e siamo molto preoccupati che possa essere trasferito in una prigione con condizioni di vita peggiori. Quello che sappiamo è che non sarà trasferito nel nuovo complesso carcerario di Wadi El Natroun, perché la struttura è solo per detenuti e non per detenuti politici”. Se dunque già Tora, con la sezione dello Scorpione destinata ai detenuti politici è considerato uno dei peggiori carceri del mondo, preoccupazione viene espressa sulle visite già contingentate negli ultimi mesi. “Stiamo aspettando la dichiarazione ufficiale per sapere cosa significherà questo per Patrick, ma la verità è che probabilmente non ci sarà nessuna dichiarazione ufficiale e sentiremo per caso che la prigione è chiusa o la sua famiglia andrà a trovarlo solo per rendersi conto che è stato trasferito e in entrambi i casi i suoi avvocati dovranno andare a cercarlo nei registri della prigione per sapere dove lo hanno trasferito perché nessuno notifica nulla alle famiglie. Speriamo che questo non lo metta in circostanze ancora peggiori di quello che ha passato nell’ultimo anno e 9 mesi!”. “Questa somma di incertezze per Patrick sta veramente logorando il suo stato d’animo. Sarebbe importante che questa vicenda si chiudesse felicemente al più presto”, ha dichiarato all’Ansa Riccardo Noury, portavoce Amnesty International Italia. “Alla vigilia del ventunesimo mese dall’arresto, alle incertezze che ormai dominano sulla vita di Patrick si aggiunge anche una nuova incertezza su quello che sarà il luogo in cui potrà essere trasferito, giacché le notizie sulla chiusura del centro di detenzione di Tora si rincorrono - dice Noury - Non c’è ancora nulla di certo, rispetto a un eventuale luogo di detenzione, ma quello che le autorità egiziane hanno annunciato è che in questo processo di trasferimento di detenuti da vecchie a nuove carceri, con ogni probabilità si tratterà di luoghi più lontani e nei quali almeno all’inizio le visite familiari non saranno facili”. Dai deputati italiani arriva invece l’ennesimo appello al governo Draghi affinché riconosca la cittadinanza italiana a Patrick, come deliberato dalle Camere. Questo è “l’ennesimo grave abuso sulla vita di un giovane uomo, studente brillante, che il regime di Al-Sisi punisce per soffocare il suo impegno in tema di diritti civili. Serve un’accelerazione per il riconoscimento della cittadinanza italiana di Patrick. Non lasciamolo solo”, ha commentato il deputato di LeU Erasmo Palazzotto. “Mi chiedo cosa ce ne facciamo di tutta la nostra ragion di Stato sulla sua cittadinanza italiana di fronte a uno studente dell’Università di Bologna preso in ostaggio da mesi, torturato in cella, malato, lontano da famiglia e affetti. Che stiamo aspettando, cosa?”, commenta su Twitter, il deputato del Partito democratico Filippo Sensi. La notizia del trasferimento di Patrick arriva a poche settimane dalla nuova udienza del processo di Patrick, fissata per il 7 dicembre davanti alla Corte di Mansoura. E segue l’annuncio fatto dal presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi sulla costruzione di nuove carceri in “stile americano”. Uccisa attivista afghana: “È la prima da quando i talebani sono al potere” di Marta Serafini Corriere della Sera, 7 novembre 2021 Il corpo di Frozan Safi, docente universitaria, ritrovato insieme a quelli di altre tre amiche. “Le hanno attirate in trappola con la falsa promessa di farle uscire dal Paese”. “L’abbiamo riconosciuta dai suoi vestiti. I proiettili le hanno distrutto la faccia”. Frozan Safi, 29 anni, docente di economia, era nota a Mazar-i-Sahrif per il suo attivismo a favore delle donne. È stata trovata morta, insieme ad altre tre donne in una casa alla periferia della città. Tutte amiche e colleghe, secondo la Bbc, probabilmente ingannate dai loro assassini, che le hanno attirate nell’appartamento con la falsa promessa di portarle all’aeroporto per fuggire dal Paese. Venti giorni fa, Frozan riceve una telefonata da un numero