Suicidi in carcere, sono 3 nell’ultima settimana: tra loro un internato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 novembre 2021 Il 25 ottobre un detenuto di 36 anni si è tolto la vita a Pavia, il 30 ottobre è stata la volta di un internato nella Casa di Reclusione di Isili e il 31 ottobre un recluso nella Casa Circondariale di Monza. Sono 47 dall’inizio dell’anno. Nel giro di una settimana si sono verificati tre suicidi nelle carceri, tra loro un internato. Salgono così a 47 i detenuti suicidati dall’inizio dell’anno. A lanciare l’allarme è la redazione di Ristretti Orizzonti, denunciando il silenzio sugli ultimi suicidi. Il 25 ottobre scorso un detenuto italiano di 36 anni si è tolto la vita nella Casa Circondariale di Pavia. Mentre il 30 ottobre si è suicidato un internato nella Casa di Reclusione di Isili e il 31 ottobre un detenuto nella Casa Circondariale di Monza. L’anno scorso i suicidi sono stati 62 - A confermare gli ultimi due suicidi è il garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Siamo, com’è detto, arrivati a 47 suicidi, per un totale di 109 detenuti morti. L’anno scorso, periodo dove i contagi erano allarmanti e quindi le inevitabili chiusure e forti restrizioni all’interno delle carceri italiane, abbiamo raggiunto un totale di 62 detenuti. Numero altissimo, ma non come l’anno 2009 con 72 suicidi, il numero più alto nella storia della Repubblica. Ma se il 2020 era terribile per via della pandemia, che non pochi problemi ha creato anche nel mondo di fuori, figuriamoci “dentro” dove i problemi sono amplificati, ciò non dovrebbe trovare “giustificazione” in questo anno ancora non avviato alla conclusione. La Uilpa denuncia l’esclusione di risorse per le carceri e il Corpo di polizia penitenziaria - Da una parte cresce il numero del sovraffollamento, dall’altra manca un decreto carcere più volte reclamato anche dai sindacati di polizia penitenziaria. Non solo. Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, a proposito della manovra di bilancio approvata dal governo e che sta per approdare alle Camere, denuncia l’esclusione di risorse per le carceri e il Corpo di polizia penitenziaria. In particolare, niente è previsto per i detenuti affetti da patologie psichiatriche, nessuna risorsa viene stanziata per le infrastrutture e il lavoro carcerario, nulla di nulla viene appostato per l’ordinamento, gli organici e gli equipaggiamenti della Polizia penitenziaria. “Quanto si sta perpetrando sembra davvero inverosimile - sottolinea il Segretario della Uilpa -, non solo in relazione all’emergenza carceraria tuttora in atto e dopo i ripetuti ed eclatanti episodi di cronaca, giunti sino alla sparatoria di Frosinone, ma anche in relazione alle parole pronunciate dallo stesso presidente del Consiglio, Mario Draghi, durante la replica alla discussione generale sulla fiducia alla Camera dei Deputati, laddove ha tra l’altro sottolineato che non deve essere trascurata la condizione di tutti coloro che lavorano e vivono nelle carceri. Parole, però, che sembrano destinate a rimanere clamorosamente tali”. Incalza De Fazio: “Peraltro, tutto ciò sembra anche in assoluta antitesi con quanto riferitoci dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia e dal sottosegretario delegato Francesco Paolo Sisto nella riunione che abbiamo tenuto in Via Arenula meno di due settimane fa. In quella occasione, difatti, si è parlato di medici del Corpo, di assunzioni straordinarie, di stanziamenti per moderne tecnologie ed equipaggiamenti. Invece niente di niente”. E infine conclude: “Considerato lo stato comatoso delle carceri e l’inadeguatezza degli organici del Corpo di polizia penitenziaria quantificata dallo stesso Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in 17mila donne e uomini mancanti, auspichiamo che nei passaggi parlamentari si ponga efficace rimedio a omissioni che condurrebbero il sistema penitenziario al totale disfacimento, sulla pelle di operatori e detenuti. Non escludiamo, peraltro, nessuna forma di mobilitazione al fine di sensibilizzare sul tema l’opinione pubblica e, soprattutto, quella politica che, evidentemente, finge di accendere i riflettori sulle carceri solo in occasione di fatti eclatanti, per spegnerli e voltarsi dall’altra parte immediatamente dopo”. Il suicidio di un internato fa riflettere su chi ha scontato la pena ma resta in carcere - Il carcere senza suicidi non esiste né esisterà mai, ma se si supera una certa soglia, sicuramente bisogna intervenire per ridurre il danno. Il suicidio da parte di un internato presso la Casa di reclusione di Isili della Sardegna pone di nuovo l’attenzione anche sul discorso di questa figura che ha finito di scontare la pena, ma rimane di fatto un detenuto. Parliamo del cosiddetto doppio binario, residuo della concezione fascista della pena, ma che, a quanto pare, anche la Corte Costituzionale non l’ha messo in discussione se pensiamo alla recente pronuncia dove ha sentenziato che è legittimamente costituzionale internare una persona al 41 bis. Riforma penale, inizia il secondo round: magistrati all’assalto di Valentina Stella Il Dubbio, 2 novembre 2021 Alla vigilia dei decreti legislativi arriva il durissimo attacco del pm antimafia Nino Di Matteo: “La riforma Cartabia viola la Costituzione”. “La ritengo una delle peggiori riforme degli ultimi 30 anni”: così ieri dalle colonne del Fatto Quotidiano il Consigliere del Csm Nino di Matteo ha bocciato impietosamente la riforma del processo penale di “mediazione Cartabia”. È vero che molto probabilmente si riferisce all’improcedibilità, ma questo attacco così pesante da parte di un magistrato del suo calibro forse non è casuale a livello temporale. Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale il 27 settembre, la riforma Cartabia è diventata legge. L’articolo 2, quello riguardante appunto la nuova prescrizione, è applicabili da subito, mentre per quanto concerne l’articolo 1 occorrerà esercitare la delega su cui stanno lavorando le Commissioni istituite presso il ministero della Giustizia. Si gioca, dunque, un secondo round importantissimo sul piano dei decreti attuativi e la magistratura è pronta a dare battaglia. A maggior ragione, anche l’avvocatura dovrà farsi trovare pronta per vigilare su questa operazione, come aveva avvertito da queste pagine proprio il presidente dell’Unione Camere penali Caiazza. Tuttavia, ci dice l’avvocato Lorenzo Zilletti, responsabile Centro studi Aldo Marongiu dell’Ucpi, “per l’avvocatura sarà complicato vigilare sulla redazione dei decreti attuativi, vista ad oggi la preponderanza assoluta della componente magistratuale nelle sottocommissioni”. Il tema è però capire se sono a rischio le tutele difensive. “Quando si parla di efficienza del processo - sottolinea Zilletti - le garanzie sono sempre in pericolo. Non è facile infatti coniugare il rispetto dei diritti dell’imputato con l’efficientismo e l’idea che i fascicoli siano oggetti da smaltire e non contengano invece vite e vicende di persone”. Come già anticipato, “il terreno su cui si verificherà lo scontro maggiore tra istanze della magistratura e quelle dell’avvocatura è quello delle impugnazioni”. Se è vero, infatti, che la critica vincolata è stata eliminata, come richiesto dai penalisti, nella riforma si enuncia di “prevedere l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato”. Per Zilletti, “l’esperienza degli ultimi 20 anni, con le declaratorie di inammissibilità in Cassazione per manifesta infondatezza dei motivi, ci insegna come sia pericoloso attribuire alla discrezionalità del giudice la valutazione di requisiti di ricorsi appartenenti più al merito che all’ammissibilità”. Bisogna stare attenti anche alle parole, avverte l’avvocato: “L’uso del termine “puntuale” fa riferimento al merito del ricorso, non ai requisiti formali. E questo lascia troppo potere al giudice”. Zilletti ci tiene poi ad esprimere “la preoccupazione per cui, anche se i disegni delegati conterranno previsioni efficaci per sanzionare la violazione delle regole acceleratorie della fase delle indagini preliminari, bisognerà poi tener conto della eterna tendenza dei giudici a depotenziare quelle stelle regole”. In tale prospettiva, “la partita si gioca, più che sulla riforma del codice, sull’ordinamento giudiziario e sulla separazione delle carriere”. Capiamo meglio: la nuova norma prevede che il pm possa richiedere la proroga dell’indagine una sola volta per un termine non superiore a sei mesi “quando la proroga sia giustificata dalla complessità delle indagini”. Si chiede Zilletti: “Cosa significa, in pratica, “complessità delle indagini”? È una espressione molto generica. Questi aspetti positivi che la legge delega prevede per introdurre controlli giurisdizionali sui tempi e le modalità di esercizio dell’azione penale rimarranno lettera morta se i decreti non stabiliranno adeguate sanzioni processuali”. In pratica che succede se il pm non rispetta i tempi previsti? “Non possiamo illuderci che le sanzioni disciplinari risolvano il problema. Allora, ad esempio, si potrebbe rendere davvero inutilizzabile il materiale acquisito fuori dai tempi previsti dalla legge”. Un altro aspetto controverso è il processo in assenza: oggi, ricevuto il mandato per il primo grado, per presentare appello basta una telefonata tra l’avvocato e l’assistito. Con la nuova norma sarà invece necessario uno specifico mandato rilasciato dopo la pronuncia della sentenza. “Questa novità rischia di creare una discriminazione tra imputati di serie A e imputati di serie B. La maggior parte dei processi di primo grado davanti al giudice monocratico riguarda persone difese d’ufficio, che per la loro condizione sociale sono spesso irreperibili. La portata di questa previsione in termini di garanzie è devastante”. Una innovazione riguarda la funzione del gup, per cui si prevede che “il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”. Però, sottolinea Zilletti, “il mio timore è che è molto più facile e meno faticoso rinviare a giudizio senza motivare che motivare una sentenza di proscioglimento”. In ultimo, una considerazione sull’ufficio per il processo: “La mia preoccupazione è legata alla assenza di garanzie di indipendenza e autonomia da parte di coloro che comporranno gli uffici per il processo”. Ad esempio, conoscere eventuali legami tra un componente e le parti del processo. Per un giudice scatterebbe la ricusazione, ma per i suoi nuovi assistenti? “Non ci sarà alcuna possibilità per l’avvocato e i difensori di comprendere fin dove giunga l’apporto dei componenti dell’Ufficio per il processo e quindi di tutelare i propri assistiti da situazioni di mancanza di imparzialità”. Di Matteo ultimo giustizialista: “Riforma Cartabia incostituzionale” di Stefano Zurlo Il Giornale, 2 novembre 2021 Nel bunker delle toghe è rimasto da solo a sabotare il rinnovamento: “Legge Cartabia? La peggiore in 30 anni”. È l’ultima toga in trincea. E bisogna dargli atto di aver sempre agito fuori dagli schemi e dalle cordate. Basterà ricordare che è stato lui, davanti al plenum del Csm, a svelare l’andirivieni dei verbali dell’avvocato Amara schierandosi senza se e senza ma a difesa di Sebastiano Ardita, finito nel mirino di Piercamillo Davigo. Davigo è appunto fuori gioco, Francesco Greco si trova a guidare a un passo dalla pensione una procura di rito ambrosiano divisa in fazioni, Ilda Boccassini coltiva la memorialistica. Lui, Antonino Di Matteo, scrive con Saverio Lodato un libro, I nemici della giustizia, Rizzoli, nome che è tutto un programma: sembra di essere tornati a dieci-quindici anni fa, quando i magistrati parlavano ex cathedra, scomunicavano le proposte della politica, falciavano l’erba nuova del cambiamento con giudizi affilati. Il primo bersaglio è la riforma Cartabia, peraltro caldeggiata dall’Europa: “La ritengo una delle peggiori degli ultimi trent’ anni - spiega al Fatto quotidiano - L’Europa chiedeva di accelerare i processi, ma se fosse stata in vigore la riforma Cartabia, processi importanti come quello per il crack Parmalat, la strage di Viareggio e per le violenze nella scuola Diaz di Genova del 2001, si sarebbero conclusi nel nulla”. È una storia che si ripete con disarmante continuità dai tempi di Mani pulite: ogni ipotetica riforma porterebbe fatalmente - a dare retta ai giustizialisti di turno - all’azzeramento di dibattimenti importantissimi, sarebbe un assist per colletti bianchi corrotti e delinquenti di ogni risma, avrebbe un impatto drammatico se non apocalittico sul sistema. Con questa tecnica collaudata, tutti i tentativi di rinnovare la macchina si sono arenati, oggi la percezione è cambiata ma non per tutti. Dal suo bunker, Di Matteo lancia l’allarme e chiama a raccolta le truppe disperse nella nebbia che ha avvolto i giudici italiani. “Questa normativa - insiste a proposito della Cartabia - presenta per me aspetti di evidente incostituzionalità. Va nella stessa direzione del processo breve voluto dal premier Berlusconi e dal ministro Alfano nel 2009”. Insomma, l’ex presidente della Consulta avrebbe messo la faccia e il nome su una legge fuori dal perimetro della nostra Costituzione. E, oltre tutto, pericolosamente vicina alla norma voluta dal Cavaliere nel 2009. Insomma, l’Italia ha voltato pagina, ma le ossessioni per qualcuno restano sempre le stesse. E il cantiere legislativo finalmente aperto avrebbe solo lo scopo di punire le toghe: “Dobbiamo indignarci. Sono tanti quelli che vogliono approfittare di questo momento difficile per