“Disoccupazione, l’indennità un diritto anche per i detenuti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 novembre 2021 Non solo a Roma o a Milano: anche il tribunale del lavoro di Padova accoglie il ricorso di un detenuto tunisino ed accerta il diritto del ricorrente alla Naspi (l’indennità di disoccupazione) e condanna l’Inps a rifondergli le spese di giudizio. Tanti detenuti si vedono negare questo fondamentale sostegno al reddito in seguito a una circolare del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, poi avallata dall’Inps nel marzo 2019. Il problema nasce con il messaggio del 5 marzo 2019, quando l’Inps ha fornito chiarimenti sull’erogabilità della prestazione di disoccupazione Naspi ai detenuti che lavorano alle dipendenze dell’istituto penitenziario. La Corte di Cassazione ha affermato che questa attività lavorativa, legata alla funzione rieducativa e di reinserimento sociale, prevede una graduatoria per l’ammissione al lavoro ed è soggetta a turni di rotazione e avvicendamento. Questi, secondo l’Inps, non possono però essere assimilati ai periodi di licenziamento che danno diritto all’indennità di disoccupazione. Ai detenuti che lavorano all’interno e alle dipendenze dell’istituto penitenziario, quindi, non può essere riconosciuta la prestazione di disoccupazione in occasione dei periodi di inattività. L’indennità di disoccupazione da licenziamento spetta nel caso in cui il rapporto sia stato svolto con un datore di lavoro diverso dall’amministrazione penitenziaria. Ma tutto ciò viene smentito dalle sentenze dei tribunali del lavoro. L’ultima sentenza riguarda il detenuto tunisino che ha lavorato per l’amministrazione del carcere di Padova. Francesca Rapanà, che lavora da anni con Ristretti Orizzonti, si occupa dello sportello giuridico del carcere Due Palazzi. Dice a Il Dubbio, che lo studio legale della Cgil con cui lo sportello collabora, ha appena vinto la causa contro l’Inps per la Naspi. Il giudice Roberto Beghini del Tribunale del Lavoro di Padova ha dato ragione al detenuto che dopo aver svolto per diversi mesi, nel corso del 2019, un’attività lavorativa in favore dell’amministrazione penitenziaria, una volta cessata, aveva presentato domanda all’Inps per ottenere la Naspi vedendosela respingere. Con il sostegno di Inca Cgil e Cgil Padova, aveva deciso di ricorrere al tribunale. E il giudice gli ha dato ragione. “All’origine di tutto - dice Antonella Franceschin, direttrice dell’Inca Cgil Padova - c’è il messaggio Inps n 909 del 2019 con il quale l’Istituto informava che i detenuti dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria non hanno diritto alla Naspi. Una situazione in cui si trovava il ricorrente che aveva lavorato come addetto alla distribuzione dei pasti. Si badi bene, che se invece di lavorare direttamente per il carcere, avesse lavorato per conto di una delle cooperative che operano all’interno del Due Palazzi, la Naspi gli sarebbe stata riconosciuta. Secondo l’Inps, la sua posizione era del tutto simile a quella di qualsiasi dipendente del Ministero di Grazia e Giustizia che in quanto tale non ha diritto alla Naspi. A noi sembrava una forzatura per cui, di comune accordo con la segreteria confederale della Cgil, abbiamo deciso di “accompagnare” alcuni detenuti, per la precisione 4, nei loro ricorsi. Questa è la prima sentenza che ci arriva e ci conforta, considerato che le altre tre situazioni sono praticamente uguali. Ma al Due Palazzi saranno almeno una cinquantina i detenuti a cui è stata negata la Naspi dopo aver lavorato per l’amministrazione penitenziaria”. Conclude la direttrice dell’Inca Cgil di Padova: “Siamo ottimisti sull’esito finale, anche perché ci sono state altre sentenze simili in Lombardia, contro cui l’Inps ha deciso di ricorrere in Cassazione. Per capire se e quando procederanno con i pagamenti toccherà attendere l’esito di questi ricorsi. Intanto però voglio pubblicamente ringraziare l’Avvocata Marta Capuzzo dello Studio Legale Moro per l’ottimo risultato e Graziano Boschiero, dello sportello Inca all’interno del Due Palazzi che ha seguito fin dall’inizio la vicenda”. Interviene Sergio Palma della segreteria confederale della Cgil di Padova: “Questa riconosce un diritto: il lavoro deve valere sempre in termini etici, morali ed economici indipendentemente se lo si svolge dentro o fuori un istituto di pena, come in questo caso. Veramente assurdo da un lato, da parte dell’Inps, equiparare il detenuto lavoratore a qualsiasi altro lavoratore dipendente a tempo indeterminato del ministero di Grazia e Giustizia e, allo stesso tempo, negare qualsiasi equiparazione con i detenuti che lavorano per datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria”. Il segretario confederale, conclude: “Una differenza di trattamento che il giudice, nella sentenza, ha smontato pezzo per pezzo riconoscendo, peraltro, assolutamente infondata la pretesa da parte dell’Inps di negare l’involontarietà della disoccupazione data la cessazione del rapporto di lavoro con la fine della detenzione. Un’evidente alterazione della realtà, dal momento che, come è stato scritto nella sentenza, non è certamente il detenuto a scegliere quando essere rimesso in libertà e quindi non dipende certo da lui la fine del rapporto di lavoro”. “La magistratura ha bisogno di una rivoluzione culturale” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 novembre 2021 Silvia Albano, di Magistratura Democratica, componente direttivo Anm: “serve nuova credibilità e dialogo con il foro”. Autonomia e indipendenza della magistratura sono stati il fil rouge degli ultimi discorsi di Mattarella, Ermini, Cartabia. Per Silvia Albano, membro del Comitato direttivo centrale dell’Anm e componente dell’esecutivo nazionale di MD, “le trincee che devono essere tutelate sono sia la garanzia dei principi evocati dai vertici del Csm e dalla Ministra sia il compito della magistratura di difendere i diritti dei cittadini nell’alveo della Costituzione. Il richiamo all’etica del Capo dello Stato va sicuramente raccolto, soprattutto da parte della magistratura associata che deve avere l’obiettivo di ritornare alle origini, ossia all’associazionismo come luogo di aggregazione di idee e di dibattito culturale”. Eppure sembra che questo cammino non sia stato intrapreso, perché per qualcuno la dura punizione di Palamara sembra estinguere il problema: “C’è una parte della magistratura che sembra accontentarsi dei giudizi disciplinari nei confronti di Palamara e degli altri coinvolti in quel famoso scandalo. Ma questo non basta. Abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale al nostro interno che al momento non vedo: è assolutamente necessaria per un recupero di credibilità, anche all’interno dell’Anm. Quest’ultima dovrebbe aprirsi all’esterno, dialogare non solo con la politica ma anche con l’Accademia e l’avvocatura”. Bisognerebbe passare altresì per una modifica degli incarichi semidirettivi e direttivi: “La riforma del 2006 ha prodotto alcuni mutamenti culturali dentro la magistratura che hanno portato a credere che ci fosse una magistratura di serie A e una di serie B e che hanno costituito terreno fertile per chi ha coltivato il ‘carrierismo’“; modificando il compito della magistratura perché, ad esempio, il sostituto potrebbe essere più portato ad assecondare il ‘capo’ che ad amministrare la giustizia: “Certamente ci sono dei rischi da questo punto di vista perché è il dirigente che fa il rapporto di valutazione di professionalità. Penso che debba essere in primo luogo assicurata una effettiva temporaneità degli incarichi semidirettivi e direttivi. Non si può avallare una situazione nella quale si comincia da un incarico semidirettivo o direttivo, senza abbandonarlo mai, quasi fosse disdicevole il ritorno alle ordinarie funzioni giudiziarie. Ed è importante abbandonare l’idea per cui chi riveste funzioni organizzative si senta “capo” di qualcosa o qualcuno. Sono del parere che l’apertura all’avvocatura nei Consigli giudiziari, anche per quanto concerne le valutazioni, sia importante. Ciò non intaccherebbe l’indipendenza del magistrato ma anzi la rafforzerebbe”. A proposito di valutazioni di professionalità, in molti, anche da sinistra, ne chiedono una modifica: “Bisogna essere cauti: la giurisprudenza si è evoluta anche grazie a provvedimenti coraggiosi dei giudici di merito che hanno contribuito all’evolversi del diritto vivente e all’attuazione della Costituzione. Non possiamo pensare che la giurisprudenza debba automaticamente uniformarsi al precedente, altrimenti il ruolo del magistrato diventerebbe prettamente burocratico. Certo, se un provvedimento viene riformato perché scritto male è un conto, se l’imputato viene assolto, nonostante sia stato rinviato a giudizio, è un altro conto. La valutazione di professionalità è un giudizio complesso dentro il quale occorre evitare automatismi”. Infine, sul rapporto tra politica e magistratura, Albano conclude: “Credo che la classe politica che ha una solida cultura costituzionale abbia ben presente che l’autonomia e indipendenza della magistratura sono un baluardo dello Stato democratico. Credo che il rapporto debba essere quello di rispetto e ascolto reciproco, fondato anche sull’autorevolezza della magistratura che in questo momento ha perso. C’è per questo l’impressione che la politica ascolti meno la nostra voce ma questo è un problema che la magistratura si deve porre”. Presunzione di innocenza e “media-evo della giustizia penale” di Giuseppe Portonera L’Opinione, 30 novembre 2021 Glauco Giostra ha recentemente osservato che viviamo un “media-evo della giustizia penale”, in cui “certi media si affrettano a ghermire lo sconvolgente fatto di cronaca nera”, fornendo una grancassa all’”ostentata esibizione dei risultati investigativi da parte delle autorità inquirenti”, e propinando dunque al pubblico “perentorie affermazioni di colpevolezza” che in fondo “rassicurano”, visto che “la ferita sociale causata dal delitto trova tempestiva sutura, senza attendere un processo lontano”. A fronte di un quadro così fosco, giunge come una notizia positiva il recepimento della direttiva Ue in tema di rafforzamento della presunzione di innocenza, diventata legge soprattutto grazie all’opera dell’onorevole Enrico Costa. La legge opera principalmente su due piani, ossia quello dei rapporti tra procure e organi di informazione e quello della redazione degli atti giudiziari. Di particolare interesse sono le misure adottate sul primo versante: alle autorità pubbliche è fatto divieto di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con decisione di condanna irrevocabile (così ribadendo il principio dell’articolo 27 della Costituzione), nonché di comunicare le informazioni riguardanti un procedimento penale se non strettamente necessarie alla prosecuzione delle indagini, e solo attraverso comunicati ufficiali o conferenze stampa. Lo scopo perseguito è, evidentemente, quello di evitare che la copertura mediatica delle fasi preliminari al processo vero e proprio finisca per inquinare l’imparzialità del giudice, l’attendibilità dei testimoni e - ultimo, ma non meno importante - la percezione dell’opinione pubblica. Va da sé che qualsiasi speranza di poterci mettere alle spalle il “media-evo della giustizia penale” grazie a questa nuova legge sarebbe solo una pia illusione. Messo da un canto il solito rischio di scontrarsi con una “antinomia tra apparato normativo ricco di disposizioni e prassi dedita alla loro sostanziale disapplicazione” (come hanno sottolineato Simone Lonati e Carlo Melzi d’Eril), c’è da ricordare l’urgenza di un serio impegno culturale che eradichi i malcostumi che si annidano in certi settori dell’informazione e dell’Amministrazione della giustizia. Se è vero che nessuna legge può sostituire questo impegno, è altrettanto vero che la giusta legge può quantomeno propiziarlo. Il tempo dirà se quella appena approvata sarà davvero in grado di “rafforzare” la presunzione di innocenza. Chi pensa che l’emergenza mafia sia finita è ingenuo come Alice di Gian Carlo Caselli Il Dubbio, 30 novembre 2021 Spesso (in particolare il 23 maggio e il 19 luglio, ricordando le stragi di Capaci e di via D’Amelio di 29 anni fa) parlando di antimafia si cita con legittimo orgoglio il maxi-processo: un capolavoro investigativo-giudiziario del pool di cui erano punta di diamante Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Le condanne inflitte a boss, quadri intermedi e “soldati” hanno segnato la fine della sostanziale impunità di cui Cosa nostra aveva vergognosamente goduto da sempre. Per ostacolare lo svolgimento del maxi-processo si erano scatenate campagne calunniose contro i magistrati e i pentiti, alle quali si intrecciavano gli imbrogli di Cosa nostra per aggiustare il processo. Ma le prove del maxi-processo erano così solide da resistere a ogni tipo di manovra e il 30 gennaio 1992 la corte di cassazione confermò definitivamente, con le condanne, l’impianto d’accusa del pool. L’esito inaspettato provocò nei vertici di Cosa nostra reazioni gravissime. Si aprì la stagione della vendetta: contro i potenti amici che avevano voltato le spalle all’organizzazione e contro i giudici Falcone e Borsellino che erano stati i principali protagonisti del maxi-processo. Di qui gli attentati che causarono la morte dei due magistrati e di quanti erano con loro. Come era già avvenuto nel 1982 a seguito dell’omicidio del generale-prefetto Dalla Chiesa, anche dopo le stragi del 1992, superato un iniziale disorientamento (emblematiche le accorate parole “è tutto finito, non c’è più niente da fare”, pronunziate al funerale di Paolo Borsellino da Nino Caponnetto), si diffondono ovunque fra la gente sentimenti di rabbia e ribellione, che spingono in modo irresistibile verso una rinnovata azione di contrasto al sistema di potere mafioso. Si forma un fronte di vera e propria Resistenza che unisce e accomuna tutte le migliori forze della società e dello Stato. Senza distinzioni di “casacche”, praticamente all’unanimità, il Parlamento approva una norma (l’art. 41 bis Ordinamento penitenziario), che introduce un “regime differenziato” per i detenuti appartenenti alla criminalità organizzata. Finalmente si prende atto di una situazione di permanente e diffusa illegalità determinata e sfruttata dai mafiosi, in forza della quale Cosa nostra riusciva a essere più forte dello Stato perfino dietro le sbarre. Con il 41 bis viene finalmente interrotto quel circuito perverso che rendeva il carcere dei mafiosi una protesi del loro territorio. Il 41 bis si innesta su un’altra novità legislativa, una legge del 1991 che favorisce ed incentiva i pentimenti, cioè le collaborazioni di giustizia, decisive in quanto password necessarie per entrare nei segreti altrimenti impenetrabili dell’organizzazione criminale. Dopo le stragi, inoltre, si perfeziona l’art. 4 bis OP che prevede l’ergastolo ostativo, cioè l’esclusione dei mafiosi non pentiti da ogni beneficio penitenziario. L’effetto incrociato delle condanne del maxi-processo e delle novità legislative sarà dirompente. Se sfuma la facilità con cui in passato si potevano evitare le condanne, se il carcere diventa una cosa “seria” anche per i mafiosi condannati, ecco che si cercherà di ridurre questa tenaglia al minor danno, sfruttando gli spazi offerti dalla legge sui pentiti. Forze dell’ordine e magistratura, in questa nuova situazione, ritrovano efficienza ed entusiasmo. E i risultati non tardano ad arrivare. Non soltanto vengono progressivamente identificati, catturati e processati con severe condanne capi, gregari e killer di Cosa nostra, ma è possibile impostare una nuova strategia d’attacco al lato oscuro del pianeta mafia, iniziando a indagare anche le sue “relazioni esterne con alcuni settori inquinati della società civile e dello Stato. Così da affrontare (in presenza dei presupposti di legge) pure la cosiddetta “criminalità dei potenti”. Oggi questo ‘ pacchetto antimafia’ post stragi (che ha funzionato e funziona) rischia di essere fortemente indebolito per alcune aperture dell’ergastolo ostativo ai mafiosi non pentiti, con evidenti ripercussioni sullo stesso pentimento, che - in quanto non più indispensabile per ottenere i benefici - risulta ridimensionato sia come rilevanza in sé sia come potenzialità favorevole al collaborante. La tesi che il “pacchetto” è stato varato in una situazione di emergenza ora finita, per cui non serve e non si giustifica più, ricorda (con ogni rispetto dovuto, va sa sé, a chi la pensa diversamente) un po’ Alice nel paese delle meraviglie. Soprattutto in questa stagione di pandemia, che spinge la mafia (col suo dna di sciacallo/avvoltoio pronto a sfruttare le disgrazie altrui) all’assalto dell’economia in difficoltà per impadronirsi dei settori in crisi. Mentre è proprio in questo specifico contesto che va realisticamente inserito il problema dell’ergastolo ostativo. Le restaurazioni non durano mai di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2021 La proposta Pd contro la legge Severino per consentire a chi è stato condannato in 1° o 2° grado di continuare a svolgere funzioni pubbliche vuol dire ristabilire l’impunità. Non possiamo permettercelo. Il Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO, dal francese Groupe d’États contre la corruption) è sorto nell’ambito del Consiglio d’Europa con l’obiettivo di monitorare l’implementazione degli standard anti-corruzione dello stesso Consiglio, e fornire una piattaforma per la condivisione delle best practice in materia. Nel quarto rapporto relativo all’Italia conseguente alla procedura di valutazione, inaugurata nel 2012, e conclusasi nel 2016, GRECO rilevava il persistere nel nostro Paese di criticità che richiedono un “approccio di lungo termine”, fondato su una “educazione continua in tutti i settori della società”. Purtroppo l’Italia è un Paese dove la costanza e la memoria non sono sempre diffuse, sicché ci si dimentica