anonimo. “Raccogli tutti e documenti e preparati a partire”. Quelle parole hanno un senso: Frozan aveva fatto richiesta di asilo politico in Germania. Così prende alcuni documenti, incluso il suo diploma universitario, li butta in una borsa, si getta una sciarpa bianca e nera sulla testa esce di casa. E sparisce. I familiari la cercano disperati, mentre i media tacciono. Poi giovedì scorso le forze di sicurezza talebane portano all’ospedale i corpi di due donne non identificate che erano state colpite a morte, spiegando che la polizia stava indagando sulle cause, ma che essendo state trovate vicino a due uomini si ipotizzava una lite familiare. Infine il riconoscimento all’obitorio e la notizia, diffusa dal Guardian, che le donne uccise sono in realtà quattro. “Frozan aveva ferite da proiettile dappertutto, troppe da contare, sulla testa, sul cuore, sul petto, sui reni e sulle gambe”. Il suo anello di fidanzamento e la sua borsa, spariti entrambi. La sorella Rita, una dottoressa, parlando con il Guardian, è cauta nel puntare il dito contro i talebani. “Semplicemente non sappiamo chi l’ha uccisa”. Una vendetta personale? Una punizione per il suo attivismo? Mentre il padre delle Abdul Rahman Safi, 66 anni, dice invece che il corpo della famiglia è stato trovato in una fossa non lontano dalla città ed è stato registrato dagli operatori ospedalieri come sconosciuto, per molti l’omicidio di Frozan e delle altre tre donne è il primo contro le donne da quando i talebani hanno preso il potere. “Chi è stato a ucciderla? Lo sappiamo tutti, ma nessuno può dirlo pubblicamente. Altrimenti fa la stessa fine”, dice un’altra attivista a Il Manifesto. Il clima dunque in Afghanistan si fa sempre più teso. E la paura traspare dalle parole di Zahra, un’altra attivista, che racconta al Guardian di essere stata con Frozan durante l’ultima protesta a Mazar-i-Sharif contro i talebani, confermando l’impegno della donna. E poi aggiunge: “Il mio WhatsApp è stato hackerato. Non oserei andare sui social media ora”, segno che il timore di essere controllate e spiate è sempre più grande. Il tutto mentre i talebani dicono di aver arrestato due sospetti senza però dare ulteriori dettagli. Fin da metà agosto, le donne hanno tenuto regolarmente proteste in tutto il Paese contro i talebani, chiedendo il ripristino e la protezione dei loro diritti. In un Afghanistan sempre più piegato dalla crisi economica non passa giorno senza che i diritti delle donne vegano ulteriormente calpestati. Le ragazze sono di fatto bandite dalla scuola secondaria, il nuovo governo è tutto maschile e le donne sono state escluse da tutti i settori della società, in primis il lavoro. Giovedì Human Rights Watch ha denunciato come i talebani vietino alla maggior parte delle donne di operare come operatori umanitari nel paese, accelerando un disastro umanitario incombente. Le attiviste d’altro canto raccontano di essere braccate dai talebani, che hanno perfezionato modi per infiltrarsi nei loro gruppi e intimidirle. Un salto di qualità nella repressione, dunque, dopo che hanno usato bastoni elettrici contro i giornalisti che seguivano le proteste delle donne. E che ora prevede anche il ritorno degli omicidi e delle esecuzioni. Afghanistan. La grande trappola di Giuliano Battiston Il Manifesto, 7 novembre 2021 Tra Mazar-e-Sharif e Kabul, le voci di chi sogna solo di fuggire all’estero, lontano dal nuovo Emirato, dalla paura e dai conflitti. Quelli per l’identità nazionale e quelli per la terra. Ma c’è anche chi vuole restare: “Ai Talebani non c’è alternativa”. L’attivista uccisa, Foruzan Safi, forse adescata con un falso via libera per Berlino. “Piani per il futuro? Trovare il modo per lasciare l’Afghanistan”. Idris ha trent’anni. Occhiali spessi di plastica nera, felpa rossa con cappuccio, ha gli occhi arrossati. Fino alle 5 del mattino è stato a chattare con “un’amica che vive in Corea”. Dorme meno del solito. “Non c’è speranza qui. L’unica è