Carceri, 3 suicidi in 7 giorni. Sui giornali neanche una riga di Giulio Cavalli Il Riformista, 3 novembre 2021 Dal Duemila a oggi i decessi dietro le sbarre sono stati 3.288, 1.215 per suicidio. Tantissimi per cause da accertare. Dati da bollettino di guerra che Ristretti Orizzonti raccoglie nel dossier “Morire di carcere”. Una strage che però non appassiona la politica né i media. Eppure la storia ci insegna che il giornalismo funzionerebbe così, ogni volta che accade qualcosa e che poi si ripete diventa tutto una fanfara che mitraglia notizie simili per creare una sensazione (spesso un sensazionalismo) che induca a vendere copie e a collezionare clic. Siamo il Paese che all’improvviso si appassiona agli incidenti di treni per un mese, da quello che è stato una strage agli incidenti sui binari fuorivia di qualche sconosciuto paesello in cui non si è fatto male nemmeno un bullone: siamo il Paese in cui non può accadere nulla di più goloso di un evento che si ripete il giorno dopo. In fondo, pensandoci bene, non è nemmeno un male: la perseverante ripetizione è un elemento fondamentale per esercitare pressione su chi governa e su chi deve intervenire. Eppure il carcere no, il carcere non riesce mai a diventare “mainstream” come si usa dire in questi tempi, non riesce mai ad appassionare i politici, non infiamma il dibattito, non merita nemmeno una manciata di minuti in qualche trasmissione popolare pomeridiana. Peccato, perché negli ultimi 7 giorni in carcere si sono suicidate 3 persone e 3 morti in 7 giorni nei luoghi in cui la gente viene affidata alla tutela e alla vigilanza dello Stato sono un pilotto che fa accapponare la pelle. 11 25 ottobre scorso un detenuto italiano di 36 anni si è tolto la vita nella Casa Circondariale di Pavia. 11 30 ottobre si è suicidato un internato nella Casa di Reclusione di Isili e il 31 ottobre un detenuto nella Casa Circondariale di Monza. Non perdete nemmeno tempo a cercare la notizia sui giornali perché nessuno si è preso la briga di riportarlo. Si sa, i detenuti sono periferie sociali che al massimo vengono pianti da qualche parente, se ne hanno qualcuno in giro, e rientrano nelle statistiche dei garanti che provano ad alzare la voce con pochissimo successo. Anche perché i 3 detenuti suicidi sono solo una briciola dei 47 finora dall’inizio dell’anno, gente che aveva in media 40 anni (l’età che si definisce “ma dai, ma così giovane” per quelli qui fuori) e che sono parte dei 109 del totale delle persone recluse decedute per suicidio, malattia o “cause da accertare” (età media 46 anni). La rivista Ristretti Orizzonti (che di carcere si occupa dalla nascita) ha cominciato a tenere conto dei morti in carcere fin dall’anno 2000 con il dossier “Morire di carcere” e da allora ha registrato 3.288 morti (età media delle vittime 45 anni), delle quali 1.215 sono ascrivibili a suicidio (età media delle vittime 41 anni). Per dare un’idea delle proporzioni i decessi causati dal virus Covid-19 sono stati 21 (con un’età media di 65 anni) mentre sono 13 (di 40 anni d’età media) i morti solo durante le rivolte scoppiate tra i19 e il 10 marzo dell’anno scorso. Scorrendo i numeri si scopre che tra il 26 e il 27 settembre scorso si sono suicidati Alexandro Riccio nel carcere di Ivrea, Emanuele Impellizzeri a Verona e Mirko Palombo a Benevento. Tutto nel giro di due giorni. Oppure si scopre che Alberto Pastore, che di anni ne aveva solo 24, il 14 maggio di quest’anno si è suicidato nel carcere di Novara. Come scrivono giustamente quelli di Ristretti Orizzonti (che sono anch’essi detenuti) “questa catena di cifre ricorda tanto le cronache di guerra, con le dimensioni degli eserciti, dei “corpi speciali” di combattenti e, infine, con il bilancio di morti e di feriti. La propaganda bellica si cura di far apparire i nemici come semplici quantità numeriche e, allo stesso tempo, di umanizzare i propri soldati, riprendendo la loro partenza - tra abbracci, baci e lacrime - magari mostrandoli mentre soccorrono gente bisognosa, mentre pregano o giocano a carte”. Infine viene da chiedersi perché i molti cultori di “verità e giustizia” (quelli leali e quelli presunti) non balzino sulla sedia vedendo le decine di casi di morti per motivi “da accertare” che rimangono impolverati negli anni a venire, come se in fondo il carcerato suicida rientri nella normalità delle cose, nell’inevitabile danno collaterale della detenzione come sistema. L’Organizzazione mondiale della sanità (così in voga in questi anni di pandemia) ha ripetuto decine di volte che i detenuti “rappresentano un gruppo ad alto rischio suicidario” e noi continuiamo a non riuscire ad affrontare il rischio: “anche se molte volte - scrive l’OMS - non ci è dato di prevedere con precisione se e quando un detenuto tenterà il suicidio o lo porterà a termine, gli agenti di custodia, gli operatori sanitari e il personale psichiatrico possono essere messi in grado di identificare detenuti in crisi suicidarla, stimare il loro rischio e trattare eventuali gesti suicidari”. Ma noi continuiamo a non farcela. Dopo il 41bis, l’internamento. Alegher di Michele Passione Il Manifesto, 3 novembre 2021 Con la sentenza Numero 197/21 (interpretativa di rigetto e dunque vincolante solo per il Giudice a quo, malgrado l’autorevolezza della fonte), la Corte costituzionale ha ritenuto legittima l’applicazione del regime differenziato del 41 bis o.p. nei confronti degli internati, sottoposti alla misura di sicurezza della casa lavoro dopo aver completamente espiato la pena. Per ragioni di sintesi, riservando ad altre sedi una più ampia analisi del provvedimento, ci si limita qui a riproporre il cuore della questione. La Cassazione aveva posto la questione di legittimità alla Corte costituzionale sulla base del seguente argomento: l’applicazione della misura di sicurezza della casa di lavoro dopo l’espiazione della pena, eseguita con la sospensione delle regole trattamentali prevista dal 41-bis (quindi senza poter godere della liberazione anticipata, delle licenze finali di esperimento e della semilibertà) darebbe luogo ad un trattamento sostanzialmente punitivo (un raddoppio di punizione), che impedisce la rivalutazione della pericolosità sociale (e dunque l’eventuale revoca della misura), e nega la valenza rieducativa della misura. Ancora la Cassazione, nel sollevare la questione, aveva richiamato la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani (sentenza M c. Germania) secondo la quale la misura di sicurezza, proprio in ragione del concreto trattamento offerto ai soggetti interessati, “deve essere considerata una pena” a certi fini, in particolare per ciò che attiene al principio di legalità. La Corte costituzionale si mostra di altro avviso, sostenendo che la posizione della Cassazione si fondi su un’erronea interpretazione. Secondo la Corte, infatti, gli internati sottoposti al 41 bis non devono essere necessariamente assoggettati a tutte le restrizioni predisposte da detta disciplina (lettura che la Consulta definisce tuttavia “plausibile”). A giudizio della Corte, invece, il provvedimento ministeriale di applicazione del regime implica per gli internati solo “le restrizioni necessarie”, anche per salvaguardare “l’indispensabile finalizzazione rieducativa delle stesse misure di sicurezza”. La Corte richiama il suo precedente n. 376/97, con il quale si era affermato che il regime differenziato non può mai neutralizzare l’obbligo costituzionale all’individualizzazione del trattamento, ma pur riconoscendo che da allora la disciplina speciale è stata persino inasprita ritiene che l’attuale comma 2 quater riservi agli internati dei residui spazi di fruibilità di trattamento, e che “le restrizioni [ex 41 bis] devono adattarsi nei limiti del possibile alla necessità di organizzare un programma di lavoro” (pur tenendosi conto della ridotta - per usare un eufemismo - mobilità e socialità degli interessati). Nei limiti del possibile. Un inciso davvero inquietante. Di più, la Corte aggiunge che in caso di eventuale cessazione della pericolosità il Giudice di sorveglianza “dovrebbe” interrompere la misura. Fermiamoci, con qualche domanda. Può una Corte (sempre più dei Diritti) limitarsi all’ipotesi affidata al condizionale e ai limiti del possibile? Perché anche qui non si è attivato il previsto potere istruttorio (come per le liste di attesa in Rems) per verificare lo stato dell’arte, visti i numeri risicatissimi di interessati? Se è vero come si afferma che sussiste “il dovere e il potere dell’amministrazione di dare concreta attuazione all’attività che caratterizza la misura di sicurezza della casa di lavoro” si dovrà utilizzare il reclamo di cui all’art. 35 bis per ottenere che questo Diritto sia rispettato. Una rosa è una rosa è una rosa; perché l’insistita affermazione di principi non diventi ambigua, una diafora, occorreranno occhi ben attenti. Nel frattempo, la Società della Ragione ha pronta una proposta di rimedio radicale che sarà presto presentata in Parlamento per abolire il doppio binario e le misure di sicurezza. Detenuti, il reato si ripara nei luoghi d’arte. Intesa Cartabia-Franceschini sulla rieducazione di Liana Milella La Repubblica, 3 novembre 2021 La Guardasigilli cita la Costituzione che parla di “pena e non di carcere” per chi ha condanne sotto i 4 anni. Il ministro della Cultura: La bellezza per riparare il danno”. Per 52 siti 102 persone. “La Costituzione non parla di carcere, ma di valenza rieducativa della pena”. L’ha detto tante volte, in questi mesi, la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Anche durante la sofferta gestazione della riforma penale quando intorno a lei c’era più di una voce scettica, ma anche molti plausi quando il suo discorso tornava insistente sulla giustizia riparativa. Quella che non si risolve nello scontare soltanto degli anni di galera. Ma nel “riparare” il reato commesso. Ma stavolta ecco che le parole si trasformano in fatti. Anzi, in un fatto. Con uomini e donne in carne e ossa. Per la precisione 102 persone. Per 52 luoghi. E non sono luoghi qualunque. Due per ogni luogo. Luoghi famosi dove questi uomini e queste donne si ritroveranno a vivere e a svolgere un lavoro di pubblica utilità. Hanno commesso un reato che comporta una possibile pena sotto i 4 anni. Questa soglia non è superabile. Ma loro saranno “messi alla prova”. Andranno in luoghi famosi a svolgere un lavoro anziché affrontare un processo. Sarà un lavoro finalizzato a “riparare la colpa” che hanno commesso. E se questa “messa alla prova” darà un esito positivo, allora la fedina penale di ciascuno resterà pulita, e il reato sarà estinto. Luoghi famosi in Italia. Ecco l’elenco che comprende 52 luoghi. In molti casi un simbolo per le città dove si trovano. La lista distribuita in quattro pagine si apre con il Museo nazionale di Matera. E poi. Il Parco archeologico dei Campi Flegrei. La Reggia di Caserta. La Pinacoteca nazionale di Bologna. Il palazzo Reale di Genova. I Musei Reali di Torino. Il museo e il Parco del castello di Miramare. Il Palazzo ducale di Mantova. La biblioteca e il complesso monumentale dei Girolamini. Le biblioteche nazionali di Firenze e Rona. La biblioteca Marciana di Venezia. La biblioteca Sagariga Visconti Volpi di Bari. Le biblioteche di Firenze Marucelliana e Medicea Laurenziana. Le biblioteche statali di Lucca e di Macerata. E ancora le biblioteche di Padova, Pavia, Pisa, Potenza, Sassari, Trieste. Conosciamo i luoghi. Resi noti dalla ministra Cartabia e dal ministro della Cultura Dario Franceschini, assieme nella sede del Mibac, dove hanno spiegato cosa significa che 102 autori di un reato potranno essere “messi alla prova”, svolgendo un lavoro che, come ha detto Cartabia, sarà “una riparazione nei confronti della persona offesa e della collettività”. La Guardasigilli spiega così che cosa succederà: “Trovo che l’istituto della messa alla prova sia un’espressione particolarmente riuscita. E nella delega penale viene potenziato. Quali sono i vantaggi? Alleggerire il carico dei tribunali, dare sollievo alle strutture detentive, evitare il passaggio in carcere. E soprattutto stimolare la cultura della pena come riparazione nei confronti della persona offesa e della collettività. Questa convenzione ha un grande valore pragmatico e simbolico, 52 siti aprono le porte a un centinaio di persone sottoposte alla misura della messa in prova”. Dal 2014 al 15 ottobre scorso le persone che avevano commesso un reato e “messe alla prova” sono state 23.705. Altre 24mila pratiche sono in lavorazione. Le persone che invece hanno avuto un regolare processo e dopo hanno svolto o stanno svolgendo lavori di pubblica utilità sono 8.692. Finora però potevi essere “messo alla prova” presso organizzazioni come la Croce rossa, il Fai, Lega ambiente. Adesso invece, e per la prima volta, un ministero come quello della Cultura mette a disposizione 52 luoghi per persone che comunque hanno commesso un reato. Ma sono disponibili a riparare il danno con un lavoro. Quali reati? Li elenca la stessa Cartabia, “furto, danneggiamento di beni culturali, omissione di soccorso, lesioni personali, stradali…”. Dice Franceschini: “È importante che i lavori di pubblica utilità ai fini della messa alla prova trovino applicazione nei luoghi della bellezza. Guardando l’elenco degli archivi, delle biblioteche e dei musei in cui sarà possibile operare, non si può che pensare che ciò farà del bene alle persone che verranno coinvolte”. Referendum giustizia, il mistero delle firme non depositate di Giulia Merlo Il Domani, 3 novembre 2021 Il referendum sulla “giustizia giusta” è stato giudicato conforme alla legge dalla Cassazione, ma è stato depositato grazie alle delibere di 9 consigli regionali invece che con le firme raccolte ai banchetti. Secondo i vertici di Lega e del Partito Radicale il tema non esiste. Si è scelta questa via “per accelerare l’iter e mettere al sicuro il referendum”, ha detto la tesoriera radicale Irene Testa. Eppure, la decisione di non depositare le firme non è affatto neutra e provoca effetti sia pratici (non si incassano i rimborsi nè lo spazio sui media) che politici nel Partito Radicale. Oltre a far sorgere dubbi sulla correttezza della raccolta firme. Ufficialmente tutto si è concluso nel migliore dei modi: il referendum sulla “giustizia giusta” è stato giudicato conforme alla legge dalla Cassazione e, se passerà il vaglio di ammissibilità della Consulta, potrà svolgersi tra il 15 aprile e il 15 giugno prossimi. Eppure, c’è un aspetto oscuro: a sostegno dei sei quesiti sono state depositate le delibere dei consigli regionali di Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria e Veneto. Non sono state invece utilizzate, e dunque diventano carta straccia, le migliaia di firme raccolte nei banchetti organizzati dal comitato promotore, formato dall’inedito duo Lega-Partito radicale. Secondo la Lega le firme raccolte sarebbero più di 4 milioni, circa 700mila per ognuno dei sei quesiti. Tuttavia, si è preferito