regolare i conti con i magistrati che hanno saputo esercitare il controllo di legalità”. Certo, con l’onestà intellettuale che gli si deve riconoscere, Di Matteo punta il dito contro “il correntismo, la corsa sfrenata alla carriera... il collateralismo con la politica” di tanti colleghi che hanno giocato di sponda con il Palazzo. Di Matteo è e resta un libero battitore, un uomo esemplare per coraggio e tenacia, ma la sua visione è prigioniera di quella mentalità militante: si dice contrario a 5 dei referendum, mentre il sesto è inutile, e quando si arriva alla separazione delle carriere non rinuncia a citare Licio Gelli, esattamente come facevano molti dirigenti dell’Anm nei convegni di 15 o 20 anni fa: “Il primo piano in tal senso era quello di Rinascita Democratica di gelliana memoria, poi è diventato una bandiera di Forza Italia e del centrodestra. L’appiattimento dei giudici sui pm è un falso storico”. Avanti di corsa, verso un passato glorioso, rivendicato anche se conteneva i germi della malattia e del declino. E il verdetto sui rapporti Stato-mafia che ha smontato la sua inchiesta? “Nessuna sentenza - risponde l’inscalfibile Di Matteo - potrà mai cancellare i fatti storici emersi in quel processo”. Referendum: fine della repubblica giudiziaria? di Piero Sansonetti Il Riformista, 2 novembre 2021 È probabile che a primavera si voterà per i referendum sulla giustizia. Quale può essere la novità? Molto grande. Persino oltre il merito dei quesiti ai quali dovranno rispondere gli elettori. La novità sta nel fatto che una spinta popolare può invertire i rapporti tra Magistratura e Democrazia. La posta in gioco è questa e l’esito non è affatto scontato. Oggi i rapporti tra Magistratura e Democrazia sono del tutto sbilanciati a favore della magistratura. Che dagli anni 70 in poi, e con un balzo prodigioso nel 1992, ha progressivamente sottomesso al suo potere e alla sua cultura quasi tutto il mondo politico. Sostituendosi al potere democratico, influendo o addirittura determinando le decisioni politiche, e il corso dell’economia, i rapporti civili e persino il senso comune. C’è chi dice che è stato un colpo di stato. Non credo che sia vero. È stata una rivoluzione, reazionaria e antidemocratica. Ma una rivoluzione, condotta con grande sagacia, con senso politico, con preparazione culturale, ma anche, evidentemente, con arroganza e senso di sopraffazione. Nessuna rivoluzione è possibile senza sopraffazione. La politica, che è stata sconfitta tra il ‘92 e il ‘94, e poi definitivamente sottomessa negli anni successivi, non ha la forza per ribellarsi e liberarsi. L’idea di una autoriforma della magistratura è pura follia. Come se 70 anni fa ci si potesse aspettare una liberalizzazione dello stalinismo. Le caratteristiche del potere non cambiano: mai un potere costituito si è volontariamente spogliato. Per questo il referendum è l’unica via. Se la Repubblica giudiziaria sarà sconfitta, con il quorum e con i Sì, i rapporti di forza cambieranno improvvisamente, la politica riprenderà fiato, la cultura giustizialista dominante cederà il passo. Lo farà persino nelle redazioni dei giornali e delle Tv. Si potrà tornare allo Stato di diritto. Il referendum è anche molto rischioso. Se vince la magistratura ci sarà un rimbalzo medievale. Il potere delle toghe diventerà ancora più esteso. La democrazia si chiuderà in poche tane. È una partita politica epocale. Dalla quale dipenderà molto del futuro del paese. Più dal referendum, addirittura, che da Draghi. Toghe e pagelle, la lezione degli anni 60 di Astolfo Di Amato Il Riformista, 2 novembre 2021 Se appare assolutamente necessario che lo spirito corporativo che oggi innerva il sistema di governo della magistratura sia contrastato, questo deve avvenire nel rispetto della sua indipendenza. Il terzo dei quesiti referendari in materia di giustizia è volto ad ottenere che anche ai membri “laici” dei Consigli Giudiziari, cioè avvocati e professori universitari, sia consentito di partecipare attivamente alla valutazione dell’operato dei magistrati del distretto. Tale valutazione costituisce, successivamente, la base delle decisioni assunte dal Csm in tema di progressione in carriera. Oggi, la componente laica è esclusa dalle discussioni e dalle votazioni concernenti tale materia. Con il referendum, dunque, si intende giungere a valutazioni più attendibili, limitando la logica corporativa, che inevitabilmente discende dalla appartenenza alla medesima categoria di controllori e controllati. Della logica corporativa, che, sinora, ha dominato tali valutazioni ha dato conto, nel mese di ottobre, la ministra Cartabia, la quale, in risposta ad una interrogazione dell’on. Costa, ha riferito che le valutazioni positive sono state, negli ultimi anni, il 92% del totale. Di fronte a una tale percentuale, ha avuto buon gioco Tiziana Maiolo, su questo giornale (20 ottobre), a mettere in rilievo l’incongruenza del numero modestissimo di valutazioni negative (appena 35 nel quadriennio 2017-2021), a fronte non solo delle rivelazioni fatte da Palamara, ma anche di quanto sta emergendo a seguito della faida scoppiata nella sola procura di Milano in relazione ai verbali di Amara. A sua volta, Giuseppe Di Federico, ancora su questo giornale (29 ottobre), ha sottolineato, avendo letto i verbali del Csm dal 1959 al 2017, che “la grande maggioranza dei pochi magistrati che il Csm non valuta positivamente sono quelli che hanno ricevuto gravi sanzioni disciplinari, a volte connesse a procedimenti penali”. Ben venga, dunque, un quesito referendario volto ad ottenere una valutazione più affidabile e meno corporativa dei magistrati. Avendo la consapevolezza, tuttavia, che il tema affrontato è di estrema complessità e che non sarà un eventuale successo del referendum a dire una parola definitiva sulla questione. Sino agli anni 60, la progressione in carriera dei magistrati avveniva attraverso una sorta di cooptazione, avendo un ruolo decisivo i componenti della Corte di Cassazione, siccome determinanti nelle commissioni di avanzamento. Negli anni ‘60, attraverso la legge cd. “breganzina” prima e la legge “breganzona” poi (dal Dc Uberto Breganze che ne è stato il proponente), la progressione in carriera dei magistrati è divenuta pressoché automatica, nel senso che è consentito a tutti, con l’avanzare dell’anzianità, di raggiungere i gradi (e gli stipendi) più elevati, in assenza di valutazioni negative. La selezione si è così spostata dall’avanzamento nel ruolo al diverso tema dell’attribuzione delle funzioni effettive, che, come ha riferito Palamara, è divenuto il terreno di intervento delle correnti, essendo la promozione ormai assicurata a tutti. Di fronte a maglie così larghe, che non hanno eguali in altri comparti dell’impiego sia pubblico e sia privato, eccetto quello dei docenti (titolari, peraltro, di un trattamento economico decisamente inferiore), è facile scandalizzarsi ove non si tenga conto delle ragioni che, negli anni 60, indussero il legislatore a prevedere un automatismo di carriera. In quegli anni la questione centrale in Italia, nel mondo del diritto, era quella di stabilire se i principi dettati dalla Costituzione repubblicana dovessero trovare diretta ed immediata attuazione anche attraverso l’opera dei giudici o se dovesse attendersi l’opera di adeguamento del legislatore. Il dibattito, in cui spiccò in dottrina il contributo di Pietro Perlingieri volto ad offrire una rilettura in chiave costituzionale del codice civile, vedeva larga parte della magistratura di merito schierata a favore della prima opzione, mentre la Cassazione esprimeva, in prevalenza, una posizione molto più prudente. Continuare ad attribuire, perciò, un ruolo decisivo ai magistrati della Cassazione rispetto alla progressione di carriera avrebbe significato ostacolare una più immediata e completa attuazione dei principi costituzionali nell’ordinamento italiano. A questo deve aggiungersi che, come all’epoca si sottolineava, erano lo stesso valore dell’indipendenza di ogni singolo giudice e la pari dignità della funzione del giudicare, che respingevano una progressione condotta con criteri selettivi, che avrebbero potuto facilmente prestarsi a condizionare l’attività dei magistrati. Quelle riforme, dunque, al di là delle spinte corporative, che pure vi sono state, avevano l’obiettivo di rendere l’ordinamento giudiziario più coerente con il dettato costituzionale. È necessario, allora, dire con chiarezza che se, da un lato, il sistema vigente si è prestato a troppi abusi per essere mantenuto inalterato, dall’altro, quelle esigenze che ispirarono il legislatore degli anni ‘60 continuano ad essere attuali e meritevoli di tutela. Se, quindi, appare assolutamente necessario che lo spirito corporativo, che oggi innerva il sistema di governo della magistratura, sia contrastato, questo deve avvenire nel rispetto di quelle esigenze che ispirarono le riforme citate. In questo senso, la estensione anche ai membri laici dei consigli giudiziari del potere di incidere sulle valutazioni appare una misura coerente con la finalità perseguita e che certamente non mette a repentaglio il valore dell’indipendenza della magistratura. Occorre, tuttavia, svolgere anche un’altra considerazione. La connessione tra giustizia e politica, che è divenuta dominante a partire da Mani Pulite, ha finito con il distorcere, per quello che qui interessa, i criteri di valutazione dell’attività del giudice, essendo troppo spesso tutto ridotto ad uno scontro tra tifoserie politicamente opposte. Tanto per fare un esempio, i magistrati che hanno dato corpo al processo sulla Trattativa, hanno alimentato una clamorosa panzana, anche sotto il profilo tecnico giuridico, o hanno meritoriamente messo il dito su una piaga purulenta? Al di là delle opinioni personali di chi scrive, non si può non prendere atto che su questo tema vi è una contrapposizione così netta ed accesa, dalla forte connotazione politica, che diventa difficile raggiungere la pacatezza che richiederebbe una tale valutazione. Ecco, allora, che sarebbe opportuno che siano esclusi dalla nomina, come laici, nei consigli giudiziari e nel Csm coloro che abbiano ricoperto ruoli nei partiti politici o funzioni di rappresentanza politica. Questo per evitare che il corporativismo che si vuole combattere sia invece rafforzato da uno spirito di comune appartenenza ideologica, che unisca togati e laici, con effetti estremamente perniciosi. La considerazione delle ragioni a fondamento delle riforme degli anni 60 conduce ad una ulteriore riflessione. L’automatismo della progressione economica sulla base della sola anzianità senza demeriti ha, tra l’altro, trovato legittimazione nella giusta considerazione che l’attività del giudicare ha eguale dignità a tutti i livelli. In effetti si deve rilevare che anzi, sotto alcuni aspetti, chi giudica nei primi gradi ha un maggiore potere di incidere sulla vita delle persone rispetto a chi giudica nei gradi successivi. Se le cose stanno così, non si comprende perché chi subisca una valutazione negativa non possa accedere ai livelli superiori, ma possa continuare ad arrecare danno ai cittadini nel ruolo che sta svolgendo. Sarebbe, perciò, opportuno che, quantomeno dopo una seconda valutazione negativa, quale che sia il grado ricoperto, il magistrato venga estromesso dall’ordine giudiziario e destinato ad altra amministrazione dello stato. Andrea Reale: “Voto sì ai referendum”. Si apre la breccia tra i magistrati di Luca Fazzo Il Giornale, 2 novembre 2021 Il giudice di Articolo 101: “L’Anm sbaglia, le riforme sono necessarie. Pronto a votare su Csm e carcere preventivo”. Da una parte, i vertici dell’Associazione nazionale magistrati che hanno cercato in ogni modo di stoppare i referendum di radicali e Lega sulla giustizia. Dall’altra i tanti magistrati senza ribalta mediatica che giorno per giorno tirano avanti la carretta dei processi. E adesso che la Corte Costituzionale ha dato il via libera al voto sui sei quesiti, anche dall’interno delle toghe c’è chi si prepara a votare sì. “Io rispetto l’iniziativa referendaria - dice al Giornale Andrea Reale, giudice a Ragusa e tra i fondatori del gruppo Articolo 101 - e su uno dei quesiti darò certamente voto favorevole”. I vertici dell’Anm dicono che i referendum sono un tentativo indebito di condizionare le riforme cui il Parlamento sta lavorando… “È vero esattamente il contrario: attraverso l’espressione popolare si manda una indicazione precisa alle forze politiche sulla importanza di intervenire in tempi rapidi a riforme di cui tutti vedono la necessità. E le tematiche sollevate dai referendum sono in buona parte tematiche assolutamente valide, anche se non sempre la formulazione dei quesiti e le modalità individuate mi convincono del tutto. Ma se si arriverà al voto io su alcuni quesiti sono intenzionato a votare sì”. Per esempio? “Uno è sicuramente quello sul Consiglio superiore della magistratura, che permette a tutti i magistrati di presentare la propria candidatura senza raccogliere firme a sostegno di essa. La raccolta di firme, si badi, non è oggi un ostacolo insormontabile neanche per colleghi sganciati dalle correnti. Ma un’approvazione del quesito sarebbe un segnale nella direzione giusta, che è la liberazione del Csm dall’occupazione in pianta stabile da parte delle correnti organizzate. Come Articolo 101 abbiamo detto più volte che il sorteggio dei membri del Consiglio superiore è la strada per dire addio al clientelismo, agli scambi di favori