Carceri: tante rassicurazioni, pochi fatti di Valter Vecellio lindro.it, 4 novembre 2021 Delle carceri, delle condizioni in cui sono costretti a vivere detenuti e nel complesso la popolazione carceraria, non si parla; come se non esistessero. È come quei residui bellici che ‘riposano’ a pochi metri sottoterra, e basta un niente per farli esplodere, anche se sono lì da anni. Delle carceri, della situazione in cui versano, delle condizioni in cui sono costretti a vivere detenuti e nel complesso la popolazione carceraria, non si parla; come se non esistessero. Ma una quantità di ‘segni’ qui e là rivelano che il tutto si poggia su un equilibrio più che precario. La questione dei suicidi, per esempio: il 25 ottobre scorso un detenuto italiano di 36 anni si toglie la vita nella Casa Circondariale di Pavia. Il 30 ottobre si suicida un internato nella Casa di Reclusione di Isili; il 31 ottobre è un detenuto nella Casa Circondariale di Monza. Da inizio anno sale a 47 il numero dei detenuti suicidi (età media 40 anni) e a 109 il totale delle persone recluse decedute per suicidio, malattia o “cause da accertare” (età media 46 anni). L’anno scorso i suicidi sono stati 62. L’associazione “Ristretti Orizzonti” ventun anni fa ha iniziato a costruire il dossier “Morire di carcere” e ha “registrato” 3.288 morti (età media delle vittime 45 anni), delle quali 1.215 ascrivibili a suicidio (età media delle vittime 41 anni). I sindacati della polizia penitenziaria denunciano l’esclusione di risorse per le carceri e il Corpo di polizia penitenziaria: da una parte, sostengono, cresce il numero del sovraffollamento, dall’altra manca un decreto carcere più volte reclamato anche dai sindacati di polizia penitenziaria. Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, riferendosi alla manovra di bilancio approvata dal governo e che sta per approdare alle Camere, denuncia l’esclusione di risorse per le carceri e il Corpo di polizia penitenziaria: in particolare, niente è previsto per i detenuti affetti da patologie psichiatriche, nessuna risorsa viene stanziata per le infrastrutture e il lavoro carcerario, nulla di nulla viene appostato per l’ordinamento, gli organici e gli equipaggiamenti della Polizia penitenziaria. “Quanto si sta perpetrando sembra davvero inverosimile”, sottolinea De Fazio, “non solo in relazione all’emergenza carceraria tuttora in atto e dopo i ripetuti ed eclatanti episodi di cronaca, giunti sino alla sparatoria di Frosinone, ma anche in relazione alle parole pronunciate dallo stesso presidente del Consiglio, Mario Draghi, durante la replica alla discussione generale sulla fiducia alla Camera dei Deputati, laddove ha tra l’altro sottolineato che non deve essere trascurata la condizione di tutti coloro che lavorano e vivono nelle carceri. Parole, però, che sembrano destinate a rimanere clamorosamente tali”. I sindacati della polizia penitenziaria ricordano le promesse e le assicurazioni date dal ministro della Giustizia Marta Cartabia e dal sottosegretario delegato Francesco Paolo Sisto nella recente riunione al ministero di Giustizia. In quella occasione si è parlato di medici del Corpo, assunzioni straordinarie, stanziamenti per moderne tecnologie ed equipaggiamenti. “Invece niente di niente. Considerato lo stato comatoso delle carceri e l’inadeguatezza degli organici del Corpo di polizia penitenziaria quantificata dallo stesso Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in 17mila donne e uomini mancanti, auspichiamo che nei passaggi parlamentari si ponga efficace rimedio a omissioni che condurrebbero il sistema penitenziario al totale disfacimento, sulla pelle di operatori e detenuti. Non escludiamo, peraltro, nessuna forma di mobilitazione al fine di sensibilizzare sul tema l’opinione pubblica e, soprattutto, quella politica che, evidentemente, finge di accendere i riflettori sulle carceri solo in occasione di fatti eclatanti, per spegnerli e voltarsi dall’altra parte immediatamente dopo”. Ritorna d’attualità la questione del sovraffollamento carcerario. Paradigmatico di una generale situazione la situazione nel carcere napoletano di Poggioreale. Il Sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe fa sapere che è “una pentola a pressione che mette a serio rischio la sicurezza stessa del penitenziario ed ogni ipotesi di attività trattamentale finalizzata al recupero dei detenuti”. Conferma Samuele Ciambrello, garante campano dei detenuti: “È vero, Poggioreale è una polveriera a miccia corta”. Secondo i dati della relazione annuale del 2020 del Garante regionale nella sola Poggioreale si sono registrati 323 atti di autolesionismo, 250 scioperi della fame e/ o sete, 467 infrazioni disciplinari, 33 tentativi di suicidio, due suicidi, otto decessi di morte naturale: “Purtroppo”, dice Ciambriello, “il populismo penale si coniuga con il populismo politico che non ha sosta nemmeno nel corso della pandemia. Nel carcere di Poggioreale e più in generale in Campania ci sono 625 detenuti di fuori regione di cui 62 stranieri su un totale di 6429 detenuti. Questa prassi non solo, contribuisce al sovraffollamento delle celle, ma viola il principio di territorialità della pena. Il sovraffollamento è, anche, sinonimo di un eccessivo ricorso alla custodia cautelare in carcere che dovrebbe costituire una scelta di extrema ratio”. Per quanto riguarda il primo semestre del 2021 si contano 152 atti di autolesionismo, 1 decesso per cause naturali ed 1 suicidio, 13 tentativi di suicidio sventati dalla Polizia Penitenziaria e 119 colluttazioni. Sottolinea Ciambriello: “Non sono bastati i timidissimi provvedimenti deflattivi con i decreti legge durante la pandemia, che hanno prodotto numeri esigui di persone uscite dalle carceri. Occorre che il governo e il Parlamento facciano di più, un provvedimento serio e di portata nazionale, un piccolo indulto. Credo che il sovraffollamento sia solo una delle mille sfaccettature relative alla qualità della vita e della pena”. Servono più educatori, psicologi, psichiatri, attività scolastiche-trattamentali. Nella sola Poggioreale, su diciannove educatori previsti ne sono presenti nove, e solo due psichiatri a fronte di cinque come dovrebbe essere. Il fatto è finora non è stata varata nessuna misura urgente, magari tramite un decreto carcere, che risolva il sovraffollamento estendendo dei benefici, la custodia cautelare come extrema ratio, il discorso dei detenuti con gravi problemi psichici e le persone ristrette per pene lievi da uno a tre anni. Contro l’emergenza carceri il ministro Cartabia, ha firmato il decreto di costituzione di una Commissione presieduta da Marco Ruotolo, professore ordinario di Diritto Costituzionale Università Roma tre, per “l’innovazione del sistema penitenziario”; i lavori si devono chiudere entro il 31 dicembre 2021. Non c’è che augurarsi che non abbia il destino di altre commissioni di precedenti governi: tempi lunghi, e come risultato un avvilente nulla di fatto. Giustizia minorile e Conferenza Volontariato rinnovano accordo servizi esecuzione penale esterna gnewsonline.it, 4 novembre 2021 Valorizzare e qualificare ulteriormente la presenza del volontariato nelle attività della giustizia minorile e di comunità, promuovendo nuovi percorsi di integrazione con gli Uffici di esecuzione penale esterna per adulti e con i Servizi della giustizia minorile. Questo l’obiettivo dell’accordo di collaborazione triennale firmato il 3 novembre 2021 alla presenza della ministra della Giustizia Marta Cartabia, da Gemma Tuccillo, capo del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità (DGMC), e Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (CNGV). La fondamentale interazione fra il settore dell’esecuzione penale esterna della giustizia minorile e il volontariato, già consolidata grazie all’accordo triennale sottoscritto nel 2017, con il nuovo protocollo (appena siglato) si rafforza, valorizzando e qualificando ulteriormente la presenza del volontariato nelle articolazioni territoriali del Dipartimento. L’accordo prevede, fra l’altro, che la CNGV si impegni a: costituire una banca dati delle agenzie di volontariato territoriali che operano nel settore dell’inclusione e del reinserimento sociale; favorire la stipula di convenzioni per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità e la partecipazione dei volontari alle attività degli sportelli MAP - Messa Alla Prova, presenti nei Tribunali e nelle Procure; promuovere, fra gli altri, programmi di educazione alla legalità e alla solidarietà, realizzati da soggetti minori e adulti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, e percorsi di formazione culturale, professionale e orientamento al lavoro. La DGMC si impegna a fornire alla CNGV tutte le informazioni utili alla attività dei volontari; ad agevolarne l’accesso presso gli Uffici di esecuzione penale esterna e i servizi minorili; a prevedere che le attività di volontariato concordate con la CNGV siano rappresentate nei documenti di programmazione annuale predisposti dagli UEPE e dai CGM. DAP e associazione Atena insieme per la salute delle donne nelle carceri ansa.it, 4 novembre 2021 Sottoscritto oggi un protocollo d’intesa. Divise nella vita, ma unite nella prevenzione delle malattie e nella ricerca del proprio benessere psicofisico. A tutte le donne presenti negli istituti penitenziari - alle poliziotte che prestano servizio e alle detenute che scontano la loro pena - è rivolto il protocollo d’intesa fra Atena Donna e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, sottoscritto dalla Presidente della onlus, Carla Vittoria Maira, e dal Provveditore regionale di Lazio, Abruzzo, Molise e Campania, Carmelo Cantone. Il progetto #Liberalamente prevede l’organizzazione di una serie di incontri di volontariato sanitario da tenersi mensilmente all’interno degli istituti e delle sezioni femminili delle case circondariali e di reclusione e destinati, appunto, a tutte le donne presenti nelle strutture delle quattro regioni. Medici e specialisti affronteranno con loro, di volta in volta, temi riguardanti la prevenzione e i trattamenti di varie patologie femminili e, in generale, percorsi di attenzione per favorire il benessere personale e la salute. Si partirà dagli istituti del Lazio dove, da metà novembre, partiranno gli incontri mensili con lo psicoterapeuta Salvo Noè. “Parte un progetto pensato esclusivamente al femminile - sottolinea Bernardo Petralia, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - e che all’interno degli istituti penitenziari si rivolgerà complessivamente a circa 6.500 donne, corrispondenti al 4% della popolazione detenuta e al 12% del personale di Polizia Penitenziaria. È un percorso fortemente sostenuto dalla Ministra Marta Cartabia e che mette al centro, senza barriere, la ricerca del benessere di tutte le donne, che ogni giorno si trovano a coabitare all’interno delle nostre carceri”. “Durante il complesso periodo che abbiamo vissuto con il lockdown, perdendo la nostra quotidianità - dice Carla Vittoria Maira, presidente della onlus Atena Donna - abbiamo percepito la limitazione dello spazio e della libertà e questo ci ha fatto riflettere su quanto queste sensazioni possano essere esasperate per le donne che vivono quotidianamente questa condizione. Quindi abbiamo pensato di sostenerle con questo progetto realizzato in collaborazione con il DAP. Anche ispirate dalle parole di Papa Francesco, quando sostiene che bisogna fare in modo che la pena non comprometta il diritto alla speranza, e che mentre si rimedia agli sbagli del passato, non si può cancellare la speranza nel futuro”. Carceri, il caso dei suicidi nella Polizia Penitenziaria spaziopubblico.fpcgil.it, 4 novembre 2021 Un viaggio nelle ragioni dietro un gesto irreversibile che investe gli agenti di polizia penitenziaria. Le condizioni del carcere influiscono? E con il Covid come sono andate le cose? Ne abbiamo parlato con l’Associazione Cerchio Blu. Sessanta poliziotti penitenziari dal 2013 a oggi si sono tolti la vita, oltre trecentocinquanta