Sovraffollamento e violenze nelle carceri, le risposte di Cartabia di Sara Spimpolo Il Domani, 5 novembre 2021 Nel corso del question time al Senato la ministra della Giustizia ha risposto sulle strutture e la sorveglianza. Il giorno prima alla Camera ha ricordato che bisogna far presto sulla riforma del processo civile. “Ho ben presente il problema del sovraffollamento in carcere, che persiste e va affrontato da diverse angolature, valorizzando sanzioni diverse da quella detentiva, ma anche intervenendo sulle strutture”. Così la ministra della Giustizia Marta Cartabia rispondendo al Senato durante il question time all’interrogazione presentata dalla senatrice M5S, Angela Piarulli che adesso punta sulla legge di bilancio per nuovi fondi. “Ha ragione la senatrice Piarulli - ha detto la ministra - quando dice che gli spazi detentivi gravano sulla condizione della detenzione e della vita dei detenuti, ma anche di chi lavora in quelle carceri. È per questo che si sta intervenendo con molte ristrutturazioni, utilizzando tutti i poteri, e anche i fondi del Pnrr, per la costruzione di nuovi padiglioni. Mi auguro che nella manovra di bilancio governo e parlamento tengano conto di queste drammatiche esigenze”. Il caso Santa Maria - La ministra è poi tornata sulla questione della videosorveglianza, attraverso body-cam e videoregistrazione - un tema tornato di attualità soprattutto dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere. Cartabia ribadisce di aver sollecitato l’amministrazione penitenziaria a farsene carico: “Ci stiamo lavorando” ha detto, ribadendo l’impegno che si era assunta durante la festa di Domani. Per quanto riguarda l’assenza di Rems, residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza - cioè strutture sanitarie di accoglienza per detenuti affetti da disturbi mentali - Cartabia ha ricordato il tavolo sul tema fatto col ministero della Salute a fine estate: “Se al 20 ottobre 2020 i detenuti irregolari per malattia psichiatrica erano 98, oggi sono 35”. Un numero, ha detto, ancora elevato: “Ma il lavoro che si sta facendo è molto, con il contributo di tutti, ministero della Salute e regioni, che in questi mesi sono state sensibilizzate e ci hanno dato la disponibilità di nuove strutture che stiamo attivando. Stiamo anche rispondendo, col ministero della Salute, a un’istruttoria richiesta dalla Corte costituzionale su questo punto”. Processo civile - Oltre al tema delle carceri, la ministra ha di recente affrontato la questione della riforma del processo civile. Ieri intervenuta alla Camera, ha risposto a un’interrogazione sulle iniziative normative per escludere il riconoscimento della cosiddetta “alienazione parentale” nei procedimenti di affido di minori, e sulle misure che il governo intende adottare per la tutela di donne e minori coinvolti in episodi di violenza domestica. “Sono problemi che verranno affrontati nella riforma del processo civile” che, ha ricordato, dovrà essere conclusa e in vigore “prima della fine del 2021, secondo i patti assunti con l’Europa che sono scritti nelle scadenze del Pnrr”. Giustizia minorile e di comunità: nuovo ruolo del volontariato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 novembre 2021 Accordo tra il Dipartimento giustizia minorile e di comunità e la Conferenza nazionale volontariato. Valorizzare e qualificare ulteriormente la presenza del volontariato nelle attività della giustizia minorile e di comunità, promuovendo nuovi percorsi di integrazione con gli Uffici di esecuzione penale esterna per adulti e con i Servizi della giustizia minorile. Questo l’obiettivo dell’accordo di collaborazione triennale firmato il 3 novembre 2021 alla presenza della ministra della Giustizia Marta Cartabia, da Gemma Tuccillo, capo del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità (Dgmc), e Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (Cngv). La fondamentale interazione fra il settore dell’esecuzione penale esterna della giustizia minorile e il volontariato, già consolidata grazie all’accordo triennale sottoscritto nel 2017, con il nuovo protocollo (appena siglato) si rafforza, valorizzando e qualificando ulteriormente la presenza del volontariato nelle articolazioni territoriali del Dipartimento. L’accordo prevede, fra l’altro, che la Cngv si impegni a: costituire una banca dati delle agenzie di volontariato territoriali che operano nel settore dell’inclusione e del reinserimento sociale; favorire la stipula di convenzioni per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità e la partecipazione dei volontari alle attività degli sportelli Map - Messa alla Prova, presenti nei Tribunali e nelle Procure; promuovere, fra gli altri, programmi di educazione alla legalità e alla solidarietà, realizzati da soggetti minori e adulti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, e percorsi di formazione culturale, professionale e orientamento al lavoro. La Dgmc si impegna a fornire alla Cngv tutte le informazioni utili alla attività dei volontari; ad agevolarne l’accesso presso gli Uffici di esecuzione penale esterna e i servizi minorili; a prevedere che le attività di volontariato concordate con la Cngv siano rappresentate nei documenti di programmazione annuale predisposti dagli Uepe e dai Cgm. Il Covid dietro le sbarre: dal panico alla rabbia delle rivolte di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 novembre 2021 Sandra Berardi, attivista di Yairaiha Onlus, nel suo libro “Carcere e Covid” ha ripercorso puntualmente le condizioni di vita preesistenti nelle carceri, fino ad analizzare il ruolo dei media sulle rivolte di marzo 2020. Tutto comincia dalle prime notizie di strani contagi, con tanto di morti, che avvenivano nella megalopoli cinese di Whuan. Ci sembrava una situazione lontana dai nostri occhi, un qualcosa che riguardava altrove. Esattamente come le carceri, quelle notizie apparivano come qualcosa che riguardassero altri. Ma poi quel qualcosa ha avuto dapprima un nome, il Covid 19, e infine ha riguardato anche noi. E come ogni cigno nero, la pandemia ha messo a nudo tutte le nostre fragilità e, nello stesso tempo, ha fatto emergere e poi “scoppiare” tutte quelle contraddizioni che riguardano le cosiddette istituzioni totali, tra le quali le nostre patrie galere. “Carcere e Covid” il libro di Sandra Berardi - Ebbene, Sandra Berardi, attivista di Yairaiha Onlus che si occupa quotidianamente delle condizioni di vita dei detenuti, nel suo libro “Carcere e Covid”, da poco anche in versione cartacea edito da “stradebianchelibri”, ha ripercorso puntualmente le condizioni di vita preesistenti all’interno delle carceri, fino ad analizzare il ruolo dei mass media in merito alle rivolte del marzo del 2020. Interessante, per capire il vero motivo delle rivolte, è il capitolo relativo alla paura del virus dietro le sbarre. Sandra Berardi ricorda che le informazioni riguardo al Covid-19 sono entrate nei 189 istituti penitenziari italiani attraverso gli unici media disponibili e presenti in tutte le celle: radio e televisione e, in minima parte, quotidiani. “Immagino - scrive Berardi nel libro - l’ingresso delle prime, frammentarie, notizie tra gennaio e febbraio essere state seguite con disattenzione dalla popolazione detenuta. E immagino l’attenzione aumentare via via che le notizie divenivano più insistenti. E, assieme all’attenzione, immagino la paura trasformarsi in panico. Paura per i propri cari, innanzitutto. Paura per sé stessi e per i compagni di cella. Paura perché drammaticamente consapevoli della precarietà della sanità penitenziaria”. Le lettere dei detenuti ricevuti dall’associazione Yairaiha Onlus - Per aiutare alla comprensione del dramma psicologico dei reclusi, questo fondamentale capitolo del libro viene alternato dalle lettere dei detenuti che riceveva l’associazione Yairaiha Onlus. La maggior parte delle lettere sono denunce riguardante l’assistenza sanitaria e i tanti detenuti malati, con patologie che - una volta contratto il Covid - diventeranno mortali”. Sandra Berardi spiega esattamente il panico in cui vivevano i detenuti. Il ruolo dell’informazione che creava allarme, le inevitabili restrizioni per ridurre i contagi. Chiusure totali. E per chi viveva dentro, inevitabilmente la paura si era amplificata a dismisura. Lo spiega bene. A differenza delle autorità elvetiche che hanno puntato al dialogo con i detenuti, evitando così il prevedibile acuirsi della tensione nella condizione eccezionale che si stava determinando, quelle italiane hanno imposto, di punto in bianco, le restrizioni. La sospensione dei colloqui ha fatto precipitare la situazione - La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le sospensioni dei colloqui. “L’unica relazione umana e affettiva concessa a chi è in carcere, con l’aggravante - sottolinea Berardi nel libro - di averlo comunicato quando i familiari erano già fuori i cancelli in attesa di entrare, con tutte le implicazioni anche emotive che tale attesa comporta già in condizioni normali. “Una notizia che ha aggiunto al panico provocato dalle notizie sul Covid senso di impotenza di fronte a eventi incontrollabili. E dal panico, dal senso di impotenza è sfociata la rabbia”, chiosa l’attivista di Yairaiha Onlus. Per chi è a digiuno di carcere, è difficile comprendere quanto sia fondamentale questo passaggio del libro. In mancanza di conoscenza, è stato facile sfociare nella dietrologia, il complotto. I media hanno rappresentato una situazione distorta - I soliti giornali, al servizio di taluni magistrati che dei teoremi giudiziari ne hanno fatto fonte di carriera, hanno parlato di rivolte organizzate dalla mafia per ricattare lo Stato. Il complottismo funzionale allo Stato di polizia. Nascondere i veri problemi, per ridurre i diritti. Forse, anche per questo gli stessi agenti d polizia penitenziaria si sono sentiti legittimati a reagire - a sangue freddo- con manganellate e pestaggi. Rivolte dove sono scappati i morti, dove giorni dopo si sono verificate le “mattanze” come a Santa Maria Capua Vetere. Tutto questo - tranne alcuni giornali come Il Dubbio, e ringraziamo Sandra Berardi per averlo sottolineato nel libro - è stato sottaciuto, mentre le trasmissioni come, ad esempio, “Non è l’Arena” di Giletti hanno creato le indignazioni sulle cosiddette “scarcerazioni”. Un capitolo, quest’ultimo, affrontato dal libro “Carcere e Covid”. Sandra Berardi ha ripercorso la dinamica di quella trasmissione, scandendo ogni particolare, facendo capire al lettore che si trattava di una vera e propria commedia, ma molto amara. Il messaggio fuorviante che è passato è stato questo: 300 boss di elevato spessore criminale appartenenti al circuito del 41 bis sono stati scarcerati! Il Dap non è in grado di gestire le carceri, i mafiosi sono tornati a casa, siamo tutti in pericolo! Una bufala, che però ha costretto l’ex ministro Bonafede a reagire con decreti emergenziali e restrittivi. Diversi detenuti malati sono rientrati in carcere. Alcuni di loro, hanno poi contratto il Covid e sono morti. Il libro di Sandra Berardi va letto tutto, utile per la conoscenza. Un libro che racconta i fatti, evocando anche le parole di Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso brutalmente dalla mafia, dove parla di giustizia e non di vendetta. La verità è sempre rivoluzionaria, e in questo libro se ne comprende il motivo. Gli imputati potranno svolgere lavori di pubblica utilità nei musei: cos’è la “messa alla prova” di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2021 Ha destato attenzione la notizia dell’accordo siglato tra il Ministero della Giustizia e quello della Cultura volto a far svolgere lavori di pubblica utilità in 52 siti museali in giro per l’Italia a imputati in messa alla prova. Sono numeri piccoli, che vedranno 102 persone beneficiare dell’iniziativa e che sono plausibilmente destinati ad aumentare. In cosa consiste l’istituto della messa alla prova? Consiste nella possibilità per una persona imputata per reati di minore gravità e allarme sociale - quelli punibili fino a quattro anni di pena edittale - di chiedere al giudice di sospendere il procedimento penale nei suoi confronti. Si rinuncia all’azione penale, a procedere con la macchina investigativa, ad accertare la verità. L’imputato rinuncia a difendersi e viene messo alla prova per un certo periodo di tempo. Se la prova avrà buon esito, il reato sarà estinto. Nel concreto, la persona verrà affidata ai servizi sociali per lo svolgimento di un programma che, al contrario di quello penitenziario supervisionato dagli educatori del carcere, si compie all’interno della comunità e non nel chiuso di quattro mura. Dovrà osservare le prescrizioni che le vengono impartite, svolgere azioni di riparazione del danno commesso, attività di rilievo sociale su base volontaria. Nonché essere impegnata in lavori di pubblica utilità, compatibilmente con la propria situazione lavorativa, di studio, di famiglia e di salute. Quei lavori che da oggi in 102 potranno effettuare a contatto con luoghi portatori di alta cultura. È la prima volta che un protocollo di questo tipo viene firmato dal Ministero della Giustizia con un altro Ministero. La ministra Marta Cartabia ha sottolineato la valenza simbolica di questo gesto: il reato, la violazione delle norme condivise, crea una frattura che riguarda l’intera società e così deve fare ogni tentativo di riparazione del danno effettuato. La messa alla prova per imputati adulti esiste dal 2014. Nel processo penale minorile aveva dato ottima mostra di sé fin dal 1988, anno dell’entrata in vigore del codice di procedura penale specifico per i minorenni autori di reato. E sempre più spazio ha preso anche nel settore degli adulti, che oggi vede oltre 23.700 persone in messa alla prova e oltre 24.600 sottoposte alle pratiche necessarie per la sua concessione. Nel 2014 il legislatore la introdusse nel processo penale degli adulti sotto la spinta della condanna inflitta all’Italia l’anno precedente dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per il sovraffollamento delle carceri (nella sua azione deflattiva della macchina giudiziaria, la messa alla prova interviene ben prima che si arrivi all’esecuzione della pena carceraria). Sulla stessa spinta introdusse alcuni paletti all’uso della custodia cautelare in carcere, un’estensione a tempo della liberazione anticipata per buona condotta e altre riforme che tutte insieme disegnavano un quadro articolato di interventi volti ad alleggerire il sistema penitenziario e a elevare la soglia di tutela dei diritti delle persone detenute. La riforma del processo penale entrata di recente nella fase di elaborazione dei decreti legislativi punta ad andare anch’essa, tra le altre cose, in una direzione di alleggerimento del carcere. Il Parlamento ha delegato il Governo a introdurre una serie di norme volte a rendere la detenzione quella extrema ratio auspicata da tutti gli organismi internazionali. È importante che questo accada al di fuori della spinta giudiziaria, per una scelta genuinamente politica e culturale e non per rispondere all’urgenza di una sentenza. La legge delega prevede un incremento dell’uso della messa alla prova, così come l’utilizzo di sanzioni sostitutive della pena detentiva per tante situazioni che oggi vengono punite con il carcere e la rinuncia a ogni sanzione per reati particolarmente tenui. L’eterogeneità delle forze politiche che sostengono il Governo non ha permesso un distacco più netto dalla pena detentiva, che rimane comunque la pietra di confronto del sistema, né quella riforma complessiva del codice penale del 1930 che permetterebbe una seria depenalizzazione e una razionalizzazione del sistema. Ma rimane preziosa la consapevolezza della ministra di come la pena carceraria non possa e non debba essere considerata la sola risposta penale possibile, essendo invece solamente la più desocializzante delle pene, con enormi costi economici e umani che pesano su tutti noi. *Coordinatrice associazione Antigone Infermità mentale e solitudine dietro le sbarre di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 5 novembre 2021 Occuparsi del benessere dei detenuti e di chi lavora con loro è fondamentale. Nel carcere c’è spesso disomogeneità delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione. Significative sono anche le carenze nell’offerta dia alcuni servizi socio-sanitari così come non possiamo sempre contare su dati statistici aggiornati sul fabbisogno di salute. La consapevolezza a livello culturale dell’uguaglianza del diritto alla salute di liberi e ristretti è insufficiente anche se occuparsi della “testa dei ristretti” è fondamentale e può essere considerata l’altra metà dell’esecuzione penale, tenuto conto che la popolazione carceraria molto spesso è ad alto rischio già prima della detenzione. Il carcere è diventato il luogo di accoglienza del reo folle e mentre prima il percorso detentivo si poteva caratterizzare, oggi è già segnato e la cella non può che diventare un ambiente patogeno. Di salute mentale negli istituti di pena in carcere se ne parla poco per questo è fondamentale aumentare la consapevolezza delle istituzioni dell’importanza del tema nonostante le difficoltà economiche, la carenza di personale addetto e di strutture. Un tempo c’erano gli Opg, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, più noti come manicomi criminali. Qui venivano rinchiuse le persone considerate socialmente pericolose, tra cui tossicodipendenti, sieropositivi, alcolisti, persone sole e anziani. Erano vere e proprie strutture dove gli ospiti venivano il più delle volte abbandonati a se stessi senza alcuna assistenza sanitaria. Rappresentavano il clou delle contraddizioni del sistema giudiziario e quando vennero istituititi, furono pensati per soddisfare una duplice esigenza: unire la dimensione terapeutica con quella di sicurezza. Esigenza superata dal fatto che, con gli anni, si è compreso che spesso il detenuto giudicato normale, aveva maggiori opportunità di reinserimento nel tessuto sociale rispetto ad un ristretto dell’Opg che non aveva altra scelta se non quella di trascorrere il resto della sua vita dietro le sbarre. Ora esiste un complesso di norme che garantisce percorsi di cura a tutte le persone con problemi mentali che entrano nel circuito penale, siano esse intercettate prima, e quindi destinatarie di misure di sicurezza, siano esse detenuti con patologie sopravvenute. Misure di sicurezza non detentive, quali la libertà vigilata o detenzione domiciliare. Per il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, siamo però ancora di fronte a “vuoti, inerzie, carenze, bisogno. Vuoti normativi, determinati dalla persistente mancanza di una disciplina della risposta alla patologia