“Date indicazioni per garantire qualità e distinzione per vitto e sopravvitto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 novembre 2021 La ministra Cartabia ha risposto così all’interrogazione della senatrice Corrado. “La competenza per i bandi del vitto e sopravvitto è dei provveditorati e non dell’amministrazione centrale, tuttavia, il 13 settembre ho convocato una commissione per l’innovazione del sistema penitenziario che, proprio su questo punto, è subito intervenuta dando delle indicazioni, tra le quali quella di separare il vitto, cioè la fornitura di colazione, pranzo e cena, dal sopravvitto”. Parola della ministra della giustizia Marta Cartabia in risposta all’interrogazione posta dalla senatrice Margherita Corrado, membro del gruppo misto L’Alternativa c’è. La senatrice Corrado, alla question time di giovedì, ha sottolineato che un terremoto ha di recente sconvolto il mondo “dorato” delle ditte che forniscono a detenuti e internati il vitto e il sopravvitto. Vitto è il cibo necessario al confezionamento dei tre pasti giornalieri assicurati dall’amministrazione attingendo alla diaria di ciascun ristretto; mentre il sopravvitto sono i generi alimentari e di conforto che invece si acquistano a piacere, ma con denaro proprio. La senatrice, ha ricordato che, per quanto riguarda il precedente bando del provveditorato regionale di Lazio, Abruzzo e Molise, “benché nel 2020 la base d’asta sia stata aumentata da 3,90 a 5,70 euro giornalieri e la media nazionale si aggiri sui 3,92 euro, le offerte delle tre imprese che si erano aggiudicate i quattro contratti, poi annullati in autotutela, riferite in base alla lex specialis di gara solo al servizio principale e obbligatorio di vitto, prevedevano ribassi vicini o addirittura superiori al 60 per cento: 2,39 euro giornalieri pro capite la ditta Domenico Ventura srl e addirittura 2,25 euro la ditta Ragionier Pietro Guarnieri-figli srl, mentre la Sirio srl ha proposto 3 euro”. Di qui - come ha osservato la Corte - l’apparente insostenibilità economica del servizio di vitto, ove svincolato dai ricavi del sopravvitto, e l’evidente detrimento del principio di qualità delle prestazioni. “Anzi - ha evidenziato la senatrice Corrado -, con il presidente Antonio Mezzera, il collegio di controllo preventivo non solo ha segnalato l’anomalia dello straordinario ribasso con cui vengono affidati tali contratti di fornitura di vitto giornaliero completo, circostanza difficilmente compatibile con una dignitosa alimentazione della popolazione carceraria, ma ha stigmatizzato che per un appalto e una concessione di servizi sia bandita un’unica procedura invece di due”. La pronuncia del Consiglio di Stato e poi quelle della Corte dei conti, hanno di fatto confermano le denunce raccolte - ha ricordato la senatrice - “dal Garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, circa l’insufficienza del vitto e i costi esorbitanti del sopravvitto a Rebibbia e ha sollecitato la stampa più attenta a puntare i riflettori su questa prassi francamente scandalosa”. In merito a tutto questo, la senatrice ha chiesto alla guardasigilli: “Poiché non è accettabile sul piano etico e non è consentito lucrare sulla pelle dei detenuti, si chiede al Ministro interrogato di quali informazioni sia in possesso al riguardo e quali iniziative intenda assumere per garantire ai detenuti negli istituti di pena i basilari principi umanitari desumibili degli articoli 27 e 32 della Costituzione, nonché il rispetto di quanto disciplinato dalla legge 26 luglio 1975, n. 354”. La ministra della giustizia, ha risposto distinguendo due profili dell’interrogazione posta: “Uno è quello giuridico, messo in rilievo dalle pronunce della Corte dei conti e del Consiglio di Stato nei bandi di gara, in particolare per quanto riguarda il provveditorato del Lazio e Regioni limitrofe, e l’altro è quello relativo alla “scarsa qualità del cibo denunciato da alcuni organi di stampa e che va a detrimento, evidentemente, della dignità dei detenuti”. Per la ministra, il tema della corretta erogazione del vitto e del sopravvitto è all’attenzione dell’amministrazione penitenziaria, soprattutto a seguito delle pronunce del Consiglio di Stato del 2021 e della Corte dei conti, che ha modificato i criteri di bando separando il vitto, cioè la fornitura di colazione, pranzo e cena, dal sopravvitto. La ministra Cartabia ha assicurato che il 13 settembre ha convocato una commissione per l’innovazione del sistema penitenziario che, proprio su questo punto, è subito intervenuta dando tre indicazioni. “La prima è che sempre nella predisposizione, le procedure di aggiudicazione del vitto e sopravvitto debbono essere distinte: contratto d’appalto del servizio del vitto e contratto di concessione per il sopravvitto. La seconda è che devono essere escluse le rimodulazioni del minimo al ribasso; la terza è che occorre, nella costruzione della qualità dei prodotti offerti, un parere obbligatorio e vincolante da parte di un tecnologo alimentare per le caratteristiche nutritive e qualitative di ogni prodotto previsto nel capitolato contenuto in un decreto ministeriale”, ha concluso la guardasigilli. In carcere aspettando di trovare posto in una Rems: “Violati i diritti di un disabile psichico” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 6 novembre 2021 Il governo riconosce che l’Italia viola l’articolo 3 della “Convenzione europea dei diritti dell’uomo” laddove continua a rinchiudere nelle carceri - anziché curare in “Misure di sicurezza detentive” nelle apposite “Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza” (Rems) - persone “non imputabili” (e perciò assolte nei processi) per i reati commessi in stato di “incapacità di intendere e volere”, ma nel contempo indicate dai giudici come “socialmente pericolose” a motivo dei propri disturbi psichiatrici. In cella anche se non imputabile perché schizofrenico: il nodo dei posti nelle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che hanno sostituito i vecchi Opg. Centinaia i casi, il governo ora investe. L’Italia lo ammette per la prima volta in una “dichiarazione unilaterale” alla Cedu-Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, atto con il quale punta a chiudere in sede europea il caso di un 39enne schizofrenico giudicato nel giugno 2020 non imputabile dal Tribunale di Brescia per il pugno in faccia sferrato a un magistrato milanese che portava a spasso il cane (40 giorni di prognosi per la frattura del setto nasale), ma rimasto illegalmente 6 mesi nel carcere di San Vittore prima che la lista d’attesa dei pochi posti disponibili nelle Rems fosse sbloccata a dicembre 2020 proprio solo da una ingiunzione cautelare urgente della Cedu. E per azzerare il rischio che nel prosieguo della causa di merito la Corte di Strasburgo condannasse l’Italia, ora l’agente del governo ha riconosciuto appunto la violazione dei diritti del ricorrente e gli ha offerto una somma (accettata) a risarcimento dei danni morali e delle spese legali, nel contempo tenendo però a rassicurare l’Europa che l’Italia sia “in procinto di adottare ogni iniziativa per risolvere il problema dei posti disponibili nelle Rems”. In base alle leggi del 2012 e 2014 le Rems avrebbero dovuto sostituire i 6 vecchi Opg-Ospedali psichiatrici giudiziari chiusi il 31 marzo 2015 dopo 2 proroghe. Ma presto sugli psichiatri delle Rems, sui magistrati e sugli operatori penitenziari si sono scaricate tutte le incongruenze delle Regioni che o non hanno aperto le Rems (oggi sono in tutto 30) o ne hanno sottodimensionato i posti (709 nella rilevazione di fine 2020). Così nella pratica capita spesso che le Rems, disattendendo l’ordine dei pm o dei giudici, non accolgano le persone inviate in misura di sicurezza provvisoria, ma adducano di non avere più disponibilità, e indichino a distanza di settimane la data alla quale ipotizzano di poter forse “programmare” un posto libero. Parte così ogni volta un vorticoso carteggio tra Procure-Rems-Ministeri-Regioni, ciascuno in cerca del pezzo di carta che formalmente lo esenti da responsabilità. Perché in lista d’attesa di un posto nelle Rems (ben 813 persone nella rilevazione a fine 2020) restano due tipi di limbo di persone: o quelle che restano in libertà (spesso senza famiglia e lavoro e casa che possano contenerne la patologia psichiatrica) benché dichiarate socialmente pericolose nei giudizi in cui erano state riconosciute non imputabili (magari di reati gravi come lesioni, maltrattamenti in famiglia, stalking, violenza sessuale o tentati omicidi), e che a fine 2020 erano ben 715; o quelle che, trovandosi in carcere nel momento in cui ricevono in teoria l’ordine di scarcerazione e la contemporanea misura di sicurezza in Rems, ma non venendo poi presi in carico dalle Rems prive di posti, nell’attesa restano in carcere senza titolo, in un non-detto che tutti fanno finta di sconoscere (magari rischiando pure che la persona si suicidi in carcere o faccia del male ad altri detenuti), e che a fine 2020 erano 98. Ora, nel cercare di sterilizzare la vicenda del ricorrente patrocinato davanti alla Cedu dagli avvocati Antonella Calcaterra e Antonella Mascia con il professore Davide Galliani, l’agente del governo italiano Lorenzo D’Ascia assicura a Strasburgo che “presso la Presidenza del Consiglio è stato attivato il Tavolo di concertazione permanente sulla salute in ambito carcerario tra Regioni, Ministeri della Giustizia e della Salute”, e che in particolare il Ministero della Salute, “avendo preso atto dei problemi esistenti, sta preparando un processo di creazione di una Commissione coordinata dal viceministro”. Non solo: il governo conta di fare entrare questo capitolo anche in uno dei progetti (da 1 miliardo di valore economico) del Piano di riforma e resilienza, quello sulla “presa in carico delle persone con problemi di salute mentale”. Stefano Anastasia riconfermato portavoce dei Garanti dei detenuti territoriali redattoresociale.it, 6 novembre 2021 L’assemblea della Conferenza dei Garanti dei detenuti di regioni, province e comuni esamina e discute un documento indirizzato alla commissione per la riforma del sistema penitenziario e conferma Stefano Anastasìa, Garante del Lazio, alla carica di Portavoce. “Grazie alle colleghe e ai colleghi che hanno voluto rinnovare il mio mandato di Portavoce della Conferenza dei garanti territoriali. Abbiamo alle spalle e davanti a noi un periodo molto difficile e complesso con un tentativo di riforma del sistema penitenziario promosso dalla ministra Cartabia a cui vogliamo portare il nostro contributo di conoscenza e di esperienza”. Così Stefano Anastasìa, Garante dei detenuti del Lazio, al termine dell’assemblea annuale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà che lo ha eletto suo Portavoce. È la terza volta che l’Assemblea dei Garanti territoriali si pronuncia per affidare ad Anastasìa tale incarico: eletto per la prima volta nel 2018, confermato all’assemblea che si è svolta a Napoli a ottobre dello scorso anno, rieletto oggi, per il biennio 2021-2023. Prima delle votazioni, l’assemblea aveva discusso un documento indirizzato alla commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, istituita con decreto della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e presieduta dal professor Marco Ruotolo. Nel “Contributo della Conferenza dei Garanti territoriali per la riforma e l’innovazione del sistema penitenziario e dell’esecuzione penale”, i Garanti territoriali auspicano che il carcere sia l’extrema ratio, con la valorizzazione di nuove forme di composizione dei conflitti tra autori e vittime di reato e attraverso nuove politiche di accoglienza delle persone detenute. Per i Garanti territoriali deve essere superato definitivamente il meccanismo delle preclusioni assolute nell’accesso ai benefici penitenziari, così come indicato dalla Corte europea dei diritti umani e dalla Corte costituzionale anche per gli autori dei reati più gravi. Questi e molti altri i temi del documento che sarà inviato al presidente della commissione ministeriale nei prossimi giorni. La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà rappresenta gli organismi di cui si sono dotati regioni ed enti locali, in base alla legislazione nazionale e regionale (Il Garante del Lazio è stato istituito con legge regionale 31/2003). Ne fanno parte 72 Garanti di regioni e province autonome (17), di province e aree metropolitane (6) e comuni (49) che hanno istituito garanti dei detenuti o delle persone private della libertà, ovvero ne hanno formalmente affidato le funzioni ad altri organi di garanzia a competenza multipla. Carcere ingiusto, generosi ma confusi di Alberto Sisto fortuneita.com, 6 novembre 2021 L’analisi della Corte dei conti, in media 45 mln di rimborsi l’anno. Siamo generosi, i più generosi in Europa, come quasi sempre accade quando a pagare è lo Stato. Ma anche confusi. Così in mancanza di un criterio dettagliato, quando si tratta di rimborsare un cittadino per una ingiusta carcerazione, lo Stato paga da un minimo di 55 euro giornalieri fino a oltre 1.600. La scoperta l’ha fatta la Corte dei conti passando in rassegna le spese per la equa riparazione per ingiusta detenzione ed errori giudiziari nel quadriennio 2017-2020. Allo Stato sono costati 181 mln nel periodo, ad una media di circa 45 mln l’anno, in calo nel 2020. A pagare, si paga. Rispetto agli altri Stati, comunitari e non, per le ingiuste detenzioni l’Italia concede indennizzi fra i più alti (vedere tabella). Solo il Regno Unito si avvicina ai nostri livelli. Oltremanica è previsto un rimborso fino a 1 mln di sterline nel caso in cui l’ingiusta detenzione si sia protratta per almeno 10 anni (320 euro gg. di media), o pari a 500.000 sterline (585.000 euro circa) in tutti gli altri casi. In Italia, riassume la Corte, la riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione è prevista dagli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale e contempla un rimborso fino a 516.456,90 euro nel caso in cui la carcerazione preventiva si sia protratta per la sua durata massima, oggi fissata in sei anni. I tetti valgono anche per i casi di errore giudiziario risolti a favore dell’imputato dalla revisione del processo. La