Ergastolo ostativo: come superare la teoria della presunzione assoluta di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 29 novembre 2021 Il tempo potrebbe essere il criterio utile per valutare il peso che assume la mancata collaborazione. Su spinta della Giurisprudenza europea, la Consulta interveniva con la pronuncia del 15 aprile u.s. - la n. 97 del 2021 - sancendo l’incompatibilità dell’attuale disciplina che regola l’accesso alle misure premiali per quei soggetti sottoposti all’art. 4 bis ordinamento penitenziario e che si rifiutino di vestire il ruolo di collaboratori di giustizia. Come noto, la mancata collaborazione da parte del detenuto è considerata indicatore di pericolosità sociale con forza di presunzione assoluta, e, in quanto tale, impedisce al Magistrato di Sorveglianza procedente di far accedere il reo a tutta una serie di benefici. Tale impostazione è stata aspramente criticata dalla Corte EDU e, successivamente, anche dalla Consulta, la quale ha ritenuto di non poter offrire soluzioni definitorie immediate, auspicando che fossero invece le Camere ad adottare i dovuti correttivi, nel rispetto del dettato costituzionale europeo e nazionale. Il disegno che esce dalla Commissione Giustizia della Camera va a porsi in netto contrasto con quanto auspicato dalle più alte magistrature: da un lato pare offrire una sorta di formale adesione alle raccomandazioni dei Giudici, garantendo anche ai detenuti ex art. 4 bis o.p. non collaboratori di giustizia di usufruire delle misure premiali, mentre dall’altra va ad inasprirne gravemente i criteri di accesso. Il punto di maggior criticità è rappresentato dalla prova richiesta affinché si giunga ad “escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali”. Infatti, il disegno intende spostare tale gravoso onere probatorio interamente, o quasi, in capo al detenuto, essendo questo chiamato a fornire allegazioni tali da confermare la completa e certa rescissione dei legami con gruppi criminali. Atteso che perfino per gli stessi organi antimafia, chiamati a fornire le relazioni alla Magistratura di Sorveglianza in ordine ai rapporti tra mafia e detenuto, è spesso difficile se non impossibile rappresentare situazioni fattuali precise, ci si chiede come un soggetto recluso possa fornire una prova che sia connotata dal carattere di “certezza”. Tale spostamento dell’onere probatorio, ci si immagina sin da ora, sarà dunque motivo e causa di numerosi rigetti di accesso alle misure premiali, difficilmente potendo un detenuto fornire prove tanto dirimenti. Pertanto, pur formalmente potendo anche i detenuti ex art. 4 bis o.p. non collaboranti accedere ai benefici in esame, sostanzialmente si ritiene che, salvo casi particolari, l’unica prova a disposizione degli stessi sarà la sola collaborazione con la giustizia, di fatto mantenendo immutato l’attuale quadro normativo. Pur essendo concorde con l’impostazione adottata dalla Commissione Giustizia della Camera (tutti possono accedere ai benefici di cui al capo VI Legge 354/1975 - anche coloro che non collaborano - quindi rendiamone l’accesso più gravoso) le soluzioni da adottare sono da ricercare altrove, salvo incorrere in futuro in sanzioni comminate dalle Istituzioni europee. In particolare, si ritiene che l’impostazione da adottare dovrebbe avere a riguardo il tempo quale criterio utile al fine di soppesare il valore presuntivo che assume la mancata collaborazione in ordine alla valutazione della pericolosità sociale. In altre parole, volendo eliminare quelli che sono gli attuali limiti, in conformità al dettato costituzionale, e volendo superare la teoria della presunzione assoluta, si ritiene che tali apprezzamenti vadano distinti in due fasi cronologiche. La prima, si ipotizza, attinente ai primi dieci anni dalla commissione del fatto, richiederebbe la necessaria collaborazione al fine di godere dei benefici in oggetto. In questa prima fase, temporalmente vicina alla commissione del fatto illecito, infatti, la ricerca forzata del do ut des - collabori, pertanto godi delle misure - risulta una politica ancora efficace, che può fornire dei risultati, oltre alla circostanza che è assai più probabile che il soggetto non abbia ancora reciso i legami con i gruppi criminali di cui faceva parte. La seconda fase, che segue ai primi 10 anni, consentirebbe invece un allentamento dei criteri necessari al fine di accedere alle misure per tutte quelle che sono le conseguenze legate alla lontananza dal fatto materiale oggetto di condanna: in primis, la collaborazione risulterà meno efficace e meno necessaria, in secondo luogo, quelli che potevano essere dei legami forti risulteranno con ampia probabilità definitivamente sciolti, non richiedendo più, pertanto, un onere probatorio tanto gravoso come si renderebbe invece necessario per la ipotizzata prima fase. Tale impostazione, si ritiene, andando ad eliminare il c.d. meccanismo del “fine pena mai”, potrebbe soddisfare entrambe le esigenze oggi contrapposte: la tutela della sicurezza pubblica che si sostanzia anche in una feroce lotta alle mafie da un lato e la tutela dei diritti umani, nonché il fine risocializzante della pena ex art. 27 Cost., dall’altro, legando l’intensità dei requisiti di accesso ai benefici ad un criterio cronologico”. *Direttore Ispeg Csm, Mattarella “sveglia” i partiti: riparte il dialogo sulla riforma di Simona Musco Il Dubbio, 29 novembre 2021 Convocata per mercoledì prossimo una sessione di discussione generale in commissione Giustizia. Il Parlamento risponde all’appello del Presidente Sergio Mattarella, riavviando