psichica insorta o maturata nel corso della detenzione che la equiparasse a quella fisica”. In Italia le Sezioni di “articolazione per la tutela della salute mentale” sono 47, (8 femminili e 39 maschili) e ospitano 251 detenuti/e: 21 donne e 230 uomini. I Reparti psichiatrici sono invece due. “L’intera materia, che tocca sensibilmente la qualità della vita nel circuito penitenziario e la stessa gestione degli Istituti” osserva Palma “è rimasta affidata agli strumenti esistenti, la cui insufficienza si manifesta anche nel disagio crescente di chi vi opera”. Presunzione di innocenza, dagli atti giudiziari alle interviste: più garanzie per chi è sotto inchiesta di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 5 novembre 2021 Approvato il decreto legislativo sulla presunzione di innocenza. L’impatto sull’informazione. Stop alla giustizia show e maggiore tutela per chi è sottoposto a indagine: così, recependo la direttiva europea del 2016, il Consiglio dei ministri presieduto da Mario Draghi ha approvato ieri sera, in esame definitivo, dopo il previsto passaggio parlamentare, il decreto legislativo sul rafforzamento della presunzione di innocenza. Una soluzione di compromesso tra tutte le forze politiche, che continuerà però a suscitare polemiche. Il testo approvato prevede, ad esempio, che il procuratore capo mantenga “i rapporti con gli organi di informazione esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa”. Dunque, almeno in teoria, non potranno più essere fornite informazioni al di fuori di questi contesti. Poi c’è il passaggio che le voci più critiche, a partire dal togato indipendente del Csm, Nino Di Matteo, hanno definito “il bavaglio lessicale” messo a pm e forze dell’ordine. L’articolo 4 del testo modifica il codice di procedura penale inserendo un nuovo articolo 115-bis (“Garanzia della presunzione d’innocenza”) che impone, infatti, ai magistrati di pesare le parole. Perché, recita il testo, non possono “indicare pubblicamente l’indagato come colpevole”, in un atto che non sia una sentenza, ma anche solo in un’intervista, a pena di richieste da parte dell’interessato di “rettifica della dichiarazione resa” entro 48 ore. Ma non solo: sono previste anche conseguenze disciplinari e risarcimento danni in questi casi a carico di chi indaga. Il rischio, allora, già paventato da rappresentanti dell’Anm, è che potranno aprirsi così nuovi fascicoli che di certo non aiuteranno a velocizzare la macchina della giustizia. Super cautela, d’ora in poi, anche nelle ordinanze di applicazione di misure cautelari: “L’autorità giudiziaria” dovrà limitare “i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”. Lo schema di decreto mercoledì aveva ricevuto il parere positivo del Csm (con l’opposizione dei soli consiglieri Di Matteo e Ardita). Nei confronti del documento il Consiglio superiore della magistratura due giorni fa aveva espresso “apprezzamento” evidenziando però “alcune criticità tecniche”. “Ci avviamo a una situazione nella quale fino alla sentenza definitiva i processi in tv li possono fare soltanto gli imputati e i parenti degli imputati - aveva detto il consigliere Di Matteo - mentre nessuna notizia potrà essere data dai procuratori e dalle forze dell’ordine”. Il decreto appena approvato prevede “che la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita soltanto quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico”. Inoltre “è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Come Mafia Capitale o Pizza Connection, per capirci. Sul rispetto del dettato legislativo, infine, sarà chiamato a vigilare il procuratore generale presso la Corte d’Appello, inviando una relazione “almeno annuale” alla Corte di Cassazione, che potrà costituire base per procedimenti disciplinari. Ora la presunzione d’innocenza è un obbligo per i pm di Errico Novi Il Dubbio, 5 novembre 2021 Con le nuove norme, vietato alle Procure presentare indagati e imputati già come colpevoli. Conferenze stampa consentite solo in casi particolari. È una piccola rivoluzione. E forse neanche tanto piccola. Il decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza prova a correggere il vizio fatale della giustizia italiana: la sostituzione del processo mediatico all’accertamento penale. Il Consiglio dei ministri ne ha deliberato ieri l’approvazione definitiva: testo integrato (e trasmesso al Capo dello Stato per la firma) con le correzioni chieste dal Parlamento, ma non in base a quelle suggerite giusto due giorni fa dal Csm. Rispettata dunque la scadenza prevista dalla delega, fissata all’8 novembre. Dopo l’ok del Colle, sarà legge il “divieto di indicare pubblicamente come colpevole l’indagato o l’imputato” fino a che non arrivi una sentenza definitiva. Vale per tutte le “autorità pubbliche”, ma visto che i parlamentari godono dell’insindacabilità sulle opinioni, riguarda essenzialmente i magistrati. Ci sono molti meriti da distribuire. Certamente alla ministra della Giustizia Marta Cartabia che ieri ha sostenuto l’importanza del provvedimento, e scongiurato qualche “ritocco al ribasso”. E poi al sottosegretario Francesco Paolo Sisto, che ha favorito una non facile mediazione sul parere delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, e al deputato di Azione Enrico Costa, che già un anno fa aveva sollecitato il recepimento della direttiva europea, la 343 del 2016, a cui il testo approvato ieri assicura il “compiuto adeguamento”. L’Italia ha impiegato la bellezza di cinque anni per conformarsi alle misure, dettate sia dal Parlamento di Strasburgo che dal Consiglio Ue. Inerzia che di qui a poco avrebbe potuto innescare una procedura d’infrazione, come la guardasigilli ha più volte ricordato. Va detto che la presunzione d’innocenza è tutelata, oltre che in modo solenne dall’articolo 27 della Costituzione, anche da una sottovalutatissima norma già scolpita nel Codice disciplinare dei magistrati. I quali possono rispondere per “pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui”. Un’incredibilmente disattesa anticipazione (inserita, tanto per essere precisi, nel decreto legislativo 109 del 2006) del nuovo testo. Non è un caso che la vecchia norma fosse stata richiamata nel parere delle Camere, come motivo che avrebbe reso necessaria, innanzitutto secondo il relatore Costa, una stretta anche più severa. Ed è vero pure che si potrebbe temere una nuova disapplicazione, se non fosse che nei rapporti fra magistratura e altri poteri gli equilibri sono cambiati parecchio, nel frattempo. E poi comunque il decreto appena approvato a Palazzo Chigi definisce meglio il rispetto della presunzione d’innocenza, anche grazie a un diritto di rettifica introdotto, in favore dell’indagato, nei casi in cui il magistrato violi i nuovi limiti; servirà un ricorso ex articolo 700. Quando gli abusi sono in atti formali di un giudice, è possibile chiederne una “correzione”, su cui decide lo stesso ufficio in sole 48 ore, con possibilità di opporsi prevista per le parti in causa, dunque anche per il magistrato ritenuto responsabile. Procedura accessibile anche per gli atti di un pm, pur soggetti a limiti meno stringenti. Ma lo stesso magistrato dell’accusa è tenuto comunque a riferirsi in modo “limitato” alla colpevolezza, giusto quanto basta per “soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”. Il cuore delle nuove norme però riguarda i rapporti con l’informazione. Che continuano a poter essere gestiti, nelle Procure, dai capi o da pm delegati, ma d’ora in poi solo attraverso comunicati ufficiali. Si possono convocare conferenze stampa solo “nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti” e, come chiesto dal Parlamento nel parere, con atto motivato da ragioni “specifiche”. Aggettivo che costringe i procuratori a spiegare in modo non troppo generico l’esigenza di convocare i giornalisti. Le Camere hanno chiesto, e ottenuto, di vedere introdotto il termine “specifiche” anche rispetto alle “ragioni” stesse per le quali si sceglie di informare la stampa, a cui i magistrati potranno rivolgersi appunto solo quando ricorrono ben definite motivazioni “di interesse pubblico” o quando tale “pubblicità” è “strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini”. Limiti fotocopia anche per i casi in cui il procuratore affida alla polizia giudiziaria la comunicazione con i media, sempre con la necessità di un atto motivato per le conferenze stampa. In ogni caso, toghe e agenti devono sempre preoccuparsi di chiarire “lo stato del procedimento” e di non equivocare sulla colpevolezza, e sulla necessità di accertarla nel processo. Fino al dettaglio normativo che impone la cesura forse più netta rispetto al passato: il divieto di assegnare alle indagini “denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. I suggestivi nomignoli con cui, senza bisogno d’altro, già si presentava l’indagato come inesorabilmente reprobo. È una griglia fitta. Destinata a cambiare l’approccio anche culturale dei magistrati, al di là delle sanzioni che potranno essere davvero applicate. Fino all’ultimo ieri si è discusso sull’opportunità di mantenere nel testo il passaggio, sollecitato sempre dal parere parlamentare, che elimina il nesso fra il ricorso alla facoltà di non rispondere e il mancato riconoscimento del ristoro per ingiusta detenzione. Di sicuro, solo fino a pochi mesi fa, un argine così puntuale alla mediaticità dei pm sarebbe stato impensabile. Il fatto stesso che diventi legge apre un orizzonte diverso per la giustizia italiana. “Diritto al silenzio” anche il Csm accoglie il parere sul testo del governo di Errico Novi Il Dubbio, 5 novembre 2021 Chi si avvale della facoltà di non rispondere andrà risarcito: è la correzione al decreto sollecitata da Costa. Il Csm dice sì al “diritto al silenzio”. “Chi si è avvalso della facoltà di non rispondere non dovrà essere penalizzato ai fini del risarcimento, in caso di assoluzione, per l’ingiusta detenzione eventualmente patita”. A ricordarlo al Dubbio è Alessio Lanzi, componente laico del Csm che questa settimana ha proposto in plenum un emendamento sul punto, poi approvato, al parere sul decreto legislativo che recepisce la direttiva europea sulla presunzione d’innocenza. “Il diritto al silenzio era già previsto dal nostro ordinamento. Il ‘problema’ era un consolidato orientamento giurisprudenziale al riguardo che escludeva dall’equa riparazione chi si fosse avvalso di tale diritto”, prosegue Lanzi. “Una inversione logica e metodologia, con il legislatore di fatto ‘condizionato’ dalla giurisprudenza”, aggiunge il professore milanese di Diritto penale. I motivi alla base di questi risarcimenti negati sono previsti dal codice di procedura penale all’articolo 314, che esclude il risarcimento per chi ha causato o contribuito a causare la propria detenzione con “dolo o colpa grave”. “Il 77 per cento di chi, arrestato ingiustamente, chiede l’indennizzo non lo ottiene proprio perché avrebbe ‘concorso con dolo o colpa grave all’errore del magistrato’”, ricorda il deputato di Azione Enrico Costa, componente della commissione Giustizia della Camera, da sempre sensibile su questo argomento. “L’esercizio di un diritto, come appunto quello al silenzio, non può ritorcersi contro chi lo ha fatto valere, e non può essere letto come una ‘colpa grave’”, aggiunge quindi il responsabile Giustizia di Azione. Ma oltre a questo aspetto, la direttiva in materia di presunzione di innocenza, la numero 343 del 2016, dovrebbe porre un freno alla pratica delle conferenze stampa degli inquirenti in cui l’accusato viene presentato alla stregua di un colpevole conclamato. Questa direttiva, come capita spesso, era rimasta nel cassetto per anni. Il solito spauracchio dell’apertura di una procedura di infrazione di Bruxelles nei confronti dell’Italia ha allora indotto il governo ad accelerare sul suo recepimento. Alla base della direttiva vi è l’idea che preservare l’incolpato dall’accanimento mediatico non lede il diritto all’informazione. Il decreto legislativo del governo, sul quale la ministra della Giustizia ha chiesto il parere approvato questa settimana a larga maggioranza dal plenum del Csm, ha però recepito in modo attenuato alcune parti della direttiva. Nel testo originale era prevista “l’eccezionalità della divulgazione di notizie concernenti i procedimenti penali, limitandola ai casi in cui l’informazione sia strettamente necessaria all’indagine penale, alla sicurezza pubblica o alla prevenzione di turbative dell’ordine pubblico”. Le disposizioni contenute nel decreto legislativo, invece, prevedono che il pm nei rapporti con gli organi di informazione possa ricorrere alle conferenze stampa nei casi di particolare “rilevanza pubblica dei fatti”. Un concetto, quello delle “rilevanza pubblica dei fatti”, alquanto vago e rimesso dunque all’apprezzamento esclusivo del procuratore, con tutte le conseguenze del caso. Su questa parte si segnalano le criticità dei pm antimafia Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita. Il primo, in particolare, dove aver dichiarato in Plenum che si tratta di una “norma bavaglio”, ha affermato che le stesse interviste di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone a proposito di Cosa nostra sarebbero state passibili di illecito disciplinare da parte del Csm. Per Di Matteo si tratta di disposizioni che presentano “numerose ricadute molto negative sul piano delle praticità”. “Nei fatti la politica con un sottile lavoro di limatura l’ha trasformato in un bavaglio soprattutto per i pubblici ministeri, lasciando liberi di dire praticamente tutto quello che ritengono opportuno le parti private come gli avvocati difensori, gli imputati stessi o i rispettivi parenti”, si legge in un post pubblicato ieri da Ardita sulla sua pagina Facebook a proposito di questo ddl del governo sulla presunzione d’innocenza. Intercettazioni, fallisce (per ora) il blitz sul trojan del centrodestra di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2021 È fallito, per ora, un blitz dell’ala centrodestra della maggioranza in commissione Affari costituzionali della Camera per un giro di vite sull’uso del trojan, il captatore informatico che viene inoculato nei cellulari e computer e che, per capirci, ha inguaiato l’ex consigliere del Csm ed ex magistrato, Luca Palamara, e non solo. Respinto l’emendamento di Forza Italia prima versione, così come quello di Enrico Costa di Azione. A fare muro il M5S, che - questa volta - ha avuto dalla sua parte la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ma solo perché ha ritenuto che non fosse né il contesto né il momento politico di toccare il trojan. Non la pensava così il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto di FI, che - dicono fonti della Commissione - sarebbe stato l’ispiratore di questo tentativo andato a male. Alla fine, l’emendamento approvato, sempre a firma dei forzisti Siracusano, Calabria, Zanettin e altri, ma riformulato dal relatore Stefano Ceccanti del Pd, sempre in linea con Palazzo Chigi, contiene una modifica che non cambia la sostanza della norma (articolo 267 c.p.p.) che regola l’uso del trojan. Riguarda la parte della motivazione sulla necessità del captatore informatico per una determinata indagine: invece che “il decreto… indica le ragioni…”, diventa “indica le specifiche ragioni”. Tutto comincia mercoledì quando si sta votando sulle “misure urgenti in materia di giustizia e di difesa, nonché proroghe in tema di referendum, assegno temporaneo e Irap”. Costa propone che l’autorizzazione al trojan passi dal gip al tribunale collegiale; i forzisti propongono che la “modalità” del trojan debba essere, ai fini dell’indagine, “necessaria”, come già previsto dal codice, ma anche “indispensabile” e che il gip spieghi pure perché non ci sia un’alternativa al suo uso. Inoltre, vuole trasformare il trojan, per molti casi, in un ambientale qualsiasi, con i luoghi tassativamente indicati nel decreto. La ministra non vuole alzare la tensione con il M5s, che prospetta di votare contro anche se andrebbe sotto e FI accetta di soprassedere, ma sa che ci sarà un’altra puntata. Non a caso Ceccanti annuncia “un intervento più organico in tema di motivazione dell’uso delicatissimo del trojan in una sede più opportuna, come sottolineato da Cartabia”. Fake news, un veleno anche per la giustizia di Simona D’Alessio Italia Oggi, 5 novembre 2021 Le “fake news” (e, in generale, la disinformazione) agiscono come “veleno” nella comunicazione, in grado di “complicare” l’iter riformatore della giustizia. Al contrario, la figura del notaio si rivela “una garanzia contro qualunque falsità e tentativo di distorsione della verità”. È stata la ministra della Giustizia Marta Cartabia ad esprimersi così, ieri mattina, al 55° congresso nazionale del Notariato, rimarcando come, “partendo dalle notizie false, si costruiscono narrazioni distorte”, e “si alimentano pregiudizi che rischiano di diventare la “vulgata” dominante”; nel corso del restyling dell’assetto giudiziario, ha osservato la titolare del dicastero di via Arenula, “tante delle fatiche e delle incomprensioni che hanno complicato il percorso sono anche state legate a delle informazioni inaccurate, a delle parziali verità, quando non a delle vere e proprie falsità che sono circolate creando inutili preoccupazioni, soprattutto a carico delle vittime di gravi reati e gravi tensioni politiche che avremmo potuto, forse”, ha scandito “risparmiarci”. È, invece, “decisiva” per la Guardasigilli “la presenza del notaio accanto al cittadino, soprattutto in alcuni snodi cruciali della vita”, giacché l’attenzione della categoria è sempre rivolta “alla centralità della persona in momenti come la nascita, le convenzioni matrimoniali, l’acquisto di una casa, fino al post mortem”. I professionisti, nel frattempo giunti alla soglia delle 5.200 unità sul territorio nazionale (ma altri 400 entreranno in servizio nei prossimi mesi), esercitano, ha argomentato la presidente del Consiglio nazionale Valentina Rubertelli, “moltissime funzioni su delega dello Stato e, per questo, ce ne sentiamo a tutti gli effetti parte. Diamo pubblica fede agli atti e svolgiamo il controllo antiriciclaggio”, raggiungendo “il 91% delle segnalazioni” tra tutte le categorie ma “contrastiamo anche l’abusivismo edilizio e l’evasione fiscale, riscuotendo, senza agio e per conto dello Stato, tributi indiretti per circa 4 miliardi di euro all’anno”. È una “fake news” che “il Notariato sia una professione tutta al maschile: la femminilizzazione è sotto gli occhi di tutti”, considerato che la componente “rosa” ha raggiunto “il 37,2% del totale e le donne con meno di 40 anni sono pari al 48%”. E non è vero, infine, che i notai son figli, o congiunti di colleghi: “L’82% non ha parentele”. E la selezione, tramite