che nelle valutazioni internazionali non abbiamo una posizione lusinghiera e così da un po’ di tempo, più nessuno si preoccupa della persistente corruzione diffusa, testimoniata dal costo delle opere pubbliche molto più elevato in Italia rispetto al resto d’Europa. Con la caduta dell’attenzione fioriscono proposte di modifica delle norme penali, come quelle relative all’abuso d’ufficio o relative a misure di cautela per impedire la reiterazione dei reati. Un disegno di legge proposto da alcuni deputati del Partito democratico, ritiene “problematiche, salvo che per i delitti di particolare allarme sociale, le disposizioni di cui agli articoli 8 e 11 del predetto decreto legislativo n. 235 del 2012 (la cosiddetta legge Severino, ndr) che prevedono la sospensione di amministratori regionali e locali a seguito di sentenze non definitive e dunque suscettibili di cambiamento nel corso dell’iter processuale. In tali casi, risulta opportuno un nuovo bilanciamento che rispetti parimenti le esigenze di legalità e il principio di garanzia costituzionale di cui all’articolo 27 della Costituzione”. Ora, a tacere del fatto che misure di cautela non sono affatto in contrasto con l’art. 27 della Costituzione, dal momento che questa nell’art. 13 prevede “la carcerazione preventiva”, c’è da chiedersi se sia ragionevole o meno consentire che un condannato solo in primo grado o solo in appello per reati contro la pubblica amministrazione come quelli di corruzione e altri (fra cui la turbativa d’asta, cioè effettuare appalti truccati), debba continuare a svolgere funzioni pubbliche, giacché l’abolizione delle norme proposta in quel disegno di legge avrebbe questo effetto. Mi chiedo: se il vostro vicino di casa fosse stato condannato solo in primo grado o in appello per pedofilia, gli chiedereste di accompagnare vostra figlia a scuola? Probabilmente no. Perché questa regola di prudenza non dovrebbe valere anche per l’esercizio di funzioni pubbliche? La giustizia è una virtù cardinale, ma anche la prudenza lo è. In altri Stati non c’è neppure bisogno di simili norme perché chi ricopre cariche pubbliche, di norma, si dimette quando viene raggiunto da accuse di mancata correttezza nell’esercizio delle relative funzioni. In Italia invece è accaduto e accade che chi finisce sotto processo si candidi a cariche pubbliche e talora persino eletto. Proprio per evitare che rimanessero al loro posto coloro che erano stati condannati, almeno in primo grado, per determinati reati, erano state introdotte le norme che ora si vogliono abrogare con il disegno di legge in questione. Iniziative di questo genere sono proponibili perché evidentemente si ritiene che l’opinione pubblica sia indifferente (o meno reattiva che in passato) ad atteggiamenti di “indulgenza” verso chi, allo stato dei fatti noti, sia stato ritenuto responsabile di uno o più reati di malaffare amministrativo. Si dice che le sentenze non definitive siano “suscettibili di cambiamento”, ma anche quelle definitive lo sono, dal momento che è prevista la revisione delle sentenze definitive di condanna. Non è mai semplice il bilanciamento fra opposte esigenze, quali l’assicurare la presunzione di innocenza e non consentire di continuare a commette reati, ma il rimedio proposto rischia di determinare l’aumento di misure cautelari detentive, dal momento che non ci sarà più la sospensione dalle funzioni pubbliche. Sarebbe perciò opportuna una maggiore riflessione per meglio modulare il bilanciamento fra i beni da tutelare senza farsi trascinare dalla fretta. Ho però la sensazione che la fretta sia frutto dell’idea che il momento sia favorevole al contenimento delle norme anticorruzione e che quindi si stia tentando una sorta di restaurazione della sostanziale impunità che esisteva per gli autori di questi reati prima del 1992 e che - peraltro - in buona sostanza è rimasta anche dopo. Tuttavia l’esperienza storica insegna che le restaurazioni normalmente non riescono e quando riescono non durano. Il ceto politico della cosiddetta Prima Repubblica era qualitativamente migliore di quello attuale e se quel ceto è in parte caduto, ciò è conseguenza del fatto che un sistema profondamente corrotto è costoso e inefficiente e l’Italia non può più permetterselo. Non illudiamoci: i fondi europei sono in larga misura prestiti che bisognerà restituire e quindi, quando la festa per il loro arrivo finirà, bisognerà affrontare i problemi che adesso sembrano dimenticati. La corruzione e i reati connessi sono una delle cause del debito pubblico che schiaccia l’Italia e graverà sulle future generazioni. Il tentativo di restaurazione di un sistema che tollera la corruzione non mi sembra destinato al successo e comunque non durerà. Ergastolo ostativo, “incostituzionale la preclusione assoluta ai permessi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 novembre 2021 La Corte di cassazione accoglie il ricorso dell’ergastolano Gaspare Marazzotta. La cassazione, con la sentenza numero 33743, accoglie il ricorso di un ergastolano ostativo che si era visto rigettare la richiesta del permesso premio. La corte suprema ha quindi annullato l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Sorveglianza di Bologna per nuovo giudizio. Accade che il Tribunale di Sorveglianza, in data 3 dicembre 2020, ha respinto il reclamo in tema di permesso premio introdotto dall’ergastolano ostativo Gaspare Marazzotta avverso alla decisione emessa dal Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia il 22 gennaio 2020. La decisione del Magistrato di Sorveglianza, oggetto di reclamo, è nel senso della inammissibilità dell’istanza. La ragione della inammissibilità, dichiarata in via preliminare, risiede nella condizione giuridica di Marazzotta (non collaborante, condannato alla pena dell’ergastolo per i delitti di omicidio e associazione di stampo mafioso) e nella ritenuta assenza di “specifica allegazione” di elementi di prova idonei a dimostrare l’assenza del pericolo di ripristino dei collegamenti con la associazione mafiosa in cui ha militato Marazzotta. Ebbene, sul presupposto di tale omissione, non era stata attivata neppure la procedura prevista dalla legge, con il coinvolgimento degli organi deputati alla verifica delle condizioni per la concessione del permesso premio. Il tutto sebbene il detenuto avesse rappresentato la regolarità della propria condotta carceraria, del percorso trattamentale seguito, l’assenza di carichi pendenti, l’avvenuta concessione della liberazione anticipata. La Cassazione, nell’accogliere il ricorso, ha ripercorso le motivazioni della sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale la preclusione assoluta del permesso premio per gli ergastolani non collaboranti con la giustizia. È giunta a statuire, tra l’altro, che sull’interessato grava un mero onere di allegazione, e non di prova, che si estrinseca nella prospettazione di circostanze di massima che possono consentire al giudice di approfondire la questione della carenza di collegamenti attuali o potenziali tra il detenuto e associazioni criminali, evidenziando come un onere più pregnante si tradurrebbe in una inammissibile ‘ prova negativa’. Questa sentenza della Cassazione non può passare inosservata dalla commissione giustizia che sta per approvare un testo di legge sull’ergastolo ostativo che prevede l’obbligo, da parte dell’ergastolano, di provare lui stesso il mancato collegamento con il proprio gruppo mafioso d’appartenenza. Se dovesse passare, Il rischio di incostituzionalità è di nuovo all’orizzonte. Improcedibilità, la riforma Cartabia supera l’esame in Cassazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2021 Non è incostituzionale il regime transitorio previsto per l’applicazione della improcedibilità, sanzione che colpisce i processi penali che sforano, in appello e Cassazione, i tempi predeterminati. Inoltre, il giudizio di inammissibilità dell’impugnazione trascina con sé anche la sola possibilità di una valutazione sull’improcedibilità. Per la prima volta la Cassazione, con l’ordinanza n. 43883 della Settima sezione, si pronuncia sulla Riforma Cartabia e su quello che delle norme già in vigore della legge 134 del 2021 ne costituisce senza dubbio l’architrave. Respinta così la tesi della difesa di un imputato per stalking, lesioni e minacce con la quale, preso atto dell’anno ormai passato dal novantesimo giorno successivo al termine per il deposito della sentenza impugnata, aveva chiesto venisse sanata l’improcedibilità. Veniva nello stesso tempo sollevata questione di legittimità costituzionale rispetto alla norma (articolo 2, comma 3) che limita l’applicazione dell’improcedibilità ai reati successivi al i° gennaio 2020. Per la difesa, infatti, il nuovo istituto ha natura sostanziale e non processuale, con tutte le conseguenze del caso in termini di prevedibilità della sanzione e retroattività della misura più favorevole al reo. La Cassazione giudica innanzitutto il ricorso inammissibile per la genericità dei motivi, in tutto sovrapponibili a quelli già oggetto dell’appello. Il verdetto di inammissibilità, non permettendo l’avvio della fase processuale di riferimento, travolge anche la possibilità di giungere alla dichiarazione di improcedibilità. Conclusione cui la Cassazione arriva mutuando i principi relativi alla prescrizione e tenuto conto della ratio dell’improcedibilità che, finalizzata ad assicurare tempi certi ai processi, non si presta certo a strumentalizzazione legate alla presentazione di ricorsi inammissibili. Sul piano della legittimità costituzionale della fase transitoria, la Cassazione, dopo avere ricordato che non è ancora passato un anno dal 19 ottobre 2021, data di entrata in vigore della leggei34, e che quindi l’improcedibilità non poteva essere chiesta, tuttavia respinge come infondata la questione valorizzando da una parte la necessità di coordinamento con le precedenti riforme e in particolare conia nuova prescrizione introdotta dalla legge 3 del 2019, che proprio ai reati commessi dal e gennaio 2020 fa riferimento, e, dall’altra, l’opportunità “di introdurre gradualmente nel sistema processuale un istituto così radicalmente innovativo, sicché ha la sua ragionevolezza la previsione di un periodo finalizzato a consentire un’adeguata organizzazione degli uffici giudiziari”. Saluzzo (Cn). Muore in carcere a 85 anni, eseguita l’autopsia livesicilia.it, 30 novembre 2021 È morto nel carcere di Saluzzo, in provincia di Cuneo, Samuele Schittino. Aveva 85 anni e lo scorso luglio era entrato in carcere per scontare una condanna definitiva a 10 anni e 8 mesi. Sul decesso è stata aperta un’inchiesta ed è stata eseguita l’autopsia. Di più al momento non trapela. Schittino è stato il capo della famiglia mafiosa di Lascari, in provincia di Palermo. A Lascari aveva pure ospitato Giovanni Brusca durante la latitanza. Nel 2016 Schittino era stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari nell’ambito dall’indagine “Black Cat”. I carabinieri di Termini Imerese ricostruirono gli organigrammi dei mandamenti mafiosi di Trabia e San Mauro Castelverde, che comprendono la zona orientale della provincia di Palermo, da Bagheria sino ai confini delle province di Catania e Messina. La nuova mafia provava a ripartire dai vecchi boss e Schitino era uno di questi. Palermo. Povertà, disagio, emarginazione, ecco la “fabbrica” della criminalità minorile di Alessia Candito e Miriam Di Peri La Repubblica, 30 novembre 2021 Minori che spacciano, rubano, si macchiano di crimini anche gravi. Ma non è emergenza, è problema strutturale. In Sicilia, la dispersione scolastica tocca il 25%. Fava: “Nessuna spinta della Regione a fare da cabina di regia dell’intervento sociale”. E a Borgo Vecchio manca anche il diritto all’infanzia. Baby pusher allo Sperone, Borgo Nuovo, allo Zen. Episodi di violenza senza senso, né obiettivo. Piccoli rapinatori, pronti a rischiare per quattro spiccioli. Stalking, ragazzine pronte a vendersi, episodi di bullismo, cyber e no. Nella cronaca di Palermo, non c’è settimana che cada giù dal calendario, senza uno o più casi di violenza che abbiano minori come protagonisti. “Emergenza” ci si affretta ciclicamente a dire. Ma, dati alla mano, è problema strutturale. Boom di reati, nonostante il lockdown - Nel distretto del capoluogo - recita il report annuale dell’Ufficio servizio sociale per i minorenni - sono 863 i minori presi in carico dal sistema penale di settore, con 102 nuovi ingressi - il dato più alto di tutta la Sicilia, che ne conta 195 - che si aggiungono ai 761 già presenti. I procedimenti penali a carico di minori, invece, sono molti di più. Solo nell’ultimo anno - emerge dalla relazione annuale del presidente del Tribunale competente - ne sono stati aperti 2.137 e definiti 1.864. E c’è stato il Covid19, con il periodo di socialità limitata imposto dal lockdown, a drogare al ribasso i dati. Per lo più si tratta di spaccio, furto, rapina, ma anche omicidio, in un caso portato a termine, in nove tentato, con due ragazze fra le vittime. Ma è dal comparto dei cosiddetti reati sessuali che arriva uno dei segnali più allarmanti. Nell’ultimo anno, solo a Palermo, sono stati aperti 59 fascicoli per stupro, con imputati e indagati 56 minori noti, 38 imputabili e 18 che non lo sono, perché hanno meno di quattordici anni. E per tutti, il profilo è simile: basso livello di scolarizzazione, povertà relativa, uno o entrambi genitori detenuti o con pregiudizi penali alle spalle, disoccupati o sottoccupati. Traduzione, per chi sta in basso, l’ascensore sociale non parte mai, al massimo precipita ancora più giù, la povertà si eredita, la marginalità si ripete uguale a se stessa, così come le fallimentari strategie per dribblarla e i meccanismi che la generano. Terreno di caccia per i clan - “Le aree di maggiore dispersione scolastica registrano i più elevati tassi di criminalità minorile” mette nero su bianco con la risoluzione dell’11 settembre 2018, il Consiglio Superiore della Magistratura. Quasi trent’anni fa, lo diceva già la commissione parlamentare antimafia, che nel 1993 in una relazione sullo stato dell’edilizia scolastica a Palermo aveva individuato l’istruzione come campo di intervento dirimente nella strategia di lotta ai clan. “La repressione è indispensabile perché la mafia è una specifica organizzazione criminale dotata di propri organismi dirigenti ed esecutivi, di reparti paramilitari e di formidabili fonti di finanziamento. Ma da sola - si leggeva in quelle carte - non raggiunge il risultato della sconfitta definitiva”. Motivo? “Dove la mafia è più forte, le strutture dei poteri pubblici sono più deboli, i servizi più inefficienti, i cittadini vengono lasciati a se stessi”. Risultato, “nelle aree a dominio mafioso il cittadino è costretto ad imbattersi quotidianamente nella inefficienza del potere pubblico e nella straordinaria efficienza del potere mafioso”. Trent’anni dopo però i deficit strutturali e le sacche di abbandono scolastico rimangono identiche a quelle raccontate 30 anni fa. Almeno stando agli annunci, Regione Siciliana negli ultimi tre anni ha messo sul piatto più di 40milioni di euro - 10 nel 2021, 20 nel 2020, 11 nel 2019 - e altre risorse a pioggia sono finite tra i rivoli di micro progetti e programmi come “No more neet” o il “Piano estate”. Il governo Musumeci stima di aver investito “come mai si era fatto prima - osserva l’assessore all’Istruzione Roberto Lagalla - sforzandoci di recuperare il rapporto col mondo della scuola, in passato legato soltanto a carte e protocolli”. Eppure, numeri sul disagio giovanile alla mano, qualcosa deve essere andato storto. A livello regionale, il tasso di dispersione scolastica nell’Isola oscilla tra i 20 e i 25 punti percentuali. E se negli ultimi anni il lavoro portato avanti aveva fatto scendere l’asticella, la pandemia l’ha riportata in prossimità del 25%. Per aggredire il problema, dicono gli operatori del settore, la strada obbligata è una sola: il tempo pieno nelle scuole. Peccato che il bando pilota fosse rivolto ad appena 15 scuole in tutta la regione. Solo coi 10 milioni messi in campo nel 2021 - di cui la graduatoria non è ancora stata definita - la platea si allargherà ad altri 130 istituti. “Fra coloro che dovremo ascoltare ci sono anche gli assessori incaricati per funzione di gestire questo intervento” dice Claudio Fava, presidente della commissione Antimafia all’Ars. “Di certo - sottolinea - non c’è stata la spinta della Regione per avere funzione di cabina di regia. E siamo alla vigilia di una stagione in cui un centro decisionale serve perché all’interno del Pnrr ci sono fondi che sono legati a investimenti sui processi di conoscenza, sull’età scolare, sulle possibilità di recuperare condizioni di marginalità sociale. Occorre che ci sia una capacità di progettazione” dice Claudio Fava. Con la commissione regionale antimafia che presiede ha da tempo avviato un’indagine conoscitiva sul rapporto fra abbandono scolastico e devianza, passata attraverso audizioni degli operatori direttamente nei quartieri. I lavori sono in corso e i dati sono parziali, ma “la sensazione è che manchi un coordinamento di tutti gli attori istituzionali: dirigenti scolastici, il Comune, quindi gli assistenti sociali, la Regione, il tribunale dei minori, azienda sanitaria provinciale. È come se ciascuno procedesse senza e per tempo comunicare con gli altri”. Alla fine, l’impressione principale è che “ci sia una grande solitudine, perché anche un progetto minimo, di poche migliaia di euro, si perde nella filiera burocratica e diventa nei fatti una scuola chiusa, un’attività para-didattica che non si può fare, una palestra che non viene utilizzata”. Gli interventi, tutti scaricati sul privato sociale, “che in questi quartieri spesso si sostituisce allo Stato” aggiunge. Ma non c’è progetto che possa sostituire gli assistenti sociali che non ci sono - uno per 17 scuole fra Zen e Sperone, è emerso dalle audizioni della