non sottoporle al vaglio della Cassazione e scegliere la strada sicura - per quanto la meno utilizzata - delle delibere regionali. Per i vertici leghisti e del Partito radicale il tema non esiste. Si è scelta questa via “per accelerare l’iter e mettere al sicuro il referendum”, ha detto la tesoriera radicale Irene Testa, confermando che la scelta è stata presa in un incontro con Matteo Salvini tre giorni prima del deposito e con Roberto Calderoli un giorno prima. Infatti, “faremo insieme alla Lega anche la campagna per il sì al referendum, quando si celebrerà”. Eppure, la decisione di non depositare le firme non è affatto neutrale e provoca effetti sia pratici sia politici. Senza firme depositate il Partito radicale non sarà parte del comitato promotore, di cui invece saranno membri solo i delegati regionali: tutti leghisti, visto che le regioni sono tutte governate dal centrodestra. Questo significa che il partito non rientrerà delle spese sostenute per la raccolta firme (anche se da dividere insieme alla Lega), che sono ulteriormente lievitate perché nelle ultime settimane è stata attivata anche la firma digitale con lo Spid, con cui si sono raccolte 18mila sottoscrizioni al costo di circa un euro l’una. Inoltre, non gli spetterà nemmeno lo spazio riservato per legge sui media per promuovere il referendum. Politicamente, il Partito radicale fresco di tre giorni di congresso sta ribollendo: è vero che le firme raccolte sono state poche, appena 25mila secondo la relazione del segretario Maurizio Turco, ma è anche vero che sono costate fatica agli autenticatori che hanno lavorato tutta l’estate. E la fatica è anche politica, vista la necessità di andare a braccetto con la Lega. Inoltre, la scelta di non depositare le firme è stata del tutto inaspettata per i militanti: “Tutto è stato gestito in gran segreto, fino al 29 ottobre sapevamo che il giorno dopo saremmo andati a depositare le firme in Cassazione, anche se nessuno ci aveva ancora detto quante fossero alla fine”, dice una di loro. Quante sono davvero A sollevare la cortina di silenzio, però, è servito l’intervento pubblico dell’avvocata Maria Brucale, che ha spiegato come le firme avrebbero comunque potuto essere depositate insieme a quelle dei consigli regionali. “Avremmo dimostrato un’attenzione e una volontà di popolo e noi del Partito radicale non avremmo consegnato la nostra idea di giustizia alla lente distorcente della lega di Salvini. Ma abbiamo rinunciato”. Proprio quello del numero finale di sottoscrizioni è l’elemento su cui manca l’ufficialità. Esiste il racconto in un comunicato della Lega di “ben 368 scatoloni che hanno riempito tre furgoni. Ci sono anche sei hard disk che contengono le firme digitali e i certificati elettorali”. Però senza il vaglio della Cassazione la certezza non c’è. La sensazione che serpeggia, invece, è che qualcosa sia andato terribilmente storto. “Forse le firme ci sono ma non sono state raccolte ad opera d’arte, o forse non ci sono proprio”, dice un iscritto radicale contrario al mancato deposito. Ma il Partito Radicale non avrebbe potuto far altro che accettare la scelta della Lega di procedere coi consigli regionali, viste le sue poche firme raccolte. Anche perché, viene fatto notare, la sede del comitato promotore è stata collocata a via Bellerio, in casa della Lega, e lì sarebbe stata gestita la regia dell’operazione. La certezza è che a reggere poco è la tesi di velocizzare l’iter di Cassazione: il vaglio della Consulta sarà in gennaio e la Suprema corte è forte anche di un surplus di addetti destinati, visto l’arrivo delle firme anche dei referendum sulla cannabis e sull’eutanasia. Un altro dato è che le 700 mila firme a quesito dichiarate sono abbondantemente sotto la soglia del milione pronosticato da Salvini al momento del lancio del referendum. E che nelle ultime settimane si è corsi alla costosa attivazione dello Spid. Segno che, forse, dietro la scelta di depositare le firme dei consigli regionali ci sia l’amaro retrogusto di un fallimento rispetto alle rosee aspettative di mobilitazione pubblica. Costa ora rilancia: “Sui trojan decida un collegio di giudici” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 novembre 2021 La proposta del deputato di Azione, che poi dice: “C’è poco personale? Allora richiamiamo i magistrati fuori ruolo”. Saranno votati oggi in commissione Affari Costituzionali della Camera gli emendamenti all’articolo 1 nell’ambito della conversione in legge del “decreto-legge 30 settembre 2021, n. 132, recante misure urgenti in materia di giustizia e di difesa, nonché proroghe in tema di referendum, assegno temporaneo e IRAP”. L’iniziativa del Governo nasce, tra l’altro, dall’esigenza di adeguarsi alla decisione dello scorso 2 marzo della Corte di Giustizia europea che, pronunciandosi negativamente sulle norme dell’Estonia, aveva stabilito che non può essere il pubblico ministero a disporre l’acquisizione di tabulati telefonici e telematici ma occorre l’autorizzazione di un giudice terzo. Le conseguenze di questa decisione sull’ordinamento nazionale erano state immediatamente oggetto di un acceso e ampio dibattito, sia in sede dottrinale che in sede giurisprudenziale, i cui esiti si sono caratterizzati per numerosi profili di incertezza. Da qui la necessità di uniformare il panorama. Nel caso dell’Italia si prevede che con decreto motivato il gip autorizzi il pm. In caso di urgenza il pm potrà procedere all’acquisizione dei dati con un decreto motivato che deve essere convalidato entro 48 ore dal gip, altrimenti il materiale raccolto sarà inutilizzabile. Al testo, relatore il dem Stefano Ceccanti, sono stati presentati degli emendamenti atti a restringere l’uso del captatore informatico. Il responsabile giustizia di Azione Enrico Costa ha presentato un emendamento all’articolo 267 del codice di procedura: “Il pubblico ministero richiede al tribunale in composizione collegiale l’autorizzazione a disporre l’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante l’inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile di cui all’articolo 266 commi 2 e 2-bis cpp”. In pratica il pubblico ministero dovrebbe richiedere l’autorizzazione all’uso del trojan non semplicemente al gip ma ad un tribunale in composizione collegiale. “Considerato il giusto innalzamento della soglia del controllo giurisdizionale sui tabulati, - ci dice l’onorevole Costa - ho ritenuto di presentare questo emendamento affinché un corrispondente innalzamento ci sia anche sul trojan, che è uno strumento altamente invasivo. Si tratta di decisioni che avvengono al di fuori del contraddittorio delle parti, per cui ci vuole un controllo maggiore nel momento in cui si soffoca il diritto alla riservatezza. Questa mia iniziativa si è ispirata ad un disegno di legge del centrodestra del 2010, che prevedeva addirittura un collegio dei giudici per le semplici intercettazioni. Qualche giorno fa mi è stato preannunciato il no del Governo a questa mia modifica: latore del messaggio, in una riunione di maggioranza è stato proprio chi, con più forza, aveva difeso, anni orsono, la proposta. Una beffa”. Sulle motivazioni della contrarietà del Governo ipotizziamo che sia un problema di risorse umane da indirizzare, ma Costa replica: “mancano le risorse umane? Davvero sconcertante che questa obiezione provenga dall’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, organismo composto da una valanga di magistrati fuori-ruolo che letteralmente dettano legge. Se questi ultimi, e tanti altri, invece di stare a Via Arenula, lavorassero negli uffici giudiziari non avremmo problemi di risorse”. E annuncia: “il distacco dei magistrati negli uffici legislativi, ed in generale nei ministeri, in particolare di quello della Giustizia, rappresenta uno snodo nevralgico della riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm che ci accingiamo a discutere. Se questo problema non verrà risolto non voterò la riforma”. Anche Forza Italia, con l’onorevole Matilde Siracusano, ha colto l’occasione per andare all’attacco del trojan proponendo un emendamento per cui il pm deve indicare “le specifiche esigenze istruttorie che rendono necessaria e indispensabile tale modalità per lo svolgimento delle indagini, nonché le ragioni per le quali ritiene sia insufficiente l’utilizzo di altri mezzi di ricerca della prova”, per esempio delle intercettazioni di tipo ordinario. Lo stesso emendamento richiede anche “l’elenco puntuale dei luoghi e delle circostanze nelle quali possa operare l’attività di registrazione e l’elenco puntuale dei luoghi in cui escludere l’attivazione della funzione di captazione per ragioni di tutela della vita privata, l’indicazione degli orari e delle circostanze in cui operare l’attivazione e la disattivazione del microfono con comando attivato da remoto”. Politica, panpenalismo, ddl Zan e nuovi diritti di Giovanni Fiandaca Il Dubbio, 3 novembre 2021 Pubblichiamo un estratto dell’intervento dal titolo “Giustizia dei diritti e dei processi” del professor Giovanni Fiandaca nell’ambito della Terza edizione di Futura, “Renew South”, la scuola di cultura politica ideata da Davide Faraone. Le scuole di cultura politica sono meritevoli e necessarie, soprattutto in un momento di crisi della politica e dell’affermarsi di fenomeni devianti di populismo politico che hanno creato l’illusione che per fare politica non servono competenza. E invece, soprattutto in materia di giustizia, ci vogliono competenze assai profonde, visto che sono molti e complessi i nessi tra giustizia e politica. Vorrei partire dal titolo che è stato dato al nostro incontro: “Dei diritti e dei processi”, che richiama il Beccaria “Dei delitti e delle pene”. Come mai c’è questo nesso tra diritti e processo? Si parte forse dal presupposto che i processi giudiziari siano lo strumento migliore di riconoscimento e promozione dei diritti? Il tema dei diritti è un tema complesso che incrocia il diritto in generale e nei suoi diversi ambiti, a cominciare da quello costituzionale, poi dal diritto civile e in modo più complicato anche da quello penale. Ma il tema dei diritti incrocia anche la filosofia politica, la filosofia giuridica e la scienza politica, perché storicamente i diritti si affermano da quando prendono il sopravvento concezioni filosofiche che pongono al centro della riflessione l’individuo e, parliamo della seconda metà del ‘500, dal momento in cui viene teorizzata l’esistenza di diritti naturali dell’uomo che preesistono allo Stato e che i legislatori sarebbero tenuti a riconoscere. Fare però riferimento solo ai diritti può essere fuorviante, perché può indurre a trascurare il versante dei doveri richiamato anche nell’articolo 2 della nostra costituzione. Siccome viviamo un’epoca storica in cui poniamo l’accento sui diritti, terrei sempre presente che i diritti hanno o dovrebbero avere un corrispettivo nei doveri. Comunità Lgbt, fine vita, affettività in carcere. Come nascono i nuovi diritti - Nel corso degli anni abbiamo assistito all’emersione di diritti di diversa natura. I primi diritti verso cui lo Stato ha un obbligo di astensione: libertà personale, il diritto alla vita, il diritto ad associarsi e così via. Poi sono sorti i diritti sociali: il diritto al lavoro, all’assistenza sociale, alla salute. I diritti sociali per essere rispettati però presuppongono non un obbligo di astensione da parte dello Stato ma prestazioni in positivo e il loro soddisfacimento richiede anche un impegno economico. In una terza fase sono sorti i diritti biopolitici. Ci chiediamo: esiste un diritto al suicidio? Le diverse Costituzioni europee sono in contrasto. La Corte Costituzionale tedesca, per esempio, lo riconosce; mentre quella italiana no. Esiste poi il diritto delle minoranze omosessuali e transessuali a non essere discriminati. Questo è un nuovo diritto oggetto del ddl Zan. Faccio una provocazione: in una democrazia costituzionale in cui il diritto penale non dovrebbe essere particolarmente invasivo, è giustificato che sia una legge penale lo strumento di affermazione e promozione di un diritto all’identità sessuale? Ed è giustificato che una legge penale faccia propria l’ideologia dell’identità di genere in un contesto politico caratterizzato dal principio del pluralismo, ovvero l’affermazione di un processo di identità dovrebbe essere affidato al confronto culturale e sociale? Esiste un diritto all’effettività e alla sessualità dei detenuti? Questo è un altro nuovo diritto che è sorto da qualche tempo all’orizzonte. Ma da dove nascono questi diritti che sto enumerando? Il diritto a lasciarsi morire, il diritto delle minoranze omosessuali ad essere tutelate, il diritto all’affettività. Per esempio, una sentenza di pochi giorni fa della Cassazione ha affrontato la seguente questione: se il soggetto recluso perché condannato abbia il diritto a potersi comprare un giornaletto pornografico che nelle aspettative del detenuto dovrebbe servire ad agevolare un’attività autoerotica con la fantasia. La Cassazione l’ha risolta in maniera discutibile, culturalmente povera, negando il diritto perché, ritiene, il giornaletto pornografico non è una condizione necessaria per autosoddisfarsi con atti erotici. Questo esempio presenta aspetti che fanno comprendere la difficoltà di come nascono e come si riconoscono i diritti. Domanda: in una democrazia costituzionale come la nostra, sarebbe preferibile che i diritti vengano definiti e precisati nel loro contenuto dal potere politico, il parlamento, o è preferibile, come è avvenuto negli ultimi decenni, che l’elaborazione di nuovi diritti, rimanga affidata alla giurisprudenza, al potere giudiziario, ai giudici? Nel nostro paese, come in altri paesi, è avvenuto che i nuovi diritti siano stati riconosciuti innanzitutto dalla giurisprudenza, dalla Corte Costituzionale. E l’enucleazione di nuovi diritti è avvenuta attraverso l’interpretazione in chiave estensivo-evolutiva di diritti espressamente riconosciuti dal legislatore. Ora, lascio a voi questo interrogativo: la sede privilegiata della razionalità discorsiva, in un ordinamento democratico, risiede nel Parlamento o in un collegio di giudici? Chi è più competente e più legittimato ad elaborare nuovi diritti? È un fatto che i giudici abbiano avuto sempre più spazio nella creazione di nuovi diritti perché la giurisdizione è diventata la sede che esercita una funzione cosiddetta “contromaggioritaria”: cioè la funzione di riconoscere istanze, aspettative e diritti che la politica ufficiale e maggioritaria non è capace di riconoscere o per i contrasti di orientamento politico esistenti tra le forze politiche o perché in contrasto con le scelte governative maggioritarie. Per cui la giurisdizione è diventata una sorta di terreno di compensazione per tutto ciò che la politica maggioritaria non riesce a fare. Ma i giudici hanno più capacità intellettuale e saggezza per riconoscere i diritti? C’è un filosofo della politica molto importante, John Rawls, il quale ritiene