concorso, ha concluso Rubertelli, è “unicamente meritocratica”. Cartabia: “Dibattito sulla riforma della giustizia avvelenato da disinformazione e fake news” di Guido Liberati Il Secolo d’Italia, 5 novembre 2021 “Tante delle incomprensioni che hanno complicato il percorso delle riforme della giustizia sono anche state legate a un’informazione inaccurata, quando non a delle vere e proprie falsità”. Lo ha detto la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, parlando del tema delle fake news in un passaggio del suo saluto al Congresso nazionale del notariato. Fake news che, secondo la Guardasigilli, “sono circolate creando inutili preoccupazione soprattutto per le vittime di gravi reati e gravi tensioni politiche che avremmo potuto risparmiarci. Da notizie false si costruiscono narrazioni distorte, si alimentano pregiudizi che rischiano di diventare la vulgata dominante. Piccole palle di neve che diventano valanghe”, ha sottolineato la ministra. “Questo contesto è segnato profondamente da una comunicazione malata, e avvelenata da fake news e disinformazione”. Le fake news “sono la vera piaga della vita delle democrazie contemporanee”. “Non possiamo non fare i conti con questa realtà, bisogna guardarla in faccia, comprendere i meccanismi che la determinano”, ha ammonito la Cartabia. “L’informazione è un punto essenziale, bisogna diffondere una cultura dell’informazione che sappia distinguere quella qualificata, corroborata da dati e fatti autentici, da quella che viene auto alimentata con sensazionalismi, con le ‘stanze dell’eco’ - ha spiegato Cartabia - in cui la voce del singolo si amplifica e rimbomba fino a stordire, a non vedere più la realtà per l’esasperata ripetizione di convinzioni non basate su dati di fatto e su dati scientifici”. Per la Cartabia, “le risposte a questi fenomeni sono da attivare su una pluralità di lati. Bisogna intervenire sia sul lato della domanda, dei fruitori di informazione, sia su quella dell’offerta, dei fornitori dell’informazione”. Riforma toghe onorarie, Cartabia: “Tutele improcrastinabili, fondi in legge di bilancio” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2021 Al question time del Senato la Guardasigilli ha parlato di intervento indispensabile per assicurare le tutele dovute ai M.O. in qualità di lavoratori. Dialogo con la Commissione Ue su: malattia, ferie, infortunio, gravidanza, previdenza e status giuridico. Sulla Magistratura onoraria si deve intervenire subito per assicurare le tutele dovute al personale in servizio. E le risorse devono essere previste già nella prossima legge di bilancio. A dirlo è la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, durante il Question Time al Senato, rispondendo ad una interrogazione della senatrice Fiammetta Modena, di Forza Italia, che chiedeva conto dell’orientamento e delle tempistiche del Governo in merito alla riforma dei giudici di pace. A stretto giro la risposta della categoria, per Maria Flora De Giovanni (Unagipa): “Non è più accettabile alcun rinvio”. “Sullo stato delle attività su questo articolato capitolo della magistratura onoraria, proprio in questi giorni, in queste settimane - ha affermato Cartabia - sono in corso delle importanti interlocuzioni tra il Ministero e la Commissione europea per risolvere il capitolo più urgente che è quello della magistratura onoraria in servizio allo stato attuale”. “L’apertura del dialogo con la Commissione - ha spiegato la Ministra - riguarda in particolare le questioni sulla malattia, le ferie, l’infortunio, la gravidanza e la previdenza dei magistrati onorari e sullo status della magistratura onoraria già in servizio. E la Commissione ci ha dato degli indicatori ben precisi da seguire che stiamo effettivamente tenendo ben presente nella elaborazione di una proposta normativa”. “Per parte nostra - ha aggiunto - abbiamo una proposta già abbastanza elaborata e stiamo svolgendo i dovuti confronti con tutti i soggetti coinvolti, la stessa Commissione europea per vedere se ne soddisfa le richieste e parallelamente con il Consiglio superiore della magistratura per verificare i vincoli costituzionali e ordinamentali che condizionano le scelte possibili, le esigenze di funzionalità dei servizi e tutto quello che ruota intorno al mondo della giustizia”. “Vorrei sottolineare un punto - ha poi detto il Guardasigilli scandendo bene le parole - si tratta di un intervento indispensabile per assicurare le tutele dovute ai magistrati onorari in qualità di lavoratori, come richiesto dalla Unione europea, pertanto si tratta di un intervento che costa: io penso che l’imminente disegno di legge di bilancio debba tenerne conto e attivare e prevedere le risorse necessarie a questo scopo”. “L’attivazione di una disciplina compiuta dello status di magistrato onorario - ha aggiunto - deve infatti necessariamente essere accompagnata anche dallo stanziamento delle risorse e queste risorse allo stato non rientrano nella disponibilità del Ministero della Giustizia. Per questo abbiamo già ripetutamente attirato l’attenzione del Mef e della Ragioneria che nelle numerose interlocuzioni intercorse hanno mostrato la volontà di accompagnare con gradualità la piena implementazione dell’intervento normativo che stiamo elaborando”. “Occorrerà poi proseguire su tutti gli altri aspetti sui quali adesso non mi soffermo cioè pensare a dare attuazione anche a quella sentenza della Corte costituzionale (la numero 41 del 2021, ndr) che dà un po’ più di respiro per una riforma ordinamentale complessiva”. “Ma la prima occasione credo da non perdere -ha concludo - è proprio la parte da parte del governo del Parlamento è proprio la legge di bilancio che sta per arrivare al vostro esame”. “Confidiamo che le dichiarazioni della Ministra Cartabia - ha commentato Maria Flora De Giovanni, Presidente Unagipa (Unione nazionale giudici di pace) - siano subito messe in pratica poiché i fondi che occorrono per la riforma per la magistratura onoraria dovrebbero già essere nelle previsioni della legge di bilancio e non è, dunque, più accettabile alcun rinvio”. “Intanto la magistratura onoraria - prosegue De Giovanni - continua a lavorare sempre più precarizzata e senza tutele nonostante ci sia in corso una procedura di infrazione e nonostante i fondi del Pnrr siano stati stanziati anche per il comparto giustizia dove Giudici di pace Got e Vpo svolgono funzioni primarie concorrendo al amministrare il 60% della giustizia civile di primo grado”. La senatrice Modena si è dichiarata soddisfatta anche a nome del gruppo “perché la risposta enuclea le tempistiche, che supponevamo collegate ai costi oltre ovviamente alla interlocuzione con la Commissione europea, e quindi accogliamo con piacere che si parli di legge di bilancio”. “Questo significa tener fede all’ultima proroga che è stata fatta che è quella del 31/12, almeno per le situazioni emergenziali”. Modena ha poi dichiarato di attendere il testo normativo: “Non le nascondo - ha detto - che è un testo molto atteso”. Rispondendo ad una interrogazione sulle carceri Cartabia ha affermato: “Il sovraffollamento è un problema che persiste nelle nostre carceri ed è importante aprire gli occhi su questo fatto. Per questo si sta intervenendo con molte ristrutturazioni utilizzando tutti i poteri acceleratori dati all’amministrazione penitenziaria fino al 31 dicembre 2022. Con i fondi complementari del Pnrr c’è la costruzione di nuovi padiglioni. Un intervento che non riguarda solo le camere ma anche le aree trattamentali”. E parlando del personale carcerario, ha ribadito che “è in grave carenza e sofferenza”. “La prima cosa che ho fatto da ministro - ha sottolineato - è stata quella di riattivare i concorsi che erano stati congelati durante il peridio della pandemia. Ho chiesto all’amministrazione penitenziaria di pianificarli con cadenza annuale. E proprio in queste ore c’è una trattativa per ottenere un aumento delle piante organiche”. “Rieducare stalker e violenti: così si proteggono le vittime” di Maria Lombardi Il Messaggero, 5 novembre 2021 Uomini che fanno del male alle donne. Una, due, tre, quattro volte e chissà quante ancora. Fermarli prima che sia troppo tardi, impedire che ci sia un’altra volta. La rieducazione è una delle strategie nella guerra contro la violenza. Può aiutare aggressori e stalker a contenere la rabbia e ad essere consapevoli di quello che hanno fatto e non farlo più. Altrove funziona, come evidenzia la relazione sugli uomini maltrattanti presentata nei giorni scorsi alla commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio. “Abbiamo svolto un’analisi comparata delle esperienze fatte in altri Stati. Si è visto che i percorsi di rieducazione, secondo studi a livello internazionale, portano a una riduzione delle recidive del 30, 35 per cento”. La senatrice Donatella Conzatti (Iv) ha presentato un disegno di legge, ora in Commissione Giustizia al Senato, per introdurre l’obbligo dei programmi di rieducazione prima della condanna, già per chi ha avuto un ammonimento del questore o una misura cautelare (allontanamento, obbligo di dimora eccetera). Un altro disegno di legge sull’istituzione dei centri di ascolto porta la firma della senatrice M5S Alessandra Maiorino. “Il lavoro sugli uomini è una delle tante strategie per difendere le donne, uno strumento di protezione che si aggiunge agli altri e val la pena mettere in campo. Se gli strumenti che abbiamo non bastano a fermare i femminicidi, dobbiamo integrarli per liberare il Paese da questa violenza integrata e diffusa. Non si tratta di fare meno per le donne e di sottrarre risorse ai centri antiviolenza che comunque, come prevede questa legge di bilancio, potranno contare su fondi strutturali. Ma di aggiungere centri e risorse”. Negli Stati Uniti e in Canada - dove il modello è nato - i condannati sono costretti a seguire programmi di recupero. Spagna, Germania, Austria e Norvegia sono i Paese europei più avanti su questo fronte. È la stessa Convenzione di Istanbul, sulla lotta e prevenzione alla violenza, a raccomandare percorsi di rieducazione per gli uomini maltrattanti. Qui in Italia non c’è alcun obbligo, il Codice Rosso prevede che questi programmi possano essere alternativi alla pena, ma sempre se si vuole seguirli, nessuna costrizione. In Italia 27 istituti penitenziari su 180 garantiscono i centri di ascolto. “Con il disegno di legge chiediamo che si intervenga anche nella fase precedente alla condanna, anche dopo un ammonimento da parte del questore”, aggiunge la senatrice. “È quello un momento delicatissimo: l’uomo è ancora in casa e spesso si verifica una escalation di violenza. Chi riceve un ammonimento dovrebbe secondo noi essere obbligato alla rieducazione. La questura di Milano ha sperimentato il protocollo Zeus sul recupero dei maltrattanti: c’è stata un’adesione del 60 per cento e un abbattimento del rischio di recidiva del 50 per cento”. Ma chi dovrebbe occuparsi della rieducazione? I servizi in Italia sono pochi, tra la rete Cam (Centri ascolto maltrattanti) e Relive, una settantina, “isolati e trascurati”, dicono gli addetti, quasi tutti al Centro Nord. Meno di un terzo dei centri-antiviolenza, oltre 250 (che dovrebbero essere ancora di più). “I servizi per gli uomini maltrattanti dovrebbero contare sul finanziamento di un fondo da un miliardo all’anno dal 2020. Ma bisogna stabilire degli standard per l’accreditamento, assicurarsi che siano gli stessi, e che gli operatori abbiano una adeguata specializzazione”. Sicilia. Apprendi (Antigone): “Nelle carceri criticità che ledono i diritti umani” di Roberto Greco Giornale di Sicilia, 5 novembre 2021 Il Presidente di Antigone Sicilia Pino Apprendi ha visitato, da poco, gli istituti penitenziari di Caltanissetta, Sciacca e Trapani. “Lo Stato è più forte non quando dimostra sopraffazione ma attraverso il rispetto, fornendo spazi e servizi che non ledano la dignità umana. In questo momento pesa più che mai l’assenza e l’inadeguatezza dello Stato nel gestire un carcere moderno”. Antigone, associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, è nata alla fine degli anni ottanta nel solco della omonima rivista contro l’emergenza promossa, tra gli altri, da Massimo Cacciari, Stefano Rodotà e Rossana Rossanda. Il Presidente di Antigone Sicilia è Pino Apprendi e lo abbiamo incontrato pochi giorni dopo le sue visite presso gli istituti penitenziari di Caltanissetta, Sciacca e Trapani per fare il punto sulla situazione carceraria nell’isola. Presidente, pensava peggio o pensava meglio? Io ho sempre avuto del carcere, in generale, una valutazione che, da 1 a 10, difficilmente superava il 5. Devo però dire che questa opportunità di andare a visitare le carceri, o meglio, gli istituti penitenziari di Caltanissetta, Sciacca e Trapani, mi ha restituito una visione particolarmente negativa. Diciamo che il nostro obiettivo era verificare le condizioni carcerarie pre e post Covid. Sinceramente non pensavo di trovare una situazione migliore ma, nonostante tutto, non mi aspettavo un così grande abbassamento della qualità complessiva del sistema perché si sono di nuovo aggiunte nuove problematiche che, prima della pandemia, pensavo fossero superate come ad esempio quella della mancanza di volontari all’interno delle strutture. È evidente che stiamo parlando d’istituti insiti nelle piccole province della Sicilia, non stiamo parlando della situazione palermitana, ma sono rimasto sorpreso che a Trapani o a Sciacca o a Caltanissetta, per esempio, sia difficile trovare volontari che siano disponibili a operare all’interno delle strutture carcerarie e, ritengo, questo non sia solo un effetto collaterale della pandemia ma che, purtroppo, si sia in presenza di un vero e proprio degrado culturale. La gestione della pandemia ha acuito i problemi? Negli istituti che abbiamo visitato, devo dire, non si sono verificate criticità eccessive, a proposito della pandemia, anche grazie all’azione puntale dei dirigenti delle strutture ma purtroppo emerge in maniera evidente l’indisponibilità di medici e infermieri. È evidente che si tratta di servizi essenziali alla persona, dei quali non si può fare a meno, e soprattutto di diritti che alle persone vengono così negati. Quali sono le principali criticità rilevate durante le visite che avete fatto? È stata la prima volta che visitavo il carcere di Sciacca. Questo istituto, come quello di Caltanissetta, ha palesi problematiche strutturali e questo evidenzia l’assenza dello Stato. Parliamo, in entrambi in casi, d’immobili che risalgono ai primi anni del secolo scorso con vincoli da parte della Sovraintendenza, con evidenti problematiche di ammodernamento e di adeguamento quindi inadatti a ospitare persone. Ti basti pensare che, all’interno della struttura di Caltanissetta, le sale destinate ai colloqui, in effetti, non sono due sale nel senso più tradizionale del termine ma due container. Non sempre, nelle strutture carcerarie, c’è un impianto di riscaldamento adeguato e se l’edificio “soffre” d’infiltrazioni di umidità la situazione ambientale e sanitaria peggiora. Come dicevo prima a questo si somma la scarsezza di personale medico e infermieristico, l’impossibilità di poter effettuare, in loco, visite specialistiche se non con tempi di prenotazione lunghi. So perfettamente che questo succede anche al cittadino comune ma, mentre per gli ospiti delle strutture carcerarie non esiste nessuna alternativa, per il cittadino, in caso di urgenza, è sempre possibile rivolgersi a specialisti non convenzionati. Quindi possiamo dire che la condizione carceraria è peggiorata? Di fatto, la situazione complessiva è peggiorata a causa dell’evidente latitanza dello Stato che non garantisce il diritto alla salute ai detenuti. La normativa è cambiata, lo Stato ha la competenza strutturale dell’istituto mentre è competenza regionale quella che riguarda l’assistenza sanitaria ma, di fatto, la Regione rappresenta lo Stato sul territorio e possiamo dire che è inadempiente ai suoi compiti. Questo fa abbassare ancor di più la qualità dei diritti umani all’interno delle strutture carcerarie? Assolutamente sì. Possiamo dire che i detenuti non hanno voce? Sì. Possiamo dire che quando oltrepassi il cancello automatico dell’istituto perdi parte dei diritti garantiti dalla Costituzione? Sì. Possiamo dire, inoltre, che in fin dei conti non sei più considerato “persona”? Ancora una volta, la risposta è sì. La situazione viene, per così dire, salvata solo dalla sensibilità individuale del personale ma, sia la Polizia Penitenziaria sia gli psicologi, gli assistenti sociali e finanche lo stesso Direttore, lavorano troppo spesso senza gli strumenti necessari per affrontare il quotidiano. Non è un caso che, più volte, la Corte Europea ci abbia ripreso e sanzionato. Capitolo a parte, invece, è quello relativo alla popolazione carceraria extra-comunitaria che rappresenta circa il 18%. Queste persone vivono in una situazione “più disgraziata” rispetto ai detenuti italiani perché non ricevono visite, non hanno un supporto familiare esterno, parlano un’altra lingua e, ancor più grave, non hanno i mediatori culturali. Questo si va a scontrare con la realtà degli agenti di Polizia Penitenziaria che, spesso, non capiscono la lingua e quindi non sono in grado di rispondere alle più banali esigenze. Bisogna lavorare, quindi, per far diminuire numericamente i detenuti? Ci scontriamo con il costante fenomeno di sovraffollamento e le misure alternative al carcere rappresentano non solo una possibilità di “alleggerimento” ma, altro fatto importante, la possibilità di evitare che il periodo di detenzione diventi la cosiddetta “scuola di vita”, la palestra per poter, una volta usciti, continuare a delinquere. Perché non è possibile pensare, concretamente, a un alleggerimento della permanenza carceraria creando pene alternative? All’interno delle strutture, ad esempio, abbiamo circa il 30% della popolazione carceraria che è composto da tossicodipendenti e da piccoli spacciatori. Davvero pensiamo che la possibile legalizzazione della cannabis, oltre a togliere economie alla criminalità organizzata, non possa anche ridurre la popolazione carceraria? Quindi il famoso concetto di “riabilitazione” è stato ulteriormente penalizzato dalla pandemia? Si è trattato d’interventi a macchia di leopardo. Sono gli uomini che portano avanti i progetti. In alcune strutture ci sono direttori “illuminati” in altre no. Durante la pandemia molti istituti hanno interrotto la formazione in presenza utilizzando la cosiddetta DAD ma altri la hanno sospesa e basta, sia quella di alfabetizzazione sia quella di specializzazione ai mestieri. Alcuni detenuti che dovevano conseguire la specializzazione triennale o quinquennale sono stati costretti a “perdere” un