Cassazione, ricorda Mauro Oliviero, il magistrato che ha scritto la delibera, ha poi stabilito, nel corso di alcuni procedimenti, la metodologia da seguire per applicare le norme sul risarcimento. Ovvero, i 516.000 euro e rotti vanno divisi per 2.190 giorni (ovvero, sei anni). Così si arriva ai 235,82 euro di rimborso giornaliero, da dimezzare a 117,91 per gli arresti domiciliari. Per ottenere l’indennizzo, chiude il ragionamento il magistrato, si deve moltiplicare il quid giornaliero per i giorni di ingiusta detenzione. Ma nella realtà l’applicazione delle direttrici indicate dalla Cassazione “non appare sempre univoca”. Per chi subisce ingiustamente il carcere non c’è somma, probabilmente, che può risarcire la pena, l’umiliazione e le altre conseguenze, morali e psicologiche. Ma è altrettanto vero che uno Stato, ancorché responsabile, non può pagare l’impagabile. E quindi l’indennizzo dovrebbe seguire un criterio, come quello fissato dalla Cassazione, ed essere uguale per tutti. Invece, rileva la Corte dei conti, che ha guardato da vicino un campione di alcune centinaia di ordinanze per ogni anno del quadriennio, le corti di Appello italiane si sono mosse in ordine sparso e si sono mosse sempre al di sopra della soglia proporzionale fissata dalla Cassazione. A Brescia l’ordinanza 21 del 2017 ha liquidato un giornaliero di 1.666,67 euro riconoscendo “sette volte in più rispetto all’importo ricavabile dalla suddetta giurisprudenza della corte di Cassazione”. Devianze sono state rilevate anche a Catanzaro, 1.383 euro al giorno, ovvero 11 volte la soglia. A Perugia, dove per un periodo di incarcerazione di 10 giorni sono stati liquidati 11.791 euro. Aggiungendo danno su danno, a Perugia sono stati liquidati appena 55 euro al giorno per un errore di calcolo. Vista la situazione i magistrati contabili suggeriscono “l’opportunità di un monitoraggio del ministero della Giustizia per l’acquisizione dei provvedimenti giudiziari per i quali si potrebbero prefigurare indennizzi”. La presunzione d’innocenza diventa legge di Liana Milella La Repubblica, 6 novembre 2021 Conferenze stampa dei procuratori solo con un “atto motivato”. Incontro tra la Guardasigilli Marta Cartabia e il commissario Ue Didier Reynders che definisce “ambiziose” le riforme italiane della giustizia. Ma alla Camera la maggioranza si divide sulla stretta all’utilizzo della microspia Trojan chiesta da Forza Italia e Azione. Deciso niet di M5S. Le abituali conferenze stampa dei procuratori? D’ora in avanti saranno l’eccezione, possibili solo con un “atto motivato” del capo dell’ufficio. I tabulati di un cellulare chiesti da un pm dopo la commissione di un delitto? Sarà necessario il via libera del giudice. E per quelli già ottenuti in passato? Saranno utilizzabili “ma solo se uniti ad altri elementi di prova”. E il Trojan, il virus-microspia che trasforma il cellulare in un centrale di ascolto? Per ottenerne l’uso il pm dovrà presentare “specifiche” ragioni. Il centrodestra voleva molto di più, Matilde Siracusano di Forza Italia addirittura l’elenco dei luoghi dove il Trojan dovesse funzionare e pure gli orari, mentre Enrico Costa di Azione pretendeva che fossero tre giudici, e non solo il gip, a dare il via libera. M5S ha protestato duramente, e alla fine è passato solo che ci vorranno “specifiche” ragioni per chiedere il Trojan. Ma ancora una volta la maggioranza è andata in pezzi sulla giustizia. Tutto questo - tra il Consiglio dei ministri sulla presunzione d’innocenza e la commissione Affari costituzionali della Camera su tabulati e Trojan - mentre la ministra della Giustizia Marta Cartabia incontrava il commissario europeo per la Giustizia Didier Reynders sulle riforme da 2,3 miliardi di euro garantiti dal Pnrr. Netto il giudizio di Reynders: “Le riforme della giustizia in Italia sono ambiziose e mostrano chiari impegni. Un forte monitoraggio sarà importante per valutare la loro efficacia sul campo”. Una promozione a cui Cartabia replica: “Assicuriamo al Commissario ogni sforzo per monitorare il cammino di attuazione delle riforme nei singoli uffici giudiziari, a beneficio dell’efficienza e della qualità della giustizia”. E ancora: “Per garantire il rispetto delle scadenze, auspico che al più presto possa essere approvata in via definitiva dal Parlamento anche la riforma del processo civile, dovuta entro fine anno”. In calendario alla Camera, per l’ultimo sì, è prevista il 29 novembre. È solo un caso se, nella stessa giornata, convergano più fatti che riguardano la giustizia. E sicuramente quello che avrà il maggiore impatto nella vita dei magistrati e in quella degli imputati è la presunzione d’innocenza. Le nuove regole approvate definitivamente dal Consiglio dei ministri che traducono in una legge italiana le direttive emesse dall’Europa nel 2016. Un decreto legislativo licenziato l’8 agosto a palazzo Chigi. Discusso e integrato dalle due commissioni Giustizia di Camera e Senato il 22 ottobre. E appena l’altro ieri valutato anche dal Csm, con le voci fortemente critiche dei pubblici ministeri, da Nino Di Matteo a Sebastiano Ardita a Giuseppe Cascini, ma alla fine con un via libera ad amplissima maggioranza (contro solo Di Matteo e Ardita e qualche astenuto). Da domani, dunque, il principio della presunzione d’innocenza - già scritto a chiare lettere nella nostra Costituzione (articolo 27, “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”) - si materializza in disposizioni rigide che le “autorità pubbliche”, le procure in testa, dovranno rispettare. Perché, come recita l’articolo uno, “è fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. Non sarà più possibile per le procure passare automaticamente dagli arresti all’incontro stampa con i giornalisti. Ci vorrà, appunto, una specifica assunzione di responsabilità del procuratore - il solo autorizzato a parlare - che con un “atto motivato” dovrà spiegare le specifiche ragioni di pubblico interesse - come chiedevano le due commissioni Giustizia - che lo spingono a convocare la stampa. Una mediazione politica questa, perché Enrico Costa di Azione, il primo a chiedere a marzo di recepire la direttiva europea con un ordine del giorno nella legge di Delegazione europea, avrebbe voluto che le conferenze stampa fossero del tutto proibite. Così come aveva chiesto di vietare i nomi di fantasia, ma di forte impatto mediatico, per battezzare le inchieste. Da “Mani pulite” a “Mafia capitale”, per intenderci. Ottiene invece che anche l’imputato che si avvale della facoltà di non rispondere - il diritto al silenzio - possa fruire comunque della successiva riparazione per ingiusta detenzione. Vengono approvate norme rigide, che impongono anche il diritto di rettifica se il “presunto innocente” viene presentato come possibile, se non addirittura come sicuro colpevole. Rettifica immediata, non oltre 48 ore dopo l’informazione, orale o scritta che sia, che presenta il soggetto - il presunto innocente - come colpevole. Regole che limitano comunicati e conferenze stampa anche per le polizie. Potranno farle, ma anche in questo caso dovrà esserci il via libera del procuratore sempre con un “atto motivato”. Sarà una stretta anche per la stampa, per il diritto di conoscere a fondo le ragioni di un’indagine e degli arresti? Sicuramente sì. Tant’è che Giuseppe Cascini, oggi togato del Csm, fino a 4 anni fa pm a Roma anche dell’inchiesta Mafia capitale, in plenum ha detto che “è pericoloso riservare a pochissimi casi la comunicazione dei procuratori”, spingendo i cronisti a “cercare altre strade con il rischio di imbattersi in canali non trasparenti”. Lo spirito super garantista di una parte della maggioranza si manifesta anche nel decreto che dà il via libera ai quattro mesi per i referendum sulla cannabis e sulla caccia, ma si occupa anche di autorizzazioni per i tabulati telefonici. Anche questo, come per la presunzione d’innocenza, un adeguamento che nasce da una decisione europea. La Corte di giustizia del Lussemburgo, a marzo, ha stabilito, trattando un caso dell’Estonia, che la richiesta di un tabulato telefonico non possa essere fatta solo dal pm, ma vada autorizzata anche da un giudice. Detto fatto. La norma è stata varata, per decreto, anche in Italia. Ma anche in questo caso ha scatenato appetiti super garantisti. Tant’è che ci si è posti il problema anche delle autorizzazioni precedenti alla nuova legge ed è stato deciso che quei tabulati sono utilizzabili solo se uniti “ad altri elementi di prova”. Ma lo scontro più duro, ancora una volta anche nella maggioranza, c’è stato sulla microspia Trojan, il virus inoculato nei cellulari. Non passa la proposta di Costa che chiede il via libera alla richiesta del pm autorizzata da tre giudici, e non dal solo gip. La maggioranza si divide, il sì arriva da Azione, Italia viva, FdI, mentre Forza Italia e Lega si astengono. Costa già promette che lunedì prossimo, quando il decreto approderà in aula, lui riproporrà lo stesso emendamento, che forse potrebbe anche essere votato a scrutinio segreto. Ma è proprio sul Trojan che M5S scatena la battaglia contro il centrodestra. Si vota un emendamento di Maurizio Lupi che chiede di spostare più in su l’asticella dei reati che consentono di usare la potente microspia, passando da tre a cinque anni. Ma la maggioranza della commissione lo boccia. Nuovo emendamento, e ancora una nuova lite. Matilde Siracusano di Forza Italia ha presentato un emendamento capestro per il Trojan, perché il pm, nel richiederlo, dovrebbe anche indicare in modo specifico tempi e luoghi dell’utilizzo. La maggioranza sembra giungere a un accordo, ma a quel punto insorge il M5S che poi, con Eugenio Saitta e Vittoria Baldino, capigruppo nelle commissioni Giustizia e Affari costituzionali, parlano di “golpe per indebolire il Trojan sventato”. Alla fine passa solo la richiesta che le ragioni dell’uso del Trojan dovranno essere “specifiche”. Le inchieste tornano anonime: basta nomi da serie tv, da “Angeli e demoni” a “Why Not” di Giulia Merlo Il Domani, 6 novembre 2021 Dal latino a richiami cinematografici fino ai riferimenti fiabeschi e religiosi, dagli anni Novanta le inchieste giudiziarie hanno impressionato l’opinione pubblica soprattutto grazie alla loro denominazione. Ora, però, il decreto legislativo approvato in consiglio dei ministri sulla presunzione di innocenza ha messo fine all’estro inventivo della polizia giudiziaria e dei magistrati. Da “Super santos” per un’inchiesta con imputati brasiliani a “Pecunia non olet” per un’indagine su presunte truffe, fino alle più note “Mondo di mezzo” e “Mani pulite”, la suggestione mediatica è sempre stata forte. Uno dei nomi meglio riusciti negli ultimi anni è quello assegnato all’inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Valle D’Aosta. L’operazione era denominata “Geenna”, dal nome della valle del racconto biblico in cui si praticava il culto del dio Moloch, al quale venivano sgozzati neonati per sacrificio. Dal latino a richiami cinematografici fino ai riferimenti fiabeschi e religiosi, dagli anni Novanta le inchieste giudiziarie hanno impressionato l’opinione pubblica soprattutto grazie alla loro denominazione. Che, nei casi più riusciti, sono anche rimaste nel gergo comune. Ora, però, il decreto legislativo approvato in consiglio dei ministri ha messo fine all’estro inventivo della polizia giudiziaria e dei magistrati, prevedendo che “tanto nei comunicati ufficiali quanto nelle conferenze stampa è vietato assegnare ai procedimenti penali pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Questo perchè le denominazioni dal retrogusto accusatorio hanno l’effetto di enfatizzare mediaticamente le inchieste prima ancora che si siano concluse, ledendo il diritto degli indagati ad essere considerati innocenti fino a sentenza definitiva. La scuola più prolifica è quella da cui si è anche originato il fenomeno: la procura di Milano. Era il 1989 quando la pm Ilda Boccassini condusse l’indagine “Duomo connection”, la prima ad essere portata a termine sulle infiltrazioni mafiose nel capoluogo lombardo. Poi è stato il momento della più famosa: Mani pulite, sul sistema tangentizio legato ai partiti della prima repubblica. Il pool di pm e in particolare Antonio Di Pietro lo scelse riprendendo una locuzione usata dal deputato del Pci Giorgio Amendola in un’intervista di vent’anni prima al Mondo, in cui diceva che “le nostre mani sono pulite perché non le abbiamo mai messe in pasta”. Per arrivare ad oggi, con i vari filoni dell’inchiesta “Ruby” contro Silvio Berlusconi che riprende il nome d’arte di Ruby Rubacuori della diciassettenne marocchina Karima El Mahroug. Da nord a sud, l’usanza di attribuire alle inchieste etichette più allusive rispetto al freddo numero di protocollo prolifera. Notissime sono le inchieste dell’ex magistrato Luigi De Magistris, da “Poseidone”, che riguardava il presunto utilizzo illecito di fondi europei destinati a opere di depurazione idrica, a “Why not” sulla presunta esistenza di un gruppo di potere trasversale tenuto insieme da una loggia massonica finalizzata a influire sull’assegnazione degli appalti. Oppure quelle di Henry John Woodcock: il “Vip gate” che accusava alcuni personaggi famosi di associazione per delinquere per la turbativa di appalti; l’inchiesta “Iene 2”, sui presunti legami tra criminalità e politica nella gestione degli appalti in Basilicata o l’inchiesta “P4” su un presunto sistema informativo parallelo che avrebbe dovuto assomigliare a quello della loggia Propaganda 2 di Licio Gelli. In Calabria, ha fatto scuola invece l’inchiesta “Stige” condotta dal pm Nicola Gratteri nel 2018 contro la ‘ndrangheta, che prende il nome dal fiume infernale. Oppure “Lande desolate”, contro l’ex presidente della regione Mario Oliverio, poi assolto. In Emilia, invece, ad aver catturato l’immaginario collettivo è l’inchiesta “Angeli e demoni” del caso Bibbiano, sulle presunte sottrazioni di minori alle famiglie. Prima ancora, è stato il caso del processo “Aemilia” sull’infiltrazione della ‘ndrangheta, che riprendeva il nome utilizzato dai romani per colonizzare la pianura padana. Nella Capitale, infine, i giornali hanno costruito facili titoli grazie all’inchiesta “Mondo di mezzo”, che riprendeva la locuzione utilizzata