che sia la giurisprudenza la sede giusta e non più il parlamento, che avrebbe perduto in competenza e legittimazione nel corso del tempo. Il processo e la giustizia penale - Per parlare di giustizia penale, non dovremmo parlare solo di processi. Vale la pena concentrarsi sulla giustizia e il diritto penale perché sono i settori più violenti e intolleranti dell’ordinamento giuridico. Sono i settori che più mettono a rischio le libertà e i diritti fondamentali dei cittadini. E d’altra parte la giustizia penale è quella che oggi è al centro del dibattito e del conflitto politico. È un’arma a doppio taglio: da un lato macchina di potere che può stritolare i soggetti indagati e imputati; dall’altro è istituzione di garanzia. Ha un volto ambivalente, strutturalmente contraddittorio: è oggetto di tutela di beni, interessi e diritti, ma al tempo stesso limita e sacrifica diritti e interessi dei soggetti cui si applicano le sanzioni quando questi sono ritenuti responsabili. Avendo questo volto bifronte, la giustizia penale è intrinsecamente pericolosa. Perché non è detto che funzioni sempre correttamente, non foss’altro per un fatto iniziale: i giudici sono uomini, e per dirla con Kant, ci sono “legni storti” che possono trovarsi tanto tra i cittadini comuni quanto tra i giudici. Bisogna garantire il più possibile il difficile equilibrio tra la funzione repressiva e la tutela delle persone indagate e imputate. Non sono l’unico a riconoscere, tra i professori e gli studiosi di diritto penale, che purtroppo nel nostro Paese negli ultimi decenni la giustizia penale abbia funzionato con un coefficiente di repressività tendenzialmente superiore al coefficiente garantisco, e si ritiene anche che la giustizia penale abbia avuto un ruolo e un peso, con forme di interventismo eccessivo nello scenario pubblico e nell’arena politica. E che ci sia stato anche un eccesso di pretesa da parte della giustizia penale di controllare la legittimità e la correttezza dell’operato dei soggetti politici e dei “colletti bianchi”. A tutto questo si è aggiunto un fenomeno deteriore che abbiamo definito non a caso “populismo penale”, perché sostenuto soprattutto dalle forze politiche di orientamento populista o sovranista. Queste forze hanno guardato alla giustizia penale come a uno strumento per colpire quei soggetti che hanno contingentemente interpretato o voluto interpretare come “i nemici della società e del popolo”. Pensate ai 5Stelle vecchia maniera, che hanno guardato soprattutto a una figura di nemico sociale rappresentata dal “corrotto”: per cui l’ex ministro Bonafede ritenne di aver fatto un capolavoro con la legge anticorruzione iper-repressiva, la Spazzacorrotti. Come se la funzione della giustizia penale fosse quella di spazzare via, di isolare e bandire dal contesto sociale. Questo investimento eccessivo sul diritto penale come strumento risolutivo per affrontare i maggiori mali della società, è un investimento illusorio, politicamente scorretto, che allontana dall’individuazione dei veri strumenti da adottare per affrontare le più importanti patologie della società. Anche perché questo investimento finisce col risolversi più nell’attribuzione di una funzione simbolico-comunicativa della giustizia penale, che non in uno strumento effettivamente efficace nella prassi. Con la Spazzacorrotti abbiamo eliminata la corruzione? Ma poi è vero che l’Italia è tra i paesi più corrotti al mondo? Per esempio, in un suo articolo su Repubblica, il magistrato Giuseppe Pignatone rileva che è difficilissimo calcolare con criteri scientifici quanta corruzione ci sia in un paese. Si ritiene che la corruzione sia così diffusa in Italia sulla base della cosiddetta percezione soggettiva, una percezione alimentata anche dal sistema mediatico che mette in particolare evidenza e drammatizza singoli casi di corruzione. Oggi nel guardare al sistema penale, non possiamo considerarlo soltanto chiuso nelle aule giudiziarie che hanno finito per assumere addirittura un ruolo secondario rispetto alla giustizia penale come è drammatizzata dai media. Il ruolo dei media - Un giovane interessato oggi alla politica, non deve guardare alla giustizia penale solo in se stessa, ma deve guardare al nesso strettissimo tra giustizia penale e sistema mediatico. C’è una grandissima responsabilità dei media, che è diventata irresponsabilità, nel rappresentare il funzionamento della giustizia penale. C’è troppo diritto penale nello scenario pubblico anche perché è diventato tendenzialmente dominante un certo orientamento culturale dei magistrati che hanno cominciato a ravvisare nel processo penale non soltanto uno strumento di accertamento dei singoli reati, eventualmente commessi, ma che hanno sempre più ravvisato uno strumento di lotta a fenomeni sociali negativi generali, uno strumento di controllo preventivo della legalità che secondo gli schemi teorici del nostro ordinamento costituzionale spetta al governo, alla politica, alla pubblica amministrazione e alla attività di polizia. I magistrati si dovrebbero muovere in presenza di una notizia di reato. Ma cosa vuol dire? Il codice non lo specifica. E stabilire quando esiste notizia di reato dipende molto dal potere discrezionale dei singoli sostituti e delle singole procure. La riforma Cartabia prevede, per il controllo della discrezionalità dell’azione penale, linee guida generali che il parlamento deve stabilire. Si è parlato e si parla di processi, perché se quelli a cui ho accennato sono alcuni problemi di fondo della giustizia penale, negli ultimi tempi il dibattito si è incentrato sulla durata dei processi. Come se il problema della giustizia penale fosse solo quello di rendere più efficace il funzionamento della macchina giudiziaria. Questo è un problema, ma state attenti, non è vero che è il principale problema. Perché non è detto che la celerità del processo possa di per sé servire meglio all’obiettivo della giustizia. Perché ci sono vicende talmente complicate, che sfuggono alla capacità di presa da parte dei “guanti di legno” del diritto penale - si veda il processo Trattativa, processo sbagliato a parer mio che neanche si sarebbe dovuto fare - per cui gli accertamenti richiedono tempo. Ma il problema della lentezza dei processi, dipende anche dall’ipertrofia o inflazione penalistica: cioè nell’eccesso quantitativo di figure di reato nel nostro ordinamento. Una quantità che neanche noi studiosi conosciamo, ci basiamo su stime approssimative che oscillano tra 50mila, 60mila. Oltre il codice penale, esiste la fitta e oscura boscaglia della legislazione penale speciale, leggi e leggine che prevedono figure di reato talvolta sconosciute e obsolete. E alcune sono così bagatellari che scomodare il diritto penale è eccessivo e comporta uno spreco di risorse […]. Ecco a voi il diritto secondo Di Matteo di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 3 novembre 2021 L’ex Pm dice chiare chiare le cose che molti altri magistrati pensano. Una soprattutto: che la politica giudiziaria e l’organizzazione della lotta al crimine spetti alla magistratura. E la Costituzione? Il dott. Nino Di Matteo ha certamente una virtù: pratica ed esprime con autentica onestà intellettuale una idea della magistratura che la gran parte dei Pubblici Ministeri (e tanta parte delle toghe nostrane) condivide e coltiva, ma evita prudentemente di esplicitare con la trasparente sincerità del P.M. palermitano. Ma è quella esattamente l’idea, caro dott. Di Matteo, che ha -allo stesso tempo- consumato in questi trent’anni la credibilità della magistratura agli occhi della pubblica opinione, e gravemente alterato gli equilibri costituzionali tra i poteri dello Stato, a tutto vantaggio del potere giudiziario. Il dott. Nino Di Matteo ha certamente una virtù: pratica ed esprime con autentica onestà intellettuale una idea della magistratura che la gran parte dei Pubblici Ministeri (e tanta parte delle toghe nostrane) condivide e coltiva, ma evita prudentemente di esplicitare con la trasparente sincerità del P.M. palermitano. Ma è quella esattamente l’idea, caro dott. Di Matteo, che ha allo stesso tempo consumato in questi trent’anni la credibilità della magistratura agli occhi della pubblica opinione, e gravemente alterato gli equilibri costituzionali tra i poteri dello Stato, a tutto vantaggio del potere giudiziario. L’intervista che il Fatto Quotidiano, non certo a caso, lancia in prima pagina, è ricca di spunti. Mi limito a coglierne qualcuno. Il dott. Di Matteo teme che si voglia approfittate della crisi della magistratura per “regolare i conti” ed “impedirle il controllo di legalità”. È un linguaggio allarmante, che tradisce una idea “antagonistica” confusamente populista e gravemente approssimativa del potere giudiziario. Al quale, sia detto con chiarezza, la Costituzione non affida affatto “il controllo di legalità”. La magistratura non è chiamata ad occuparsi di fenomeni sociali, ed a governarli (criminalità comune, corruzione, mafie), ma ad accertare e poi giudicare responsabilità personali, rigorosamente dopo aver ricevuto una precisa notizia di reato riferibile ad una o più persone. Il controllo di legalità è semmai affidato all’autorità amministrativa e di polizia, che investe la magistratura solo di eventuali notizie di reato emerse nel corso di quella attività di controllo. E poi, chi esattamente vorrebbe “regolare i conti…per vendicarsi ed evitare che la Magistratura sia troppo incisiva”? Personaggi pubblici che impegnano la propria credibilità in affermazioni di questa gravità hanno il dovere di uscire dalle fumisterie semantiche e dalle semplificazioni fumettistiche, assumendosi la responsabilità di definire con chiarezza i destinatari di una simile, eclatante accusa. Affermare poi che in questo nostro Paese ci sia chi progetti di “trasformare la magistratura in organo collaterale e servente rispetto al potere esecutivo” connota il ragionamento del dott. Di Matteo di un tratto di un umorismo stralunato degno di Groucho Marx. Basterebbe ricordare che appena un mese fa, per dire solo l’ultima di mille, le roboanti e scomposte critiche di due “magistrati antimafia”, basate peraltro su una eclatante falsità (“con la riforma della prescrizione saltano tutti i processi di mafia”, gli unici invece che si celebrano nei ben più brevi termini di scadenza della custodia cautelare) hanno determinato a furor di media la precipitosa (oltre che incostituzionale) riscrittura di una norma appena approvata all’unanimità dal Governo legittimo del Paese. O altrimenti che il Ministero di Giustizia è da sempre occupato - unico caso al mondo - nei suoi gangli decisori ed amministrativi cruciali, da un centinaio di magistrati all’uopo di volta in volta distaccati. O che, più in generale, da trent’anni il Parlamento di questo Paese, da chiunque governato, salvo isolate eccezioni non approva leggi rilevanti in materia di Giustizia penale senza il placet preventivo del potere giudiziario. Suvvia, dott. Di Matteo, non scherziamo! La riforma Cartabia, poi, sarebbe la peggiore della storia repubblicana, per le più varie ragioni. Per esempio, perché affida (era ora!) al Parlamento, e non al Procuratore di Campobasso piuttosto che di Termini Imerese, la indicazione delle priorità della politica criminale (visto che i Procuratori, a differenza del Parlamento, non ne rispondono a nessuno, dott. Di Matteo, pur essendo la scelta delle priorità un atto tecnicamente “politico”, come ci insegnava Zagrebelsky, mica Previti, già nel 1992). La separazione delle carriere, poi, sarebbe un orrore perché piaceva a Licio Gelli. Tipico ma assai diffuso caso di argomentazione ossessivo-compulsiva. Come dire che se a Gelli piaceva l’amatriciana, chi la predilige è uno piduista. Peccato che gli ordinamenti a carriere separate connotano le più grandi democrazie contemporanee (una volta tanto che possiamo apprezzare una idea di Gelli, gli spariamo addosso. Mah!). Infine, quale che sia l’esito del processo sulla Trattativa (una gragnuola di assoluzioni), il dott. Di Matteo è orgoglioso perché grazie ad esso la pubblica opinione “finalmente sa”. Con il che, badate bene, è definitivamente conclamata l’idea della indagine giudiziaria (e del processo) come strumento di divulgazione di “verità” (presunte, beninteso): delle vite umane coinvolte, e delle loro effettive responsabilità, chissenefrega. Grazie dunque al dott. Di Matteo ed al Fatto Quotidiano per questa impietosa, chiarissima fotografia di ciò che la magistratura italiana in tanta parte è ma soprattutto dovrà necessariamente smettere di essere, se vogliamo tornare davvero a vivere in un Paese rispettoso della propria Costituzione. “Sedici anni sotto processo da innocente: nessun pm mi ha mai interrogato” di Simona Musco Il Dubbio, 3 novembre 2021 L’odissea giudiziaria di Pierdomenico Garrone. Una vita sospesa per sedici anni. Una carriera distrutta, spese infinite, reputazione a pezzi. Fino all’assoluzione con formula piena, dopo esser stato accusato perfino di un reato commesso otto anni dopo le sue dimissioni. “Sarebbe bastato chiamarmi in procura e chiedermi delucidazioni. Non azionare tutto questo meccanismo inquisitorio, fare una conferenza stampa, poi abbandonare l’inchiesta per andare a fare l’amministratore di una società pubblica e lasciare che tutti gli imputati, intanto, nelle more, subissero le angherie sociali che abbiamo subito. Immagini una persona perbene, di una famiglia normale, che si vede al mattino le macchine coi lampeggianti accesi e i mitra davanti casa”. Tutto questo è la storia di Pierdomenico Garrone, ex presidente di Enoteca del Piemonte e di Enoteca d’Italia, che pochi giorni fa, in appello, si è visto confermare l’assoluzione già rimediata in primo grado quattro anni fa. Un processo e un’inchiesta lunghissimi, senza esser mai stato sentito dai pm che lo accusavano di aver fatto carte false sfruttando il suo ruolo. A chiudere una storia che si era aperta ad Asti, ad opera dell’allora procuratore Sebastiano Sorbello, ci ha pensato la Corte d’Appello di Roma, che ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dall’allora pm romano Stefano Rocco Fava. Ma nel frattempo Garrone è stato escluso dal mondo della politica e dal mondo della professione. Un tipo di evitare, insomma, nonostante fosse innocente. “Si vive l’esperienza di quello che in giro si vede indicare macchie sulla camicia che non ritiene di avere”, sottolinea. Tutto è cominciato un giorno di aprile del 2005, alle sette del mattino. “Ero in viaggio in treno tra Torino e Milano - racconta al Dubbio Garrone - e ho ricevuto una telefonata da mia madre, che era anziana: così come mio suocero e mia sorella, si era vista arrivare a casa la Guardia di Finanza che, col mitra spianato, stava mettendo sottosopra le nostre proprietà. Una volta arrivato ad Acqui Terme ho scoperto di essere indagato”. Tra le proprietà perquisite, però, mancava proprio casa sua. Così Garrone decise di condurre lui stesso le forze dell’ordine nel suo