se allarghiamo lo sguardo a tutte le altre forze di polizia. Sono numeri che emergono dai dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, incrociati con il monitoraggio condotto dall’Osservatorio nazionale suicidi nelle Forze dell’ordine di Cerchio Blu, un progetto di analisi e elaborazione di dati attraverso un programma dedicato alla ricerca e al monitoraggio dei suicidi tra gli appartenenti alle forze dell’Ordine italiane. Per capire la portata tragica di questo fenomeno, per cogliere il nesso tra carcere e suicidio, abbiamo parlato con Graziano Lori, presidente dell’associazione Cerchio Blu. Le cause di suicidio: inclinazione alla malattia mentale oppure forte stress - “I fattori che possono influire nella ‘scelta’ di togliersi la vita - racconta Lori - si dividono in predisponenti o precipitanti. I primi possono essere, ad esempio, le malattie mentali ma anche, come dimostrano alcuni studi, una certa inclinazione. I secondi, quelli precipitanti, sono invece contestualizzabili in momenti della vita e che sono connessi, ad esempio, con traumi di varia natura oppure legati all’attività professionale”. Ed è qui che emerge con forza l’unicità del lavoro di poliziotto penitenziario: “Chi svolge attività nelle forze dell’ordine è sottoposto a forti livelli di stress - osserva Lori -, che può essere di tipo organizzativo ma anche traumatico, ovvero durante l’attività professionale puoi essere vittima diretta o indiretta di un trauma”. Se immaginiamo il lavoro nelle sezioni carcerarie possiamo facilmente capire quanto questo trauma sia la quotidianità: “Sedare o trovarsi in una rissa, vedere morire o addirittura rischiare di morire, sono eventi traumatici che possono influire sul benessere di una persona”. L’85% dei suicidi avviene con l’arma di ordinanza. Si fa formazione tecnica ma non psicologica ed emotiva. Se questi sono gli agenti, endogeni ed esogeni, di una scelta irreversibile, lo strumento attraverso il quale si compie quest’atto è da analizzare: l’arma di ordinanza. “L’arma è uno strumento di lavoro - fa sapere Lori - ma se viene fornita una formazione tecnica nel suo utilizzo non altrettanto viene presa in considerazione la formazione psicologica ed emotiva, ovvero quella che sottende il rapporto tra lavoratore e arma”. I dati, infatti, ci dicono, in questo caso, che in circa l’85% dei casi il suicidio si fa con l’arma di ordinanza, con lo strumento di lavoro, e in larga parte nel luogo di lavoro, ovvero in carcere. Il Covid ha giocato un ruolo nella piaga dei suicidi? Il Covid, la costrizione negli spazi legata al lockdown, quanto ha influito nella piaga dei suicidi tra i poliziotti penitenziari? Secondo Lori dati certi ancora non se ne hanno ma alla luce di una sua empirica valutazione osserva: “Non credo che il periodo pandemico abbia influito in negativo. Penso che le forze di polizia tutte si siano sentite coinvolte nella gestione della fase pandemica e un lavoratore soddisfatto del proprio lavoro allontana le fonti di stress che potrebbero colpirlo. Ed è quello che credo si avvenuto”, conclude Lori. Presunzione innocenza. Csm a Cartabia: ok ma ci sono criticità rainews.it, 4 novembre 2021 Passa a larga maggioranza al Csm, con 2 soli voti contrari e tre astensioni, il parere chiesto dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia sullo schema di decreto legislativo sulla presunzione di innocenza. Il documento esprime “apprezzamento per la trasposizione positiva” di questo principio, ma evidenzia anche “alcune criticità tecniche”, come sintetizza la relatrice Loredana Micciché, togata di Magistratura Indipendente. A partire dal “rischio che il procedimento di correzione previsto per eliminare i riferimenti alla colpevolezza aggravi eccessivamente gli uffici giudiziari”. Di Matteo: con presunzione innocenza bavaglio a pm “Ci avviamo a una situazione nella quale fino alla sentenza definitiva i processi in tv li possono fare solo gli imputati e i parenti degli imputati mentre nessuna notizia potrà essere data dai procuratori e dalle forze dell’ordine”. Lo ha detto il togato indipendente del Csm Nino Di Matteo, nel corso del dibattito in plenum sul parere, chiesto dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, elaborato dalla Sesta Commissione di Palazzo dei Marescialli sul decreto legislativo sulla presunzione di innocenza. “Possono informare soltanto le parti private, i parenti di Riina o Provenzano su quello che secondo loro è emerso dalle indagini, non lo potrà fare più il questore, il carabiniere o il pm? Io - ha spiegato Di Matteo - non lo voto questo parere, perché non muove le critiche necessarie in una direzione così importante che conduce a una sorta di silenzio pubblico, prima della sentenza definitiva. Questa direttiva porta a una svolta illiberale, è un bavaglio, e non voto un parere che rinuncia a muovere critiche ed anzi plaude alla svolta restrittiva”. Reynders: “Bene le riforme sulla giustizia, ma ora vediamo se funzionano” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 4 novembre 2021 Intervista al commissario europeo alla giustizia, Didier Reynders: “La rivolta della Polonia? Tutte le strade restano aperte. Il nostro fine non è sanzionare, ma ottenere che Varsavia rispetti il principio di indipendenza dei giudici”. “Siamo davvero soddisfatti che malgrado le difficoltà politiche alle quali abbiamo assistito, l’Italia abbia dimostrato la volontà di avanzare sulle riforme della giustizia richieste. Ma ora bisogna che l’ambizione dimostrata duri nel tempo e che siano rispettate le scadenze fissate nell’ambito del Pnrr”. A dirlo, in una lunga intervista concessa al Dubbio, è il commissario europeo alla giustizia, Didier Reynders, in visita a Roma per due giorni nell’ambito delle iniziative legate alla pubblicazione, lo scorso luglio, del Rapporto annuale sullo Stato di diritto nell’Ue. Oggi il Commissario incontrerà la ministra della Giustizia Marta Cartabia per fare il punto su questa stagione di riforme dopo aver accolto ieri, presso la sede della Rappresentanza della Commissione Ue in Italia, la presidente del Consiglio Nazionale Forense, Maria Masi, e la consigliera Cnf a capo della delegazione italiana al CCBE (Consiglio degli Ordini Forensi Europei), Francesca Sorbi, che Reynders ha voluto incontrare privatamente per raccogliere i dubbi e le aspettative dell’avvocatura. A seguire, nel pomeriggio di ieri, anche un incontro congiunto con alcuni esponenti dell’Unione delle Camere Penali Italiane (Ucpi) guidati dalla Vice Presidente Paola Rubini e con una rappresentanza dell’Unione delle Camere Civili guidata dal Presidente Antonio de Notaristefani. Il dialogo con l’avvocatura si è incentrato sull’interesse della Commissione europea a verificare di persona quali siano le criticità relative alla efficienza del processo in relazione alla sfida della digitalizzazione della giustizia e all’utilizzo degli strumenti per implementare le misure connesse al Pnrr, con un approccio equilibrato anche al fine di consentire alla Commissione di verificare che gli investimenti siano corretti e coerenti con standard elevati di tutela dei diritti fondamentali. Centrali, nel discorso introduttivo di Reynders, anche la riforma del processo penale promosso dalla ministra Cartabia, le condizioni di detenzione nel nostro paese, e le criticità relative al processo civile. Si tratta infatti di elementi tra loro connessi, ha spiegato Reynders, il cui funzionamento è utile, e anzi fondamentale, alla promozione dei diritti all’interno dell’Unione Europea. La Commissione è soddisfatta delle riforme italiane in tema di Giustizia? Siamo felici che l’Italia abbia dimostrato un impegno politico netto, chiaro. Abbiamo accolto con soddisfazione la volontà di avanzare nelle riforme. Ma un conto sono le riforme in via astratta, un altro la loro realizzazione pratica. Ora bisogna che questa ambizione dimostrata duri nel tempo e che si rispettino le scadenze e le condizioni fissate nell’ambito del Pnrr. In particolare, a proposito dell’impegno preso sulla durata dei processi, è fondamentale che si abbia la possibilità di monitorare e verificare in tutti i tribunali italiani l’efficacia delle misure introdotte. E, soprattutto, è necessario che questo effetto sia il medesimo ovunque: se sussisteranno delle differenze tra le diverse realtà italiane - ad esempio tra Roma, Milano, e Napoli - bisognerà intervenire sulle singole situazioni di criticità. Insomma, bisogna che la volontà dimostrata sia mantenuta, e soprattutto bisogna evitare che le discussioni politiche riducano le aspirazioni che sottendono alle condizioni imposte dall’Unione Europea. Commissario Reynders, lasciamo per un attimo l’Italia. Al momento lei sta guidando le complesse negoziazioni con la Polonia in merito all’erogazione dei fondi europei vincolati al rispetto dello Stato di diritto. Le procedure al momento sono bloccate, e la Corte di giustizia dell’Ue ha imposto una multa giornaliera a Varsavia perché non ha rispettato le sue decisioni. La Commissione intende andare fino in fondo, attivando il meccanismo di condizionalità previsto dal regolamento sui fondi? Useremo tutti gli strumenti a nostra disposizione. La Commissione si è rivolta alla Corte di Giustizia europea per una serie di questioni che riguardano la Polonia e per chiedere una condanna finanziaria perché a nostro parere Varsavia non rispetta le decisioni della Corte stessa. Continueremo in questa direzione in merito al pronunciamento della Corte Costituzionale polacca sul primato del diritto europeo: si tratta di un dossier ancora aperto che sarà presentato alla Commissione affinché decida come muoversi. C’è la possibilità di andare di nuovo davanti alla Corte Europea, oppure di rivolgersi al Consiglio Ue, che è l’organo deputato a decidere sul meccanismo della condizionalità. Per ora abbiamo preparato delle lettere per chiedere chiarimenti, ciò che spero è che nelle prossime settimane tutti gli elementi siano sul tavolo della Commissione affinché decida. A proposito dei fondi europei, come ho spiegato più volte, abbiamo fissato delle condizioni molto strette, anche per l’Italia. Per la Polonia vale lo stesso: chiediamo che mostri rispetto per le decisioni della Corte di Giustizia, che sopprima le camere disciplinari per i giudici, che fermi i procedimenti in corso e reintegri i giudici che sono stati già sanzionati. Per il momento abbiamo ricevuto dichiarazioni positive in tal senso, ma non un impegno concreto. Perciò il dossier è ancora aperto. Il nostro fine non è sanzionare, ma ottenere che la Polonia rispetti il principio di indipendenza della giurisdizione. Ecco il vero problema: è diritto degli Stati membri dissentire dalle decisioni della Commissione, ma la Corte è la più alta giurisdizione europea, e la Polonia deve rispettarla. Dunque la via del dialogo è ancora aperta? A fine novembre sarò a Varsavia per verificare di persona la situazione. Per ora è stato molto difficile anche incontrare il ministro della Giustizia, Zbigniew Ziobro, che non si è mai presentato ad alcuna riunione tra guardasigilli. Ritiene che il ruolo dell’Unione europea, sul tema dei diritti e dei valori democratici, debba essere rafforzato? Bisogna innanzitutto distinguere tra due principi fondanti dell’Unione: il primato del diritto europeo sulla legislazione nazionale, sancito nei Trattati sottoscritti da tutti i paesi membri; e il valore vincolante delle decisioni assunte dalla Corte di Giustizia. Si tratta di principi che generano problemi in diversi paesi, come dimostra il caso della Germania al quale pure abbiamo risposto prontamente. Ma c’è una differenza sostanziale tra il caso polacco e quello tedesco: in Germania, come in altri paesi, le “proteste” sono state poste in essere da giurisdizioni indipendenti. Mentre la Polonia mette in discussione i Trattati stessi, come mai è avvenuto, attraverso una Corte Costituzionale che noi non riteniamo essere indipendente. Esistono delle evidenti irregolarità, certificate anche dalla Cedu. Non a caso, la Rete europea