e di cariche che oggi governano in larga parte il nostro mondo. Ma la eliminazione delle firme a sostegno delle candidature è senz’altro un primo passo nella direzione giusta”. Su quali altri quesiti è orientato al sì? “L’unico altro quesito che potrebbe orientarmi per un sì è quello sui limiti al ricorso al carcere preventivo, la cosiddetta custodia cautelare. Oggi in Italia la percezione diffusa è che ci sia una legge penale fin troppo rigorosa, e probabilmente è vero, soprattutto nel corso delle indagini preliminari. Io non penso che ci sia un abuso generalizzato della custodia cautelare, ma è inevitabile che di fronte a imputati che vengono assolti dopo lunghi periodi di carcere l’opinione pubblica si interroghi. Anche se, sapendo come vanno le cose in Italia, di fronte al primo sospettato di un delitto eclatante che verrà scarcerato la stessa opinione pubblica sarà pronta a gridare allo scandalo. Una mediazione ragionevole per rendere più oculata l’applicazione della custodia in carcere sarebbe affidare la valutazione a un collegio di tre giudici, e non a un singolo magistrato, almeno la prima decisione sulla richiesta del pm. Ovviamente dopo una ampia rivisitazione degli organici. Comunque la vera patologia del sistema è anche un’altra”. Ovvero? “Parlo dell’utilizzo distorto dell’azione penale, l’esercizio di essa con connotazioni politiche. È una realtà che in questi anni si è talora toccata con mano, un abuso che rischia di minare la credibilità del sistema. L’utilizzo distorto e politicizzato dell’azione penale ha conseguenze assai gravi. Ma ciò non si risolve con la separazione delle carriere, che rischia di mettere alle dipendenze dell’esecutivo l’esercizio dell’azione penale né con l’introduzione dei criteri di priorità che aumentano il pericolo di un uso non imparziale della funzione”. Il sogno folle di sentirsi come Falcone di Tiziana Maiolo Il Riformista, 2 novembre 2021 Il libro di Di Matteo propone i soliti temi e l’attacco durissimo alla riforma Cartabia che definisce incostituzionale. Nel confronto tra i due c’è stata una volta che Ilda Bocassini ha battuto Nino: sulla vicenda Scarantino. E se fosse lei la più brava? Dopo il libro dell’ex magistrata della procura di Milano, arriva anche “I nemici della giustizia”, un’intervista di Saverio Lodato all’uomo più scortato d’Italia. I due sentono il bisogno narcisistico di raccontare la loro esperienza e di far conoscere i loro giudizi. Quando si scontrarono, vinse Lei. Forse era più brava? Ilda e Nino, Nino e Ilda. Non una coppia, no. Ma una coppia di fatto, questo sì. Per come se ne parla, per come porgono se stessi, ben convinti, ambedue, sia loro dovere spiegare al mondo “come sono” davvero. Perché il mondo intero non aspettava altro. Ilda Boccassini, dopo la pubblicazione del suo libro, si rivela a Enrico Mentana, che la presenta in uno speciale di La 7 come “figura particolare importante forte”. Nino Di Matteo si lascia intervistare in un libro di Saverio Lodato, che lo qualifica subito come “giudice”, e vien voglia di fermarsi solo per questo alla prima riga. Un uomo una donna, non è solo il titolo di un drammatico film di Lelouch degli anni sessanta. È in questo caso il diverso sguardo con cui un uomo e una donna, due pubblici ministeri che il circo mediatico ha reso “eroi”, porgono se stessi. Eroi della lotta alla mafia in una guerra che non dovrebbe riguardare, se non indirettamente, la stessa magistratura requirente. Nessuno dei due è, o è stato, un secondo Giovanni Falcone. Ma sotto sotto sia Lei che Lui pensano di esserne la reincarnazione. Sarà per questo che tutti e due insistono sul concetto di dovere. Ho il “dovere” di far sapere a tutti chi è davvero Ilda, dice Boccassini. Ho sentito il “bisogno di testimoniare, di far conoscere lo stato d’animo di un magistrato che stenta a riconoscersi in un mondo dominato da logiche che non gli appartengono”, rilancia Di Matteo. Certo, Lui non direbbe mai “mi sono messa nuda”, come fa Lei. Che precisa: “Ho sentito il bisogno di raccontarmi per far capire chi è Ilda”. Non nudo, Lui. Ma solo contro il mondo, questo sì. Il mondo che non gli piace, quello fatto dai “Nemici della Giustizia” (il titolo del libro di Lodato, edito da Rizzoli). Chi sono? I grandi criminali, va da sé, quasi inutile citarli. Perché i “nemici” sono soprattutto certi politici, certi uomini della finanza, certi imprenditori, persino certi magistrati. Per Lei i nemici sono tutti quelli che sono stati contro “Giovanni”, e di conseguenza contro Ilda. “Ho giurato all’obitorio che nessuno avrebbe distrutto la sua immagine”. Amore amicizia passione solidarietà rimpianto. Ma anche tanto autocompiacimento. Certo, se pensiamo all’immagine altera e un po’ arrogante che ha rappresentato Nino Di Matteo in tanti passaggi televisivi e nella forza della toga nel processo “Trattativa”, quello della sua finta vittoria, poi cestinata con l’assoluzione degli imputati nell’appello, Ilda Boccassini appare molto più sensibile, più “umana”, direbbe Fantozzi. Non quella esibizionista e maleducata che ci raccontano le cronache di chi la conosce e non la ama, ma quella che ha sacrificato la sua vita personale e anche l’amore per una passione più grande, quella per la giustizia. E qui le due figure finiscono con il combaciare. Di Matteo è l’uomo più scortato d’Italia, e anche questo è un groppo sacrificio. Ma ce l’ha un po’ con tutti. Con le correnti della magistratura, con i capi delle procure che creano i propri cerchi magici cui elargiscono prebende e promozioni, con il carrierismo e le carriere. Parla da “puro”, come se lui e lui solo avesse meritato i vari incarichi del suo percorso, quelli avuti e quelli che gli sono stati negati, come il ruolo di vertice del Dap, prima promesso e poi sottratto da parte dell’ex ministro Alfonso Bonafede. Lui non fa sconti, lancia il sospetto che qualcuno, i soliti poteri forti, i soliti politici corrotti, voglia usare questo momento difficile della magistratura per assoggettarla all’esecutivo. Magari attraverso i quesiti del referendum proposto dai radicali e dalla Lega. Gli argomenti sono i soliti, i più banali: il pm deve mantenere la “cultura della giurisdizione” (come nel processo Eni?), la responsabilità civile dei magistrati ne condizionerebbe l’autonomia, soprattutto dai ricchi e potenti, eccetera. Non parliamo poi della riforma Cartabia, addirittura incostituzionale, di cui non vede la parte più innovativa, ma solo quella che impedisce l’eterna durata dei processi. Anche Ilda Boccassini ce l’ha con tanti. Per esempio con quelli che avevano criticato Giovanni perché era andato a lavorare con il guardasigilli Claudio Martelli, e poi avevano fatto la fila per poter andare anche loro a infrattarsi in qualche ministero. Sottinteso: io non l’ho fatto e mai avrei potuto avere quel tipo di aspirazione. Anzi: io gli ipocriti li ho ben bacchettati. Come dimenticare, e infatti Mentana non lo dimentica, quel giorno, quarantotto ore dopo l’uccisione di Falcone, Morvillo e gli uomini della scorta? Quell’immagine di Ilda vestita di scuro, quasi una vedova, nell’aula magna del tribunale di Milano a lanciare il suo j’accuse contro tutti i colleghi (di sinistra, in particolare) che avevano lasciato solo Giovanni? Lo specchio della storia, per come lei la ricostruisce, le rimanda la sua immagine, perché ancora una volta sta parlando di sé, coinvolta nel mito del bravo magistrato che aveva saputo capire che cosa era la mafia. Lei che arriva all’aula magna dalla sala accanto, quella dove era stata emessa la sentenza del processo “Duomo connection”. Dove Lei aveva rappresentato l’accusa e aveva ottenuto le condanne, suggerisce Mentana. E lei non lo smentisce pur sapendo che quel giorno aveva segnato una sua clamorosa sconfitta, dopo che per mesi il circo mediatico aveva tuonato “le mani della mafia su Palazzo Marino”, me lei non era riuscita a incastrare nessun politico. E quello che avrebbe dovuto essere il primo processo di mafia a Milano era stato derubricato alla condanna di un paio di piccoli avventurieri-spacciatori. Le parole con cui Di Matteo liquida il “processo trattativa” sono speculari e altrettanto autocelebrative. Il concetto di sconfitta non fa parte del suo vocabolario. Lui è orgoglioso e di aver messo a disposizione della storia fatti importanti, perché tutti devono sapere quale era il piano della mafia negli anni novanta, dice con sussiego. Certo, tralasciare il fatto, stabilito in sentenza, che nessun uomo dello Stato ha ceduto alla mafia né ha commesso alcun reato ti può far sentire un vincente anche quando dovrebbe bruciare sulla tua pelle il fatto di aver perso la partita. Se ti senti un “eroe”. Se ti dicono che lo sei. Se fanno un libro per celebrarti. Un po’ quel che succede anche a Ilda quando si parla di Berlusconi e del processo Ruby. Lei si sentiva “una piccola donna” che doveva rappresentare lo Stato e il principio dell’uguaglianza per tutti della legge, contro uno che si difendeva “dal” processo. Solita tiritera. Ma resta il fatto che anche lei ha perso quando Berlusconi è stato assolto in via definitiva. C’è stata però una volta in cui Ilda ha vinto. Quando ha battuto Nino, sulla vicenda Scarantino, il piccolo truffatore palermitano che qualcuno voleva trasformare in “pentito” a suon di botte e torture nel carcere di Pianosa. Di Matteo e gli altri pm del processo Borsellino gli avevano creduto e avevano contribuito a fare arrestare gli innocenti. Solo Boccassini aveva fiutato l’imbroglio. Quella volta Ilda e Nino combattevano su fronti opposti e ha vinto lei. Forse era più brava? Sì al processo accusatorio. Ma nel contraddittorio la verità diventi obbligatoria per legge di Gian Carlo Caselli Il Dubbio, 2 novembre 2021 La facoltà di non rispondere introdotta dal Parlamento nel 2001 ha modificato l’assetto del processo penale riformato nel 1989. Com’è noto la riforma del 1989 ha introdotto un rito tendenzialmente accusatorio, cioè un processo non più scritto (come nel sistema inquisitorio), bensì orale e basato sul contraddittorio. Ciò significa che la decisione deve essere fondata unicamente su prove acquisite davanti al giudice del dibattimento attraverso il confronto diretto delle parti in condizioni di parità, sottraendo il giudice a ogni possibile condizionamento esercitato da un’attività espletata in precedenza da altri organi. In poche parole, qualcosa di simile al metodo della cross-examination dei processi televisivi alla Law & Order. Ovviamente anche nel sistema accusatorio prima del dibattimento c’è la fase delle indagini. Ma con il nuovo codice, soppressa la figura del giudice istruttore, le indagini sono svolte soltanto dal pm, il quale, con l’ausilio della polizia giudiziaria, acquisisce non prove consolidate ma fonti di prova (degli spunti, se vogliamo) per accertare il reato e individuare il presunto responsabile. Di regola queste fonti di prova non sono destinate ad avere efficacia ai fini della sentenza e il loro contenuto deve rimanere estraneo agli elementi su cui il giudice fonda il suo convincimento. Detto in parole povere, in fase di indagini il pm raccoglie materiale grezzo che gli servirà poi come traccia per illustrare al giudice il suo punto di vista; si tratta quindi di semplici fonti (spunti) di prova, non di prove già formate. Può quindi accadere che l’indagato venga arrestato sulla base di gravi fonti di prova che in quella fase rendono probabile la sua condanna; ma, nella fase decisiva del dibattimento, quelle stesse fonti potrebbero non avere più valore sufficiente ai fini della sentenza. Nel dibattimento, infatti, le cose possono mutare anche radicalmente se qualcuno fa - come usa dire - “marcia indietro”, per esempio se i principali testimoni di accusa cambiano versione o ritrattano le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria e al pubblico ministero. E poiché la prova si forma solo su quel che si dice al dibattimento, ecco che può verificarsi un fatto paradossale, una doppia verità. È il caso di un imputato che si ritenga raggiunto da gravi elementi di colpevolezza nella fase delle indagini (anche al punto di essere legittimamente sottoposto a custodia cautelare), che in dibattimento, altrettanto legittimamente, viene assolto per mancanza di prove (nel senso che con le regole del dibattimento non si sono formate a suo carico le prove necessarie). Non c’è dubbio che il processo accusatorio è un progresso nella civiltà giuridica. Nondimeno esso presenta problemi non da poco, soprattutto nel contrasto della criminalità organizzata, dove è più alto il rischio di “marce indietro” nella fase del dibattimento, spesso (ma non solo) a causa delle pesanti interferenze realizzate dalle associazioni criminali di appartenenza mediante violenze e intimidazioni (anche trasversali) o corruzioni. Il pericolo di questi gravi inconvenienti ha determinato - con vari decreti del 1991/92 - una serie di interventi legislativi che cercano di tener conto dell’impatto del processo accusatorio con le esigenze di lotta alla criminalità organizzata. Il sistema originariamente previsto nel nuovo codice subisce quindi una alternante evoluzione, singolarmente caratterizzata da una ripetuta contrapposizione fra il Parlamento (cui spetta di approvare le leggi) e la Corte costituzionale (cui spetta di verificarne la conformità alla Costituzione, e quindi di eventualmente annullarle se contrarie). Una contrapposizione alimentata anche da tensioni di tipo politico, collegate a differenti visioni