la discussione sulla riforma del Csm. Il primo dicembre è infatti prevista una sessione discussione generale in Commissione Giustizia, così come richiesto dai deputati Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e Enrico Costa (Azione). A confermarlo il presidente della Commissione, Mario Perantoni (M5S), secondo cui è necessario arrivare all’elezione del prossimo Consiglio, prevista a luglio 2022, con “un nuovo sistema elettorale che sostituisca quello attuale che ha favorito la spartizione correntizia dei seggi”. L’ultima riunione sul tema era stata ad ottobre, quando i capigruppo di maggioranza hanno incontrato la ministra per parlare, in particolare, del sistema elettorale. Lì la Guardasigilli aveva preso tempo per formulare le proprie valutazioni, ma l’appello di Mattarella ha reso ancora più evidente che il tempo a disposizione è pochissimo. “Dovremo sicuramente procedere a tappe forzate se vogliamo arrivare in tempo per l’elezione del prossimo Consiglio - spiega Costa. È evidente che la delega mal si concilia con questo”. La discussione, tra sessione di Bilancio ed elezione del Presidente della Repubblica, slitterà necessariamente a fine gennaio. “La delega, comunque, necessita di tempi minimi - aggiunge -, che non possono essere compressi. La cosa migliore, dunque, sarebbe procedere con un testo già organico quanto meno per le parti che devono applicarsi subito, tipo la legge elettorale”. Ma è fondamentale anche, come richiesto anche da Mattarella, che la magistratura recuperi autorevolezza. “Non mi pare che al momento ci sia molto senso di responsabilità - conclude Costa. Le correnti si dividono sulla legge elettorale, perché devono trovare quella che più le valorizza. Comincio ad avere dei dubbi sul fatto che debbano esistere”. Per Vittorio Ferraresi (M5S), ex sottosegretario alla Giustizia, “la riforma non deve essere fatta per colpire le toghe ma per aiutare l’ordinamento e la magistratura stessa ad uscire da un periodo di difficoltà nel modo più trasparente e meritocratico possibile”. La discussione, spiega, c’è, ma altri provvedimenti urgenti, tra i quali le riforme di penale e civile, hanno intasato la commissione. Ma arrivare alle prossime elezioni con una nuova legge elettorale, afferma, è possibile. “Meritocrazia e scelte più oggettive nelle nomine sono una priorità anche del M5S - conclude -. Chiaro che non devono essere scelte punitive o che invadono il campo dell’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ma sicuramente servono criteri più trasparenti. Nei primi mesi del prossimo anno sicuramente avremo la possibilità di discutere nel merito e arrivare all’approvazione della riforma. O almeno noi siamo disponibili, perché per noi è una priorità”. Il calendario, però, è impietoso, evidenzia Zanettin. “Non c’è solo il nodo del sistema elettorale - sottolinea -, ma anche quello delle porte girevoli, dei giudizi di professionalità, cose sparite completamente dal dibattito negli ultimi mesi. Io credo che fra i partiti si possa trovare un’intesa, ma se non se ne parla è difficile”. Il dibattito è infatti fermo a due riunioni: troppo poche per risolvere le cose in breve. Anche perché “a una crisi così profonda non si può rispondere solo con una legge - conclude. Occorre anche uno sforzo etico da parte dei magistrati che non può essere scritto solo nelle norme. Bisogna evitare gli eccessi di politicizzazione e tornare a lavorare sulle carte, piuttosto che sulle ipotesi e sulla ribalta mediatica”. Per il dem Alfredo Bazoli, l’appello di Mattarella merita una risposta veloce: “È doveroso, dopo tutto quello che è successo, intervenire con coraggio e profondità per riformare in maniera significativa il funzionamento del Csm. Il sistema elettorale è, in questo momento, il tema più delicato sul quale la ministra si sta confrontando con la sua squadra per cercare di capire quale sia la soluzione migliore per evitare lo strapotere delle correnti”, spiega. Dal canto suo il Pd ha proposto che nei consigli giudiziari l’avvocatura debba essere chiamata non solo a partecipare, ma anche ad avere diritto di voto e sulle valutazioni di professionalità “riteniamo che debbano essere introdotti dei criteri che tengano in considerazione gli esiti degli affari giudiziari, cosa ancora più doverosa alla luce della riforma del processo penale, che ha introdotto il criterio della prognosi della condanna per il rinvio a giudizio”. Per Cosimo Ferri, di Italia Viva, è però necessario intervenire profondamente: bisogna “ascoltare l’appello del Presidente Mattarella - commenta -, ma il Parlamento migliori il testo della Commissione Luciani, serve una riforma vera e che superi l’ipocrisia”. Dal canto suo Fratelli d’Italia, dai banchi dell’opposizione, si dice pronta a riprendere la discussione. “Come FdI abbiamo contribuito con degli emendamenti al miglioramento del testo - spiega Carolina Varchi -, ma è abbastanza surreale che a distanza di quasi due anni dallo scandalo Palamara, che è solo la punta dell’iceberg, sia ancora tutto fermo. Votare il nuovo Csm con la vecchia legge sarebbe una sconfitta. Da parte di alcuni gruppi c’è un particolare interesse a che la riforma vada avanti, ma, a fronte di scandali che hanno messo in discussione la credibilità delle toghe e di tutto il Paese auspicavamo maggiore obiettività da parte del corpo della magistratura. Dobbiamo arrenderci all’evidenza che si vuole lasciar passare la piena affinché nulla cambi”. Cartabia: “La riforma del Csm garantirà autonomia interna ai giudici” di Simona Musco Il Dubbio, 29 novembre 2021 L’intervento