appartamento, assieme al suo commercialista. “Non volevo essere accusato di aver nascosto o manomesso prove e feci mettere a verbale che nel mandato di perquisizione non era stato inserito il mio luogo di residenza”, spiega. Nel frattempo, alle undici e mezza, nei locali della procura andò in onda la conferenza stampa, dove l’inchiesta venne presentata “come se fossi già stato dichiarato colpevole”. Da quel momento la vita di Garrone cambiò radicalmente, a partire dalle dimissioni da presidente di Enoteca Piemonte ed Enoteca d’Italia, posti in cui era stato piazzato rispettivamente dalla Regione e dal governo e dalla conferenza delle Regioni. Due istituzioni per la promozione del vino in piena attività, con una rilevanza istituzionale in Italia e all’estero. Garrone, all’epoca, presiedeva il Consiglio di amministrazione, dove tutte le decisioni venivano prese all’unanimità. “Non volevo recare nocumento alle due istituzioni, quindi mi sono immediatamente dimesso”, spiega. Il 100% di Enoteca d’Italia apparteneva a Buonitalia, società che poi ha incorporato la prima. “La verifica e il controllo spettavano a Buonitalia - racconta. Io non ricevevo denaro direttamente dal ministero, mi limitavo all’atto di indirizzo di progettazione di comunicazione per la promozione, che è il mio mestiere”. Pochi mesi dopo le dimissioni di Garrone, anche Sorbello - che agli otto indagati (tutti assolti) contestava le accuse di associazione per delinquere, false fatturazioni e truffa ai danni dello Stato - lasciò la magistratura, diventando presidente di un ente pubblico contro la contraffazione dei marchi. L’avventura giudiziaria di Garrone, però, andò avanti anche senza di lui, con il trasferimento del fascicolo a Roma, dove il caso finì in mano a Fava, recentemente rinviato a giudizio nell’ambito del caso Palamara con le accuse di rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, abuso d’ufficio e accesso abusivo a sistema informatico. Neanche lui, però, interrogò mai Garrone. E dopo l’assoluzione in primo grado, decise di ricorrere in appello, ipotizzando per l’ex numero uno di Enoteca la bancarotta fraudolenta per il crac di Buonitalia, fallita nel 2013, ovvero otto anni dopo le sue dimissioni e nonostante non avesse deleghe operative per fare fatti concreti. “Dopo di me ci sono stati altri presidenti e commissari e quindi altri collegi sindacali - evidenzia -. Inoltre, i vertici di Buonitalia non sono mai stati indagati. Giuridicamente l’accusa è risultata assurda anche per il procuratore generale, che ha aperto l’udienza dichiarando di non poterla sostenere”. Com’è stato possibile far durare tanto questo processo? “Credo che sia nelle logiche che leggiamo sui giornali: si tiene poco conto dell’impatto che queste indagini hanno sulla vita delle persone. Ed è per questo che intendo costituire l’associazione “Diritto alla buona fama”“, racconta. Garrone non ha mai subito misure restrittive, tranne quella alla sua reputazione. Il che, per un uomo che vive di politica e affari, è praticamente tutto. “Rimango un signore che nel 2005 riceve un avviso di garanzia più le perquisizioni. Uno che non è stato mai stato sentito né a cui sono stati chiesti chiarimenti, ma che per 16 anni si è portato dietro un carico pendente”, sottolinea. E tutto ciò, di fatto, gli ha impedito di proseguire la sua carriera di manager pubblico. “Ho perso chance non indifferenti: consideri che il settore vitivinicolo è uno dei principali asset del pil di questo Paese e io ne presiedevo la promozione. Io mi occupo di web reputation, vendo credibilità e competenza, ma quando la credibilità è inficiata da un atto di questa natura è fortemente limitata la promozione sul mercato”. Anche economicamente, dunque, le perdite sono state mostruose, a partire dai costi per l’esercizio legale per finire ai danni patrimoniali e professionali da centinaia di migliaia di euro, per tutte le possibilità alle quali non ha potuto accedere. A ciò si associa la fine di Enoteca: “All’epoca della mia presidenza c’era il Salone del vino in Piemonte e il Piemonte era la regione che guidava l’Enoteca d’Italia. Dopo Garrone non c’è più il Salone del vino, non c’è più Enoteca del Piemonte, non c’è più Enoteca d’Italia. E la promozione del vino non è più a sistema com’era stata progettata allora”. Ora Garrone intende chiedere i danni per i 16 anni rimasti a mollo nel pozzo della giustizia: “Provocatoriamente ho già detto che scriverò per sapere a chi devo dare il mio iban per il risarcimento dei danni che ho subito - conclude. Farò tutto ciò che la legge consente, ma certamente non si può pretendere che si spengano le luci e finisca la festa. Altre persone stanno subendo e subiranno le stesse angherie che ho subito io”. Yara: un video di troppo nell’inchiesta di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 3 novembre 2021 Per le immagini del furgone di Bossetti, diffuse dai carabinieri e in realtà un montaggio dei militari, il capo del Ris di Parma aveva querelato decine di giornalisti che l’avevano definito “taroccato”. Ora il tribunale ha disposto per loro l’archiviazione. Il video del furgone bianco di Massimo Bossetti che continua a girare intorno alla palestra di Yara Gambirasio il giorno della scomparsa della 13enne, per il cui delitto verrà poi condannato all’ergastolo nel 2018: attorno a questo video, trasmesso alle tv prima del processo dai carabinieri, nel 2015 fu aspra la polemica quando emerse che ai Tg era stato taciuto che non fosse una ripresa del furgone dell’indagato, ma il montaggio di fotogrammi di diversa provenienza per verificare la compatibilità tra un furgone nei “frame” e il furgone di Bossetti. Ora il Tribunale di Milano esclude che i giornalisti (da Telese a Giuzzi, da Belpietro a Sallusti) pur usando aspri epiteti come video “patacca” o “taroccato” avessero diffamato l’allora capo dei Ris di Parma che ne aveva querelati decine: e non solo perché muovevano da un fatto oggettivo, ma anche per un argomento più sottile e attuale. Il gip Fabrizio Filice osserva infatti che “la diffusione mediatica” di quel video, “il cui scopo era dichiaratamente non probatorio” (tanto da non far parte degli atti veri del processo vero) “ma comunicativo” (sul piano parallelo del processo mediatico), di fatto lese “il fondamentale principio della presunzione di innocenza dell’imputato che, anche in base alla direttiva Ue n.343 del 2016, deve proteggere gli indagati da mediatiche sovraesposizioni deliberatamente volte a presentarli all’opinione pubblica come colpevoli prima dell’accertamento processuale definitivo”. Vietare per il futuro che sulle inchieste i giornalisti possano parlare con i pm e persino coi capi degli uffici giudiziari, come si propone il decreto legislativo che sta per attuare proprio la direttiva Ue, avrà l’effetto opposto di spingere i cronisti a rapporti sempre più opachi con le fonti: ma la storia del video sta lì a ricordare che neppure può essere liquidato a cuor leggero il tema dei possibili riverberi processuali delle scelte mediatiche delle pubbliche autorità. La forza di Ilaria e Bahija: “Insieme avremo giustizia per i nostri fratelli” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 3 novembre 2021 A Repubblica l’incontro organizzato da “Baobab Experience” tra la sorella di Stefano Cucchi e la sorella di Youns El Boussettaoui, ucciso a Voghera dall’assessore Adriatici, adesso tornato in libertà. “Te lo prometto, su questo omicidio non calerà il silenzio”. Si sono abbracciate, nella sede di Repubblica, sorelle nel dolore, da ieri, anche, sorelle nella lotta. “Cara Ilaria, quando ho rivisto mio fratello Youns in ospedale, con il corpo tagliato e ricucito dopo quell’autopsia di cui nessuno ci aveva avvertito, ho subito pensato a te che mostravi il corpo di Stefano massacrato di botte fino a morire. Quanto coraggio hai avuto. Youns era malato, difficile, scappava dagli ospedali, ma era un uomo buono, disarmato ed è stato assassinato. Ho capito allora che soltanto tu avresti potuto aiutarci”. “Cara Bahija, sarò al tuo fianco ma preparati alla battaglia più dura. I nostri due fratelli sono morti da “ultimi”. Stefano perché era un tossico, Youns perché era un immigrato che dormiva in strada. La società non vuole vederli i nostri fratelli, le loro morti non contano, nemmeno per la giustizia. Mi rivedo in te Bahija, oggi siamo sorelle, Stefano è stato ucciso 12 anni fa mentre era in custodia dello Stato, a Youns ha sparato un uomo che rappresentava lo Stato”. Sorridono, si commuovono, si tengono per mano Ilaria Cucchi e Bahija El Boussettaoui, 34 anni, marocchina con la cittadinanza italiana, l’hijab scuro che le fa risaltare il volto, le parole che scorrono impetuose. È arrivata dalla Francia dove oggi vive con i suoi tre bambini perché sull’omicidio di suo fratello Youns, ucciso il 21 luglio 2021 a Voghera dall’assessore leghista alla sicurezza Massimo Adriatici, non cada l’oblio. Insieme a loro c’è Andrea Costa, presidente di “Baobab Experience”, in prima linea tenacemente per i diritti dei migranti, che ha organizzato l’incontro. Da pochi giorni Massimo Adriatici, soprannonimato “lo sceriffo”, accusato di eccesso di legittima difesa, agli arresti domiciliari da luglio, è di nuovo libero. Dalla sua pistola, durante una colluttazione, è partito il colpo, un micidiale proiettile “dum dum” che ha ammazzato Youns, 39 anni, alle spalle ricoveri e fughe dai reparti psichiatrici. Ilaria e Bahija parlano fitto, oltre la frontiera del dolore sono giunchi che non si spezzano, determinate a vincere. Bahija: “L’assassino di mio fratello non è più nemmeno accusato di omicidio. Il sindaco di Voghera ha fatto spazzare via, dal luogo in cui è stato ucciso, i fiori che ogni giorno la mia famiglia metteva davanti alla sua foto. Soltanto perché era malato e immigrato è diventato un rifiuto? Youns ha lasciato due bimbi. Lotto dal giorno della sua morte, non ho potuto nemmeno vivere il mio dolore”. Ilaria: “Sembra la mia storia Bahija. Quando ho visto il muro di gomma che si alzava attorno all’omicidio di Stefano - ci sono voluti tre processi per arrivare alla verità - ho capito che dovevo rendere pubblico tutto, mobilitare la stampa. Mi sentivo piccola di fronte a quell’enormità. Però preparati a subire un nuovo lutto, il processo che la gente farà a tuo fratello. Diranno: è morto un vagabondo, così come di Stefano dicevano: è morto un tossico di merda. In fondo a chi interessa? Uno di meno”. Bahija: “La giustizia Ilaria non dovrebbe essere uguale per tutti? Hanno descritto Youns come una persona violenta. Aveva un problema psichiatrico ma era un ragazzo buono, aveva lavorato finché era stato bene. L’hanno fatto passare per un senzatetto, ma lui una famiglia ce l’aveva. Mio padre si dannava per andarlo a riprendere quando scappava, insieme ai carabinieri. Ogni tanto usciva di testa, forse disturbava. Per questo si può essere uccisi? Le indagini non vanno avanti. Perché mio fratello era marocchino e malato?”. Ilaria: “Sì, può succedere Bahija, le indagini sulla morte di Stefano le abbiamo fatte noi, l’avvocato Fabio Anselmo, i nostri periti, abbattendo non sai quante montagne e l’omertà di un pezzo dello Stato. Quante volte ho vacillato, quando ho perso in appello, quando sono stata bersaglio di campagne d’odio. Avevo paura per i miei figli, mi sentivo in colpa quando dovevo lasciarli per i processi, le udienze. Oggi sono fieri della mia battaglia per Stefano”. Bahija: “È durissima. Ora vivo in Francia, siamo andati via quando in Italia non c’era più lavoro, ma ogni mese torno perché sulla morte di mio fratello non si spengano le luci. Ho già perso due lavori, lascio i bimbi con una baby sitter, trovare i soldi del biglietto è complicato. Questa volta sono venuta grazie a “Baobab”. Sono stati i miei avvocati, Debora Piazza e Marco Romagnoli ad ottenere i filmati delle telecamere, sono loro che stanno ricostruendo cosa è successo davvero quella sera con enormi difficoltà. Sapete, lavorano gratis. Dall’altra parte c’è un uomo che può contare su protezioni, è lui stesso un avvocato. Ce la farò? Youns merita giustizia”. Ilaria: “Ci devi credere. La giustizia è fatta anche di persone per bene. Nella mia terribile storia ho incontrato due magistrati seri, Giuseppe Pignatone e Giovanni Musarò. Sull’omicidio di Youns, te lo prometto, non calerà il silenzio. Con la onlus dedicata a mio fratello, con gli amici di “Baobab” faremo partire la mobilitazione. Chi ha ucciso Youns pagherà il suo conto con la legge, Così come chi ha assassinato Stefano”. Lazio. Riunione dell’Osservatorio regionale sulla sanità penitenziaria garantedetenutilazio.it, 3 novembre 2021 Continuità vaccinale, quarantene e isolamento sotto osservazione. Il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, è intervenuto alla riunione dell’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria della Regione Lazio, che si è svolta lo scorso 28 ottobre a Roma. Alla riunione hanno partecipato i referenti della sanità penitenziaria e, da remoto, in videoconferenza, il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Lazio, Carmelo Cantone. All’attenzione dell’Osservatorio è stato portato il tema della continuità vaccinale nelle carceri del Lazio, in vista della prosecuzione della campagna con la somministrazione delle terze dosi. Anastasìa ha posto l’accento sulle problematiche relative ai periodi di quarantena in isolamento ai quali sono sottoposti i detenuti in ingresso negli istituti penitenziari. sulla necessità di differenziare il trattamento tra nuovi giunti, traferiti da altri istituti e detenuti in rientro da periodi di permesso in famiglia. Istituito con deliberazione della Giunta regionale n.137 del 13/3/2009 (ai sensi del Dpcm 1 aprile 2008), l’Osservatorio ha il compito di monitorare la situazione della popolazione carceraria segnalando avvenimenti di interesse sanitario o eventuali problematiche e criticità negli Istituti penitenziari del territorio regionale. L’Osservatorio opera in sinergia con il Referente medico regionale che si occupa dell’appropriatezza dei trasferimenti per il ricovero dei detenuti presso altri Istituti anche rispetto alle esigenze di sicurezza. E’ composto dall’assessore regionale alla Sanità e l’integrazione socio-sanitaria, dal Garante dei detenuti del Lazio, dal direttore Sanità e integrazione socio-sanitaria, dai referenti di ciascuna azienda sanitaria locale, dal dirigente del Centro di giustizia minorile del ministero di Giustizia, dal Presidente del Tribunale di sorveglianza, dal Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e dal Referente regionale al tavolo nazionale di consultazione permanente sulla sanità penitenziaria. L’attuale composizione è stata stabilita con decreto del Presidente della Regione Lazio n. 282 del 12 novembre 2018. Vicenza. Giustizia-lumaca, per smaltire le cause in tribunale arriva un team di psicologi di Andrea Priante Corriere del Veneto, 3 novembre 2021 Da mesi, nel più assoluto riserbo, all’interno