anno formativo e, quindi, a rinviare il loro percorso. Ha riscontrato interesse per questa attività formative? Dentro le strutture ho trovato un particolare interesse da parte degli ospiti, in maniera specifica, nei confronti della formazione professionale riguardante il settore alberghiero. Lo vedono come un possibile sbocco lavorativo che, dal punto di vista del piano di studi, è alla loro portata. Detenuti e personale della Polizia Penitenziaria respirano la stessa aria, la stessa “Aria ferma”, come recita il titolo del recente film di Leonardo Di Costanzo... È un dato che dobbiamo avere sempre presente. Come Antigone ci occupiamo dei diritti dei detenuti, per ruolo istituzionale. Mi rendo conto, però, della difficoltà dei direttori, degli operatori e della Polizia Penitenziaria. Rappresentano l’ultimo miglio dell’autostrada della giustizia ed è quello più debole. È su in questo “ultimo miglio” che si scatenano tutte le tensioni come la mancanza del colloquio o della visita medica, il medicinale che non arriva, la risposta alle varie istanze che tarda. È evidente che l’agente di Polizia Penitenziaria, che vive nel carcere otto ore al giorno, spesso con il turno di notte, in solitaria, è un elemento fragile che ha passato gran parte della sua vita in carcere spesso in una situazione di conflitto con il detenuto, che ha mille problemi personali che scarica sul primo che incontra trasformando, inevitabilmente, il rapporto in conflitto, purtroppo anche fisico. Siamo in presenza di piante organiche non sempre adeguate e sotto dimensionate che costringono gli agenti di Polizia Penitenziaria a lavorare in condizioni appena sufficienti. In questo particolare momento in Sicilia, inoltre, mancano diversi direttori titolari delle strutture. Ad esempio il direttore di Trapani è anche il direttore dell’Ucciardone (l’istituto penitenziario di Palermo, ndr), quello di Caltanissetta segue anche Catania, quello di Sciacca è anche dirigente all’Ucciardone. Questo limita moltissimo la progettualità e la capacità di lavorare su interventi di lungo periodo e di grande respiro. Purtroppo, ancora una volta, dobbiamo evidenziare grande disinteresse dello Stato nei confronti del “problema carceri” e quindi della popolazione carceraria. Gli stessi organi di stampa non danno la visibilità necessaria a quanto succede nelle carceri se non quando si esaltano i conflitti e si trasformano in episodi violenti. Se l’attività trattamentale funziona bene all’interno della struttura e se ne godono subito i vantaggi, soprattutto è fondamentale nel momento in cui il detenuto riacquista la libertà perché il carcere deve essere rieducativo, non peggiorativo della propria condizione. Qual è la posizione di Antigone nei confronti del cosiddetto “ergastolo ostativo”, oggetto di condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo? Dobbiamo avere la capacità di distinguere tra il sentimento personale e le leggi. Se la legge prevede che ci sia una condanna comminata da un tribunale, si tratta di una condanna che prescinde dalla coscienza, che è l’applicazione di una norma. La legge va rispettata, non devono esistere tentennamenti poi, purtroppo, il populismo è sempre in agguato e troppe persone cadono nella trappola. È necessario piuttosto lavorare per cambiare una legislazione che può rivelarsi inadeguata, non più coerente con gli obiettivi di questa società ma i diritti umani devono essere un caposaldo sul quale non si può mediare verso il basso. Prossimi interventi di Antigone sul territorio siciliano? Prossimamente visiteremo gli istituti “Bicocca” e “Piazza Lanza” a Catania e quello di Caltagirone dal quale mi sono arrivate segnalazioni riguardanti la pessima situazione carceraria. In chiusura… Lo Stato è più forte non quando dimostra sopraffazione ma attraverso il rispetto, fornendo spazi e servizi che non ledano la dignità umana. In questo momento pesa più che mai l’assenza e l’inadeguatezza dello Stato nel gestire un carcere moderno. Sicilia. Carceri, reinserimento per i minori a Catania, Messina e Palermo nuovosud.it, 5 novembre 2021 Le province di Catania, Palermo e Messina sono protagoniste di progetto, denominato “Giovani al… Centro!” volto al reinserimento sociale di 180 i ragazzi autori di reati, con provvedimenti giudiziari o a fine pena, o portatori di disagio psichico, che per tre anni saranno seguiti insieme con le loro famiglie. Il progetto, finanziato nell’ambito del bando nazionale “Cambio Rotta” pubblicato dalla Fondazione “Con i bambini”, è realizzato con una larga rete di attori sociali pubblici e privati, con uffici del Servizio Sociale della Giustizia Minorile, Servizi sociali territoriali, servizi specialistici delle Aziende sanitarie provinciali, Istituti penitenziari minorili di Catania e Acireale, scuole, cooperative sociali e associazionismo del territorio. A supporto dei piani individualizzati ci saranno doti formative e sportive, tirocini lavorativi retribuiti, un’educativa dedicata, un supporto psicologico e un’azione di mediazione penale. Una parte del progetto, solamente per Catania, sperimenterà azioni di cittadinanza attiva e diffusione di legalità con l’attivazione di “Piazze per la legalità”, manifestazioni organizzate a Librino, San Berillo, Antico Corso, ed in altri quartieri e zone a rischio, che vedranno interagire associazionismo, partner del progetto, abitanti del quartiere e giovani delle scuole. Ente capofila del progetto è la cooperativa sociale ‘Marianella Garçia’. Nella città etnea altri partner sono ‘Officine Culturali’ ‘Associazione Musicale Etnea’, ‘Trame di Quartiere’, ‘Oltre Frontiera’, ‘Talità Ku’ la cooperativa ‘Prospettiva’. A Messina operano la cooperativa e associazione di volontariato ‘S. Maria La Strada’ e l’Istituto comprensivo ‘La Pira Gentiluomo. A Palermo saranno protagonisti il Centro di accoglienza ‘Padre Nostro’, il circolo Acli ‘Padre Pino Puglisi’ e l’Istituto comprensivo ‘Pino Puglisi’. Campania. Il Garante dei detenuti in visita agli istituti di Vallo della Lucania ed Eboli anteprima24.it, 5 novembre 2021 Ciambriello: “Più inclusione sociale e meno reclusione”. Giornata intensa nel salernitano per il Garante campano dei detenuti che si è recato nella prima mattina presso il carcere di Vallo della Lucania dove sono presenti 44 detenuti, e nell’ora di pranzo e nel pomeriggio presso l’ICATT (Istituto a custodia attenuata per tossicodipendenti) di Eboli dove sono presenti 45 detenuti. A Vallo della Lucania, si è concluso il corso di Operatore Ambientale Fluviale. Il corso è stato espletato dal Corpo di Guardie Ambientali N.I.T.A. Coordinamento Provinciale di Salerno ODV in collaborazione con il Ministero di Giustizia, Casa Circondariale di Vallo della Lucania, approvato dal provveditorato. Il corso è iniziato da mese di luglio e terminato ad ottobre, con esame verbale ed assegnazione degli attestati Operatori Fluviali I livello. Gli esami sono stati tenuti dal Co.e Prov. SA Giuseppe Di Somma e dal Vice Co.e Simona Bonora con la presenza della Direttrice dell’istituto penitenziario Caterina Sergio e del garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. Dichiarazione congiunta del Co.e Prov SA Di Somma e del Garante dei detenuti Ciambriello: “Questo corso di formazione è stato concepito per dare uno strumento fondamentale mirato alla operatività, perché un tradizionale corso nozionistico troverebbe, poi, difficile far operare gli eventuali detenuti che riusciranno a beneficiare di permessi per poter svolgere in pratica quanto appreso durante il corso. Infatti, si sono utilizzati molti filmati per trasmettere non solo nozioni, ma informazioni tecnico pratiche per l’applicazione di quanto imparato. Ci auguriamo di dare seguito alla seconda fase del progetto incardinato da protocollo di intesta dal Ministero, dove la direzione del carcere e la direzione del Corpo di Guardie Ambientali NITA, il provveditorato ed il garante regionale e non per ultimo, l’Ass. all’ambiente con la partecipazione del Comune di Agropoli, possa consentire lo sviluppo di quanto progettato e programmato.” Ad Eboli, il garante è stato accolto dalla Direttrice del carcere Concetta Felaco, dall’area educativa e da una delegazione dell’area sanitaria e da 3 detenuti che hanno cucinato e consumato insieme agli ospiti il pranzo. Successivamente, nella sala teatro del carcere, il garante ha potuto ascoltare le criticità, le speranze, le progettualità dei diversamente liberi ristretti in questo istituto a custodia attenuata. Per il garante Ciambriello: “in questi due istituti occorre una presenza costante della Magistratura di sorveglianza, la possibilità di espletare all’esterno del carcere art 20 ter o 21 per lavori di pubblica utilità o socialmente utili. Mi auguro che enti locali, operatori del privato sociale, imprenditori, possano essere sensibili a progetti di inclusione socio lavorativa per i detenuti di questi istituti”. Parma. “Costretto al carcere durissimo per fare compagnia al boss” di Rita Bernardini Il Riformista, 5 novembre 2021 Da Parma mi scrive disperato A.T. Si trova da tre anni nell’”area riservata”: regime più duro del 41bis. “Portato qui contro la mia volontà, senza spiegazioni. Isolato senza che un’autorità l’abbia deciso”. Ricevo (con i relativi timbri della prevista censura) la lettera di un detenuto dell’area riservata del 41bis di Parma. A.T. ha 56 anni e da tre anni si trova in questo regime di carcere duro all’ennesima potenza non perché sia un “capo dei capi”, ma perché l’Amministrazione penitenziaria ha l’esigenza di offrire una “compagnia” a un altro detenuto ritenuto ai vertici dell’organizzazione mafiosa. Senza questa “compagnia” per l’ora d’aria, la detenzione del “boss” sarebbe infatti totalmente illegittima. Precisato che nemmeno al “boss” possono essere negati i diritti umani fondamentali, mi chiedo: ma A.T. che c’entra? Tanto più che il 21 aprile scorso è stato assolto dal reato (416-bis) che lo ha portato al 41-bis e che sta aspettando da allora la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma circa la revoca del regime detentivo speciale. Gentile A.T., mi chiedi di venirti a trovare, ma io non posso perché il DAP non me lo consente. Quel che posso fare, e lo farò, è portare alla conoscenza di mute e sorde istituzioni quelli che sono i tuoi diritti incomprimibili. Gentilissima Rita Bernardini, sono sottoposto al regime differenziato dell’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario dal 27 gennaio del 2018 presso il carcere di Parma. Dopo alcuni mesi, passati insieme ai detenuti del 41-bis, sono stato trasferito nella cosiddetta “area riservata”, contro la mia volontà e senza alcuna giustificazione. Non mi è stata fornita alcuna spiegazione della ragione per cui sono stato costretto con la forza a soffrire un regime detentivo ancora più duro di quello che mi è imposto nel generico decreto di applicazione del 41-bis. La legge prevede che io possa fare due ore d’aria in gruppi di socialità formati fino a un massimo di 4 persone. Questi signori si permettono di non rispettare la legge, visto che mi tengono in area riservata dove sono in isolamento senza che nessuna autorità lo abbia deciso: mi hanno portato in questo reparto per fare compagnia a un solo detenuto senza chiedermi prima se io volessi fargli compagnia. Un inganno che subisco da 3 anni e 7 mesi. Sono stato costretto a fare lo sciopero della fame per 20 giorni solo per chiedere il rispetto dei miei diritti. Ho perso 10 kg di peso e da allora non mi sono più ripreso. Mentre facevo lo sciopero, nessuno della direzione del carcere mi ha chiamato. Mentre rischiavo di morire un ispettore ha avuto il coraggio di dire che la direzione non si sarebbe fatta intimidire… Ma come? Io metto a rischio la mia vita e loro si sentono intimiditi? Sono loro che hanno intimidito me! Un mese fa ho parlato con un altro ispettore per dirgli che non voglio stare in questo reparto perché sono sempre da solo, che l’amministrazione doveva rispettare quello che è scritto nel decreto del 41 bis, che stavano esagerando e che dopo aver sopportato così a lungo avrei fatto un casino. L’ispettore mi ha risposto che avrei potuto essere spostato in un reparto peggiore e di avere pazienza perché stanno cercando di risolvere il problema. Una presa in giro, se penso che il direttore che mi aveva risposto nello stesso modo. Ho parlato anche con il Garante nazionale dei detenuti che è venuto a trovarmi e sa tutto di quello che sto patendo. Anche lui mi ha risposto “stiamo vedendo di trovare una soluzione” … Ma che soluzione si sta cercando di trovare? Devono solo applicare la legge che stanno violando! Ho scritto diverse volte all’ex Ministro Bonafede e anche alla Ministra Cartabia senza ricevere risposta. Non so quante lettere ho mandato al magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia, diverse con richiesta di colloquio: nessuna risposta. Stesso silenzio è stato riservato alle denunce che ho presentato in Procura per sequestro di persona, violenza, tortura e abuso di potere... Il 27 aprile del 2021 sono stato assolto dal 416 bis dalla Corte di Appello di Reggio Calabria, proprio quel 416 bis per il quale mi hanno applicato il 41 bis, ma come lei sa i tempi della giustizia sono lunghi e sto aspettando la camera di consiglio al Tribunale di Sorveglianza di Roma per discutere la revoca. La mia posizione giuridica e i miei profili soggettivi non legittimano l’attuale allocazione detentiva e anche a volere ipotizzare che ciò sia stato determinato dall’opportunità di garantire una compagnia o una assistenza a un detenuto speciale, di fatto da oltre tre anni nessuno fa compagnia a me stesso. Solo in poche occasioni e per periodi di tempo brevi ho potuto condividere le ore d’aria e socialità con un solo ristretto in area riservata; da oltre tre anni e sette mesi sono costretto a soffrire illegittimamente la carcerazione in stato di totale isolamento. A ciò si aggiunga la mancanza di igiene della cella infestata da scarafaggi e altri insetti. A circa 1 metro dalla finestra c’è un grande contenitore così che la mia vista non può spaziare. Tale inumana condizione di detenzione ha determinato l’insorgere di una grave forma depressiva; da mesi non sono in grado di alimentarmi e presento un allarmante calo ponderale che ha come conseguenza un inarrestabile deperimento fisico e psichico incompatibile con l’umanità della pena e il divieto di trattamenti inumani e degradanti dettati dalla Costituzione e dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Milano. Ma cosa aspettate a scarcerare Domenico Zambetti? di Tiziana Maiolo Il Riformista, 5 novembre 2021 Condannato per corruzione, concorso esterno e voto di scambio per fatti di 10 anni fa, ma il suo unico errore è stato non aver denunciato le minacce subite. Ha perso 30 chili, i medici temono gesti estremi. Che senso ha? Deve forse essere rieducato? La perizia psichiatrica di parte ha stabilito l’incompatibilità con la detenzione. Anche il pm ha chiesto i domiciliari. Ma il tribunale di sorveglianza ha chiesto un’altra perizia. Questa è la storia di Domenico Zambetti, detto Mimmo, detenuto nel carcere di Opera e condannato a sette anni e mezzo di detenzione per voto di scambio, concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione. Un delinquentone, dunque? Una vittima, invece. Prima, di due truffatori un pochettino mafiosi. E poi dello Stato nella sua veste giudiziaria che, invece di accoglierlo nelle aule giudiziarie come parte offesa, lo ha messo alla sbarra e poi in carcere. Dove oggi si ritrova, a dieci anni dai fatti e avendone lui ormai quasi settanta, ad attendere i risultati di una perizia psichiatrica al termine della quale il tribunale di sorveglianza non potrà che concedere la detenzione domiciliare. Con grande rischioso ritardo. Spiegheremo il perché, con la delicatezza che il caso richiede. Ma intanto vediamo perché e come mai uno specchiato assessore della Regione Lombardia dei tempi di Formigoni, uno che godeva di una salda reputazione politica e di successi elettorali, sia finito in una trappola così stupida e banale che determinò nel 2012 non solo il suo arresto, ma anche la fine della nona legislatura e l’uscita di scena di Roberto Formigoni dopo diciassette anni di ininterrotto governo. Era stata una Lega non certo garantista a segreteria Maroni che, dopo l’arresto di Zambetti, aveva deciso di togliere la spina. Ed era stato poi lo stesso Maroni dopo le elezioni a diventare il successore di Formigoni alla presidenza della Lombardia. Ma che cosa aveva fatto di così grave Mimmo Zambetti per meritare l’arresto e l’accusa di essere una quinta colonna della ‘ndrangheta? Il suo unico torto, o meglio la sua disgrazia: aver conosciuto un certo Eugenio Costantino che prima si era messo a disposizione per dargli una mano nella campagna elettorale regionale del 2010 e poi, dopo la sua elezione e la sua nomina ad assessore alla casa, aveva iniziato a minacciarlo e ricattarlo. Il suo vero e unico errore? Non averlo subito denunciato. Ma bisogna anche capirlo. Perché, se è vero che il coraggio se uno non l’ha non se lo può dare, è ancor più vero che è comodo fare gli spavaldi mentre le minacce le subisce un altro. E se uno che si spaccia per capomafia, prima esige da te soldi e favori, e poi ti chiede con insistenza come stanno i tuoi figli e i tuoi nipoti, e poi ti raccomanda di badare alla salute… quanti hanno il coraggio di andare in questura? Zambetti aveva conosciuto Costantino in occasione delle elezioni al Comune di Sedriano, un paese del milanese, nel 2008, in cui era candidata la figlia Teresa. L’assessore aveva solo partecipato a un evento politico. Ma due anni dopo proprio Costantino si era fatto vivo, con gratitudine per quella partecipazione all’evento di Sedriano, mettendosi a disposizione di Zambetti per dare una mano in vista delle elezioni regionali del 28 e 29 marzo 2010. Gli aveva presentato anche un suo amico, Giuseppe D’Agostino, che l’assessore aveva in seguito visto non più di due volte. Due calabresi, di cui in seguito, ma solo a elezioni avvenute, si saprà che “forse”, ma non con certezza, erano aderenti a qualche ‘ndrina. Il dubbio è supportato da fatto che, quando i due calabresi abbandoneranno gli abiti della collaborazione e cominceranno a mostrare la faccia delinquenziale delle minacce e dei ricatti, i favori che chiederanno, oltre ai soldi, riguarderanno solo piccole cose nello stile del “tengo famiglia”, più che dei traffici della criminalità mafiosa. Sicuramente inadeguati. Le richieste di Costantino (supportate anche dall’insistenza di D’Agostino) saranno, nell’ordine: un posto da impiegata all’Aler (Ente regionale case popolari) per la figlia Teresa, il rinnovo dell’affitto del locale