da uno degli imputati nelle intercettazioni per descrivere il livello a cui si muoveva: a metà tra quello “di sopra” della politica e quello “di sotto”, della delinquenza. L’elenco non è esaustivo, ma il genere è ricco: basta consultare l’archivio dei comunicati stampa della polizia di stato o dei carabinieri per trovare traccia dei nomi suggestivi. Da “Super santos” per un’inchiesta con imputati brasiliani a “Pecunia non olet” per un’indagine su presunte truffe. La denominazione, del resto, è quasi sempre opera della polizia giudiziaria che la usa come intestazione delle informative. Da lì poi viene divulgata durante le conferenze stampa e, anche se non viene stampata sul fascicolo del procedimento, non è raro leggerla anche nei verbali e negli atti del pubblico ministero. Quella che per gli inquirenti sembra essere una innocua semplificazione lessicale, viene oggi considerata dalla legge accanimento anticipato nei confronti degli indagati. Certamente, la denominazione numerica del fascicolo o con il nome dell’indagato o degli indagati (come si legge nelle intestazioni formali) renderà meno agevole la comunicazione dell’indagine. Anche questa, però, ora dovrà seguire delle regole più stringenti fissate dal decreto legislativo, a partire dal fatto che può avvenire solo “quando ricorrono ragioni rilevanti di interesse pubblico” e sotto il controllo del procuratore generale presso la corte d’Appello. Secondo la previsione, ogni anno andrà presentata una relazione alla Corte di cassazione in merito al metodo di divulgazione delle inchieste, che potrà costituire anche la base per eventuali procedimenti disciplinari. Se verrà rispettato, il divieto di utilizzo di nomi allusivi mette fine a una delle prassi che più hanno alimentato il cosiddetto marketing giudiziario delle indagini, contribuendo alla mediatizzazione della giustizia e dei processi. Di cui ci si ricordano i nomi allusivi ma non l’esito, soprattutto se di assoluzione. E no, caro Travaglio: il vizio del ddl penale è colpa dei “tuoi” 5S di Errico Novi Il Dubbio, 6 novembre 2021 L’ultima frontiera della lite sulla giustizia è la paternità degli errori. A sferrare l’attacco è il Fatto quotidiano di ieri, con un articolo di Lorenzo Giarelli. Obiettivo: Marta Cartabia. Certo non un bersaglio inedito. Alla guardasigilli, il quotidiano diretto da Marco Travaglio contesta il rammarico espresso sulla riforma penale in un recente intervento, tenuto al congresso dei notai. Tante “falsità”, per Cartabia, hanno creato “inutili preoccupazioni soprattutto per le vittime dei reati più gravi” e complicato perciò il percorso del ddl. Giarelli e il Fatto si sentono chiamati in causa, al pari di quei magistrati intervenuti nei mesi scorsi per denunciare i rischi dell’improcedibilità. In effetti, come ricorda l’articolo, sono stati gli anatemi di pm come Nicola Gratteri e Piercamillo Davigo a innescare l’ultima barricata del Movimento 5 Stelle, che ha preteso una modulazione più severa, cioè più dilatata, dei tempi di durata massimi nei processi per alcuni reati gravi. In pratica il quotidiano di Travaglio ribalta l’amarezza della ministra e dice: altro che ostacoli alla tua splendida riforma, se non fosse stato per noi e per i magistrati che l’hanno criticata, avresti fatto danni anche peggiori. Al di là della polemica che è sempre legittima e in fondo vitale per i giornali, Giarelli ricostruisce però la storia in modo fuorviante. Il vero problema della riforma penale non è tanto nella diversificazione delle soglie massime alzate in extremis per soddisfare i pm. Il peccato originale è nella scelta di affidare alla cosiddetta “prescrizione processuale” l’exit strategy dalla legge Bonafede. La quale aveva del tutto abolito, senza contrappesi, il termine di estinzione dei reati. È inutile girarci intorno: il corto circuito si è innescato proprio sulla maniera di risolvere l’abominio creato dalla norma dell’ex guardasigilli, cioè il rischio che alcuni processi - magari in casi eccezionali quanto si vuole ma pur sempre possibili - durassero decenni. Insomma, l’incubo dell’imputato a vita. In realtà Cartabia aveva in mente il ritorno a un tempo massimo di prescrizione. Tanto è vero che la commissione di esperti da lei insediata a via Arenula, e presieduta da Giorgio Lattanzi, aveva formulato all’inizio una sola proposta, semplice ed efficace: ripristinare la riforma Orlando, già severissima, che allungava i tempi sia in appello che dinanzi alla Cassazione, per un totale di 3 anni. Un rimedio più che sufficiente a garantire che i processi per i reati più gravi si concludessero con una sentenza definitiva. Motivo semplicissimo: quei reati, anche quando non sono imprescrittibili, hanno tempi di estinzione comunque già molto lunghi, in grado di assicurare lo svolgimento di tutte le fasi del processo. Senza chiamare in causa fattispecie anche più odiose, la corruzione in atti giudiziari, con le regole di Orlando, si sarebbe prescritta dopo ventidue anni e mezzo. Una mostruosità. Ma al Movimento 5 Stelle non è bastato. Sono stati loro a dire a Cartabia, e soprattutto agli alleati del Pd, che non avrebbero mai accettato un ritorno alla prescrizione di Orlando, perché sul piano politico ne sarebbe derivato un mortificante colpo di spugna sull’era Bonafede, liquidata come un incidente della storia. Così, il serafico Pd ha partorito la prima ipotesi di “prescrizione processuale” o improcedibilità. Emendamento depositato il giorno 27 aprile nella commissione Giustizia di Montecitorio. Pochi giorni dopo la ministra ha chiesto a Lattanzi di formulare, nella relazione sulla riforma, anche una “Ipotesi B” in materia di prescrizione, alternativa al ripristino della Orlando. E la commissione guidata dal predecessore di Cartabia al vertice della Consulta ha messo giù il “testo base” dell’improcedibilità, non troppo diverso dalla proposta dem. Tutto pur di accontentare i 5 Stelle. Adesso qual è la beffa? Che mentre con la legge Orlando una corruzione giudiziaria aveva oltre 22 anni a disposizione per produrre l’eventuale condanna, con la tagliola imposta ai tempi del processo anziché alla “anzianità” del reato può verificarsi il seguente paradosso: indagini “velocissime”, facciamo un anno e mezzo, condanna in primo grado fulminea, facciamo due anni, dopodiché se in Corte d’appello non si trovano giudici efficienti, dopo “appena” tre anni il processo stesso muore, appunto per l’improcedibilità. Anziché dopo 22 anni, la ghigliottina si abbatte dopo 6 anni e mezzo, cioè in meno di quanto sarebbe avvenuto con la ex Cirielli. Si tratterà di casi limite, per carità. Ma non è impossibile. La vera bizzarria è che a lamentarsi sia un giornale vicino ai pentastellati, e in particolare a Giuseppe Conte, che sull’improcedibilità ha condotto la mediazione finale con Draghi. Sono loro, i 5S, ad aver costretto Cartabia a quella soluzione. E forse ora è anche legittimo che la ministra si lamenti per una scelta imposta da ragioni solo politiche e certo non tecnico- processuali. L’unica cosa che proprio non si può sentire è una morale alla guardasigilli fatta dallo stesso fronte responsabile della forzatura. Vogliamo chiamarla faccia tosta, senza offesa? Di sicuro, non si vede una sintesi che renda meglio l’idea. Fiandaca: “Referendum e riforme, vi dico cosa succede alla giustizia” di Francesco Boezi Il Giornale, 6 novembre 2021 Referendum, riforme e rinnovato approccio garantista: l’Italia può svoltare sulla giustizia. Il professor Giovanni Fiandaca è un gigante del diritto penale. Giurista di fama internazionale e professore di Diritto penale, l’accademico palermitano affronta, con questa intervista, buona parte dei temi di stretta attualità in materia di giustizia. Dall’estensione dei “nuovi diritti”, con l’affossamento del Ddl Zan (per quanto oggi si inizi a parlare di un Ddl Zan “mascherato”), passando dal referendum sulla Giustizia promosso da Lega e Radicali e dalle riforme volute dal governo presieduto da Mario Draghi e dal ministro Marta Cartabia. Giudizi complessivamente positivi su referendum e riforma Cartabia, mentre qualche dubbio permane sul “vento garantista”. L’autore di “La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa”, che è edito da Laterza, non dà per scontato un destino maggioritario del garantismo. Professore, il referendum sulla Giustizia si farà. Una grande occasione per la nostra evoluzione giuridica? “I quesiti referendari non sono tutti formulati con la chiarezza e perizia tecnica necessarie a renderli senz’altro ammissibili. In ogni caso, tenderei ad escludere che un loro eventuale successo possa essere di per sé risolutivo delle patologie del sistema giudiziario che vorrebbero curare. Comunque, valuto positivamente questa iniziativa referendaria, nella misura in cui può mettere in evidenza orientamenti e preferenze della pubblica opinione utili alle decisioni politiche in materia di Giustizia”. Sembra spirare un vento garantista. Conviene? Se sì, perché? “Non ne sarei sicuro. Io distinguerei tra l’attuale versante politico-governativo, riferendomi in particolare agli orientamenti della ministra Marta Cartabia che definirei di tipo umanistico-garantistico, e gli atteggiamenti ancora di segno iper-repressivo che persistono in larghi settori della nostra società”. La riforma Cartabia è cosa fatta o quasi. Si ritiene soddisfatto? Sembra sia il punto di partenza che si attendeva da anni... “La riforma Cartabia presenta molte luci ed alcune ombre, ma nel complesso il mio giudizio è positivo, perché segna una svolta rispetto alla rozza ed irrazionale politica penale- populista dei due governi precedenti”. Lei ha smontato una certa narrativa sul processo Stato-mafia. Eppure, vedasi le dichiarazioni del giudice Di Matteo, c’è qualcuno che non sembra mollare la presa... “É psicologicamente comprensibile che i pubblici ministeri che hanno gestito il processo-trattativa rimangano, per così dire, prigionieri del loro ruolo. Ma dovrebbero prendere atto, con maggiore correttezza giuridico-istituzionale di poter avere sostenuto tesi accusatorie prive in realtà di sufficiente fondamento”. Ultima questione. Lei si è da poco soffermato sul tema del Ddl Zan. Anche quella, in chiave metaforica, è una questione di “giustizia”. Di sicuro è materia di diritto. Ma è mancato il dialogo... “Non sono nettamente contrario al Ddl Zan. Anche se, in linea di principio, non mi entusiasma, in generale, la prospettiva di promuovere la tutela di nuovi diritti con il ricorso alla legge penale. Quanto al merito, il testo del Ddl Zan è ideologicamente troppo connotato e tecnicamente formulato in modo sovrabbondante e confuso. Per cui occorreva davvero una mediazione politica per migliorarlo che purtroppo non è stata seriamente neppure tentata, sicché non mi sorprende che, almeno per il momento, si sia andati incontro ad una sconfitta o bocciatura. Occorre, in realtà, riscriverla”. Spataro: “La febbre giustizialista alimentata da mostruosi talk-show con le toghe” di Simona Musco Il Dubbio, 6 novembre 2021 “Il magistrato sia protagonista virtuoso di corretta comunicazione e di ogni utile interlocuzione nel dibattito sui temi della giustizia! Ma sia capace di esserlo con misura”. A dirlo non è la ministra della Giustizia Marta Cartabia, né il deputato di Azione Enrico Costa, che pure, di certo, non si troverebbero in disaccordo con tale affermazione. L’esortazione è invece contenuta nella lezione tenuta a gennaio scorso dall’ex procuratore di Torino Armando Spataro alla Scuola superiore della magistratura, anticipando così di diversi mesi il recepimento della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza. Un vero e proprio vademecum, rappresentato, in primis, dalle circolari della stessa procura di Torino, che sotto Spataro, dal 2014 al 2018, ha fatto della comunicazione sobria ed essenziale, rispettosa dei diritti di tutti, una regola aurea. Nessuna generalizzazione, né scivoloni nel populismo, solo una certezza: le toghe non possono e non devono aspirare al ruolo di moralizzatori della società. E la stampa, se vuole fare un buon lavoro, deve evitare il processo mediatico, i titoloni ad effetto, verificando i fatti e accedendo alle notizie senza tentare di creare, magari violando i doveri deontologici, dei canali privilegiati: solo così renderà un vero servizio alla giustizia. L’invito di Spataro ai colleghi è quello di “evitare i tentativi di “espansione” a mezzo stampa del proprio ruolo fino ad includervi quelli degli storici e dei moralizzatori della società”. Un rischio concreto, per quanto i magistrati showman, secondo l’ex procuratore, siano comunque una minoranza. Ma tanto basta a creare quel meccanismo perverso che distorce l’immagine della giustizia. Il dovere di informare è naturalmente irrinunciabile, evidenzia, “purché esercitato nei limiti della legge, del rispetto della privacy e delle regole deontologiche, ma è anche necessario che i magistrati si guardino bene dal contribuire a rafforzare un’ormai evidente degenerazione informativa, che spesso determina febbre “giustizialista”, alimentata da mostruosi “talk- show” ed attacchi alla politica ingiustificatamente generalizzati”. Una vera e propria deriva, denuncia Spataro, di cui i magistrati non sono, ovviamente, gli unici responsabili: anche la polizia giudiziaria, i giornalisti, i politici e gli avvocati possono contribuire alle “strumentalizzazioni”, con il risultato di produrre “informazioni sulla giustizia prive di approfondimento e di verifiche, e che sono caratterizzate dalla ricerca di titoli e di forzature delle notizie al solo scopo di impressionare il lettore”. Il rapporto tra giustizia ed informazione è infatti tutt’altro che secondario nell’amministrazione della giustizia ed è anzi, secondo Spataro, uno dei pilastri della sua credibilità. E in caso contrario, l’effetto è quello di generare tra i cittadini “errate aspettative e distorte visioni della giustizia, in sostanza disinformazione, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura e conseguente perdita della sua credibilità”. Ecco perché, dunque, la direttiva sulla presunzione d’innocenza non appare peregrina, nonostante i timori di chi vede in essa un tentativo di imbavagliare pm e stampa. La mediatizzazione dei