dei Consigli di Giustizia ha di recente deciso di espellere il Consiglio nazionale della magistratura polacco: vuol dire che gli stessi magistrati riconoscono un difetto di indipendenza. È di stamattina (ieri, ndr), la notizia che il consigliere del Csm e presidente della Rete Europea, Filippo Donati, abbia ricevuto minacce e intimidazioni in seguito a questa decisione... Non mi sorprende. Come ho sottolineato nel rapporto annuale sullo Stato di diritto nell’Ue, esiste un problema di sicurezza per i giornalisti, ma anche per i politici e per i giudici. Sappiamo, insomma, che la responsabilità politica prevede dei rischi. E la decisione della Rete europea dei Consigli di Giustizia, in particolare, dimostra che serve un maggiore sforzo per promuovere la cultura dello Stato di diritto. Al di là delle questioni tecniche, l’esercizio che io tento di mettere in pratica e che richiedo tanto alla società civile quanto alle istituzioni, è di promuovere i principi e i valori dell’Unione. Lo stesso concetto di Stato di diritto risulta astratto per la maggior parte dei cittadini, perciò dobbiamo spiegar loro come questi principi si traducono nella vita quotidiana. La Carta dei diritti fondamentali garantisce a ogni cittadino l’accesso a una giustizia indipendente. E a una giustizia di qualità, aggiungiamo noi. Diversamente, se si subiscono discriminazioni, per esempio per via del proprio orientamento sessuale o se si è penalizzati in qualunque modo, non si potrà contare sul potere giudiziario per ottenere tutela. Per concludere, ritiene che il caso della Polonia abbia prodotto una frattura insanabile in tema di diritti e garanzie? Se non avessimo reagito, avremmo corso certamente questo rischio. Bisogna far comprendere che la nostra unica pretesa è il rispetto e la difesa dei diritti dei cittadini polacchi. Business intercettazioni, oggi risponde la Cartabia di Paolo Comi Il Riformista, 4 novembre 2021 Molte società si sono tuffate in questo settore. Gli affidamenti avvengono senza gara: nessun bando nazionale, né limite di spesa. La singola forza di polizia fa la scelta in autonomia. Oggi, forse, si capirà quali sono gli intendimenti del governo per mettere fine una volta per tutte al far west delle intercettazioni. Alle 15 in Senato è in programma il question time con l’intervento della ministra della Giustizia Marta Cartabia. Fra i temi all’ordine del giorno vi è quanto evidenziato da parte del Copasir nelle scorse settimane dopo aver letto la relazione della Sezione centrale per il controllo sui contratti secretati della Corte dei conti. Fra gli aspetti più controversi messi in luce dall’Autorità di controllo presieduta dal senatore Adolfo Urso (Fd’I) vi erano proprio le spese sostenute dalle Procure per le diverse attività di intercettazione. Spese che sfuggono a qualsiasi controllo preventivo di legittimità dei contratti. Lo scorso anno, ad esempio, erano stati registrati alla Corte dei Conti solo quattro contratti di noleggio per sistemi di intercettazioni. E tutti relativi ad un’unica Procura sulle 140 presenti nel territorio nazionale. Una Procura, il nome è coperto dal segreto, per altro molto piccola e periferica. E questo pur a fronte della “ponderosa attività delle Procure” svolta mediante il ricorso alle intercettazioni. La ministra Cartabia era stata ascolta dal Copasir ed aveva illustrato le modifiche introdotte dalla Riforma Orlando della giustizia del 2017 con la previsione che le tariffe per i servizi erogati dai fornitori privati fossero determinate da decreti ministeriali. Con un decreto legislativo del 2018 le spese di intercettazione erano state inserite tra le spese di giustizia disciplinate dal testo unico del 2002. Le toghe si erano rivolte per dei chiarimenti interpretativi alla Corte di Cassazione che aveva stabilito che i costi per le intercettazioni rientrassero fra le spese di giustizia, non soggette dunque a controllo. Questo significa che le attività di intercettazione sono affidate a un soggetto privato con un conferimento d’incarico da parte del pm nell’ambito di uno specifico procedimento e il relativo costo è considerato come una spesa di giustizia. La ministra aveva evidenziato che tale impostazione aveva come conseguenza che il provvedimento di affidamento dell’incarico non dovesse più sottostare all’obbligo di controllo della Corte dei conti. Una impostazione, però, in contrasto con le norme europee una direttiva del 2011. La Commissione europea ha sul punto messo in mora l’Italia perché non ha ottemperato “agli obblighi basati sull’assimilazione dei contratti per le intercettazioni a transazioni commerciali”. E sempre la ministra non aveva escluso la richiesta di un’interpretazione ufficiale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, assicurando un’opera di monitoraggio e di interlocuzione con le Procure per giungere ad una armonizzazione delle tariffe. Il tariffario proposto è da più parti considerato troppo rigido, ponendo problemi nei casi in cui fissa tariffe inferiori alla media. Le apparecchiature per le intercettazioni, e i vari software spia, vedasi il terribile trojan, sono di proprietà di aziende esterne alla pubblica amministrazione. Il business è facilmente immaginabile, considerato il numero esponenziale di intercettazioni telefoniche e ambientali che vengono annualmente effettuate in Italia. Si parla di centinaia di milioni di euro l’anno. Molte società con il fiuto per gli affari si sono letteralmente “tuffate” in questo settore. Anche perché gli affidamenti, come detto, avvengono tutti senza gara. Non esiste, per essere chiari, un’unica società che offre le apparecchiature all’Autorità giudiziaria. Ogni Procura è autonoma e paga a “piè di lista” le fattura del noleggio degli apparati. Nessun bando nazionale, nessuna gara d’appalto, nessun limite di spesa. Ma solo l’affidamento diretto da parte della singola forza di polizia che “sceglie” l’azienda che dovrà fornirgli gli apparecchi per effettuare le intercettazioni. Le conseguenze di questa deregulation sono ben note. Senza andare molto lontano, è sufficiente ricordare cosa è accaduto con il Palamaragate dove i vertici della Rcs, la società milanese che fornì al Gico della guardia di finanza il trojan sono tutti indagati in frode in pubbliche forniture: secondo le accuse, avevano addirittura un server “parallelo” dove far transitare gli ascolti. Alla faccia della riservatezza. Partiti accecati dall’ideologia, hanno dimenticato che la sicurezza è prevenzione di Giacomo Di Gennaro* Il Riformista, 4 novembre 2021 Sulla morte di Tullio Pagliaro e Giuseppe Fusella, scambiati per ladri e uccisi a colpi di pistola a Ercolano, si discuterà e si confronteranno i sostenitori dell’evento intenzionale o quelli dell’imputabilità al caso. Come se la vita fosse una lotteria e il caso ne costituisse una parte rilevante nei fenomeni umani e sociali. Proprio la pandemia, per i fautori di tali tesi, potrebbe essere usata per dimostrare che alcune catastrofi non posso essere previste e che molte storie individuali e collettive sono attraversate dall’imponderabile per cui, quando l’esito è nefasto, le traiettorie appaiono inevitabili. Ma è davvero così? Com’è possibile che più ci serviamo dell’intelligenza artificiale, delle nuove tecnologie, di apparati sofisticati di controllo e maggiori appaiono le condizioni che configurano la forza maggiore del caso? In realtà basterebbe ammettere che impariamo molto poco dagli eventi e che all’aumento dei rischi si deve rispondere con un aumento della prevenzione. Nel nostro Paese, infatti, a differenza di altri, il ceto politico non è abituato a ricorrere alla valutazione dell’impatto che nuove politiche pubbliche suscitano rispetto alle attese iniziali. È così per il reddito di cittadinanza, per le politiche sociali, per le decisioni sulle pensioni. E per la sicurezza. Su quest’ultimo terreno, anzi, il confronto è esclusivamente ideologico. Destra e sinistra mancano di una cultura preventiva. Da destra, la narrazione comunicativa sulla sicurezza è fondata sulla paura, sulla minaccia, gli sbarchi, gli immigrati, l’isolamento dei balordi, degli sbandati e l’invocazione di “più carcere”. Sicurezza si trasforma in discorso securitario, ne condensa il pathos e la formulazione più adatta è la criminalizzazione dei marginali e dei non protetti, nonché un allarme sociale gridato all’occorrenza. La stessa modifica della legge sulla legittima difesa (legge 36 del 2019) è figlia di questa ideologia e l’ampliamento dell’ambito di applicazione alla “difesa domestica” si sta dimostrando un orpello funzionale a quell’elettorato sensibile a mostrare i muscoli, a interpretare come legittima reazione ogni situazione che adombri una potenziale aggressione e ne qualifichi il ricorso all’arma come stato di necessità. La responsabilità del ceto politico è ampia e non di meno quella dei media, e segnale è l’assenza di un’adeguata ed efficace comunicazione pubblica capace di dar conto, su un terreno così delicato quale la legittima difesa, che il fondamento della norma resta, invece, ancora ancorato al principio che la difesa è legittima solo di fronte a un pericolo reale, cioè a una situazione potenzialmente lesiva. E quella che descrive la circostanza nella quale si trovavano Pagliara e Fusella non lo era. A questa traiettoria securitaria, la sinistra contrappone l’ideologia che fonda il discorso su tutto ciò che plasma l’avvenire più lontano. La sicurezza coincide con il tema delle periferie delle città o nelle città, le condizioni estreme di esclusione sociale o quelle che facilitano la marginalità sociale e culturale, ancorché economica. La metafora che racchiude nella contemporaneità il crogiolo di queste tematiche è la sicurezza urbana. All’occorrenza sono brandite le statistiche ufficiali sulla delittuosità il cui andamento da anni è in diminuzione, ma per ragioni completamente diverse dalle immancabili connessioni con i flussi migratori, con l’azione del crimine organizzato, o con l’efficacia dei controlli territoriali da parte delle forze dell’ordine. Ciò che manca è una sana, costante, organizzata e articolata prevenzione che passa per il monitoraggio della condizione psico-attitudinale di quanti hanno il porto d’armi; per l’implementazione di strategie di controllo territoriale basate su modelli di analisi proattivi e predittivi che in modo sempre più proteso le polizie straniere vanno adottando; per un controllo più efficace dell’offerta di armi che al mercato nero si possono acquistare come la coca cola al bar; per una più efficace e capillare comunicazione pubblica sulla legittima difesa. *Ordinario di Sociologia giuridica presso l’università Federico II di Napoli Cartabia alla Camera: “La riforma del processo civile difende i minori” Avvenire, 4 novembre 2021 La riforma del processo civile “rafforza le tutele” in tema di famiglia e minori. Lo ha sottolineato la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, nel corso di un question time alla Camera, rispondendo a due interrogazioni sulla sindrome da alienazione parentale, “non riconosciuta dalla stragrande maggioranza della comunità scientifica”. Cartabia ha anche annunciato un monitoraggio per verificare “l’impatto e l’esatta applicazione” nei tribunali del “codice rosso”, pensato per prevenire i femminicidi e porre un argine al fenomeno della violenza contro le donne. L’esponente del governo ha anche riferito di aver chiesto alla Scuola della magistratura di predisporre percorsi formativi per aggiornare i giudici sul tema. Quanto alla riforma del processo civile, che ha già avuto il via libera del Senato e che “dovrà- ha ricordato la Guardasigilli - in base ai patti assunti con l’Europa, entrare in vigore prima della fine del 2021”, contiene “interventi importantissimi in materia”. In particolare, Cartabia ha ricordato la previsione di un “coordinamento tra giudice penale e giudice civile” nei casi che riguardano maltrattamenti in famiglia e affidamento del minore, nonché l’obbligo per il “consulente d’ufficio di