del tribunale di Vicenza lavora un team dell’Università di Padova composto in larga parte da psicologi. È la nuova frontiera della lotta alla Giustizia-lumaca. “Un metodo innovativo per smaltire le cause in arretrato, che proprio nella città del Palladio stiamo sperimentando per la prima volta al mondo” spiega Gian Piero Turchi, professore del Dipartimento di Psicologia applicata dell’ateneo patavino e coordinatore dell’intera operazione assieme al presidente del tribunale Alberto Rizzo. Finanziato dalla Regione Veneto - su spinta dall’assessore al Lavoro Elena Donazzan - e sostenuto anche dall’Ordine degli avvocati di Vicenza, il progetto punta a evitare il maggior numero di processi civili (molti dei quali durano anni) chiudendoli con un accordo di conciliazione tra le parti in causa. E qui entrano in gioco gli psicologi ai quali è stato concesso di consultare i fascicoli pendenti da oltre tre anni nel Palazzo berico. Il team è composto da operatori diplomati al Master di mediazione dell’ateneo, tutti specializzati in “dialogica”, la scienza che analizza e studia - tra le altre cose - le diverse sfumature dell’uso del linguaggio. “Dalle parole che vengono utilizzate nei documenti che compongono il fascicolo - assicura Turchi - si possono capire moltissime cose, a cominciare dai punti in comune e da quelli di contrasto tra le due parti in causa. I testi spesso nascondono informazioni preziose, e se le si sa decriptare è possibile valutare e misurare gli aspetti della controversia sui quali i litiganti saranno più disponibili a trovare un compromesso”. Analizzata - letteralmente “parola per parola” - l’intera documentazione, il team assegna al fascicolo un “indice di mediabilità” che riassume la probabilità che quella lite possa chiudersi con un accordo, evitando così il processo. Non solo: gli psicologi si spingono oltre, fornendo al giudice un report che contiene l’ipotesi della transazione che ha più possibilità di accontentare entrambi i contendenti. L’ultima decisione spetta poi al magistrato e alla sua competenza. “I primi risultati sono sorprendenti - rivela Turchi - pare che circa il 70 per cento delle cause pendenti potrebbe chiudersi con una conciliazione, sgravando le aule dall’incombenza di centinaia di udienze. Siamo fiduciosi: se la sperimentazione confermerà il lavoro svolto finora, questo sistema potrebbe essere replicato in qualunque altro tribunale italiano”. È ancora presto per sapere se sarà davvero questa la cura alla più grave delle malattie di cui soffre il nostro sistema giudiziario. Di certo c’è che - dopo mesi di rodaggio - proprio nei giorni scorsi è arrivata a definizione la prima causa che si trascinava da anni (una lite tra un imprenditore e un ente pubblico) e che si è improvvisamente risolta proprio seguendo le indicazioni degli psicologici dell’Università di Padova. Il presidente del tribunale di Vicenza, Alberto Rizzo, è soddisfatto ma preferisce muoversi con cautela: “È uno strumento innovativo, e quindi aspettiamo a dire di aver trovato la soluzione al problema dell’intasamento dei procedimenti di cui soffrono tutti i Palazzi di Giustizia. Però i primi segnali ci spingono a confidare nell’efficacia di questa collaborazione con l’Università”. Per ora il lavoro di analisi dialogica viene interamente svolto dagli operatori. Ma in futuro non sarà così. “Stiamo “addestrando” un programma di intelligenza artificiale - conclude Turchi - nei prossimi anni sarà il computer ha compiere, molto più rapidamente, una prima scrematura dei fascicoli individuando quelli con un alto indice di mediabilità. Agli operatori rimarrà la responsabilità di suggerire al giudice la strada più sicura per giungere a una conciliazione tra le parti”. Trento. Tentativi di suicidio: audizioni urgenti sul carcere di Spini di Gardolo lavocedeltrentino.it, 3 novembre 2021 ?Si è riunita ieri alle 13 la IV Commissione consiliare, presieduta da Claudio Cia. Si è deciso di accogliere la richiesta del consigliere di Futura Paolo Zanella, per una serie di audizioni urgenti attorno alla situazione del carcere di Spini, dopo i recenti tentativi di suicidio che hanno destato nuove preoccupazioni. Già la settimana prossima la Commissione dovrebbe quindi riunirsi e ascoltare la garante dei diritti dei detenuti Antonia Menghini, l’Azienda sanitaria, la direttrice della casa circondariale Anna Rita Nuzzaci, il sindacato di polizia penitenziaria Sinappe. La IV Commissione ha inoltre concordato che darà udienza prossimamente all’associazione Vaccinare Informati, che già di recente ha avuto modo di illustrare ai consiglieri provinciali le proprie convinzioni in tema di emergenza sanitaria. ?? Tornando a Spini di Gardolo, la situazione dentro il carcere è diventata incandecente e ingestibile. Alcuni giorni fa sono avvenute due pericolose aggressioni ad un poliziotto e un medico. La prima riguarda un detenuto che doveva essere trasferito con un volo militare dall’aeroporto di Verona. Trasferimento che però non è stato portato a termine a causa dello stato di agitazione del detenuto che una volta rientrato nella struttura si era scagliato contro un vice ispettore colpendolo più volte con calci a pugni. In seguito alle ferite riportate, l’agente veniva trasferito al pronto soccorso per essere curato. A un’ora di distanza accadeva una seconda aggressione. Questa volta a scapito del medico penitenziario, il quale è stato improvvisamente colpito da un altro detenuto senza nessun apparente motivazione. Aversa (Ce). Detenuti al lavoro in Caritas e in carcere, via al progetto finanziato dalla Regione casertanews.it, 3 novembre 2021 Protocollo d’Intesa alla Casa di reclusione Filippo Saporito. Ciambriello: “Più misure per il reinserimento”. Finalmente il lavoro. Quindici internati della casa di reclusione Filippo Saporito di Aversa svolgeranno lavori di pubblica utilità grazie al progetto promosso dal garante regionale per i detenuti Samuele Ciambriello e finanziato dalla Regione Campania con un contributo da 20mila euro. Il progetto - Ciambriello e la direttrice della casa di reclusione, Stella Scialpi, hanno dato avvio al protocollo d’intesa che prevede l’assegnazione di 8 internati presso la Caritas di Aversa in lavori in un tenimento agricolo, o presso la stessa Caritas, mentre altri 7 internati invece lavoreranno all’interno del carcere con l’Archivio di Stato di Napoli e con la fondazione Gianbattista Vico per lavori di catalogazione informatizzata delle cartelle cliniche dell’ex O.P.G. di Aversa. Per tale progetto, il Garante ha donato al carcere di Aversa 2 computer e una stampante, utili allo svolgimento delle attività. A margine il garante ha incontrato una delegazione di 10 internati. Le emergenze - In Italia vi sono 335 persone in casa lavoro, suddivise in 6 strutture, tra le quali Aversa. La casa di reclusione di Aversa ospita 164 detenuti di cui 54 internati. Per il Garante Ciambriello: “Le case lavoro messe su con un decreto del 1930 del Ministro Rocco vanno superate perché non sono né case, né offrono lavoro. Nella fattispecie sono detenuti veri e propri. Sono chiusi, hanno gli stessi ritmi di vita di tutti i detenuti, non sono a custodia attenuata. Ad Aversa, tra i 54 internati, sono circa 20 le persone con sofferenza psichica e addirittura 3 con provvedimento del magistrato che devono andare in Rems (Residenze per l’esecuzione di misura di sicurezza) e 2 con Ptri (Progetto Terapeutico Riabilitativo Individualizzato). Non c’è la presenza di uno psichiatra. Credo che questa sia una condizione di ingiustizia che non può essere ignorata. A tale scopo ritengo che questa iniziativa propende a voler dare visibilità a questi invisibili, in un luogo che non rappresenta né una casa (con relazioni, affettività, habitat con spazi di libertà) né una possibilità di riscatto attraverso il lavoro vero e proprio. Insomma occorre pensare a luoghi non detentivi, case che siano veramente tali e contesti di lavoro e di inclusione sociale che coinvolgano sempre di più gli enti locali. Insomma delle vere misure alternative di reinserimento sociale”. Roma. “Disegnare nuove strade: l’inclusione dal carcere alle aziende” un-industria.it, 3 novembre 2021 Prosegue il progetto di solidarietà di Unindustria per sostenere il reinserimento delle persone detenute a fine pena. Il webinar digitale del 4 novembre alle ore 19.30 si terrà nell’ambito della 4week4inclusion, la grande maratona interaziendale promossa da TIM per parlare di diversità e inclusione. Il 4 novembre, alle ore 19.30 si terrà l’incontro digitale sul tema “Disegnare nuove strade: l’inclusione dal carcere alle aziende” dedicato al progetto di solidarietà #UnindustriaperRebibbia nell’ambito della 4week4inclusion, la grande maratona interaziendale promossa da TIM per parlare di diversità e inclusione. Interverranno, oltre a Roberto Santori Presidente della Sezione Consulenza, Attività Professionali e Formazione, Ottavio Casarano, Direttore di Rebibbia, Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio, Rosalba Console, funzionario giuridico pedagogico Capo Area Educativa Rebibbia, Sergio Spinelli, Head of Human Capital & Organization, HSE, General Services and ICT Pavimental. L’incontro si colloca in linea di continuità con il Progetto permanente dedicato alla riqualificazione e al reinserimento delle persone detenute a fine pena promosso dalla Sezione Consulenza presso il carcere di Rebibbia. Il percorso, patrocinato dal Garante dei Detenuti del Lazio, ha visto ad oggi il completamento di tre moduli formativi e l’avvio quest’anno in presenza del IV° modulo, sul tema “Ricerca Attiva del lavoro” sotto la direzione scientifica di Orienta, la consegna di ben 30 diplomi e lo svolgimento per i partecipanti di veri e propri colloqui con i responsabili delle risorse umane di aziende come Fassi, Abbvie, Terna, Bridgestone e British American Tobacco. L’evento del 4 novembre è un ulteriore step di avanzamento dell’iniziativa, recentemente arricchitasi con una collaborazione di ampio respiro con Rai per il Sociale, per sottolineare l’importanza di sostenere, come imprenditori e manager, la riqualificazione e il reinserimento di categorie che - più di altre, a causa del depauperamento connesso a prolungare condizioni di isolamento - possono rivelarsi realmente preziose sia da un punto di vista sociale, che economico. Segui l’evento al seguente link: https://4w4i.it/event/disegnare-nuove-strade-linclusione-dal-carcere-alle-aziende Franca Leosini e le Storie Maledette: “Ora il secondo atto” di Silvia Fumarola La Repubblica, 3 novembre 2021 Dal 4 novembre su Rai3 con ‘Che fine ha fatto Baby Jane?’. “L’idea è raccontare come vivono le persone responsabili di un gesto tragico dopo essere tornate in libertà”. La storia del crimine privato è passata attraverso il suo sguardo da attenta indagatrice dell’animo umano, pronta a scandagliare migliaia di pagine di atti processuali per “capire, dubitare, raccontare”: dopo aver affrontato, dal 1994, ben 98 Storie maledette, Franca Leosini ricostruisce ora il destino di alcuni di quei protagonisti, provando a scoprire in che misura, dopo aver scontato la pena, siano riusciti a riprendersi la loro vita. Che fine ha fatto Baby Jane? è il titolo del programma che riprende il titolo del famoso film del 1962 interpretato da Bette Davis e Joan Crawford, con cui la giornalista napoletana torna il giovedì su Rai3, il 4 e l’11 novembre. In uno studio di grande impatto visivo, Leosini ripercorre la vicenda umana e giudiziaria del protagonista della puntata, il cui volto è svelato solo quando lo spettatore viene riportato al presente: “L’idea - spiega la giornalista - è raccontare il secondo atto della loro storia, capire come queste persone, responsabili di un gesto tragico spesso lontano dalla loro realtà umana, oggi libere o in regime di articolo 21 (il lavoro all’esterno del carcere, ndr), vivano il rapporto con la loro vicenda drammatica e con la società”. La prima puntata è dedicata a Filippo Addamo, che Leosini incontrò per la prima volta 17 anni fa, nel penitenziario Bicocca di Catania: aveva 23 anni, nel marzo del 2000 aveva ucciso la madre Rosa con un colpo di pistola alla nuca. Da giugno 2019, dopo aver scontato per intero la sua pena, l’uomo è tornato in libertà: “Alle 5 di quel tragico mattino Filippo andò dalla madre, che amava profondamente, per affrontarla dopo aver scoperto che era l’amante di un suo amico di 25 anni - racconta - Voleva compiere un gesto di intimidazione? Ci andò però con la pistola carica. Oggi si è rifatto una vita, si è costruito una famiglia, ha un bambino piccolo, ma non ha superato la colpa, non è libero nell’anima: ci sono conti che non si chiudono”. L’altra protagonista è Katharina Miroslawa, che Leosini ha incontrato per Storie maledette nel gennaio 2001 a Venezia, nel carcere La Giudecca. La bellissima ballerina polacca danzava nei night club, fino al giorno in cui, nel 1986, furono esplosi due colpi di pistola contro il suo amante, l’imprenditore Carlo Mazza, che in suo favore aveva stipulato una polizza sulla vita da un miliardo di lire. Un omicidio del quale la donna ha sempre negato ogni responsabilità ma per il quale è stata condannata come mandante a 21 anni e 6 mesi, nel 1993. Dopo un’avventurosa latitanza, in carcere è entrata solo nel 2000 e da otto anni è tornata in libertà. “Katharina è diventata un po’ la leggenda di se stessa”, sospira Leosini. “Vedremo che donna è oggi, come convive con il suo passato. Il mio atteggiamento, doveroso, è sempre lo stesso: non essere mai partigiana, non accusare né assolvere, ma cercare di capire”. Andare in profondità in una storia vuol dire “investirci tanto tempo: ecco perché lavoro molto e compaio poco. Dietro una puntata ci sono mesi e mesi di studio, anche perché tratto una materia dolorosa e delicata e posso condizionare l’esistenza delle persone che si affidano a me. Per questo, con disperazione dei miei direttori, le puntate che realizzo sono sempre meno di quante vorrebbero”. Archiviato il caso Luca Varani - lo scorso novembre la Rai cancellò la replica della sua intervista all’uomo condannato come mandante dell’aggressione a Lucia Annibali, per non urtare la sensibilità delle vittime e dei telespettatori - Franca Leosini aspetta “con curiosità e ansia” il verdetto del pubblico: tra i suoi fan, i ‘leosiners’, il countdown è già scattato, “ma certo si tratta di una nuova avventura, completamente diversa. Se mi aspetto polemiche sui social? Il mio approccio è improntato al massimo rispetto e attenzione, ma non mi faccio strumentalizzare né cedo a manipolazioni di alcun tipo”, rivendica. Ma il capitolo Storie maledette non è archiviato: “C’è sempre l’idea di riprenderlo, ma certo, finché non sarà tramontato il Covid, non potrà risorgere. Con le restrizioni valicare i confini di un carcere è praticamente impossibile”. Le due puntate di Che fine ha fatto Baby Jane? saranno disponibili anche su RaiPlay Radio con una serie podcast di Rai Radio 1 di otto puntate, le prime quattro dal 5 novembre, le altre dal 12. Il 2 novembre di Papa Francesco contro la guerra e gli armamenti di Luca Kocci Il Manifesto, 3 novembre 2021 Il Papa al Cimitero militare francese di Roma: queste tombe gridano “Pace!”