della Guardasigilli alla “Festa dell’Ottimismo”, a Firenze: “Il nostro impegno ridurre i tempi dei processi”. Nel campo della giustizia “serve recuperare un senso di fiducia e io lo respiro quando visito le Corti d’Appello. E vedo non solo fiducia ma anche una gran voglia di rinnovamento”. Così la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, intervenendo alla “Festa dell’Ottimismo”, organizzata dal quotidiano “Il Foglio” a Firenze. “L’ottimismo deve radicarsi in qualcosa di molto solido e nel presente uno sguardo positivo sul futuro si può offrire in modo ragionevole solo offrendo qualche dato concreto del frutto del lavoro che da qualche mese stiamo facendo - ha aggiunto Cartabia -. E i dati che già abbiamo ci fanno recuperare un senso di fiducia”. “La nostra magistratura italiana ha una forte indipendenza e autonomia. Diversa è la situazione in paesi come Ungheria e Polonia, dove l’Unione europea sta intervenendo in maniera incisiva perché lì l’esecutivo toglie spazi alla magistratura. Da noi il problema è la garanzia dell’autonomia del singolo giudice anche interno della magistratura. Con la prossima riforma del Csm, che ci è stata sollecitata con vigore dal presidente della Repubblica, metteremo la mano anche a questo problema - ha aggiunto. Questo governo ha componenti politiche anche di governi precedenti. I governi precedenti avevano visioni diverse sulla giustizia l’uno dall’altro. Il risultato politicamente più significativo è che siamo tornati a parlare di giustizia e di riforme condivise. Questo mi sembra che, rispetto al passato, sia il dato più significativo. È un inizio di condivisione e di un percorso”. “Il nostro impegno è connotato dall’obiettivo molto chiaro che abbiamo preso con l’Europa: ridurre i tempi dei processi. La situazione che abbiamo trovato era molto grave. Nel Pnrr ci siamo presi l’impegno di ridurre in 5 anni del 40 per cento i tempi del processo civile e del 25 per cento i tempi di quello penale. Pensiamo così di poter recuperare anche la fiducia da parte degli investitori economici stranieri: ci auguriamo che possano vedere presto un cambiamento. E andando in giro nel mondo già vedo segnali positivi”. Giustizia, l’obiettivo è ambizioso ma se non ora, quando? di Marino Longoni Italia Oggi, 29 novembre 2021 Tutti i governi degli ultimi vent’anni hanno tentato di accorciare i tempi della giustizia, scontrandosi però con le lobby di avvocati e magistrati. Ma questa volta ci sono di mezzo i fondi del Recovery plan e le opposizioni potrebbero non riuscire a far deragliare una riforma che è una delle priorità richieste da Bruxelles. L’obiettivo è ambizioso: ridurre del 40% la durata del processo civile, entro il 2026. Praticamente tutti i governi degli ultimi vent’anni hanno tentato di accorciare i tempi della giustizia, scontrandosi però con le potenti lobby di avvocati e magistrati, sempre molto attente a tutelare i propri interessi. Ma questa volta ci sono di mezzo i fondi del Recovery plan e le opposizioni potrebbero non riuscire a far deragliare una riforma che è una delle priorità richieste da Bruxelles. Uno dei pilastri fondamentali del progetto Cartabia è l’ufficio del processo, cioè uno staff di giovani laureati assunti a tempo determinato (sono previste oltre 21 mila assunzioni finanziate con i fondi anti-Covid). In Italia gli avvocati hanno sollevato qualche perplessità: temono che ai giovani laureati in giurisprudenza si possa chiedere anche di redigere bozze di sentenze, con il rischio di peggiorare la qualità della giurisprudenza. Ma la ministra Cartabia tira dritto e proprio la settimana scorsa è stata in Usa per illustrare la sua riforma, in questa parte ispirata ai clerks of court anglosassone. Più positive altre professioni, come i notai, che saranno destinatari di nuove competenze, in particolare in materia di giurisdizione volontaria. Professionisti chiamati in causa anche in materia di esecuzione forzata: si semplifica infatti il pignoramento presso terzi e determinate operazioni potranno essere delegate a commercialisti o avvocati sotto il controllo del giudice dell’esecuzione. Tra le novità assolute c’è anche la vendita privata, cioè la possibilità che l’immobile pignorato venga venduto dallo stesso debitore a prezzo non inferiore a quello di mercato. Un altro pilastro della riforma sono i riti alternativi (adr, alternative dispute resolution), che puntano alla composizione delle controversie al di fuori delle aule di giustizia: mediazione civile, negoziazione assistita, arbitrato. Non è una novità assoluta, ma ora la riforma offre incentivi anche fiscali per il ricorso alla risoluzione stragiudiziale. Si stabilisce, per esempio, che l’attività istruttoria compiuta in sede stragiudiziale può essere utilizzata in giudizio se la composizione negoziata dovesse fallire. Oppure si rende detraibile il compenso del legale che presta assistenza nella fase delle trattative. In più si è previsto il gratuito patrocinio anche per la fase di negoziazione. Insomma, un passo avanti deciso su un terreno finora affrontato piuttosto timidamente. Altro merito riconosciuto da tutti, l’addio al doppio binario del rito Fornero sui licenziamenti, che scompare dopo 9 anni, nei quali non aveva dato buona prova, rivelandosi piuttosto una inutile complicazione, sostituito con unico procedimento con corsia preferenziale per la questione della reintegra dei lavoratori. Il tutto per non tenere troppo tempo lavoratori e datori di lavoro in un limbo, in attesa di sapere se ci sarà la restituzione del posto di lavoro. In realtà quella approvata