magistrati, infatti, può rappresentare la spia di una propensione “ad accrescere, per quelle vie, la popolarità della propria immagine, anche a costo di non rispettare il dovere di riservatezza proprio dell’attività giudiziaria”. E se l’informazione sulla giustizia è “certamente necessaria”, occorre precisarne “contenuti e confini, anche nel rispetto dei principi che disciplinano la tutela della privacy”. Il giusto processo, afferma l’ex magistrato, non dipende solo da quanto avviene in aula, ma anche da ciò che accade fuori, ovvero “grazie a notizie giuste e vere, conoscibili entro i limiti previsti per le varie fasi processuali e contenenti esclusivamente riferimenti ai fatti che sono oggetto del processo”. Ma lo stesso può essere inficiato dalla “tendenza al protagonismo individuale”, un problema reale, ammette, “connesso alla convinzione di alcuni pm di potersi proporre al Paese, attraverso la diffusione mediatica di notizie sulle proprie indagini, spesso enfatizzate, come eroi solitari, unici interessati alle verità che i poteri forti intendono occultare”. Un atteggiamento da cassare, mentre “sono preferibili quei magistrati che non cercano consenso (specie nelle piazze gremite) e che lavorano con riservatezza e determinazione”. Su tutti prevalgono i doveri di “verità e sobrietà informativa, specie quando i fatti sono oggetto di indagine e non ancora di una sentenza, sia pure di primo grado”. Ed è obbligo dei procuratori “intervenire per correggere le fake news”, che rischiano di compromettere anche la funzione giudiziaria. Altro capitolo quello delle conferenze stampa, che Spataro, in tutta la sua carriera, ha convocato solo tre volte: “La prima per denunciare pubblicamente, insieme agli avvocati, il grave deficit di personale amministrativo dell’Ufficio; la seconda per illustrare i risultati ostensibili delle indagini sui gravi fatti verificatisi in Torino, in Piazza San Carlo, il 3 giugno 2017 (che avevano scosso l’intera città) e l’ultima per presentare pubblicamente le direttive emesse il 9 luglio 2018 in tema di priorità da accordare alla trattazione dei reati connotati da odio razziale ed al fine di velocizzare le procedure relative ai ricorsi avverso il rigetto delle richieste di protezione internazionale (argomenti, cioè, che richiamavano attualità e diritti fondamentali delle persone)”. Da qui la critica alle conferenze-show con tanto di forze di polizia schierate in divisa dietro ai magistrati. La critica di Spataro è dura, anche e soprattutto contro l’inaccettabile prassi lanciare proclami, “del tipo “si tratta della più importante indagine antimafia del secolo” o “finalmente abbiamo scoperto la mafia al Nord”, così proponendosi come icone - categoria purtroppo in espansione - per le piazze plaudenti”. Ma anche i comunicati stampa, spesso, cedono al sensazionalismo, offrendo alla stampa anche stralci di intercettazioni o spunti critici verso giudici o avvocati, “oppure affermazioni apodittiche quasi che le tesi dei pm esposte nei comunicati rappresentino la verità inconfutabile, definitivamente accertata, insomma un anticipo di sentenza. Niente di più lontano, insomma, dal senso del limite e dall’etica del dubbio cui devono conformarsi le parole di un pubblico ministero prima della decisione del giudice”. Limitarsi all’essenziale e ricordare “la provvisorietà delle valutazioni del giudice (non del pm) sulle responsabilità delle persone sottoposte a misura cautelare, evitando citazione di nomi e diffusione di fotografie o comunicazione di dati sensibili almeno ove tali nomi ed immagini non siano noti per altri fatti oggettivi” è invece il metodo giusto. Ma Spataro invita i colleghi anche a rifuggire da quella tendenza che spinge i magistrati a ritenersi “depositari della morale collettiva”. Il loro compito è infatti un altro: “Mettere a nudo la verità con prove inconfutabili”. E questo comporta un limite: “Se quelle prove non si raggiungono, il magistrato, pur se convinto del fondamento della ipotesi accusatoria da cui si è mosso, ha esaurito il suo ruolo, deve considerare i limiti della giustizia umana e se è un pubblico ministero deve saper ragionare come un giudice e comunque rimettersi alla decisione finale dei Tribunali e delle Corti rispettandola fino in fondo”. Ciononostante, per una minoranza dei magistrati il rilievo mediatico del proprio lavoro è quasi più importante del suo esito: “La pubblicazione della notizia di una indagine sui giornali, specie se con modalità tali da captare l’attenzione del lettore, rischia in tal modo di diventare per molti più importante della futura sentenza”. E prova ne è anche l’invasione delle sale da talk- show da parte di magistrati o ex magistrati, definiti da Spataro “i nuovi mostri”, un’ulteriore ragione “di perdita di credibilità dell’ordine giudiziario”. Viterbo. Anticipata di 2 anni l’udienza per la morte di Hassan Sharaf di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 novembre 2021 Dietrofront, non più tra tre anni, ma ci sarà il 27 gennaio 2022 l’udienza per discutere sulla richiesta di archiviazione avanzata dalla procura di Viterbo in merito alla tragedia che coinvolto Hassan Sharaf, il giovane egiziano morto in seguito a un tentativo di suicidio messo in atto nel carcere Mammagialla di Viterbo. Ricordiamo che ha creato numerose e fondate polemiche il fatto che il giudice aveva deciso di fissare l’udienza tra tre anni. Hassan Sharaf è morto suicida nel carcere di Viterbo nel 2018. Si è tolto la vita impiccandosi nella cella d’isolamento dove si trovava da due ore. Il 9 settembre, nemmeno due mesi dopo, sarebbe tornato in libertà. Come ha già raccontato all’epoca Il Dubbio, al Garante regionale Stefano Anastasìa in visita al carcere aveva dichiarato di aver paura di morire, mentre all’avvocata Simona Filippi aveva raccontato di essere stato picchiato dalle guardie penitenziarie, mostrando segni di percosse in diversi punti del corpo. Sul caso della morte di Sharaf, il Garante Anastasia aveva presentato immediatamente un esposto ed era stato aperto un fascicolo per istigazione al suicidio: Hassan, infatti, sarebbe stato preso a schiaffi da due agenti prima di essere trasferito in cella d’isolamento. Poi, la richiesta di archiviazione da parte della Procura, a cui la famiglia del 21enne si è opposta con tutte le sue forze. Tre anni dopo quel suicidio, arriva la notizia che l’udienza contro l’archiviazione del caso è stata fissata al 2024. “È importante che su vicende come questa venga fatta luce il più rapidamente possibile, senza rinvii che possano ulteriormente differire nel tempo ogni chiarimento necessario”, aveva denunciato Alessandro Capriccioli, capogruppo di “+ Europa Radicali” al Consiglio regionale del Lazio. Così come il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa si è subito indignato alla notizia, chiedendosi come sia possibile che il tribunale di Viterbo abbia un carico di lavoro così alto, tanto da fissare l’udienza tra tre anni. Il caso è arrivato anche in Parlamento tramite il deputato di + Europa Riccardo Magi, depositando un’interrogazione per chiedere alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, di fare piena luce sul caso. Ora il colpo di scena, la data sarà quella del 27 gennaio 2022 che stabilirà se l’inchiesta penale, sulle eventuali responsabilità di terzi nella morte del ragazzo, potrà andare avanti come chiedono i suoi familiari oppure se dovrà finire archiviata come richiede la Procura del capoluogo. Piacenza. Il detenuto da record, 23 carceri in 7 anni: “Vi prego fatemi lavorare” di Margherita Montanari Corriere della Sera, 6 novembre 2021 Andrea Spina, trasferito dopo litigi con detenuti e celle sfasciate, è stato condannato per resistenza e violenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. Ha cambiato 23 carceri in 7 anni. Genova, Savona, Torino, Vercelli, Piacenza, Modena, Bologna, Forlì, Rimini, Pesaro e ancora molte altre case circondariali del Nord Italia. Il risultato è che ha scontato metà della pena in isolamento, trasferito ogni quattro mesi da un posto all’altro. E la ragione dell’allontanamento è sempre la stessa: motivi disciplinari. Litigi coi detenuti, celle distrutte, isolamento, trasferimento. Un loop che si ripete ogni volta da capo. Tanto che il detenuto, Andrea Spina, mercoledì 3 novembre è stato chiamato davanti al giudice di Piacenza per rispondere delle accuse di resistenza e violenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. La difesa, rappresentata dall’avvocato Antonino Rossi, ha insistito per richiedere l’assoluzione e una perizia psichiatrica in virtù di “plurime patologie”. Istanze respinte dal giudice, che ha condannato a 6 mesi l’uomo. “Plurime patologie psichiatriche” - La questione affrontata ieri davanti al giudice sorge dagli episodi di devastazione di cui è stato protagonista Spina negli ultimi anni. Considerata la vita detentiva travagliata del carcerato - 23 carceri in 7 anni, 6 episodi di celle distrutte - l’avvocato difensore ha richiesto una perizia psichiatrica per il suo assistito, che ora si trova nella Casa Circondariale di Reggio Emilia ex ospedale psichiatrico giudiziario. Negli anni, Spina “ha sviluppato plurime patologie psichiatriche”, spiega la difesa, in parte legate alle violenze ricevute in alcune carceri piemontesi da altri detenuti. “Ora è in cura presso il centro detentivo per soggetti psichiatrici, per chiarire la sua compatibilità con il regime carcerario. Mi ha spiegato che ha un fornello, cosa che gli permette di cucinare e che lo rende più sereno rispetto alle precedenti esperienze”, prosegue il legale piacentino. “Ha paura di nuove accuse” - Anche a Piacenza, ha distrutto e reso inagibile la cella in cui era stato collocato. “Non riesce a stare in carcere con altri detenuti. Dice di aver paura che lo accusino di altre molestie - conclude l’avvocato Antonino Rossi - Vorrebbe una cella separata ma, non essendo possibile, spacca ogni cosa che incontra. Per questo è stato quasi per tutta la durata della detenzione in isolamento”. Ieri, di fronte alle accuse di resistenza e violenza a pubblico ufficiale e danneggiamento, Andrea Spina ha chiesto al giudice “il permesso di lavorare, in questo modo - ha detto - potrò risarcire i danni che ho provocato”. Ferrara. Le due ruote dimenticate riparate dai detenuti di Francesco Franchella Il Resto del Carlino, 6 novembre 2021 Patto tra Comune, coop Germoglio e Arginone: le bici abbandonate, attraverso un laboratorio in carcere, torneranno sul mercato. Tre anni a partire dal 5 novembre: è la durata del protocollo d’intesa tra Comune, Casa Circondariale Satta e cooperativa ‘Il Germoglio’, firmato ieri dall’assessore Cristina Coletti, dalla direttrice del carcere Nicoletta Toscani e dalla presidente della cooperativa Sabrina Scida. Nella sostanza, si tratta della realizzazione di laboratori per la manutenzione di biciclette all’interno del carcere di Ferrara. Soggetti diversi uniti sotto un comune denominatore tipicamente ferrarese: la bici. Ai detenuti sarà offerto un percorso formativo proprio dal Germoglio, volto alla successiva realizzazione di camere d’aria aggiustate e riutilizzabili, biciclette o telai colorati, ma anche portachiavi: tutti prodotti rigenerati partendo da quelle biciclette che vengono abbandonate e non reclamate dai proprietari, che sono prive di valore economico oppure che sono state rimosse per violazione del Codice della strada. E in città non ne mancano di certo. In concreto, le fasi del protocollo sono tre: una prima fase teorica con un corso sulla sicurezza del lavoro; una seconda fase sempre teorica, per definire attrezzature necessarie, materiali utilizzati, procedute da seguire, regole e criteri d’impiego; una terza fase operativa, in cui i detenuti lavorano sulle biciclette da recuperare, per tirarle a nuovo e poi rivenderle. Il ricavato della vendita - gestita dalla cooperativa, per un massimo di 70 euro a bicicletta - verrà poi utilizzato per l’acquisto del materiale e per la retribuzione ai detenuti impegnati nel progetto. I detenuti coinvolti, secondo la convenzione, devono essere almeno tre all’anno: quelli adatti allo svolgimento dell’attività devono essere individuati, ovviamente, dalla casa circondariale. I detenuti saranno poi iscritti dal Germoglio nel registro dei soci dell’associazione ‘Club Integriamoci’, in qualità di soci volontari e saranno così coinvolti in “un processo di equilibrio e responsabilizzazione individuale”, nella “creazione di opportunità di lavoro”, di “reinserimento nella vita sociale e nella legalità”. Per non parlare, poi, della diminuzione dell’impatto ambientale dovuto al “non corretto smaltimento delle camere d’aria”. “Un progetto di grande valore per tutta la comunità - commenta l’assessore Coletti - che favorisce percorsi di reinserimento per i detenuti, promuove comportamenti responsabili e previene il rischio della recidiva”. “Dal detenuto alla città - dice Nicoletta Toscani - il prodotto finale avrà anima e valore che tutte le istituzioni e chi ci ha lavorato vicino hanno voluto mettere dentro: una bici di valore etico”. “Rispetto alle biciclette - conclude Sabrina Scida - è bello restituire valore a un oggetto che pareva non avesse più una vita. Così come con le persone: è bello costruire qualcosa che porti alla inclusione di chi può avere disagi sociali e svantaggi”. Verona. Progetto equestre al carcere di Montorio: “Andare a cavallo ti fa sentire libero” L’Arena, 6 novembre 2021 A Fieracavalli presentati i progetti che vedono coinvolti la casa circondariale di Montorio - che da anni collabora con la Fiera - e il Carcere di Opera - pioniere nell’ambito di progetti di inclusione legati al cavallo. Ci sono state le dimostrazioni del corso di Arte Equestre con i detenuti di Montorio. René Farina, giovane detenuto della Casa Circondariale di Montorio, ha commentato con emozione la sua esperienza: “Avevo paura di avvicinarmi ai cavalli invece adesso li adoro” - racconta René - “quando ci chiedono cos’è la libertà non sai mai cosa dire, ma quello che provi salendo sul cavallo ci si avvicina molto, ti senti libero veramente”. Maria Grazia Bregoli - direttrice del carcere di Montorio - e Giuseppe Gandini - responsabile progetto mascalcia del carcere di