andarsene”. Siamo in un appartamento a Omid Sabs, quartiere-satellite di Kabul costruito negli ultimi 10 anni. Per parlare liberamente serve un posto sicuro. In questa “cittadella” le case costano tanto. Costavano. “C’è chi ha venduto a 50.000 dollari appartamenti comprati per il doppio del valore”. Gli “evacuati”. Interi edifici pensati per gli impiegati pubblici, per la classe medio-alta, vuoti. Proprio in quest’area alcune ambasciate hanno trasferito centinaia di persone, prima di fargli raggiungere l’aeroporto di Kabul. Era metà agosto. I giorni dell’evacuazione. Della fuga. Oggi è un esilio lento. Sottotraccia. Sul futuro del Paese c’è un grande punto interrogativo. “C’è modo di venire da voi, in Italia?”. No, non c’è modo. “Allora vengo a farci la guerra!”, fa scherzando un militante. Lo incontriamo con i suoi compagni - giovani sbarbati con mimetiche militari e colori chiari - che passeggia nei giardini esterni del santuario di Hazrat Ali, la moschea blu simbolo di Mazar-e-Sharif. Vengono tutti da Samangan. Sono soddisfatti, sì. In posa per la foto. Più avanti ci ferma un uomo: dice che lavorava per il governo degli Stati uniti, che aveva passato tutti i test per essere espatriato. Qui rischia, deve partire. Special Immigration Visa, SIV, P2, LPR, etc, etc. I codici amministrativi ricevuti per email sono l’ultimo appiglio con l’esterno. In Qatar e nelle basi militari americane decine di migliaia di afghani sono nello stallo. In città, ci si organizza. Due settimane fa, da Mazar-e-Sharif una rete di israeliani ha fatto evacuare 180 persone via aerea. Piano d’emergenza segreto. “C’è gente in attesa a Mazar da più di un mese”, ci dicono. “Vivono nelle guesthouse e aspettano la chiamata”. Reti sotterranee. Possono rivelarsi trappole: secondo alcune ricostruzioni, Foruzan Safi, l’attivista di Mazar ritrovata morta come raccontato dal manifesto, sarebbe stata attirata in una trappola. Un falso via libera per la Germania. Un agguato. Non ne teme Abassin, lunghi capelli neri, baffetti, wasqat militare, pantalone corto su scarpe sformate. Il più loquace di un altro gruppo di giovani Talebani al santuario di Mazar-e-Sharif. Viene dal distretto di Chimtal, nella provincia di Balkh. “Abbiamo vinto perché siamo forti come pietre. La guerra era giusta, l’Emirato è giusto”. Tra i suoi compagni uno è in ciabatte di plastica, un piede fasciato, pantaloni e camicione militari, il kalashnikov sulla spalla destra, la kefiah bianca e nera in testa. “Tre giorni fa sono tornato dal Panjshir, poi andrò a controllare l’aeroporto”, continua Abassin. “Ho 20 anni. Sono un soldato talebano da quando ne avevo 15”. Nell’appartamento del quartiere residenziale Omid Sabz, a Kabul, entrare nella testa di Abassin è impossibile. “No, non ci possiamo fidare. È un gruppo contro le donne, contro la società intera”. Fatima ha 31 anni, ha lavorato per organizzazioni internazionali, seguito progetti per le donne. “Ne parlo con le amiche e gli amici: che fare? Rimanere? Ha senso farlo?”. Nata in Iran, parte della grande diaspora afghana, è tornata nel 2016. È in stallo. Semifinalista per una borsa di studio Fulbright per gli Usa, aspettava l’ultima intervista. “Ma l’accordo vale solo con i governi riconosciuti dal governo Usa”. I Talebani non lo sono. Fatima aspetta. “Ci hanno detto: ne riparliamo a dicembre”. Anche la famiglia di Mustapha ha vissuto all’estero, da rifugiata. A Quetta, nel Beluchistan. Sono rientrati nel 2001 in Afghanistan. “Che strada scegliere? Quale opzione preferire? Qualunque arrivi”, sostiene questo 27enne, un divorzio e un figlio. Si è laureato all’American University di Kabul. Obiettivo costante dei Talebani: due docenti, lo statunitense Kevin King, 63 anni, e l’australiano Timothy Weeks, 50, sono stati sequestrati nell’agosto 2016 e liberati nel novembre 2019 in cambio del rilascio di Haji Mali Khan, Hafiz Rashid e Anas Haqqani. Lo scambio avrebbe dovuto favorire il negoziato. Nell’agosto 2021 i