nei giorni scorsi dal parlamento è solo una legge delega: ora il governo ha un anno di tempo per emanare i decreti attuativi. E questo sarà un passaggio decisivo, per esempio, su molti termini processuali, dove la legge delega rimanda al dlgs. Quindi il volto definitivo della riforma dipenderà anche da scelte di dettaglio che ancora devono essere fatte. L’ufficio del processo è cruciale di Marino Longoni Italia Oggi, 29 novembre 2021 Procedimenti semplificati, prima udienza effettiva e di lavoro, più cause al giudice monocratico, largo alla risoluzione stragiudiziale delle controversie. È appena diventato legge il nuovo processo civile e già inizia il conto alla rovescia dei 12 mesi concessi al governo per attuare la delega. Ma l’architettura della riforma ruota tutta attorno agli impegni che Palazzo Chigi ha assunto con l’Unione europea sul Pnrr per ottenere i soldi del Recovery fund: l’obiettivo da raggiungere è la riduzione sui tempi di causa del 40% al 30 giugno 2026. E la riduzione va calcolata sul disposition time, l’indicatore utilizzato dalla Cepej, la commissione del Consiglio d’Europa per l’efficienza della giustizia, che va interpretata come il tempo necessario per esaurire i procedimenti aperti in base alla capacità di smaltimento mostrata nel periodo di riferimento; fondamentale la baseline: le percentuali di riduzione dell’arretrato e della durata sono calcolate sui valori del 2019, come chiede Bruxelles. I progetti, tuttavia, devono camminare sulle gambe degli uomini. E la scommessa più forte della ministra Marta Cartabia è l’ufficio del processo: “un’innovazione in cui credo fermamente”, ha chiarito. La struttura al servizio del giudice non è soltanto l’investimento finanziario di gran lunga più importante previsto dal Pnrr per la giustizia, che dal piano nazionale di ripresa e resilienza ha ottenuto 2,8 miliardi di euro. Ma è anche la “misura organizzativa più rilevante”: sono previste 21.910 assunzioni di personale amministrativo a tempo determinato. Lo staff di supporto al magistrato dovrà redigere bozze di provvedimento oltre a svolgere compiti di ricerca e studio: con i clerk of court, in stile anglosassone ma in salsa nostrana, si crea una struttura di raccordo con cancellerie e segreterie, un team assiste il capo dell’ufficio e ai presidenti di sezione per le attività di innovazione e monitoraggio. Il ministro Marta Cartabia, non a caso, è appena tornata da un viaggio istituzionale a Washington e a New York: ha presentato alla comunità degli affari statunitense la sua riforma, specie quella civile, che interessa più le imprese, i fondi d’investimento, i fondi pensione, gli avvocati d’affari e i consulenti. E se “la giustizia è la spina dorsale del sistema istituzionale e della vita sociale ed economica”, ha spiegato l’ex presidente della Consulta, non c’è dubbio che l’ufficio del processo sia l’anello mancante: “È l’aspetto a cui più tengo”, ha rivelato durante il tour tra le Corti d’appello italiane organizzato per spiegare agli addetti ai lavori le innovazioni in arrivo. Di più: “È il mattone della cittadella delle riforme a cui stiamo lavorando e quella in cui mi riconosco maggiormente”. Come funziona? Gli assistenti affiancano il giudice tenendo il calendario con un occhio ai fascicoli che pendono da più tempo e ai casi con questioni analoghe, nell’ottica della razionalizzazione. E rilevano le priorità. Studiano il fascicolo preparando una scheda e il lavoro per l’udienza, cui possono partecipare, magari occupandosi del verbale. Fra i compiti c’è anche la scrittura di modelli di decisione oltre che di minute e punti della motivazione del provvedimento finale (ciò che già da ora, in verità, preoccupa gli avvocati). Ancora: ricerche di giurisprudenza e attività di catalogazione, con le decisioni che sono archiviate in banche dati a supporto degli indirizzi interpretativi della sezione. Secondo le linee guida del Csm la struttura può essere assegnata a supporto di uno o più magistrati oppure di una o più sezioni o settori dell’ufficio in base a sopravvenienze e pendenze. “C’è l’immagine, ora, di una giustizia in cui il giudice non è più da solo, ma è supportato da una squadra di assistenti. È un cambio di paradigma”, ha osservato Cartabia “che viene da sperimentazioni fatte in altri settori e anche all’estero”. E al fiore all’occhiello della ministra arriva il più autorevole degli imprimatur: “Il potenziamento dell’ufficio del processo si pone come strumento diretto ad aumentare gli standard di produttività nella volontà di dare risposte alla domanda di giustizia in maniera più efficace e tempestiva”, ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella parlando alla Scuola superiore della magistratura vicino a Firenze. Ma “affinché ciò avvenga”, ha aggiunto il capo dello Stato “occorre un significativo mutamento nelle modalità di svolgimento del lavoro giudiziario con l’adozione di un modulo organizzativo basato sulla collaborazione e sul confronto con altre figure”. Il reclutamento straordinario prevede 16.500 addetti all’ufficio del processo. Di questi 16.100 vanno negli uffici di primo e secondo grado in due cicli da circa 8 mila unità ciascuno: il primo fino a un massimo di due anni e sette mesi, il secondo fino a due anni. Gli altri 400 vanno in Cassazione, in due cicli da 200 con gli stessi contratti a termine. Sono poi assunti per tre anni 5.410 unità di personale amministrativo: 1.660 laureati, 750 diplomati specializzati, 3 mila diplomati “semplici”. E con il decreto legge 80/2021 è stata raggiunta la prima milestone, una delle pietre