di un ente pubblico per la sorella parrucchiera, una casa popolare per l’amante. Forse anche un posto da magazziniere per sé. E generiche sponsorizzazioni in appalti, di cui non si saprà mai nulla. Non otterrà niente, se non il posto per Teresa, che però era stata assunta tramite una cooperativa. Infatti nelle intercettazioni Zambetti viene definito dai due “un ingrato”. Allora lo minacciano e poi si compiacciono al telefono: “le orecchiette gli si sono incriccate... si è messo a piangere... si è cagato sotto”. Ora, come si può sostenere, come ha fatto l’accusa nei processi, che se anche una persona avesse dato qualche migliaio di euro a ricattatori di questo tipo, merita l’imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa perché in questo modo ha contribuito ad arricchire i forzieri della ‘ndrangheta? Va anche detto però, che in cassazione, e in sintonia con quanto era già successo in primo grado, era stato lo stesso rappresentante dell’accusa a chiedere la riforma parziale della condanna ritenendo provata solo l’accusa di voto di scambio (articolo 416 ter) e non quelle di corruzione e concorso esterno. La corte ha deciso diversamente e confermato tutto. Zambetti è entrato nel carcere di Opera spontaneamente, dopo la condanna definitiva per tre reati (corruzione, concorso esterno in associazione mafiosa, voto di scambio) “ostativi” ai sensi dell’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario. Il che significa, nell’esecuzione della pena, una classificazione speciale, da mafioso e da detenuto pericoloso. Ciò nonostante - lo ricorda l’avvocato Limentani nella memoria presentata al Tribunale di sorveglianza già pochi giorni dopo il suo arresto è stato declassificato e assegnato a reparti di detenzione ordinaria. Il che dimostra quanto Zambetti sia “pericoloso”. Del resto il suo comportamento processuale è stato esemplare, collaborativo. Ha detto tutto quel che sapeva, e cioè di aver conosciuto solo queste due persone, tra tutti gli imputati (tra i quali c’era anche, altra assurdità, Ambrogio Crespi, poi parzialmente graziato dal Presidente della repubblica), e di non aver certo saputo che fossero della ‘ndrangheta. Ma ne ha denunciato le malefatte, le minacce, i ricatti, le violenze. Oltre a questo, la sua sarebbe una “collaborazione impossibile”, perché Zambetti non sa altro e nulla di più potrebbe dire. Ma naturalmente la Dda lo considera “non” collaborante. Lo volevano “pentito”? Ma di che cosa, scrive ancora l’avvocato Limentani, visto che “la lunga sentenza non riporta nemmeno un solo contatto tra Zambetti e soggetti malavitosi diversi da Costantino e D’Agostino”“. È semplicemente inciampato in una truffa, un po’ per ingenuità, un po’ perché in campagna elettorale capita di non buttare via niente di quel che ti viene offerto. Ma Mimmo Zambetti, che fu un uomo potente da undicimila preferenze, di cui quelle portate dai suoi due persecutori furono probabilmente solo millanteria, merita di stare ancora in carcere, a dieci anni dai fatti e dal suo totale abbandono della politica, e ormai settantenne? Ha senso che sia privato in modo così totale della libertà personale? Deve forse essere rieducato? È ormai anche malandato di salute, come spesso le persone della sua età, ipertensione e diabete gli tengono compagnia, quasi normale. Meno normale è che abbia perso 30 chili di peso in poche settimane. Si, perché è arrivata, inevitabile, al suo fianco la depressione, in forma grave, pericolosa. E insieme sono arrivati gli psichiatri. La perizia di parte ne ha già stabilito l’incompatibilità delle sue condizioni con la detenzione in carcere. Ma è di parte, penserà qualche maligno. Che dire allora del pronunciamento della Direzione sanitaria di Opera, dopo diversi colloqui con il detenuto? Allarme pesante, drammatico, che parla di disperazione con parole che non vogliamo ripetere ma che esplicitano la paura concreta di atti di autolesionismo, anche estremo. Nella seduta del 29 settembre scorso anche il pubblico ministero d’udienza aveva chiesto fossero concessi i domiciliari a Mimmo Zambetti. Il tribunale di sorveglianza avrebbe potuto (dovuto?) decidere subito di mandarlo a casa. Invece ha scelto di nominare un altro psichiatra per un’ulteriore perizia. Se ne riparlerà il 16 dicembre, quasi a natale. E speriamo che in quell’occasione non si smentisca di nuovo la tradizione illuminata dei giudici di sorveglianza lombardi. Ferrara. Un ambulatorio ecografico per i detenuti dell’Arginone Il Resto del Carlino, 5 novembre 2021 Mercoledì è stato inaugurato il nuovo ambulatorio ecografico nella casa circondariale, per migliorare l’assistenza sanitaria presso la Casa della Salute Arginone e potenziare i servizi garantiti a chi deve scontare la pena in carcere. All’apertura del nuovo ambulatorio, hanno presenziato la direttrice Maria Nicoletta Toscani, la comandante della polizia penitenziaria Annalisa Gadaleta, l’ispettore capo Paolo Martino della casa circondariale, la referente clinica Giada Sibahi, la coordinatrice infermieristica Alessandra Zambelli, il responsabile organizzativo della salute nelle carceri Fabio Ferraresi e il responsabile programma sanità penitenziaria dell’azienda Usl Diego Arcudi. Alla loro presenza, il direttore della Radiologia dell’ospedale di Cento, Roberto Rizzati, ha dato l’avvio alle prime ecografie sugli ospiti reclusi nella casa circondariale in un ambulatorio dedicato, posizionato all’interno dei locali sanità, allestito con ecografo e computer che permette il collegamento in rete con la Radiologia ospedaliera dell’Azienda Usl. Rimini. Al via la coprogettazione con il Terzo settore per i progetti dell’area carcere comune.rimini.it, 5 novembre 2021 Promuovere la salute in carcere, umanizzazione della pena e reinserimento delle persone in condizione di povertà estrema o a rischio di marginalità, sostegno all’uscita dalla casa circondariale dei detenuti in dimissione. Sono questi gli obbiettivi principali delle attività che il Comune di Rimini sostiene attraverso il Progetto carcere. La realizzazione degli obiettivi del “Progetto Carcere” passerà attraverso una istruttoria pubblica per la co-progettazione a soggetti del terzo settore al fine di valorizzare l’esperienza delle tante realtà presenti sul territorio. Le attività verranno realizzate sia all’interno della Casa Circondariale di Rimini sia all’esterno, inclusi interventi per i familiari dei detenuti, nell’ambito delle misure alternative alla detenzione con l’obiettivo specifico di: Garantire un miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti, aumentando l’offerta di attività a favore dei detenuti, in particolar modo legati a temi di intercultura e genitorialità attraverso laboratori di lettura o teatrali; Attivare interventi volti a dare continuità allo sportello informativo all’interno del carcere con funzioni di ascolto, accoglienza, orientamento e accompagnamento nonché di mediazione linguistica e interculturale con particolare attenzione ai percorsi di uscita dei nuovi dimittendi opportunamente segnalati dall’Equipe della casa Circondariale; Valorizzare e migliorare l’attenzione ed il raccordo tra i servizi esterni ed interni nei confronti dei percorsi dei dimittendi. Favorire e sostenere nuovi percorsi di formazione, educazione e riflessione a favore dei detenuti, con particolare attenzione ai percorsi di cittadinanza attiva e dei Lavori di Pubblica Utilità; Istituire una nuova figura di supporto all’équipe trattamentale in Casa Circondariale come l’Operatore di Rete che potrebbe far da ponte fra le richieste del detenuto e le risorse esterne presenti nel territorio; Attivare interventi di sostegno e riabilitativi rivolti a detenuti condannati per reati di maltrattamenti in famiglia e atti persecutori, qualora non siano eleggibili per le prese in carico del servizio LDV dell’Ausl Romagna. “L’uomo non è il suo errore” diceva don Oreste Benzi. Questo messaggio - spiega Kristian Gianfreda, assessore alla protezione sociale del Comune di Rimini - che sento profondamente, riassume il senso e lo spirito di fondo dei tanti progetti attivi a Rimini a favore dei carcerati. È fondamentale che sia previsto un sistema sanzionatorio per chi sbaglia ma è altrettanto importante che ci sia un sistema che aiuti i detenuti a uscire dalla illegalità. I nostri progetti servono proprio a questo, a dare una seconda possibilità per evitare le recidive o reati peggiori, per rompere la catena criminale attraverso una valorizzazione dei percorsi relazionali, in particolare per i babbi che lasciano i figli oltre le sbarre. Rimini in questo ambito può vantare una solida tradizione, sia dentro le istituzioni, che nel mondo dell’associazionismo, per questo diventa naturale il coinvolgimento anche del terzo settore nello sviluppo progettuale. Attività che sono anche un investimento per tutta la comunità” Genova. Riparte il teatro nel carcere di Marassi, nuova stagione e nuovo spettacolo dei detenuti di Silvia Isola primocanale.it, 5 novembre 2021 Riparte la stagione teatrale del Teatro dell’Arca, dopo lo stop imposto della pandemia e i molti spettacoli online per tenere compagnia al pubblico ormai affezionato al singolare teatro racchiuso all’interno della casa circondariale di Genova Marassi. È pur sempre un’esperienza significativa varcare le porte del carcere per poter assistere a spettacoli di compagnie professioniste, musicisti o di detenuti. “La prima parte della stagione è dedicata alla musica, si chiama Note d’Autunno e prevede una serie di concerti, il prossimo previsto sabato 6 novembre è con i Motus Laevus, spazia dal jazz all’elettronica, con strumenti antichi e contemporanei, influenzata dai ritmi africani e dell’Est”, illustra il programma il direttore artistico Sandro Baldacci. I futuri appuntamenti saranno sempre musicali, con Ritmiciclando, sabato 20 novembre, El Pueblo Unido, sabato 4 dicembre e A Christmas Welcome sabato 11. Per partecipare basta prenotarsi online sul sito https://www.teatronecessariogenova.org. A inaugurare la seconda parte del cartellone sarà invece lo spettacolo messo a punto con la compagnia di detenuti e attori professionisti. “Parole di Primavera, questo il titolo della rassegna, vedrà il 19 aprile il debutto del nostro nuovo spettacolo al teatro della Corte che si intitola “Delirio di una notte d’estate”, un adattamento del “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare. Abbiamo deciso di far leva sulla comicità, dopo questi due anni difficili, e tornare a far sorridere il pubblico”, spiega la scelta Baldacci, regista dello spettacolo. “Puck non è più un folletto che somministra sostanze magiche, ma è una sorta di spacciatore che somministra sostanze meno magiche ma dai sicuri effetti stupefacenti”. Obbiettivo dell’Associazione Teatro Necessario che da 15 anni opera all’interno del carcere è proprio quello di stimolare la riflessione su temi delicati da parte degli attori-detenuti e farli incontrare con i professionisti, in uno scambio con l’esterno e un confronto utile per il loro reinserimento nella società. Shakespeare in passato aveva già offerto alcuni spunti come il femminicidio con Otello o gli intrighi familiari con Romeo e Giulietta o ancora Amleto. “Già l’anno scorso siamo stati tra i pochissimi carceri a riuscire a portare a compimento il nostro programma, in parte online nel momento del lockdown, ma per loro siamo sempre stati presenti. Quest’anno la limitazione è data dal fatto che detenuti di sezioni diverse non possono lavorare assieme e stare a contatto, per cui abbiamo dovuto selezionare i nostri attori da una sola sezione, cosa limitante per l’attività che svolgiamo”, commenta il regista. Un percorso che arricchisce tutti i partecipanti, dai 4 professionisti ai 17 detenuti che compongono il cast, ai quali viene insegnato il rispetto delle regole e per gli stranieri la lingua italiana. “Abbiamo poi una serie di laboratori di scenotecnica che per loro possono essere una esperienza da spendersi poi in futuro nel mondo del lavoro”. Torino. La galleria d’arte dietro le sbarre colora il carcere di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 5 novembre 2021 Il principe Miškin nel romanzo “L’Idiota” di Dostoevskij sostiene che “La bellezza salverà il mondo”. Frase celebre, spesso abusata, ma che torna in mente a chi ha percorso il corridoio d’accesso al padiglione C della Casa Circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno” prima del 30 ottobre scorso. Soprannominato ironicamente “corso Francia”, data la sua estensione (183 metri), camminare lungo quel corridoio dava la sensazione di entrare in tunnel, tra due ali di muri scrostati dal tempo e dall’incuria: l’unica “distrazione”, le finestre con le sbarre che richiamano le celle. Qualcuno potrebbe obiettare: “E allora? Un carcere non è un grande albergo”: vero, ma è risaputo che colore, pulizia e cura di un ambiente anche se luogo di detenzione, possono aiutare a pensare “positivo”. Quell’esteso camminamento invece era un’area depressa”, come ha spiegato Giulio Lucente, curatore del progetto di decorazione che, in collaborazione con la sezione carceraria degli studenti del Primo liceo artistico di Torino, ha trasformato il corridoio in una galleria d’arte, riqualificando uno degli accessi al penitenziario dove ogni giorno transitano detenuti e operatori carcerari. Il risultato del lavoro di ritinteggiatura - grazie anche al contributo della Caritas diocesana che ha fornito pennelli, latte di smalto per gli infissi e di pittura per i muri - è stato inaugurato sabato 30 ottobre dalla direttrice del carcere Rosalia Marino che ha subito accolto con favore la proposta. Al taglio del nastro ringraziando la Caritas e tutti coloro che ne hanno reso possibile la realizzazione, la direttrice ha sottolineato che è solo il primo ambiente comune che viene abbellito: altri corridoi del penitenziario verranno decorati e ingentiliti. “Alla base del progetto c’è l’idea di creare un ambiente accogliente in una struttura di coercizione che, per sua stessa natura istituzionale, dovrebbe cercare di favorire il recupero di un nuovo equilibrio negli utenti che ospita” ha proseguito Giulio Lucente, pittore e insegnante al Liceo artistico di Torino. Ed ecco allora com’è nata la galleria d’arte che racconta la spiritualità dei detenuti dietro le sbarre: dopo aver rinfrescato muri e infissi, si è passati, con la regia dell’architetto Marilena De Biase, ad allestire sulle pareti i pannelli realizzati dai reclusi allievi del liceo artistico che anno conseguito la maturità, ma anche ex detenuti, allievi di altre scuole d’arte e pittori con la collaborazione di un agente penitenziario. Il tema conduttore delle tele, ha illustrato Lucente, trae ispirazione dai fi lm “Nella città dell’inferno” (1959, regia di Renato Castellani con Anna Magnani e Giulietta Masina) e “Hellzapoppin” (“Scaturito dall’inferno”, 1949 regia di Henry G. Potter). Un percorso lungo le pareti del “corso Francia del Lorusso e Cutugno” che, attraverso l’arte a partire dall’”inferno” che porta a commettere un reato e alla carcerazione, conduce all’inizio di una nuova esistenza. I pannelli realizzati dai giovani artisti ristretti parlano della vita che scorre fuori dalle mura del carcere: un viaggio verso la libertà dipinto ad esempio in un pannello (nella foto in alto) in cui il volo delle api “simboleggia l’augurio di entrare a far parte di una società più aggregante, positiva e costruttiva”. “Con quest’opera che è anche restituzione sociale da parte dei detenuti e che speriamo quindi possa essere visibile al pubblico” conclude Pier Luigi Dovis, direttore della Caritas diocesana “oltre ad aver scoperto nuovi talenti, siamo riusciti unendo forze e competenze a contribuire a rendere possibile l’umanizzazione di un luogo di pena: l’arte e il colore aiutano chi è ‘dentro’ a guardare oltre le sbarre e a considerare che il carcere è solo un passaggio non tutta la vita futura”. Padova. Convegno: “Il carcere al tempo del Covid” di Mattia Accogli lamilano.it, 5 novembre 2021 Mercoledì 9 novembre dalle ore 17.00 alle ore 19.00, nella Sala Grande del Centro Universitario - via Zabarella 82 - avrà luogo l’evento intitolato “Il carcere al tempo del Covid”. L’iniziativa, che rientra nell’ambito degli incontri della Settimana della sociologia 2021 in programma a Padova dal 5 al 15 novembre, intende far dialogare diversi relatori del mondo accademico con rappresentanti degli enti locali e delle associazioni su alcuni temi riguardanti il mondo penitenziario. Anche il carcere infatti, nel corso dell’ultimo anno e mezzo, ha dovuto confrontarsi con la diffusione della pandemia da Coronavirus. Ciò è avvenuto, in una prima fase, chiudendosi al mondo esterno al fine di evitare il rischio contagio all’interno delle strutture penitenziarie che nella quasi totalità dei casi si trovavano in uno stato di drammatico sovraffollamento. Successivamente si sono alternate timide aperture e repentine chiusure, specialmente in quegli istituti dove si sono verificati dei pericolosi focolai. Oggi, la maggior parte della popolazione reclusa risulta essere vaccinata e le diverse attività che all’interno degli istituti venivano svolte sono tendenzialmente ovunque riprese, seppur con delle limitazioni. L’evento “Il carcere al tempo del Covid” affronterà queste questioni: l’evolversi della pandemia in carcere, i cambiamenti che ha comportato, la (nuova) quotidianità carcerario in uno stato di incertezza legato ad un rischio sempre presente. Introdurrà Francesca Vianello, sociologa dell’Università degli Studi di Padova e delegata della rettrice per il progetto “Università in carcere”. A seguire gli interventi di: Antonio Bincoletto, Garante delle persone private o limitate nella libertà del Comune di Padova, che ci riconsegnerà una fotografia sullo stato degli istituti di pena padovani; Giuseppe Mosconi, presidente dell’Associazione Antigone Veneto; Alessandro Maculan, sociologo dell’Università degli Studi di Padova, che racconteranno l’impatto della pandemia negli istituti di pena e in particolar modo su quelli del Veneto. Chiude, Jessica Lorenzon, dottoranda in Scienze Sociali, con la presentazione della ricerca condotta a Padova in collaborazione con la rete Cnupp (conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i Poli universitari penitenziari) sullo studio universitario in carcere e come questo è cambiato in periodo di Covid. “Il carcere al tempo del Covid” è un evento patrocinato dal Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (Fisppa) dell’Università degli Studi di Padova e realizzato in collaborazione, tra gli altri, con il Comune di Padova. Accesso libero. Per la tutela di tutte e tutti si chiederà di presentare il green pass all’ingresso. Avellino. Presentato