sull’amministrazione della giustizia e sullo Stato, legate ai processi di quel periodo sia per reati di criminalità organizzata di tipo mafioso che per reati di criminalità politico-amministrativa (“mani pulite”).Si determina quindi una sorta di “ping-pong” istituzionale fra la Consulta e il Parlamento. La Corte interviene più volte sul testo del codice, ampliando progressivamente la possibilità di utilizzare le fonti di prova acquisite prima del dibattimento. Il Parlamento ribatte restringendo tale possibilità. La Corte però non si dà per vinta, e alla fine il Parlamento prende, come usa dire, il toro per le corna: impone il suo punto di vista interrompendo il “ping pong” in maniera tranchant con una legge costituzionale del 1999 (cui segue nel 2001 la legge ordinaria definita del giusto processo). In questo modo il Parlamento modifica profondamente l’intero assetto del processo penale riformato nel 1989, introducendo in particolare: il divieto, nella maggior parte dei casi, di utilizzare in dibattimento le dichiarazioni già acquisite (in particolare, nella fase delle indagini preliminari); l’introduzione, accanto al testimone e all’imputato, di una nuova figura, quella del testimone assistito, cioè dell’imputato che parla dei reati altrui (nel gergo giudiziario, “impumone”). Nell’esperienza concreta delle aule di giustizia, però, è opinione diffusa che l’ibrido “impumone” funzioni poco e male. La legge, infatti, circonda la sua figura con un complicato reticolo di garanzie, che gli consente, in molti casi, di starsene zitto anziché imporgli l’obbligo di rispondere e di sottoporsi positivamente all’esame delle parti. Quanto all’imputato, per legge ha la facoltà di non rispondere, ma se risponde può mentire impunemente. Mentre in altri Paesi per l’imputato che accetta di rispondere e poi mente sono previste gravi sanzioni (il cosiddetto oltraggio alla Corte). Inoltre, nel nostro sistema la falsa testimonianza è regolata in maniera molto blanda, quasi del tutto inefficace. Si comprende, allora, perché una delle principali critiche alle scelte del Parlamento circa la legge sul giusto processo sia di non avere sufficientemente rispettato la finalità essenziale del processo stesso e del contraddittorio: quella che alcuni studiosi sintetizzano come esigenza di avere “soggetti parlanti”, cioè un dibattimento che sia il luogo della parola e non del silenzio. Il principio del contraddittorio presuppone appunto la presenza di soggetti disposti a parlare - meglio se obbligati per legge a dire la verità. Su questa strada dovrebbero farsi ulteriori passi realizzando una tutela forte di un effettivo contraddittorio facendo del dibattimento un vero “luogo della parola”. Non mi sembra che la riforma Cartabia preveda alcunché al riguardo. P.S. Le considerazioni svolte in questo intervento si trovano anche, ampliate e sviluppate, nel recente libro “La giustizia conviene” (Gian Carlo Caselli e Guido Lo forte - Ed. Piemme) Enzo Bianco: “Salvate i sindaci dall’abuso d’ufficio o ci giochiamo il Recovery” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 novembre 2021 L’ex sindaco di Catania guida la battaglia contro lo stillicidio di indagini - spesso assurde - che colpiscono gli amministratori locali italiani. Enzo Bianco ha nel suo curriculum vitae tutta l’esperienza per affrontare consapevolmente il reato di abuso d’ufficio: avvocato, 15 anni sindaco di Catania, già ministro dell’Interno e parlamentare per diverse legislature. Oggi è Presidente del Consiglio Nazionale dell’Anci e ci dice: “chiediamo che venga fatto subito un testo base nelle commissioni del Senato. Noi amministratori dobbiamo poter lavorare serenamente soprattutto in un momento in cui occorre uscire dalla crisi, senza la paura di un’azione penale ingiustificata”. Il 7 luglio scorso, come ha ricordato anche un odg dell’onorevole Costa, sindaci da tutta Italia hanno manifestato a Roma per chiedere, tra l’altro, di intervenire sul reato d’abuso d’ufficio... Sì, è così. A metà luglio di quest’anno abbiamo riunito un Consiglio Nazionale a Roma, a cui hanno partecipato non solo i Consiglieri nazionali ma anche 800 sindaci con la fascia tricolore di ogni colore politico, da Beppe Sala alla ex prima cittadina Raggi. Quel Consiglio approvò un documento con alcune richieste che io, il presidente Decaro e il vice presidente vicario Pella presentammo al premier Draghi in cui abbiamo manifestato questo malessere profondo che oggi c’è tra i sindaci di tutta Italia. Ci può spiegare bene quali sono le vostre difficoltà? Antonio Bassolino proprio tre mesi fa ha chiuso l’ultima vicenda giudiziaria da sindaco ed è stato assolto per la diciannovesima volta. Quindi l’ex sindaco di Napoli per ben 19 volte ha dovuto leggere sui giornali che era indagato, con un titolone sparato in prima pagina. Poi quando è stato assolto hanno scritto dieci righe in quattordicesima pagina. Però intanto la reputazione di un sindaco è stata compromessa. Non è bello andare in giro nella città in cui vivi e che amministri e sentirti addosso lo stigma del malaffare mentre prendi il caffè con i tuoi concittadini, solo perché un pubblico ministero in conferenza stampa ha pensato bene di condire l’atto di indagine con dettagli che minano la tua persona e lasciano ferite indelebili. Può illustrarci qualche altro episodio? Una parte di questi casi riguarda l’abuso di ufficio; l’altra parte una serie di disgrazie, se così vogliamo chiamarle, che imputano ai sindaci una responsabilità oggettiva. In merito a quest’ultima, le cito due episodi recenti. La sindaca di Crema ha ricevuto un avviso di garanzia in relazione all’infortunio di un bimbo che si era chiuso due dita in una porta tagliafuoco dell’asilo nido comunale. Un altro sindaco di un piccolo paese abruzzese è stato indagato per concorso in omicidio colposo dopo che in un percorso di alta montagna si è staccato un macigno che ha colpito un gruppo di escursionisti e una persona è morta. Questi due casi manifestano un modo di fare della giustizia che non risponde a nessuna logica, se non quella di non far dormire serenamente la notte chi dovrebbe guidare una comunità. Queste faccende giudiziarie quasi sempre si chiudono favorevolmente per l’indagato ma intanto devi prendere un avvocato, attendere i tempi lunghi della giustizia, convivere con il sospetto della colpevolezza. La reputazione per una persona in generale, ma soprattutto per un sindaco, è un aspetto fondamentale. A lei è mai capitato qualcosa? Io ho fatto il sindaco per 15 anni. All’inizio della mia esperienza, cadde un albero in una villa comunale che ferì una persona, mentre c’erano condizioni climatiche straordinarie. E sono stato iscritto nel registro degli indagati. Poi sono stato pure indagato per abuso d’ufficio per aver costituito una società per lo sviluppo occupazionale e per facilitare l’arrivo di nuove imprese in una città come Catania, dall’altissimo potenziale economico ma con una elevata disoccupazione. Mi inventai quindi lo Sportello Unico delle Imprese che ancora non era legge. Il magistrato istruttore non solo mi prosciolse ma nella motivazione scrisse che era una delle pratiche migliori di cui era venuto a conoscenza in quell’ambito. Però comunque il danno l’ho subìto. Focalizziamoci sull’abuso d’ufficio... Si tratta di una fattispecie di reato così generica che il 97% delle iniziative giudiziarie per abuso di ufficio si chiude con un proscioglimento o con una assoluzione. Questo scenario poi porta ovviamente a dire che ci sono centinaia di magistrati che lavorano in procedimenti che non hanno alcun fondamento. Il reato di abuso d’ufficio prevede che, per configurarsi, ci debba essere la violazione di una legge o di un regolamento mentre, secondo l’interpretazione di alcuni magistrati, basta anche considerare come violazione di apposita legge la generica violazione dell’articolo 97 della Costituzione, ossia del principio del buon andamento. L’ atteggiamento di questi magistrati che puntano ad aggirare la norma vigente è inaccettabile. Le autorità della stessa magistratura devono vigilare. Ma poi soprattutto adesso che occorre far ripartire l’economia c’è bisogno di facilitare il vostro lavoro... In questo momento storico in cui dobbiamo fare subito per gestire i fondi del Pnrr, dovendoci rialzare dalla crisi che ci ha investito, è chiaro che noi amministratori continueremo ad avere le mani legate se il legislatore non ci fornisce le giuste garanzie e anche del personale per elaborare i progetti. Attenzione: l’Anci tutta unita non chiede un salvacondotto. Se un sindaco si prende i soldi e li intasca deve essere perseguito e condannato duramente. Però neanche è possibile che si verifichi quanto accaduto ad un mio collega, indagato perché il magistrato riteneva che l’interesse personale si manifestava perché cercava consenso dall’opinione pubblica che lo avrebbe riportato alla rielezione e ad un vantaggio economico. Questa è follia: se un sindaco non deve agire per ottenere consenso, per cosa deve operare? Siamo in democrazia o sbaglio? Cosa pensa dei tre disegni di legge presentati al Senato? Non l’ha sorpresa che tra i proponenti ci sia un esponente del Movimento 5 Stelle? Mi ha fatto molto piacere che a proporre una modifica ci sia un membro del M5S. I Cinque Stelle erano partiti quattro o cinque anni con una posizione opposta. Poi hanno eletto degli amministratori e si sono resi conto delle difficoltà. Come Anci crediamo che occorra fare subito un testo unificato prendendo il meglio di ogni proposta. L’obiettivo è che il risultato finale non sia di parte ma trasversale. Lei sarebbe d’accordo con la cancellazione del reato di abuso d’ufficio? Lascio che sia il Parlamento a decidere. L’Anci non ha preso posizione su questo. Personalmente non vorrei che passasse il messaggio che noi cerchiamo l’impunità. Noi vogliamo essere puniti se violiamo la legge dolosamente e se ci mettiamo i soldi in tasca. Se invece si fa un atto amministrativo sbagliato, è il giudice amministrativo che deve intervenire non quello penale. Il professor Romano ha rilevato che alcune delle proposte in discussione hanno il limite di riferirsi solo ai sindaci. Condivide? Credo che la riforma debba riguardare tutti: assessori, consiglieri, dirigenti e funzionari comunali. Tutti abbiamo bisogno di operare serenamente. Ma i Sindaci anzitutto. Sono i più esposti. Napoli. Il Garante campano dei detenuti: “Poggioreale è una polveriera a miccia corta” di Damiano Aliprandi Il Riformista, 2 novembre 2021 Nei giorni scorsi il Sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe ha denunciato il sovraffollamento a Poggioreale dichiarando che è diventato una pentola a pressione che mette a serio rischio la sicurezza stessa del penitenziario ed ogni ipotesi di attività trattamentale finalizzata al recupero dei detenuti. “È vero, Poggioreale è una polveriera a miccia corta”, conferma Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti, all’uscita da Poggioreale, dopo aver effettuato colloqui nell’istituto, che attualmente “ospita” 2.240 detenuti. Secondo i dati della relazione annuale del 2020 del Garante regionale nella casa circondariale di Poggioreale, si sono registrati 323 atti di autolesionismo, 250 scioperi della fame e/ o sete, 467 infrazioni disciplinari, 33 tentativi di suicidio, 2 suicidi e 8 decessi di morte naturale. “Purtroppo - prosegue il garante Ciambriello - il populismo penale si coniuga con il populismo politico che non ha sosta nemmeno nel corso della pandemia. Nel carcere di Poggioreale e più in generale in Campania ci sono 625 detenuti di fuori regione di cui 62 stranieri su un totale di 6429 detenuti. Questa prassi non solo, contribuisce al sovraffollamento delle celle, ma viola il principio di territorialità della pena. Il sovraffollamento è, anche, sinonimo di un eccessivo ricorso alla custodia cautelare in carcere che dovrebbe costituire una scelta di extrema ratio. Le leggi non sono una macchina che una volta messa in moto va da sé, le leggi sono pezzi di carta che se lasciamo cadere non si muovono. Talvolta ritardi nelle decisioni, anche della magistratura di sorveglianza che risulta essere sottodimensionata a Napoli, Caserta, Salerno; sono la causa di ansia, angoscia, sofferenza fisica, atti di autolesionismo e sovraffollamento. Occorrono più misure alternative al carcere”. Per quanto riguarda il primo semestre del 2021 si contano 152 atti di autolesionismo, 1 decesso per cause naturali ed 1 suicidio, 13 tentativi di suicidio sventati dalla Polizia Penitenziaria e 119 colluttazioni. Il Garante campano Ciambriello, sottolinea: “Non sono bastati i timidissimi provvedimenti deflattivi con i decreti legge durante la pandemia, che hanno prodotto numeri esigui di persone uscite dalle carceri. Occorre che il governo e il Parlamento facciano di più, un provvedimento serio e di portata nazionale, un piccolo indulto. Credo che il sovraffollamento sia solo una delle mille sfaccettature relative alla qualità della vita e della pena”. Il Garante spiega che Poggioreale ha bisogno di più educatori, psicologi, psichiatri, attività scolastiche-trattamentali. Su diciannove educatori previsti ne sono presenti in struttura solo nove, e solo due psichiatri a fronte di cinque come dovrebbe essere. Ciambriello, infine, conclude: “Vale la pena sottolineare che molti dei tentativi di protesta, sciopero, atti di autolesionismo accadono dopo le ore 16: 00. Per questo credo che in carcere a Poggioreale, di pomeriggio, sia necessaria la presenza