. Le tombe dei soldati uccisi in guerra non incitano all’eroismo, ma gridano: “Fermatevi, fabbricanti di armi!”. Per la giornata del 2 novembre, commemorazione dei defunti, papa Francesco ha scelto di celebrare la messa al cimitero militare francese di Roma, dove ha colto l’occasione per condannare ancora una volta la guerra e gli armamenti. Prima una breve camminata fra i vialetti del Cimitière Militaire Français, a Monte Mario, dove sono sepolti 1.888 soldati francesi morti in Italia fra il 1943 e il 1944 nei combattimenti contro nazisti e fascisti (la maggior parte non è di origine francese, ma goumiers, soldati di nazionalità marocchina accorpati all’esercito francese, protagonisti anche di violenze contro le donne, soprattutto nel basso Lazio). Quindi una breve sosta presso la tomba di un soldato senza nome (inconnu), proprio mentre in Italia è a pieno regime la macchina propagandistica per le celebrazioni del centenario del milite ignoto. Infine l’omelia, durante la messa celebrata nel cimitero. “Questa gente è morta in guerra, è morta perché è stata chiamata a difendere la patria, a difendere valori, a difendere ideali e, tante altre volte, a difendere situazioni politiche tristi e lamentabili. Sono le vittime della guerra, che mangia i figli della patria”, ha detto il pontefice, parlando a braccio. “Sono stati chiamati dalla patria per difenderla”, ha proseguito Francesco, “ma noi lottiamo sufficientemente perché non ci siano le guerre? Perché non ci siano le economie dei Paesi, fortificate dall’industria delle armi? Oggi la predica dovrebbe essere guardare le tombe: “Morto per la Francia”; alcune hanno il nome, poche altre no. Ma queste tombe sono un messaggio di pace: “Fermatevi, fratelli e sorelle, fermatevi! Fermatevi, fabbricatori di armi, fermatevi!”. Queste tombe, che parlano, gridano: “Pace!”“. Parole molto simili Francesco le pronunciò il 13 settembre 2014 a Redipuglia (Go), il più grande sacrario militare italiano della prima guerra mondiale - 100mila soldati sepolti, di cui 60mila senza nome - voluto da Mussolini e inaugurato il 18 settembre 1938, lo stesso giorno in cui a Trieste vennero proclamate dal duce le leggi razziali. “La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione: volersi sviluppare mediante la distruzione!”, disse allora il papa. E “dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi”. Proprio ieri è arrivato a Roma il “treno della memoria”, che ha replicato il viaggio che, nel novembre 1921, portò la salma del milite ignoto dalla cattedrale di Aquileia a Roma, per essere tumulato al Vittoriano. Dove domani si svolgerà la solenne celebrazione propagandistica del centenario, con lo slogan: “La grandezza non ha un tempo e non ha un nome”. Cop26, i social in campo per fermare la disinformazione sul clima di Raffaella Menichini La Repubblica, 3 novembre 2021 Twitter annuncia un controllo a monte dei contenuti incrementando la visibilità di notizie provenienti da esperti qualificati. Anche Facebook e Google hanno fatto partire le loro iniziative. La scienza prima di tutto. Dopo l’impegno per contrastare la disinformazione sulla pandemia e i vaccini, le grandi aziende tech si trovano davanti un’altra emergenza di natura scientifica: i negazionisti dei cambiamenti climatici. Nella settimana della Cop26 a Glasgow e con il mondo dell’informazione tutto concentrato, almeno per qualche giorno, su efficienza energetica, catastrofi ambientali, sconvolgimenti climatici epocali, da Twitter, Facebook, Youtube partono iniziative per garantire che sulle loro piattaforme circolino conversazioni razionali, informazioni solide e verificate, fonti affidabili. Twitter ha annunciato ieri un nuovo programma mirato al “pre-debunking” della disinformazione ambientale, cioé modifiche dell’algoritmo che espongono gli utenti a informazioni di verificata accuratezza sul tema dei cambiamenti climatici. Si tratta di un approccio diverso rispetto a quello adottato su Covid19 e vaccini: invece di intervenire in fase di moderazione monitorando e cancellando i contenuti fuorvianti e pericolosi, il “pre-bunk” interviene a monte, incrementando la visibilità di informazioni provenienti da esperti qualificati negli spazi di Twitter in cui l’utente va a fare ricerche, negli spazi di “esplorazione”, nelle liste dei trending topic. Questo tipo di informazione “potenziata” sarà disponibile per tutti gli utenti in arabo, inglese, giapponese, portoghese e spagnolo. Nei nuovi “Twitter space”, le “stanze” di conversazioni audio in diretta, verranno organizzati dibattiti con personalità di rilievo nel campo della ricerca su energie rinnovabili e cambiamenti climatici. La piattaforma ha aperto una pagina dedicata alla conferenza di Glasgow con le breaking news e l’accesso a fonti qualificate. E non poteva mancare una serie di tag e emoji specificamente creati per la conferenza, come #COP26, #RaceToZero #RaceToResilience, #TogetherForOurPlanet. La strategia “preventiva” di Twitter, che si avvarrà della collaborazione di scienziati e giornalisti esperti del settore, si interromperà dopo la conclusione della COP26 anche se Twitter assicura che il monitoraggio su queste tematiche continuerà, e saranno rimesse in atto misure di contenimento della disinformazione (di cui si prevede un picco durante la kermesse di Glasgow) se e quando essa dovesse ripresentarsi in modo allarmante. La strategia preventiva contro la disinformazione in occasione di eventi prevedibilmente controversi è ormai una prassi consolidata, dopo anni di polemiche e accuse alle aziende “Big Tech” non solo di offrire un megafono a complottisti e negazionisti, ma addirittura (come è emerso di recente nei Facebook Papers) di promuoverne i contenuti fuorvianti e pericolosi, perché producono più traffico e interazioni sulla piattaforma, e dunque sono più redditizi. Anche Facebook si è mossa in anticipo sulla Cop26 e a settembre ha annunciato una serie di misure di contrasto della disinformazione sul clima. Tra queste, un’iniezione da un milione di dollari in un programma di fact-checking in collaborazione con agenzie specializzate, e l’espansione del Climate Science Center, un’iniziativa partita l’anno scorso per diffondere informazione attendibile sui cambiamenti climatici. Appare invece destinata ad avere un impatto più diretto l’iniziativa di Google, annunciata un mese fa, di una nuova policy della monetizzazione dei contenuti diretta a “chi pubblica pubblicità su Google, agli editori e ai creatori di Youtube” che “proibisce la pubblicità, e la monetizzazione, di contenuti che contraddicono il consenso scientifico riguardo l’esistenza e le cause dei cambiamenti climatici”. Youtube era finita al centro delle polemiche nel gennaio scorso dopo che un’inchiesta del gruppo nonprofit di attivismo digitale Avaaz aveva fatto emergere un grande giro d’affari di pubblicità intorno a video negazionisti e pieni di disinformazione sui cambiamenti climatici. Lo studio aveva identificato una serie di video con oltre 21 milioni di visualizzazioni che venivano proposti agli utenti dopo la ricerca di termini come “cambiamenti climatici”, “riscaldamento globale” o le teorie del complotto circa la presunta “manipolazione climatica”. Nei video si sostiene che i cambiamenti climatici sono una truffa, un’invenzione, si negano le basi scientifiche del surriscaldamento del pianeta o si nega l’impatto delle emissioni di gas serra dai combustibili fossili e di altre attività umane. “Negli ultimi anni abbiamo sentito direttamente da un numero crescente di nostri partner pubblicitari e creatori di contenuti la preoccupazione di vedere promossi con la pubblicità dei contenuti non accurati riguardo ai cambiamenti climatici”, ha detto Google. “I pubblicitari non vogliono che i loro spot compaiano vicino a questi contenuti. E gli editori e i creatori non vogliono che pubblicità contenenti queste tesi compaiano sulle loro pagine e nei loro video”. La sfida non è semplice: a differenza di quel che accade per la propaganda no vax sul Covid19, in cui l’avversario principale è “Big Pharma”, nel caso del negazionismo climatico le principali fonti di disinformazione sono le grandi aziende, soprattutto del settore petrolifero e del gas. Tanto che è partita una corsa al distanziamento da questo settore produttivo, in termini di promozione e immagine, che, scriveva qualche settimana fa il New York Times, ricorda un po’ le campagne antifumo di qualche decennio fa. “Si moltiplicano gli appelli affinché queste industrie non possano fare campagne di affissione nelle città o sponsorizzare gli sportivi”. Greenpeace Usa e altri gruppi ambientalisti hanno presentato un reclamo formale presso la Federal Trade Commission accusando Chevron di “offrire in modo sistematico un’immagine di sé falsata, come azienda attenta al clima e alla giustizia razziale, quando invece tutte le sue operazioni si basano sullo sfruttamento di combustibili fossili inquinanti”. Exxon, riporta il Nyt, è stata denunciata più volte dai democratici per l’utilizzo fraudolento di pubblicità ingannevoli circa i cambiamenti climatici. E anche nell’editoria giornali e riviste scientifiche, come il British Medical Journal e The Guardian, cominciano a rifiutare la pubblicità delle industrie che sfruttano combustibili fossili. Emergenza climatica. “Dai Grandi solo parole, un vero piano non c’è” di Giovanni Caprara Corriere della Sera, 3 novembre 2021 Il Premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi: “Siamo sempre al prometti tanto, mantieni poco”. “Al G20 si è raggiunta un’intesa sul contenimento del riscaldamento globale entro 1,5 gradi, ma una cosa è dirle queste cose, un’altra è stabilire concretamente una serie di misure da affrontare, una road map; altrimenti fra cinque anni ci si ritrova per constatare l’impossibilità del risultato. Se non si realizza un piano dettagliato, e condiviso dalle nazioni, è difficile pensare che la promessa sia mantenuta”. C’è molto scetticismo nelle parole del Premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi, studioso dei sistemi complessi, com’è quello del clima che cambia. Prima di tutto, rispetto al clima c’è ancora chi esprime dei dubbi sulle affermazioni degli scienziati. La scienza oggi è capace di decifrare con precisione il problema? “Le previsioni ci danno uno spettro di possibilità, e anche quelle più prudenti offrono valori sicuri e affidabili che corrispondono ad aumenti forti nei cambiamenti. Quello che adesso ci serve è una maggiore ricerca per ridurre il ventaglio delle ipotesi, renderle più precise e soprattutto diventare sempre più efficaci nel controllo degli eventi imprevisti. Negli ultimi tre anni, per esempio, sono aumentati gli incendi boschivi che immettono grandi quantità di anidride carbonica nell’atmosfera. Fare una stima è arduo, ma di sicuro simili eventi accelerano il peggioramento”. Tornando al “piano dettagliato” che lei chiede, che cosa intende? “Intanto bisogna capire che gli interventi necessari incidono sulle abitudini delle popolazioni. Quando vado ad Hong Kong devo girare con il maglione di lana in metropolitana o in hotel per proteggermi dal freddo pure d’estate... Sono questi sprechi che bisogna eliminare. Comunque, prima di tutto serve la lista precisa degli interventi da attuare”. Al di là degli impegni ottenuti al G20 di Roma le posizioni dei grandi Paesi a Glasgow restano diverse... “Questa è la realtà. Si tratta di economie nazionali in concorrenza fra di loro. Il problema fondamentale è “frenare” queste economie per rallentare le emissioni e farlo con il consenso delle popolazioni. Si è poi parlato di cento miliardi di dollari all’anno da garantire ai Paesi in via di sviluppo per aiutarli nell’acquisire tecnologie energiche non inquinanti. Si tratta di noccioline per i Paesi ricchi, ma ancora molti di quei soldi non sono stati erogati. Si torna sempre al “prometti tanto e mantieni poco”“. Da più parti si afferma che il ricorso alle energie rinnovabili non basta per tagliare le emissioni di gas serra. Che cosa ne pensa? “È chiaro che bisogna far ricorso a tante risorse. A cominciare dal risparmio. Costruiamo mega-città verso le quali si incolonnano ogni giorno code di automobili... è evidente che occorre trovare il modo di consumare meno aumentando i servizi pubblici. Le nostre case devono essere adattate ad una maggiore efficienza energetica e nelle aziende è necessario introdurre processi industriali meno dispendiosi in termini di energia. E ancora: bisogna convincere i cittadini, cominciando ad esempio ad accettare di più il car sharing per muoversi. C’è un enorme spreco nella fabbricazione di automobili: diminuirla aiuterà”. Per disporre di una fonte energetica senza emissioni, in vari Paesi si fa strada l’ipotesi del ritorno al nucleare... “Sulla questione bisogna guardare al rapporto danni-benefici e tutto dipende dal Paese. Se Chernobyl fosse stata in Val Padana, con una popolazione molto superiore a quella zona dell’allora Urss, avrebbe provocato milioni di morti. In ogni caso è da escludere in Paesi come l’Italia densamente abitati. Per la quarta generazione degli impianti nucleari a fissione di cui si parla perché più sicuri, adesso esistono solo prototipi che devono dimostrare la loro qualità; tuttavia sono sempre da escludere dove vive la gente. È diverso se i cinesi vogliono realizzarle in zone remote”. Ritiene possibile l’obiettivo delle “emissioni zero” per la metà del secolo? “Senza un piano preciso è un’illusione. Quando al Cern decidono di costruire un nuovo acceleratore da accendere vent’anni dopo si comincia a stabilire di anno in anno che cosa disporre. È così che si deve agire. Per i trasporti se facciamo ricorso ai biocarburanti bisogna organizzarsi per produrli, altrimenti camion, navi e aerei continueranno a utilizzare risorse fossili”. In Italia facciamo abbastanza per affrontare il cambiamento climatico? “Ho l’impressione che le cose non siano ben capite e ritenute necessarie. Non vedo la gente che installa pannelli solari sui tetti. A Roma se facciamo una ricognizione, sui tetti vediamo più piscine che celle solari. È evidente che le amministrazioni comunali dovrebbero predisporre regole e sollecitare i condomini per attuare degli interventi, magari offrendo assistenza ai progetti senza onere alcuno”. Il premier Mario Draghi ha sottolineato che finora si sono compiuti passi insufficienti. Il segretario delle Nazioni Unite António Guterres ha parlato di “speranze disattese, ma almeno non sepolte”. Il suo giudizio? “Condivido”. Migranti. Il Viminale: nei Cpr assicurare il rispetto di diritti e dignità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 novembre 2021 I prefetti devono assicurare assistenza psicologica e attività ricreative nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), ma anche cura e sostegno ai migranti vulnerabili rilasciati. Parliamo della direttiva del ministero dell’Interno che non solo, com’è stato reso già noto, ha disposto la chiusura dell’ospedaletto del Cpr di Torino, ma in seguito ha recepito anche le altre osservazioni rese dal garante nazionale delle persone private della libertà. La circolare del ministero dell’Interno che ha come oggetto “Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Iniziative per il miglioramento delle condizioni di trattamento sotto il profilo sociale e psicologico”, fa riferimento ai rapporti relativi alle visite nei Cpr redatti dal Garante nazionale. Ed è lì che sono state rappresentate talune carenze nell’assistenza di natura socio - psicologica a favore dei trattenuti. Sul punto, il Viminale sottolinea che sulla base di quanto previsto dal vigente regolamento unico Cie, approvato con decreto del ministro dell’Interno del 20 ottobre 2014, nei casi in cui “a seguito delle visite effettuate nel Centro (...) emerge la necessità di trasferire lo straniero in una struttura ospedaliera per ulteriori accertamenti o per la prestazione di cure, il medico responsabile informa il direttore del Centro che provvede tempestivamente a disporre l’accompagnamento dello straniero…”, a tal fine, è altresì previsto che “Il Prefetto provvede al coordinamento con strutture sanitarie pubbliche per la prestazione delle cure e dei servizi specialistici (...), attraverso la stipula di protocolli d’intesa”. Al riguardo, in considerazione di quanto indicato in premessa, il ministero dell’Interno rappresenta la necessità di provvedere alla stipula dei suddetti protocolli, ove non già provveduto, e se del caso di rafforzarne il contenuto, “valutando - si legge nella circolare - l’inserimento di ogni utile previsione idonea a migliorare l’efficacia degli interventi nello specifico settore e prevedendo, altresì che, anche in fase di rilascio dal Cpr, vengano prestate le cure e l’assistenza necessarie a tutelare l’integrità fisica dei migranti, nell’ambito del quadro normativo vigente”. Il ministero, inoltre, ritiene utile richiamare l’attenzione sulla possibilità - sempre nell’ottica del miglioramento dei servizi - di stipulare accordi di collaborazione con enti, associazioni di volontariato e cooperative di solidarietà sociale, anche al fine di favorire lo svolgimento di attività ricreative all’interno dei Centri. Non solo. Il ministero dell’Interno evidenza la necessità di assicurare, mediante l’attività di controllo e di monitoraggio, la corretta erogazione, nell’ambito di tali strutture, tra gli altri, dei servizi di assistenza sociale e psicologica, secondo quanto stabilito dalle convenzioni in essere con gli enti gestori ed alla luce di quanto previsto dal vigente Capitolato generale di appalto di cui al decreto del ministro dell’Interno del 29 gennaio 2021. La circolare, nell’evidenziare, in linea generale, l’importanza di attivare ogni utile iniziativa volta al miglioramento complessivo dei servizi a favore delle persone trattenute, nell’ottica di alleviare l’afflittività della permanenza nei centri e di assicurare il pieno rispetto dei diritti delle persone trattenute e della loro dignità, chiede di conoscere le iniziative assunte. Ricordiamo ancora una volta, che il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale il 14 giugno 2021 aveva effettuato una visita di follow up al Centro di Torino (il giorno della visita erano presenti 100 cittadini stranieri), a seguito del suicidio, all’interno del Cpr, del cittadino guineano Musa Balde. Nel Rapporto sulla visita aveva formulato diverse Raccomandazioni tra cui la necessità di ovviare alle carenze nell’assistenza socio- psicologica alle persone trattenute. Il Garante, in merito alla circolare, accoglie molto positivamente il riferimento alla necessità di favorire, mediante accordi con enti, associazioni di volontariato e cooperative di solidarietà sociale, lo svolgimento di attività ricreative all’interno dei Centri, peraltro così come previsto dal Regolamento unico Cie. Nel valutare con soddisfazione l’accoglimento di proprie Raccomandazioni, volte a innalzare la tutela dei diritti e della dignità delle persone trattenute, il Garante Nazionale auspica che vengano tempestivamente rese operative. Migranti. Navi Ong, stop a quarantene e fermi amministrativi di Giansandro Merli Il Manifesto, 3 novembre 2021 Da oltre due mesi nessun blocco. Un ricorso al Tar fa revocare l’isolamento sanitario della nave ResQ: l’Usmaf ritira il provvedimento in autotutela prima della decisione del tribunale. È bastato un ricorso al Tar per mostrare come le quarantene alle navi Ong fossero una tigre di carta. Dall’inizio della pandemia solo queste navi sono finite in isolamento ogni volta che hanno toccato un porto italiano al termine delle missioni di soccorso. Un’iniziativa di ResQ ha messo fine a questa prassi. L’organizzazione italiana è l’ultima arrivata nel Mediterraneo centrale, dove ha realizzato una missione ad agosto e una a ottobre. La seconda è terminata il 15 del mese scorso a Pozzallo con lo sbarco di 58 migranti. Come di consueto per le navi umanitarie il locale Ufficio di sanità marittima, aerea e di frontiera (Usmaf) ha disposto 10 giorni di quarantena. Una misura d’ufficio visto che tutti i tamponi avevano dato esito negativo. Stavolta, però, ResQ ha fatto ricorso al Tar di Catania. Il tribunale amministrativo ha disposto un’ordinanza istruttoria dando un giorno di tempo all’Usmaf per spiegare i motivi della quarantena. L’Usmaf, e quindi il ministero della Salute da cui dipende direttamente, ha preferito revocare il provvedimento in autotutela. “Non aveva alcuna base legale. In base ai Dpcm, ma anche all’esperienza comune delle altri navi, se le persone sono asintomatiche la quarantena non viene disposta. Dall’inizio della pandemia è successo solo alle Ong: l’ennesima misura per ostacolare la loro operatività”, spiega l’avvocato Livio Neri, che ha firmato il ricorso. Gli effetti dell’azione legale non si sono limitati al caso di ResQ. Il 23 ottobre sempre a Pozzallo è arrivata la Sea-Watch 3 con 406 migranti, quattro giorni dopo la Geo Barents di Msf ha sbarcato 367 naufraghi a Palermo. In entrambi i casi tutti i tamponi hanno dato esito negativo. Era accaduto anche in altre missioni, ma per la prima volta le navi non sono finite in quarantena. In isolamento sanitario a Trapani è invece la Aita Mari. Il 24 ottobre ha sbarcato 105 persone. Tra loro c’erano alcuni positivi e l’Usmaf ha decretato 10 giorni. La Ong non ha impugnato il provvedimento, ma la presenza di migranti affetti da Covid-19 non rende automaticamente la misura legittima. Per equipaggi e personale viaggiante la legge prevede eccezioni, che dovrebbero valere ancor di più su navi dotate di protocolli medici anti-contagio. In ogni caso le Faq del ministero della Salute dicono che gli asintomatici vaccinati che hanno avuto contatti con positivi, come l’equipaggio dell’Aita Mari, devono fare 7 giorni di isolamento più tampone nei casi ad “alto rischio”, nessuno in quelli a “basso rischio”. Il caso delle “quarantene selettive” era stato sollevato dal manifesto a febbraio scorso. Dalle inchieste giornalistiche era nata un’interrogazione parlamentare al ministro Roberto Speranza (Articolo 1) presentata dal senatore Gregorio De Falco (gruppo misto). De Falco chiedeva conto di una “misura discriminatoria disposta dall’Usmaf che non trova fondamento in ragioni di carattere sanitario”. L’interrogazione non ha avuto risposta. Nel frattempo anche sul fronte dei fermi amministrativi si registrano novità importanti. La perseveranza delle Ong sembra aver pagato, almeno per ora. Il punto di svolta si è verificato alle 12.30 del 21 agosto, quando la Sea-Watch 3 ha mollato gli ormeggi dal porto di Trapani. Per la prima volta in 16 mesi non era stata sottoposta a Port state control (Psc) e al conseguente fermo. Nei database ufficiali non risultano Psc nei confronti di nessuna nave umanitaria nel periodo successivo. Dal 5 maggio 2020 queste ispezioni erano diventate un appuntamento fisso alla fine di ogni missione. Producendo sempre lo stesso esito: detenzione. Le ragioni di questo secondo cambio di prassi sono più difficili da decifrare e potrebbero avere diverse cause. Intanto c’è stato un avvicendamento al vertice della guardia costiera: il 23 luglio l’ammiraglio ispettore capo Giovanni Pettorino ha lasciato il posto di comandante generale all’omologo Nicola Carlone. Nel frattempo le autorità di bandiera delle navi tedesche, spagnole e norvegesi avevano accolto alcune richieste su certificazioni statutarie e dotazioni di sicurezza avanzate dalla guardia costiera. In alcuni casi, però, lo hanno fatto specificando che se i fermi fossero continuati anche le navi commerciali italiane eventualmente sottoposte a ispezione nei porti di loro competenza avrebbero potuto subire le stesse contestazioni fatte alle Ong. Del resto queste non si fondano su un chiaro dettato normativo, come sottolineato anche dai pm di Agrigento nella richiesta di archiviazione del procedimento contro Mediterranea per la missione di marzo 2019. Al termine delle indagini i magistrati siciliani hanno concluso che non esistono certificazioni specifiche per le navi civili che svolgono attività di ricerca e soccorso. Dunque le richieste delle autorità italiane sembrano prive di fondamento giuridico. Questo punto sarà chiarito nei prossimi mesi dalla Corte di giustizia europea a cui sono stati trasmessi gli atti del ricorso al Tar di Palermo presentato da Sea Watch lo scorso dicembre. Il procedimento volge ormai al termine e se i giudici europei dovessero dare ragione alla Ong la decisione peserebbe sugli altri procedimenti analoghi aperti in Sicilia e Sardegna. Le richieste di risarcimento danni sarebbero a quel punto una possibilità concreta. Dobbiamo salvare Julian Assange di Adolfo Pérez Esquivel Il Manifesto, 3 novembre 2021 L’appello urgente del Premio Nobel per la pace alla giustizia britannica. La sua estradizione negli Stati uniti “sarebbe la condanna a morte di un difensore della libertà di informazione”. Ai popoli del mondo, chiese, organizzazioni sociali, sindacati, università, giornalisti, mezzi di informazione e governi democratici, alle donne e agli uomini di buona volontà difensori della libertà e dei diritti dei popoli. La vita di Julian Assange è in pericolo. Il governo degli Stati uniti da anni perseguita Julian Assange, colpevole di aver svelato le atrocità che questo governo ha commesso e commette nel mondo: violenze, invasioni, colpi di stato, omicidi, torture, persecuzioni di paesi di orientamento ideologico diverso, embarghi, crimini che si tenta di nascondere e che restano totalmente impuniti sia dal punto di vista legale che da quello sociale, nel disprezzo dello Stato di Diritto e in violazione dei diritti umani e dei diritti dei popoli. Gli Stati uniti insistono per ottenere l’estradizione di Julian Assange, che negli Usa verrebbe condannato a 175 anni di prigione per aver pubblicato informazioni sulle suddette atrocità. Dopo 6 anni trascorsi come rifugiato politico nell’ambasciata cilena a Londra, Assange è stato consegnato alla polizia britannica e da allora è confinato in un carcere di massima sicurezza. Attualmente una corte britannica lo sta giudicando per poterlo estradare negli Stati uniti, ma se questo avvenisse sarebbe la condanna a morte di un difensore della libertà di informazione e una grave minaccia alla libertà di stampa. È necessario esigere dalla giustizia britannica il ritorno in libertà di Julian Assange. Cavalieri (Unhcr): in Libia sempre più difficile proteggere i rifugiati di Giansandro Merli Il Manifesto, 3 novembre 2021 Il capo missione dell’agenzia Onu a Tripoli parla della protesta che va avanti da un mese: “Non possiamo evacuare i migranti, le soluzioni vanno trovate localmente”. Jean Paul Cavalieri è capo missione di Unhcr in Libia dall’aprile 2019. Da un mese è impegnato con la protesta di oltre 2mila rifugiati che dopo i rastrellamenti del 1 ottobre nei quartieri di Tripoli hanno cercato riparo davanti al Community Day Centre (Cdc) dell’organizzazione. Com’è la situazione al Cdc? Molto difficile. Ora ci sono circa 2mila persone. Hanno perso tutto nei raid. Non hanno un posto dove andare e temono di essere arrestate di nuovo. Perché l’Unhcr non sta fornendo loro assistenza? Offriamo assistenza, ma abbiamo dovuto sospenderla al Cdc per ragioni di sicurezza. Subito dopo i raid sono arrivate centinaia di persone e abbiamo provato ad aiutarne il più possibile, circa 150 al giorno. A Tripoli non abbiamo strutture di accoglienza, possiamo solo dare buoni pasto e denaro d’emergenza per affittare una casa finché non troviamo soluzioni più stabili. Dopo la fuga in massa dal centro di Al Mabani il flusso di persone è aumentato. Ci sono state minacce, non sappiamo da parte di chi, verso il nostro staff e i richiedenti asilo più vulnerabili che volevano assistenza dal Cdc. Ad alcuni è stato impedito di entrare per farli unire alla protesta e rivendicare il reinsediamento per tutti. Ma non possiamo soddisfare questa richiesta. Ci sono 42mila rifugiati in Libia e i posti per il reinsediamento sono scarsi. I voli sono stati sospesi dal direttore del Dipartimento per la lotta contro l’immigrazione irregolare (Dcim) ad aprile. 