commissione - o ridare dignità a quartieri “in cui c’è soltanto un centro commerciale e due palestre private. Parchi giochi, piscine, campi sportivi sono solo progetti lontani. L’unico concreto è la costruzione di un altro isolato di case popolari”. Ci vogliono - dice Mariangela Di Gangi - interventi urbanistici, infrastrutturali, didattici sociali, “che arrivino da direzioni diverse ma abbiano visione unica. E ci vuole continuità progettuale ma non esiste”. E quando un intervento sparisce, è un intero quartiere a fare passi indietro. Soprattutto lì dove la città nasconde i suoi panni sporchi in bella vista. A tre strade dal salotto di via Libertà, dove Palermo si veste della gloria da antica capitale e vive nel farsi guardare, Borgo Vecchio non è periferia urbanistica, ma esistenziale, sociale, economica. In tutto il quartiere, neanche un asilo. Un tempo sì, c’era, il palazzone giallo mostra i segni del tempo, ma ancora orgoglioso mostra la sua insegna. Duemila firme raccolte e depositate non sono bastate a fargli riaprire i battenti. Chi può - e non sono tanti, anzi - manda i figli ai centri privati o - sempre che li accettino - li accompagna ogni mattina in quelli vicini al Politeama. Tre isolati distanti un mondo. I più, li tengono a casa. E sono tanti. Perché a Borgo i figli si fanno e si fanno presto. Viaggio nell’infanzia negata - A 17 anni, Marina ha già una bimba di qualche mese. Di domenica pomeriggio, la accomoda nel passeggino rosa e la porta in giro come un trofeo. Il compagno è accanto, 19 anni a stento, baffi incongrui su una faccia che ancora aspetta l’ombra della barba, il sogno di trovare il riscatto palla al piede, un’occasione sfumata con Palermo calcio popolare e la speranza di riacciuffarla in un modo o nell’altro. Per avere una speranza, tenersi lontani dai guai, non farsi inghiottire dal perimetro del quartiere. Del suo gruppo di amici è tra i pochi a non avere avuto a che fare con il girone infernale del circuito penale minorile. “Se la bambina è bella, è tutto merito della madre” lo apostrofa con fare da donna matura la compagna-ragazzina, si mostra dura e risoluta. Ma è più recita per gli astanti che reale condizione. “Con quelli nuovi del doposcuola siamo quasi venuti alle mani, mi hanno cacciata. A me - sbraita - che ci sto da dieci anni. E non vado più”. Non che ci andasse per studiare. In quartiere, i più non vanno oltre la licenza media, spesso concessa più per anzianità fra i banchi, che per merito. “Un ragazzo ha imparato a leggere e scrivere solo perché doveva firmare un contratto con una squadra di calcio e si vergognava a farlo con una X” dice Christian “Picciotto”. Rapper, educatore, attivista, a Borgo Vecchio ci ha passato quasi dieci anni con un progetto targato “Per esempio”, co-finanziato dalla fondazione We world. I “suoi” ragazzi li ha visti crescere, inciampare, finire in galera, uscire, pentirsi, provare a rigare dritto, cascare di nuovo. Ha raccolto cocci quando necessario, ma soprattutto ha cercato di evitare di averne da raccattare. Attorno ad un campetto di calcio, insieme altri operatori del Centro React (prima Frequenza 200) ha costruito una rete di salvataggio. Poi, a settembre, dopo dieci anni il progetto è finito, le fondazioni si sono arenate e gli enti pubblici hanno latitato. Il manto sintetico verde del campetto steso dal Comune, è sdrucito, squarciato. Come il gruppo di ragazzini che lì sono cresciuti, imparando che anche a calcetto la palla si passa e non si tiene perché l’importante è la squadra e non il singolo, che per poter giocare bisogna prima studiare, che è inutile presentarsi all’allenamento se si latita a scuola. Per i più, l’ex Federico II, con le sue serrande tenute su con lo spago, il cancello arrugginito, l’immondizia che presidia l’ingresso. Formalmente fa parte dell’istituto comprensivo Politeama, “ma ci siamo solo noi studenti di serie B” dice Davide. Quando nell’ottobre scorso, causa restrizioni Covid, la preside ha proposto ai genitori del plesso Politeama di spostare due classi al Borgo c’è stata una mezza rivoluzione. La scuola elementare che sta lì davanti, non se la passa certo meglio. A Borgo Vecchio si studia per strada e le materie non sono certo quelle curriculari. “Qui non è che te la devi andare a cercare, qui la vivi, qui è così” dice la pancia del quartiere. Ed è facile farsi trascinare o inciampare in certe dinamiche - spiegano tutti, ragazzini dai 9 ai 20 - in un posto in cui piccole e grandi illegalità, lette e raccontate come necessarie a volte anche per mangiare, sono normalità e non eccezione. “Posso dire che mio padre - dice Simone - non mi ha mai fatto mancare nulla”. Ora è in carcere e ne avrà per dieci anni. “Per il Covid non lo vedo da due anni, ma forse a dicembre ce la facciamo. Magari ce la fa a venire anche mia madre, è ai domiciliari”. Diciannove anni, una figlia in arrivo e un programma di messa alla prova da completare, Simone dal mondo di spaccio, furti e piccoli crimini dice di essersi sempre voluto tenere lontano. Troppi parenti - zii, cugini, genitori - finiti dietro le sbarre. Un familiare, un tempo affiliato con ruolo di rango in una famiglia che ha pesato e pesa, oggi pentito. Alla fine però ci è caduto anche lui e con accuse pesanti. “73 e 74” dice. Sta per traffico e spaccio, ma per esperienza c’è chi in quartiere snocciola articoli del codice penale come un legale. Nel circuito carcerario non ci è entrato, è stato ammesso alla “messa alla prova” e a tutta la trafila di tirocini di lavoro, studio, colloqui regolari con l’assistente sociale. Inizialmente, parte del programma lo aveva seguito all’interno dei laboratori gestiti dall’associazione “Per esempio”. Circa due mesi, dice Christian Picciotto, “poi ci siamo resi conto che non potevamo prenderci questa responsabilità perché non eravamo certi che il progetto continuasse”. E ci ha visto lungo. “Adesso l’assistente sociale mi chiede di andare a fare i colloqui al Malaspina - dice Simone - minaccia di segnalarlo al giudice se non rispetto l’orario, ma io lavoro, devo mettere da parte i soldi per mia figlia”. E per andare via da Borgo. “Qui la situazione peggiora sempre di più. Un sacco di ragazzini in cerca di gloria, troppo nervosismo, si scatta per un nonnulla, troppa droga, troppa rabbia sedata male” registra Simone. E allora tocca scappare. Anche perché “io nell’ultimo anno sono andato a rivedere su YouTube tutti i processi a Totò Riina, ai vecchi. Mi interessava, volevo capire bene. E serve, perché poi ci pensi due volte prima di fare qualcosa” dice con l’amarezza di chi a vent’anni è già un sopravvissuto. Non per tutti è così. A Borgo, in tanti il carcere lo mettono in conto. “Anzi - dice Simone - ci sono pure quelli che ne vanno vanto”. Per alcuni, è una sorta di perverso rito di passaggio. In piazza, Filippo porta la sua maglia dell’Ipm quasi come una bandiera. “La vedi?” dice e volta la schiena a mostrarla, come un trofeo. Vent’anni appena, gli ultimi cinque, dentro e fuori dal minorile. Fuori da due settimane, è tornato a Borgo. Con l’intenzione di rimanerci e tenersi fuori dai guai, dice. “Con il Covid me la sono vista brutta, i primi venti giorni sono stato in isolamento - racconta - stavo impazzendo”. Poi la quadra l’ha trovata, ha smesso di creare problemi anche dentro, ha preso la licenza media, lavorato, fatto corsi. “C’è stata una piccola rivolta, io mi sono chiuso dentro la cella, non volevo guai e che slittasse la liberazione”. Strategie di chi con la liturgia del carcere ha dimestichezza e già sa fare i conti con procedimenti chiusi e quelli ancora aperti. Adesso lo aspetta un tirocinio. “Pasticcere, mi piace” assicura. Ma quando viene chiamato in piazzetta a discutere con “i grandi” gonfia il petto, birra in mano, si sente già uno di loro. “E chissà come finisce” commentano gli amici, un sorriso rassegnato e amaro, di chi forse ragazzino non è mai stato. O forse sì, quando con gli altri rincorreva un pallone su un campetto che insieme avevano imparato a curare, dopo averlo strappato all’abbandono. E carcere o no, non ce n’è uno che non chieda “mister, facciamo una partita?”. Ma quel progetto, quel campetto, quel lavoro al momento non esiste più. Catania. L’appello del capomafia al giudice: “Porti via mio figlio da quel quartiere” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 30 novembre 2021 Un irriducibile di Cosa nostra recluso al 41 bis ha chiesto al presidente del tribunale per i minorenni Di Bella di allontanare il primogenito. Anche due donne, coinvolte in inchieste per droga, hanno lasciato la Sicilia con i propri bambini, grazie al progetto “Liberi di scegliere”. Quando si è ritrovato davanti al giudice, collegato in videoconferenza, il capomafia al 41 bis ha sussurrato: “Dottore, la prego, tenga lontano mio figlio da quel maledetto quartiere”. Il figlio quattordicenne, il primogenito, che si era già candidato a prendere il posto del padre nell’organizzazione. Adesso, è lontano da Catania, con il progetto “Liberi di scegliere”. E il padre gli ha mandato una lettera qualche giorno fa: “Ha scritto: “Rispetta tutte le indicazioni che ti danno in comunità - racconta Roberto Di Bella, il presidente del tribunale per i minorenni di Catania - E, soprattutto, non mi considerare un mito, ma un fallimento”. Non era mai accaduto dentro Cosa nostra. Un padrino irriducibile, che si è sempre rifiutato di collaborare, chiede aiuto alla giustizia per provare a riscrivere il destino già segnato del figlio. “Durante il colloquio, mi ha parlato della sua sofferenza - dice il presidente Di Bella, che in Calabria ha sottratto ottanta figli di ‘ndrangheta al contesto di appartenenza - mi ha raccontato del dolore che prova nel non potere abbracciare i suoi figli, può incontrarli esclusivamente dietro al vetro blindato del 41 bis”. Il giudice ha rilanciato: “Gli ho proposto un patto educativo. Nel corso del corso del colloquio ho detto: “Mi aiuti ad evitare a suo figlio la sofferenza che sta provando lei”. Dal settembre 2020, da quando è tornato nella sua città, Roberto Di Bella ha già adottato una ventina di provvedimenti che prevedono la decadenza della responsabilità genitoriale per mafiosi e trafficanti di droga. Ora, i ragazzi sono in strutture di accoglienza. A Palermo, la procura per i minorenni vuole intraprendere lo stesso percorso per i figli degli spacciatori del quartiere Sperone. “A Catania, si sono fatte avanti anche due madri - spiega il giudice - erano rimaste coinvolte in inchieste giudiziarie e per questo erano destinatarie di misure cautelari. Hanno chiesto di essere aiutate a lasciare con i figli i contesti di origine. E così è scattato il protocollo “Liberi di scegliere”, che prevede un percorso di accompagnamento e sostegno da parte dell’associazione Libera, per un nuovo inserimento, anche lavorativo”. C’è un gran fermento attorno alle famiglie criminali catanesi. Un tam tam si sta diffondendo anche nelle carceri, la prospettiva di salvare i figli con un percorso concreto sta aprendo crepe importanti nel mondo criminale. “Ci ha scritto un detenuto per traffico di droga - racconta ancora il giudice Di Bella - ha detto che appena finirà di scontare la condanna vuole andare via da Catania, con la moglie e i figli”. Si aprono spiragli importanti nelle zone franche in mano ai clan. “Per questo è importante fare un lavoro costante sul territorio - dice il presidente del tribunale per i minorenni - un lavoro che deve vedere presenti insieme istituzioni e società civile”. Roberto Di Bella auspica il tempo prolungato nelle scuole: “Aperto alle associazioni, per animare il quartiere”. E anche un impegno maggiore dei oratori: “La Conferenza episcopale italiana è peraltro partner del progetto “Liberi di scegliere”. Primo obiettivo: “Abbattere la dispersione scolastica, che a Catania ha livelli preoccupanti - spiega il magistrato - in alcuni quartieri raggiunge il 22 per cento dei minori fra i 6 e i 16 anni. Per questa ragione è stato istituito un osservatorio metropolitano sulla questione minorile, che ha sede in prefettura, ha fatto già diversi incontri nei quartieri”. La parola chiave resta una sola: “Rete”. Per coordinare tutti i soggetti che operano in campo. Da Catania sta partendo anche un’iniziativa: chi non manda i figli a scuola perderà il reddito di cittadinanza. Il tribunale ha già fatto le prime segnalazioni all’Inps. Roma. “Così abbiamo fatto le scarpe al Papa: è il nostro riscatto” di Vincenzo Bisbiglia Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2021 Il progetto e il recupero dei detenuti. “Dentro Reggina Celi c’è ‘no scalino, chi nun salisce quello non è romano”. Quello scalino descritto negli “stornelli di malavita” della canzone popolare romana, Giammarco Marzi lo risalirà da vincitore. Lui, che nel carcere era entrato dal portone sbagliato, a breve ci tornerà passando per quello principale, in qualità di tutor del progetto “A Piede Libero”, messo in piedi dalla onlus “Semi di Libertà”. Un’iniziativa che gli darà la possibilità di trasmettere la sua trentennale esperienza di artigiano delle calzature a un gruppo di detenuti, per aiutarli a imparare un mestiere e a reinserirsi nella società. Giammarco è colui che ha realizzato i sandali francescani che Roberto Gualtieri ha portato in dono a Papa Francesco, nel primo incontro con il Pontefice da sindaco di Roma. “Quando me l’hanno detto non ci credevo - racconta, emozionato - è stata una delle più grandi gioie della mia vita”. Un pezzo unico quello fatto arrivare a Bergoglio. “Per fare sandali così di solito ci metto poco più di un quarto d’ora - dice - Per lui ci abbiamo messo 5 ore, eravamo agitatissimi e abbiamo voluto fare tutto in maniera maniacale”. Giammarco non parla volentieri del periodo né dei motivi che lo hanno portato in cella. “Il carcere ti cambia la vita - spiega -. È un’esperienza dura, e rischi di entrare in un vortice di criminalità. Io sono stato forte. Non tutti hanno la stessa caparbietà. Per me avrà un significato particolare tornare a Regina Coeli, rivedere quelle stanze, parlare con quelle persone. Lo farò da uomo libero e realizzato”. Ora guarda avanti: “La cosa più importante sarà dare la possibilità a persone che hanno incrociato, loro malgrado, le maglie della giustizia, di potersi riscattare totalmente”. Insieme ai sandali è stato consegnato a Papa Francesco un porta breviario, in pelle, realizzato dal laboratorio pelletteria ‘Fila Dritto’. Deborah Magnanti e Katia Romagnoli, due artigiane che hanno investito nel progetto, non hanno vissuto l’esperienza del carcere. “Ci confrontiamo alla pari, senza pregiudizi - racconta Deborah - Partiamo dal presupposto che un’esperienza del genere può succedere a tutti, nessuno è un santo. Il dono al Papa? Eravamo tese, l’abbiamo dovuto realizzare in un pomeriggio”. L’esperienza di “Semi di Libertà” e dei laboratori di pelletteria e calzature ha visto molti detenuti tornare a una vita normale dopo la reclusione. Natasha, 39 anni, ha dovuto vivere una doppia discriminazione. Donna delle pulizie, di etnia rom, nel 2012 è stata licenziata da un asilo privato a causa delle proteste dei genitori: “Non volevano una zingara vicina ai loro figli - racconta - ma io non ho nemmeno mai vissuto nei campi”. Dopo aver perso il lavoro, non riuscendo a trovarne altri, è arrivato l’errore. “Ho commesso un reato, non mi nascondo - dice - e il giudice mi ha fatto scontare tutte le pene prese da minorenne. Mi hanno condannato a 8 anni e 10 mesi, ne ho trascorsi 5 in carcere. Ora ho pagato”. Grazie a “Semi di Libertà” ha trovato una nuova occupazione: “Faccio le pulizie in una pizzeria in centro. Spero che assumano anche mia figlia. Ho trovato un posto dove non vengo giudicata perché zingara ma per il lavoro che faccio”. Uno dei progetti della onlus si chiama “Economia Carceraria”. In questo contesto è nato il pub “Vale la Pena”, birreria molto nota nel quartiere Appio. Qui c’è Rodrigo, 25 anni, brasiliano. Un’infanzia normale, un lavoro da massaggiatore, un matrimonio a 20 anni. A luglio 2018, in difficoltà economica, un amico lo convince a fare un viaggio da San Paolo a Roma come corriere della droga: 4 kg di coca, 3.500 dollari subito sul conto. Ma arrivato a Fiumicino viene arrestato: “Ho visto per la prima volta il Colosseo in manette mentre mi portavano a Regina Coeli”. Agli inquirenti non ha dato dettagli, avrebbe messo a rischio la famiglia. Così viene condannato come narcotrafficante: 9 anni e 9 mesi. “In carcere mi ha salvato il calcio - racconta - I camorristi mi volevano sempre in squadra con loro. Mi sono affidato alla religione e ho imparato l’italiano”. Per un periodo ha fatto credere ai suoi di essere morto, per la vergogna. “La mia ex moglie mi ha aiutato a pagare un avvocato - ricorda - che mi ha messo in contatto con la onlus”. Ora Rodrigo lavora al pub fino alle 21, studia da bartender e sogna di restare in Italia. “A marzo sarò libero, l’Italia mi ha accolto mettendomi in galera, vero. Ma mi ha anche salvato la vita”. Il prossimo passo per “Semi di Libertà” sarà probabilmente la cura del verde pubblico a Roma. “Abbiamo proposto all’ufficio del sindaco di creare un servizio su base volontaria di manutenzione delle aree verdi - racconta Paolo Strano, presidente della onlus - vorremmo chiamarlo Azioni di Pubblica Utilità”. Un’iniziativa simile (“Mi riscatto per Roma”) fu messa a punto dall’ex sindaca Virginia Raggi con la garante comunale dei detenuti, Gabriella Stramaccioni. “Quell’esperienza fu molto positiva - spiega Strano - ora speriamo di ‘demilitarizzarla’ e di renderla partecipativa coinvolgendo cittadini e associazioni”. Roma. Rebibbia, Linkem apre il laboratorio di rework e assume 12 detenute di Clemente Pistilli La Repubblica, 30 novembre 2021 Un laboratorio per il recupero e la messa a nuova dei vecchi modem in carcere. La direttrice dell’istituto: “Siamo pronti ad accogliere i progetti di nuove aziende che intendano essere nostre alleate per fare in modo