miliari indicata dalla Commissione Ue per il Pnnr. Un progetto che “avrà una proiezione lunga nel tempo”, e “oltre a cambiare il modo di lavorare e di organizzarsi del singolo giudice crea un ponte tra le generazioni”. Il tutto prevedendo, “con le dovute risorse”, di stabilizzare l’ufficio del processo “anche quando il Pnrr avrà ridotto le sue spinte propulsive”. A proposito: gli avvocati che ne pensano? “Molte ombre e poche luci”, scuote la testa Giampaolo Di Marco, segretario generale dell’Associazione nazionale forense, per la riforma approvata “ancora una volta con voto di fiducia” del Parlamento al Governo. Soprattutto perché “in larga parte” ripropone “un metodo poco convincente con cui, in nome di un malinteso principio di efficienza, si comprimono i diritti del cittadino nel processo”. Soddisfatti invece i giuslavoristi dell’Agi per “l’estensione della negoziazione assistita sul lavoro agli avvocati e il superamento del rito Fornero”. “La riforma funzionerà”, non ha dubbi la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, che ha seguito tutto il cammino del ddl alle Camere: “Anche perché è accompagnata da un poderoso piano di assunzioni portato avanti negli ultimi mesi”. Insomma: “I tempi dei processi civili in Italia torneranno in media europea”. L’intelligenza artificiale al servizio dei processi di Anna Corradi Corriere della Sera, 29 novembre 2021 Soluzioni tecnologiche sempre più determinanti per l’efficienza e la competitività di uno studio legale e il superamento della crisi dopo la pandemia, nuovi software per gestire i dati o prevedere l’esito dei processi. In Italia solo per il mercato dei software è prevista una crescita a doppia cifra anno su anno. “Per contribuire alla digitalizzazione e all’aggiornamento degli studi legali abbiamo ideato la piattaforma One, un sistema di ricerca intelligente, strumenti personalizzati e funzionalità evolute, creato partendo dalle esigenze del professionista per rendere ancora più efficiente il lavoro di tutti i giorni - racconta Giulietta Lemmi, ceo di Wolters Kluwer Italia e della business unit legal software di Wolters Kluwer Legal&Regulatory. La piattaforma è composta da One Legale, One Fiscale, One Lavoro e One Hse. Una delle caratteristiche delle nostre soluzioni digitali è rappresentata dalla qualità e dall’accuratezza dei contenuti, un elemento fondamentale considerando la tipologia di lavoro dei nostri clienti”. Perché secondo Lemmi “le grandi trasformazioni nell’organizzazione del lavoro in corso negli ultimi anni, ulteriormente accelerate dall’emergenza sanitaria del Covid-19, fanno crescere la richiesta di soluzioni rapide ed efficaci da parte dei professionisti, in particolare di strumenti tecnologici innovativi che integrino l’analisi predittiva e l’intelligenza artificiale per ottimizzare i processi decisionali”. Nel settembre 2021 Wolters Kluwer Legal&Regulatory Italia ha lanciato la funzionalità Giurimetria di One, una soluzione che applica i modelli di intelligenza artificiale alla ricerca di giurisprudenza, al fine di fornire, attraverso una rappresentazione statistica, l’orientamento dei giudici su specifiche fattispecie relative ad un caso concreto. “Per la prima volta, una ricerca di giurisprudenza fornisce informazioni che consentono di anticipare e - se possibile-- prevedere, l’esito di un processo e si rivelano quindi fondamentali per orientarsi e per costruire una strategia processuale vincente. I nostri clienti però non sono solo studi ma anche aziende e pubblica amministrazione. A questo proposito, proprio nel 2021 abbiamo lanciato la nuova soluzione per i dipartimenti legali: il software SuiteNext consente di gestire i flussi informativi e l’organizzazione dei processi interni, dal monitoraggio del contenzioso ed i relativi costi, alla collaborazione con i legali esterni oltre a molte altre attività. Il valore del mercato software corporate in Italia, infatti, vale quasi 100 milioni di euro, considerando sia il settore legale che quello compliance”, spiega Lemmi. Attualmente Wolters Kluwer Legal Regulatory sta facendo molti investimenti in Italia, un mercato fondamentale per il gruppo. Proprio nel 2021 ha acquisito una società specializzata nel settore del waste management (Euroinformatica) con il software Atlantide dedicato alla gestione completa del ciclo di rifiuti per gli operatori di settore. Atlantide si aggiunge a Simpledo, la soluzione software all-in-one per la gestione della salute, della sicurezza, della qualità e dell’ambiente in azienda. La Cassazione sui permessi premio per reati ostativi di Andrea De Lia rivista.camminodiritto.it, 29 novembre 2021 La Cassazione con la sentenza n. 33743 del 10 settembre 2021 è intervenuta a seguito della sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale sugli oneri incombenti sul detenuto per reati ostativi in difetto di collaborazione con la giustizia ai fini della concessione dei permessi premio. Con la sentenza n. 33743 del 2021 (udienza 14 luglio 2021 - deposito 10 settembre 2021) la Prima Sezione della Corte di Cassazione (Pres. Iasillo - Rel. Magi) è intervenuta sul tema della concessione dei permessi premio in favore dei detenuti per reati ostativi (art. 4 bis ord. pen.) non collaboranti con la giustizia (art. 58-ter ord. pen.), a seguito della nota sentenza della Corte costituzionale n. 253/2019. In particolare, l’interessato aveva visto rigettata la propria istanza di concessione dal Magistrato di Sorveglianza, con decisione poi confermata in sede di reclamo dal Tribunale. Il detenuto, condannato all’ergastolo per omicidio