di almeno un commissario, un educatore, uno psicologo. Ci sono spazi giornalieri vuoti, nei quali, gli agenti di polizia penitenziaria, tra l’altro sottodimensionati, sono lasciati soli, in compagnia di generosi volontari della Pastorale carceraria della Diocesi di Napoli e di alcune associazioni di volontariato”. Pisa. “Carcere Don Bosco sovraffollato e vecchio: 50 detenuti in più” di Antonia Casini La Nazione, 2 novembre 2021 Il Garante, l’avvocato Alberto Marchesi: “Pandemia durissima per loro, colloqui in presenza ripresi ma solo con lo schermo protettivo”. Ha assunto il ruolo (ad aprile 2019, quasi un anno prima dell’esplodere della pandemia) in un momento quanto mai difficile: “Una detenzione ancora più dura che ha sostanzialmente sovrapposto il regime carcerario “ordinario” alle limitazioni proprie del regime di alta sicurezza”. Con il supporto dei colleghi Maria Luisa Bresciani e Massimiliano Soldaini, entrambi iscritti e in rappresentanza della Camera Penale di Pisa - “la loro preziosa opera è indispensabile e necessaria perché da solo non sarei in grado di adoperarmi per far fronte alle moltissime problematiche poste dai detenuti” - l’avvocato Alberto Marchesi è il garante delle persone private della libertà. Un impegno “gratuito e a nostre spese”, “di per sé gratificante sotto il profilo etico e di impegno civile, del tutto coerente con i principi e i valori della professione di avvocato”. Qual è la situazione, adesso, nella casa circondariale Don Bosco? “Il carcere rappresenta un comparto della società civile nel quale i diritti costituzionali sono se non sospesi quantomeno affievoliti, si pensi al diritto al lavoro, alle cure sanitarie, all’istruzione e così via. Del pari sono attuati i precetti costituzionali relativi alle tendenziali finalità rieducativa della pena e del trattamento penitenziario, che non deve essere disumano e degradante. A Pisa il numero delle presenze è stabilmente superato di almeno 50 persone, per cui il sovraffollamento è la regola e non l’eccezione, come accade in tutti gli altri Istituti penitenziari”. Come è cambiata la popolazione nel tempo? “Ora c’è una fortissima presenza di detenuti stranieri per i quali, stante la mancanza di riferimenti familiari e sociali all’esterno, l’avvio di un percorso di recupero è reso di fatto impossibile, anche in presenza di pene detentive brevi”. Dal punto di vista strutturale? “Recentemente è stata riaperta la sezione femminile che ospita circa 25 detenute; per il resto i locali soffrono della loro vetustà sia nei luoghi di frequentazione comune, sia per quanto riguarda le stanze di pernottamento. Per la Corte Europea dei diritti dell’uomo ogni detenuto deve avere a disposizione uno spazio minimo di tre (3!) metri quadri, affinché le sue condizioni detentive non siano considerate “degradanti”. A Pisa, come in tutte le carceri italiane, questo è lo spazio a disposizione, sul quale quasi sempre insistono arredi di fortuna”. Come si vive il Covid “dentro”? “I detenuti delle carceri toscane sono stati tutti vaccinati contro il Covid (così come il personale penitenziario) grazie all’appello dei garanti comunali e regionali, accolto dalla Regione Toscana con grande tempestività e sensibilità anche perché la decisione è stata presa in un periodo in cui i vaccini “scarseggiavano”, quindi tra gli strepiti di qualche leone da tastiera”. Nei primi giorni del lockdown, ci fu una protesta per lo stop dei colloqui con i familiari, come funziona, ora? “Le regole di comportamento proprie della fase emergenziale hanno avuto il loro impatto sulla popolazione detenuta, andando a comprimere quei pochi spazi di socialità consentiti dal regolamento, come la partecipazione ad attività interne di studio e lavoro e i rapporti con i familiari. Per molto tempo l’accesso dei familiari non è stato consentito, anche se sono state incrementate le video-telefonate settimanali. I colloqui sono ripresi (dimezzati rispetto all’ordinario), ma senza possibilità di contatto fisico (è stato allestito uno schermo protettivo)”. Varese. Lavoro dopo il carcere con la “Valle di Ezechiele” di Andrea Camurani Corriere della Sera, 2 novembre 2021 Uscire dal carcere, ricostruirsi una vita attraverso il lavoro: la ricetta per abbattere la recidiva - la percentuale di chi ci ricasca - passa dai capannoni di una ex fabbrica trasformata in cooperativa sociale che ha l’obiettivo di assistere i detenuti alla soglia della libertà decisi a investire sul proprio futuro. Per questo alla “Valle di Ezechiele” (cooperativa sociale di Fagnano Olona, in provincia di Varese) il 25 ottobre scorso ha fatto visita per il taglio del nastro la ministra della Giustizia Marta Cartabia invitata dall’ideatore di questa realtà, don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio che un anno fa ha costituito la sua creatura che ha già “salvato” dieci persone dando loro una speranza concreta; proprio in questi giorni l’attività è a pieno regime per via del confezionamento di cesti natalizi con prodotti alimentari e di artigianato realizzati in diverse altre cooperative attive nelle carceri di tutt’Italia. Così è possibile assaggiare biscotti che arrivano da Verbania e il caffè di Pozzuoli, la confettura da Sondrio e la pasta da Palermo. Ma non solo. Gli ex detenuti si stanno occupando della digitalizzazione di una serie di documenti cartacei ufficiali e delibere di alcune amministrazioni comunali della zona. “Benvenuta nella Valle di Ezechiele, dove le persone rinascono”, è stato il saluto rivolto alla ministra da don David che ha raccontato la genesi di questa realtà “nata poco più di un anno fa e che ha preso il nome nato al cancello della sesta sezione del penitenziario quando un detenuto mi prese da parte e mi disse “don, stavo leggendo la Bibbia che mi hai dato...il capitolo 37 di Ezechiele sembra scritto per me”. Entrando in carcere si fa spesso l’esperienza di Ezechiele, che si trova a camminare in una valle piena di “ossa inaridite”: pezzi di vita, umanità sconnesse, relazioni frantumate, passati difficili e un futuro incerto. Noi qui invece ridiamo speranza”. Le opportunità Sempre nel capannone di Fagnano Olona si effettua la sbavatura di componenti in gomma per case automobilistiche in conto terzi: le persone che lavorano alla cooperativa sociale sono in regime di esecuzione penale esterna. “È una grande opportunità: gli ultimi studi dicono che la percentuale di chi torna dietro le sbarre dopo aver scontato la pena si ribalta nelle carceri dove i detenuti lavorano, passando dal 70 ameno del 30 per cento”, conclude don David, 39 anni originario di Guenzate, in provincia di Como. Arienzo (Ce). Reinserimento dei detenuti: “Sgravi per imprenditori che li assumono” casertanews.it, 2 novembre 2021 Le proposte del tavolo con la Garante ed il Magistrato di sorveglianza. L’aula consiliare del Comune di Arienzo ha ospitato il convegno dal titolo “La situazione nelle nostre carceri - Integrazione e reinserimento sociale dei detenuti” promosso dalle associazioni Libera, Comitato don Peppe Diana, Amnesty International e Anpi. Dopo i saluti del sindaco di Arienzo Giuseppe Guida si sono susseguiti, moderati da Tina Cioffo, gli interventi del magistrato di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere Marco Puglia, della garante provinciale dei diritti dei detenuti Emanuela Belcuore, della referente di Libera Valle di Suessola Carmela De Lucia, della referente del Comitato Anpi Mena Diodato e di Alessia Arena, referente di Amnesty. Un interessante dibattito in cui è stato fatto il punto sulla situazione attuale e sulle prospettive future per le persone recluse. “Bisogna dare una prospettiva ai detenuti - ha detto la garante Belcuore a margine dell’iniziativa - Ad esempio pensando a corsi di formazione in carcere per poi avere sbocchi lavorativi all’esterno. Magari si potrebbero offrire sgravi fiscali a quegli imprenditori che poi assumono questi ragazzi dopo che hanno pagato il loro debito con la giustizia”. Tra le altre questioni trattate quello del supporto psicologico, al momento molto carente. Basti pensare che a Santa Maria Capua Vetere ogni detenuto ha un colloquio con lo psicologo della durata media di 2 minuti e venti secondi. Infine, è stato toccato l’aspetto anche della sessualità dietro le sbarre con la proposta di luoghi, anche nei penitenziari italiani, dove le detenute ed i detenuti possano incontrare e vivere momenti di intimità con i propri partner. Reggio Calabria. Il Garante nazionale dei diritti dei detenuti in visita al carcere di Arghillà Corriere della Calabria, 2 novembre 2021 Mauro Palma ha tenuto una lezione universitaria sul lavoro penitenziario e ha esaminato con Agostino Siviglia le problematiche dell’istituto. “Nei giorni scorsi il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, si è recato in visita istituzionale presso l’istituto penitenziario di Reggio Calabria Arghillà, accompagnato dal Garante regionale della Calabria, Agostino Siviglia. Dopo avere tenuto lo scorso venerdì 29 ottobre, a Palazzo Zani - si legge in una nota - una lezione universitaria sul delicato tema del lavoro penitenziario, nell’ambito del Master di secondo livello in “Diritto e Criminologia del Sistema Penitenziario”, diretto dal professore Arturo Capone della cattedra di Procedura Penale dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria e di cui è vicedirettore il Garante regionale della Calabria, Agostino Siviglia, il Garante nazionale, Mauro Palma, unitamente a quest’ultimo, si è recato nella giornata di sabato 30 ottobre, in visita istituzionale presso il carcere di Arghillà, al fine di esaminare alcune complesse problematiche che affliggono il detto istituto penitenziario. Si è trattato di una lunga e minuziosa visita ispettiva - continua la nota - che non ha lasciato al caso nessuna delle questioni esaminate dal Garante nazionale, specie, in tema di assistenza sanitaria penitenziaria e di collocazione delle persone detenute in isolamento sanitario, disciplinare o cautelativo. L’avvento della pandemia, per vero, ha esasperato le problematiche relative al diritto alla salute delle persone private della libertà personale, anche e non marginalmente, con riferimento alla carenza di disponibilità di idonei spazi interni al carcere da destinare ad autonomi reparti Covid, che di conseguenza finiscono per sottrarre ulteriori spazi alle sezioni che dovrebbero essere destinate per l’esecuzione delle sanzioni disciplinari, su tutte l’isolamento penitenziario, ovvero a tutela delle stesse persone detenute per possibili aggressioni o sopraffazioni, giusta la previsione di cui all’art. 32 del Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario. Questioni, minuziosamente, esaminate dal Garante nazionale Mauro Palma e che saranno oggetto di apposite determinazioni ovvero raccomandazioni da parte dello stesso all’Amministrazione penitenziaria nazionale. Sempre in tema sanitario, è stata peraltro, sollevata l’annosa problematica di carenza di personale medico, sulla quale più volte è intervenuto il Garante regionale a livello territoriale, che saranno ulteriormente rappresentate sul piano nazionale, di stretta competenza del Garante Palma. Non è sfuggita peraltro al Garante nazionale l’originaria assenza di un’apposita caserma per il personale di Polizia Penitenziaria, prevista solo in teoria nel progetto di realizzazione dell’istituto penitenziario dì Arghillà, ma mai realizzata. A distanza di otto anni dall’inaugurazione del nuovo carcere reggino, infatti - prosegue ancora la nota - il personale di polizia penitenziaria pendolare è costretto ad utilizzare quale propria caserma una sezione detentiva, provvisoriamente, destinata a questo scopo, è diventata nei fatti l’unica soluzione possibile, perfezionando ancora una volta quell’atavica disfunzione tutta italiana in base alla quale “nulla è più definitivo del provvisorio”. Per di più, la detta sezione detentiva adibita innaturalmente a caserma per il personale di polizia penitenziaria, è priva di bagni nelle camere, che sono quindi comuni in uno con le docce. Una situazione, dunque, irrispettosa della dignità e qualità del lavoro prestato, quotidianamente, dal personale di polizia penitenziaria, che reclama di certo la più compiuta attenzione e risoluzione di chi di competenza. Anche su questo tema, in ossequio alle rispettive competenze, sia il Garante nazionale che il Garante regionale formuleranno apposite raccomandazioni all’Amministrazione penitenziaria, sia a livello centrale che decentrato. Il carcere, dunque - conclude la nota - continua a rimanere un’istituzione totale e totalizzante, ragion per cui risulta cruciale la funzione di autonome figure di Garanzia che sono chiamate a vigilare, raccomandare, denunciare, al fine di salvaguardare la dignità ed il rispetto dei diritti costituzionali delle persone detenute, ma anche di quanti in carcere lavorano quotidianamente”. Cremona. Vestiti per i detenuti grazie a Caritas e Gamma cremonaoggi.it, 2 novembre 2021 Da tempo Caritas Cremonese porta avanti un progetto per far fronte all’emergenza vestiaria nel carcere di Cremona. Presso la Casa Circondariale di Cremona, infatti, vengono spesso trasferiti detenuti stranieri, prevalentemente molto giovani e con gravi situazioni di disagio ed emarginazione sociale. Sono persone che non hanno alcuna rete famigliare di supporto e spesso con problematiche psichiatriche e costanti legami con l’abuso di sostanze. In questi casi, uno degli aspetti che può essere fonte di