Talebani si sono fatti fotografare all’ingresso dell’università. Gli Haqqani hanno i ministeri. L’anno zero. Non si gira pagina. Si cambia quaderno. Lingua e vocabolario. Modi e comportamenti. “Ero in auto per arrivare a Darulaman, sono stato fermato. “Sei un dottore, un ingegnere?” mi hanno chiesto. Cercano di capire chi sei, controllano”. Mohammed Jalal ha lavorato al ministero delle Finanze, per un grande gruppo imprenditoriale, poi ha creato la sua compagnia di consulenza. Ora non lavora. Esce poco. Ha paura. Fa giri larghi per evitare i posti di blocco dei Talebani, a Kabul più presenti che a Mazar. Una parte della popolazione è sotto minaccia. A rischio reale o percepito. Distinguerlo è difficile. Il passato può essere una colpa, una condanna. Lavorato per il governo? Per compagnie, aziende, organizzazioni del vecchio Afghanistan? Un nemico potenziale. “La cosa che temo di più sono le spie. Nel quartiere, tra vecchi colleghi, tra conoscenti, su Facebook”. Anonimato. Una vita da cancellare. Non resta che partire. Per i Talebani l’Emirato è stabilità. Ma il passaggio di regime porta con sé nuovi conflitti. Politici e identitari: su cosa sia l’Afghanistan, come vada governato, per rappresentare quali gruppi e quali valori. E conflitti materiali: su case e terre innanzitutto. “In molti distretti, a Daykundi, in un paio di distretti di Balkh e altrove, i kuchi pashtun tornano a reclamare proprietà di decenni prima”. Con i Talebani al potere, si può fare. “Ci sono famiglie a cui sono stati dati 5 giorni per lasciare la casa di una vita. Alcune sono arrivate a Kabul”. Madhi chiede di vederci in un caffè tranquillo. Anche lui si fa vedere poco in giro. Nell’area che gravita intorno alla rotonda di Pul-e-surkh, a Kabul, la rete di caffè per studenti hazara ben educati è saltata. I gestori all’estero: “Francia, Canada, Germania, Qatar”. Chiusi i caffè più conosciuti. Per Mahdi “i Talebani non sono un gruppo religioso, ma un gruppo tribale”. La discriminazione verso gli hazara è sistematica. Parla di “etno-fascismo”. Ricorda gli stragisti al potere. L’unica soluzione è uno Stato federalista. O partire. “Non c’è alternativa ai Talebani. È la migliore soluzione”, sostiene convinto Ahmad Wali Akhmadi. Originario di Kandahar, trent’anni circa, studi e viaggi all’estero, buone connessioni, in questi anni si è dato molto da fare: ha fondato una tv privata, aperto un’agenzia di viaggi, lavorato per organizzazioni non governative, gestito progetti con i fondi governativi degli Stati uniti. Il monopolio del potere sta nelle cose, dice, non è esclusiva dei Talebani. “Siamo in Afghanistan. Chi vince prende tutto”. L’egemonia pashtun sta più nella testa degli altri che nella realtà. È una storia vecchia. Il vecchio sistema non poteva comunque più reggere: “Due elezioni con frodi, governi imposti dall’esterno, nessuna sovranità reale”. Era “un fake-State. Tutto finto. Dalla democrazia alla società civile. Ecco perché è crollato”. Vuole rimanere. “Non temo i Talebani, ma il crollo economico”. “Non ho nessuna intenzione di partire. Sono stato tre anni in Danimarca, dove vive mia sorella. Facevo le pizze, quelle italiane. Poi sono tornato. Non riparto più. Qui ho la mia famiglia, i miei amici”, sostiene Amrullah. Lo troviamo sdraiato dietro il bancone del negozio che gestisce nel mercato coperto di Mazar-e-Sharif, il Muttahid. Il migliore in città. Con Nader Shar gestisce un negozio di hijab: “Prima ne vendevamo 5 a settimana, ora 30. Gli affari vanno bene”. Donne e bambini girano tra le clienti, chiedendo qualche spicciolo. Caracas, la brutta addormentata di Fabio Bozzato La Repubblica, 7 novembre 2021 È un’altra notte nella capitale del Venezuela, tra nuove povertà e mille violenze. Il momento peggiore è la sera, con il tempo delle gang e delle strade troppo buie. Così qualcuno ha pensato a un osservatorio della criminalità notturna. La notte arriva veloce a Caracas, verso le 7 di sera, quasi tutto