Opera - hanno invece ribadito l’importanza del ritorno in società per i detenuti e quanto sia stato anche per loro una sorpresa vedere negli anni i risultati che può dare il rapporto con il cavallo ed il mondo del lavoro ad esso connesso. “Il maniscalco è un mestiere che in Italia ha sempre più bisogno di persone specializzate e può diventare quindi una straordinaria occasione di reinserimento per i detenuti.” conclude Gandini. La dimostrazione delle abilità che i detenuti hanno acquisito durante il corso sono in programma tutti i giorni di Fieracavalli fino a domenica 7, nel Padiglione 1 e nell’Area esterna A. La Spezia. “Ciò che resta”, il film dei detenuti selezionato per il MedFilm Festival di Roma cittadellaspezia.com, 6 novembre 2021 Il film “Ciò che resta - appunti dalla polvere”, realizzato con i detenuti attori della Casa Circondariale della Spezia nell’ambito del progetto “Per Aspera ad Astra. Come riconfigurare il carcere attraverso cultura e bellezza”, è stato selezionato per la sezione Voci dal Carcere della 27^ edizione del MedFilm Festival 2021 di Roma, il più longevo festival di cinema della Capitale e il primo in Italia dedicato alle cinematografie del Mediterraneo. Un importante riconoscimento per quest’opera frutto della seconda annualità del progetto “Per Aspera ad Astra”, promosso da Acri sul territorio nazionale con il sostegno di 11 Fondazioni di origine bancaria e attivato alla Spezia grazie alla collaborazione tra Fondazione Carispezia, Casa Circondariale della Spezia e Associazione Gli Scarti. “Ciò che resta - appunti dalla polvere”, con la regia di Enrico Casale e Renato Bandoli, verrà proiettato nell’ambito del MedFilm Festival lunedì 8 novembre al Cinema Savoy di Roma (alle 17.30) e da giovedì 11 novembre sarà visibile online anche sulla piattaforma MyMovies.it. Il film è stato realizzato con una ventina di detenuti attori e tecnici della Casa Circondariale della Spezia e raccoglie “ciò che resta” del percorso creativo dei detenuti partecipanti ai laboratori teatrali (recitazione, drammaturgia, scenografia, scenotecnica, fonica) della seconda annualità del progetto “Per Aspera ad Astra”. A causa del blocco dovuto alla pandemia del marzo 2020, non è stato possibile portare a compimento la naturale e originaria forma teatrale del lavoro che si è trasformato in un film, per non dissipare il lavoro e il valore umano dell’impegno dei partecipanti al progetto. Giunto oggi alla quarta edizione, “Per Aspera ad Astra” sta realizzando in 11 carceri italiane innovativi e duraturi percorsi di formazione professionale nei mestieri del teatro, che riguardano non solo attori e drammaturghi, ma anche scenografi, costumisti, truccatori, fonici, addetti alle luci. L’esperienza condivisa testimonia come sia possibile lavorare nelle carceri mettendo al centro la cultura, lasciando che essa possa esprimersi a pieno e compiere una rigenerazione degli individui, che possa quindi favorire il riscatto personale e avviare percorsi per il pieno reinserimento del detenuto nel mondo esterno. Nel carcere spezzino i laboratori teatrali curati da Gli Scarti sono da poco ripresi e, dopo il primo studio dello spettacolo “Operine” portato in scena a settembre al Teatro degli Impavidi di Sarzana, il lavoro conclusivo della quarta annualità è già in programma il 26 e 27 maggio 2022 sempre al Teatro degli Impavidi e sarà dedicato ad approfondire le forme del “comico grottesco”. Ferrara. Rugby 27: nasce nel carcere un nuovo progetto per i detenuti cild.eu, 6 novembre 2021 Stefano Cavallini lo abbiamo incontrato qualche anno fa a Roma, Presidente del Giallo Dozza, squadra di rugby nata tra le mura del carcere di Bologna a cui avevamo assegnato il Premio Cild per le Libertà Civili per questo impegno nel contribuire a costruire una seconda chance per chi si trovava in carcere. Di questa esperienza Stefano ci aveva parlato anche in uno dei video realizzati nell’ambito della campagna Amarsi un po’. Oggi torniamo a parlare con lui, invece, per raccontare un altro progetto che lo vede protagonista: Rugby 27, la squadra composta dai detenuti del carcere di Ferrara. Stefano, innanzitutto raccontaci perché il rugby in carcere... In generale il rugby, in quanto sport di alta disciplina e di valori particolarmente forti, aiuta ad affrontare le cose della vita in modo appropriato. Nelle dinamiche di squadra si cementano rapporti interpersonali ed una propensione all’impegno sociale di riguardo. A maggior ragione, avvicinare a questa disciplina sportiva ed alla sua pratica persone che pagano i loro errori con la privazione della libertà aiuta a migliorarsi. L’obiettivo non è tanto formare dei campioni, ma, attraverso questo strumento, costringerli a misurarsi con regole e sentimenti che magari non conoscono, e che magari sono quelli che ne hanno determinato i guai. Diventare squadra, condividere un obiettivo, ragionare con il noi, superare l’indisciplina nei reparti con un maggior uso dell’autocontrollo, accogliere la sfida con spirito sportivo, fare del sostegno al compagno un modo diverso di affrontare le difficoltà, produce in tempi sensibilmente brevi un cambio di atteggiamento nella vita reclusa. Quando avete proposto il progetto ai detenuti come hanno reagito? Quante adesioni ci sono state? Avuto il placet dall’Istituto abbiamo costruito un gruppo di volontari durante l’estate che garantisce continuità (elemento determinante) e qualità professionali. Questi nuovi volontari hanno accolto la mia proposta con un vero entusiasmo che si va consolidando con l’andare del tempo. Sono rugbisti con differenti esperienze, giocatori, arbitri, preparatori tecnici che hanno messo nel progetto la loro professionalità, ed il cuore. Il lavoro è cominciato a metà settembre con un incontro generale in sala teatro, dove abbiamo illustrato il progetto. Da subito abbiamo avuto oltre 40 adesioni che hanno dovuto superare gli esami sanitari. Ad oggi abbiamo una trentina di detenuti provenienti da numerose nazionalità, che portiamo in campo due volte alla settimana per 2 ore alla volta; stiamo valutando la compatibilità con i vincoli dell’Istituto di potere incrementare con una nuova sessione e con una giornata di tecnica in sala. Le nostre richieste sono al vaglio della Direzione ma siamo sulla buona strada. Abbiamo già stabilito un buon rapporto con il personale civile (educatori e psicologi) e stiamo progressivamente avendo buoni riscontri dal personale di Polizia Penitenziaria in ansia per una grave carenza di personale. Stanno comprendendo che il nostro ruolo è proprio nel segno dell’Articolo 27 della nostra Costituzione e lo sentono come supporto, se si diffonderà questa sensazione avremmo fatto bene. Vi siete iscritti o pensate di farlo ad un campionato? Tutti i nostri ragazzi non hanno mai visto un pallone da rugby, salvo due, uno che era rugbista di una vicina squadra ed un secondo che ha giocato con il Giallo Dozza. Si può ben capire che, al di là della mancanza delle strutture tecniche (panchine, porte, spogliatoi) che con qualche aiuto economico realizzeremo, siamo molto indietro tecnicamente, ma confesserò che ci stiamo seriamente pensando per il prossimo anno. Devono mettersi in fila numerose cose e non tutte dipendono da noi. Qual è il supporto che la Federazione Italiana Rugby dà a queste esperienze? La Federazione ci ha supportato con grande lena per tutte le pratiche associative e l’affiliazione. Purtroppo la nostra recente nascita ci impedisce di partecipare a bandi ma siamo in attesa di materiale tecnico di cui necessitiamo come l’aria. Intanto utilizziamo quello che abbiamo avuto in dono dai colleghi del rugby nel carcere di Pesaro; le nostre risorse dipendono da un sponsor appassionato, ma sono limitate. In conclusione, le cose si stanno mettendo bene, confidiamo che con l’arrivo dei primi freddi non si disperdano le truppe e che, soprattutto, non ci siano recrudescenze nella diffusione del Virus. Il carcere per chi non vuol vederlo di Marcello Bortolato* questionegiustizia.it, 6 novembre 2021 Guardando “Ariaferma”, film di Leonardo Di Costanzo (2021). “Ariaferma”, film diretto da Leonardo di Costanzo e interpretato da Toni Servillo, Silvio Orlando e Salvatore Striano (attore ex-detenuto, Bruto nel film “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, film capolavoro sul tema) è ambientato in un carcere in via di dismissione. I detenuti attendono, assieme ad un piccolo gruppo di agenti, di essere trasferiti. Paure, speranze e illusioni si intrecciano tra i pochi reclusi e i ridotti poliziotti che li sorvegliano. Per un disguido burocratico l’attesa si allunga e si forma un’inedita comunione, tanto fragile quanto inaspettata. Ognuno all’inizio è costretto a giocare il suo ruolo, quello che una legge beffarda gli assegna, finché un evento ancora più straordinario (che non riveleremo) scatena un flusso di vita, una vita meno confinata e meno tragica. In una rotonda centrale di un vecchio carcere, un “panottico” in sedicesimo, tra il rumore delle chiavi e le urla ossessive (come solo in carcere si sentono), si crea una situazione nuova che stravolge gli equilibri consolidati tra ladri e guardie, tra “camosci” e “girachiavi” (come il gergo di un tempo identificava le due categorie). Di Costanzo descrive con assoluto rigore una verità: il carcere è metafora della vita. Ognuno ha una maschera che la società gli assegna ma poi succede sempre qualcosa che rompe gli schemi e la vita vera irrompe. Per i detenuti nessuna indulgenza, non è questo il punto: ognuno porta con sé il peso delle sue responsabilità (rinfacciate al ‘reo’ da un superbo Servillo in un serrato dialogo con Orlando) ma ciascuno in quanto uomo, con la sua nuda vita - anche quella, triste, di chi deve solo sorvegliare e custodire altre vite - è di fronte all’altro e alla sua intrinseca umanità. Il carcere, che è soprattutto omologazione, distrugge le individualità ma talvolta esse emergono con indomabile forza. Nel filmare sapientemente l’ordinaria vita del carcere c’è tutto quello che vi è: la noia infinita, l’ozio forzoso di una condizione che dovrebbe rieducare ma invece sopprime umanità, i ritmi estenuanti, l’orribile architettura, il sapore del cibo precotto e l’odore nauseante delle celle (par di sentirli uscire dallo schermo). Il regista non giudica, non tenta di convincere, mostra solo ciò che non vogliamo sapere e alla fine l’uomo con la sua coscienza morale ha il sopravvento sulla disumanità di un carcere straniante. Lo scontro è solo psicologico: è un thriller delle emozioni che trascina lo spettatore fino in fondo quando la catarsi del cibo sembra mettere fine al conflitto ma, come sempre succede quando si tratta di carcere, è solo un attimo, nulla cambierà per sempre. Perché vederlo? Intanto il carcere è, per la prima volta al cinema, raccontato non come ciascuno di noi se lo immagina, ma per come è veramente. Smonta molti luoghi comuni, con occhio disincantato, per nulla indulgente. Ma il carcere che vi è descritto non corrisponde affatto al racconto sociale che di esso comunemente si fa: la galera che si vede esaurisce in sé solo la funzione retributiva, meramente afflittiva, cioè l’antitesi del modello costituzionale che vuole la pena da un lato non disumana e dall’altro indirizzata al reinserimento. Fosse solo per questo il film andrebbe mostrato nelle scuole. Poi, fa capire che in galera c’è prima di tutto una mentalità da combattere (la scena dello stigma carcerario nei confronti di chi “è peggio di te” perché ha commesso dei reati inaccettabili anche per il peggior delinquente, è di particolare intensità) ma anche tanta solidarietà (il giovane aiuta il vecchio compagno in difficoltà perché si riappropria di quel valore, il rispetto verso gli anziani, che proprio con il reato commesso “fuori” aveva perduto). Il film insegna molto a chi di carcere non sa nulla: ci voleva Ariaferma per apprendere ad esempio che i detenuti italiani non mangiano tutti insieme alla mensa, nonostante una norma di legge lo preveda espressamente. Ci voleva Ariaferma per sapere che in istituto molto si regge sulle nude spalle di pochi agenti, reclusi anch’essi, lasciati soli a governare le vite altrui, costretti a prendere decisioni straordinarie nell’indifferenza di una burocrazia tal volta distratta, più spesso inerte. Ma il film è la metafora anche di cosa è stato il carcere durante la pandemia: inattività protratta, sospensione dei contatti con la famiglia, attese snervanti, paura del trasferimento, angoscia di ammalarsi. Ariaferma infine ci insegna che non esistono destini separati, esiste un destino comune che riguarda tutti i cittadini, quelli che stanno ‘dentro’ e quelli che stanno ‘fuori’, ed è fondamentale che chiunque se ne faccia carico. Il ritmo incalzante, la musica avvincente e la straordinaria bravura di attori del calibro di Toni Servillo e Silvio Orlando, fanno di Ariaferma un grande film. *Presidente del Tribunale di Sorveglianza Firenze Leggere Sciascia in Procura. Un atto di autocoscienza per la giustizia in crisi di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 6 novembre 2021 Che tra letteratura e diritto vi sia parentela o contiguità, è risaputo. Ne costituisce ennesima conferma - tra l’altro - l’interesse che il mondo dei giuristi (latamente intesi) ha rivolto alle opere di Leonardo Sciascia in occasione delle ancora recenti celebrazioni per il centenario della nascita dello scrittore di Racalmuto. Alludo al ciclo di conferenze promosse dall’Unione Camere penali in diverse città italiane, nonché alla pubblicazione di articoli e persino di qualche libro su diritto e giustizia in Sciascia ad opera o a cura di appartenenti a vario titolo all’universo delle professioni legali. Questa rilettura nell’ottica dei professionisti del diritto, che certo si spiega con la centralità che il tema della giustizia (nel senso sia di giustizia sociale, sia di amministrazione della giustizia nei tribunali) occupa nella produzione sciasciana, mi sembra interessante e opportuna per un motivo aggiuntivo forse intuibile: inclino cioè a interpretarla come sintomo di un bisogno di fare autocoscienza, di un’esigenza di autoanalisi e riflessione sollecitati dalla accresciuta consapevolezza della condizione di crisi in