attenersi a metodologie riconosciute dalla comunità scientifica”. Uno degli obiettivi della riforma, ha rilevato la ministra, è “elevare la qualità degli accertamenti tecnici soprattutto in materie delicate come quelle di famiglia, in cui decisioni giudiziarie possono avere conseguenze indelebili”. Archivio Persichetti su Moro, per il gip Savio: “Non c’è reato” di Frank Cimini Il Riformista, 4 novembre 2021 L’8 giugno scorso la polizia di prevenzione su ordine della procura di Roma sequestrava l’archivio di Paolo Persichetti nell’ambito delle infinite indagini sul caso Moro contestando i reati di associazione sovversiva e favoreggiamento di latitanti. Il 2 luglio il Riesame affermava che al massimo si poteva contestare il reato di violazione di segreto politico in relazione alla diffusione di atti della commissione parlamentare di inchiesta. Oggi il gip Valerio Savio ha negato accertamenti con la formula dell’incidente probatorio sull’archivio perché “manca una formulata incolpazione anche provvisoria”. Cioè non c’è reato. Savio aggiunge che la decisione viene adottata allo scopo di evitare accertamenti non utili e anche costosi per l’erario. Cioè spiega il giudice che la giustizia non ha tempo da perdere e denari da buttare. Si tratta di una bocciatura su tutta la linea dell’indagine coordinata dal pm Eugenio Albamonte esponente di spicco della corrente di Magistratura Democratica e dallo stesso procuratore capo Michele Prestipino la nomina del quale era stata definita irregolare prima dal Tar e poi dal Consiglio di Stato. Il gip boccia in pratica una sorta di caccia ai misteri inesistenti che dura da quarant’anni e che viene praticata ora dalla sola procura di Roma dopo la “sparizione” della commissione parlamentare di inchiesta non rinnovata nella presente legislatura. “Sosteniamo dall’inizio che qui non c’è reato, la decisione del giudice conferma questo assunto - spiega l’avvocato difensore Francesco Romeo - Siamo di fronte alla ricerca del reato impossibile. Stiamo inseguendo dei fantasmi. I contenitori ci sono e li hanno indicati ma non basta citare le norme, la pubblica accusa deve circostanziare le condotte di reato ed è quello che da giugno a oggi non è venuto fuori. Si tratta di un’accusa senza pilastri”. L’archivio storico di Persichetti resta però sotto sequestro. La decisione di oggi del gip non basta a liberarlo. Adesso bisognerà aspettare l’esito del ricorso in Cassazione. Dice Persichetti: “Tre anni di indagini estremamente invasive per giunta ancora non concluse attraverso forzature continue, clonazione di telefonini, intercettazioni ambientali e pedinamenti costate migliaia di euro di soldi pubblici sono pervenute all’impossibilità di formulare una contestazione chiara e definita. Questa è la storia iniziata nel gennaio del 2019 da una grottesca indagine della Digos di Milano conclusa con una archiviazione ma subito ripresa dalla procura di Roma. Una caccia ai fantasmi una pesante intromissione nella ricerca storica e nel lavoro giornalistico”. Il sequestro dell’archivio tra l’altro ha avuto come conseguenza l’impossibilità di pubblicare il secondo volume della storia delle Brigate Rosse dal titolo “Dalle fabbriche alla campagna di primavera” di cui Paolo Persichetti è coautore con Elisa Santalena e Marco Clementi. Il volume due è dedicato alle fabbriche dove nacquero le Br con buona pace di inquirenti che inseguono dopo 43 anni i misteri di servizi segreti e affini andando a prelevare il Dna delle persone già condannate sperando di individuare “i complici”. Cassazione, danni morali di Dario Ferrara Italia Oggi, 4 novembre 2021 Denegata giustizia. La Corte europea dei diritti umani condanna l’Italia per violazione dei principi sul giusto processo. I giudici di Strasburgo hanno accolto una delle domande proposte da otto cittadini italiani contro l’applicazione troppo formalistica delle norme sulla redazione dei ricorsi di legittimità: si configura a carico dell’Italia la violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo perché la Cassazione, dichiarando inammissibile il ricorso di un imprenditore catanese con l’ordinanza 4977/11, ha violato la sostanza del suo diritto a un tribunale. È quanto emerge da una sentenza pubblicata dalla prima sezione della Corte. Eccesso di zelo. Le autorità italiane, dunque, dovranno pagare al ricorrente a titolo di danno morale un risarcimento pari a 9.600 euro, maggiorato dell’eventuale importo dovuto sulla somma a titolo di imposta. Nel ritenere non sufficienti le indicazioni fornite dal ricorrente, la Suprema corte mostra un eccessivo formalismo, non giustificabile rispetto alla specifica finalità del principio dell’autonomia dei ricorsi per cassazione e quindi dello scopo perseguito, cioè la garanzia della certezza del diritto e della corretta amministrazione della giustizia (la Corte ha respinto la domanda del ricorrente per costi e spese). Censure e disposizioni. Risale al 2 marzo 2010 il ricorso per cassazione presentato dal negoziante siciliano dopo le sentenze di merito che hanno confermato lo sfratto dai locali. Per la Cassazione i cinque motivi dell’atto non menzionano né il titolo dei vizi lamentati né i riferimenti dei documenti invocati a sostegno degli argomenti sviluppati. La Corte Edu, invece, ritiene che il ricorrente abbia rispettato l’obbligo di precisare il tipo di critica mosso alla sentenza d’appello ex articolo 360 Cpc: dalla lettura di ogni capo i giudici di legittimità avrebbero potuto conoscere quale tipo di censura è sviluppata nel motivo e quali disposizioni, se del caso, sono invocate. Rispetto ai documenti citati a sostegno delle critiche alla sentenza d’appello, i magistrati di Strasburgo stabiliscono che il ricorrente ha trascritto i relativi brevi passaggi e richiamato il documento originario, consentendo così d’individuarlo tra gli atti depositati con il ricorso. Il ricorso, insomma, consentiva di comprendere l’oggetto e l’andamento della controversia dinanzi ai giudici di merito oltre che la portata dei mezzi, sia nella base giuridica sia nel contenuto: la declaratoria di inammissibilità, quindi, integra la violazione della Cedu sul diritto al giusto processo. Monito agli ermellini. Un monito, insomma, per la Cassazione che solo il 22 ottobre scorso condannava il ricorrente per responsabilità processuale aggravata perché l’impugnazione non rispettava le prescrizioni di legge mentre scrivere un atto in modo corretto è “una prestazione esigibile e dovuta dall’avvocato cassazionista medio” con l’ordinanza 29689/21, pubblicata dalla terza sezione. Milano. Nel carcere di Bollate un detenuto suicida e una detenuta morta per “cause naturali” di Riccardo Arena* Ristretti Orizzonti, 4 novembre 2021 Martedì 2 novembre Gaetano Conti, di 40 anni, si è ucciso nel carcere di Bollate. L’uomo, che si era da poco costituito per scontare la sua pena, si trovava, insieme a un altro detenuto, rinchiuso in una cella per effettuare la quarantena e, da quanto si è appreso, pare che si sia impiccato con un cappio rudimentale all’interno del bagno. Va anche precisato che siamo venuti a conoscenza di questo ennesimo suicidio, solo grazie alla lettera che ci ha inviato Angelo ristretto appunto nel carcere di Bollate. Salgono così a 48 le persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio dell’anno, per un ammontare complessivo di 110 persone detenute che, tra suicidi e malattia, hanno perso la vita nelle carceri italiane nei primi 11 mesi del 2021. Il 3 novembre, sempre nel carcere di Bollate è morta una detenuta di 70 anni, con fine pena 2026, per “cause naturali”. Milano. Suicidio in Questura. “Guardavano il telefonino mentre il detenuto si impiccava” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 4 novembre 2021 Due agenti a giudizio per omicidio colposo. I poliziotti, giovanissimi e alle prime armi, dovevano controllare tramite i monitor le persone trattenute in Questura in attesa dell’identificazione, ma si distrassero e persero di vista il 34enne algerino. Più ancora della decisione del giudice delle indagini preliminari - che non accoglie la richiesta di archiviazione e impone invece alla Procura di formulare nei confronti di due agenti di polizia l’imputazione di omicidio colposo per non aver impedito la mattina del 23 agosto 2020 il suicidio di una persona accompagnata in Questura per essere identificata - pesa l’argomento valorizzato dal gip Roberto Crepaldi: i due agenti, giovanissimi e peraltro alle prime armi, invece di controllare con attenzione i monitor di sicurezza avrebbero avuto lo sguardo concentrato per lo più sugli schermi dei propri telefonini. La contestazione penale è dunque costruita sull’ipotesi che nei due poliziotti, addetti a controllare le persone trattenute nelle camere di sicurezza in attesa della identificazione, il non aver impedito un evento che avevano l’obbligo giuridico di impedire sia equivalso a cagionarlo. Per il giudice, intanto, non è vero che i due poliziotti non potevano avere sentore degli intenti autolesionistici del 34enne algerino, visto che la stessa annotazione di servizio segnala come l’uomo (la cui famiglia è ora patrocinata dall’avvocato Roberto Lopa) colpisse con mani e piedi la porta e la finestra della camera di sicurezza: “Uno stato di agitazione che avrebbe richiesto una vigilanza ancora più attenta e mirata” rispetto a quella richiesta dalle circolari ordinarie. Poi il giudice valorizza la tempistica, visto che da un lato l’uomo cominciò ad attuare le manovre per il suicidio alle 10.47 ed esse durarono molti minuti, e “gli spasmi causati dallo strozzamento impegnarono altri tre minuti e sono chiaramente visibili dal video della sorveglianza”, mentre dall’altro lato la relazione medico-legale ha quantificato in 30 minuti il lasso di tempo nel quale sarebbe potuto essere soccorso l’algerino, che fu invece trovato senza vita un’ora e 10 minuti dopo il suicidio. “Non può allora non sottolinearsi - ritiene il gip - la scarsissima attenzione dedicata degli agenti agli schermi della videosorveglianza, impegnati com’erano nella maggior parte del tempo a osservare lo schermo del proprio telefono”. È vero che la posizione dell’uomo, impiccatosi da seduto, poteva apparire ambigua, tanto più che il colore della maglia si confondeva con le sbarre, “ma, se gli agenti avessero prestato attenzione continuativa allo schermo che proiettava in tempo reale le immagini della videosorveglianza, si sarebbero certamente avveduti delle articolate, durature e inequivoche azioni preparatorie ed esecutive dell’impiccamento da parte dell’uomo”. La Procura per chiedere l’archiviazione rilevava anche che i due agenti (difesi dai legali Riccardo Truppo e Giuseppe Barillà) nello stesso periodo di tempo avevano dovuto badare alle pratiche burocratiche per l’arrivo di un altro fermato in camera di sicurezza, ma sul punto il giudice obietta che sarebbe bastato che un agente sbrigasse le pratiche e l’altro mantenesse la sorveglianza del fermato sui monitor di sicurezza interna. Il giudice concorda invece con il pubblico ministero Paola Pirotta sul fatto che anche altri fattori, più strutturali e indipendenti dal ruolo dei due agenti, abbiano concorso al tragico esito, primo fra tutti il fatto che in Questura “fosse consentito che in una camera di sicurezza vi fossero sbarre orizzontali alle finestre, certamente congeniali a chi abbia intenti di suicidio”. Allo stesso modo ha pesato la scarsa esperienza degli agenti tutti molto giovani e all’inizio della carriera, una addirittura ancora in formazione, il che “li ha portati a una franca sottovalutazione del rischio che si stava concretizzando sotto i loro occhi e a concentrarsi invece su adempimenti meno noiosi o sul loro telefonino”. Infine ci sono anche oggettivi “limiti nelle dotazioni tecniche”, con “la visione delle immagini attuata mediante uno schermo di medie dimensioni, suddiviso ulteriormente in nove quadranti, sicché anche l’osservazione delle singole celle risultava certamente faticosa, e mancano anche sistemi automatici di segnalazione