che la detenzione possa trasformarsi in nuove opportunità”. Far sì che la pena abbia realmente un fine rieducativo, un principio alla base del sistema carcerario, è possibile. Basta lavorare per raggiungere tale obiettivo e offire ai detenuti delle vere chance. Lo ha fatto la società Linkem, operatore di telecomunicazioni nel settore della banda ultralarga wireless, formando 12 detenute della casa circondariale femminile di Roma Rebibbia e, al termine del percorso, assumendole. Le detenute sono state inserite in un programma di formazione per acquisire le competenze tecniche necessarie a realizzare la rigenerazione degli apparati terminali di rete installati presso le case degli utenti. Un’iniziativa portata avanti con il “Laboratorio Rework - Il valore della formazione e del lavoro in carcere”, presentato oggi, 29 novembre, dalla stessa casa circondariale con Linkem, alla presenza della direttrice dell’istituto, Alessia Rampazzi, e dell’amministratore delegato della società di telecomunicazioni, Davide Rota. Il progetto è stato articolato in due fasi. Linkem ha avviato grazie ai propri addetti un programma di formazione, al termine del quale sono stati rilasciati gli attestati con la qualifica di “addetto alla rigenerazione di apparati elettronici Linkem” e la possibilità di sottoscrivere un contratto di lavoro con l’azienda. E poi si è passati alle assunzioni. “Il coinvolgimento di aziende private nella realizzazione di progetti virtuosi che supportino le istituzioni negli obiettivi di rieducazione e reinserimento nella comunità rappresenta una grande opportunità per le detenute, per l’interesse generale e per l’economia”, ha dichiarato la direttrice Rampazzi. “Siamo pronti - ha aggiunto - ad accogliere i progetti di nuove aziende che intendano essere nostre alleate per fare in modo che la detenzione possa trasformarsi in nuove opportunità”. “Il Laboratorio Rework rientra tra i progetti che abbiamo ideato puntando sulle potenzialità della tecnologia e della formazione in campo digitale”, ha affermato Rota. Non è tra l’altro la prima esperienza del genere per la Linkem, che ha già assunto dieci detenuti della sezione maschile della casa circondariale di Lecce, dopo aver realizzato un progetto di trasformazione digitale UNiO, il sistema di video colloqui con i familiari che consente ai detenuti di usufruire di postazioni dedicate e progettate ad hoc. Gorgona (Li). RectoVerso: l’olio dei detenuti che sfida i pregiudizi e punta sul gusto di Alessia Capasso agrifoodtoday.it, 30 novembre 2021 L’imprenditrice Beatrice Massanza ha guidato i carcerati della Gorgona nella produzione di un olio unico. Difficoltà e traguardi di un ambizioso progetto di agricoltura sociale Detenuti, impegnati nella potatura, partecipano al progetto RectoVerso. Migliorare la vita dei detenuti, trasmettendo passione per l’olio, competenze per produrlo e idee per garantirne la tracciabilità. Questo l’impegno di Beatrice Massaza, ideatrice di RectoVerso, un progetto di agricoltura sociale che vede coinvolti gli ospiti della Casa circondariale dell’isola della Gorgona, di fronte la costa livornese. Nel 2020 l’imprenditrice ha vinto il primo premio “Agro-social: seminiamo valore”, bando lanciato da Confagricoltura, in collaborazione con Japan Tobacco International Italia. Dopo un anno di finanziamento, tracciamo con lei un primo bilancio, tra difficoltà e traguardi. “I veri protagonisti della storia sono i detenuti - precisa subito Beatrice - che hanno reso possibile il recupero degli ulivi dell’isola, la riattivazione di un frantoio, il sogno di vendere un prodotto di eccellenza fuori dai confini ristretti del carcere”. RectoVerso ha visto coinvolti 85 uomini, impegnati in attività di potatura degli ulivi, estrazione del mosto dalla sansa e imbottigliamento. Visione imprenditoriale e anima sociale. L’anima del progetto è di certo questa donna che, da pianista, si è trasformata in contadina, poi in imprenditrice dell’olio e dell’accoglienza, coniugando sempre aspetti sociali a quelli produttivi. La sua storia è legata a filo doppio a quella della sua famiglia, impegnata per decenni nella coltivazione di ulivi sulle colline livornesi. Un’attività che Beatrice ha riattivato nel 1997, dedicandosi sempre in parallelo nel sociale. Ad esempio, ha recuperato gli ulivi comunali di San Vincenzo, dove è situato il suo agriturismo, che ha dotato di un moderno frantoio. Le competenze e la visione acquisite nel tempo sono confluite in RectoVerso, un sistema che fonde educazione, rispetto dei lavoratori, tracciabilità e qualità del prodotto. La Gorgona e la Bianca - L’idea di recuperare piante autoctone e coinvolgere i detenuti risale al 2019. Passeggiando sull’isola di Gorgona, tra piante di rosmarino e calendula, Beatrice ha notato la Bianca, una qualità d’olivo esclusiva dell’isola. Il gusto del suo olio è leggermente fruttato ma con note mature, forse dovute al contatto così stretto col mare. “Qui si sente davvero il profumo del sale”, racconta emozionata mentre parla di questo bottone di terra, di appena due chilometri quadrati. Poi il primo incontro con i detenuti. “Quello che mi ha colpita - spiega - è la loro concezione del tempo, molto diversa dalla nostra che ci crediamo liberi, ma siamo prigionieri di troppi impegni e della fretta di realizzarli”. Il recupero di un approccio lento, secondo Beatrice, è la chiave per far funzionare un progetto dalla prospettiva lunga, che ha l’ambizione di diventare esemplare nel mondo dell’agricoltura contemporanea. Oltre le difficoltà - Il percorso è stato comunque impervio. In primo luogo è stato necessario affrontare le difficoltà geografiche. I collegamenti con la Gorgona sono infatti garantiti solo dalla motovedetta della polizia penitenziaria. lnoltre, il meteo avverso, che spesso costringe i familiari dei detenuti a rimandare le visite, ha obbligato talvolta anche Beatrice a rinunciare agli spostamenti. Ciò nonostante, gli uomini hanno proseguito nelle tappe della produzione, dato che la natura non può attendere. Visto che i carcerati sono privi di cellulare e connessione internet, l’altro nodo ha riguardato la comunicazione, dovendo passare per la necessaria triangolazione con gli ispettori presenti sull’isola. La collaborazione completa delle forze dell’ordine ha comunque garantito gli scambi, anche a distanza. Infine, “non è stato semplice accorpare un pot-pourri di razze ed estrazioni sociali”, come ammette l’imprenditrice. “Si tratta pur sempre di persone unite dall’obbligo di scontare una pena, con vissuti e competenze diverse, che si ritrovano a condividere lo stesso obiettivo”. Nonostante le avversità, ammette l’ideatrice, “queste persone mi hanno dimostrato subito entusiasmo e voracità”. Tali da sconfiggere anche alcune resistenze personali, tra coloro che non volevano ‘fare il contadino’, vedendolo come mestiere degradante e non corrispondente alla loro formazione. Cambio di status - Agli occhi di Beatrice Massaza, oltre ai pregiudizi sul mestiere, c’era una “resistenza al luogo”. Opporsi a quell’impegno significava per alcuni rifiutare di essere effettivamente lì a scontare una pena. Per la maggioranza, però, contribuire all’olivicoltura è significato l’opposto: prendere le distanze dall’essere un detenuto e collaborare ad uno scopo legato in qualche modo alla vita esterna al carcere. Alla fine, in gran parte, anche le ultime remore sono state sconfitte. “La massa di energia che si è creata tra loro è stata trainante, più del progetto in sé - spiega l’imprenditrice - Vedere gli altri impegnarsi e credere nell’attività ha convinto anche gli scettici a ricredersi”. L’occasione di cambiare ruolo e di vedersi come potatore o responsabile di frantoio, per alcuni ha comportato un coinvolgimento totale. Al punto che alcuni lavoravano oltre l’orario previsto per completare le mansioni, come la pulitura del frantoio o la concimazione. Obiettivo sostenibilità - Vincendo il premio Agro-social, il progetto ha ricevuto 40 mila euro di finanziamento, investiti nell’acquisto del frantoio, nell’attrezzatura per la potatura, nel materiale necessario per l’imbottigliamento. “Accedere ai fondi è stato fondamentale, ma i contributi - specifica Beatrice - vanno presi solo se si è verificata la possibile sostenibilità. E RectoVerso ha i requisiti giusti”. Per questo motivo, l’imprenditrice ha investito risorse personali, integrando i fondi ricevuti da Confagricoltura. Per i detenuti coinvolti, è prevista una borsa lavoro come riconoscimento economico, ma i tempi tecnici di attuazione ancora non hanno permesso il concretizzarsi di questo aspetto. La produzione di quest’anno è di circa 300 litri, a causa di un’annata poco generosa dovuta alle gelate di aprile scorso. La prospettiva è di ottenerne almeno il triplo. Le bottiglie già pronte verranno vendute allo spaccio del carcere, che dalla prossima primavera diventerà una delle tappe per i turisti che si recheranno sull’isola. Insieme all’olio, i visitatori potranno acquistare altri prodotti, come le foglie di ulivo essiccate per le tisane e il sapone creato con l’antico metodo di Marsiglia. Una catena trasparente - Per garantire lunga vita a RectoVerso, le prossime tappe riguardano lo sviluppo di una campagna di crowdfunding, la collaborazione con altre cooperative e con poli di distribuzione, per trovare gli sbocchi di mercato più adatti. Tra le sinergie già avviate, spicca quella con Genuine Way, l’ente certificatore che si occupa della verifica della blockchain (letteralmente ‘catena di blocchi’) che fornisce informazioni sul prodotto, garantisce completa tracciabilità, la facilità di riciclo o di smaltimento del vuoto e offre al consumatore un prezzo trasparente. I detenuti saranno quindi impegnati anche nella creazione di questo registro digitale di passaggi, che rispetti questo protocollo destinato a diffondersi sempre più nel settore agroalimentare. Degustazioni e marketing dell’olio - Il ciclo del progetto non si ferma alla produzione. A febbraio sono previsti gli incontri di degustazione con esperti internazionali, che guideranno i detenuti ad acquisire ulteriori competenze nell’universo dell’olio. I partecipanti potranno viaggiare dai sapori più acidi a quelli più fruttati, venendo informati sui gusti degli acquirenti, che si tratti di tedeschi, francesi o statunitensi. Questa formazione sarà determinante per orientarli nello sviluppo di una campagna di marketing e comunicazione adatta al loro prodotto. Secondo Beatrice, alcuni partecipanti già si immaginano come sommelier dell’olio. Una prospettiva da non escludere. In fondo, più in generale, l’obiettivo dell’imprenditrice di San Vincenzo è questo: aiutare gli olivicoltori a raggiungere gli stessi traguardi ottenuti negli ultimi anni dagli attori del mondo vinicolo. Modello da replicare - Il futuro di RectoVerso mira oltre i confini dell’isola anche da altri punti di vista. “Abbiamo creato un modello - spiega l’ideatrice - che potrebbe essere condiviso con altre realtà carcerarie, in base alle caratteristiche degli istituti. Se hanno a disposizione ulivi, alberi da frutta o orti, poco importa, i principi da applicare restano identici”. Lo scopo è duplice: aiutare chi sta scontando una pena a riqualificarsi e utilizzare in maniera più proficua il tempo a disposizione. D’altra parte, è fondamentale sconfiggere le resistenze di una società restia all’inserimento delle persone dopo il carcere. Come evidenzia Beatrice, una parte dei frutti di questa operazione è già stato raccolto. “Le aziende presenti sulla costa livornese, - sottolinea - considerata anche la qualità dei partner coinvolti, non hanno esitato a fornire collaborazione, valutando l’efficacia della nostra formazione, in settori dove peraltro iniziano a scarseggiare lavoratori competenti”. A riprova di questa fiducia, due detenuti sono stati immediatamente assunti da imprese agricole, non appena sbarcati al porto di Livorno. Visti non più come ex-detenuti, ma come potatori qualificati, hanno iniziato nel modo migliore una nuova vita. Per chi è ancora sull’isola, il percorso prosegue con una prospettiva che fa ormai parte del loro quotidiano. “Che paesaggio che me circonda / me trovo a contemplà me stesso / davanti a sta distesa d’alberi d’olivo”, scrive un detenuto in una poesia, dove si rivolge direttamente ad un albero a cui ‘deve domà la chioma”. La potatura è diventata momento di cura dell’altro e di ritrovato contatto con la natura, per dare vita a un olio che avrà il sapore della libertà. Massa Carrara. “Ecco come comunicare senza fare male”. La lezione dei detenuti di Claudia Cella La Voce Apuana, 30 novembre 2021 Alla Casa di Reclusione di Massa si è celebrata la Festa della Toscana. La lotta alla civiltà prosegue oggi sui temi della violenza verbale e del linguaggio dell’odio. “235 anni fa veniva abolita la pena di morte. Il granduca di Toscana Pietro Leopoldo l’associava a un popolo di barbari. All’epoca erano previste pene severe anche per reati non così gravi. L’insulto, ad esempio, era punito severamente. Oggi invece si può insultare liberamente, c’è un antisemitismo, un “anti-tutto”. E nessuno paga niente”. Da un estremo all’altro, dall’assoluta barbarie all’eccessiva docilità: la professoressa Olga Raffo ha ben presente il percorso di lotta alla civiltà della Toscana. Ha tutte le date stampate in testa. Dal 1786, anno in cui il granduca Pietro Leopoldo firmò il provvedimento che segnò una svolta epocale, ad oggi, epoca in cui parte degli obiettivi di allora si sono persi di vista. In cui regna un altro tipo di violenza, che non è più quella associata alla tortura, ma che fa altrettanto rumore. È quella che si pratica con il linguaggio dell’odio, con le parole che escono dalla bocca senza essere pesate, e finiscono per far male. È su questi temi che si è celebrata, questa mattina, la Festa della Toscana all’interno della Casa di Reclusione di Massa, attraverso una seduta speciale del consiglio comunale che ha visto la presenza, tra gli altri, di alcuni ospiti della struttura. Tra questi c’è Andrea Mazzi, che all’interno del carcere ha frequentato un corso di comunicazione non violenta: “Quando durante una comunicazione abbiamo uno stimolo dobbiamo cercare di non esserne vittime. Si deve dare un nome a quell’emozione, e capire cosa la suscita. È la pratica dell’auto-empatia, attraverso cui capiamo le nostre emozioni. Il passo successivo è l’empatia, che ci permette di capire cosa induce l’altro a darci certe risposte. Attraverso l’espressione onesta cerchiamo di comunicare all’altro nel modo giusto, senza offenderlo. Questo è il modo per comunicare abbattendo i conflitti”. “In carcere la comunicazione è di fondamentale importanza per una pacifica convivenza - ha aggiunto un altro ospite, Massimo Donatini: il concetto è: “io ti aiuto nel capire i tuoi problemi, e tu inconsapevolmente aiuti me a stare meglio, e a capire i miei. È sempre un dare e ricevere. Qui dentro ho imparato molto ad ascoltare a saper discernere, a saper scegliere, e a guardare nel mio io interiore. Ho riflettuto molto sulla rabbia: siamo solo noi che decidiamo di arrabbiarci, non è l’altro che ci fa arrabbiare. Nel dialogo non esiste uno sconfitto o un vincitore, non c’è mai un sottomesso. Ma un contatto prima con se stessi e poi con l’altro”. Alessandria. Torna il “Festival delle arti recluse” di Antonella Barone gnewsonline.it, 30 novembre 2021 Inizia ad Alessandria la terza edizione del “Festival delle arti recluse” organizzato da ICS ets (Istituto Cooperazione Sviluppo) in collaborazione con gli Istituti penitenziari G. Cantiello e S. Gaeta per valorizzare e far conoscere al territorio aspetti poco noti della detenzione come le attività produttive e i percorsi artistici e culturali promossi nelle carceri. La mancata organizzazione dell’evento lo scorso anno, dovuta alle restrizioni anti Covid 19, non ha significato interruzione delle attività della bottega di arte collettiva Artiviamoci, alle cui creazioni proprio il Festival offre un’importante occasione di essere conosciute e apprezzate dalla cittadinanza. “Il laboratorio artistico - spiega la direttrice dell’istituto, Elena Lombardi Vallauri - ha potuto lavorare durante il lockdown e i detenuti hanno potuto continuare a produrre e a creare molte delle opere che saranno esposte durante la manifestazione”. “L’edizione di quest’ anno - ha aggiunto la dirigente - si arricchisce di diverse novità come la collaborazione del laboratorio Artiviamoci della Casa di Reclusione “San Michele” con le scuole presenti negli Istituti ed eventi che coinvolgono la sezione collaboratori di giustizia. Si è ampliata così la platea dei fruitori dell’offerta culturale e dei percorsi di responsabilizzazione: Vocali dalla mano alla bocca è il titolo dell’evento destinato a detenuti studenti del corso di alfabetizzazione che nell’arco di quattro incontri, durante la durata del festival, dal 29 novembre al 12 dicembre, costruiranno insieme ai detenuti del laboratorio artistico un alfabetiere con suggestioni pittoriche”. I collaboratori di giustizia sono i protagonisti, con testi scritti e un video, degli incontri di Cara scuola ti scrivo e Le voci dentro in programma rispettivamente il 3 e il 10 dicembre presso la Serra della Ristorazione sociale, dove stasera con un vernissage si inaugura il Festival. L’Orizzonte è il tema scelto per l’edizione 2021 della kermesse cittadina: “Non la visione del cielo limitata dal muro di cinta e dal perimetro dei cortili nelle ore d’aria - spiegano gli organizzatori - ma le diverse prospettive del cielo interiore” interpretate dalle dieci opere in mostra. Nello stesso locale, nato dalla collaborazione tra la Cooperativa Sociale Company &, il Comune di Alessandria e l’associazione Orti in Città, il 10 dicembre si terrà la Cena solidale galeotta con prodotti dell’economia carceraria, proiezioni e musica Sarà la Nuova Sala conferenze del parco Pittalunga a ospitare il 6 dicembre 26 