e associazione a delinquere di cui all’art. 416-bis c.p., aveva visto rigettate le proprie richieste in quanto - ad avviso dei giudici di merito - non aveva fornito elementi idonei a dimostrare l’assenza di pericolo di ripristino dei propri collegamenti con la consorteria criminale di riferimento. Talché, sul presupposto di tale omissione, non era stata attivata neppure la procedura prevista dalla legge, con il coinvolgimento degli organi deputati alla verifica delle condizioni per la concessione del permesso premio. Il tutto sebbene il detenuto avesse rappresentato la regolarità della propria condotta carceraria, del percorso trattamentale seguito, il lungo presofferto, l’assenza di carichi pendenti, l’avvenuta concessione della liberazione anticipata. Avverso la pronuncia di rigetto, il detenuto, dunque, aveva proposto ricorso per Cassazione, affidato a plurimi motivi. La Cassazione, allora, nell’accogliere il ricorso ha ripercorso le statuizioni della Consulta, giungendo a statuire, tra l’altro, che sull’interessato grava un mero onere di allegazione, e non di prova, che si estrinseca nella prospettazione di circostanze di massima che possono consentire al giudice di approfondire la questione della carenza di collegamenti attuali o potenziali tra il detenuto e associazioni criminali, evidenziando come un onere più pregnante si tradurrebbe in una inammissibile “prova negativa”. Napoli. Guerra tra bande a Poggioreale? No sono solo dei disperati di Viviana Lanza Il Riformista, 29 novembre 2021 Prima gli annunci urbi et orbi da parte della Polizia penitenziaria su una rissa tra bande all’interno del carcere di Poggioreale, poi la visita dei garanti al Giuseppe Salvia, che hanno circostanziato e ridimensionato la vicenda. Per le condizioni in cui versa la casa circondariale di Poggioreale esistono due verità, ma anche una realtà incontrovertibile: si tratta dell’espressione di un sistema al collasso, che dimostra ogni giorno di aver fallito e che andrebbe cambiato e rifondato. “Siamo stati al primo piano del padiglione Milano - spiegano il garante regionale Samuele Ciambriello e quello cittadino Pietro Ioia - per farci raccontare come sono andate le cose durante l’ora d’aria dell’altro giorno”. Secondo la ricostruzione due detenuti stranieri: G.A. di 34 anni e H.A. di 23 anni, tossicodipendenti e con problemi psichici, durante il passeggio avrebbero scatenato una rissa con coltelli rudimentali, causando ferite a tre detenuti. “I detenuti incontrati al Milano, presenti in celle da otto e nove persone e ambienti socio-sanitari raccapriccianti, ci hanno raccontato che non si è trattato di una rissa tra bande criminali, quanto piuttosto di un episodio dovuto alla mancanza di ambienti di socialità, all’insofferenza per i ritardi nelle decisioni della magistratura, ai problemi connessi al Covid”. Una versione che alimenta un altro spunto di riflessione, quello relativo al caso dei malati di mente negli istituti di pena. Una presenza incompatibile visto che non c’è personale sufficiente e adeguatamente formato per gestire casi del genere. Senza contare il sovraffollamento, che mette a serio rischio ogni ipotesi di attività finalizzata al recupero dei detenuti. A Poggioreale mancano agenti di polizia penitenziaria, educatori, psicologi, psichiatri, mediatori culturali e linguistici. I detenuti immigrati che entrano per la prima volta in Istituto, vengono mandati in padiglioni con reclusi recidivi. “Dall’inizio dell’anno ci sono stati 185 atti di autolesionismo, 15 tentativi di suicidio sventati prontamente dagli agenti di Polizia penitenziaria, un suicidio e 132 colluttazioni. I sindacati di polizia dicono che Poggioreale è una pentola a pressione, noi aggiungiamo che è una polveriera con miccia corta - aggiungono i garanti - Il Governo e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria devono intervenire, così come la politica che vive, ad oggi, un distanziamento carcerario. Non facciamo entrare nelle carceri chi deve scontare pene brevi e mandiamo a casa chi deve scontare un ultimo anno di pena”. Nel carcere di Poggioreale, e più in generale in Campania, ci sono 625 detenuti di fuori regione, di cui 62 stranieri, su un totale di 6429 detenuti. Questa prassi non solo contribuisce al sovraffollamento delle celle, ma viola il principio di territorialità della pena. Il sovraffollamento è anche sinonimo di un eccessivo ricorso alla custodia cautelare in carcere che dovrebbe costituire una scelta di extrema ratio. “Le leggi non sono una macchina che una volta messa in moto va da sé, le leggi sono pezzi di carta che se lasciamo cadere non si muovono. Talvolta ritardi nelle decisioni, anche della magistratura di Sorveglianza che risulta essere sottodimensionata a Napoli, Caserta, Salerno, sono causa di ansia, angoscia, sofferenza fisica, atti di autolesionismo e sovraffollamento. Occorrono, quindi, più misure alternative al carcere”. Era il 1763 quando Cesare Beccaria, nel suo “Dei delitti e delle pene”, spiegava così i centri detentivi: “Il carcere è la semplice custodia d’un cittadino finché sia giudicato reo, e questa custodia essendo essenzialmente penosa, deve durare il minor tempo possibile e dev’essere meno dura che si possa”. Poco meno di 150 anni dopo, Filippo Turati in un discorso tenuto alla Camera dei Deputati nel 1904 affermò che “Le carceri italiane, nel loro complesso, sono la maggior vergogna del nostro Paese. Esse rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si abbia mai avuta”. Dalla sua, anche la penitenziaria parla di diritti. “Ad accrescere il livello