l’anno. Se poi capita nel mezzo di uno dei tanti blackout, un buio fangoso si mangia la città. Un po’ prima, all’imbrunire, la metro e le busetas svuotano frotte di pendolari, si affrettano i passi per strada, le ultime compere nei negozietti lungo le strade e si arriva a casa. Ma è a quell’ora, quando il cielo incatrama edifici e avenidas, che tutti indossano la loro seconda pelle. Che qui si chiama paura. L’Osservatorio sulla violenza registra anno dopo anno indici di delitti che solo la pandemia ha un po’ rallentato: nel 2020 si sono contate quasi 12mila morti violente, al ritmo di 45,6 ogni 100mila abitanti. “La violenza ha ucciso undici volte più del Covid”, si legge. La notte ha ristretto Caracas ormai da troppi anni e l’epidemia l’ha svuotata ancora di più. Non è sempre stato così. La capitale venezuelana ha fama di essere stata una delle città più effervescenti dell’America Latina, ma i ventenni non lo sanno e neanche i trentenni, allora devono ricorrere ai ricordi dei nonni o dei padri. “Sento anch’io la mancanza di quella Caracas”, dice José Carvajal, da tutti chiamato Cheo. “Si andava a cena e poi a ballare in uno dei tanti locali e dopo una festa era normale fermarsi in piena notte a mangiare un’arepa (focaccina farcita, ndr) prima di tornare a casa. Oggi sono rimaste pochissime le areperas che lavorano di notte”. Cheo Carvajal, giornalista e narratore urbano, conosce la sua città come pochi: l’ha attraversata a piedi da cima a fondo, ha battuto ogni angolo sempre camminando, scrivendo poi cronache e interviste magnifiche. “Tuttavia, era anche una città profondamente diseguale e classista e solo in pochi posti capitava di incontrare il sifrino, il ricco e snob appena uscito da un matrimonio al Country Club che ballava salsa gomito a gomito con il motorizado di San Agustín. È quella la Caracas che mi manca”. Ora invece l’imbrunire scandisce il tempo della città da vivere e il tempo della città da dimenticare. Eppure, riflette Nikolai Elneser Montiel, giovane urbanista, master ad Atlanta e animatore di Transecto, bella rivista online sulle questioni urbane: “in quella metà di tempo da dimenticare, ci perdiamo una quantità di opportunità. Non solo il piacere di vivere la notte, ma anche i commerci, le attività, i servizi pubblici. Una città monca”. Ma com’è Caracas di notte? Gli attivisti di Ciudad Laboratorio hanno deciso di sbucare sulle strade della metropoli e di raccogliere dati, voci, immaginie a volte provano ad animare qualche angolo. Ciudad Laboratorio è una delle esperienze di attivismo civico più interessanti del paese e Carvajal è uno degli instancabili animatori. Nel 2017, l’anno delle grandi manifestazioni per la democrazia, sembravano una sorta di “social forum”: una fitta rete di associazioni di quartiere, accademici e femministe, ecologisti e attivisti sociali si organizzava per stare nelle proteste in modo pacifico, solidale e inventivo. Mentre il paese precipitava in una catastrofica crisi, questi lillipuziani hanno pensato di farsi carico della notte di Caracas. È così che è nato l’Osservatorio della notte. Cheo racconta che la prima uscita è stata una sera del 2018, in simultanea in 33 luoghi diversi, ogni mercoledì, venerdì e sabato. “A quel punto avevamo già una montagna di dati: dovevamo fermarci, elaborare, mettere a punto una strategia. C’era l’entusiasmo di sapere che eravamo in grado di farlo”. Dopo il grande blackout di marzo 2019 “ci siamo dati appuntamento in quattro posti a Bello Monte, organizzando dei punti-luci, con torce e telefonini e coinvolgendo i piccoli locali. La gente è uscita, avida di stare in strada”. Il fatto è che “la città è quasi tutta molto buia e in alcune piazze o vie invece è illuminata in modo esorbitante e assurdo”. Perché Caracas resta pur sempre la città degli sprechi e delle diseguaglianze. La pandemia ha bloccato tutto e immalinconito ancora di più. Nelle settimane di respiro dal lockdown, gli attivisti sono tornati