parole, riflessione condivisa (con operatori, magistrati e garanti) sul significato della pena mentre all’arte della narrazione sarà dedicato, 10 dicembre, nel teatro all’interno della casa di reclusione San Michele, Nisida, incontro con lo scrittore Andrea Valente che ha lavorato a lungo con i ragazzi dell’istituto minorile napoletano. Il 6 dicembre arriverà, infine, all’ospedale infantile “Cesare Arrigo” Il terzo Pinocchio, opera che completa un trittico di tavole in legno create dai detenuti di “Artiviamoci”. L’ultima opera, terminata già due anni fa, ha dovuto attendere il superamento delle restrizioni anti Covid per raggiungere il suo posto nella terza rampa di scale dell’Ospedale dove, dicono i suoi realizzatori, proverà insieme alle altre che l’hanno preceduta “ad alleviare il dolore con la fantasia”. Nessuna giustizia senza vita: 20 anni contro pena di morte di Mario Marazziti Avvenire, 30 novembre 2021 Covid-19, pena di morte, vita. È in questo tempo complicato, che oggi si vive la ventesima Giornata mondiale delle Città per la Vita in 2.446 località del mondo, 70 le capitali: da Seul e Dakar, da Barcellona a Bruxelles e Atlanta, con al centro Roma e il Colosseo. “Non c’è giustizia senza Vita”. Messaggio chiaro. La vita si difende solo con la vita. La pena di morte aggiunge solo altra morte, non risarcisce le vittime, abbassa lo Stato e tutti noi a livello di chi uccide. Ancora più vero al tempo del Covid. La pena capitale suona come un “accanimento terapeutico sociale”, quando in giro c’è già troppa morte. Sembrano percepirlo anche le classi dirigenti dei Paesi che la mantengono: l’anno scorso, nell’intera Asia le esecuzioni sono scese a 7, anche se i detenuti nei bracci della morte sono più di 13mila. E, dopo anni, nessuna esecuzione in Giappone, Singapore, Pakistan, Indonesia. Basta morte. Forse è per questo che in questi giorni suona più strano l’ottimismo che spinge con allegria corale verso una legge sull’eutanasia e il suicidio assistito. La misteriosa soglia della fine della vita pone domande estreme e complesse, ma alla fine quella che resta è sempre una: di non essere lasciati soli. Penso che tante domande, diverse quanto è diversa la vita e la sofferenza di ognuno, chiedono di accompagnare senza solitudine, abbandono, dolore, sofferenza - per quanto è possibile - il morire, non di provocarlo. E questo è ciò che sta dentro la legge italiana sul fine vita, imperfetta ma che c’è già, e copre gran parte del nostro vivere e morire: lascia fuori di proposito l’eutanasia attiva e il suicidio assistito, ma assume nelle sue possibili umane forme la lotta al dolore e la domanda di accompagnamento. Erano 58, le città, quando vent’anni fa nel 2001 la Comunità di Sant’Egidio lanciò questo movimento mondiale, ancor prima che più di metà degli abitanti della Terra cominciasse a vivere proprio nelle città, inurbandosi. Stiamo vivendo dentro un’accelerazione della storia del mondo. E una pandemia millenaria che si chiama pena di morte sta esaurendo la sua carica velenosa, non è più impensabile vederne l’uscita dai libri delle leggi, come la schiavitù e la tortura. Nel 1977 i Paesi abolizionisti erano 16, oggi quelli che per legge o di fatto l’hanno abolita sono 144. E tra 55 Paesi mantenitori nel 2020 l’hanno usata davvero in 18. Le esecuzioni registrate negli ultimi 5 anni sono diminuite tre volte, scendendo nel mondo a 483 da più di 1.500, e anche là dove non si hanno dati completi, come nel caso della Cina, gli osservatori concordano sul fatto che c’è un calo di almeno il 30%, dovuto a cambiamenti partiti dal centro. Perché è importante l’abolizione della pena capitale? Perché è la sintesi delle violazioni sulla vita umana. Qui si decide l’umanizzazione e la disumanizzazione. Prima: nei crimini commessi. Durante: nella vita nel braccio della morte. Dopo: nell’esecuzione in cui esseri umani distruggono la vita di altri esseri umani. “È sempre inaccettabile perché mina l’inviolabilità e la dignità della persona umana”, è la sintesi di Papa Francesco. È un’altra frontiera dell’hybris dal sapore amaro, con la tentazione di sostituirsi a Dio. Conosco un innocente, “esonerato”, che ha trascorso 22 anni nel braccio della morte in Pennsylvania. Era un tossicodipendente. Che non sapeva nemmeno chi fosse la vittima. In attesa di morire decise di leggere. Un libro al giorno, più di seimila libri. “Sei arrabbiato per tutti questi anni che ti hanno preso?”. “No, prima ero uno assurdo, un idiota!”. Mi ha sempre impressionato quante cose si imparano a contatto con i condannati a morte. Come Curtis Mc Carthy, 21 anni, in Oklahoma, scagionato da una prova del Dna. “Vuoi sapere se provo rancore, se vorrei vendetta per quello che ho subito? No, perché sono un uomo libero, dalla violenza e dalla rabbia. Altrimenti sarei ancora prigioniero. Sarei ancora come loro”. Il perdono come liberazione: nella vita di tutti i giorni è una cosa che viene venduta male, come “debolezza”, e invece è la radice della guarigione. Varrebbe anche per le tante, inverosimili, violenze intra-familiari e per i femminicidi, anzi basterebbe meno. Meno senso di proprietà sulla vita dell’altro, la capacità di convivere un po’ con i problemi invece di concepire come unica vita possibile l’”eliminazione del problema”, dell’altro. Ma loro l’hanno imparato lì, nel braccio della morte. Una benedizione rara quella di incontrare persone così. Le si può incontrare anche solo scrivendo a un condannato a morte. L’intera Campagna mondiale contro la pena di morte della Comunità di Sant’Egidio è nata da una lettera e dalla risposta a una lettera. A scrivere era stato Dominique Green, un afroamericano che era finito nel braccio della morte in Texas, a Livingston, a 18 anni. In questo ultimo quarto di secolo 15.384 volte la Comunità di Sant’Egidio, con l’aiuto di tanti, ha favorito l’incontro con un condannato a morte. Bisogna provare a metterle in fila, mentalmente, 15.384 persone tutte condannate a morte da qualche parte nel mondo. Ognuna con una storia, un crimine, un carcere, una vita, tutti i giorni, per milioni di giorni. Una lettera può fare la differenza, autodistruzione o rinascita, e nella pandemia è stata una maniglia di speranza per non affogare nella paura. Queste stragi nelle carceri del mondo sono pagine poco conosciute. Come nel Pickaway Correctional Institution in Ohio: per 1.900 detenuti hanno cercato di fare tende con le lenzuola per separare le persone, ma i quattro quinti si sono infettati lo stesso di Covid. A Farmville, in Virginia, tutti i 339 detenuti si sono infettati, e nella Fresno County Jail, in California, oltre 3.800 persone sono state infettate dal virus. In Michigan 9 cittadini su 100 hanno contratto il virus, ma nelle prigioni dello stesso Stato lo hanno contratto in 76 su 100. In Arkansas 11 su 100 tra la popolazione fuori dal carcere e 72 all’interno dei penitenziari. E in Africa? Da quella prima lettera è seguito molto: un’azione significativa a livello internazionale che ha contribuito a unificare un movimento abolizionista frammentato, ha aiutato direttamente, e assieme ad altri, una trentina di Paesi a scegliere la strada di una giustizia capace di rinunciare sempre alla morte. Un altro modo di costruire la pace, di “fare” pace. A Sant’Egidio, a Roma, è nata nel 2002 la Coalizione Mondiale contro la Pena di Morte, come poi la Conferenza internazionale dei ministri della Giustizia, creando modalità innovative per arrivare all’abolizione in diversi Paesi, inclusi il “Far West” del New Mexico e il “Far East” della Mongolia. E milioni di firme raccolte a una a una in 152 Paesi del mondo, hanno contribuito in maniera significativa all’approvazione della prima Risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu per una Moratoria universale. Dall’Italia è partita l’iniziativa che ha avviato la messa in crisi dell’iniezione letale come metodo “pulito”. Ci si può unire, cominciando da un webinar, No Justice without Life (Nessuna giustizia senza vita) nel pomeriggio di questo 30 novembre 2021. Assemblea straordinaria dell’Oms per un nuovo trattato sulle pandemie di Andrea Capocci Il Manifesto, 30 novembre 2021 L’iniziativa lanciata dall’Ue è appoggiata da 114 stati. Non ci sono Cina e Russia. Si è aperta ieri a Ginevra l’assemblea generale dell’Oms. L’assemblea, che si concluderà domani, di norma si riunisce a maggio. Ma questa è una sessione straordinaria convocata per discutere un tema di particolare rilevanza: l’avvio dei negoziati verso un trattato internazionale sulle pandemie, che vincoli gli stati a strategie comuni nella prevenzione e nella risposta a minacce come quella rappresentata dal Covid-19. La proposta era stata avanzata nella scorsa primavera da un gruppo di paesi capitanato dall’Ue e solo nelle ultime ore un nutrito numero di Stati ha deciso di appoggiarla. Ora sono 114 gli stati favorevoli a avviare i negoziati e tra le ultime adesioni ci sarebbero anche quelle pesanti di Usa e Giappone. Tra gli assenti, invece, spiccano i nomi dei principali oppositori al trattato, Cina e Russia. La necessità di un trattato internazionale sulla pandemia nasce dalla constatazione che le attuali regole non sono bastate a garantire un coordinamento tra gli Stati nel rispondere al coronavirus. “Il perdurante disordine provocato dal Covid dimostra che il mondo ha bisogno di un accordo internazionale per stabilire regole condivise per la capacità di risposta alle pandemie” ha detto nei giorni scorsi il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus. “Il mondo ha già firmato trattati per gestire altre minacce. Gli Stati sapranno accordarsi sulla necessità di un patto vincolante sulla minaccia pandemica”. Il trattato supererebbe le regole attuali fissate nell’International Health Regulation (Regolamento internazionale sulla salute, Ihr), una convenzione dell’Oms firmata nel 1969 e profondamente rivista nel 2005. L’Ihr però non ha dato prova di efficacia durante questa pandemia. L’Oms non è stata in grado di coordinare la risposta internazionale al virus e molto spesso i governi hanno fatto scelte autonome in contraddizione con le raccomandazioni internazionali. È successo anche con la variante Omicron, che ha portato diversi Stati a chiudere i voli con l’Africa meridionale nonostante l’invito dell’Oms a evitare misure “non basate su evidenze scientifiche”. Secondo le regole attuali, i Paesi non sarebbero nemmeno obbligati a condividere le informazioni su nuovi patogeni, a meno che la minaccia internazionale non sia già stata certificata da un’agenzia locale. La Cina non era vincolata ad alcun obbligo, ad esempio, quando ha comunicato all’Oms le prime informazioni sul nuovo coronavirus. E la vicenda del mancato aggiornamento del piano anti-pandemico italiano mostra che la vigilanza internazionale sugli impegni locali è poco vincolante. Le cessioni di sovranità in campo sanitario però non sono gradite a Stati come Cina, Russia e gli stessi Usa. Il consenso all’avvio del negoziato, infatti, non impedirà all’amministrazione Biden di chiedere di ammorbidire eventuali vincoli. D’altro canto, anche molte organizzazioni della società civile guardano senza eccessivo entusiasmo al trattato. “I negoziati per un trattato sulle pandemie non sono una rapida soluzione alla pandemia attuale. Ma rappresentano una risposta più generale e potenzialmente utile di qui in avanti, per le prossime pandemie” spiega Thiru Balasubramaniam, delegato a Ginevra per Knowledge Ecology International. Scettico anche il direttore dell’istituto di ricerca indipendente South Centre Carlos Correa, secondo cui è necessario un approccio “dal basso” che punti a rafforzare i sistemi sanitari locali e a espandere la capacità di produzione locale di vaccini, piuttosto che un trattato che molti governi non sarebbero in grado di rispettare. Il Geneva Global Health Hub, una coalizione internazionale di associazioni e Ong attive nel campo della salute globale, ha pubblicato un rapporto critico sulla proposta del trattato: “la mancanza dello slancio innovativo che solitamente stimola la firma dei trattati e di evidenze della necessità di un altro strumento di emergenza sanitaria al di là della retorica del multilateralismo, costituisce la debolezza strutturale dell’iniziativa dell’Oms”. Se la risoluzione di avviare i negoziati verrà adottata dall’assemblea, il primo round dovrà tenersi entro il 1 marzo 2022 e una prima bozza del trattato dovrà essere discussa all’assemblea generale del 2024. Fine vita, Perantoni, M5S: “Ai miei colleghi dico non pretendiamo la legge migliore di tutte” di Liana Milella La Repubblica, 30 novembre 2021 “Sennò rischiamo di non avere nessuna legge”. Il presidente della commissione Giustizia della Camera è convinto che “arrivare in aula il 13 è un primo passo molto importante”. E aggiunge: “È possibile che si dovrà aspettare, ma una volta che il testo è in aula si andrà avanti, e questo è quello che conta”. “Stiamo cercando di fare una legge in cui tutti si possano riconoscere, almeno in parte. È faticoso e non dà buona pubblicità, ma forse così avremo una buona legge”. Dice così Mario Perantoni, presidente M5S della commissione Giustizia della Camera dove si sta cercando un difficile compromesso sulla legge per disciplinare il fine vita. Non si parla di eutanasia, ma di “morte medicalmente assistita”. Riccardo Magi di +Europa e Marco Cappato dell’Associazione Luca Coscioni sono critici e si battono per il referendum sull’eutanasia. Inoltre ritengono che la prossima data del 13 dicembre, per l’inizio della discussione in aula, rischi di far slittare il voto sulla legge dopo l’elezione del capo dello Stato. In questa settimana, domani e giovedì, proseguirà la trattativa nelle commissioni Giustizia e Affari sociali sugli emendamenti. Ma il centrodestra resta critico. La legge sulla “morte medicalmente assistita”, che non si può chiamare né eutanasia né fine vita, è un tormentone destinato a dividere comunque la maggioranza. Lei però insiste. Perché? “Intanto mi permetta di dire che non è il caso di parlare di tormentone: insisto perché ritengo sia un tema che deve essere affrontato e, se possibile, risolto. Parliamo di una legge che si propone di dettare regole su quel drammatico passaggio tra la vita e la morte che talvolta può togliere dignità alle persone ed essere fonte di immani sofferenze. La legge vuole dare dignità alla fine della vita mettendola nelle mani delle persone interessate, mi pare una buona ragione per insistere. E poi sarebbe ora che il Parlamento la smetta di demandare certe questioni alla Consulta o alla magistratura ordinaria”. Dopo la decisione della Consulta ormai del 2019 e le quattro condizioni poste per porre fine a indicibili sofferenze, non le pare che la legge a cui lei sta lavorando sia ancora troppo poco? “C’è chi dice che si sta facendo troppo, e poi per ogni legge vale il discorso del ‘…si poteva fare di meglio..’, figuriamoci per un testo che lacera le coscienze. A me pare che il testo dia strumenti, fino a oggi negati, per l’autodeterminazione di una persona sofferente. So che questo per molti è troppo poco, ma per altri è moltissimo. Questa materia entra nell’animo di chiunque se ne occupi, anche per i parlamentari che vanno rispettati nelle proprie convinzioni”. I due relatori, Bazoli del Pd e Provenza di M5S, hanno fatto molte concessioni al centrodestra che hanno irritato Magi e Cappato. Erano concessioni proprio necessarie? “Da Magi e da Cappato mi aspetterei anche condivisione rispetto al contesto nel quale ci muoviamo, che è durissimo, visto che la legge è lì in attesa da anni perché evidentemente in passato il Parlamento non ha voluto farla…. Loro fanno la loro parte politica, lanciati nell’iniziativa referendaria, un bene coinvolgere i cittadini, ma sanno che in Parlamento occorre mediare: non è un tema da portare avanti a colpi di maggioranza”. Per esempio il via libera all’obiezione dei medici non creerà un nuovo caso come per l’aborto? “Questa legge farà discutere comunque. Non posso che augurarmi che in concreto vi siano persone che comprendano appieno il percorso di sofferenza che spinge un essere umano a chiedere la propria fine, la cronaca non risparmia i racconti di tante vite. Mi pare che anche buona parte della Chiesa abbia ben capito di cosa si sta parlando”. L’impressione - le confesso - leggendo il testo attuale è che vi siano più clausole che non certezze, un iter sofferto che dovrà essere affrontato da chi già ha preso la terribile decisione di porre fine alle sue sofferenze… “Lo ha appena detto, è una sua impressione. Alcuni passaggi sono necessari per garantire tutti, dal malato, ai suoi cari, ai medici. Ovviamente ci siamo posti il problema di trovare binari entro cui tutto possa essere fatto evitando incertezze normative, ma garantendo a determinate condizioni che chi non vuole più soffrire possa essere aiutato. Sarà un passaggio epocale per l’Italia, per questo sento di dire ai miei colleghi: concentriamoci su questo, non pretendiamo la legge migliore di tutte sennò rischiamo di non avere nessuna legge”. La seduta del 13 dicembre in aula alla Camera a cosa porterà? Solo la discussione generale e poi un rinvio sine die a dopo l’elezione del capo dello Stato? “Solo? Arrivare in aula è un primo passo ma molto importante! È possibile che si dovrà aspettare ma una volta che il testo è in Aula si andrà avanti, questo è quello che conta”. Ma se il centrodestra non vota alla Camera poi che succede al Senato con numeri diversi? Finisce come la legge Zan? “Questo è un tema che riguarda tutti e mi auguro che non venga strumentalizzato com’è successo purtroppo con la legge Zan. Noi stiamo lavorando perché il testo trovi la disponibilità ampia proprio per garantire anche un passaggio rapido al Senato. Stiamo cercando di fare una legge in cui tutti si possano riconoscere almeno in parte. È faticoso e non dà buona pubblicità, ma forse così avremo una buona legge”. C’è un altro tema