degli scontri - afferma il segretario generale del S.PP. Aldo Di Giacomo - è il clima di delegittimazione del personale penitenziario che ormai è fortemente diffuso dai fatti di Santa Maria Capua Vetere e alimenta la convinzione tra i capi gang di poter adesso osare sempre di più nella sfida allo Stato. Il premier Draghi si è richiamato ai principi dell’articolo 27 della Costituzione che riguardano lo strumento della detenzione (Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato) ma - aggiunge Di Giacomo - non ha fatto alcun richiamo ai diritti del personale penitenziario che è stato messo nelle condizioni di non potersi nemmeno difendere dalle aggressioni”. Due verità. Una sola realtà, quella di un sistema in agonia. Roma. Amra, il medico di Rebibbia: “Mentre lei partoriva, io ero al telefono con l’ospedale” di Andrea Ossino La Repubblica, 29 novembre 2021 La replica di chi avrebbe dovuto aiutare la detenuta. La ragazza: “Falso: poteva mandare l’infermiere”. Il dottore era al telefono con il 118. Per questo motivo, secondo la Asl Roma 2, Amra ha partorito da sola, dietro le sbarre del carcere di Rebibbia. Una versione che contrasta con quanto ha raccontato la ragazza alla commissione carceri della Camera Penale di Roma: “Secondo voi è credibile che un medico sia andato a chiamare l’ambulanza? Casomai mandava un’infermiera”, domanda Amra. Gli ispettori inviati dalla Guardasigilli Marta Cartabia stanno esaminando le ragioni che hanno spinto il Tribunale di Roma a lasciare in carcere la 23enne, arrestata dopo aver rubato l’ennesimo portafoglio, mentre era incinta. Ma c’è un’altra domanda: perché Amra ha partorito da sola? “Alle ore 01.32 circa il medico di guardia giunge nella Sezione Infermeria e si dirige immediatamente verso la cella della detenuta, ove l’infermiera sta assistendo la stessa, constatando condizioni generali discrete e la detenuta vigile e lucida”, si legge in un documento inviato dall’azienda ospedaliera alla Regione Lazio dopo la richiesta di “chiarimenti sulla gestione delle donne detenute in stato di gravidanza”. È da poco trascorsa la mezzanotte del 31 agosto scorso. Amra ha un forte dolore e Marinella, la sua compagna di cella, chiama aiuto. Arriva un’infermiera: “Diceva di chiudere le gambe, ma Marinella mi ha detto di non farlo, il bambino poteva soffocare. Ho messo la mano sotto e ho sentito la testa, mi sono messa a letto ed è nata. Non piangeva. Aveva la placenta in faccia. L’ha levata lei con le mani e la bambina ha respirato. Poi è arrivato il dottore”, dice Amra. La storia narrata dalla Asl è un’altra: Il medico ha ritenuto che la ragazza dovesse partorire in ospedale. Quindi è andato “nella medicheria di sezione al fine di contattare il 118”. E dopo soli 3 minuti da quando ha visto per la prima volta Amra, “alle ore 01,35 circa, terminata la telefonata con gli operatori di 118”, è rientrato nella cella “costatando che il periodo espulsivo del parto si era concluso in presenza di due infermieri”. “Non è vero. Casomai mandava un’infermiera a telefonare”, dice Amra. “Occorre fare chiarezza sui fatti. Al di là delle ragioni per le quali una persona si trova in carcere, a nessuno deve accadere ciò che è successo ad Amra. Il valore della vita umana ha preminenza su qualsiasi altra cosa. Mi auguro che questa vicenda contribuisca a dare maggiore tutela ai diritti delle detenute in stato di gravidanza”, commenta il difensore di Amra, Valerio Vitale. Al momento però il nido di Rebibbia è vuoto. Su input della Guardasigilli si lavora per fare uscire le madri con figli dal carcere offrendo situazioni alternative. Anche nel caso di Amra il garante dei detenuti del Lazio, Gabriella Stramaccioni, aveva trovato una comunità disposta ad accogliere la ragazza preservando le esigenze cautelari imposte dal giudice. Lo aveva scritto al magistrato. Nessuno ha risposto. E una bambina è nata in carcere. Firenze. Sovraffollamento carcerario: la ministra Cartabia a gennaio visiterà Sollicciano nove.firenze.it, 29 novembre 2021 Il sindaco: “Segnale di attenzione verso un tema che ci sta a cuore”. Il sindaco Dario Nardella ha incontrato in Sala di Clemente VII a Palazzo Vecchio la ministra della Giustizia, stamani a Firenze per la Festa Fogliante, organizzata dal quotidiano Il Foglio nel Salone dei Cinquecento. Marta Cartabia, nel corso della festa de Il Foglio, ha confermato che nelle carceri italiane vi è un grave sovraffollamento e che alcuni istituti penitenziari ‘gridano vendetta’, aggiungendo che si sta lavorando tantissimo. Il sindaco Nardella e la ministra hanno parlato del carcere di Sollicciano, che si trova in una situazione difficile per la vivibilità e per le criticità che presenta a livello strutturale, e hanno valutato un paio di date in cui poter visitare la struttura circondariale a metà gennaio. “Ringrazio la ministra Cartabia per essere venuta a Firenze - ha detto il sindaco - a distanza di pochi giorni dalla cerimonia per il decennale della Scuola superiore di magistratura a Villa Castelpulci e in particolare per aver accolto il nostro invito a visitare il carcere di Sollicciano”. “Da parte della ministra c’è stato un segnale di sincera attenzione - ha continuato Nardella - verso un tema che ci sta a cuore e che ha un impatto sociale rilevante sul nostro territorio”. “Non è la prima volta che la Ministra conferma il grave sovraffollamento carcerario, che peraltro è in constante e progressiva ascesa e acuito dalle moltissime e concomitanti deficienze che interessano sia le strutture e le infrastrutture sia gli organici di tutto il personale, a