il libro “Carcere, idee proposte e riflessioni” di Samuele Ciambriello irpinia24.it, 5 novembre 2021 Ieri, presso il Circolo della Stampa di Avellino, si è tenuta la presentazione del nuovo libro “Carcere, idee proposte e riflessioni” di Samuele Ciambriello, garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Il Presidente dell’Associazione La Mansarda, il Professor Ciambriello, dopo diversi anni, ha sentito l’esigenza di ‘scrivere di carcere’, di trattare del complesso sistema penitenziario, ma soprattutto delle esperienze di vita in esso annidate e di diritti negati, partendo da un’attenta analisi, attraverso attività di monitoraggio, osservazioni, colloqui, sopralluoghi, progetti: “C’è la necessità di passare dalla reclusione all’inclusione. Ho sempre pensato che siamo l’unico paese europeo in cui se uno compie piccoli o medi reati, la risposta è al singolare: la pena. Il libro presenta delle testimonianze e racconti di ergastolani, di detenuti politici e molto altro. Il Carcere stesso risulta essere assai complesso, purtroppo per la politica cinica, esso risulta essere una risposta semplice a bisogni di sicurezza - ha dichiarato Ciambriello. Qui racconto la mia esperienza dapprima sacerdotale e poi nelle vesti di un operatore privato sociale. Carcere è l’anagramma di cercare. Cercare per ricostruire, per ritrovarsi, per seguire una strada che è tracciata anche dalla Costituzione: assumersi le responsabilità, per trovare se stessi, rispettando i diritti delle persone. Nel testo, racconto come, nell’ epoca della globalizzazione, dell’indifferenza il carcere risulta essere lo specchio della nostra società”. All’evento presente anche Paolo Pastena, direttore della Casa Circondariale di Avellino che si è soffermato sulla questione droni, nelle ultime settimane, riscontrati nell’istituto: “Stiamo cercando tutte le contromisure possibili, sia per quanto riguarda la nostra attività all’ interno degli istituti, sia a livello dell’amministrazione penitenziaria che su scala nazionale sta pensando a delle misure. Si tratta di una problematica che non interessa solo Avellino, ma vari istituti in ambito nazionale. Stiamo cercando di adoperare tutte le contromisure possibili, sia per quanto riguarda la nostra attività all’interno dell’istituto, sia a livello di amministrazione penitenziaria per contrastare il volo di droni. Abbiamo tutti, nella mente, le notizie di Frosinone, a settembre, quando è stata introdotta un’arma all’interno del carcere”. “La questione non è di poco conto e l’amministrazione deve avere la massima attenzione in merito a questa problematica. In un caso, abbiamo ritrovato un drone con oggetti non consentiti e un quantitativo di sostanza stupefacente che è stato, ovviamente, sequestrato. Stiamo, monitorando con grandissima attenzione quello che sta succedendo. A breve, ci verranno fornite delle apposite strumentazioni. Il problema, ovviamente, non riguarda soltanto Avellino: le misure vanno intraprese a livello nazionale per capire anche a chi dare la priorità rispetto all’installazione di queste apparecchiature”, ha concluso Pastena. Le parole di Antonio Gramsci insegnano come essere liberi di Jhumpa Lahiri Il Domani, 5 novembre 2021 In occasione della laurea ad honorem ricevuta dall’Università di Bologna, Jhumpa Lahiri ha pronunciato una lectio magistralis su Antonio Gramsci traduttore. Nel testo la scrittrice e traduttrice si rispecchia nella figura poliedrica dell’autore. Quando sono a Roma e passo davanti al carcere di Regina Coeli a Trastevere, penso a Gramsci. Mi sono trovata più di una volta davanti alla sua ultima dimora nel cimitero protestante di Testaccio. Quando però mi hanno chiesto di parlare delle sue lettere, per celebrarne la nuova e definitiva edizione critica presso Einaudi, ero lontana da Roma, e insegnavo un corso di traduzione in remoto a un gruppo di studenti universitari a Princeton, nel New Jersey. Non stupirà che immergermi nella realtà quotidiana e nelle riflessioni di un uomo che è stato internamente esiliato e incarcerato per undici anni, separato dalla famiglia, dagli amici e dal mondo in generale per le sue convinzioni politiche, abbia cambiato la mia percezione dei mesi di restrizioni e interazioni umane limitate a causa della pandemia globale. Ma sono altri i motivi per cui una lettura scrupolosa e metodica delle lettere di Gramsci, per un periodo di due mesi, mi ha sorpreso. È stato solo grazie all’impegno con le sue lettere durante la pandemia che sono arrivata a considerarlo, e ora a venerarlo, come un’icona della traduzione. In una lettera del 19 dicembre 1926 dall’isola di Ustica Gramsci scriveva alla cognata Tania Schuct: “È stato questo il pezzo più brutto del viaggio di traduzione”. Fino a poco fa non sapevo che la parola traduzione, in italiano, avesse un secondo significato: è un termine burocratico che si riferisce al trasporto di persone sospettate di crimini o detenute. La scoperta di questo secondo significato mi ha sconcertata e stupita. Come potevo non saperlo, dopo il mio intenso studio dell’italiano per quasi un decennio e il mio rapporto con l’attività e l’insegnamento della traduzione? Ho cominciato a pensare sia ai prigionieri che al linguaggio in transito, sullo stesso spettro ontologico. Nella lettera del 19 dicembre, Gramsci racconta, minuziosamente, i suoi spostamenti da un luogo all’altro: una sequenza di manette, automobile dalla prigione al porto, barca, vaporetto, una serie di scale, cabina di terza classe, polsi legati a una catena che lega altri polsi, e una destinazione finale: la sua cella. È consapevole di ogni momento di transizione, di ogni cambiamento. Il ricordo di questi movimenti è ovviamente sottolineato dalla sua forzata immobilità. Osserva: “Non possiamo oltrepassare determinati limiti”. Il punto di tutto quel movimento (per i suoi rapitori) era, alla fine, la condizione del non-movimento, o del movimento vincolato e sorvegliato. Gramsci arrivò a Ustica, quindi, grazie a un viaggio di traduzione. Gli undici anni successivi sarebbero stati un viaggio di traduzione di un altro tipo. I dizionari e le grammatiche. Parte della realtà della prigionia di Gramsci consisteva in una continua richiesta, nelle lettere, di alcuni oggetti essenziali, tra cui vestiti, articoli per l’igiene personale e medicinali. Ma elementi essenziali per Gramsci erano anche i libri, sia italiani che in traduzione e, tra i libri, un flusso costante di dizionari e grammatiche straniere che rappresentavano il suo profondo rapporto con le altre lingue. Appena arrivato a Ustica, il 9 dicembre 1926, chiede “subito, se puoi” una grammatica tedesca e russa, e un dizionario di tedesco. Nel delineare la sua routine carceraria, indica come seconda priorità (la prima è mantenersi in buona salute) l’intenzione di studiare tedesco e russo “con metodo e continuità”. Il 19 dicembre chiede di nuovo a Tania la Berlitz tedesca e russa. Il 23 maggio ribadisce che gli studi linguistici restano il suo obiettivo principale. Chiede più dizionari, menzionando che uno è andato perduto. “Sono proprio deciso di fare dello studio delle lingue la mia occupazione predominante”. Nel dicembre del 1929, in uno dei passaggi più commoventi delle lettere, afferma che se il suo animo non si abbatte è a causa del linguaggio, perché lo studio del linguaggio è la sua salvezza: “Il mio stato d’animo è tale che se anche fossi condannato a morte, continuerei a essere tranquillo e anche la sera prima dell’esecuzione magari studierei una lezione di lingua cinese”. Matrimonio - La traduzione può essere intesa come un matrimonio tra testi. Gramsci si sposò letteralmente: in Russia, nel 1922, lo stesso anno in cui Mussolini saliva al potere, conobbe Giulia Appolonovna Schucht. Nata da genitori russi, Giulia aveva trascorso la sua infanzia in Svizzera e a Roma, ma era tornata a vivere in Russia quando aveva quasi vent’anni. Quando Gramsci andò a visitare Ivanov-Voznesensk come membro del Presidium dell’Internazionale comunista, lei gli fece da interprete. Insieme hanno lavorato alla traduzione di un romanzo di Bogdanov. Nel 1923 si sposarono. A quel punto la traduzione divenne una parte permanente della vita personale, delle relazioni familiari e del futuro di Gramsci. Doppia identità - Gramsci era e sarà sempre più di una cosa sola: sia sardo che italiano, sia politico che linguista. E, sebbene sia stato confinato per undici anni, rimaneva in costante comunicazione con gli altri. Come Primo Levi, Gramsci era una figura poliedrica. Eppure, il rovescio della medaglia di una identità doppia (o plurale) può essere anche una mancanza di identità. In una lunga lettera del 12 ottobre 1931, Gramsci parla a Tania della questione della lingua e della razza, e in particolare della condizione ebraica - sua suocera proveniva da una famiglia ebrea; le prime leggi razziali erano ancora lontane. “Una “razza” che ha dimenticato la sua lingua antica significa già che ha perduto la maggior parte dell’eredità del passato, della prima concezione del mondo che ha assorbito la cultura (con la lingua) di un popolo conquistatore: cosa significa dunque più “razza” in questo caso?”. Dichiara poi, nella stessa lettera, “io non ho nessuna razza”. Sebbene verso la fine della missiva concluda che la sua cultura è “fondamentalmente italiana” e che non si è mai sentito “dilaniato tra due mondi”, credo sia proprio la mancanza di radici precise, e di linguaggio, unita alla sua insaziabile sete per nuove lingue, a dare alla luce e a sostenere il Gramsci traduttore. Paternità - È soprattutto grazie alla lingua, sotto forma di lettere, che Gramsci è padre. Ha avuto pochi contatti con Delio, nato a Mosca, e non ha mai visto Giuliano. Vivevano in Russia e gli scrivevano in russo. È solo nella corrispondenza che condivide con loro ricordi e altri pezzi del suo passato. È solo nelle lettere che riesce a stabilire un legame con loro. Eppure, la lingua pone un’ulteriore barriera. Sia Giulia che Tania fungono da figure chiave, come traduttrici, in modo che Gramsci possa comunicare con i suoi figli. Il 26 marzo 1927 nota con orgoglio che Delio ha iniziato a parlare la lingua di sua madre, il russo, e osserva che conosce anche l’italiano e canta in francese senza confondersi. Un anno prima della fine della sua vita, il 5 novembre 1936, scrive di nuovo a Giulia sperando che possa tradurre le sue lettere ai figli, che non ha mai conosciuto, “per “tradurre” non letteralmente, ma secondo la loro mentalità, i miei bigliettini a loro, per aiutarmi a comprendere loro intimamente”. Per quanto amorevoli e persistenti siano le sue lettere ai suoi figli, il sentimento prevalente è di acuta frustrazione: si sente come un fantasma nelle loro vite. Il 14 dicembre 1931 confessa a Tania di temere che i suoi figli lo considerino un Olandese volante, quindi si domanda “Come potrebbe scrivere l’olandese volante?”. Un Olandese volante è una nave fantasma destinata a solcare i mari per sempre, a essere in eterno transito. Nell’identificarsi con questa immagine, Gramsci complica ulteriormente la questione dell’identità e, presagendo forse la propria fine, diventa veicolo oltre che soggetto della traduzione. Traduzione delle lettere - C’è un continuo bisogno di tradurre, per lo più dall’italiano al russo e viceversa, le lettere di Gramsci. Il 19 marzo 1927 chiede a Tania di chiedere a sua volta alla suocera di inviargli una lunga lettera o in italiano o in francese. Nello stesso messaggio accarezza l’idea di approfondire la sua tesi universitaria, uno studio di letteratura comparata, e usa il tedesco “für ewig” (per sempre) per descrivere le sue intenzioni. Questo è solo un esempio delle tante parole e frasi non italiane intrecciate nelle lettere, che devono essere tradotte per qualsiasi lettore che non conosca tutte le lingue che vi compaiono. Oltre alla serie di parole russe che affiorano, soprattutto nelle sue lettere ai figli, e ai termini sardi di cui scrive a sua madre e ad altri, mi sono imbattuta nelle parole inglesi “thermos” e “schooners”, in “mneme” (dal greco per memoria) e in “échaffaudage”, che significa impalcatura in francese. Leggendo le lettere ho imparato nuove parole italiane tra cui zufolare, un altro modo di dire fischiare, che Gramsci usa per descrivere il suono che idealmente si manifesterebbe se Giulio e Delio sapessero far saltare i sassi sull’acqua (18 maggio 1931). Traduzione nelle lettere - Sappiamo che, tra i quaderni scritti da Gramsci durante la prigionia, alcuni erano interamente dedicati alla traduzione. Ma Gramsci scrive spesso di parole e dei loro significati, cioè di problemi di traduzione, anche nelle lettere. Il 18 gennaio 1932, alla sorella Teresina, fa riferimento alla propria traduzione dal tedesco (“come esercizio”) delle fiabe dei Grimm, che produce “come un mio contributo allo sviluppo della fantasia dei piccoli”. Ci sono diversi elementi bilingui nelle lettere, diversi problemi di traslitterazione. Molte lettere a Delio e Giuliano sono firmate “papa” in caratteri cirillici. Il 20 maggio 1929 Gramsci firma una lettera a Delio “Toi papa”, che è una traslitterazione imperfetta dal russo tvoj papa, tuo padre. Differenza ed equivalenza - Gramsci, che attraverso le lettere medita sull’evoluzione misteriosa delle parole e dei loro significati, è spesso preoccupato di come si dicano le cose nelle altre lingue. Il 18 maggio 1931 troviamo una lunga riflessione sull’uso italiano di parole come felice e buono e bello. Lega queste espressioni alla cultura, al pio desiderio (o velleità), concludendo: “La vita reale non può mai essere concordata da suggerimenti ambientali o da formule, ma nasce da radici interiori”. La questione del diverso e dell’equivalenza linguistica è cruciale per qualsiasi traduttore. Cerchiamo l’equivalente sapendo bene che, data la differenza tra una lingua e l’altra, un vero equivalente non esiste. Dialetto - Le lettere contengono numerosi riferimenti e digressioni sul pensiero di Gramsci intorno alle questioni della lingua e del potere, in un’epoca in cui si decantava la lingua nazionale italiana. Ma il 17 novembre 1930 dice a Tatiana che persiste, e continua a esistere, una “doppia lingua”: la lingua del popolo contrapposta alla lingua dotta degli intellettuali. Questa lingua del popolo è il dialetto, in contrapposizione all’italiano “ufficiale”. Le lettere di Gramsci a sua madre sono piene di domande sulle espressioni in sardo. Il dialetto lo lega alla madre, alle sue origini e anche a un certo ottimismo. Il 15 dicembre 1930, in una lettera alla madre, osserva che son passati cinque anni da quando è stato imprigionato, e usa un’espressione sarda per descrivere la sua condizione: “Del resto non ho perduto il gusto della vita; tutto mi interessa ancora e sono sicuro che anche se non posso più “zaccurrare sa fae arrostia” tuttavia non proverei dispiacere a vedere e sentire gli altri a zaccurare”. Vuole dire: sgranocchiare le fave arrostite. Avanti e indietro - Possiamo pensare alla traduzione come un avanti e indietro e possiamo rilevarlo, in termini molto reali, nelle lettere che vengono spedite e arrivano, nei pacchi che vengono ricevuti o meno. È l’avanti e indietro del linguaggio attraverso il tempo e lo spazio a sostenere Gramsci. Il virus contagioso della cattiveria e dell’inimicizia sociale di Enzo Scandurra Il Manifesto, 5 novembre 2021 Un furore collettivo e una trasgressività conformista animano le piazze dove un tempo le persone si ritrovavano accomunate da passioni di cambiamento. Un altro virus si aggira per l’Europa, non meno socialmente pericoloso del Covid: è quello che potremmo chiamare dell’incattivimento sociale o inimicizia sociale che porta a vedere nell’altro il nemico da cui difendersi o da demolire. I due virus interagiscono l’uno con l’altro come parti di un sistema finalizzato ad un unico scopo finale: l’autodistruzione della specie. La manifestazione più evidente e drammatica dell’inimicizia sociale è la sindrome di accerchiamento che spinge ad un odio spietato e molecolare di ognuno contro tutti: il vicino di casa, il commerciante all’angolo della strada, l’immigrato, il medico, colui che professa semplicemente idee diverse dalle nostre. La sindrome da accerchiamento prende spesso anche la forma più estrema, come nel caso dei due giovani uccisi in auto perché sospettati dal proprietario di una villetta di essere potenziali rapinatori. Il virus si propaga velocemente, la sua diffusione avviene attraverso i mass media, i talk show televisivi, la pubblicità, giornalisti alla ricerca di gossip e, infine, per mezzo di una classe politica che vede nell’avversario solo un pericoloso nemico da distruggere. Gli esempi non mancano, anzi si moltiplicano quasi che il paese fosse diventato un’arena dove si svolgono combattimenti mortali, come nella serie televisiva Squid Game. Dove masse di diseredati lottano tra loro per conquistare un ricchissimo premio in denaro. Thomas Mann attraverso la descrizione della vita quotidiana di una famiglia borghese, i Buddenbrook, ci restituì l’immagine della dissoluzione della società borghese e dei suoi valori destinati inesorabilmente a sparire. Oggi ci vorrebbe un’analoga opera letteraria per descrivere la trasformazione antropologica di una famiglia degli anni Cinquanta, dei suoi valori, delle speranze e delle passioni politiche che l’animavano. Perché c’è stato un tempo, subito dopo la guerra e per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, in cui famiglie di tramvieri, ferrovieri, operai che con il loro lavoro e facendo grandi sacrifici, erano sorrette da una fede nel futuro e c’era un clima di convivenza pacifica cui contribuiva l’opera di assistenza del Partito comunista e del sindacato. Le sezioni di strada accoglievano chiunque si affacciasse alla loro porta, le discussioni politiche favorivano l’emancipazione dei singoli, una solidarietà universale tra lavoratori creava quella cornice di convivenza pacifica. Ora quelle famiglie senza più guida sono state catturate dalle lusinghe di una destra rancorosa: al momento del voto il figlio più piccolo non va alle urne, quello più grande forse sceglie 5S, la mamma vota Salvini e il vecchio padre, un tempo militante comunista, non lo dichiara, vergognandosene un po’. Un furore collettivo anima le piazze dove un tempo le persone si ritrovavano accomunate da passioni e sentimenti di cambiamento. Ognuno con le sue motivazioni personali come è dato osservare a proposito delle manifestazioni no-vax, no green-pass. Prevalgono individualismo, trasgressività conformista, edonismo permissivo, azioni fuori da ogni ideologia e da ogni finalità politica: rabbia, furore, risentimento, rancore, frustrazione. Le cause sono note ma spesso mal dibattute: la sfiducia