fortemente divisivo per la maggioranza che lei sta trattando, l’ergastolo ostativo, pensa di farcela a chiudere su un testo o anche in questo caso sarà rinvio? “Sono relatore del testo, ho messo a punto una base di discussione che mi pare possa essere una garanzia di rispetto dei valori ai quali ci richiama la Consulta e al contempo di rigore e fermezza verso chi compie gravi reati di mafia. Spero di farcela”. Però anche in commissione le voci di Caselli e di Di Matteo hanno bocciato aperture e concessioni che suonano come un regalo alla mafia. Per non parlare del no di Maria Falcone al sì della Consulta su una liberazione anticipata anche senza la collaborazione… “Sono state voci importanti nella fase istruttoria che hanno richiamato con la loro autorevolezza il significato dell’ergastolo ostativo: proprio ispirandosi a loro abbiamo proposto un testo base che non vuole indebolire il presidio dello Stato contro l’illegalità. A breve arriveranno le proposte emendative e poi lavoreremo con il massimo impegno”. Migranti. “Tutela della salute nei rimpatri forzati e nei Cpr” Ristretti Orizzonti, 30 novembre 2021 Il Garante nazionale organizza un workshop rivolto a terzo settore e addetti ai lavori. Martedì 30 novembre, alle ore 9,30, si terrà il workshop dal titolo “La tutela alla salute delle persone migranti sottoposte a misure di trattenimento e rimpatrio forzato”, organizzato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. L’iniziativa è rivolta a tutti gli attori - garanti locali, associazioni, avvocati, personale di polizia, enti gestori - interessati a vario titolo al tema dei rimpatri forzati e del trattenimento delle persone migranti. A seguito del verificarsi di gravi fatti di cronaca riguardanti la tutela della salute nei Cpr e a due anni dall’organizzazione di un evento simile, il Garante nazionale torna a riflettere sull’argomento per offrire un’occasione di confronto tra istituzioni, operatori e terzo settore. Il Garante nazionale svolge regolarmente visite tematiche e di follow-up nei Centri per il rimpatrio e monitora a campione con cadenza almeno mensile le operazioni di rimpatrio forzato di cittadini stranieri (dall’inizio di questo anno ha realizzato 5 visite nei Cpr e partecipato a 17 operazioni di rimpatrio forzato). L’Autorità di garanzia ha quindi un quadro complessivo e aggiornato delle problematiche relative alla tutela della salute delle persone trattenute. Sono molte le criticità che saranno approfondite nel corso del workshop. Si discuterà di problemi infrastrutturali dei Centri nei quali, come rilevano i Rapporti del Garante nazionale, vi sono spesso ambienti insalubri e non soggetti al periodico controllo dell’autorità sanitaria. Una di tali strutture era il cosiddetto “Ospedaletto” del CPR di Torino, chiuso dal Ministero dell’Interno a settembre dopo che il Garante nazionale aveva definito come “trattamento inumano e degradante” l’alloggiamento in quell’area. Si parlerà della necessità di procedere a un’approfondita verifica della compatibilità del trattenimento con le condizioni di salute delle persone, garantendo l’acquisizione della documentazione sanitaria dalle eventuali strutture di provenienza (Istituti di pena in particolare). Inoltre, sarà affrontato il nodo degli accordi di collaborazione tra le Aziende sanitarie locali e le Prefetture che in alcuni territori, pur se già sottoscritti, risultano inattuati e pertanto non in grado di assicurare il tempestivo accesso alle cure. Il rafforzamento del coordinamento tra i presidi sanitari interni ai Cpr e la rete dei servizi sanitari è infatti una questione aperta. In particolare, è ancora deficitaria, nonostante le rassicurazioni in merito, l’adeguata presa in carico delle persone affette da disagio mentale e mancano interventi di prevenzione del rischio suicidario. Una cura per le persone fragili trattenute che deve essere garantita anche una volta fuori dai Cpr, attraverso dimissioni protette come recepito da una recente circolare del Ministero degli Interni in seguito alle raccomandazioni del Garante. L’iniziativa offrirà anche l’occasione per un aggiornamento sui dati sulle persone transitate nei Cpr e in generale su quelle rimpatriate nel 2021. Sarà possibile partecipare online previa registrazione al link: https://garantenpl.confnow.eu/ Migranti. Mimmo Lucano e la “legge non scritta” dell’accoglienza di Niccolò Nisivoccia Il Manifesto, 30 novembre 2021 La vicenda di Mimmo Lucano - al quale nel mese di novembre è arrivata diretta solidarietà con tante iniziative, la manifestazione “Abbracciamo Riace” a inizio mese e poi più recentemente con una serata importante anche a Parigi - di cui è vitale continuare a parlare, è stata avvicinata da molti a quella dell’Antigone di Sofocle. E davvero poche altre figure, nella letteratura di tutti i tempi, sono state capaci di superare sé stesse - la propria individualità, la propria singolarità - e di assurgere a simboli universali come Antigone. Poche altre opere hanno saputo altrettanto sollecitare la riflessione e la coscienza; poche altre figure sono state altrettanto rielaborate. Del resto, osservava Claudio Magris alcuni anni fa, l’Antigone “non appartiene soltanto alla letteratura”, perché “è un’opera che investe alle radici le ragioni, le contraddizioni e le lacerazioni dell’esistenza”: e come tale appartiene anche alla filosofia, alla religione, alla politica. Chi è Antigone? È la figlia di Edipo e Giocasta, nata dalla loro unione incestuosa; ed è la sorella di Ismene, Eteocle e Polinice. Dopo la morte di Edipo, Eteocle e Polinice si contendono il governo di Tebe e nella guerra fratricida muoiono entrambi. Re di Tebe diventa Creonte, il quale per decreto stabilisce che solo Eteocle potrà essere sepolto. Antigone si ribella alla decisione, rifiutandosi di accettarla. Condannata a morte a sua volta, verrà murata viva in una tomba, ma infine morirà per mano propria, suicida, e come lei moriranno suicidi anche il figlio e la moglie dello stesso Creonte: Emone, che di Antigone era il fidanzato, ed Euridice. Si dispera Ismene, che inizialmente era esitante ma che poi avrebbe voluto unirsi al destino di Antigone, e si dispera anche Creonte, che troppo tardi forse comprende: “Io non sono altro che nulla”, sono le sue ultime parole, “tutto crolla quanto avevo, e sul mio capo sorte si è abbattuta grave da portare”. Il fuoco della tragedia, di quelle “lacerazioni dell’esistenza” che rappresenta, è soprattutto nel confronto fra Antigone e Creonte. Le ragioni di Antigone, che le impediscono di accettare l’idea che il corpo di Polinice rimanga insepolto, sono quelle del cuore, dell’amore fraterno e della pietas dovuta ai morti contro la freddezza della legge, la sua inesorabilità, la sua inderogabilità. Sono quelle del diritto naturale contro il diritto positivo, incarnato da Creonte. Ed è per questo che l’Antigone appartiene anche al diritto. In effetti nell’Antigone può essere vista una sintesi di tutti i possibili rapporti umani: fra vecchiaia e giovinezza, individuo e comunità, pubblico e privato, mondo dei vivi e mondo dei morti. Ma è il tema del conflitto fra legge e coscienza, fra comandamenti etici e prescrizioni normative, fra le “leggi non scritte e incrollabili degli dèi” e le leggi dello Stato quello che da sempre sembra prevalere sugli altri, nella lettura della tragedia: ed è infatti all’Antigone che si fa riferimento tutte le volte in cui la realtà ci mette di fronte a questo conflitto. Come appunto anche nel caso di Riace, nel quale le ragioni di Mimmo Lucano potrebbero essere assimilate a quelle di Antigone: le ragioni di un possibile modello inclusivo, di accoglienza, contro quelle di una legge e di una burocrazia che a tale modello sembrerebbero opporsi. Di per sé il tema è molto delicato, e lo è ancora di più quando la politica lo radicalizza in contrasti ideologici aldilà di qualunque dato fattuale. Lo stesso Magris, in quell’intervento di alcuni anni fa, invitava a fare attenzione: anche le voci del cuore vanno sottoposte al vaglio della coerenza logica e delle loro ripercussioni sociali. Ciascuno di noi è portatore di un proprio senso di giustizia, ma pretenderne l’imposizione sulle norme che dovessero contraddirlo equivarrebbe a trasformarlo, come minimo, in una forma di prevaricazione. Il punto allora non è stabilire una volta per tutte cosa debba valere di più, fra legge e coscienza; il punto è che il conflitto fra legge e coscienza è irrisolvibile per sua natura, perché riguarda una dimensione psicologica che è o dovrebbe esserci innata (come sembra voler mettere in luce anche Eugenio Borgna nel suo recente Antigone e la sua follia, quando afferma che l’Antigone, indipendentemente da tutto il resto, è una tragedia “nella quale si rispecchiano le grandi emozioni della vita”). Ecco, a questa dimensione psicologica dovrebbe uniformarsi anche il diritto, che non dovrebbe mai cedere alla tentazione dell’appagamento di sé, di quanto già previsto, e che dovrebbe avvertire, al contrario, una continua tensione verso leggi più giuste, più eque, più alte. Ivi compresi modelli culturali e sociali più inclusivi, più accoglienti. Non dimentichiamo Mimmo Lucano. La Conferenza sulle droghe mostra la distanza tra i politici e il mondo di Rita Rapisardi Il Domani, 30 novembre 2021 Conclusa la Conferenza nazionale sulle droghe di Genova non resta che aspettare una risposta politica. A considerare il momento, le possibilità che possa arrivare, anche in tempi brevi, è pressoché nulla. Va dato il merito alla ministra per le Politiche giovanili, Fabiana Dadone, di aver convocato il tavolo dopo 12 anni di silenzio, di aver riportato nel discorso pubblico questi temi e costretto tutti a fare il punto. D’altronde la ministra Cinque stelle non ha mai nascosto il suo pensiero su queste tematiche, si definisce antiproibizionista e spinge per la liberalizzazione, e ne ha dato prova, seppur con un profilo contenuto, anche con il suo discorso di apertura. Il suo è certo un tentativo di rinnovare un ambito, almeno in Italia, bloccato a trent’anni fa. Alla Jervolino-Vassalli, legge attualmente in vigore, e al Testo unico sulle droghe redatto nel 1990: “Abbiamo parlato di persone senza stigmi e pregiudizi. Le conclusioni mettono tutti, a cominciare dal legislatore, di fronte alle proprie responsabilità”, afferma nei saluti finali. Un’agenzia per la cannabis - Dalla conferenza si esce con più punti positivi che negativi. Il merito è di un mondo, quello che gira intorno alle droghe e alle dipendenze, che più aggiornato rispetto a una politica passiva e sorda, persino di fronte alle 620mila firme raccolte per il referendum sulla cannabis. Argomento rimasto fuori dai tavoli, ma che ritorna mascherato nelle conclusioni, dato che nei documenti finali si parla di depenalizzazione. “È fondamentale che il governo Draghi non difenda il Dpr 309/90 (il Testo unico sulle droghe, ndr) in Corte costituzionale per l’ammissibilità del quesito. È una legge che non funziona”, dice Marco Perduca, presidente del comitato promotore Referendum cannabis legale. Durante i lavori ha spinto, trovando sostegno, per la creazione di un’Agenzia nazionale sulla cannabis. Politica distante - L’abisso tra politica e servizi è lampante sin dalle prime ore di conferenza. Complice anche il fatto che si sia deciso di chiamare l’incontro “Conferenza nazionale sulle dipendenze”, e non “sulle droghe”, come avvenuto in passato. Una scelta che ha, di fatto, indirizzato gli interventi istituzionali. Ad aprire la giornata di sabato si susseguono i messaggi, in presenza e in remoto, di ben dieci ministri dell’attuale governo (ma è assente il ministro della Salute, Roberto Speranza, noto per le posizioni proibizioniste). Ma i discorsi usano termini stantii: si parla delle persone che fanno uso di droghe come da salvare, ritenute nell’unità di milioni (così è, ma non per quelli definiti “problematici”) e non manca una buona dose di paternalismo sui “nostri ragazzi”, quando a fare uso di sostanze, sono per la maggioranza adulti. Se non fosse per il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che invita a riflettere sulla decisione della Germania di legalizzare la cannabis, ci sarebbe poco da salvare. Il punto più basso sono gli interventi della ministra per gli Affari regionali e le autonomie, Mariastella Gelmini, che si dice “convinta che non esista una libertà di drogarsi”, quando per legge, quella libertà in effetti esiste, e quello del leghista Massimiliano Fedriga, presidente della Conferenza delle regioni, che accusa i media di sponsorizzare personaggi che si drogano. Dalla sala arrivano applausi, sono quelli delle prime file, riservate alle autorità politiche. Operatori e associazioni occupano quelle in fondo, in silenzio. Recuperabili - Basta poco però a spazzare via tutto questo, perché arriva don Luigi Ciotti che apre il primo tavolo, quello sulla realtà penitenziaria, assente in un primo momento e chiesto a gran forza dalle associazioni. “Chiediamo un cambiamento radicale, revisione della 309, decriminalizzazione del consumo e depenalizzazione dei reati più lievi”, urla con il suo solito pathos, il fondatore del Gruppo Abele, seguono applausi. Arrivano dalla seconda parte della sala questa volta. Il suo e quello di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, sono gli interventi più politici della due giorni, insieme a quello del presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, Mauro Palma che, oltre a condannare la “robustezza legislativa”, suggerisce di cambiare anche il lessico, “non pensare che ci siano persone non più recuperabili”. Attenzione ai diritti - “Non possiamo dire che Stefano Cucchi era un drogato e lavarci le mani”, esordisce Gonnella, critico nei confronti di una legge che riempie al 30 per cento le carceri di persone con dipendenza e continua. “La vita del tossico chiuso in cella è doppiamente sofferente: spero che con il referendum si possa aprire un dialogo nella società. Attenzione ai delitti che non hanno una vittima, l’attuale legge trova difficoltà ad avere un suo fondamento di tipo costituzionale”. Cita anche la Fini-Giovanardi e la sua incostituzionalità, anche qui il tono è alto. E neppure Giovanardi e Gasparri, in sala stampa per le interviste di rito, possono non accorgersene. Dal loro annuire sembrano d’accordo: togliere dalle carceri chi ha problemi di droga. Ma senza cambiare la 309 e l’articolo 73, sui i reati di produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti, è impossibile. Chiamati a esprimersi proprio su questo, i tavoli concludono: sottrarre all’azione penale la coltivazione di cannabis domestica, depenalizzare la cessione di modeste quantità per uso di gruppo, escludere l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza, inserire i lavori di pubblica utilità, dove possibile, al posto della reclusione. Un nuovo approccio - Durante la due giorni, pare che la politica sia rimasta fuori, alla porta, protagonista solo dell’apertura, con la passerella dei ministri. Seguono dati, interventi attenti e precisi, tabelle e grafici. Ma quello che ne è scaturito, in realtà, ha molto di politico. Escono sette temi riassuntivi, il primo è il superamento dello stigma, si chiede attenzione alla persona oltre la sostanza, si chiede che i Pud, cioè le persone che fanno uso di droga, siano coinvolti nelle scelte che li riguardano, non solo attori esterni. Prova di questo è la partecipazione ai tavoli della ItanPUD, network italiano delle persone che usano droghe. C’è poi la depenalizzazione, l’integrazione (strutturare reti regionali e locali e condividere gli obiettivi tra istituzioni e operatori: SerD, privato sociale e magistratura di sorveglianza), la formazione del personale e l’utilità di risorse dedicate e continue. Molto di quanto chiesto non necessita di modifiche legislative, c’è bisogno del lavoro delle regioni, di investimenti su sanità e servizi, come ricorda Riccardo De Facci, che ha partecipato a uno dei tavoli preparatori, presidente del Cnca, Coordinamento nazionale comunità di accoglienza, la più grande rete di comunità terapeutiche nel settore dipendenze: “Chiediamo alla ministra Dadone l’avvio di un tavolo che coinvolga servizi pubblici e del terzo settore, regioni, rappresentanze dei consumatori per rendere operative le proposte messe a punto alla conferenza e riscrivere così un nuovo approccio”. Superare i dogmi - Si è parlato di drug-checking (il controllo della sostanza, al momento in mano ad alcune associazioni volenterose), di riduzione del danno e del rischio, questioni in partenza escluse persino dagli argomenti in agenda. Sono politiche, molto diffuse all’estero e poco in Italia, che vanno in direzione opposta rispetto a un “no alla droga” fine a sé stesso o all’obbligo dell’astensione totale dalla sostanza, prima del reinserimento in società. Lo ricorda bene Massimo Barra, fondatore di Villa Maraini, la prima che nel paese ha sperimentato la prossimità, con l’unità di strada di Tor Bella Monaca, la più grande piazza di eroina. Nonostante questo non si è riusciti in tutta Roma ad avere un punto aperto 24 ore su 24, anche a rotazione, denuncia. “È un dogma vecchio pensare alla “guarigione” e poi al reinserimento. Ci sono milioni di persone che consumano droga, ma non tutti sono tossicomani. Il tossicomane è quello che in una fase della sua vita non riesce a farne a meno”, ha detto Barra aprendo poi alla questione lavorativa: “L’impianto punitivo incide negativamente nei processi di inclusione socio-lavorativa. Vogliamo un paradigma orientato all’empowerment, come si usa dire oggi, delle persone”. Ancora oggi infatti fare uso di sostanze può voler dire interdizione da certi tipi di lavoro o perdita della patente. Problema che peggiora se si pensa alle persone straniere che costituiscono il 34 per cento di tutti i detenuti. Su questo emerge una proposta condivisa, ma ritenuta difficilmente attuabile: un permesso di soggiorno