grande tensione è l’impossibilità di gestire una serie di bisogni materiali, fra cui quello del vestiario. “Non tutti sanno - spiega Marco Ruggeri, operatore di Caritas Cremonese che opera nel carcere di Cremona - che non è come si vede nei film americani: il carcere non fornisce nessun genere di indumento, nemmeno la classica divisa a strisce. Unica fornitura garantita sono lenzuola e coperta”. In passato, la rete di solidarietà interna fra detenuti riusciva a sostenerne i bisogni, ma ora è sempre più circoscritta al proprio clan o gruppo di appartenenza. Inoltre, ciò che prima era un dono disinteressato, oggi è un prestito da saldare. Così, Caritas si fa carico dell’emergenza. Il pacco è simbolo dell’attenzione a persone che spesso finiscono per essere solo numeri, casi giudiziari o sociali. E anche il vestirsi diventa un’azione attraverso la quale una persona può riprendere ad avere cura e amore per sé. Ma c’è di più. Il progetto viene realizzato con l’aiuto della Cooperativa Gruppo Gamma che destina una parte dei vestiti usati, raccolti attraverso i punti vendita Vesti e Rivesti, alle realtà che si occupano di povertà, tra cui appunto la nostra Caritas. In questo processo, vengono coinvolti anche i fruitori del Centro Diurno Adulti della Cooperativa che, affiancati da operatori professionali e volontari, aiutano a preparare i pacchi di indumenti per i detenuti, in base alle esigenze espresse dagli operatori di Caritas presenti in carcere. “Per noi i pacchi di vestiti non hanno solo lo scopo di risolvere un problema certamente non banale in carcere, ma sono un primo, piccolo, ma autentico e concreto, passaggio riabilitativo e rieducativo”, spiega Chiara Persico, vicepresidente della Coop. Gamma. A “occuparsi” dei carcerati, infatti, sono anche persone che affrontano patologie psichiatriche. E “a volte - continua Persico - quando una fragilità ne incontra un’altra, si possono trovare inattesi sentieri di comunione umana, in un cammino che può portare a imprevedibili situazioni di guarigione e riscatto”. Con benefici davvero per tutti. Il materiale può essere consegnato presso il Gruppo Gamma-Centro Diurno di Salute Mentale di via Redegatti 2, a Cremona, dal lunedì al venerdì dalle 7 alle 22 e il sabato sino alle 20. Nella zona grigia delle “Lettere da Guantanamo”, l’eredità dell’11 settembre di Chiara Cruciati Il Manifesto, 2 novembre 2021 Il libro di Laura Silvia Battaglia, giornalista e documentarista, conduttrice di Radio3Mondo, pubblicato da Castelvecchi. Un viaggio dentro un’anomalia giuridica, luogo fantasma, mostro legale reso possibile da uno dei primi casi contemporanei di esternalizzazione delle frontiere. A vent’anni dall’11 settembre del 2001 analisi e dibattiti hanno occupato le pagine dei giornali e i minutaggi di radio e tv: com’è cambiato il mondo, cosa resta del 9/11. Tra i temi meno affrontati c’è la revisione profonda dei concetti di sicurezza e di terrorismo, categorie trasfigurate nella giustificazione per ridurre lo spazio dei diritti e i confini della legge internazionale e per ampliare il controllo sociale di pezzi di società considerati nemici. E poi c’è il tema, stringente, della trasformazione dei servizi di intelligence internazionali, degli strumenti utilizzati per garantire “sicurezza” e combattere “il terrore”: tecnologie pervasive per il controllo sociale, extraordinary rendition, leggi liberticide (dal Patrioct Act americano all’uso capillare dello “stato di emergenza”) è molto di quello che resta dell’11 settembre. È in questo mega contenitore che rimangono intrappolati i detenuti di Guantanamo (779 dall’apertura nel 2002, 39 ancora detenuti). Alle loro storie, in particolare a quelle dei prigionieri di origine yemenita, è dedicato “Lettere da Guantanamo” (Castelvecchi, pp. 96, euro 13,50) di Laura Silvia Battaglia, giornalista e documentarista, conduttrice di Radio3Mondo. Il libro è un viaggio dentro un’anomalia giuridica, luogo fantasma, mostro legale reso possibile da uno dei primi casi contemporanei di esternalizzazione delle frontiere. Guantanamo è un super carcere costruito al di fuori del territorio statunitense e destinato esclusivamente ai sospettati di terrorismo e di appartenenza ad al Qaeda, catturati in Asia, rinchiusi in centri segreti della Cia e poi deportati con la prospettiva mai concretizzata di un processo equo o almeno di accuse certe. Battaglia dà la parola ad alcuni di loro, liberati dopo anni di torture e abusi, un rilascio che però è solo apparente: trasferiti in paesi alleati degli Stati Uniti di cui non parlano la lingua e non conoscono la cultura, impossibilitati a tornare a casa, persone come Faiz Ahmad Yahia Suleiman in Sardegna o Hussein Salem Mohammad al-Merfedy in Slovacchia conducono oggi una vita in celle senza sbarre, in cui ricostruirsi un’esistenza è utopia. Decine quelli ancora detenuti, stretti nell’ennesimo girone di un limbo infinito, ovvero le promesse di chiusura di Guantamano da parte dei presidenti democratici post-Bush jr (prima Obama, ora Biden): promesse mai mantenute. Per loro parlano le famiglie. L’autrice le incontra, si fa guidare in vite sfigurate dalle decisioni di figli o fratelli, spesso loro stesse oggetto di persecuzioni da parte delle autorità yemenite. L’11 settembre non è mai finito. Esaltato con conflitti brutali che hanno devastato Afghanistan e Iraq e che colpiscono, centellinando gli attacchi, l’intera regione con guerre a distanza, l’attentato alle Torri Gemelle ha dato il via libera alla demolizione, pezzo dopo pezzo, di ogni garanzia legale e del muro - già scalfito - del diritto internazionale. Le storie di singoli uomini, fatti scomparire dentro la zona grigia di Guantanamo, spogliati di diritti e dignità è forse il modo migliore per ricordarne l’esistenza e “quel che resta” del 9/11. Il dialogo serve ancora di Sabino Cassese Corriere della Sera, 2 novembre 2021 Mai come oggi è chiaro che, a dispetto dei sovranisti, problemi globali richiedono soluzioni globali. Finito il G20, inizia la Cop26. Draghi ha detto che l’incontro di Roma “è stato un successo”: “abbiamo mantenuto in vita un sogno”. È un successo sognare? Basterebbe la dichiarazione sulla tassa minima globale per sancire la riuscita della due-giorni romana. I 19 capi di Stato e di governo (più la Ue), che rappresentano il 60% della popolazione mondiale e l’80%dell’economia del pianeta, si sono impegnati reciprocamente a una “tassazione internazionale” (così è intitolato il paragrafo 32 della dichiarazione finale) per “un più stabile e giusto sistema fiscale internazionale”. Il G20 ha incaricato l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), una organizzazione internazionale che ha 60 anni di vita e raggruppa 38 Paesi, di preparare gli strumenti multilaterali e le regole modello per evitare che le multinazionali digitali spostino i profitti da un Paese ad un altro allo scopo di pagare imposte inferiori. Basterebbe questo passo per dire che il G20 romano è stato un successo: il potere di tassare, simbolo della sovranità statale, viene legato a un accordo con altri Stati. Ci sono poi le altre venti pagine della dichiarazione congiunta, articolate in 61 paragrafi, che spaziano su 25 temi, dalla sanità all’ambiente, al clima, all’istruzione, ai trasporti, al commercio e a tanti altri. Vi è, inoltre, la larga partecipazione al Gruppo dei 20, che include anche sei altri governi invitati e le organizzazioni internazionali, pure invitate, da quella del commercio a quella monetaria. Si aggiunge il lavoro preparatorio, svolto da 20 comitati di ministri di settore e da 29 gruppi di lavoro, e dagli invisibili e infaticabili “sherpa” (i funzionari che preparano incontri e documenti). Ci sono, infine, gli incontri bilaterali, che servono al dialogo su singoli temi e tra un numero limitato di Paesi (ad esempio, tra Stati Uniti e Unione Europea, a Roma, si è fatto un passo avanti per la rimozione dei dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio, che avevano originato misure ritorsive europee). Insomma, un piccolo miracolo organizzativo per un “forum”, un semplice “club”, come il G20, che si riunisce periodicamente solo dal 2008 (quella romana è stata la sedicesima riunione), che non ha neppure un proprio segretariato (usa l’Ocse a questo scopo), che è organizzato con una presidenza a rotazione (ma la continuità è assicurata dal sistema della “troika”, che riunisce il presidente precedente e quello successivo a quello presente), e che conclude i suoi lavori con “dichiarazioni” e non con decisioni. Insomma, un modello di precarietà che mostra invece una grande stabilità. Se la riunione romana aveva una portata generale, quella che si svolge per due settimane a Glasgow ha un tema specifico, il controllo della emissione di gas ad effetto serra. La Conferenza delle parti (Cop), cioè il parlamentino dei 197 Stati parte della Convenzione quadro sul cambiamento climatico, firmata nel 1992, è alla sua ventiseiesima riunione. Questa, a differenza del G20, è una vera e propria organizzazione internazionale, della “famiglia” delle Nazioni Unite, ha una propria struttura esecutiva (il segretariato) ed ha già fatto progressi con il protocollo di Kyoto (1997) e con gli accordi di Parigi (2015). Ma questi non bastano: occorre stabilire più stringenti limiti ai contributi, determinati a livello nazionale, alla riduzione delle emissioni per evitare l’aumento della temperatura del pianeta. Ma qui sorgono le tensioni tra Stati. Per i Paesi emergenti, questo vuol dire la perdita di molti posti di lavoro. Quindi, interessi mondiali e interessi nazionali confliggono e non è facile risolvere questo conflitto. Draghi ha affermato, in apertura dell’incontro romano, che “agire da soli non è un’opzione possibile”. Ha aggiunto che “il multilateralismo è la migliore risposta ai problemi che affrontiamo oggi”. Ha parlato persino di una “comunità globale”. Mai come oggi è stato chiaro che — a dispetto dei sovranisti — problemi globali richiedono soluzioni globali. E che queste bisogna cercarle anche se la “comunità globale” non ha unghie e denti, in altre parole non può imporre con la forza il rispetto di obiettivi e regole. Bisogna, tuttavia, guardare con ottimismo ai successi e anche agli insuccessi, spesso necessari. L’utopia di coloro che nel 1945 firmarono la carta istitutiva delle Nazioni Unite sta trovando oggi realizzazione. Lo testimoniano i duemila regimi regolatori globali (questo vuol dire che il governo della globalizzazione si è allargato a macchia d’olio). Lo testimoniano i “fori di dialogo” degli “attori sociali” che lavorano insieme con i rappresentanti dei governi alla preparazione delle riunioni del Gruppo dei 20 (questo vuol dire che nel governo della globalizzazione non sono coinvolti solo gli Stati, ma anche i rappresentanti delle società civili). Lo testimonia l’interesse dell’opinione pubblica, anche quando dissente, per gli aspetti più spettacolari di queste “kermesse” dei grandi della Terra (questo vuol dire che si allarga la partecipazione popolare alla gestione delle decisioni globali). Lo testimonia, infine, il periodo di pace “sistemica” degli ultimi settantacinque anni (questo vuol dire che, quando le nazioni dialogano, confliggono, negoziano, non si fanno guerre). Crisi climatica in rotta di collisione di Giuseppe Onufrio* Il Manifesto, 2 novembre 2021 Il G20 di Roma si è concluso con alcune buone intenzioni ma pochi fatti e, del resto, il dialogo negoziale che precede e conduce a questi eventi serve, quando va bene, a imprimere una spinta politica sui tavoli dei negoziati specifici. Per vedere se lo sforzo della presidenza italiana darà frutti dovremo aspettare gli esiti della COP26 che si è aperta a Glasgow. Il documento del G20 condivide il giudizio della comunità scientifica sulla necessità di mantenere entro 1,5°C l’aumento globale della temperatura media. Questo riferimento, va ricordato, c’è già nel testo dell’Accordo di Parigi che è stato già ratificato da 191 Paesi che rappresentano oltre il 97 per cento delle emissioni. E allora che bisogno c’era di citarlo espressamente? C’era perché dopo l’Accordo di Parigi l’Ipcc (la Commissione Intergovernativa sui Cambiamenti Climatici) aveva presentato nel 2018 un rapporto scientifico dedicato a evidenziare le notevoli differenze negli impatti di uno scenario con un aumento di 2°C rispetto a quello di 1,5°C. Ma nel 2018 i Paesi “presero nota” del rapporto ma non ci fu un consenso tale da assumerlo come riferimento, e in questo senso il documento del G20 “ripara” a un vulnus importante. Il nuovo rapporto dell’Ipcc pubblicato ad agosto conferma quello del 2018 e ci dice che la “finestra” per poter stare entro 1,5°C di aumento della temperatura esiste ancora ma il tempo stringe. Con gli impegni presi finora, infatti, la tendenza è quella di un aumento della temperatura media globale di 2,7°C entro il secolo, cosa che avrebbe effetti catastrofici. Per mantenere il pianeta dentro quello scenario - che, ricordiamolo, è peggiorativo rispetto alla situazione odierna ma molto meno catastrofico rispetto alla tendenza attuale - è necessario un sostanziale dimezzamento delle emissioni globali di gas a effetto serra entro il 2030 e un azzeramento al 2050 (“neutralità climatica” cioè considerando anche gli assorbimenti forestali). Questo significa accelerare, e di molto, le politiche e le misure per ridurre le emissioni. Cosa certo non semplice di per sé che è resa più complicata anche per i conflitti che sia dentro i singoli