1.100 persone aspettano di partire. Dobbiamo dare priorità ai vulnerabili. Oltre 4mila rifugiati sono stati arrestati durante i raid. Sono ancora detenuti? Secondo le nostre stime l’8 ottobre dal centro di Al Mabani sono uscite 4mila persone. Le autorità non avevano capacità di gestirle. Ci sono stati scontri. Non è chiaro se siano riuscite a fuggire o le abbiano lasciate andare. Una metà crediamo sia stata riarrestata. L’altra è venuta al Cdc. Hanno paura a muoversi. Alle autorità libiche stiamo chiedendo garanzie. L’Unhcr ha annunciato la ripresa dei voli umanitari del Meccanismo di transito di emergenza. Quando sarà il prossimo? Speriamo parta domani con 173 rifugiati diretti in Niger. Lì faranno la procedura per il reinsediamento in paesi europei, Canada o altri. In Libia i rifugiati rischiano la vita ogni giorno, come chi si trova in Afghanistan. Non si potrebbero evacuare anche loro? Le soluzioni devono essere trovate localmente. I rifugiati in Libia non sono in condizioni diverse dagli altri migranti, che sono circa 570mila. Scappano dai loro paesi a causa della guerra ma scelgono la Libia non perché sia un paese sicuro, ma perché ha un’economia ricca e sanno che possono trovare lavoro, anche informale, e mandare le rimesse alle loro famiglie. È lo stesso meccanismo dei migranti. Quello che Unhcr e altre agenzie Onu dicono alle autorità libiche è che di questa manodopera il loro paese ha bisogno. Quello che serve è una migrazione circolare in cui le persone vengono a lavorare, perché alla Libia serve, e dopo tornano a casa. Ma questo deve accadere legalmente. Al momento ci sono dottori iracheni o di altre nazionalità che lavorano con i colleghi libici per fronteggiare il Covid ma non hanno né contratto, né documenti. Questo governo deve avere una politica di migrazioni legali. La Libia non ha firmato la Convenzione sui rifugiati del 1951 e non si vede come un paese d’asilo. Quello che diciamo alla nostra controparte libica è che almeno dia a queste persone un permesso per lavoro. A loro e ai migranti. Senza documenti si ritrovano in una situazione più precaria, possono diventare preda dei trafficanti, tentare di attraversare il mare in un viaggio pericoloso, le donne rischiano la prostituzione. La Libia ha iniziato a riconoscere il problema. Altre soluzioni, poi, vanno cercate nei paesi di partenza e di transito. Le autorità libiche avranno iniziato a riconoscere il problema, ma un mese fa hanno arrestato migliaia di rifugiati. Al di là di possibili soluzioni a lungo termine, oggi l’Unhcr può proteggere la vita dei rifugiati? No, non possiamo. Perciò dobbiamo lavorare con il governo, che ha la responsabilità delle persone sul suo territorio. Siccome la legislazione sull’immigrazione non risolverà il problema di chi adesso è davanti al Cdc, nell’immediato serve che il governo libico: garantisca attraverso la protezione della polizia che i vulnerabili vi abbiano accesso; metta fine agli arresti arbitrari; riconosca i documenti rilasciati dall’Unhcr e dia la possibilità di registrazione nei municipi di residenza. L’Unhcr può solo essere parte della soluzione, anche perché dopo 30 anni di attività siamo l’unica agenzia Onu senza un accordo con il paese. La nostra presenza può essere cancellata in qualsiasi momento. Non ci vengono rilasciati i visti per alcuni responsabili. È una situazione schizofrenica: le autorità non riconoscono l’Unhcr ma poi chiedono costantemente aiuto con i rifugiati. C’è un posto sicuro dove possono andare le persone accampate davanti al Cdc? No, non c’è. Almeno questo è quello che ci dicono. Afghanistan. Le punizioni dei talebani per chi non rispetta le regole di Valerio Pellizzari Il Domani, 3 novembre 2021 Ashmat è tornato nel suo villaggio, in una valle al nord dell’Afghanistan, attraversata da fiumi con l’acqua verdissima, circondati da montagne che superano i 6mila metri. Ha scoperto che questa acqua sempre gelida, anche d’estate, serve a fare rispettare il Corano. Espiare la colpa - Adesso nel suo villaggio tutti devono andare alla moschea cinque volte al giorno per la preghiera. Se gli studenti islamici notano qualche assenza la colpa può essere espiata con un bagno forzato nel fiume gelido. Chissà in quale anfratto del Corano, o in quale fatwa di un mullah incolto e vendicativo, le fiamme purificatrici dell’inferno cristiano qui si trasformano in un bagno ghiacciato. Certo prima del tuffo ci sono altre punizioni per i renitenti della preghiera: una multa che può arrivare alla somma di 500 afgani, equivalente a due chili di farina, con l’inflazione arrivata assieme ai Talebani moltiplicando i prezzi per cinque. Oppure la colpa può essere espiata riparando le strade sterrate sempre bisognose di cure. In queste periferie di montagna il bagno gelato si sta diffondendo. A un matrimonio gli strumenti musicali sono stati distrutti, il cibo sequestrato, e i musicisti sono finiti nell’acqua gelida, assieme a una parte dei presenti. I matrimoni sono stati da sempre un bersaglio della moralizzazione talebana, per i debiti micidiali che le famiglie affrontano pur di accogliere mille o 2mila invitati. Il principio della sobrietà è rispettabile, ma la soluzione è barbarica. Seguono altre imposizioni. Chi detiene un’arma, consuetudine normalissima in questo paese, dove il mestiere delle armi gode sempre di un consenso sociale ammirato, deve consegnarla ai Talebani. Nel contesto sociale di oggi impaurito e insieme impoverito non è difficile che scatti la delazione, per ottenere un compenso immediato, o solo per ingraziarsi i nuovi padron. Così un ignaro abitante disarmato del villaggio, denunciato da altri, è andato a procurarsi un’arma per sfuggire alla punizione. Quando invece un raro benestante, colpevole di altre violazioni, ha proposto generosamente di pagare una decina di suoi concittadini e di mandarli a riparare le strade, gli studenti islamici hanno ribadito che la pena non è trasferibile, doveva subirla lui, spalando terra e sassi, o con il bagno nel fiume. Anche qui è emersa l’ossessione e l’ostilità verso le scuole femminili, le bambine possono andare a scuola solo fino alle prime sei classi. Nella bella stagione i quattro turni giornalieri per le ragazze iniziavano alle sei, sulle strade sterrate a quell’ora si incontravano solo pecore e bambinette, con davanti anche un’ora di cammino. Adesso quella marcia non è più affollata. E le famiglie stesse, davanti alla restrizione delle sei classi, per ritorsione lasciano a casa anche i maschi. I genitori sanno molto bene, a differenza degli occidentali, che i Talebani considerano come massima insidia alla virtù le classi miste, dove secondo loro una ragazzina dentro un’aula è come “una caramella già privata del suo involucro di carta”. Ma forse la presenza più allarmante nel villaggio del nord sono i giovanissimi Talebani, che con un kalashnikov in mano trasformano subito la loro incompetenza e improvvisazione in spavalderia e arbitrio. Questi arruolati dell’ultima ora confermano ancora una volta che il dna degli studenti islamici è lo stesso esibito oltre quaranta anni fa dai kmer rossi. Pol Pot aveva affidato a soldati bambini un’arma ciascuno, trasformandoli velocemente in automi, in killer gelidi, capaci di spiare, denunciare e uccidere senza sentimenti. Certo a Kabul o a Kandahar i Talebani non hanno esibito queste reclute, anzi hanno ripulito i guerrieri barbuti dall’eccesso dei loro torvi camuffamenti, facendo indossare divise, elmetti, scarponi. Ma la realtà delle campagne e delle montagne è un’altra cosa. Le statistiche Onu di questi giorni dicono che almeno venti milioni di afgani non hanno cibo sufficiente. Ashmat, figlio di una famiglia importante, laureato, interprete di uno straniero famoso e rispettato tra Pakistan e Afghanistan, aveva convissuto per quasi venti anni con i Talebani, impegnato in attività umanitarie. Distribuiva gli aiuti con una sua regola. Il terreno per una nuova costruzione doveva essere scelto dalla comunità, non da qualche esperto straniero, e offerto dalla stessa comunità, i materiali per costruire invece venivano pagati dai donatori, e gli abitanti venivano pagati per costruire i nuovi edifici. Alla fine nel villaggio tutti consideravano con orgoglio quella costruzione -una cabina elettrica, un minuscolo acquedotto, un bagno pubblico, due aule scolastiche, una infermeria - frutto del loro lavoro e non più una donazione. La popolazione locale compatta insorgeva con urla, sassi e bastoni per difendere quello che aveva costruito e così le mine islamiche erano riservate solo ai mezzi blindati della Nato. In una vallata vicina c’era stata una vicenda esemplare, con un campo sportivo in costruzione, dove a suo tempo i sovietici avevano una base per elicotteri e carri armati. I Talebani si erano presentati per bloccare i lavori. Erano un centinaio, aggressivi, volevano quel terreno per allargare la scuola coranica, che anche ai miei occhi sembrava in abbandono, con vetri rotti alle finestre, e non certo affollata di studenti. Ashmat aveva semplicemente chiesto alla popolazione se preferivano il campo sportivo per i loro figli o allargare lo spazio religioso: “Decidete voi”. La popolazione in corteo aveva respinto quelle pretese immobiliari. Sapeva di avere altri studenti islamici amici su in alta montagna, che in pieno inverno potevano utilizzare le scuole chiuse per il freddo e la neve, impraticabili per i bambini. E dove nella breve estate le famiglie ogni anno dovevano decidere se farsi aiutare nell’alpeggio dai figli, migliorare così la loro fragile condizione economica con quelle piccole braccia, o se invece dare loro un po’ di istruzione. Questi sono i problemi della provincia profonda. Ashmat si era trasferito a Kabul prima della ritirata americana, convinto che in una città con oltre quattro milioni tra abitanti e profughi i nuovi padroni del paese non avrebbero potuto essere troppo brutali né avere gli uomini sufficienti per esserlo. Ma consumati i risparmi per alloggiare nella capitale ha preso la via del ritorno. Arrivato a casa ha capito che l’emirato funziona in modo frantumato. Ha visto che a Mazar e a Kunduz, città importanti, tutte le scuole fino alle università accettano le ragazze, purché separate dai maschi. Che il cibo non manca nei grandi bazar, mentre nei piccoli centri la cena si riduce spesso a pane e tè. Solo le cipolle non sono aumentate di prezzo. I suoi amici gli raccontano che a Kandahar il ricco raccolto di uva e dei pregiati melograni destinato all’esportazione è rimasto a marcire alla frontiera di Spin Boldak, bloccata dai pachistani che non amano il sostegno saudita ai Talebani di quella importante provincia, capitale politica ai tempi del mullah Omar. Insomma, il caos è diffuso. Alla fine Ashmat ha abbandonato gli uffici della sua organizzazione e si è trasferito a una decina di chilometri dal villaggio. Esce raramente di casa, consuma giorni pieni di incertezza. Non ha nulla da nascondere ma già tre mesi prima della caduta di Kabul aveva visto apparire nella sua valle volti sconosciuti, di infiltrati. Non è una novità da quelle parti. A Rustag, sempre al nord, in passato si aggiravano ceceni e tagichi. Portavano aiuto militare e assistenza nelle telecomunicazioni contro le forze Nato. Per l’internazionale islamica ma anche per la mafia della droga. lebani avevano già capito che il paese era pieno di redditizie compagnie telefoniche, che tutti quei cellulari dovevano restare muti quando loro preparavano operazioni notturne. Imponevano il silenzio dei trasmettitori, e tutti impararono a rispettarlo dopo i primi tralicci messi fuori uso. Oggi nelle vallate il mondo digitale balbetta per qualche ora al giorno, con tariffe da rapina e tracciamenti saltuari. Anche per questo il nome finto di Ashmat tutela un vecchio amico, e di proposito la sua valle in queste righe non ha nome. Quando arriverà l’inverno qui scenderanno dieci, venti metri di neve, mezzo metro in venti minuti come hanno sperimentato gli uomini di una ong danese, salvati da un pastore comparso miracolosamente nella tormenta. E poi con il disgelo le valanghe cancelleranno pezzi di strada e porteranno via la terra fertile del fondovalle. Sullo sfondo la povertà ormai diffusa, solo le cipolle sono calate di prezzo. Mentre la valuta degli emigrati non trova ancora i canali abituali per arrivare ai familiari in patria. Sullo sfondo l’immagine di Haqqani, il talebano più feroce e potente, ministro degli Interni, conquistatore di Kabul, che in pubblico e in televisione nasconde il suo viso. Esattamente come il mullah Omar, di cui esistevano solo due vecchie foto sfuocate. Gettare nel fiume i renitenti alla preghiera non sazierà la fame. Brasile. Omicidi, contagi, furto di terre: il genocidio degli indigeni di Claudia Fanti Il Manifesto, 3 novembre 2021 Il rapporto annuale sulle violenze contro i popoli indigeni brasiliani. 182 nativi assassinati, il 60% in più del 2019. 43.000 i casi di Covid, 900 decessi. Se nel mondo Bolsonaro viene trattato come un appestato non mancano certo le ragioni. Il rapporto della Commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione della pandemia, con la richiesta di incriminazione del presidente per crimini contro l’umanità e altri otto capi d’accusa; le denunce presentate via via contro di lui presso il Tribunale penale internazionale; la devastazione dell’Amazzonia e le sistematiche aggressioni ai popoli indigeni; il negazionismo climatico; le minacce di golpe e l’esaltazione della dittatura; le dichiarazioni misogine e omofobe; i legami familiari con le milizie e i casi di corruzione: ce n’è più che abbastanza per capire come mai Bolsonaro non abbia sostenuto durante il G20 a Roma un solo incontro bilaterale. Perché tutti o quasi l’abbiano tenuto a distanza. Perché non compaia neppure nella foto ricordo dei leader del G20 alla Fontana di Trevi. “Ogni volta che il presidente si reca a un vertice internazionale - ha twittato l’ex candidato presidenziale Fernando Haddad - mi viene in mente il 7 a 1 subito dalla Germania” ai mondiali del 2014. Di tutte le batoste sportive, quella che ha fatto più male. Ma le figuracce che Bolsonaro rimedia in giro per il mondo non appaiono meno umilianti a una grossa fetta della popolazione brasiliana. “Nei miei quasi 60 anni di esperienza diplomatica, non avevo mai visto, neppure lontanamente, nulla di simile all’isolamento di Bolsonaro al summit di Roma”, ha dichiarato l’ex ministro degli Esteri Celso Amorim. Persino il vicepresidente, il generale Hamilton Mourão, ammette il problema, giustificando la già annunciata assenza di Bolsonaro alla Cop 26 di Glasgow con l’argomento che tutti lo prenderebbero “a sassate”. E se non servivano di sicuro ulteriori elementi per consolidare la sua pessima reputazione, uno nuovo se ne è comunque aggiunto venerdì: la pubblicazione del Rapporto sulle violenze contro i popoli indigeni del Brasile elaborato ogni anno dal Consiglio indigeno missionario (Cimi). Il quadro che ne emerge, relativo al 2020, è infatti devastante, a dimostrazione di quanto sia stato inopportuno eliminare, tra le accuse rivolte a Bolsonaro dal rapporto della Commissione Covid, quella del “genocidio indigeno”. Da un lato gli effetti del Covid, nell’assenza più completa di un piano coordinato di protezione delle comunità originarie: 43mila gli indigeni contagiati nel corso dell’anno, almeno 900 i decessi. Dall’altro, l’azione predatoria di garimpeiros, tagliatori di legna e latifondisti (per di più diventati una potente causa di diffusione del virus), in linea con il proposito di “passar a boiada” magistralmente espresso dal famigerato ex ministro dell’Ambiente Ricardo Salles, in riferimento alla necessità di azzerare la legislazione ambientale, come, per l’appunto, se ci passasse sopra una mandria di buoi. I dati del rapporto sono impietosi, a cominciare dal più alto numero di omicidi degli ultimi 25 anni: 182 gli indigeni assassinati, con un aumento del 60% rispetto al 2019. Stesso discorso per i casi di “invasioni, sfruttamento illegale delle risorse e danni al patrimonio”, cresciuti, nel 2020, anche rispetto al già allarmante numero registrato durante il primo anno del governo Bolsonaro: addirittura 263 - riguardanti 201 terre indigene e 145 popoli di 19 stati -, rispetto ai 256 del 2019, con un aumento del 137% in relazione al 2018. E il quadro è peggiorato anche riguardo ai casi di “conflitti relativi a diritti territoriali” (96, con una crescita del 174% rispetto all’anno precedente) e al totale dei casi di violenza contro indigeni: 304, rispetto ai 277 del 2019.