in prova per i detenuti stranieri, come misura temporanea al termine della pena. Diritto alla cura - Infine il discorso sulla cannabis terapeutica, il momento più sentito, per l’arrivo di Walter De Benedetto, che ha descritto bene le difficoltà di un malato a potersi curare. L’uomo affetto da artrite reumatoide, ha subìto un processo per aver coltivato cannabis per alleviare i dolori causati dalla sua condizione. “Il mio diritto alla cura, stabilito dalla Costituzione, è calpestato”, ha detto Walter dalla barella, spiegando come il sistema sanitario non fornisca la quantità di cannabis di cui ha bisogno. Lo stabilimento chimico farmaceutico di Firenze, l’unico autorizzato a produrre cannabis medica, riesce a coprire solo il 15 per cento del fabbisogno italiano, lasciando di fatto i pazienti senza una terapia adeguata, costretti ad arrangiarsi o rivolgersi al narcotraffico. Un’eccezione a cui si può metter fine solo con un intervento della politica, importando maggiormente o aprendo ai bandi per la produzione privata, come previsto inizialmente dalla legge del 2015. L’impressione finale è comunque che l’incontro sia stato utile, come si legge sulle facce dei partecipanti. Che si salutano sperando di non dover aspettare altri 12 anni. Cannabis, il silenzio è rotto, ora il governo non si opponga di Marco Perduca Il Manifesto, 30 novembre 2021 “Silence = Death” fu lo slogan del collettivo Usa Act up che negli anni ‘80 lottava perché il Governo Reagan riconoscesse l’esistenza delle persone che vivevano con Hiv/Aids per consentire loro di esser aiutate, e non condannate a morte, per comportamenti che il virus aveva fatto divenire ad altissimo rischio. Il silenzio resta il più potente alleato della conservazione di impostazioni dominanti e sempre più spesso diventa la risposta delle istituzioni di fronte a temi chiamati “eticamente sensibili” che invece hanno a che fare con libertà di scelta e autodeterminazione delle persone. Silenzi imposti a chi critica le istituzioni ma anche alle ricerche e alla produzione di evidenze scientifiche che possono offrire risposte a problemi tanto complessi quanto diffusi nella società. La VI Conferenza nazionale sulle droghe di Genova, ribattezzata sulle dipendenze e intitolata “Oltre le fragilità”, ha finalmente rotto questo silenzio istituzionale. Gli ultimi minuti dell’incontro hanno confermato che se si recuperano al confronto tra competenze fenomeni espulsi o silenziati dal dibattito pubblico è possibile smontare il discorso pubblico che per anni li ha inquadrati in un preciso quadro normativo con le conseguenti sovrastrutture propagandistiche. Onore quindi alla Ministra Dadone per aver rispettato il Testo Unico sulle droghe convocando la Conferenza e per - malgrado un processo preparatorio criticabile e pubblicamente criticato - aver prodotto raccomandazioni che hanno messo in mora un quadro normativo che in 30 anni ha creato molti più problemi di quelli che, in teoria, voleva risolvere. Avendo ascoltato le posizioni di quasi tutti i Ministri coinvolti - gravissima l’assenza ingiustificata di Roberto Speranza - si può dire che, per una volta, la toppa non è stata peggio del buco. Onore a Dadone anche per aver mantenuto l’impegno di confrontarsi privatamente e pubblicamente con la società civile che da subito l’aveva incalzata perché l’incontro non fosse una passerella di dichiarazioni ma un momento di confronto volto alla ricerca di compromessi in crescita. Anche se ad alcune tra le componenti più attive della “Rete per la riforma delle politiche sulle droghe” non è stata concessa la presenza alla Conferenza, la loro voce è stata ascoltata e, in buona parte, inclusa nel documento finale. Riprendere le fila di un fenomeno complesso come quello delle “droghe”, e che comunque vede nelle “dipendenze” il momento finale della presenza nelle nostre vite di sostanze rese arbitrariamente illecite in tutto il mondo da 1961, non era agevole. Come spiegato dalla ministra, il tempo a disposizione di questo governo non è certo, quindi meglio tardi che mai. La Conferenza non era partita bene, mancava una valutazione dell’impatto di una legge che poggia strutturalmente sul diritto penale, i gruppi di lavoro non sempre erano focalizzati sul tema per cui erano stati convocati, molti “esperti” in divisa o in là con gli anni, scarso ascolto a chi usa e lavora in strada e totale economia degli sviluppi internazionali. Questa impostazione “fragile”, che ha animato dibattiti all’interno della società civile storicamente più proattiva sugli stupefacenti, non ha impedito che i fatti e le esperienze alla fine potessero emergere. Il lavoro di coordinamento del Cnr, grazie spesso a un precariato tanto competente quando disponibile e coinvolto nella buona riuscita dell’incontro, ha garantito la qualità del prodotto finale. Nel chiudere l’incontro, la ministra ha chiesto di “mettere da parte le ideologie” - una formula di rito che è parso un implicito invito ai suoi più che agli antiproibizionisti che da sempre offrono regole e risposte alternative per togliere dalle maglie penali condotte che non creano vittime e non impattano sulla salute pubblica (due anni di pandemia dovrebbero aver chiarito quale sia la differenza tra sfera personale della salute e quella sociale!). Il corposo documento finale carico di proposte di buon senso che verrà inviato al Parlamento contiene anche valutazioni relative ai livelli di consenso tra gli esperti e il tasso di fattibilità delle modifiche. Il primo batte spesso la seconda; starà adesso a chi ha a cuore le riforme farsi parte attiva nella ricerca di soluzioni perseguibili pragmaticamente là dove la praticabilità pare minore. In linea con questa impostazione critica della legge, occorre che il Governo non la difenda in Camera di Consiglio l’anno prossimo quando si dovrà decidere sull’ammissibilità del referendum cannabis. “Vi racconto come si muore nel carcere bielorusso” di Massimiliano Melley today.it, 30 novembre 2021 Elena Amelina, prigioniera politica in Bielorussia, ha contratto il covid in carcere. Non è stata isolata dagli altri detenuti ed è morta dopo un ricovero in ospedale quando era ormai troppo tardi, senza avere ricevuto alcuna cura mentre era in cella. A raccontarlo, in un evento online tenutosi il 26 novembre, Tatsiana Khomich, sorella della musicista Maria Kolesnikova, una delle donne simbolo dell’opposizione bielorussa insieme alla candidata presidente (esiliata in Lituania) Svetlana Tikhanovskaya. Kolesnikova, nel 2021, ha vinto il Premio Havel dell’Unione Europea e sta scontando una condanna ad undici anni di reclusione. Le forze dell’ordine l’avevano ‘accompagnata’ alla frontiera con l’Ucraina tentando di costringerla ad attraversare il confine, ma lei si è ribellata strappando il suo passaporto. A quel punto è stata messa in carcere. Quello di Elena, malata di covid, è solo uno dei casi emblematici della repressione politica e pubblica perpetrata dal despota di Minsk, Aleksandr Lukashenko, impegnato in una guerra contro il suo popolo dopo le contestate elezioni presidenziali dell’agosto 2020 con cui si è riassicurato il mantenimento del potere. Per il 27 novembre è stata proclamata la giornata di solidarietà ai detenuti politici bielorussi, con eventi e flash mob ovunque. A Torino, l’associazione Aglietta ha organizzato una passeggiata a piedi nudi tra il consolato polacco e quello bielorusso, per ricordare il disperato cammino dei migranti (circa quattromila) fatti arrivare a Minsk con voli da Iraq, Siria e Dubai, spesso via Istanbul, con un regime semplificato di ‘visti turistici’, e poi fatti ammassare al confine polacco per ricattare l’Unione Europea. Una crisi che ha già provocato la morte di una bambina di un anno, anche per il rifiuto categorico della Polonia di accogliere queste persone. La crisi dei migranti tra Bielorussia e Polonia - Se di Bielorussia, in queste settimane, si parla soprattutto per i migranti, la giornata di solidarietà ai detenuti politici serve proprio a non dimenticare la repressione interna, ancora in atto, che si traduce in rastrellamenti nelle case alla ricerca di simboli ‘terroristici’ (come l’esibizione del bianco e del rosso, bandiera bielorussa dopo la dissoluzione dell’Urss e prima che Lukashenko la cambiasse), ma anche nella chiusura di canali Telegram e redazioni giornalistiche considerate pericolose per il regime. L’attacco alla libertà politica e di stampa non è mai cessato e, a ricordarcelo, nelle carceri del Paese si trovano 887 prigionieri politici, in continuo aumento. All’incontro del 26 novembre, organizzato dall’associazione Supolka con Ekaterina Ziuziuk e dalla Federazione Italiana Diritti Umani con Eleonora Mongelli, Tatsiana Khomich ha testimoniato sia l’esperienza della sorella, Maria Kolesnikova, sia in generale dei prigionieri per motivi politici. Al 30 luglio 2021 erano aperti cinquemila procedimenti penali in relazione alle proteste nel Paese. Nel mese di ottobre sono stati effettuati almeno centoquaranta arresti. I perseguitati non sono tutti attivisti: ci sono tantissime persone comuni, tra cui artisti, professionisti, studenti, operai, manager, diversi minorenni e pensionati, oltre naturalmente ai giornalisti dei media non di regime. Non è stata risparmiata nemmeno il Premio Nobel Svitlana Aleksevich, costretta alla fuga in Germania. La repressione dei dissidenti - “In ottobre - ha detto Tatsiana Khomich - si è avviato il processo con cui diversi canali Telegram e pagine di social network di mass media indipendenti molto popolari saranno dichiarate formazioni estremiste. Sono considerate estremiste anche le chat di vicinato, nelle quali i vicini si scambiano i messaggi. Le persone sono perseguite per l’inoltro o la ripubblicazione o il like di notizie di questi canali, azioni considerate propaganda dell’estremismo, e sono perseguitate penalmente. Recentemente, una coppia sposata ha trascorso più di cento giorni in custodia cautelare in carcere per aver inoltrato i messaggi da un canale considerato estremista l’uno all’altro”. “Di recente - ha proseguito la sorella di Maria Kolesnikova - l’autorità giudiziaria usa spesso gli articoli del codice penale che riguardano la ‘diffamazione del presidente’, ‘l’insulto a funzionari governativi’ così come a giudici, procuratori, agenti di polizia. Le pene previste per tali articoli possono arrivare fino a tre anni di reclusione in una colonia penale o prigione”. Le condizioni dei detenuti politici sono pessime, come si è già detto nel caso di Elena Amelina, malata di covid. In generale le celle sono sovraffollate (anche quelle ‘di isolamento’), i detenuti non ricevono cure mediche, viene loro di fatto negato il diritto alla corrispondenza e al colloquio con gli avvocati. “I prigionieri politici - ha aggiunto Tatsiana Khomich - hanno limitazioni negli incontri con gli avvocati. Inoltre è diventata una pratica comune per gli avvocati essere vincolati da un impegno di non divulgazione. Gli avvocati che commentano ai media i casi seguiti sono stati privati della licenza. I processi sono spesso tenuti a porte chiuse, il che significa che né i parenti né i media né gli osservatori indipendenti possono assistere alle udienze. E significa che le accuse specifiche non sono note al pubblico”. Quanto agli incontri con gli avvocati, spesso si solgono in stanze nelle quali il legale e il detenuto sono separati da un divisorio cieco, e non è possibile scambiarsi documenti. “Gli incontri con i parenti - ha raccontato Tatsiana Khomich - praticamente non esistono, e ci sono grossi problemi con la ricezione delle lettere”. Inoltre il lavoro in carcere è obbligatorio. La vita in carcere di Maria Kolesnikova - Condannata a undici anni di reclusione dopo che le forze dell’ordine bielorusse l’avevano rapita il 7 settembre 2020 e ‘accompagnata’ alla frontiera con l’Ucraina (ma lei, strappando il passaporto, ha reso impossibile l’espatrio obbligato), la flautista e direttrice d’orchestra Maria Kolesnikova si trova in carcere a Minsk in regime speciale, in attesa che, il 24 dicembre, venga esaminato il suo ricorso. “Mia sorella - ha detto Tatsiana Khomich - può vedere gli avvocati in quello che lei chiama ‘l’ufficio speciale’, la stanza con il divisorio cieco. Può fare una doccia alla settimana. In un anno ha visto nostro padre tre volte per un’ora. Raramente le consegnano le lettere e può leggere pochi libri”. Secondo la sorella, Kolesnikova fa parte di quei detenuti politici che vivono il loro status con ottimismo, facendosi forza e trasmettendola a chi si trova in libertà. “Ma è normale - ha aggiunto Tatsiana Khomich - che non tutti siano così positivi. La maggior parte di loro ha paura di essere dimenticato. Ogni lettera è un momento di felicità per un prigioniero politico. Ma a volte i secondini censurano le lettere oppure non le consegnano come forma di pressione e punizione verso i detenuti”. “Diritti umani deteriorati” - Anche per questo motivo, una delle iniziative più promosse dalle associazioni di diritti umani è quella di scrivere ai detenuti. In Bielorussia come altrove. Per non farli sentire soli nella loro battaglia. “È necessario - ha concluso Tatsiana Khomich - mantenere un’attenzione costante sulla situazione in Bielorussia perché non scompaia dall’agenda internazionale. Le autorità manipolano in modo furbo la situazione per deviare l’attenzione pubblica. Il dirottamento dell’aereo (per arrestare un oppositore, ndr) o la crisi dei migranti sul confine con la Polonia sono la conseguenza del deterioramento dei diritti umani all’interno del Paese”. Egitto. Mentre Zaki è in carcere il direttore della sua ong viene rilasciato di Laura Cappon Il Domani, 30 novembre 2021 Hossam Bahgat, direttore e fondatore dell’organizzazione per cui collaborava Patrick Zaki, è stato condannato a una multa di 10.000 sterline egiziane da un tribunale economico del Cairo per “diffusione di notizie false” e per “aver criticato l’autorità elettorale egiziana tranite i social media”. Bahgat era finito sotto processo per un tweet che criticava il presidente della Commissione elettorale durante le elezioni legislative del 2020. Parole che gli erano costate un’indagine e poi il processo iniziato a settembre e conclusosi con una sentenza quasi sorprendente per i canoni egiziani. La sentenza stride con la situazione di Patrick Zaki, il ricercatore e studente dell’Università di Bologna, che è in carcere da 21 mesi e il cui processo riprenderà il prossimo 7 dicembre. Quando Hossam Bahgat ha varcato la porta del tribunale per i reati economici del Cairo non sapeva se ne sarebbe uscito da uomo libero. Ore di attesa, come sempre capita nelle corti egiziane, poi il verdetto. È colpevole di “diffusione di notizie false e di aver attaccato l’autorità elettorale con i social media”. Ma la pena è una multa di 10mila sterline locali (566 euro) e, dunque, niente carcere. L’organizzazione nel mirino - L’uomo era sotto processo per aver criticato con un tweet il capo della commissione elettorale durante le elezioni legislative del 2020: “Ha supervisionato le elezioni più fraudolente dal 2010 e forse dal 1995 (negli anni di Hosni Mubarak, ndr)”, aveva scritto Bahgat un anno fa. Un’affermazione che gli è costata un’indagine e poi il processo iniziato a settembre e conclusosi ieri con una sentenza quasi sorprendente per i canoni egiziani, ancora di più perché Bahgat fa parte di una delle organizzazioni più colpite dal governo dal 7 febbraio del 2020 quando il loro collaboratore Patrick Zaki è stato arrestato all’aeroporto del Cairo mentre rientrava da Bologna, città in cui frequentava un master in studi di genere. Da allora l’Eipr non ha pace. Nel novembre 2020, tre dirigenti dell’organizzazione - Gasser Abdel Razek, Karim Ennarah e Mohammed Basheer - erano stati arrestati nel giro di pochi giorni dopo che una delegazione di diversi paesi europei, tra cui l’Italia, aveva fatto visita agli uffici dell’organizzazione. Una prassi molto comune, l’incontro tra società civile e diplomazia europea, ma una consuetudine non gradita affatto dal regime egiziano. In quei giorni Basheer finì nella stessa cella di Patrick Zaki nel carcere di Tora, confermando un’altra costante di questo paese in cui i detenuti e chi li difende finiscono nello stesso magma di accuse e vicende giudiziarie. La mobilitazione internazionale - I tre dirigenti, in quella circostanza, furono rilasciati dopo poche settimane grazie a una mobilitazione internazionale che vide in prima linea anche artisti del calibro di Scarlett Johansson. Ma nonostante la fine della detenzione, le indagini non sono state ancora archiviate e al momento nessuno dei tre ha ripreso l’attività che ricopriva prima di finire dietro le sbarre. Proprio un anno fa Bahgat ha ripreso la direzione dell’organizzazione. Nei mesi successivi, l’Eipr ha perso anche i suoi uffici e ha dovuto trovare una nuova sede perché gli attivisti sono stati sfrattati dal proprietario del fondo dove era situata la sede dell’organizzazione. Al loro posto, come nuovi inquilini, i membri di un movimento politico giovanile vicino al presidente Abdel Fattah al-Sisi. Alcuni giorni prima della sentenza a carico di Bahgat, 45 organizzazioni non governative avevano firmato un appello che chiedeva la fine della persecuzione contro i difensori dei diritti umani da parte del governo egiziano. Reati informatici - E questa condanna a una semplice multa potrebbe anche essere interpretata come un’operazione di maquillage, un momento in cui il regime, impegnato nel lancio del nuovo piano sui diritti umani deve mostrare un alleggerimento, almeno apparente, delle pene contro i difensori dei diritti umani. Il processo per il direttore di Eipr era iniziato lo scorso settembre e nell’ultima udienza, lo scorso 2 novembre, la Corte aveva ascoltato l’arringa della difesa e fissato la data della sentenza. Il pronunciamento dalla terza corte per i reati economici del Cairo è stato emesso anche sulla