cui non da ora versa il pianeta-giustizia. Crisi, più di recente, aggravata dalla perdita di credibilità e dalla forte delegittimazione dell’intero ordine giudiziario prodotte dalla scandalosa vicenda Palamara, spia di un più generale fenomeno di ulteriore degenerazione correntizia e di poco trasparenti liaisons dangereuses tra potere giudiziario e potere politico. Invero già alcuni decenni fa Sciascia era riuscito a diagnosticare, come emerge dagli interventi giornalistici degli anni 1979-1988 poi raccolti nel libro A futura memoria (se la memoria ha un futuro) riedito di recente da Adelphi, non poche delle gravi patologie che affliggono l’amministrazione della giustizia nel nostro paese. Ma, al di là di questa anticipata diagnosi di mali che si sarebbero cronicizzati o aggravati nel corso degli anni, dobbiamo allo scrittore siciliano lucide e tormentate riflessioni-provocazioni sulla funzione stessa del giudicare, e su alcuni suoi possibili risvolti insidiosi e inquietanti (per il rischio incombente che la macchina giudiziaria degradi a terrificante meccanismo repressivo che stritola i malcapitati che cadono nei suoi ingranaggi o per la tentazione storicamente ricorrente di piegarla a strumento di potere asservito a scopi politici) che almeno in parte prescindono dalle forme specifiche e dai contesti concreti in cui l’attività giudiziaria si manifesta, e che non a caso troviamo sparse nella maggior parte delle sue opere letterarie o di taglio letterario-saggistico. Appunto a queste riflessioni-provocazioni a carattere - per così dire - più universale rivolgono l’attenzione critica i tre (ex) magistrati di Cassazione e i cinque professori di diritto autori dei i saggi contenuti nel libro Diritto Verità Giustizia (Cacucci Editore, 2021),concepito come omaggio a Leonardo Sciascia e ispirato - come scrivono i curatori Luigi Cavallaro e Roberto Conti nell’introduzione - al seguente ambizioso proposito: promuovere “una riflessione a più voci che provi finalmente a prendere sul serio gli interrogativi sul diritto, sulla verità e sulla giustizia che attraversano l’opera tutta di Leonardo Sciascia”. Non potendo per ragioni di spazio dare dettagliatamente conto del contenuto di ciascun saggio, mi limito a segnalare i contributi e gli spunti di analisi che considero più rilevanti o suggestivi (scusandomi in anticipo per l’inevitabile soggettività e parzialità della mia angolazione visuale). L’intervento di più ampio respiro, anche per la ricchezza di suggestioni che contiene, è quello di Nicolò Lipari, il quale premette alcune considerazioni generali sull’affinità epistemologica tra letteratura e diritto derivante - a suo giudizio - innanzitutto dal fatto che l’una e l’altro si affidano al linguaggio per strutturare una realtà amorfa e non verbale. Dopo aver sottolineato che il fenomeno giuridico non si esaurisce in un panorama legislativo e giurisprudenziale, affondando esso le radici in un complessivo ambiente culturale, l’autore giunge a sostenere che le opere di letteratura “non si limitano a raccontare il diritto, ma semmai concorrono a formarlo”, specie se di quest’ultimo si abbia una concezione non strettamente formalistica bensì aperta alla realtà degli interessi, alla sfera dei valori e al mondo dell’esperienza. Specificando poi il discorso con riferimento alle opere di Sciascia (in particolare, il romanzo Todo modo, ma con richiami anche di altre opere narrative), Lipari propone una complessa linea interpretativa del seguente tenore. Cioè Sciascia, diagnosticando pessimisticamente l’impossibilità per le strutture giuridiche tradizionali (subalterne ai dettami del potere politico di turno) di soddisfare le aspettative di giustizia emergenti dal basso, è come se avesse in certo senso avuto l’intuizione precorritrice di un modo di concepire il diritto più conforme alla sensibilità culturale odierna: vale a dire, una concezione basata sulla convinzione che il diritto, così come interpretato e applicato alla luce del costituzionalismo contemporaneo, possa anche trasformarsi “da strumento del potere a mezzo per il conseguimento di un risultato di giustizia”. Si tratta di una interpretazione forzata del pensiero sciasciano? Forse sì. Una cosa mi sembra fuori discussione, comunque: il tendenziale pessimismo di Sciascia sulla possibilità concreta di ricongiungere diritto e giustizia con la “g” maiuscola non esclude, bensì (ossimoricamente!) sollecita una continua tensione etico-politica in vista dell’obiettivo di tentare di ravvicinare il più possibile l’uno e l’altra. Considerazioni anche di ordine letterario, non prive di originalità, sono altresì sviluppate da Giovanni Mammone nel porre a inconsueto confronto Sciascia e Kafka (assumendo a oggetto di analisi, soprattutto, Il contesto, opera “parodistica” nella quale si legge il celeberrimo dialogo - paradossale quanto inquietante - tra il presidente della Corte suprema Riches e l’ispettore Rogas). Dal canto suo, Mammone spiega che la tentazione di questo confronto deriva - tra l’altro - dall’atteggiamento critico che i due scrittori assumono nei confronti della giustizia-istituzione, per cui l’analisi delle rispettive connessioni narrative tende a “verificare in che limiti le loro inquietudini e paure siano condizionate sul piano esistenziale dall’immagine che di sé dà la giustizia”. Ciò premesso, la conclusione cui l’ex alto magistrato di cassazione perviene sembra riassumibile all’incirca così: mentre Kafka rappresenta la dinamica giudiziaria come “un incomprensibile formalismo autoreferenziale” e vive la legge “dentro un orizzonte di interiorizzata e trasognata realtà”, Sciascia “verifica nel concreto fino a che punto quella ‘legge’ effettivamente costituisce la guida delle istituzioni, non nascondendo di fronte a questa osservazione il proprio ostentato scetticismo”. Che dire di questo esito del tentato confronto tra lo scrittore racalmutese e lo scrittore praghese? Considerato l’alone di ambiguità e di (più o meno voluta) oscurità che non di rado connota la grande letteratura, distinguere con nettezza tra letture plausibili e letture improbabili è sforzo vano. Raffinata e persuasiva è l’analisi del Giorno della civetta compiuta da Natalino Irti, in cui si mette bene in evidenza come in questo testo affiori un “politeismo giuridico” che rende plurima e frammentata la stessa nozione di “legge”: per cui essa varia nelle diverse prospettive personali del capitano Bellodi, del mafioso Don Mariano, del confidente di polizia e della vedova. E mi sembra, inoltre, azzeccatissima questa notazione finale: “A Sciascia non bisogna chiedere (e non era ufficio suo di grande narratore) una concezione del diritto; ci bastano le inquietudini del suo spirito”. In altri tre saggi - rispettivamente di Massimo Donini, Davide Galliani e Gabriella Luccioli (aventi ciascuno in particolare ad oggetto Il Consiglio d’Egitto, Morte dell’inquisitore e La strega e il capitano) - l’attenzione viene rivolta alla duplice mostruosità di una pena di morte inflitta con crudeltà e di un processo piegato a una verità precostituita in vista di scopi del tutto incompatibili con l’ideale e il sentimento di giustizia. In proposito, mi piace riportare queste parole conclusive di Massimo Donini: “Nel delitto ci può essere la verità che consentirà di superare la legge. Almeno finché non cambieranno le leggi, e fors’anche dopo, solo il mondo della letteratura e dell’arte ci consente di vedere la luce”. Qualche accenno, infine, al commento di Porte aperte a firma di Ernesto Lupo, di cui mi preme richiamare la parte in cui si problematizza il rapporto tra processo e legge, sottolineando l’autonomia (quantomeno relativa) - nella scia del pensiero giuridico di Salvatore Satta, richiamato invero dallo stesso Sciascia come epigrafe al romanzo - del primo rispetto alla seconda: autonomia avvertita dal “piccolo giudice” protagonista, che con piena consapevolezza, e dunque con tormento di coscienza, ha ben chiaro che la previsione legislativa della pena capitale (reintrodotta dal regime fascista) non ne comporta una applicazione automatica in sede di giudizio, costituendo la scelta di applicarla pur sempre il risultato di una decisione concreta che chiama in causa la responsabilità anche morale del giudice. Sottoposti a uno sguardo d’insieme, i contributi contenuti nel libro qui in discussione convergono - ritengo - nel confermare la complessità e le ambiguità del sofferto e inquieto pensiero sciasciano su diritto, verità e giustizia. Complessità e ambiguità che, pur riflettendo un orientamento di fondo pessimistico, non sembrano tuttavia precludere qualche apertura verso prospettive di possibile avvicinamento tra diritto concretamente applicato e diritto “giusto”. E’ per questo che ho avuto occasione, in precedenti interventi, di arrischiare una definizione di Sciascia fondamentalmente analoga a quella che diede di sé stesso Norberto Bobbio, il maggiore giusfilosofo italiano del secondo Novecento: un “illuminista pessimista”. Si tratti o meno di una assimilazione giustificata, sono a questo punto tentato di concludere con questo interrogativo: non sarebbe il caso di introdurre nei corsi di formazione professionale per giovani magistrati, come possibile antidoto alla ricorrente illusione di una giustizia penale “salvifica”, lo studio obbligatorio di opere (letterarie e scientifiche) che pongono in risalto le difficoltà, i dubbi, i dilemmi, i conflitti, i complessi bilanciamenti, i tormenti di coscienza e i rischi di errore connessi alla funzione di indagare e giudicare persone in carne e ossa? La proposta indecente di Ursula von Der Leyen: armi “beni essenziali” esenti da Iva di Gregorio Piccin Il Manifesto, 6 novembre 2021 “Beni di consumo” molto particolari a quanto pare destinati all’esenzione totale dell’Iva: parliamo di armi e sistemi d’arma prodotti e venduti in Europa. Pane, latte e pasta sono considerati beni primari a tal punto importanti che lo Stato ne supporta il consumo attraverso un ribasso dell’Iva al 4%. Avviene anche per altri beni di consumo e servizi: farmaci, trasporti, forniture energetiche e idriche per uso domestico su cui il ribasso è fissato al 10%. Vi sono poi “beni di consumo” molto particolari a quanto pare destinati all’esenzione totale dell’Iva: parliamo di armi e sistemi d’arma prodotti e venduti in Europa. Sembra una “fake” eppure è esattamente quello che ha proposto Ursula von Der Leyen nel recente discorso sullo stato dell’Unione: “Potremmo prendere in considerazione l’esenzione dall’Iva per l’acquisto di materiale di difesa sviluppato e prodotto in Europa”. Sinistra Europea nell’Europarlamento ha lanciato una campagna per bloccare l’iniziativa; “La proposta di finanziare con le nostre tasse, attraverso l’abbattimento dell’Iva, il commercio delle armi, è una proposta semplicemente criminale. Se i soldi gettati via con quella riduzione dell’Iva, venissero usati per lavori utili come il riassetto idrogeologico del territorio, avremo molti posti di lavoro in più che non nell’industria delle armi”, ha commentato Paolo Ferrero, vice presidente di SE. La proposta della Commissione europea non è tuttavia farina del sacco di von Der Leyden. Dal punto di vista delle capacità militari-industriali il nostro Paese è il terzo tra i quattro (Francia, Germania, Italia, Spagna) che hanno costituito il nucleo promotore della Permanent structured cooperation (Pesco) e fu l’allora ministra della difesa Roberta Pinotti (Pd) a giocare per prima la carta dell’esenzione Iva in vista degli accordi per imbastire la cosiddetta difesa europea: “La nostra proposta - dichiarava Pinotti - prevede in primis uno stimolo all’industria della difesa, mediante un piano di incentivi fiscali e finanziari rivolto ai progetti europei di cooperazione militare, con esenzione dall’Iva e sostegno della Banca europea degli investimenti”. Lo spostamento della “cortina di ferro” dal Friuli e dalla Germania a ridosso dei confini russi, oltre a colpire duramente l’economia reale di Paesi come il nostro (sanzioni, controsanzioni, prezzo del gas…), ha già prodotto un aumento delle spese militari in Paesi come Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania che hanno centrato il parametro Nato del 2% sul Pil. E anche se questi Paesi si considerano più vicini agli Usa che all’Ue, è pur vero che la Pesco, se rafforzata dalla misura dell’esenzione Iva, renderebbe decisamente più vantaggiosa e concorrenziale la merce bellica convenzionale made in Europe. Non a caso questo è uno degli attriti più brucianti con gli Stati uniti che da tempo insistono per entrare nel programma Pesco nonostante la partecipazione sia preclusa a Paesi extra Ue. Ma come sempre accade, un successo per l’industria bellica nazionale od europea corrisponde ad una distrazione di risorse dalle cose che fanno la differenza nella vita di cittadini e cittadine: i salari sono bloccati, in particolare in Italia dove sono addirittura diminuiti rispetto al 1990, il carovita galoppa con aumento generalizzato dei prezzi, la crisi sociale morde ovunque. I 76 eletti italiani (da FdI al Pd passando per Lega e M5S) al Parlamento europeo non hanno fiatato su questa proposta indecente fa tta per deregolamentare il mercato delle armi in vista dell’edificazione della “Difesa europea” - così, è bene saperlo, aumentaranno i profitti privati e si ridurrà l’introito fiscale degli Stati. Per questa trasversale classe politica, comunque atlantista, di “responsabili” quando si parla di corsa agli armamenti e regalie all’industria bellica, “austerità” e “moderazione” non sono mai di casa. Guerre contro e per la droga. Solo così potrai conoscere la vera storia dell’umanità di Roberto Saviano Corriere della Sera, 6 novembre 2021 Nella foto che ho scelto vedete un soldato americano in Vietnam che fuma oppio. L’ho selezionata perché, se una storia della guerra è possibile, lo scrittore statunitense Peter Andreas ci mostra quanto inevitabilmente debba essere raccontata attraverso alcol, caffè, tabacco, oppio, amfetamine, cocaina: attraverso le droghe. Per comprendere come funzionano le droghe nel nostro mondo - e il contrasto alle droghe - per poterne parlare con cognizione di causa, per poter divulgare informazioni su droghe e società