Paesi che tra Paesi comporta un abbandono delle fonti fossili. Un secondo impegno citato nel documento del G20 riguarda la fine dei finanziamenti esteri a progetti basati sul carbone, cosa su cui si è registrata nelle settimane scorse anche una posizione positiva da parte cinese. Ma bisognerà andare avanti e bloccare le iniziative industriali sia in campo petrolifero che del gas fossile. Sulla finanza per il clima - i 100 miliardi all’anno da destinare ai Paesi più poveri sia per l’adattamento che per gli investimenti in tecnologie pulite - non si è chiuso come si sperava. L’Italia però, almeno questa volta, ha fatto la sua parte cosa di cui dare atto al Presidente Draghi. Manca ancora l’aggiornamento del Piano integrato energia e clima italiano, ancora fermo ai vecchi obiettivi europei, e manca anche il nuovo obiettivo nazionale di riduzione delle emissioni. Va fatto cercando di non “truccare le carte” basandosi su improbabili sviluppi di tecnologie finora scarsamente affidabili come il sequestro e la cattura della CO2 (CCS) e di “assorbimenti forestali” comprati nei Paesi in via di sviluppo. Proprio su questo tema c’è una delle possibili trappole della COP26 e cioè la spinta da parte di alcuni settori verso un mercato globale degli assorbimenti per poter continuare a emettere CO2 come fanno già alcune importanti multinazionali (Eni tra queste). Il rilancio del multilateralismo, di cui il Presidente Draghi ha fatto un punto politico al G20, è importante se, anche in questo caso, si riuscirà ad andare oltre le parole e tradurre in cooperazione internazionale sulle tecnologie rinnovabili e sulle politiche e misure necessarie a ridurre le emissioni anche in un mondo oggi più conflittuale e diviso di quello nel quale l’Accordo di Parigi è stato siglato. Finora, lo sappiamo, ha prevalso il “bla-bla”. Anche quello del Ministro Cingolani che stizzosamente e senza alcun motivo l’ha ribaltato su Greta: quando avremo visto ripartire seriamente le rinnovabili potremo dire che siamo finalmente passati ai fatti. *Direttore di Greenpeace Italia Reynders: “La retorica di guerra non paga, sui diritti la Polonia faccia sul serio” di Francesca Basso Corriere della Sera, 2 novembre 2021 Il commissario Ue alla Giustizia Didier Reynders è in visita in Italia il 3 e 4 novembre. “Bloccare i fondi della Polonia? Decideranno gli Stati”. “Bene la riforma della giustizia italiana”. In programma anche un incontro con i consumatori. “C’è una responsabilità politica. Per anni nell’Ue siamo stati molto attenti alla situazione finanziaria degli Stati membri, alle riforme economiche ma non abbiamo fatto lo stesso lavoro sui valori, sullo Stato di diritto e sui diritti fondamentali”. Il commissario Ue alla Giustizia Didier Reynder sarà in visita ufficiale a Roma domani e dopo nell’ambito delle iniziative legate alla pubblicazione, nel luglio scorso, del secondo rapporto annuale sullo Stato di diritto nell’Ue. Ad ogni presidenza di turno c’è un focus su cinque Paesi, l’Italia è in questo semestre. Reynders incontrerà la ministra della Giustizia Marta Cartabia, rappresentanti del Csm ma anche dei consumatori, del mondo accademico e studenti: “La visita in Italia mira a fare il punto sulla riforma della giustizia adottata di recente e a dialogare con i consumatori italiani”. C’è un problema di cultura dello Stato di diritto nell’Ue? “Per anni nell’Ue abbiamo avuto la sensazione che quando un Paese entrava nell’Unione avrebbe rispettato lo Stato di diritto e dunque non c’era bisogno di fare una verifica forte. Solo dopo aver visto le evoluzioni negative in alcuni Stati membri, abbiamo cominciato a sviluppare un dibattito sullo Stato di diritto: siamo infatti al secondo rapporto. C’è una maggiore sensibilità verso i temi socio-economici perché i cittadini vedono subito di che si tratta, così come quando sono in pericolo i diritti fondamentali individuali, la protezione delle minoranze e delle persone in funzione della loro origine e orientamento sessuale. Invece bisogna far capire che se non c’è un giudice indipendente non c’è giustizia, senza media liberi e aperti non si ha accesso all’informazione e se non c’è lotta alla corruzione ci sarà una vita economica molto difficile da sviluppare”. Com’è possibile coniugare la linea del dialogo e la fermezza nei confronti della Polonia come chiesto dal Consiglio europeo? Il premier Morawieski ha parlato di “richieste con la pistola alla testa” e ha detto al Financial Times che “se la Commissione Ue comincerà la Terza guerra mondiale”, la Polonia difenderà i suoi diritti “con ogni arma a disposizione”. Poi la Corte di giustizia dell’Ue ha imposto una multa giornaliera record a Varsavia perché non ha rispettato le sue decisioni... “Bisogna evitare nell’Ue di usare una retorica di guerra. Dalla fine della seconda guerra mondiale siamo un continente di pace grazie all’Unione e ai suoi allargamenti progressivi. Andrò a Varsavia il 18 e 19 novembre per incontrare le autorità polacche, gli organi giudiziari, il Parlamento per avere lo stesso dibattito che ho negli altri Stati Ue e vedere se ci sarà un’evoluzione positiva. Se il dialogo non basta siamo obbligati a usare altri strumenti e a domandare condanne davanti alla Corte di Giustizia dell’Ue. Funziona così in tutti i Paesi Ue. A settembre ho chiesto alla Corte Ue una condanna finanziaria importante, avevo ipotizzato un milione di euro al giorno, perché la Polonia non rispetta le decisioni della Corte di Giustizia e la Corte ha deciso così”. Cosa deve fare la Polonia? “Se la Polonia ora ci dice che applicherà le decisioni della Corte di giustizia dell’Ue, ovvero eliminerà la camera disciplinare per i giudici, fermerà i procedimenti disciplinari in corso, metterà in piedi un sistema disciplinare conforme al diritto e agli standard europei, reintegrerà i giudici sanzionati, allora si ricomincerà ad avere un vero dialogo e ci sarà un’evoluzione verso il rispetto dell’indipendenza della giustizia che è prevista nei Trattati”. Varsavia dice di essere pronta a cambiare la camera disciplinare. “Vogliamo essere sicuri che le decisioni siano concrete, poi potremo avanzare nel dialogo. La visita a Varsavia era già programmata ma permette di verificare in modo concreto se ci sono dei cambiamenti. La decisione della Corte costituzionale è a sua volta un problema perché il punto con Varsavia è l’indipendenza del sistema giudiziario. Davanti al Consiglio con l’articolo 7 avevamo detto che avevamo dei dubbi anche sulla Corte costituzionale polacca e la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha detto che non è indipendente. Il nostro obiettivo non è bloccare i fondi della Polonia ma vedere rispettati i principi Ue”. La decisione della Corte costituzionale polacca mette davvero in pericolo la tenuta dell’Ue? Si rischia la Polexit? “L’80% della popolazione polacca è a favore della permanenza nell’Ue e il primo ministro Mateusz Morawiecki ha detto chiaramente che non è intenzionato a uscire dall’Unione. Si tratta di fare in modo che gli Stati membri rispettino i principi di funzionamento dell’Ue. Nel caso della Corte costituzionale siamo in una situazione unica, nonostante molti politici polacchi cerchino di dire che c’è lo stesso problema in Germania, Francia e Spagna, perché è la domanda del primo ministro ad avere messo in discussione i Trattati. Non è una legge specifica, o una decisione di un’istituzione europea come la Bce nel caso della Germania. E l’incopatibilità viene sancita da una Corte di cui contestiamo l’indipendenza”. Il Recovery Plan polacco resterà bloccato? “C’è una discussione in corso sul Recovery Plan portata avanti dai miei colleghi. Devono essere soddisfatte tre condizioni: l’eliminazione della camera disciplinare, la reintegrazione dei giudici che erano stati allontanati, garantire l’inidpendenza della magistratura. Io ho una discussione con le autorità polacche perché applichino le decisioni della Corte di giustizia dell’Ue. Se la situazione non cambia useremo gli strumenti che abbiamo a disposizione: nuove procedure di infrazione davanti alla Corte di giustizia Ue in riferimento alla decisione della Corte costituzionale e l’attivazione del meccanismo sulla condizionalità dello Stato di diritto. La presidente von der Leyen ha annunciato che invieremo le prime lettere, stiamo preparando tutti i documenti. Però non bisogna dimenticare che la Commissione per la condizionalità o per l’attivazione dell’articolo 7 deve aprire un dossier davanti al Consiglio ed è il Consiglio che prende la decisione, gli Stati membri dovranno prendersi la loro responsabilità”. Ha sbagliato il Parlamento Ue a portare la Commissione davanti alla Corte di Giustizia? “Da commissario alla Giustizia rispetto il diritto del Parlamento Ue di farlo. Noi siamo convinti di avere agito correttamente”. La Commissione è stata accusata di debolezza nei confronti di Varsavia e di Budapest. “Come ho detto la discussione sullo Stato di diritto è cominciata di recente ma questa Commissione ha introdotto la relazione annuale sullo Stato di diritto e il meccanismo di condizionalità. E siamo andati più volte davanti alla Corte di giustizia, che ci ha dato sempre ragione. La multa di un milione al giorno alla Polonia è la più alta che sia mai stata inflitta a uno Stato membro. Noi però dobbiamo aspettare i tempi dello Stato di diritto”. La Commissione è soddisfatta della riforma della giustizia italiana? “Il governo è convinto della riforma, ha recepito le raccomandazioni specifiche e ha dettagliato il calendario delle riforme nel Pnrr. In questo periodo sono stato in contatto stretto con la ministra della Giustizia. Nel rapporto sullo Stato di diritto la critica principale era la mancanza di efficacia della giustizia italiana, tenuto conto della lunghezza dei processi. Ci sono una serie di miglioramenti previsti nella riforma, anche attraverso la digitalizzazione. Ovviamente monitoreremo i progressi”. In Italia incontrerete anche i consumatori. Cosa prevede la proposta che presenterete entro fine anno sul diritto alla riparazione? “All’interno del Green Deal, vogliamo migliorare le azioni delle imprese verso la transizione verde, la protezione ambientale e i diritti umani, e insieme dare più diritti ai consumatori. Per i consumatori vuol dire una migliore informazione perché possano scegliere prodotti più durevoli. Ma si vuole anche intervenire perché i prodotti siano concepiti in modo che siano riparabili e vogliamo impedire l’obsolescenza programmata e lottare contro il green washing: l’informazione deve essere credibile. Sul lato imprese vogliamo fare in modo che verifichino l’impatto delle loro attività lungo tutta la catena di approvvigionamento per tutelare l’ambiente, la biodiversità e i diritti umani”. Egitto. La farsa di al-Sisi: toglie lo stato d’emergenza per rafforzare lo stato di polizia di Umberto De Giovannangeli globalist.it, 2 novembre 2021 Un’operazione di facciata ma che i tanti che fanno affari con l’Egitto, governi, grandi consorterie petroliferi, produttori e venditori di armi, spacceranno per una svolta garantista. Come un presidente-carceriere prova a ripulire la sua immagine. Un’operazione di facciata ma che i tanti che fanno affari con l’Egitto, governi, grandi consorterie petroliferi, produttori e venditori di armi, spacceranno per una svolta garantista. La tanto a lungo auspicata fine dello stato d’emergenza in vigore dal 2017, annunciata dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi il 25 ottobre, è caratterizzata dal proseguimento di decine di processi di difensori dei diritti umani, attivisti, esponenti politici di opposizione e manifestanti pacifici presso i tribunali d’emergenza per la sicurezza dello stato, le cui procedure sono profondamente inique. Lo ha dichiarato Amnesty International alla vigilia della nuova udienza del processo che vede imputati di fronte a uno di questi tribunali il blogger e attivista Alaa Abdel Fattah, il blogger Mohamed “Oxygen” Ibrahim e l’avvocato e direttore del Centro Adalah per i diritti e le libertà Mohamed Baker con l’accusa, politicamente motivata, di aver “diffuso informazioni false per minacciare la sicurezza nazionale” sui loro social media. I tre imputati hanno trascorso oltre due anni in detenzione preventiva in condizioni terribili, privati di contatti regolari con le loro famiglie e del diritto di avere colloqui privati con i loro avvocati. “La buona notizia della fine dello stato d’emergenza è che non potranno più essere assegnati nuovi casi ai tribunali d’emergenza. Ma i processi in corso, aumentati negli ultimi tre mesi col rinvio a giudizio di una ventina di attivisti, esponenti politici di opposizione e difensori dei diritti umani, continueranno”, ha dichiarato Philip Luther, direttore delle ricerche sul Medio Oriente e sull’Africa del Nord di Amnesty International. “Se volessero affrontare davvero la crisi dei diritti umani in corso, le autorità egiziane dovrebbero rilasciare immediatamente e senza condizioni tutti coloro che sono sotto processo presso i tribunali d’emergenza per aver esercitato pacificamente i loro diritti umani. Questi tribunali dovrebbero cessare di funzionare del tutto, dato che le loro procedure violano i più elementari standard sui processi equi, compreso il diritto degli imputati ad appellarsi a un tribunale di grado superiore in caso di condanna”, ha aggiunto Luther. Alaa Abdel Fattah e Mohamed Baker sono imputati di “diffusione di notizie false” per aver criticato le autorità circa il