nella classe politica tutta, l’impoverimento generale in un mondo dove la gente povera diventa sempre più povera e quella ricca sempre più ricca, la delusione per le aspettative della globalizzazione, salutata negli anni Novanta, anche dalla sinistra, come benefica e portatrice di un nuovo progresso, la disoccupazione, il cinismo di gruppi padronali che delocalizzano fabbriche in base ai costi della manodopera, l’informazione carente e contraddittoria sul Covid. Ne è testimone la bassa affluenza alle urne e la disaffezione, fattasi rancore, per tutta la sinistra. Sembra cadere anche il naturale sentimento di rispetto per gli anziani: la famosa metafora attribuita a Newton dove i giganti (i vecchi) hanno il compito di portare sulle loro spalle i nani (i giovani) ancora incapaci di muoversi autonomamente. Ora i giganti, umiliati e offesi, vagano smarriti privati di questo nobile ruolo e molti giovani, liberi da tutte le regole di convivenza, credono di acquisire prestigio attraverso gadget e oggetti e scambiano la felicità con il consumo. La parata del G20 a Roma è stata un ulteriore elemento di frustrazione: vedere la città paralizzata mentre file di suv blindati impazzavano per consentire ai Grandi della Terra di gettare monetine nella Fontana di Trevi. Parata smisurata se confrontata coi magri risultati ottenuti. Quant’è lontana questa manifestazione smodata e teatrale da quella silenziosa di Papa Francesco che, in mesta solitudine attraversava via del Corso o a quella dello stesso Francesco che, solitario, saliva le scale della Basilica di San Pietro per inginocchiarsi di fronte alla croce. Forse, di questi tempi, un po’ di umiltà e sobrietà farebbe bene anche alla sinistra. Ddl Zan, la resa dei conti: Letta resiste ma si spacca la minoranza di Daniela Preziosi Il Domani, 5 novembre 2021 Guidati da Marcucci, aPalazzo Madama sono una manciata i senatori Pd che contestano il leader sul fallimento della legge contro l’omofobia e la transfobia. Ma l’incognita vera è quanti saranno quelli che sul voto del Colle non seguiranno le indicazioni Pd. Base riformista si divide. La presidente dei senatori Simona Malpezzi viene “rifiduciata” dopo le critiche sulla gestione del gruppo. “La battaglia è stata combattuta bene”, per Cirinnà, madre delle unioni civili, “il Pd ha rafforzato la sua identità, costruendo consenso all’interno e all’esterno grazie all’interlocuzione costante con il movimento Lgbtq+”. “Il gruppo è unito”, “compatto in vista dei prossimi impegni”. Alla fine dell’assemblea convocata all’alba e a porte blindate, sbarrate anche ai collaboratori e ai funzionari nell’ingenua speranza che gli acuti restino custoditi dentro la sala Zuccari, la maggioranza dei senatori del Pd la racconta come la storia dei musicanti che vanno a suonare e finiscono suonati. Tradotto: la riunione (“tardiva” secondo Valeria Fedeli, una delle più scettiche sul ddl Zan e sulla tattica scelta per portarlo a casa) nasce di fatto per tentare il processo a Enrico Letta, il segretario della linea della fermezza sulla legge abbattuta dal voto segreto. Il leader è attaccato per interposta Simona Malpezzi, la capogruppo che, pur provenendo dalla corrente Base riformista, è accusata - apertamente solo da una manciata di suoi compagni - di essere troppo ligia alla linea del Nazareno. Ma Letta è un segretario saldamente in sella, per ora. Supermedia Youtrend danno il Pd come primo partito, con il 20,1 per cento, vetta mai toccata dopo il 2018. E sarà Letta, almeno fino a contrordine, a fare le liste delle future politiche. Quindi la conclusione dell’assemblea è, secondo la versione riferita a più voci, che gli accusatori restano isolati. La corrente Base riformista si spacca e la maggioranza del gruppo si schiera con il segretario e la presidente. In effetti Malpezzi alla fine della sua relazione chiede “il rinnovo della fiducia”. Riceverà un caldo applauso di conferma. Tutto bene; se non fosse che nella storia del Pd ci sono applausi, persino ovazioni un minuto prima di infidi agguati. Del resto la vera conta è quella di cui non si parla: di chi sarà fedele alle indicazioni del leader al momento delle votazioni per il Colle. C’è un’altra conta che non si fa: i numeri sulla Zan dicono che di quest’assemblea fanno parte alcuni franchi tiratori. Quattro o cinque, a seconda del pallottoliere. Ma su 28 interventi, alcuni molto critici, non arriva nessun coming out. Si parla poco anche di Italia viva, accusata di voltafaccia dal segretario. “Iv ci ha traditi”, sentenzia Bruno Astorre. Ma Malpezzi assicura che il voto sulla Zan “non segna il perimetro delle alleanze”. Malpezzi e compagni respingono le accuse di mancanza di autonomia del gruppo, difendono la linea tenuta, quella di essere (alla fine per la verità) disponibili alle modifiche ma non a “votare un testo discriminatorio”, come quelli che proponevano Forza Italia e Iv, “la destra non ha mai voluto mediare altrimenti avrebbe tolto la tagliola”. Risponde al “nervoso” che ha provocato a qualcuno la presenza del deputato Alessandro Zan al senato nelle ultime fasi concitate del testo. Andrea Marcucci e Fedeli parlano di “commissariamento”, la replica è che Zan “aveva la funzione di garantire al movimento Lgbt che non ci sarebbe stata nessuna svendita”. Il capofila dei critici è Marcucci, l’ex capogruppo rimosso da Letta, che accusa di “gestione fallimentare”. Critici anche Salvatore Margiotta, Luciano D’Alfonso e Tommaso Cerno, con toni più soft, Stefano Collina e Alan Ferrari, fra quelli che parlano. Anche Tommaso Cerno Vincenzo D’Arienzo “si interroga” ma poi nella chat dei senatori parla di “ribrezzo” per chi lo colloca “tra i contrari” alla linea Letta. Fedeli avverte che “nelle piazze c’è sempre del populismo”, “Siamo stati popolari, non populisti” risponde Franco Mirabelli, capogruppo in commissione giustizia. “La battaglia è stata combattuta bene”, per Monica Cirinnà, madre delle unioni civili e ufficiale di collegamento con il mondo raimbow, “il Pd ha rafforzato la sua identità, costruendo consenso all’interno e all’esterno. La nostra fermezza è stata possibile dall’interlocuzione costante con il movimento Lgbtq+”. Cannabis e carcere: perché sono due mondi da tenere separati di Maria Petruccelli megliolegale.it, 5 novembre 2021 L’obiettivo del quesito del Referendum Cannabis è duplice: intervenire sul piano delle sanzioni amministrative e su quello di rilevanza penale. Con riferimento a quest’ultimo, l’abrogazione delle pene detentive merita una particolare attenzione, in quanto si tratta di una misura che avrebbe anche un significativo impatto sul sistema giustizia e quello carcerario. Procediamo per ordine, partendo appunto dall’articolo 73, co 4 che prevede per i reati legati alla cannabis l’applicazione di pene ridotte, punendo attività quali la coltivazione, produzione, cessione, ecc, con la reclusione da due a sei anni e la multa da euro 5.164 a euro 77.468. Un esito positivo del referendum porterebbe all’eliminazione delle pene detentive restando applicabile solo quella pecuniaria, dunque la multa. Perché si tratta di una modifica incisiva? La maggior parte delle persone che finiscono in carcere per reati connessi alla droga sono piccoli spacciatori, spesso con problemi di tossicodipendenza e il carcere non rappresenta sicuramente l’ambiente più adeguato per il recupero di soggetti con tali problematiche, che anzi spesso rischiano di essere aggravate. Ma oltre a questo aspetto, che riguarda direttamente le persone, c’è un’altra considerazione da tener presente, ovvero quella relativa all’impatto che l’abrogazione delle pene detentive avrebbe sul sistema giustizia e carcerario. Infatti, le operazioni di polizia finalizzate al contrasto dei derivati della cannabis sono state 12.066, facendo della cannabis lo stupefacente più sequestrato nel nostro Paese. Essa rappresenta da sola circa la metà di tutta la droga individuata dalle Forze di Polizia nel 2020. D’altro lato, 1 detenuto su 3 è in carcere per reati correlati alla droga, la maggior parte legati alla cannabis. Si tratta di 18.697 persone, pari al 35% del totale dei presenti. Dunque, eliminando la pena detentiva per i reati relativi alla cannabis si avrebbe la riduzione di un terzo della popolazione carceraria, con evidenti benefici sul problema del sovraffollamento delle carceri. Legalizzare significa anche concentrare le energie sulla prevenzione, permettendo una adeguata informazione sulla sostanza e sull’abuso, disincentivandone l’uso e allo stesso tempo favorendone un consumo consapevole e sicuro al fine di prevenire circuiti di tossicodipendenza e spaccio illegale gestito dalla criminalità organizzata. Maria Ressa: “Vinto il Nobel vincerò le fake news” di Carlo Pizzati La Repubblica, 5 novembre 2021 Più volte minacciata di morte per le sue inchieste giornalistiche, la giornalista filippina adesso ha un solo obiettivo: “Combattere il virus della menzogna per difendere la democrazia con i fatti”. Caporedattrice della Cnn e fondatrice di Rappler, il sito di notizie più importante delle Filippine, a 58 anni Maria Ressa ha vinto il Nobel per la Pace assieme al collega russo Dmitry Muratov, direttore della Novaya Gazeta. Mentre di Muratov si è parlato molto in Italia, si è sentita meno la voce di questa giornalista, unica donna a ricevere l’ambito premio nel 2021 e anche primo Nobel per le Filippine, a dispetto del cognome italiano. A dieci anni Maria lasciò Manila e fu adottata nel New Jersey dal secondo marito della madre, l’italo-americano Peter Ressa, la cui famiglia è originaria di Nusco, Avellino. Tornò poi a lavorare come reporter nelle Filippine, affrontando per anni minacce di morte e di stupro, oltre a dieci cause per diffamazione e frode fiscale che lei ha sempre sostenuto fossero intimidazioni del governo Duterte per le sue inchieste su violenze e corruzione. Quand’è che si capisce che il gioco è troppo pericoloso? E perché il coraggio di affrontare il potere che vuole silenziare i media spesso non è apprezzato dal pubblico come base del buon giornalismo? “La verità è che non lo so. Temo di essere come una rana nell’acqua bollente. Ogni minaccia è come un taglietto. Se sanguini da ognuno, prima o poi morirai dissanguata. A Rappler abbiamo aumentato le misure di sicurezza, insegnando ai giornalisti come andare subito live online se qualcuno li minaccia. Per non aver paura si deve essere preparati al peggio. Facciamo esercitazioni in redazione. Se sei in una zona di guerra, dove tutti sparano, sai dove non devi andare. Ma quando invece sei qui, il problema è che non sai da che parte arriva il pericolo. Quanto alla sua seconda domanda: l’inquinamento velenoso attraverso i social media è ciò che rende accettabili gli abusi di potere agli occhi delle persone manipolate insidiosamente dagli stessi social media”. Lei ha chiesto a Mark Zuckerberg di prendersi la responsabilità di quanto pubblica. In che modo vuole che Facebook diventi un guardiano delle notizie? “Dopo i disastri delle presidenziali Usa nel 2020 e le violenze a Washington del 6 gennaio 2021, Facebook attivò un’innovazione chiamata News ecosystem quality, o Neq, che nella timeline dava priorità alle notizie provenienti dalle testate giornalistiche più affidabili. Così, gli utenti videro più spesso i post di New York Times, Cnn o della National Public Radio. Poi Facebook notò che il coinvolgimento degli utenti era calato e che quindi stavano perdendo soldi. E abbassarono l’influenza del Neq. Ecco il problema fondamentale: Silicon Valley tratta bugie e fatti allo stesso modo. Per loro sono solo dati, non fa differenza. Quando, nelle varie testate giornalistiche, eravamo noi i guardiani dell’informazione, pagavamo delle conseguenze se diffondevamo bugie. Ora invece, i social media danno priorità alla diffusione di bugie avvolte nella rabbia e nell’odio. Perché fanno più traffico. Queste tecno-società americane fanno più soldi quanto più il coinvolgimento è alto: ed ecco perché le bugie si propagano con maggiore rapidità rispetto ai fatti. Cosa potrebbe fare Facebook? Riattivare il Neq nei Paesi del Sud globale. Anche voi in Italia dovreste chiederglielo”. E i media? Quali strategie potrebbero usare per uscire da questa situazione? “Primo: dobbiamo raccontare di più su come la tecnologia ci manipola insidiosamente per ottenere ricavi. Secondo: i giornalisti devono costruirsi la propria tecnologia e smettere di regalare contenuti alle piattaforme tecnologiche. Terzo: bisogna creare comunità di utenti. Più lunga sarà la fase in cui le piattaforme tecnologiche americane continueranno la lucrosa manipolazione quotidiana, più difficile sarà salvare il mondo dall’abisso. Penso sia stata questa l’intenzione del comitato per il Nobel: segnalare che i leader autoritari ci hanno portato sull’orlo di un altro ciclo di fascismo e totalitarismo. Pensateci: Hitler fu eletto democraticamente, usando radio e cinema. Internet è molto più insidiosa. Dobbiamo mettere dei paracarri nella strada che abbiamo da percorrere”. Lei dice che un algoritmo ci sta radicalizzando. In che senso? “I dati ci dicono che i social dividono e radicalizzano. Su Facebook riceviamo suggerimenti su come far crescere il nostro network secondo il concetto di “amici degli amici”. In realtà siamo sempre più divisi dagli altri. Nelle elezioni filippine del 2016, non si dibatteva sulla veridicità o meno dei fatti. Online, si vedeva solo che se eri pro-Duterte, ti spostavi più a destra, se eri anti-Duterte ti spostavi più a sinistra. Ora la forbice si è allargata fino a fare a pezzi la sfera pubblica, ma già con l’11 settembre avevamo capito che la radicalizzazione accade su pressione degli amici. E i social lavorano prorio facendo pressione sugli individui tramite i gruppi”. Quant’è radicalizzato l’elettorato filippino? “Nel 2016 Duterte vinse con il 39%. Le prossime elezioni filippine, maggio 2022, sono importanti per il mondo perché in gioco ci sarà la battaglia per i fatti. Non esistono elezioni integre senza l’integrità dei fatti. Avremo dieci candidati. Uno è Ferdinand Marcos Jr., detto Bong Bong. Dopo 35 anni che la famiglia Marcos è stata messa in fuga dal movimento Potere al Popolo, un Marcos si ricandida alla presidenza. Nel 2019, avevamo smascherato il network di disinformazione che Bong Bong aveva innescato nelle vice-presidenziali del 2015, che perse di pochissimo. Ma senza limitazioni all’uso di certa tecnologia, la manipolazione e l’infrastruttura dei Marcos per ricostruire la propria immagine, con la complicità della Cina, continueranno. Dunque le nostre elezioni saranno una battaglia per i fatti. E anche un referendum su come Duterte ha gestito la pandemia. Malissimo. Lo abbiamo visto ovunque: l’uomo forte non è il miglior manager durante una pandemia”. Che errori abbiamo commesso noi giornalisti nel consentire la manipolazione dei social da parte di politici come Duterte, Putin, Trump, Modi, Bolsonaro, Salvini? E come si può ricostruire il ruolo del giornalismo? “Non siamo stati capaci di capire in anticipo quanto la tecnologia avrebbe impattato sulle strutture del potere e del governo, manipolando menti ed emozioni. Come ha detto E.O. Wilson: la crisi peggiore che affrontiamo è la convivenza delle nostre emozioni paleolitiche con istituzioni medievali e tecnologie divine. I governi avrebbero dovuto legiferare in difesa degli utenti. Ma ciò che governi e giornalisti hanno sottovalutato è il virus della menzogna: una bomba atomica è esplosa nel nostro ecosistema di informazione. Ora dobbiamo unirci ai giovani per ripararlo. Dobbiamo formare chi farà il nuovo giornalismo, per trasmettere standard ed etica, e dominare la tecnologia. Qual è la differenza tra un giornalista e un content creator, un creatore di contenuti? Il coraggio. Bisogna avere tanto coraggio per andare da qualcuno davvero potente che ti può rendere difficile la vita e chiedergli delle risposte. Non è una cosa da tutti. Ti devi addestrare per farlo. Se muore il giornalismo indipendente, muore la democrazia”. Cina. Prossima alla morte l’attivista di Wuhan in carcere perché indagò sul Covid-19 amnesty.it, 5 novembre 2021 Amnesty International ha sollecitato le autorità cinesi a rilasciare l’attivista Zhang Zhan, condannata a quattro anni di carcere nel dicembre 2020 per aver indagato sullo scoppio della pandemia da Covid-19 nella città di Wuhan. Zhan è in sciopero della fame dal giugno 2020. Nei mesi successivi è stata alimentata a forza e tenuta incatenata affinché non potesse rimuovere la sonda per l’alimentazione. Al processo, non potendo stare in piedi per la debolezza, è arrivata su una sedia a rotelle. Il 31 luglio, a causa della gravità delle sue condizioni di salute, è stata ricoverata in ospedale ma poi rimandata in carcere, dove ha proseguito la protesta. Rischia la morte se non riceverà cure mediche urgenti. Ex avvocata poi cittadina-giornalista, nel febbraio 2020 Zhan si era recata a Wuhan per indagare sullo scoppio della pandemia. Aveva poi denunciato sui social media le autorità che avevano arrestato reporter indipendenti e avevano intimidito le famiglie dei pazienti contagiati affinché rimanessero in silenzio. Scomparsa a Wuhan nel maggio 2020, era riapparsa in carcere il mese dopo a Shanghai, incriminata per aver “seminato discordia e causato problemi”. Dalla fine del processo, Zhan non può parlare con l’avvocato né incontrare i familiari, con i quali le sono concessi rari contatti telefonici sotto sorveglianza. Il 30 ottobre suo fratello ha scritto su Twitter: “Non credo che vivrà molto a lungo. Se non ce la farà a superare l’inverno, spero che il mondo la ricorderà per ciò che è stata”. In Libia l’occidente sta scrivendo il terzo capitolo del suo declino di Guido Rampoldi Il Domani, 5 novembre 2021 Dopo il disastro siriano e la rotta afghana i cosiddetti occidentali rischiano di scrivere in Libia il terzo capitolo del loro, e nostro, sommesso declino. Nel paese che dieci anni fa la Nato travolse ora scorrazzano un centinaio di milizie locali e 20mila guerrieri stranieri, tra mercenari a disposizione del generale Haftar (russi, sudanesi, chadiani) e militari turchi con ascari siriani al seguito che difendono il governo di Tripoli. Europei e americani puntano le loro carte residue sulle elezioni parlamentari e presidenziali, al momento previste dall’Onu per il 24 dicembre. Ma l’esito potrebbe essere catastrofico. Per consolidare il cessate il fuoco, sloggiare gli invasori e riunificare una Libia di fatto spartita, europei e americani puntano le loro carte residue sulle elezioni parlamentari e presidenziali, al momento previste dall’Onu per il 24 dicembre. Se la soluzione elettorale riuscisse a trasformare i conflitti armati in conflitti politici risolvibili con gli strumenti offerti