di comportamenti anomali che pure la tecnologia offrirebbe”. Ma se questo da un lato per il giudice non eliderebbe ugualmente la responsabilità dei due agenti a titolo di colpa, dall’altro lato per il giudice resta comunque dirimente il fatto che “le immagini delle telecamere installate nella sala controllo consentano di appurare come i due agenti prestino al monitor un’attenzione soltanto sporadica e invece occupino la maggior parte del tempo utilizzando ciascuno il proprio telefono cellulare oppure conversando”. Caserta. L’eccezione del carcere di Aversa, un accordo per dare lavoro agli internati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 novembre 2021 Gli internati sono chiusi, hanno gli stessi ritmi di vita di tutti i detenuti, ma paradossalmente hanno anche meno diritti dei detenuti stessi. Dovrebbero lavorare, l’unico modo per essere valutati dai magistrati di sorveglianza ed evitare una proroga dell’internamento. Il lavoro è proprio quello che scarseggia all’interno di quelle carceri adibite a “casa lavoro”. Ogni tanto, però, arriva una buona notizia. L’eccezione che però conferma la regola: è stato siglato un protocollo d’intensa che dà lavoro agli internati del carcere di Aversa. Nella mattinata di martedì, nella Casa di Reclusione - Filippo Saporito - con sede in Aversa, si è tenuto un incontro che ha visto come protagonisti il Garante Dei Detenuti della regione Campania, Samuele Ciambriello, la direttrice, Stella Scialpi, gli operatori dell’Area educativa del carcere medesimo nonché i rappresentanti della Caritas diocesana di Aversa. L’incontro ha suggellato l’avvio concreto del Protocollo d’ Intesa per la promozione di attività di formazione e lavori di pubblica utilità a favore di internati della casa lavoro di Aversa. Tra loro, 8 saranno impegnati presso la Caritas di Aversa in lavori in un tenimento agricolo, o presso la stessa Caritas. Altri 7 internati invece lavoreranno all’interno del carcere con l’Archivio di Stato di Napoli e con la fondazione Gianbattista Vico per lavori di catalogazione informatizzata delle cartelle cliniche dell’ex Opg di Aversa. Per tale progetto, il Garante ha donato al carcere di Aversa 2 computer e una stampante, utili allo svolgimento delle attività. Ciambriello ha poi incontrato una delegazione di 10 internati. In Italia vi sono 335 persone in casa lavoro, suddivise in 6 strutture, tra le quali Aversa. La casa di reclusione di Aversa ospita 164 detenuti di cui 54 internati. Il progetto di attività di pubblica utilità, promosso dal garante Ciambriello, grazie al contributo della giunta regionale della Campania di Euro 20.000.00, coinvolgerà, in questa iniziativa 15 “internati”, per un periodo di 6 mesi. “Le case lavoro messe su con un decreto del 1930 del ministro Rocco vanno superate perché non sono né case, né offrono lavoro. Nella fattispecie sono detenuti veri e propri. Sono chiusi, hanno gli stessi ritmi di vita di tutti i detenuti, non sono a custodia attenuata”, spiega il garante regionale Ciambriello. E sottolinea: “Ad Aversa, tra i 54 internati, sono circa 20, le persone con sofferenza psichica e addirittura 3 con provvedimento del magistrato che devono andare in Rems (Residenze per l’esecuzione di misura di sicurezza) e 2 con Ptri (progetto terapeutico riabilitativo individualizzato). Non c’è la presenza di uno psichiatra. Credo che questa sia una condizione di ingiustizia che non può essere ignorata”. Infine conclude: “A tale scopo ritengo che questa iniziativa propende a voler dare visibilità a questi invisibili, in un luogo che non rappresenta né una casa (con relazioni, affettività, habitat con spazi di libertà) né una possibilità di riscatto attraverso il lavoro vero e proprio. Insomma occorre pensare a luoghi non detentivi, case che siano veramente tali e contesti di lavoro e di inclusione sociale che coinvolgano sempre di più gli enti locali. Insomma delle vere misure alternative di reinserimento sociale”. Il superamento del cosiddetto doppio binario non è mai stata nell’agenda politica, nemmeno ai tempi della mancata riforma Orlando. Le commissioni non avevano avuto il mandato del superamento. Per doppio binario si intende la pena e misura d sicurezza. La prima caratterizzata da ciò che si è commesso, la seconda da ciò che si potrebbe commettere. Finito di scontare la pena, il detenuto può essere valutato ancora socialmente pericoloso e quindi, per evitare un potenziale crimine, rimane in carcere. Teoricamente la misura di sicurezza è lecita solo se non è una riproposizione di quella detentiva. Ma nei fatti non è così. Non aiuta nemmeno la recente sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato legittimo addirittura l’internamento al 41 bis. Sassari. Niente certificato verde: carcere vietato al Garante dei detenuti di Roberto Sanna La Nuova Sardegna, 4 novembre 2021 Antonello Unida si è vantato sui social di non avere il green pass. Il provvedimento comunicato dalla direzione dell’istituto. La passione per i video non gli è mai mancata, così come il coraggio di compiere azioni plateali. Questa volta però Antonello Unida, 59 anni, Garante dei detenuti del carcere di Bancali, è finito al centro di pesanti polemiche visto che in uno di questi video ha dichiarato di non essere in possesso di green pass. Situazione che, al di là delle rispettabili posizioni personali, pone un problema tecnico perché a chi riveste questo incarico la legge, per poter entrare in carcere, impone l’obbligo del green pass. La prima conseguenza, che lo stesso Antonello Unida contesta vivacemente nella sua essenza normativa, è stata l’immediata comunicazione da parte della direzione del carcere che lo invita a presentarsi solo se munito di green pass: “È una follia - dice il garante - perché io sono andato a trovare i detenuti anche nei periodi più duri della pandemia e del lockdown. Sono entrato nelle celle, con alcuni detenuti siamo abbracciati, con altri ci siamo addirittura allenati in palestra. E non c’è mai stato alcun contagio, non può essere un caso. I familiari dei detenuti e gli avvocati non hanno quest’obbligo, in più solo una bassa percentuale dei detenuti si è vaccinata. Ricordo che il vaccino non è un obbligo ma un diritto, io faccio una vita morigerata, curo l’alimentazione e la forma fisica, sono sanissimo”. E se il direttore del carcere gli ha semplicemente ricordato l’esistenza di una norma di legge dalla quale non può prescindere, diverso è il versante politico perché il Garante dei detenuti viene nominato dal consiglio comunale. Dal presidente dell’assemblea, Maurilio Murru, arriva un commento stringato: “Il regolamento sullo svolgimento della funzione di Garante elenca espressamente le cause di revoca. Qualora rilevassimo inadempienze in tale direzione prenderemo le opportune decisioni” dice, aggiungendo poi che “Al di là di questo, ritengo che chi riveste cariche e ruoli istituzionali debba dare il buon esempio e rispettare le disposizioni normative”. Il regolamento comunale, nello specifico, si occupa della possibile decadenza nell’articolo 3 il quale, dopo aver preso in esame la possibilità di preesistenti cause, nel comma 4 recita che “Il Garante può essere altresì revocato per gravi motivi connessi all’esercizio delle sue funzioni o gravi inadempimenti nei compiti affidati secondo le procedure del presente articolo”. Dalle opposizioni arrivano richieste ben precise: “Rispetto le decisioni personali - dice Mariolino Andria, candidato sindaco del centrodestra nelle ultime elezioni - però il Garante dei detenuti ha un ruolo pubblico, può essere chiamato in carcere in qualsiasi momento. Per cui, sempre nel rispetto della volontà personale, probabilmente il provvedimento di nomina dovrebbe essere ripensato”. “Qualsiasi opinione personale deve essere rispettata - aggiunge Giuseppe Mascia, capogruppo del Pd - però questo libero arbitrio non può essere anteposto all’interesse pubblico che invece deve essere sempre tutelato”. Legge e letteratura, l’abbraccio sotto il segno di Sciascia di Andrea Pugiotto Il Riformista, 4 novembre 2021 Nelle librerie “Diritto verità giustizia”. Spicca per originalità l’omaggio al grande intellettuale di Racalmuto a cura di due giudici di Cassazione, Luigi Cavallaro e Roberto Conti. Giuristi sono anche tutti gli autori: da Natalino Irti a Ernesto Lupo, a Pietro Curzio che firma la prefazione. Un libro prezioso su libri preziosi. 1. Nella ricorrenza dei cent’anni dalla nascita, molte sono state le iniziative editoriali dedicate a Leonardo Sciascia. Meritoriamente. Rispetto alle altre, l’omaggio curato da Luigi Cavallaro e Roberto Conti, Diritto verità giustizia (Cacucci, 2021, pp.158) ha una sua felice originalità: i due Curatori sono giudici di Cassazione, così come giuristi (accademici, magistrati) sono coloro che al libro hanno collaborato riflettendo sul trittico del titolo attraverso il filtro dei romanzi sciasciani. A ciascuno il suo: Il giorno della civetta (Natalino Irti), Il Consiglio d’Egitto (Massimo Donini), Morte dell’inquisitore (Davide Galliani), A ciascuno il suo (Mario Serio), Il contesto (Giovanni Mammone), Todo modo (Nicolò Lipari), La strega e il capitano (Gabriella Luccioli), Porte aperte (Ernesto Lupo). Il libro va così ad arricchire la collana “Biblioteca di cultura giuridica” diretta dal Primo Presidente di Cassazione, Pietro Curzio, che ne firma la presentazione. Per molti, c’è di che trasalire. Obbedendo alle categorie estetiche crociane ma anche alle teorie del formalismo giuridico, un volume del genere è contro natura: diritto e letteratura, infatti, abitano mondi distinti e distanti. Ne siamo proprio certi? 2. Rispondo con due semplici lemmi: legge e libro. “Legge”, nel suo essere a un tempo forma verbale e sostantivo, fonde in una sola parola l’atto della lettura e l’oggetto della giurisprudenza. “Libro”, dal latino liber che è anche radice della parola “libertà”, associa nella comune genesi l’esito della letteratura e il fi ne ultimo del diritto quale regola e limite al potere. Sono sovrapposizioni semantiche rivelatrici: se le parole indicano le cose, ambedue raccontano dello stretto legame tra diritto e letteratura. Lo testimoniano i corsi accademici di Law and Literature importati dagli Stati Uniti in alcuni atenei italiani, vera e propria “pietra tombale sulla mortale autoreferenzialità del diritto” (Lanfranco Caminiti, Il Dubbio, 18 ottobre), che della letteratura condivide il vettore (la parola) e l’oggetto (la vita stessa). D’altra parte, un giurista colto è meglio di un ignorante laureato perché “l’italiano non è l’italiano: è il ragionare”, come spiega l’anziano professore al suo allievo scarso, ora tronfi o procuratore della Repubblica: “Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto” (Una storia semplice). Tutto ciò è particolarmente vero per i romanzi di Sciascia che possono essere letti “come un unico grande libro sulla giustizia” (Lupo). Dunque si giustifica, eccome, questo volume collocato “sul confine tra letteratura e diritto” (Curzio), dove i ruoli tra lo scrittore e i giuristi si capovolgono: non è il primo a porre domande di senso al diritto, perché sono i secondi a interrogarsi sul senso di quelle sue domande, dando vita a una “affascinante scommessa” editoriale (come confessano i due Curatori). Inutile recensirne i singoli contributi: il volume già ne offre un esame preciso nel testo finale di Paolo Squillacioti, che delle opere sciasciane è il curatore per Adelphi. Meglio annotare le suggestioni che le sue pagine restituiscono al lettore sui tre temi del titolo: diritto, verità, giustizia. 