trattamento dei detenuti e per alcuni decessi in custodia avvenuti in circostanze sospette; Mohamed “Oxygen” Ibrahim, invece, per aver denunciato sui social media il mancato rispetto dei diritti sociali ed economici da parte del governo. I loro scritti non hanno in alcun modo incitato alla violenza e all’odio e sono dunque protetti dalla costituzione egiziana e dagli obblighi internazionali in materia di libertà d’espressione. Alaa Abdel Fattah è stato arrestato il 29 settembre 2019 così come Mohamed Baker, suo avvocato, proprio mentre si era recato a incontrare il suo cliente in un ufficio della procura. In occasione del loro trasferimento in carcere, nel mese di ottobre, Alaa Abdel Fattah è stato bendato, denudato, preso a calci e a pugni e, insieme a Mohamed Baker, sottoposto a insulti e minacce. La procura non ha disposto indagini. Mohamed “Oxygen” Ibrahm è stato arrestato il 21 settembre 2019. Il 19 novembre 2020 un tribunale del Cairo ha arbitrariamente aggiunto Alaa Abdel Fattah e Mohamed Baker alla “lista dei terroristi” per cinque anni. A seguito di questa decisione, per quel periodo di tempo sarà loro vietato viaggiare all’estero o prendere parte ad attività politiche e civili. Alaa Abdel Fattah, Mohamed “Oxygen” Ibrahim e Mohamed Baker sono detenuti nella prigione di massima sicurezza Tora 2 in condizioni punitive che violano il divieto assoluto di torture e altri maltrattamenti. A differenza di altri detenuti, Alaa Abdel Fattah e Mohamed Baker sono confinati in celle piccole e scarsamente ventilate, non possono svolgere esercizi fisici, accedere ad aria fresca e leggere qualsiasi tipo di materiale. Dormono sul pavimento, senza letti né materassi, e soffrono di dolori alla schiena. Hanno denunciato questi trattamenti come violazione dei diritti di prigionieri ai sensi della legislazione egiziana sulle prigioni, ma i loro ricorsi stati ignorati così come le richieste di essere vaccinati contro il Covid-19. Non vengono loro forniti gel disinfettanti e mascherine nonostante si trovino in celle sovraffollate. Le conseguenze sulla loro salute mentale sono devastanti. Ad agosto Mohamed “Oxygen” Ibrahim ha tentato il suicidio dopo mesi in cui gli era stato impedito di incontrare i familiari e di nominare un avvocato. A settembre Alaa Abdel Fattah ha espresso intenzioni suicide e continua a non avere corrispondenza regolare con i suoi familiari. Oltre a questi tre processi, Amnesty International ha ricostruito altri 143 procedimenti assegnati ai tribunali d’emergenza dal 2017, compresi quelli derivanti unicamente dal pacifico esercizio dei diritti alla libertà di riunione e d’espressione. Tra gli imputati attualmente sotto processo vi sono il difensore dei diritti umani e studente presso l’Università di Bologna Patrick George Zaki, l’ex parlamentare e avvocato per i diritti umani Zyad el-Elaimy, i giornalisti Hisham Fouad e Gossam Moanis, il difensore dei diritti umani Ezzat Ghoniem, l’avvocata per i diritti umani Hoda Abdelmoniem, l’ex candidato alle presidenziali del partito “Masr al-Qawita” Abdelmoniem Aboulfotoh e il vicepresidente di questo partito, Mohamed al-Kassas. Prima del rinvio a giudizio, sono stati in detenzione preventiva per accuse di terrorismo per quasi due anni e in alcuni casi anche oltre quello che è il massimo previsto dalla procedura egiziana. Il 22 giugno un tribunale d’emergenza aveva condannato a quattro anni di carcere, al termine di un processo clamorosamente iniquo, lo studente dell’Università centrale europea di Vienna Ahmed Samir Santawy per “diffusione di notizie false”, a causa di post pubblicati sui social media. Oltre all’impossibilità di ricorrere in appello a un tribunale di grado superiore, le procedure dei tribunali d’emergenza non riconoscono i diritti a un periodo di tempo adeguato per preparare la difesa, a comunicare coi propri avvocati difensori e a un’udienza pubblica. Alaa Abdel Fattah e Mohamed Baker non hanno colloqui privati coi loro legali dal mese di maggio. Inoltre, i giudici dei tribunali d’emergenza respingono abitualmente le richieste degli avvocati di fotocopiare i fascicoli, che in alcuni casi sono di oltre 2000 pagine, imponendo loro di esaminarli durante le udienze. I procuratori e i giudici non forniscono copie dei capi d’accusa agli imputati e ai loro avvocati, compromettendo il diritto di essere informati sull’esatta natura e sulle ragioni delle imputazioni mosse contro di loro. La vera vittoria per gli oppositori del regime sarebbe stata la cancellazione dei reati previsti dalla legge sul terrorismo, il passaggio decisivo. Come ricordato da Gamal Eid, la detenzione per i detenuti in attesa di giudizio non cambia, sia a livello processuale che formale. Inoltre, non è prevista alcuna novità sul giro di vite nei confronti dell’informazione e della censura verso giornali, siti e tv ostili al regime, sul sistema di spionaggio e di svuotamento dei diritti degli arrestati: “Certo questo è un segnale che va colto con ottimismo - spiega un portavoce di Ecrf, la ong che dal 2016 segue la famiglia di Giulio Regeni - ma da solo non serve a nulla. Assieme ai colleghi delle altre organizzazioni abbiamo inviato una lista di 7 richieste al governo egiziano per pacificare davvero il Paese. Per ora, con la revoca dello stato d’emergenza siamo fermi a una. È chiaro che non ci basta”. Ed eccole le richieste presentate dal ‘cartello’ di Ong egiziane, l’altro nemico del regime assieme alla Fratellanza Musulmana: “Liberare tutti i prigionieri politici - precisa un documento inviato da Afte, l’organizzazione che legalmente sta seguendo il caso di Ahmed Samir Santawi, quasi identico a quello di Patrick Zaki -, fermare i rinnovi periodici delle detenzioni e revocare l’azione criminale dello Stato verso la società civile, oltre a sbloccare la censura nei confronti dei mezzi di informazione ostili al regime, imbavagliati in questi anni”. La comunità egiziana per i diritti umani sta soffrendo un “annientamento” da parte del governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi: più di 100 importanti organizzazioni per i diritti umani di tutto il mondo lanciano l’allarme in una lettera ai ministri degli Esteri dei Paesi membri del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. I gruppi hanno invitato i governi a guidare e sostenere la creazione di un meccanismo di monitoraggio e segnalazione sulla situazione dei diritti umani in continuo deterioramento in Egitto. L’istituzione di un meccanismo di monitoraggio e segnalazione rappresenterebbe un passo importante per incrementare la visibilità sulle violazioni e sui crimini commessi, fornire rimedi giuridici ai sopravvissuti e alle famiglie delle vittime, scoraggiare ulteriori abusi e stabilire sistemi per la definizione delle responsabilità. “I governi del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite dovrebbero dichiarare al governo egiziano che gli abusi sono e saranno monitorati e segnalati e che gli egiziani che con coraggio affrontano l’oppressione quotidianamente non sono soli nella loro lotta”, afferma John Fisher, Direttore di Ginevra dell’Human Rights Watch. Dieci anni dopo la rivolta nazionale egiziana del 2011 che ha destituito il presidente Hosni Mubarak, gli egiziani vivono sotto un governo repressivo che soffoca ogni forma di dissenso e di espressione pacifica. Le ultime settimane hanno dimostrato che l’azione collettiva è possibile e può avere un impatto. “Solo attraverso un’azione internazionale sostenuta e impegnata possiamo garantire la sopravvivenza del movimento egiziano per i diritti umani nel prossimo futuro”, scrivono i gruppi nella loro lettera. Secondo i gruppi che hanno aderito alla lettera, la lotta per i diritti umani in Egitto è in “un momento critico”. L’inazione dei partner egiziani e degli Stati membri del Consiglio dei diritti umani ha incoraggiato il governo egiziano “nei suoi sforzi per mettere a tacere il dissenso e schiacciare la società civile indipendente”. I recenti arresti e le indagini scioccanti condotti nei confronti di alti funzionari dell’Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr) e il congelamento dei loro beni attraverso procedimenti di fronte al tribunale penale - in un vero e proprio circuito del terrore - rappresentano un “attacco aberrante e inaccettabile” contro una delle più importanti organizzazioni per i diritti umani nel paese, hanno detto i gruppi. Questi fatti dimostrano la determinazione del governo egiziano a intensificare i suoi attacchi continui, diffusi e sistematici contro i difensori dei diritti umani e lo spazio civico. Dopo la destituzione dell’ex presidente Mohammed Morsi dal potere nel luglio 2013, le autorità egiziane hanno intrapreso una repressione sempre più brutale nei confronti dei difensori dei diritti umani e dei diritti civili e politici più in generale. Migliaia di egiziani, tra cui centinaia di difensori dei diritti umani, giornalisti, accademici, artisti e politici, sono stati detenuti arbitrariamente, spesso con accuse penali abusive o attraverso processi iniqui. Le forze di sicurezza egiziane li hanno sistematicamente sottoposti a maltrattamenti e torture. Gli esperti delle Nazioni Unite hanno avvertito che condizioni di detenzione catastrofiche hanno messo in pericolo la vita e la salute dei detenuti. Altri attivisti pacifici sono stati fatti sparire con la forza. Quello che è successo ad alcuni di loro non è mai stato rivelato. “Il popolo egiziano ha vissuto in passato sotto governi dispotici, ma gli attuali livelli di repressione in Egitto non hanno precedenti nella sua storia moderna”, rimarca Bahey El-din Hassan, direttore del Cairo Institute for Human Rights Studies. “Le conseguenze sono potenzialmente terribili sia per i diritti umani che per la stabilità del Paese”. Nell’agosto 2020 il signor Hassan è stato condannato a 15 anni di carcere in contumacia da un tribunale per terrorismo in relazione al suo lavoro di difesa dei diritti umani nel paese. In un contesto così severamente repressivo, molte organizzazioni per i diritti umani sono state costrette a chiudere, ridimensionare le loro operazioni, operare dall’estero o lavorare sotto il costante rischio di arresti e molestie. Il governo in genere invoca l’”antiterrorismo” per giustificare questi abusi e per criminalizzare la libertà di associazione e di espressione. Gli esperti delle Nazioni Unite hanno messo in guardia dall’uso da parte dell’Egitto di “circuiti terroristici” dei tribunali penali per prendere di mira i difensori dei diritti umani, mettere a tacere il dissenso e rinchiudere gli attivisti durante la pandemia Covid-19. Una enorme prigione a cielo aperto. Dentro la quale spariscono decine di migliaia di oppositori. L’abolizione (farsa) dello Stato d’emergenza non incrina lo Stato di polizia che imprigiona l’Egitto. Emirati Arabi. Lavoratori migranti arrestati ed espulsi in massa di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2021 E intanto il mondo parla di Dubai Expo. In queste settimane il mondo parla di Dubai Expo 2020, rinviata di un anno a causa della pandemia e inaugurata il 1° ottobre. Per l’occasione, gli Emirati Arabi Uniti hanno cercato di mostrarsi ancora più moderni e scintillanti e, per ottenere questo risultato, hanno dovuto sistemare un po’ di cose. Ad esempio, la notte tra il 24 e il 25 giugno, la polizia di Abu Dhabi ha fatto irruzione nelle abitazioni di centinaia di lavoratori migranti. Hanno rimproverato i pochi asiatici presenti perché dormivano insieme agli africani, hanno selezionato questi ultimi e li hanno portati, 375 in tutto, alla prigione al-Wathba. Durante quasi due mesi di detenzione, gli arrestati sono stati tenuti in isolamento in celle dov’erano stipate fino a 60 persone, sono stati sottoposti a trattamenti inumani e degradanti e sono stati derubati di tutti gli effetti personali. Per otto settimane i loro familiari non hanno avuto alcuna informazione sulla loro sorte. Poi, senza neanche la parvenza di una procedura giudiziaria, sono stati espulsi in massa. In una dichiarazione ufficiale diffusa il 3 settembre, le autorità emiratine hanno parlato di una “azione di contrasto al traffico di esseri umani e alle reti della prostituzione”, invitando gli organi d’informazione ad attenersi alle dichiarazioni ufficiali. Amnesty International ha parlato con 18 degli espulsi (otto donne e dieci uomini), tutti in regola col permesso di soggiorno tranne uno, cui era appena scaduto. Grazie alle loro testimonianze ha prodotto un documento, pubblicato alla fine di ottobre. Kabirat era un’assistente scolastica e aveva appena ottenuto il permesso di soggiorno. Keanfe lavorava in un ristorante, come supervisore. Abigal era incinta di tre mesi e in prigione non ha ottenuto le minime cure mediche. Non esattamente trafficanti o prostitute. Tutte le persone intervistate hanno riferito di aver subito insulti razzisti e le donne aggressioni sessuali. Per procedere alle espulsioni di massa, attraverso voli internazionali verso gli stati di origine, le autorità sanitarie degli Emirati hanno prodotto dei certificati di negatività al Covid-19 attraverso tamponi mai eseguiti. Amnesty International ha esaminato tre di questi certificati, scritti su carta intestata della Direzione generale della polizia senza alcuna firma di un dottore. Undici dei camerunensi espulsi sono stati rimandati nelle regioni anglofone del loro stato, dove da anni infuria un violento conflitto tra gruppi separatisti e forze di sicurezza. *Portavoce di Amnesty International Italia