nelle strade, questa volta con bicicletta, telefonini e videocamere. Più e più volte, anche di recente, hanno lanciato l’“appello 100 miradas”, chiedendo a cento persone di uscire ogni venerdì in nove piazze, da Est a Ovest, classi medie e barrios popolari. Osservano e raccontano com’è l’illuminazione, quanto ci si sente sicuri, se ci sono persone, quali negozi sono aperti. Ne è uscita una mappa interattiva e un podcast con le loro storie. “Non è stato facile convincerli, avevano molto timore e alla fine sono rimasti loro stessi sorpresi di poter star fuori, di vedere un’altra città. Spesso, proprio perché la evitiamo, siamo noi a renderla insicura lasciandola vuota”. Nessuna città è immobile, neanche la pur emaciata Caracas. Le ultime misure prese dal regime per affrontare la crisi e l’isolamento internazionale hanno cominciato a dare qualche frutto nel pantano in cui è immerso il paese: il via libera all’uso del dollaro e un po’ di ossigeno all’import-export, le rimesse che arrivano da quasi 6 milioni di venezuelani emigrati, hanno ridato un po’ di fiato all’economia e i negozi hanno ricominciato ad affollarsi. Lo si vede anche la notte. Qualcuno racconta di una panaderia che ha messo fuori i tavolini e allungato l’orario e così la ferramenta vicina o il fruttivendolo si sono fatti coraggio; altri mostrano un piccolo locale nuovo che vende dolci cinesi: “C’è un effetto contagio, fragile ma visibile”, conferma Carvajal. “Le cose più interessanti succedono nei quartieri popolari, dove le case spesso aprono le porte, cucinano e vendono hamburger. Piccoli segnali, in mezzo a una precarietà ancora impressionante”. Più vistoso è il fermento immobiliare, in particolare in alcune zone come Las Mercedes, dove stanno crescendo nuovi edifici e locali upper class: investe chi aveva molti dollari tenuti da parte, chi li ha fatti proprio durante la crisi e in alcuni casi li deve lavare perché piuttosto sporchi. È cambiata anche la violenza. Nei rapporti delle Ong sembrano sfumate le piccole gang (a frotte sono emigrati anche loro) o si sono coagulate in aggressive organizzazioni criminali, come dimostrano le feroci e prolungate sparatorie con la polizia avvenute di recente nel labirinto della Cota 905. E così sono schizzati gli omicidi da parte della polizia, uno stillicidio di esecuzioni che restano impunite: l’Osservatorio sulla Violenza ha documentato che almeno un terzo delle vittime cade per mano di uomini in divisa e in 112 municipi su 335 sono più della metà. E ancora: ormai il picco degli omicidi non avviene più nelle prime ore della notte, ma a ridosso dell’alba, quando la gente comincia a uscire per andare al lavoro. “Le notti a Caracas hanno il suono degli spari e i cori delle rane”, sorride Valeria Escobar. Anche lei è andata in giro da sola per le strade della capitale. È una giovane architetta e, prima di emigrare a Bogotá, si è messa a registrare la colonna sonora della città, l’ha messa in una mappa, l’ha arricchita di schede e opinioni coinvolgendo decine di amici e conoscenti. Caracas Soundscape, l’ha chiamata: la si può consultare on-line e ognuno può aggiungere suoni e appunti. Di giorno si ascolta il traffico, la musica a tutto volume dai negozi e le grida dei venditori ambulanti; le guacamayas e i pappagalli che fanno a gara in canti e gorgheggi nel pomeriggio e quando cade la notte gracchiano creature anfibie e pistole. “Siamo invasi da immagini e abbiamo dimenticato la musica e le melodie, non riusciamo più a distinguerli. La mappa sonora è uno strumento potente per ridisegnare lo spazio urbano”, racconta. I caraqueños insomma sembrano aver voglia di riprendere in mano la loro città, che poi è un modo per riacciuffare un paese dove la democrazia negli ultimi vent’anni ha immarcito sé stessa. “Che sia la società civile a muoversi è l’unica opzione che abbiamo di fronte a uno Stato fallito nel suo autoritarismo”, dice amaro Nikolai Elneser. “Non abbiamo che noi stessi”.