3. Verso il diritto applicato Sciascia esercitò tutto il suo scetticismo cognitivo, frutto di un pessimismo storico ereditato da I vicerè di De Roberto (romanzo per lui secondo solo a I promessi sposi). Per Sciascia “esiste la menzogna del diritto” che si fa storia ufficiale, come con il falso manoscritto al centro de Il Consiglio d’Egitto. Più chiaro di così: “il diritto serve al potere, e non il potere al diritto”, almeno prima dell’avvento delle Costituzioni rigide e garantite (Donini). Al contrario, dello Stato di diritto come “Stato della legge e razionale misura della convivenza” (Irti), Sciascia è uno strenuo difensore. Ne invoca il pieno rispetto contro la scorciatoia dello stato d’eccezione anche nel contrasto alla criminalità organizzata, ad evitare che “ad una mafia si opponga un’altra mafia costituita da un potere che non ammette critica o dissenso” (Luccioli). Scrive un romanzo, Porte aperte, che è un “libro-manifesto contro la pena di morte” (Lupo) pubblicato in anni in cui la si invocava in Parlamento mentre era “surrettiziamente reintrodotta dai terroristi” (Squillacioti). In Morte dell’inquisitore parla “della pena perpetua al pari di una pena senza speranza” (Galliani) come oggi fanno le Corti dei diritti, la magistratura di sorveglianza, Papa Francesco. Fa avvertire improvvisamente all’abate Vella “l’infamia di vivere in un mondo in cui la tortura e la forza appartenevano alla legge”, fisicamente, “come un urto di vomito” (Il Consiglio d’Egitto). È lo Sciascia polemista che molto ci manca oggi, capace di stare ostinatamente in minoranza perché “l’unanimismo era per lui l’altra faccia dell’intolleranza” (Squillacioti). 4. Delle tre in copertina, la parola più aliena a Sciascia è “la verità”. Segnala acutamente Galliani che molti suoi romanzi hanno titoli ossimorici: Morte dell’inquisitore, Il giorno della civetta, Porte aperte. Sono titoli autobiografi ci. L’ossimoro, infatti, è una fi gura retorica che produce una suggestiva contraddizione (semantica). È proprio il tratto esistenziale e intellettuale rivendicato da Sciascia, che desiderava per sé l’epigrafe “Ha contraddetto e si contraddisse”: come a dire - aggiungeva - “che sono stato vivo in mezzo a tante “anime morte”, a tanti che non contraddicevano e non si contraddicevano” (La Sicilia come metafora, Mondadori, 1979). Del resto, “l’essere liberi impone, prima di tutto, una libertà da sé stessi” (Lipari). La verità, per Sciascia, è solo un’aspirazione mai raggiunta, perché perennemente manipolata e oscurata dal potere e dai suoi zelanti esecutori, chierici del diritto compresi. Quel tanto di verità possibile è attingibile solo attraverso la letteratura, perché lo scrittore vede e intercetta cose che sfuggono allo storico, al filosofo, al politico (Luccioli). Autorevolmente Squillacioti conferma che, proprio perché strutturalmente ambivalenti, letteratura e verità in Sciascia si specchiano l’una nell’altra. Viene allora da pensare che lo scrittore siciliano avrebbe apprezzato uno degli esiti (Gianrico Carofiglio ne ha contati una ventina) che si ottengono anagrammandone la parola: “la verità” è “relativa”. Contrario a interpretazioni assolute e definitive, avrebbe invece respinto l’opposto anagramma, secondo cui “la verità” è “rivelata”: concetto straniero a un siculo abbeveratosi alla “diffrazione della verità di matrice pirandelliana” (Squillacioti). 5. Del titolo resta la giustizia, declinata nel libro - coerentemente con le opere sciasciane - nell’attività del giudicare. È l’esperienza che accomuna i due Curatori e molti degli Autori, consapevoli della crisi del classico, rassicurante schema sillogistico fatto- fattispecie legale-decisione. Una crisi dovuta a molteplici fattori: la cessione di sovranità a favore di ordinamenti sovranazionali, il dialogo giurisprudenziale tra le Corti (Cassazione, Consulta, Corte UE, Corte EDU), l’interpretazione costituzionalmente orientata della legge, il fatto come accadimento problematico e non più dato storico oggettivo, la ragionevolezza quale principio informatore dell’ordinamento e onnivoro criterio di giudizio. Il problema del giudicare è al centro dello “strabiliante dialogo” (Mammone) di una nota pagina de Il contesto. All’ispettore Rogas che lo risolve “come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio”, replica il presidente della Corte Suprema Riches secondo cui - metafisicamente - ogni sentenza, in quanto tale, è disvelamento inevitabile e necessario della giustizia: “Lo vede lei un prete che dopo aver celebrato messa si dica: chissà se anche questa volta la transustanzazione si è compiuta?”. Di quel dialogo, Sciascia ci ha lasciato un poscritto (ricordato da Squillacioti): “Ho fatto dire a un giudice cose che mi parevano, al momento in cui le scrivevo, paradossali fi no alla caricatura” e invece “avevo toccato l’essenza di un’ideologia, anche se non dichiarata, piuttosto diffusa nell’universo giudiziario”. A questa sorta di autolegittimazione del potere (giudiziario), Sciascia contrappone “la dolorosa necessità del giudicare”, come recita il titolo del suo breve testo pubblicato in appendice al libro. Anche qui l’attività del magistrato e dello scrittore si toccano. Entrambe dovrebbero essere “razionalmente tormentate” (Squillacioti). Entrambe non possono sottrarsi al giudizio altrui fino a risponderne: infatti Sciascia, che nella sfera pubblica si esponeva “sempre in prima persona, mai per interposta persona” (Galliani), avvertiva la necessità di misure di responsabilità civile del magistrato. Il gioco dei rispecchiamenti si può spingere oltre. Sciascia è stato un “intellettuale disorganico che si nutre del dubbio inteso come migliore antidoto al dogmatismo” (Lipari): non è forse ciò che dovrebbe essere il giudice? Il suo stile era asciutto, fluido, “mai ridondante, decisamente antiretorico, rigorosamente aderente alla realtà dei fatti” (Luccioli): non è forse così che andrebbero scritte le sentenze? 6. Si tratta, dunque, di un libro prezioso su libri preziosi che fa riflettere soprattutto chi il diritto, la verità (processuale), la giustizia è chiamato ad accertare e garantire: come il piccolo giudice a latere, protagonista del romanzo Porte aperte, che del giurista e di Leonardo Sciascia è “il suo somigliantissimo ritratto” (Lupo). Buona lettura. Perché “La giustizia conviene” parola di Caselli e Lo Forte di Marco Lillo Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2021 Quando i cantanti inneggiano ai boss e chiamano infami i collaboratori di giustizia, quando un pregiudicato per frode al fisco indagato pure per strage si candida a presidente della Repubblica, quando l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati viene cacciato dalla magistratura e poi scrive un best-seller con il direttore del giornale del pregiudicato-candidato suddetto. Quando tutti si mettono in fila per comprare un libro intitolato “Il sistema”, termine coniato per la criminalità organizzata e adattato come nulla fosse alla magistratura associata, quando la fiducia dei cittadini nei magistrati precipita ai minimi termini, ecco forse è giunta l’ora di fermarsi, fare un grande reset e leggere un libro semplice, ma non scontato: La giustizia conviene di Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte. In fasi come questa bisogna ripartire da zero e rispiegare punto per punto quello che un tempo davamo per acquisito. In questo tempo è utile un libro come quello di Caselli e Lo Forte. Il capo della Procura di Palermo nella stagione dopo le stragi insieme al suo braccio destro di allora hanno scritto un libro intrigante a partire dal titolo: “La giustizia conviene. Il valore delle regole raccontato ai ragazzi di ogni età”, 224 pagine, 16,5 euro, Piemme. La giustizia conviene è appunto uno di quei concetti che un tempo si davano per scontato e che invece oggi bisogna tornare a spiegare. A chi è destinato il libro? Il sottotitolo dichiara di puntare a tutti “i ragazzi di ogni età”. Il testo, infatti, presenta due livelli di lettura. Si potrebbe adottare come valido supporto all’educazione civica nelle scuole superiori per gli studenti, ma si rivela anche un ottimo manuale di orientamento nella selva della giustizia per i più grandi. Il libro parte dal significato di parole come legalità e giustizia per introdurre i principi base della Costituzione, la separazione delle carriere, il funzionamento del processo e il senso profondo della pena, la mafia e la risposta dello Stato alle sue stragi, la relazione tra legalità e giustizia, la questione morale. Nel libro c’è spazio per analizzare questioni complesse come quelle sottese al processo di Norimberga o quelle poste dalle stragi di mafia del 1992 e 1993 e dai relativi processi. Il libro non sfugge i temi più delicati come i conflitti tra politica e magistratura degli ultimi decenni o l’analisi del legame tra sicurezza e immigrazione. Per gli studenti ha il pregio di essere leggibile come un saggio pieno di storie recenti. Per i lettori più grandi ha il pregio di mantenere un intento pedagogico che impone agli autori uno stile piano e ordinato, comprensibile anche a chi non è un addetto ai lavori o un appassionato di cronache giudiziarie e riforme costituzionali. Per tutti, questo libro è una lettura utile. Quando lo si ripone sul comodino resta un senso di ordine e freschezza: una boccata di ideali e principi per riprendere il fiato prima di rituffarsi nei miasmi della cronaca quotidiana. “La giustizia conviene”. Giancarlo Caselli e Guido Lo Forte - Pagine: 224 - Prezzo: 16,50 - Editore: Piemme Dal G20 esce una soluzione ridicola alla crisi climatica e alle diseguaglianze globali di Paolo Maddalena* Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2021 È noto che il problema numero uno dell’umanità è l’innalzamento della temperatura del clima terrestre, al quale si aggiunge quello della diseguaglianza economica fra ricchi e poveri e fra Stati ricchi e Stati poveri. Per quanto riguarda il clima, il G20, nel quale significativa è stata l’assenza di Cina e Russia, non è arrivato a nessuna conclusione effettivamente valida. Si è infatti approvata la indebita soluzione secondo la quale l’aumento, e non la diminuzione dell’inquinamento atmosferico, non debba superare 1,5 gradi di temperatura. In un momento in cui imperversano uragani mai visti e la temperatura è in costante aumento, con una curva in salita spaventosamente elevata negli ultimi sette anni, mentre sono scomparsi quasi del tutto i ghiacciai delle Alpi e dell’Himalaya, e addirittura i Poli si sciolgono ad una velocità impressionante, la soluzione adottata appare ingannevole se non ridicola. Sarebbe necessario lo stop immediato dell’emissione dei gas serra, e specie del Co2, e invece si considera lecito un ulteriore aumento della temperatura. Questo dipende dal fatto che l’egoismo, che ha trovato la sua attuazione attraverso il sistema economico individualista, cinico, immorale e incostituzionale del neoliberismo, oramai si è impossessato delle menti di tutti gli uomini, i quali proclamano la loro libertà individuale senza pensare che in tal modo si va tutti all’autodistruzione, poiché l’uomo è parte della natura e la distruzione di questa significa distruzione anche della vita umana. Quanto alle disuguaglianze, incredibile è l’atteggiamento finora tenuto dai nostri governi, compreso l’attuale, i quali si sono disinteressati della sorte dei lavoratori, di fronte al fallimento e soprattutto alla delocalizzazione di imprese appartenenti a fondi internazionali o a multinazionali straniere, e si sono occupati solo dell’aspetto assistenziale, consistente nella cassa integrazione e nell’accorciamento dell’età ai fini della pensione, con una ricaduta estremamente pesante su tutti i cittadini. Come ho più volte ripetuto, ciò dipende dal fatto che il mercato generale, nella massima parte finanziarizzato - cioè costituito da titoli di credito, che meglio si definirebbero di debito - ha raggiunto una potenza economica venti volte maggiore del Pil di tutti gli Stati del mondo, sicché l’economia impone essa stessa le sue leggi al diritto. La situazione è talmente drammatica che al momento l’Italia può soltanto difendersi dagli assalti del mercato generale ed esiste un solo strumento a questi fini: la nazionalizzazione dei servizi pubblici essenziali, delle fonti di energia, delle situazioni di monopolio e delle industrie strategiche (art. 43 Cost.). Si tratta di ricollocare fuori commercio, come era quando esisteva il