non puoi avere un solo punto di vista, una sola prospettiva, né un solo scopo: fermarne il traffico, arrestare, curare. Per poter restituire un quadro completo dovresti essere allo stesso tempo rappresentante delle forze dell’ordine, magistrato, medico, ricercatore, storico, studioso, antropologo, finanche esperto di evoluzionismo. Ora, dato che tutte queste competenze è impossibile trovarle condensate in una sola persona, se davvero vogliamo conoscere la storia delle droghe, gli effetti dei traffici sulle economie e sui rapporti tra stati, vale la pena leggere Killer High. Storia della guerra in sei droghe dell’accademico Usa Peter Andreas, libro in Italia pubblicato dalla coraggiosa casa editrice Meltemi. Peter Andreas è un accademico nel metodo di ricerca e nell’approccio al tema, ma non lo è affatto nello stile che è diretto, inchioda alla pagina, rende la storia della guerra alle e per le droghe una storia affascinante perché sin da subito pone il lettore al cospetto di una verità che spesso preferisce ignorare: la storia della guerra contro la droga è anche e forse soprattutto la storia della guerra per la droga. E sia nel primo che nel secondo caso è la droga a vincere, non noi. Non chi contrasta e nemmeno, in fin dei conti, chi guadagna. Peter Andreas ha scavato per arrivare alle radici più profonde della relazione tra droghe e guerra. Canton, correva l’anno 1839... scrive: “Per decenni la Compagnia Britannica delle Indie Orientali, di gran lunga la più vasta organizzazione dedita al narcotraffico nella storia del mondo, aveva orchestrato il trasporto in Cina di quantità sempre crescenti di oppio indiano, in flagrante violazione dei divieti ufficiali. E quando finalmente le autorità cinesi cominciarono a fare sul serio affinché i divieti fossero applicati, la Gran Bretagna rispose inviando truppe e cannoni per tenere aperte le porte all’oppio”. Conclude Andreas: “E si scopre così che la Gran Bretagna non fu solo il primo vero “narcostato” del mondo, ma addirittura un “narcoimpero”“. Che incipit potente! Per le droghe sono state combattute guerre. E le guerre sono state gestite, pagate, controllate con le droghe. Nella foto che ho scelto vedete un soldato americano in Vietnam che fuma oppio. L’ho selezionata perché, se una storia della guerra è possibile, Peter Andreas ci mostra quanto inevitabilmente debba essere raccontata attraverso alcol, caffè, tabacco, oppio, amfetamine, cocaina: attraverso le droghe. In quella situazione il corpo ha bisogno di aiuto per reggere il dolore lacerante e l’animo, che anela a una serenità impossibile sotto una pioggia di proiettili e bombe, ha bisogno di essere annebbiato. Le altalene tra permissivismo (non legalizzazione, voglio che passi proprio il concetto di “concessione” e non di “possibilità di scegliere liberamente”) e proibizionismo raccontano di una sovrastruttura politica ed economica che allunga le mani dove può, sacrificando qualsiasi possibilità di usi salutari e controllati di certe sostanze in nome di altri princìpi, gli stessi che hanno ispirato nel corso del 900 la creazione di droghe completamente sintetizzate in laboratorio per consumare i corpi in nome dell’efficienza oltre ogni limite. Quella dell’autore è una vera storia dell’umanità nel fragile equilibrio che si gioca tra le guerre mosse per salvaguardare i mercati della droga e quelle per distruggerli almeno in apparenza. Mentre eserciti e popolazioni coinvolte se ne riforniscono con la stessa urgenza con cui fanno appello a scorte di viveri e munizioni. E chi più urla alla tossicodipendenza finisce per usare sottotraccia i proventi del narcotraffico per finanziare operazioni belliche o indebolire i rivali. E la sempiterna distinzione tra droghe legali e illegali? Se si analizza la storia dell’umanità con la lente delle guerre va ammesso che non esiste affatto. Perché, avverte l’autore, “droghe del tutto legali hanno avuto un ruolo persino più letale di quelle illegali”, senza contare che la differenza tra legittimità e illegalità è stata costruita nel tempo, in modo arbitrario, dai giochi di potere. Con un occhio più agli interessi commerciali e politici che alla salute delle persone. Così, come spesso accade, si criminalizza e punisce solo chi può essere criminalizzato e punito, lasciando immuni, del tutto immacolati i veri mercanti di morte. Zuckerberg apre le porte al metaverso: si rischia una profilazione di massa ancora più pervasiva di Andrea Lisi Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2021 Mark Zuckerberg apre le porte al metaverso. Se ne parlava da tempo e - come sappiamo - il giorno del cambio di nome è arrivato. Qualche problema si manifesta in realtà all’orizzonte, perché la denominazione non proprio originalissima “Meta” è un marchio già registrato da altra società, la Meta PCs, una compagnia americana dell’Arizona. Ma sono certo che questo intoppo potrà essere superato a “suon d’affari” e comunque la strada sembra essere segnata, quindi, vediamo se questo universo “al di là” dei social sarà davvero un’opportunità oppure un altro guaio per noi - già piuttosto addomesticati e asserviti - utenti digitali. Di fatto si tratta di una Second Life molto più evoluta dove nostri avatar potranno replicarsi in un mondo molto più bello di quello reale, interagire, progettare, confrontarsi con altri cittadini digitali, lavorare, fare affari e procedere con acquisti di beni e servizi, senza muoversi da casa. Del resto, il traffico è una seccatura ed è dannoso per l’ambiente. Quindi, un progetto bellissimo. Il problema è che non tutto è oro ciò che luccica e - come al solito - il diavolo si annida nei dettagli. E in questo caso alcuni dettagli pesano come macigni. Prima di tutto, l’annuncio cade in un momento particolare, con Facebook sotto scacco, e sembra essere più che altro un’operazione di abile maquillage legata alla web reputation al momento non proprio luccicante del più grande social network. Peraltro, che fosse vicino questo passaggio verso un alter ego digitale iperconnesso era già palese quando, solo poco più di un mese fa, sono entrati sul mercato i mirabolanti occhiali Ray-ban. Questi senz’altro saranno uno degli strumenti principali di integrazione con il metamondo che andrà oltre Facebook (che comunque come denominazione sul mercato per adesso rimane). Già al momento del lancio sul mercato di queste nuove lenti è stato evidente il pericolo che si trattasse solo di un modo per farci fare un altro passo in più nella cessione sconsiderata dei nostri dati. E già allora le preoccupazioni espresse dal Garante mi sono sembrate assolutamente legittime e da prendere in grande considerazione. E nel metaprogetto di Zuckerberg non possono non apparire evidenti i rischi potenziali di una profilazione di massa ancora più strisciante e pervasiva rispetto a ciò che già subiamo attualmente, perché condizionata da automatismi che porteranno a regalare una mole di propri dati personali da parte di chi indosserà ogni strumento utile, a partire dagli occhiali, pur di connettersi con il nuovo mondo che ci regalerà i miracoli che il mondo reale non ci consente (finendo con l’acquisire dati non solo relativi a ciò che siamo, ma anche a ciò che vorremmo essere). Del resto, già nella dimensione social, di cui è sempre più intrisa la nostra esistenza - ci piaccia o no - siamo in una prigione dorata. Gli OTT, come Facebook & C., hanno vissuto indisturbati lungo i binari di un web libero, ma hanno abusato di questa libertà loro concessa, creando spazi immensi dove si condividono ormai identità, dati personalissimi, si esprimono pensieri e si sviluppano affari e servizi pubblici. E questo spazio, per ciò che è diventato, a mio avviso, non può più essere lasciato alla comoda auto-regolamentazione dei big player (lasciandoli così ancora indisturbati a continuare “a fare affari” su di noi, cannibalizzando dati che ci riguardano). Questi enormi spazi su cui ormai sempre di più poggiamo le nostre esistenze andrebbero invece considerati per ciò che oggi sono, veri e propri continenti digitali dove si sviluppano nostre intere identità e, quindi, giuridicamente andrebbero regolamentati come servizi essenziali che incidono sistematicamente su diritti e libertà di noi cittadini (oltre che di interessi di imprese e PA). Del resto, non possiamo più rimanere indifferenti di fronte ad algoritmi (peraltro non aperti) che ormai, dietro accurate e poco trasparenti profilazioni, decidono arbitrariamente di fare “pulizia” (vere e proprie epurazioni) di profili e post scomodi o che semplicemente non sono allineati al mainstream. E il fatto che oggi Zuckerberg (e il suo potenzialmente enorme metamondo) ci chieda aiuto per autoregolamentarsi e ci chieda di agevolare un percorso di responsabilizzazione degli utenti in quello che continua a ritenere un suo spazio privato non può non assumere il sapore agro-dolce di una exscusatio non petita accusatio manifesta per tutto ciò che è già abbondantemente in atto ai danni di noi utenti. L’unica speranza è che gli Stati nazionali (e quindi la politica) a livello internazionale si rendano conto del problema e regolamentino finalmente e con coraggio i confini normativi di un mondo che non è digitale, ma è più reale della nostra (piuttosto marginale ormai) realtà analogica. Stati Uniti. Iniezione letale, il metodo ritenuto “umano” che invece procura atroci sofferenze di Sergio D’Elia Il Riformista, 6 novembre 2021 I Paesi che hanno deciso di passare dalla sedia elettrica, l’impiccagione o la fucilazione alla iniezione letale come metodo di esecuzione, hanno presentato questa “riforma” come una conquista di civiltà e un modo più umano e indolore per giustiziare i condannati a morte. La realtà è diversa. Alcuni prigionieri ci mettono molti minuti prima di morire. Altri cadono in preda all’angoscia. Anche se l’iniezione letale è somministrata senza errori tecnici, i giustiziati avvertono un senso di asfissia come se stessero per annegare o morire strozzati. L’idea convenzionale dell’iniezione letale come una morte serena e indolore è molto discutibile. John Grant era nero ed era stato condannato a morte per l’omicidio di un bianco, Gay Carter, un addetto alla caffetteria della prigione. È stato giustiziato con un’iniezione letale nello Stato americano dell’Oklahoma il 28 ottobre scorso. Testimoni dei media dell’esecuzione hanno riferito che Grant ha avuto ripetute convulsioni e ha vomitato per quasi 15 minuti dopo che gli è stato somministrato il farmaco mortale. È stato il primo detenuto a essere messo a morte da quando una serie di esecuzioni fallite aveva portato a una moratoria temporanea sulla pena capitale nello Stato. Nell’aprile 2014, un altro nero, Clayton Lockett era rimasto con la bocca aperta e in convulsione per 43 minuti prima di morire. Un “farmaco” gli era stato iniettato nel tessuto muscolare invece che nel flusso sanguigno. Con Lockett che si contorceva, l’esecuzione fu annullata ma era ormai troppo tardi, morì sulla barella in una pozza di sangue. Nel gennaio 2015, per uccidere Charles Warner l’Amministrazione Penitenziaria ha usato consapevolmente un farmaco diverso da quello previsto: l’acetato di potassio al posto del cloruro di potassio come terzo farmaco nel protocollo di iniezione letale dello Stato. “Sembra acido… Il mio corpo è in fiamme”, l’hanno sentito dire alcuni testimoni presenti alla sua esecuzione. L’Oklahoma aveva poi bloccato le esecuzioni nel settembre 2015, quando l’allora governatore Mary Fallin all’ultimo minuto ha annullato quella di Richard Glossip dopo aver saputo che il farmaco sbagliato stava per essere usato di nuovo. Ma la “moratoria” di fatto è durata solo sei anni, fino alla settimana scorsa, quando John Grant, 60 anni, è stato messo in croce sul lettino dell’iniezione letale. L’Oklahoma Department of Corrections ha detto che l’esecuzione di Grant è andata come previsto e “senza complicazioni”. Il condannato ha vomitato e ha avuto convulsioni in tutto il corpo due dozzine di volte prima di essere dichiarato morto, hanno detto invece i testimoni sulla scena del delitto di stato. Gli avvocati di Grant hanno sostenuto che l’uso del sedativo, il midazolam, identificato come un potenziale fattore in una serie di esecuzioni fallite in Oklahoma, costituiva una punizione “crudele e inusuale”, formula che nell’esecuzione penale identifica i casi di violazione dei diritti costituzionali dei condannati a morte. Una Corte d’appello federale aveva sospeso l’esecuzione di Grant per le preoccupazioni sul cocktail di droga usato per mettere a morte i detenuti nello stato del Midwest, ma la Corte Suprema, divenuta a maggioranza conservatrice dopo le nomine di giudici decisi da Donald Trump, ha revocato la sospensione dell’ultimo minuto e ha permesso che l’esecuzione continuasse con solo i tre giudici liberali che si sono opposti. Il crudele e fallimentare protocollo dell’iniezione letale dell’Oklahoma doveva andare sotto processo nel febbraio 2022. Invece, la fretta di uccidere ha annullato la decisione della Corte d’appello e, con la vita di Grant, rischia anche di uccidere le speranze degli altri prigionieri del braccio della morte che hanno sfidato il protocollo di esecuzione dell’Oklahoma. Il dipartimento di correzione ha affermato che l’Oklahoma continuerà a utilizzare il protocollo che si è dimostrato “umano ed efficace” e che non intendeva modificare le procedure di esecuzione a seguito dell’esecuzione di Grant. Un altro condannato a morte, Julius Jones, un afroamericano di 41 anni, dovrebbe essere giustiziato il 18 novembre per l’omicidio di un uomo d’affari bianco. Grant si è assunto la piena responsabilità dell’omicidio di cui è stato accusato e ha trascorso i suoi anni nel braccio della morte cercando di capire ed espiare le sue azioni. Jones ha invece costantemente proclamato la sua innocenza di cui sono convinti anche celebrità come Kim Kardashian e il quarterback dei Cleveland Browns Baker Mayfield. Ma la fretta di uccidere non fa distinzioni tra colpevoli e innocenti. Tanto il modo di uccidere è dolce e indolore. Umano, troppo umano. Giappone. La pena di morte è senza preavviso: i legali fanno causa al governo di Sabrina Moles Il Manifesto, 6 novembre 2021 Pena capitale rimasta