da una democrazia parlamentare, la Libia pacificata potrebbe rapidamente raddoppiare la produzione di petrolio (dagli attuali 1,2 a 2 milioni di barili al giorno) e così finanziare una ricostruzione che non solo soddisferebbe i voraci appetiti degli attori internazionali richiamati dalle più grandi riserve di idrocarburi del continente, ma addirittura assorbirebbe come manodopera tutti i migranti africani che attualmente premono ai confini dell’Europa. Un gigantesco affare per tutti. Il problema con questo tipo di scorciatoie è che se mancano le condizioni minime perché le consultazioni siano davvero libere e corrette, il risultato è un boomerang: milizie e cosche entrano in parlamento travestite da partiti e acquisiscono ulteriore potere attraverso la legittimazione e l’occupazione dello stato. In Libia l’esito potrebbe essere catastrofico. Signore della guerra dei territori orientali, il generale Haftar otterrebbe un ottimo risultato nelle presidenziali, se come sembra decidesse di correre (i candidati dovranno dichiararsi entro novembre). Haftar gode infatti di vantaggi decisivi sui concorrenti: le sue truppe controllerebbero i seggi, gang criminali e salafite coordinate da suo figlio Saddam eliminerebbero gli oppositori. Se un mezzo plebiscito permettesse a lui o a un suo fiduciario di vincere, l’ovest insorgerebbe; se non fosse sufficiente, Haftar resterebbe asserragliato nell’est e rifiuterebbe di porre la sua milizia sotto il comando del presidente eletto. Ad aggiungere motivi di pessimismo è l’evidente impossibilità di rimpatriare i combattenti stranieri. Putin è disponibile a “ritirare” i suoi mercenari dalla linea del fronte, non dalla Libia, come ha messo in chiaro affondando una risoluzione in Consiglio di sicurezza proposta da Londra. Anche Erdogan può fare spallucce: decidesse pure di rimpatriare i suoi siriani, potrebbe mantenere soldati e droni turchi in Libia, in questo pienamente autorizzato dall’accordo strategico firmato due anni fa da Ankara e dal governo di Tripoli, all’epoca riconosciuto dall’Onu come unico rappresentante legittimo della nazione. Per garantire alle elezioni un minimo di credibilità occorrerebbe tanto un controllo dei seggi affidato a osservatori Onu quanto l’esclusione di candidati segnalati per crimini di guerra dalla Corte penale internazionale oppure citati nel recente rapporto (per gran parte ancora segreto) redatto dagli investigatori delle Nazioni Unite. Ma Haftar e consimili reagirebbero male e boicotterebbero le elezioni. Così l’unica preclusione posta finora da alcune capitali riguarda il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, una candidatura gradita a russi e turchi (Saif è indagato dalla Corte penale internazionale, ma altro, e altamente simbolico, è il motivo che lo rende inaccettabile: dopo l’Afghanistan rioccupato dai Talebani, una Libia che a dieci anni dalla guerra Nato torna a un Gheddafi, è prospettiva sufficiente a dare la misura dell’inettitudine occidentale). Va da sé che un parlamento infestato da trafficanti dell’ovest e assassini seriali dell’est non avrebbe la credibilità e lo slancio per riunificare una Libia oggi tripartita (a est Haftar, a ovest il governo di Tripoli, a sud i Tuareg e i Tebu). Al più riuscirebbe a mettere in scena l’ennesima zombie-democracy, genere assai apprezzato dalla nostra stampa quando lo zombie figura come “filo-occidentale” e garantisce un caos controllato che non ostacola i nostri affari (in quel caso il caos è detto “stabilità”). Furbamente equidistanti - Eppure anche i nostri affari in Libia non saranno mai al sicuro fin quando la Libia resterà la grande balena morente che attira nel Mediterraneo squali di ogni dimensione, ben più determinati e aggressivi di quanto non sia stata l’Italia finora. Abbiamo subìto nel 2011 con il governo Berlusconi la guerra lanciata in Libia da Sarkozy. Abbiamo appoggiato il governo di Tripoli riconosciuto dall’Onu, ma quando le bande del generale Haftar non si sono avvicinate troppo ai tubi dell’Eni - con il secondo governo Conte nel 2019 - siamo diventati furbamente equidistanti, col risultato di non risultare credibili né presso gli uni né presso gli altri. Non abbiamo fiatato quando Haftar ha bombardato a ridosso dell’ospedale militare italiano a Misurata. Non abbiamo tentato di tagliare la strada ai turchi quando, profittando della nostra equidistanza, hanno contrattato con Tripoli l’aiuto militare necessario per fermare l’offensiva di Haftar. Questo senza contare il discredito che ci è piovuto addosso a causa dei misfatti di una nostra invenzione, la Guardia costiera libica, e dei lager in cui segrega illegalmente i migranti. Con il governo Draghi la prospettiva è mutata, cerchiamo di coinvolgere gli svogliati americani e di convincere la Ue che la Libia è anche un suo problema: per questo siamo nella troika che tenta di concordare una prospettiva europea. L’idea è lodevole ma degli altri due partner della troika, il nuovo governo tedesco deve trovare ancora un suo profilo, la Francia pretende un ruolo di capofila non giustificato dai suoi trascorsi (guidò la Nato alla guerra, sostenne Haftar perfino con forniture militari). Il 12 novembre la troika presiederà con l’Onu la Conferenza di Parigi, un grande raduno di premier e capi di stato che sgombererà la strada alle elezioni libiche, ripete il governo Macron con la sicurezza di quei giocatori di poker tanto più assertivi quanto più a rischio di dover ammettere il bluff. Quanto al resto dell’Europa, resta per gran parte indifferente. Gli stati orientali straparlano di grandi muraglie che li proteggano dai profughi afghani, e intanto incassano l’impunità per il nuovo metodo varato sul campo da alcune polizie di frontiera: respingono a manganellate, talvolta dopo averli rapinati, i “richiedenti asilo”, ma quando non si ha a disposizione una “Guardia costiera libica” bisogna arrangiarsi in proprio. I manganellatori spesso hanno passamontagna calati sul viso, come per esempio gli agenti croati che appaiono nel video diffuso dal settimanale Spiegel, in una plastica rappresentazione dello stato di diritto “mascherato” che la crisi dei migranti rischia di diffondere in Europa. In un contesto così compromesso sarebbe ingenuo attendersi miracoli dal governo italiano. Ma almeno, che ci si chiarisca le idee su un paio di punti. Crimini che risultano inaccettabili per le nostre coscienze quando le vittime sono occidentali sono altrettanto inaccettabili per le popolazioni arabe e musulmane quando le vittime sono loro. In altre parole, se in nome della “stabilità” si tentasse di appioppare ai libici come presidente un gaglioffo, questo finirebbe per produrre l’effetto opposto a quello desiderato: aggraverebbe l’instabilità. Inoltre: nelle relazioni internazionali la furbizia paga, ma fino a un certo punto. Bene o male siamo riusciti a mantenere in Libia le posizioni di partenza, ma dobbiamo vedercela con una decina di grandi predatori (russi, egiziani, turchi, sauditi, emiratini, francesi, qatarini). In una partita sempre più intrecciata al Grande gioco che si sta sviluppando nel Mediterraneo, occorreranno qualità che finora ci sono mancate: coerenza, visione strategica, audacia. Afghanistan. Col regime talebano scomparsi attiviste e giornalisti di Giuliano Battiston Il Manifesto, 5 novembre 2021 Chi ancora lavora in tv ripete solo slogan, nessuna informazione. Chi si batteva per i diritti si nasconde. O viene ritrovata senza vita: a Mazar-e-Sharif uccisa la giovane Foruzan Safi, guidò la protesta del 6 settembre. Non c’è più spazio per la società civile. Guarda cosa è successo a Foruzan Safi”. Fardin Nawrazi faceva il giornalista. Poi sono arrivati i Talebani e ha cambiato vita. “Guardami: ho cambiato perfino il modo di vestire. La cravatta non la metto più. E il cappello tradizionale non lo mettevo mai, prima. Sono un’altra persona ora”. Di esporsi pubblicamente con un giornale straniero non ha paura. “I Talebani sanno cosa ho fatto, chi sono. Ma mi faccio vedere meno in giro. E soprattutto non faccio più il mio mestiere, che amavo”. Ha lavorato per anni come giornalista freelance, per radio, siti, giornali, tv locali e non solo, nella provincia di Balkh, di cui Mazar-e-Sharif è capoluogo. Era il responsabile per l’intera area settentrionale del Paese dell’Aija, l’Afghanistan Independent Journalists Association, l’associazione dei giornalisti indipendenti. “Noi freelance siamo stati fregati, qui a Mazar: sono stati evacuati i pezzi grossi, i direttori delle testate, quelli con gli agganci giusti, noi rimaniamo qui. C’è chi ha portato via parenti e amici, anziché i colleghi, come avrebbe dovuto. Abbiamo scritto lettere su lettere, inviato email a chiunque, all’estero, ma nessuno ci ha dato aiuto, nessuno ci dà retta. Forse qualcuno può aiutarci, dall’Italia?”. Qui, continua Nawrazi, “è pericoloso per ognuno di noi, uomini e donne”. E non si può più lavorare, a meno di accettare le condizioni imposte dall’Emirato islamico. “I talebani pretendono di vedere e controllare ogni singola notizia prima della pubblicazione. Non c’è più informazione, non c’è più libertà d’espressione”, sostiene Nawrazi. “Slogan su slogan, nient’altro che slogan, ecco cosa facciano sulla rete televisiva nazionale”. A parlare è un altro giornalista. Anche lui ci invita a guardare il suo vestito. Anche lui ha cambiato stile. Ma al contrario di Nawrazi è rimasto al suo posto, alla tv nazionale. “Prima c’era qualche forma di indipendenza, di libertà, c’erano programmi diversi, più critici. Ora siamo sotto la responsabilità del ministero della Cultura. Non facciamo che ripetere slogan, solo slogan”, spiega mentre camminiamo nel caotico mercato cittadino. Il suo nome preferisce non darlo. “Le notizie vere non si danno più”. Le informazioni viaggiano sui canali privati. Tra i telefoni degli attivisti e delle attiviste rimasti a Mazar-e-Sharif. C’è chi praticamente non esce di casa dalla presa del potere dei Talebani, a metà agosto. Chi ha preferito trasferirsi a Kabul, dove non è conosciuto o conosciuta. E poi c’è chi sparisce per giorni. Per essere ritrovata morta. È il caso di Foruzan Safi, quasi trent’anni. Attivista, piuttosto conosciuta in città per il suo impegno, con particolare attenzione ai diritti delle donne, oltre che per le sue lezioni universitarie e per aver sostenuto la manifestazione che si è tenuta a Mazar-e-Sharif il 6 settembre scorso e alcune successive, online. I Talebani allora hanno lasciato che la manifestazione arrivasse dalla sede del Consiglio provinciale al santuario di Hazrat Ali, in pieno centro. Poi hanno seguito alcuni manifestanti. Dei trentacinque fermati, cinque sono rimasti in carcere. Uno di loro per 14 giorni. “I primi sei senza acqua né cibo. E tante botte”. La notizia della sparizione di Foruzan Safi circolava da giorni in città. “La mamma di Foruzan mi ha chiamato: era preoccupata perché la figlia non rientrava a casa da due giorni”, ci racconta un’altra attivista. Ventisei anni, è tra quante preferiscono non farsi vedere in giro, da ben due mesi e mezzo. Accetta di incontrarci, ma in un luogo sicuro, nell’appartamento in cui vive con la famiglia. “Sono un’attivista per i diritti delle donne. O almeno lo ero. Andavo nei distretti rurali a spiegare perché bisogna combattere per i diritti delle donne, contro la violenza sulle donne”. Abituata a esporsi, lo ha fatto anche pochi giorni prima che i Talebani prendessero il potere. Alla madre di Foruzan Safi, che abbiamo contattato ma che ha preferito non incontrarci, questa giovane attivista non ha saputo dare notizie. Il corpo della figlia è stato ritrovato due giorni fa, pare insieme ad altri tre corpi di donne, in un’area periferica della città. “Chi è stato a ucciderla? Lo sappiamo tutti, ma nessuno può dirlo pubblicamente. Altrimenti fa la stessa fine”. Per gli attivisti di Mazar-e-Sharif, i responsabili sono chiari, anche se questi omicidi mirati - non gli unici nel Paese - non sono rivendicati. Servono a mandare segnali inequivocabili. Come la prigione per gli organizzatori della protesta pubblica di settembre. “Dopo di allora, nessun’altra protesta. Certo ci sono quelle online, ma è un’altra cosa”, continua l’attivista 26enne, che preferisce rimanere anonima. Etiopia. Nel Tigray sette milioni di persone allo stremo: serve un cessate il fuoco di Paolo Pezzati* Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2021 È una crisi drammatica e assieme dimenticata, quella che da un anno esatto sta attraversando la regione etiope del Tigray. A dodici mesi dallo scoppio del conflitto infatti quasi sette milioni di persone sono allo stremo, mentre gli aiuti umanitari - ancora insufficienti in termini finanziari - faticano a raggiungere le comunità e i villaggi più colpiti. La situazione più grave in questo momento è nelle regioni di Amhara e Afar, dove la popolazione deve affrontare l’impatto combinato della violenza e di ripetute violazioni dei diritti umani su civili inermi, della pandemia e degli sciami di locuste, che da anni infestano questa parte dell’Africa: i raccolti sono andati distrutti e migliaia di famiglie sono in condizioni disperate senza cibo, acqua pulita e medicine. Cresce inoltre il numero di persone colpite da un conflitto che non accenna a fermarsi ma anzi si sta intensificando nel nord dell’Etiopia. La conseguenza diretta è che in questo momento 400mila persone vivono in una condizione di carestia, mentre quasi due milioni di sfollati ad Amhara e Afar hanno urgente bisogno di aiuti. L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, già lo scorso settembre aveva denunciato “molteplici e gravi violazioni dei diritti umani commesse da tutte le parti in conflitto nel Tigray”, avvertendo inoltre del rischio che il conflitto potesse estendersi all’intero Corno d’Africa. Gli operatori di Oxfam al lavoro nel paese hanno raccolto nelle ultime settimane storie strazianti, che stanno diventando una tragica quotidianità. Famiglie strappate dalle loro case, costrette a fuggire per salvarsi la vita e a trascorrere giorni e giorni nascoste in mezzo al fango su terreni accidentati senza acqua, cibo o riparo. Migliaia di agricoltori per l’inasprirsi degli scontri sono stati costretti ad abbandonare i campi e quindi non potranno contare sui prossimi raccolti, da cui dipende la sopravvivenza di un’ampia fascia della popolazione. In questo tragico quadro, resiste la solidarietà del popolo etiope; tantissimi sfollati infatti in questo momento sono accolti nelle comunità e nei villaggi meno colpiti dalla guerra, dove si divide il poco che c’è. Mentre la popolazione etiope con grande spirito di abnegazione cerca di resistere e rialzare la testa, quello che manca, ancora una volta, è l’impegno dei leader mondiali e dei grandi donatori. Mancano all’appello 255 milioni di dollari per far fronte ai crescenti bisogni di una popolazione allo stremo, manca un’efficace pressione sulle parti in conflitto per arrivare alla pace. Senza essi, le organizzazioni come Oxfam al lavoro nel paese continueranno ad affrontare immani difficoltà a fronteggiare un’emergenza che, oltre che umanitaria, rischia di portare il paese sull’orlo del collasso economico. Oxfam, con i partner locali, dallo scorso novembre ha già soccorso quasi 85mila persone portando cibo, acqua pulita, servizi igienico-sanitari con l’obiettivo di raggiungerne 400mila, ma ora serve un deciso impegno da parte della comunità internazionale. Per questo ha lanciato una petizione per fare pressione sulle parti in conflitto e arrivare ad un immediato cessate il fuoco. *Policy Advisor Oxfam Venezuela. “Crimini contro l’umanità”, la Corte penale internazionale apre un fascicolo di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 5 novembre 2021 Un’inchiesta penale per crimini contro l’umanità. Alla fine, dopo cinque giorni di verifiche sul campo, con raccolta di testimonianze, resoconti, dossier e denunce, il procuratore della Corte penale internazionale de l’Aja, Karim Khan, ha deciso di aprire un fascicolo per un reato grave nei confronti delle autorità venezuelane. Il paese andino è il primo di tutta la Regione a finire nel mirino della Cpi. Non era scontato. Già prima di Khan c’erano stati altri esponenti di punta dell’Onu, l’Alto Commissario per i Diritti Umani Michelle Bachelet in testa, a scrivere relazioni sulla realtà venezuelana con severe critiche al regime per le durissime repressioni nei confronti dell’opposizione e di quanti, per due anni di seguito, avevano invaso le strade chiedendo cambiamento e libertà. Maduro le aveva respinte con sdegno accusando l’ex presidente del Cile di parzialità. Adesso, dopo aver accolto il magistrato della Corte Internazionale e averlo messo in condizione di compiere il suo lavoro, si trova costretto ad accettare il verdetto, sebbene a malincuore. “La Procura - ha detto il presidente nel corso di una trasmissione tv - ha deciso di passare alla fase successiva. Non condividiamo la scelta, ma la rispettiamo”. Nella nota della Corte de l’Aja si spiega che si è conclusa l’istruttoria sul processo avviato nel 2018 e si avverte che in questa fase non è stato individuato “nessun sospetto né alcun bersaglio”. L’indagine, secondo Khan, “adesso punta a determinare la verità e a verificare se ci sono elementi per sporgere denuncia contro persone e strutture”. Un modo di annunciare la formalizzazione di un reato, il crimine contro l’umanità, senza riferimenti individuali. Si tratta di un concreto passo avanti nel contrastato rapporto tra organismi giudiziari internazionali e l’inquilino di Palazzo Miraflores. Qualcosa che dà speranza alle famiglie delle centinaia di vittime di detenzioni illegali, ai parenti dei tanti morti in esecuzioni extragiudiziarie e di chi è rimasto ferito o ucciso nelle rivolte del 2017 e 2018, subito dopo il dissolvimento per decreto dell’Assemblea nazionale eletta democraticamente e dominata dall’opposizione. Il cui leader Juan Guaidò ha commentato: “Le famiglie delle vittime potranno rivendicare il diritto alla giustizia finora loro negato”. “Chiedo a tutti di lasciarci lavorare”, ha replicato Khan, “non prenderò in considerazione alcun tentativo di politicizzare l’indipendenza del nostro ufficio”. Maduro ha dovuto accettare l’attività del pubblico ministero, che fa parte della dirigenza britannica di turno nella Corte, perché ha bisogno di aprirsi nuovi canali internazionali. Le sanzioni e l’isolamento a cui è sottoposto il suo regime, assieme alla pandemia, hanno reso durissima la vita in Venezuela. In vista delle elezioni regionali e comunali del 21 novembre a cui parteciperà per la prima volta anche l’opposizione deve dimostrare di essere pronto ad un confronto democratico, trasparente e anche di essere disposto a perdere.