sistema economico di stampo produttivo keynesiano, tutti quei beni e servizi che sono costitutivi e identificativi dello Stato Comunità, costituendo la proprietà pubblica demaniale del medesimo. Su questo punto, come dicevo, i governi sono stati del tutto assenti. È peraltro da segnalare un’altra possibilità per i lavoratori, quella di ricorrere all’autogestione, almeno delle piccole e medie imprese, oggetto di delocalizzazione da parte dei proprietari stranieri. È possibile, come è avvenuto in 85 casi, di cui soltanto tredici non sono riusciti nell’impresa, ricorrere alla legge Marcora (1985) che consente la liquidazione dell’indennità di disoccupazione, prevista per 24 mesi, non a rate, ma complessivamente in una unica elargizione iniziale. Con questi denari i lavoratori si sono costituiti in cooperativa e hanno fatto sopravvivere l’impresa nella quale lavoravano. A mio avviso il governo non può dimenticare quanto gli impone l’articolo 43 della Costituzione, secondo il quale questo trasferimento della gestione a comunità di lavoratori (o anche di utenti) deve avvenire per legge, e non solo per le piccole e medie imprese, ma anche per le grandi imprese. Non tener conto di questa possibilità significa avere gli occhi bendati dal pensiero predatorio neoliberista, che scarica tutte le perdite sul Popolo e non pensa di investire il patrimonio del Popolo stesso in attività produttive: come è avvenuto in tanti casi e in modo assolutamente inconcepibile per la privatizzazione di Alitalia, dove la richiesta dei voli è in grande ascesa e il governo, anziché sfruttare questa fonte di guadagno, ha ridotto da tre miliardi a un miliardo e trecento milioni l’importo per la costituzione della nuova compagnia Ita. A mio avviso sarebbe necessario un massiccio intervento dello Stato nell’economia, invero non vietato dai Trattati europei - come molti ritengono - e che si è realizzato negli anni 60 attraverso l’Iri, quando l’economia italiana si è collocata al quarto posto nella classifica delle economie mondiali. Il nemico del Popolo italiano, sia ben chiaro, è la privatizzazione di beni e servizi, che comporta la cessione di tali beni e servizi dalla proprietà pubblica del Popolo italiano alle S.p.A., di modo che non è più proprietario il Popolo, ma i soci che fanno parte della S.p.A. In altri termini è eliminato il fine sociale, imposto dalla Costituzione, ed è perseguito il fine individuale e spesso asociale di singoli speculatori. *Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale Festival della Migrazione: dialogo tra le generazioni, un ponte per l’accoglienza di Giulio Sensi Corriere della Sera, 4 novembre 2021 Da oggi e fino al 6 novembre spazio eventi e incontri con “Cittadini tutti”. Un flash mob in piazza a Novellara per ricordare Saman Abbas, la giovane pakistana uccisa. Poche decine di chilometri separano la Piazza Torre di Modena e Novellara, in provincia di Reggio Emilia: da quella piazza sabato 6 novembre si farà sentire un flash-mob, una delle iniziative del Festival della Migrazione. I giovani italiani e quelli di origine immigrata di seconda e terza generazione alzeranno una voce per chiedere alla politica l’attenzione a una cittadinanza ancora da costruire. Quella voce ricorderà anche Saman Abbas, la giovane pakistana di Novellara uccisa pochi mesi fa per essersi opposta ad un matrimonio combinato. “Uno dei segni, il più tragico - commenta il portavoce del Festival della Migrazione, Edoardo Patriarca - della necessità di costruire nuovi ponti fra le culture e le persone; del bisogno di affrontare il tema delle migrazioni in modo nettamente diverso da quanto il nostro Paese ha fatto fino ad ora. Il Festival della Migrazione ha proprio questo obiettivo: si parlerà di Afghanistan, ma anche di percorsi di integrazione e di italiani che emigrano e si trovano ad affrontare nel mondo sfide, difficoltà e opportunità”. Storie e percorsi - In programma online e in presenza da oggi, giovedì 4, a sabato 6 novembre con il titolo “Cittadini tutti”, il Festival giunge alla sesta edizione ed è promosso dalla Fondazione Migrantes della Cei, dal Centro di Ricerca Interdipartimentale su Discriminazioni e vulnerabilità dell’Università di Modena e Reggio Emilia, dall’associazione Porta Aperta e altre cinquanta realtà. Tre giorni di dibattiti con la presenza di esperti e testimoni di percorsi di integrazione. “Parliamo di persone - aggiunge Patriarca -, di storie, di volti. E puntare l’attenzione sui giovani è ancora più importante: pensiamo alle centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi che vivono, studiano, fanno sport o volontariato qui in Italia, che si sono e si sentono italiani e non possono accedere alla cittadinanza”. Uno degli obiettivi del Festival è riproporre proprio il tema della cittadinanza per le nuove generazioni di migranti. Fra gli ospiti la mediatrice culturale Marwa Mahmoud, divenuta anche consigliera comunale a Reggio Emilia. “Le nuove generazioni italiane rappresentano un ponte nell’incontro tra le culture di provenienza dei cittadini migranti e quella italiana. I figli dei migranti senza cittadinanza oggi sono un milione di italiani di fatto, ma non di diritto”, è il messaggio che porterà Mahmoud. Il ponte è proprio uno dei simboli del Festival che ospiterà anche l’incontro annuale dei “Costruttori di ponti”. “Un progetto itinerante organizzato con l’Istituto Cervi - spiega Vinicio Ongini, esperto del Ministero dell’istruzione e ideatore del programma - che coinvolge scuole, associazioni e comuni e che vogliamo declinare con il significato di ponti fra le generazioni: non solo quelle delle persone di origine immigrata, ma anche degli italiani. Il caso della studentessa pakistana scomparsa a Novellara è un evidenziatore di una difficoltà, di una mancanza di dialogo fra le generazioni, di mondi non comunicanti”. Cinzia Conti e Sabrina Prati di Istat porteranno alcune analisi e ricerche dedicate proprio al rapporto fra le nuove generazioni di migranti. Dati importanti, che raccontano la necessità di lavorare nella direzione del dialogo intergenerazionale. Genitori e figli - “Nelle risposte dei ragazzi - sottolineano le due ricercatrici - si nota una percezione di minore sensibilità dei genitori stranieri ai sentimenti e ai bisogni dei figli: il 51,5 per cento dichiara i propri genitori sensibili contro il 62,5 per cento degli italiani; si nota anche un minore rispetto delle loro opinioni: il 57,8 per cento degli stranieri dichiara di sentire rispettate dai genitori le proprie opinioni, contro il 69,1 per cento dei coetanei italiani. Un segnale forse anche delle tensioni che possono emergere quando i ragazzi intraprendono un personale percorso di inclusione”. Al Festival ci saranno anche parlamentari ed esponenti del governo, fra cui il ministro dell’istruzione Patrizio Bianchi. A loro verrà riproposta un’agenda di impegni: obiettivo superare i decreti sicurezza, approvare una legge sulla cittadinanza e una sul diritto all’immigrazione, intraprendere azioni incisive per la lotta al precariato, migliorare le pratiche di accoglienza per i minori stranieri non accompagnati, costruire iniziative per favorire cultura, formazione e percorsi educativi, riconoscere l’esistenza di profughi climatici ed impegnarsi, infine, per una nuova politica europea. Fallisce l’agguato della Lega al referendum sulla cannabis di Valentina Stella Il Dubbio, 4 novembre 2021 Voltafaccia di Salvini sulle consultazioni popolari. Intanto si scopre che la Cassazione non ha ancora dato l’ok alle 6 proposte sulla giustizia, depositate solo grazie alle Regioni. Colpo di scena: la Corte di Cassazione non ha dato alcun via libera ai referendum “giustizia giusta” promossi da Lega e Partito radicale. Fonti interne di Piazza Cavour ci hanno infatti spiegato che non c’è ancora un’ordinanza che ufficialmente accoglie la richiesta dei Consigli regionali di Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria, Veneto, come invece riferito in un comunicato della Lega lo scorso venerdì. Avremmo voluto leggere l’ordinanza nella pagina internet della Suprema corte dedicata proprio a elezioni e referendum, ma ci hanno appunto spiegato come al momento il procedimento non sia ancora concluso, perciò non è stato ancora pubblicato nulla. Gli atti finora intercorsi tra gli uffici della Cassazione e i delegati dei singoli Consigli regionali hanno “carattere meramente interlocutorio e non decisorio”. Che significa questo? Che non avendo depositato le firme, se malauguratamente la Cassazione non deliberasse favorevolmente, non ci sarebbe alcun referendum. Si tratta di una ipotesi remotissima, che ci auguriamo non si verifichi, ma che in teoria potrebbe accadere. Questo tassello si aggiunge al paradossale modus operandi che il Carroccio sta assumendo in materia referendaria. Prima non deposita le firme, pur dichiarando di averne raccolte più di 700mila per ogni quesito referendario, senza fornire una logica spiegazione, con ciò rinunciando a un rafforzamento del risultato politico, per non parlare dei rimborsi elettorali. A questo punto, anche alla luce di quanto annunciato in apertura, si rafforza il sospetto che non fossero tutte firme “certificate dopo mesi di accurati controlli” come annunciato da via Bellerio. E ieri, addirittura, in commissione Affari costituzionali alla Camera, il partito di Salvini ha presentato un emendamento al decreto legge “Proroghe”, uguale a quello di FdI, soppressivo della norma approvata in Consiglio dei ministri lo scorso 27 settembre con la quale è stato consentito anche a chi ha depositato quesiti referendari dopo il mese di giugno di depositare le firme entro il 31 ottobre. In quell’occasione i ministri della Lega avevano lasciato l’incontro senza votare. Fosse passato l’emendamento, sarebbe decaduto il referendum sulla cannabis. Che fine ha fatto il Matteo Salvini che nella conferenza stampa di giugno, in cui ha lanciato insieme ai radicali i referendum giustizia, diceva “penso che il referendum sia la più bella, democratica, trasparente e partecipata forma di democrazia diretta”? Il pensiero vale solo per i suoi, di referendum? Comunque sul voto di ieri sera, dopo una giornata convulsa, la maggioranza si è spaccata nel bocciare l’iniziativa leghista: contro l’emendamento del salviniano Igor Iezzi hanno votato Pd, M5S, Leu, Iv e Azione-Più Europa, hanno votato invece a favore FdI e Lega. Forza Italia si è astenuta, a dimostrazione della frattura interna che esiste nel partito di Berlusconi tra chi ammicca al Carroccio e chi è leale a Draghi. Dopo il voto, il deputato di +Europa Riccardo Magi, co-promotore del referendum cannabis, ha commentato: “È stata sventata una vera porcata. La Lega ha tentato di modificare a posteriori le regole, annullando la volontà popolare di 630mila cittadini che hanno fatto una richiesta di referendum. In gioco c’era anche la stabilità del diritto e la credibilità del governo, che aveva emanato un decreto per evitare una discriminazione tra diverse proposte referendarie”. Soddisfatto anche il costituzionalista e deputato dem Stefano Ceccanti: “Il voto della commissione Affari costituzionali ha confermato la scelta corretta del governo di non discriminare tra un quesito referendario e l’altro, consentendo a tutti di depositare le firme entro il 31 ottobre. È stato battuto il tentativo strumentale della Lega, che aveva già ottenuto una proroga per i propri referendum, di smentire una scelta del governo di cui fa parte solo perché non era d’accordo nel merito con uno dei quesiti depositati. I referendum che non si condividono si affrontano in campo aperto davanti ai cittadini. Altra cosa sono le regole che devono essere uguali per tutti”. Per la deputata Vittoria Baldino, capogruppo del Movimento 5 Stelle in commissione Affari costituzionali, “il tentativo di Lega e Fratelli d’Italia di far saltare il referendum sulla cannabis è stato vergognoso. Un sabotaggio fortunatamente sventato. Presentare un emendamento per sopprimere di fatto la proroga approvata in Cdm è un