ferma alla revisione del Codice penale del 1873. Avvisati poche ore prima dell’esecuzione: due condannati fanno causa al tribunale. Due detenuti nel braccio della morte giapponese vengono avvisati con poche ore di anticipo della loro esecuzione. È quanto accaduto nella prefettura di Osaka giovedì 4 novembre, in una delle poche democrazie al mondo dove la pena di morte è ancora legale. I due prigionieri hanno quindi intentato una causa nei confronti del tribunale della città, chiedendo un risarcimento di circa 195 mila dollari e la revisione della data dell’esecuzione. Secondo quanto dichiarato dall’avvocato Yutaka Ueda si tratta di una pratica “estremamente disumana”, ma che non costituisce in sé una novità nel panorama carcerario giapponese, dove spesso il preavviso non supera le due ore. “Il governo centrale ha detto che questo (il preavviso a ridosso dell’esecuzione, ndr.) ha lo scopo di impedire ai prigionieri di soffrire prima della loro esecuzione, ma questa non è una spiegazione. Anzi, è un grosso problema. I prigionieri del braccio della morte vivono ogni mattina nella paura che quel giorno sarà l’ultimo”, ha aggiunto. La pena capitale in Giappone è rimasta ferma alla revisione del Codice penale del 1873 e con il tempo sono gradualmente diminuiti a diciannove i reati per i quali è possibile richiederla, inclusi sette reati che non comprendono la morte di un altro essere umano. Questo non ha facilitato la strada verso l’abolizione della pena, che oggi viene eseguita per impiccagione. La prassi è anch’essa invariata dal 1873, e prevede che i detenuti vengano condotti bendati e ammanettati sopra a una botola, in un’area dedicata. Oggi sono 112 i cittadini giapponesi condannati a morte che aspettano il giorno dell’esecuzione. Questo problema negli anni ha sollevato le critiche delle associazioni per i diritti umani, che hanno condannato Tokyo in più occasioni. Ne è un esempio il caso di Kenji Matsumoto: l’uomo è affetto da una grave disabilità mentale acuitasi con la detenzione, ma le autorità avrebbero accelerato il processo spingendolo a confessare un duplice omicidio. Dal 1993 a oggi sono stati respinti ben otto ricorsi. Un altro caso che ha sconvolto l’opinione pubblica internazionale è stato quello dell’esecuzione di massa di 13 membri della setta Aum Shinrikyo, autori dell’attacco con gas sarin nella metropolitana di Tokyo. Non è migliore la condizione delle carceri giapponesi. I prigionieri del braccio della morte vivono in celle di isolamento e i contatti con altre persone sono “estremamente limitati”. Negli ultimi anni sono emerse inoltre nuove accuse intorno alle incarcerazioni arbitrarie degli immigrati illegali nel paese, dopo che la morte di una giovane donna dello Sri Lanka, Wishma Sandamali Ratnayake, ha messo in luce la gravità del trattamento riservato a chi non è in grado (o non ha i mezzi) di accedere a strumenti di assistenza legale. Il più recente sondaggio d’opinione sulla pena di morte risale al 2019 e convalida i risultati degli ultimi dieci anni: una netta maggioranza dei cittadini giapponesi rimane a favore delle esecuzioni capitali. Solo il 9% degli intervistati su un campione di 3 mila adulti aveva risposto di essere completamente contrario alla pena di morte, mentre l’80,8% ha dichiarato che rimane una soluzione necessaria in alcuni casi. Tra le motivazioni principali emergono il “rispetto dei sentimenti della famiglia della vittima” e “una vita deve essere ripagata con un’altra vita”, oltre alla tesi che “il colpevole potrebbe commettere nuovamente il reato”. L’esito della causa dei due prigionieri giapponesi potrebbe ancora una volta rimettere in discussione una tematica sensibile per la comunità internazionale, ma ancora poco sentita all’interno del paese. Russia. Le sue prigioni: le torture di Navalny raccontate da due ex detenuti di Micol Flammini Il Foglio, 6 novembre 2021 Quando Alexei Navalny fu condannato a trascorrere più di due anni in una colonia penale, l’intenzione delle istituzioni era quella di condurlo il più lontano possibile dall’attenzione dei russi. Oscurarlo, nasconderlo, fare in modo che la Russia e i sostenitori di Navalny lo dimenticassero in fretta, prima che la sua fama e le sue istanze diventassero un fenomeno troppo grande per essere contenuto. Navalny è stato mandato nella colonia penale di Pokrov, regione di Vladimir, conosciuta per le condizioni particolarmente dure di detenzione. La strategia non è stata fallimentare, alle elezioni della Duma che si sono tenute a settembre non c’era traccia dei navalniani, il partito del presidente russo Vladimir Putin, Russia unita, ha vinto e la nazione si sta trasformando in un sistema sempre più chiuso in cui il dissenso non è tollerato. Incarcerare Navalny però non è bastato al Cremlino, perché da alcune notizie raccontate all’emittente Dozhd da due compagni di carcere dell’oppositore, la vita nella colonia penale per lui è un tormento. L’oppositore aveva già riferito di essere privato del sonno e i due uomini lo hanno confermato. Hanno raccontato che quando Navalny faceva lo sciopero della fame, era aprile, per ottenere delle adeguate cure mediche, le vessazioni erano anche aumentate. L’oppositore diceva di stare molto male e non soltanto non gli veniva data la possibilità di essere visto da un medico che non fosse della prigione, ma comunque veniva svegliato continuamente durante la notte e i fornelli erano stati spostati a due passi da lui, in modo che sentisse l’odore della cucina. In quei giorni, hanno raccontato i due uomini, la qualità del cibo per i carcerati era anche aumentata. Non sono soltanto le guardie carcerarie a occuparsi di Navalny, anche gli altri reclusi sono incitati a farlo. A Dozhd i due uomini hanno raccontato che i detenuti sono stati istruiti a non parlare con l’oppositore, per disincentivare i contatti hanno anche proiettato un video su di lui, pieno di notizie false come quella sulla sua omosessualità. Ad alcuni detenuti viene assegnato il compito di infastidirlo o di insultarlo. Ma finora Navalny non ha mai risposto, non s’è mai fatto vedere violento, nonostante le provocazioni, che dal racconto dei due uomini sembrano essere tante e incessanti. Alcuni giornalisti russi stanno ancora lavorando per capire quanto questo racconto abbia fondamento, cosa ci sia di vero, ma che nelle prigioni in Russia le condizioni di detenzione sono disumane era già emerso in un’inchiesta pubblicata da Gulag.net, un’organizzazione umanitaria. L’inchiesta mostrava documenti che raccontavano di torture e di stupri, di condizioni delle celle pessime. Navalny ha senza dubbio dalla sua parte una risonanza mediatica che altri detenuti non hanno, e in parte la sua esposizione è forse anche la più grande garanzia di protezione. Ma al Cremlino comunque non è bastato incarcerarlo e nasconderlo, dai racconti dei due uomini sembra esserci la volontà di annullarlo: è una condizione che va oltre la condanna ingiusta, è sadismo al potere. Mentre il caso di Alexei Navalny - o meglio il fallimento del suo avvelenamento - continua a tormentare i servizi di sicurezza russi, la colonia penale di Pokrov continua a tormentare lo stesso Navalny. Il sito di inchiesta Bellingcat ha pubblicato assieme allo Spiegel un’inchiesta su una morte molto misteriosa avvenuta all’ambasciata russa di Berlino, dove un uomo sarebbe caduto dalla finestra. È successo nel mese di ottobre, l’ambasciata disse che si era trattato di un brutto episodio, ma non è stato ancora stabilito se l’uomo sia morto per la caduta o in altre circostanze. Quello che ha fatto destare qualche sospetto è la sua identità: l’uomo sarebbe il figlio del direttore dell’unità dell’Fsb incaricata di seguire e avvelenare Navalny. La vita dell’attivista, o meglio, la sua sopravvivenza sono diventate un’ossessione per il Cremlino. Nicaragua. Sette sfidanti, tutti agli arresti: presidenziali senza storia per Ortega di Gianni Beretta Il Manifesto, 6 novembre 2021 Domenica di farsa elettorale. La Rivoluzione sandinista è lontana: gli ex dirigenti del “Fronte”, come lo scrittore Sergio Ramirez, sono tra i più perseguitati. E i media zittiti. Il Nicaragua della Rivoluzione sandinista raccontato da queste colonne circa 40 anni fa è sempre più un pallido ricordo. In vista delle elezioni presidenziali in programma domani, 7 novembre, con Daniel Ortega che si propone per il quarto mandato presidenziale consecutivo, la stampa nicaraguense indipendente è in carcere o costretta a operare nella clandestinità (e dall’esilio). È uno degli effetti della clamorosa rivolta popolare dell’aprile 2018, partita soprattutto da giovani studenti (i “nipoti” del general de hombres libres Sandino), che si prolungò per mesi e venne repressa nel sangue di almeno 328 di loro. Col “fu” comandante de la revoluciòn Ortega a spacciarla maldestramente per un tentato golpe esterno. Da allora in Nicaragua vige un asfissiante stato di polizia che l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale non ha fatto che esasperare. Nell’ultimo anno le leggi varate per iniziativa della vicepresidente (nonché consorte di Ortega) Rosario Murillo hanno reso illegale qualsiasi dissenso, introducendo il reato di “tradimento alla patria”, perseguendo le ong locali sostenute da “agenti stranieri”, azzerando di fatto la residua dinamica politica, con ciò che rimaneva di società civile organizzata. Dal giugno scorso tutti e sette gli aspiranti candidati presidenziali (di varia estrazione politica) sono stati incarcerati (o sottoposti ai domiciliari) e tre partiti sono stati messi al bando. Gli uni e gli altri sostituiti da fantocci di comodo al servizio dell’orteguismo, come il reverendo Guillermo Osorio di Camino Cristiano. Sono finiti dentro, a mo’ di avvertenza, anche alcuni esponenti (minori) dell’oligarchia imprenditoriale locale con la quale Ortega aveva sottoscritto un patto all’insegna dell’arricchimento esentasse, cui il suo clan si è sommato. Ma un particolare accanimento è stato riservato a quei dirigenti sandinisti che già all’indomani della sconfitta elettorale del 1990 furono tagliati fuori dal delirio di potere del sempiterno segretario e candidato del Fronte Sandinista, perché impegnati nella difesa del sistema democratico propiziato dalla rivoluzione stessa e dunque intenzionati a riconquistare la guida del paese per la via delle urne. Primo fra tutti lo scrittore Sergio Ramirez, premio Cervantes, dal primo giorno e per tutta la durata del governo rivoluzionario vice di Ortega; e dal settembre scorso rifugiatosi a Madrid per sfuggire a un mandato di cattura per “incitamento all’odio” seguito alla censura del suo romanzo in cui racconta la rivolta di tre anni fa. Come lui fra Spagna e Usa ha trovato riparo la nota letterata Gioconda Belli. Mentre ben prima i cantautori Luis Enrique e Carlos Mejia Godoy, simboli dell’epopea rivoluzionaria, avevano dovuto fuggire nel vicino Costarica (insieme a decine di migliaia di nicaraguensi). In alternativa c’era l’isolamento nelle galere orteguiste senza processo con altri 159 dissidenti. Nella quarantina di quelli imprigionati negli ultimi tre mesi ci sono anche la mitica comandante Dora Maria Tellez e l’ex generale dell’esercito sandinista Hugo Torres, la cui audace operazione con scambio di ostaggi permise la liberazione dello stesso Ortega dalle segrete della dittatura somozista. Al bando sono finiti pure i membri sopravvissuti della storica Dirección Nacional rivoluzionaria, compreso l’ex ministro della difesa generale Humberto Ortega, fratello di Daniel; che non si sarebbero certo immaginati che il primus inter pares da loro scelto per l’apparente “modestia” politico-intellettuale si convertisse in tiranno. Solo uno di loro è rimasto al suo fianco. Da ultimo l’ex direttore di Barricada (un tempo organo ufficiale del Fronte Sandinista) Carlos Fernando Chamorro, oggi a capo di Confidencial che confeziona sul web ogni giorno dal Costarica grazie alla fitta rete sotterranea di informazioni digitali dal Nicaragua. Più clemente per lui l’esilio forzato, da figlio quale era di quel Pedro Joaquin Chamorro, direttore del quotidiano d’opposizione La Prensa che il tiranno Somoza fece ammazzare. Per non parlare delle numerosissime vittime meno in vista, come la dozzina di difensori di ambiente e territorio ammazzati nell’ultimo anno nelle zone indigene del paese dove imperano gli espropri e la deforestazione. Il tutto nella più totale impunità e indifferenza per un paese che aveva fatto la storia e oggi irrilevante, dimenticato o rimosso, se non fosse per qualche rituale scomunica o sanzione ad personam da parte della comunità internazionale. Pur tuttavia ha indotto figure carismatiche della sinistra mondiale come Noam Chomsky, Margaret Randall o l’ex guerrigliero ed ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica (per citarne alcune) a prendere nettamente le distanze dalla coppia presidenziale nicaraguense. Come a ratificare che la presunta “seconda tappa della rivoluzione” intrapresa da Ortega nel 2007 non era altro che un’illusione. Siamo dunque alla vigilia di una tragica farsa elettorale, priva di una qualsiasi affidabilità nei numeri e dall’esito annunciato. Gli oppositori hanno potuto solo fare appello a restare a casa. Già nelle ultime consultazioni del 2016, girando per i seggi della capitale, avevamo riscontrato l’assenza delle code che avevano caratterizzato tutte le precedenti. Eppure il governo allora notificò oltre il 70% di affluenza. Oggi, nonostante tenga sotto ricatto in toto i dipendenti pubblici, ha dovuto preoccuparsi di dichiarare ben quattro giorni di festa, di ridurre il numero dei seggi e di estendere il diritto di voto anche nel caso si sia privi di un documento d’identità valido. Proibiti gli osservatori internazionali, potranno assistere solo “accompagnatori” rigorosamente selezionati dal regime. Tantomeno ci saranno inviati dei media stranieri che pure numerosi avevano sollecitato un accredito mai ricevuto. Mentre nel paese il 70% della popolazione resta condannato ad un’economia di sopravvivenza, il coronavirus continua a fare strage. Dopo Haiti il Nicaragua è il paese latinoamericano meno vaccinato, con i beneficiati (i più fedeli al regime) che non arrivano neppure alle due cifre.