base della legge contro i crimini informatici. Il testo, approvato nel 2018, restringe la libertà di espressione sul web paragonando qualunque account sui social con più di 5mila follower a una testata giornalistica e dunque esponendolo a tutte le conseguenze legali di una testata online. Il paradosso del caso Zaki - Nonostante l’impianto legislativo, la decisione del giudice è stata leggera e stride con la situazione di Patrick Zaki, detenuto ormai da 21 mesi e sotto processo dallo scorso settembre per “diffusione di notizie false e di terrore tra la popolazione” sulla base di un articolo scritto nella primavera del 2019 per il portale el-Darraj. La prossima udienza per il giovane ricercatore è prevista per il prossimo 7 dicembre e la situazione giudiziaria resta molto complessa. I reati per cui il ricercatore è sotto processo, infatti, sono solo una parte del fascicolo che gli investigatori egiziani hanno costruito a suo carico. Oltre all’articolo di Darraj, apparso solo a settembre, ci sono i 10 post di Facebook che avevano costituito le prime prove all’inizio della sua detenzione e che la difesa continua a definire falsi. E sulla base di questi post si potrebbe aprire un nuovo procedimento giudiziario con accuse ben più gravi del processo in corso. Per questo motivo è molto difficile capire cosa succederà in futuro e nemmeno gli avvocati della difesa sanno cosa aspettarsi. Ciò che è certo è, dopo il rinvio a giudizio in un tribunale per i reati minori, il limite massimo di detenzione cautelare previsto dalla giurisprudenza egiziana è già stato superato. Per il tipo di crimini per cui Zaki è stato portato in tribunale, infatti, il periodo massimo non è più due anni ma 18 mesi. Ma la difesa non è mai riuscita a farlo scarcerare. Siria. Una drammatica storia di torture nei Centri di detenzione di Marina Pupella articolo21.org, 30 novembre 2021 Abdul, nome di fantasia per garantire l’anonimato di un giovane siriano di 32 anni, ha trascorso dieci anni nelle prigioni del suo Paese. Era un operatore umanitario quando nel 2011 viene prelevato con la forza in un posto di blocco vicino alla città di Hama, dopo aver partecipato ad una delle prime proteste pacifiche di giovani che invocavano libertà e dignità per il popolo siriano. Consegnato al reparto della Sicurezza dell’aeronautica militare della città, viene trasferito al centro di detenzione dei mukhabarat (il servizio segreto) dell’Air force siriana, nel vecchio aeroporto di Mazzah a Damasco, una delle ventisette strutture gestite dall’intelligence, del grande arcipelago dei luoghi di tortura sparsi per tutta la Siria, scriveva Human rights watch nel 2012 nel suo rapporto “Torture Archipelago: Arbitrary Arrests, Torture and Enforced Disappearances in Syria’s Underground Prisons since March 2011”. “Ero stato condannato all’ergastolo solo per aver partecipato alle manifestazioni e rivendicato in tribunale il mio diritto alla difesa- racconta Abdul da una località segreta in Turchia, dove si è rifugiato dopo la sua recente scarcerazione-. Prima di essere trasferito nel centro di sicurezza della 4ª Divisione corazzata, a Sud della capitale (guidata da Maher al-Assad, fratello del presidente Bashar, ndr), sono stato portato al punto di identificazione per l’interrogatorio. Fu lì che iniziarono le torture, una procedura normale nelle carceri di Assad: mi immobilizzarono mani e piedi, appendendomi a un gancio sul tetto, rimanendo in quella posizione per ore. La carne si lacerava e mentre stavo appeso mi facevano di tutto, pure attaccarmi degli elettrodi ai genitali, che per quattro mesi mi provocarono forti infiammazioni. Ad un mio amico- prosegue nel suo racconto- hanno versato addosso pure dell’acqua bollente. Ricordo che quando nel 2012 la Lega araba istituì la Commissione d’inchiesta per le carceri, io e tutti quelli che come me avevano segni evidenti delle violenze - aggiunge il giovane mentre ci mostra le cicatrici ancora visibili sul corpo - fummo portati per sei giorni consecutivi altrove, rimanendo bendati per tutto il tempo all’interno del mezzo, per essere poi riportati indietro al far della sera. Questo fino a quando la delegazione non andò via. Finalmente, dopo aver pagato tanti soldi, sono stato portato in un carcere civile, dove il trattamento dei prigionieri era più umano. Ne sono uscito qualche mese fa solo perché ancora una volta ho dovuto pagare, altrimenti sarei ancora lì”. Non è da escludere che nei lunghi anni passati nel labirintico sistema carcerario della Siria, il ragazzo possa essere venuto a conoscenza di fatti, nomi, persone che vivono nell’ombra e che godono dell’incolumità del regime e di un contesto bellico che continua a lacerare un Paese ridotto in macerie. È disposto a fornire la sua testimonianza davanti a un tribunale nazionale, ma a condizione che gli venga assicurata un’adeguata protezione per sé e per i suoi cari. Al momento, solo un tribunale occidentale, quello della città tedesca di Coblenza ha portato a processo due ex funzionari del regime di Damasco per arresti arbitrari, torture e uccisioni compiute a danno dei manifestanti tra il 2011 e il 2012. Abdul ha paura di essere scoperto e riportato indietro e non lo rassicura il fatto di trovarsi fuori dai confini siriani. Una preoccupazione di cui si fanno portavoci oltre sessanta associazioni per i diritti umani, giuristi, parlamentari europei e oppositori di Bashar-al Assad, all’indomani della decisione dell’Interpol del 21 ottobre scorso di revocare le misure correttive applicate alla Siria nel 2012, temendo ripercussioni sulla sicurezza di chi è stato costretto a lasciare il Paese a causa della guerra e della repressione. “Anche se il principio di base adottato dall’Interpol si fonda sulla neutralità politica per non danneggiare i ricercati per motivi politici - scrivono in una nota congiunta le associazioni, fra cui anche Families for freedom e Caesar Families Association - il governo siriano e i suoi servizi di sicurezza e giudiziari hanno la capacità di aggirare questo divieto, non riconoscendo come tali oppositori politici, attivisti civili e giornalisti. Dall’inizio della rivolta popolare in Siria, hanno classificato tutti loro e i volontari del soccorso umanitario e medico, come terroristi e criminali”. Richiamano quindi l’attenzione dell’Organizzazione internazionale di polizia sulla possibilità che Damasco possa abusare del suo status di membro, spiccando mandati di arresto per motivi politici e non criminali. Secondo quanto riporta il quotidiano arabo al-Quds Al Arabi, pure l’ex capo della Sezione internazionale dell’Interpol nella capitale siriana il colonnello e dissidente Muhammad Mufid Andani, avrebbe avvisato dei rischi di quel provvedimento per gli oppositori del governo. È forte la preoccupazione di finire, e in molti casi tornare, nel buco nero dei centri di detenzione siriani. L’Interpol non spicca mandati di arresto, ma un Paese membro può richiedere che il Segretariato Generale emetta un Avviso rosso, vale a dire una richiesta alle forze dell’ordine di tutto il mondo di localizzare e arrestare provvisoriamente una persona in attesa di estradizione. Nella nota emanata dalla sede centrale di Lione, la polizia internazionale sottolinea che “ogni richiesta di Avviso rosso viene esaminata da una task force specializzata, per garantire che sia conforme allo Statuto e alle regole dell’Interpol”. Ed è su questo punto che nei giorni scorsi Toby Cadman, un avvocato britannico che lavora sui procedimenti giudiziari per crimini di guerra relativi alla Siria, ha manifestato al Guardian le sue perplessità: “Sono profondamente deluso e preoccupato che sia stata presa una decisione del genere. È abbastanza facile emettere un Avviso rosso: non è necessario fornire tante informazioni e l’Interpol è a corto di fondi e personale. Rimuovere quell’avviso anche in paesi europei, può essere una procedura lenta e difficile”. Intanto, giovedì scorso a Istanbul l’89ª Assemblea Generale dell’Organizzazione di polizia ha eletto come suo nuovo presidente il generale emiratino Naser Ahmed al Raisi, nonché generale del ministero degli Interni della monarchia del Golfo. La sua elezione ha sollevato polemiche per via delle denunce penali presentate in Francia e in Turchia contro di lui per torture e detenzione arbitraria. Gli Emirati Arabi Uniti stanno riallacciando i rapporti con il governo siriano, dopo la fase di gelo seguita allo scoppio della guerra. E non è passata inosservata la visita a Damasco del ministro degli Esteri dell’UAE, lo sceicco Abdullah bin Zayed al-Nahyan lo scorso 9 novembre, per porre fine all’isolamento del presidente siriano e per promuovere il reinserimento della Siria nella Lega araba. Una mossa criticata da Washington e Bruxelles che continuano a mantenere le dure sanzioni imposte al regime. Algeria. Se la Corte Ue offre uno strumento legale alla repressione di Pasquale Annicchino Il Domani, 30 novembre 2021 Il 22 aprile scorso Saïd Djabelkhir, accademico e giornalista algerino, fondatore del circolo dei “Lumi per il pensiero libero”, che si occupa di islam, è stato condannato a tre anni di carcere e a pagare una multa da 50mila dinari, per aver pubblicato su Facebook dei contenuti ritenuti offensivi dell’islam. La sua condanna prende a riferimento l’articolo 144 del codice penale algerino che, al secondo comma, punisce le offese al profeta dell’islam o le critiche ai precetti della religione musulmana. Djabelkhir, 52 anni, è stato incriminato e processato dopo che sette avvocati e un collega d’università hanno presentato una denuncia contro di lui. I fatti - La vicenda ha inizio quando l’accademico, nel rispondere a un predicatore salafita, che aveva emesso una fatwa contro il capodanno berbero, aveva sostenuto che alcuni rituali islamici esistevano in realtà da molto tempo prima che Maometto li codificasse. Allo stesso modo il giornalista aveva sostenuto che il pellegrinaggio alla Mecca ed altre tradizioni islamiche erano in realtà riti pagani e pre islamici. Secondo l’accusa le affermazioni di Djabelkhir sono lesive della dignità della religione islamica e per questo motivo da condannare. Il giorno della sentenza, uscendo dall’aula del tribunale, Saïd Djabelkhir ha dichiarato che il suo caso è parte di una “lotta che deve continuare per la libertà di coscienza, per la libertà di opinione e per la libertà di espressione. Perché la lotta per la libertà di coscienza non è negoziabile”. Non aveva però immaginato le evoluzioni dei mesi successivi. Con una lettera datata 9 agosto 2021 i relatori speciali delle Nazioni Unite che si occupano di libertà di religione, di credo e di libertà d’espressione, Ahmed Shaheed e Irene Khan, hanno chiesto conto al governo algerino della condanna di Djabelkhir, soprattutto dal punto di vista della tutela della libertà d’espressione, avendo l’Algeria ratificato il 12 settembre 1989 il Patto internazionale per la tutela dei diritti civili e politici. Tale condanna potrebbe, secondo la lettera dei relatori speciali, costituire l’esito di una persecuzione giudiziaria risultato di ricorsi fondati sull’interpretazione soggettiva di “insulti o offese contro la religione”. Paradossale appare la risposta del governo di Algeri alle richieste di chiarimento dei due relatori speciali. Una risposta paradossale - Nella lettera del 24 settembre scorso l’esecutivo difende l’operato dei giudici nazionali argomentando come le norme del codice penale algerino siano conformi ai trattati internazionali sui diritti umani. E fin qui, anche se ci sarebbe da dire, ordinaria amministrazione. Nella lettera, per dare ulteriore forza alla posizione del governo algerino, si cita a supporto addirittura una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, relativa al caso E.S. contro l’Austria del 25 ottobre 2018 in cui si era riconosciuta la non violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo con la previsione di norme sulla blasfemia nel codice penale di uno stato membro. Questo secondo l’argomento per cui la libertà d’espressione di un individuo può essere legittimamente compressa qualora il suo esercizio urti il sentimento religioso dei credenti. Già all’epoca numerosi esperti avevano criticato questo approccio della Corte che sembrava attribuire la titolarità dei diritti non agli individui, ma ad astratte idee e sentimenti. Provoca oggi un certo sgomento ritrovare riferimenti alla giurisprudenza del massimo organo europeo per la tutela dei diritti umani come argomento a sostegno dell’incarcerazione di un individuo, colpevole di aver esercitato il suo diritto alla libertà d’espressione. A maggior ragione quando questo accade contro una persona ripetutamente presa di mira per le sue opinioni, sia con campagne d’odio rivolte nei suoi confronti, sia mediante vere e proprie minacce di morte. Quella di Djabelkhir è solo una storia del grande buco nero che sta inghiottendo minoranze e dissidenti in tanti paesi del mondo. Gli stati europei restano spesso e volentieri a guardare in silenzio. Ma non eravamo mai arrivati a pensare di poter fornire materiale intellettuale utile alla repressione. Almeno fino a oggi. La guerra in Etiopia e in Sudan cancella il sogno occidentale di Mario Giropolitologo Il Domani, 30 novembre 2021 L’Etiopia e il Sudan dovevano segnare la strada di una nuova Africa in cui la società civile non era più oppressa da élite di regime. La guerra in corso si è dimostrata, se possibile, tra le più atroci della storia della regione. Se in Etiopia la crisi attuale non viene disinnescata attraverso il dialogo politico, c’è il serio rischio dell’implosione del paese e della fine di un millenario stato africano. Emirati, Arabia Saudita, Egitto e Israele sono a vario titolo coinvolti nell’azione diplomatica per risolvere le due crisi assieme agli Stati Uniti. Mentre in Sudan c’è uno spiraglio, molto peggio va in Etiopia dove non vi sono per ora aperture di nessun tipo. Erano parse a tutti due storie di successo che stavano diventando un modello: l’Etiopia e il Sudan dovevano segnare la strada di una nuova Africa in cui la società civile non era più oppressa da élite di regime. Il premier etiopico Abiy Ahmed Ali aveva addirittura vinto il Nobel per la pace nel 2019 dopo aver firmato un accordo definitivo con il paese fratello ma nemico, l’Eritrea. L’Etiopia stava cambiando con riforme che avevano allentato la stretta precedente. Parallelamente a Khartoum era iniziata una originale collaborazione tra militari e civili per portare il paese in una fase nuova. Ora entrambi i paesi sono candidati al collasso. Un colpo di stato militare il 25 ottobre ha deposto il primo ministro sudanese Abdallah Hamdok e gli altri membri civili del governo di transizione, formato dopo le manifestazioni popolari che avevano rovesciato il regime di Omar al-Bashir due anni fa. Dal canto suo ad Addis Abeba il primo ministro etiopico ha scatenato una guerra interna contro i tigrini che si erano rifiutati di riconoscere la trasformazione istituzionale del paese. Dopo un anno di combattimenti oggi rischia la sconfitta ma anche di essere giudicato per crimini di guerra, assieme ai leader eritrei suoi alleati. La guerra in corso si è dimostrata, se possibile, tra le più atroci della storia della regione. Tutta l’area allargata del Corno d’Africa è esplosa come una bomba a frammentazione e rischia di provocare altri danni. L’amministrazione Usa, una volta vicina a entrambi, sta rivalutando i suoi rapporti con i due paesi e cerca di evitare che il conflitto (il quale purtroppo coinvolge già un buon numero di altri paesi) vada fuori controllo. Le relazioni tra Stati Uniti ed Etiopia sono incrinate: l’inviato americano per il Corno d’Africa, Jeffrey Feltman, ha dichiarato giorni fa che le parti belligeranti, forze dell’esercito regolare incluse, stanno commettendo “atrocità diffuse” nel Tigray, assieme a quelle del Tdf tigrino e alle milizie ahmara. Allarmata da tali sviluppi, Washington ha già imposto una serie di sanzioni all’Etiopia. Il governo etiopico nel frattempo ha dichiarato lo stato di emergenza lanciando un appello a tutti i cittadini di armarsi per respingere il nemico: un’ammissione di totale fallimento. Se in Etiopia la crisi attuale non viene disinnescata attraverso il dialogo politico, c’è il serio rischio dell’implosione del paese e della fine di un millenario stato africano. Nelle sue dichiarazioni Feltman paventa infatti il “deterioramento dell’integrità dello stato”. Per quanto riguarda il Sudan il golpe pare rientrato ma l’amministrazione Biden mantiene la sospensione dei 700 milioni di dollari di assistenza economica mentre la Banca mondiale pensa se ricominciare con gli esborsi. La comunità internazionale ha chiesto al generale al-Buhran il ritorno del governo dei civili ma l’accordo non soddisfa questi ultimi. La gente continua a manifestare per le strade perché l’esercito lasci il potere e la transizione torni sul binario iniziale di un governo a guida totalmente civile. Gli osservatori internazionali paiono più ottimisti su Khartoum che su Addis Abeba ma ogni previsione è impossibile. Emirati, Arabia Saudita, Egitto e Israele sono a vario titolo coinvolti nell’azione diplomatica per risolvere le due crisi assieme agli Stati Uniti. Mentre in Sudan c’è uno spiraglio, molto peggio va in Etiopia dove non vi sono per ora aperture di nessun tipo. Mentre le forze tigrine sono a 100 chilometri dalla capitale e il premier Abiy è stato costretto ad andare personalmente al fronte, cresce l’odio etnico. La guerra tra i popoli che formano la federazione etiopica è divenuta talmente distruttiva che pare difficile immaginare un ritorno alla situazione precedente. Gli oromo, alleati dei tigrini assieme ad altre fazioni regionalistiche, hanno dichiarato di voler entrare ad Addis con le armi. Per evitare una deflagrazione totale, la comunità internazionale deve impegnarsi con decisione a fermare lo scontro armato prima che sia troppo tardi.