chiaro agguato alla democrazia diretta, nonché uno schiaffo alla volontà di moltissimi cittadini. Proroga che avevano richiesto anche Lega e FdI”. Nel corso della giornata anche il Partito radicale si era appellato a Salvini affinché ritirasse l’emendamento, ma evidentemente in tema di referendum i compagni di viaggio sono sempre più lontani. Dalla Bielorussa alla Germania i migranti nel corridoio della paura di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 4 novembre 2021 L’invasione inesistente tra poliziotti e ronde neonazi. Nel Brandeburgo il malessere dei residenti per la frontiera blindata da Seehofer. Spinti da Minsk e respinti da Berlino. In balìa di ciò che accade sulla linea di frontiera che divide la Germania dalla Polonia, tra i boschi del Brandeburgo e il fiume Oder, dove se va bene si viene fermati dall’esercito di poliziotti inviato dal ministro dell’Interno, Horst Seehofer, e se va male ci si rompe la testa sulle spranghe dei neonazisti a caccia di stranieri. Per i migranti la via di fuga che parte dalla Bielorussia e finisce a 100 chilometri da Berlino è il corridoio della paura, esattamente come nei Balcani. Con la differenza che la guerra ai profughi della Bundesrepublik (ancora) governata dalla cancelliera Angela Merkel non fa notizia neppure se stravolge l’immagine dell’Europa solidale e i trattati sulla libera circolazione nell’Ue. Eppure per toccare con mano la realtà basta farsi un giro a Eisenhüttenstadt (la città delle ferriere della Ddr dedicata a Stalin) dove si trova l’Autorità centrale per gli stranieri del Brandeburgo: il “centro di prima accoglienza” in cui vengono “ospitati” gli “illegali” fermati lungo il confine. Oppure registrare l’incredibile Comma 22 del ministro Seehofer: “Se fosse possibile in Europa non dovrebbero esserci controlli alle frontiere. Ma sarebbe possibile solo se funzionassero i controlli alle frontiere”. Non sono parole in libertà di un politico a fine mandato ma ordini esecutivi. “D’ora in poi controlleremo strettamente il confine Est. Ho appena inviato altri 800 agenti della polizia federale. Se sarà necessario ci saranno ulteriori rinforzi”. Di fatto la frontiera con la Polonia è militarizzata dalle pattuglie congiunte di poliziotti tedeschi e polacchi come dai check-point mobili della Zoll (equivalente della Guardia di Finanza) decisi a stroncare il transito di migranti prima che i numeri sfondino, soprattutto, la soglia dell’informazione mainstream pronta ad accendere i riflettori sull’”invasione”. Secondo i rapporti ufficiali gli “ingressi non autorizzati” al confine polacco registrati a ottobre sono stati 5.300. Nulla di paragonabile all’estate 2015 quando Merkel spalancò le porte della Germania a quasi due milioni di profughi, e zero rischio di collasso per l’Agenzia federale per i rifugiati (Bamf) che all’epoca venne sommersa dalle domande di asilo. A certificarlo è il sindacato di polizia: “La situazione è seria ma non grave come sei anni fa, quindi non c’è alcun motivo di introdurre i controlli alle frontiere. Specialmente se a subire gli ingorghi chilometrici sono migliaia di pendolari” sottolinea il presidente Andreas Rosskopf. Vale anche per il flusso migratorio che in teoria non rappresenta un problema per la capacità di accoglienza. “Attualmente ospitiamo 1.300 profughi su oltre 2.000 posti disponibili, 200 in meno della settimana scorsa. Arrivano circa 120 persone al giorno, per il 90% dalla Bielorussia. Molti provengono dal Nord dell’Iraq da dove è possibile volare fino a Minsk ma ci sono anche parecchi siriani e yemeniti. Al contrario di quest’estate, quando giungevano soprattutto uomini, ora è il turno di donne e bambini” riassume Olaf Jansen, direttore del centro-profughi di Eisenhüttenstadt. Fuori dalla struttura non si fermano le proteste pro-migranti delle associazioni umanitarie al pari delle demo contro organizzate dai militanti di Alternative für Deutschland. Mentre in tutto il Brandeburgo si moltiplica il malessere dei residenti per la frontiera blindata da Seehofer. Spicca la denuncia del sindaco di Francoforte sull’Oder, René Wilke (Linke), sul “devastante impatto dei controlli sulla vita quotidiana degli abitanti” ma anche la paura di chi vive nel comune di Guben, dove due settimane fa sono stati arrestati 50 neonazi del movimento Dritte Weg armati di spranghe, baionette e machete mentre andavano a caccia di migranti nei boschi lungo il confine. Tutto offuscato dall’azione politica concentrata sulla messa all’indice del presidente bielorusso Lukaschenko che usa i profughi come arma contro Germania e Polonia, come ribadito da Bruxelles, e ancora prima dal dibattito su quanti milioni di euro bisognerà girare al governo di Varsavia affinché blocchi i migranti ben prima che raggiungano le rive dell’Oder. Francia. Baracche dei migranti distrutte, a Calais “calpesta la dignità umana” di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 4 novembre 2021 Prosegue da 24 giorni lo sciopero della fame di un prete del Secours Catholique e di due militanti associativi che protestano contro i ripetuti sgomberi dei migranti dai loro ripari di fortuna. A Calais è di nuovo piena crisi sui migranti. Nella chiesa Saint-Pierre, tre persone, un prete del Secours Catholique e due militanti associativi, sono in sciopero della fame dall’11 ottobre. Protestano contro le ripetute distruzioni delle tende e delle baracche di fortuna in cui si riparano i migranti e perché il governo non intende concedere la “tregua invernale”, che in Francia protegge nei mesi freddi dalle espulsioni abitative. La Commissione consultiva dei diritti umani ha valutato che ci siano stati più di mille smantellamenti di ripari di fortuna negli ultimi tempi, e denuncia una situazione di “non rispetto della dignità umana”. Secondo Le Monde, il 2 novembre, 800 persone hanno tentato di attraversare la Manica, 300 sono state soccorse in mare dai gendarmi francesi. Sono soprattutto siriani e afghani, che cercano di raggiungere famiglia o amici. Ma la Gran Bretagna non li vuole e, stando agli accordi del Touquet del 2003, sono i francesi a blindare la frontiera sul lato sud della Manica, in cambio di qualche decina di milioni di euro. Il governo francese ha nominato un mediatore, Didier Leschi, prefetto e direttore dell’Ufficio francese per la migrazione e l’integrazione. Leschi ha proposto che gli interventi per sloggiare i migranti vengano annunciati con anticipo, che vengano lasciati 45 minuti alle persone per raccogliere i pochi averi, che venga creato a Calais un centro per ospitare temporaneamente gli espulsi, che poi verranno trasferiti lontano dal porto del dipartimento degli Hauts-de-France. Ma i migranti nel passato hanno più volte rifiutato di salire sugli autobus, vogliono restare a Calais per poter tentare la sorte e passare in Gran Bretagna. La sindaca di Calais, Natacha Bouchart (Les Républicains, destra), rifiuta categoricamente l’apertura del centro temporaneo di accoglienza: “È fuori questione”, rischia di “ricreare la situazione della giungla”, la tendopoli smantellata nel 2016. Allora, c’erano state fino a 10mila persone sotto ripari di fortuna, nei boschi dietro Calais, in attesa di trovare un passeur e sperare di poter attraversare la Manica. Oggi, a Calais e dintorni si trovano tra le 500 e le 1.500 persone, la zona è blindata: sono state costruite barriere per impedire che i migranti si avvicino ai camion con destinazione la Gran Bretagna e l’area del tunnel sotto la Manica è un vero bunker, con controlli digitali, umani e canini. Emmanuel Macron vorrebbe riuscire a concludere un accordo sulla migrazione nella Ue durante la presidenza francese semestrale del Consiglio europeo, che inizia il 1° gennaio. Il presidente francese propone un trattato Ue-Africa, nella speranza di mettere fine all’immigrazione clandestina, in cambio dell’apertura di arrivi programmati. Ma la Brexit complica le cose a Calais, perché qualunque decisione prenderà la Ue, la Gran Bretagna non sarà tenuta a rispettarla. Turchia. La nuova alba possibile in un paese prigioniero di Murat Cinar e Francesco Pongiluppi Il Manifesto, 4 novembre 2021 La persecuzione giudiziaria di artisti, giornalisti, minoranze. Anche la pandemia diventa pretesto per indagini contro cittadini rei di alimentare paura. La Turchia di Recep Tayyip Erdogan è ormai una caricatura giudiziaria dove l’interferenza del governo sulla magistratura ha nei fatti sistematizzato una routine persecutoria verso ogni dissenso politico, artistico e intellettuale. L’istituzionalizzazione della detenzione sine die se da un lato condanna per presunto terrorismo decine se non centinaia di giornalisti, oppositori e attivisti, dall’altro genera ogni giorno fiammanti lotte, inedite poesie, nuove lotte. Quella di Selahattin Demirtas è la punta di un iceberg di una società del malessere dove quei paesaggi umani (Memleketimden Insan Manzaralar?) magistralmente descritti in versi da Nazim Hikmet durante la detenzione quasi cent’anni fa, trovano oggi una scenografia vivente di uomini e donne vittime di una pornografia giudiziaria inverosimilmente al potere da decenni. Un paese la cui stampa è perlopiù vicina al governo, dove la resistenza passa per un web sempre più limitato e dove quasi un centinaio di giornalisti sono oggi in custodia cautelare o scontano condanne per reati di terrorismo. Una società dove anche la pandemia diventa pretesto per l’organizzazione di oscene indagini contro cittadini rei di alimentare paura e panico, ovvero, di aver espresso sui social perplessità e critiche circa la politica sanitaria di contrasto al Covid-19. In questa accademia di prigionieri di coscienza, fioccano le sospensioni di trasmissioni televisive. Tra serie tv costrette a rimuovere episodi e rimozioni di personaggi scomodi da programmi radiofonici, le accuse di terrorismo continuano ad essere l’arma principale per escludere e marginalizzare ogni voce libera. L’approccio restrittivo del governo verso ogni minoranza peggiora ogni anno. Se le attività pubbliche dei gruppi per i diritti Lgbt è proseguito con il divieto di eventi, tra cui le marce del Pride, la repressione nei confronti di minoranze etno-linguistiche non ha cambiato passo. Per sconfiggere i mali cronici del paese fondato da Mustafa Kemal nel 1923, servirebbe davvero una nuova alba, come il titolo di racconti di Demirtas le cui protagoniste sono figure femminili capaci di affermare la propria libertà. Una libertà possibile e priva di odio. Afghanistan. Il verdetto del Pentagono sul drone che uccise 10 persone: “Errore in buona fede” La Repubblica, 4 novembre 2021 Nessuna negligenza, né violazione del diritto bellico: questo l’esito dell’inchiesta sull’attacco costato la vita anche a 7 bambini. L’attacco con un drone americano che il 29 agosto ha ucciso a Kabul 10 civili, tra cui 7 bambini, non è stato causato da una negligenza criminale ma da una serie di errori, tra cui non aver notato un bambino nell’area due minuti prima del raid. È il verdetto espresso dall’ispettore generale del Pentagono, Sami Said, che esclude dunque sanzioni disciplinari per i responsabili. È stato un errore “spiacevole” ma “onesto”, frutto di problemi di esecuzione e di interpretazione delle informazioni, recita il rapporto. Said sottolinea che l’attacco con i droni deve essere considerato nel contesto del momento, con le forze statunitensi sotto stress inondate di informazioni sulle minacce a truppe e civili all’aeroporto di Kabul, pochi giorni dopo l’attentato suicida. Migliaia di afghani affollavano l’aeroporto, cercando di uscire dal Paese dopo la presa del potere da parte dei talebani. Nell’attacco con il drone fu colpita una Toyota Corolla bianca e fu ucciso Zemerai Ahmadi e nove membri della famiglia, tra cui sette bambini. Ahmadi, 37 anni, era da tempo un dipendente di un’organizzazione umanitaria americana. Inizialmente il governo statunitense aveva sostenuto che nell’attacco era stato ucciso un terrorista dell’Isis. Poi era arrivata l’ammissione: tra le vittime solo civili innocenti.