partire da quello del Corpo di polizia penitenziaria le cui carenze sono passate da 17 mila a 18 mila unità. Tuttavia, al di là delle condivisibili e, se si vuole, pur apprezzabili dichiarazioni di principio, come quelle rilasciate anche in occasione della visita al carcere di Santa Maria Capua Vetere, neppure si intravedono interventi capaci d’invertire in qualche misura la tendenza. Anzi, al contrario, la manovra di bilancio attualmente in discussione in Senato nulla prevede in favore delle carceri e del Corpo di polizia penitenziaria. Alla Ministra diciamo che se per conoscere il carcere bisogna aver visto, noi che lo osserviamo senza soluzione di continuità, vorremmo adesso vedere fatti concreti, così da poterli apprezzare” interviene Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “Ci aspettiamo, allora, oltre al deflazionamento della densità detentiva, l’ammodernamento delle strutture, il potenziamento degli organici del personale, l’implementazione delle tecnologie e degli equipaggiamenti, così come auspichiamo che la Ministra e il Governo affrontino compiutamente il problema, che genera illegalità di Stato, dei detenuti affetti da disturbi mentali; perché se è vero che la situazione del reparto “Il Sestante” di Torino forse non ha eguali, è altrettanto innegabile che diverse altre non sono proprio dissimili. Tutto questo - conclude De Fazio -, vorremmo che venisse realizzato, in coerenza con quanto dichiarato, dal Presidente Draghi e dalla Ministra Cartabia nell’esercizio delle rispettive funzioni di governo; sarebbe paradossale e persino poco credibile, magari fra qualche mese o anno, sentir uno di loro ripetere gli stessi concetti sotto forma di inviti e raccomandazioni da un diverso e più importante scranno”. Piacenza. Novate aperte alle visite anche la domenica. In vendita i prodotti dei detenuti Libertà, 29 novembre 2021 Carcere delle Novate più aperto all’esterno. Sono due le novità emerse nel corso della recente visita fatta dall’Osservatorio carcere della Camera penale di Piacenza. La prima è l’avvio imminente della possibilità per i familiari di visitare i propri cari anche di domenica. Lo scopo è, fra l’altro, quello di facilitare gli incontri ai figli dei detenuti senza compromettere i loro impegni scolastici durante la settimana. Prima iniziativa di questo tipo in Emilia Romagna. Altra novità in arrivo è l’apertura di un chiosco per la vendita diretta al pubblico di conserve e marmellate prodotte all’interno delle mura, grazie al laboratorio di trasformazione agroalimentare gestito con la collaborazione dell’Orto Botanico. Milano. Addio a Michelina Capato, la regista e coreografa che portò il teatro nelle prigioni di Massimo Pisa La Repubblica, 29 novembre 2021 Con la recitazione voleva rieducare i detenuti. “Miki” per chi entrava in confidenza, è scomparsa a 60 anni - infarto, è la prima causa indicata dai medici che hanno provato a soccorrerla - lasciando un vuoto sui palchi e uno nelle carceri. Il tam tam è cominciato in Rete sabato, tra gli amici e la gente di teatro, tra chi ne aveva incrociato la traiettoria per un breve pezzo e chi ne era stato salvato. Michelina Capato, “Miki” per chi entrava in confidenza, è scomparsa a 60 anni - infarto, è la prima causa indicata dai medici che hanno provato a soccorrerla - lasciando un vuoto sui palchi e uno nelle carceri. Mondi che per la regista e coreografa erano stati la stessa cosa a partire dagli anni Novanta, quando introdusse i laboratori teatrali a San Vittore per i detenuti, sorta di rivoluzione blasfema per chi, dietro le sbarre, pretendeva che si marcisse e basta. Aveva poi rilanciato nel 2004, fondando la cooperativa e.s.t.i.a. e lavorando soprattutto con l’amministrazione di Bollate, per quanto modello, pur sempre carcere. Era riuscita a plasmare decine di attori e danzatori da un materiale che, per le sentenze, era composto di rapinatori e assassini: persone, per Michelina Capato, che dopo aver sbagliato e pagato potevano e dovevano essere rieducate attraverso la via dello studio e del talento artistico. Non era tanto il briciolo di notorietà - qualcuno come, Carlo Bussetti e Vincenzo D’Alfonso, ne aveva vissuto più di un quarto d’ora - quanto il metodo e l’obiettivo insegnato ai tanti passati dal Teatrodentro, dal Teatro Galeotto, dalle varie forme che aveva preso negli anni quell’ambiente unico. I titoli (“Concilio d’amore”, “Nel tuo sangue”, “La palestra della vita”, “Psycopathia Sinpathica”, “Il rovescio e il diritto”, “Non più”, “Lavorare... stanca”, “Camerieri della vita”, “Ci avete rotto il caos”), tutti di buona fattura, erano stati un mezzo per tirar fuori il meglio da chi aveva dato il peggio. “Che ne resta di noi”, tra i più fortunati, era stato in cartellone al Teatro Argentina di Roma. Nel 2019, per Michelina Capato era arrivato il Premio Gramsci, quando all’attività a Bollate si erano aggiunti nuovi progetti, con lo Iulm, a Santa Margherita. Di Salvatore “Sasà” Piscitelli, un altro dei “suoi” attori, era diventata anche amica: quando scomparve, a 40 anni, in carcere ad Ascoli Piceno proveniente da quello di Modena - uno dei tredici morti contati nelle rivolte nei penitenziari italiani tra il 8 e il 10 marzo 2020, all’alba di un primo lockdown che dietro le sbarre spaventava ancora di più - Michelina Capato fu in prima linea nel chiedere verità e giustizia, per la sorte sua e di quegli altri detenuti seppelliti troppo in fretta e senza un responsabile a pagarne le conseguenze. Mancherà ai suoi discepoli, e non solo. Milano. “Così durante il lockdown è sbocciata la mia amicizia con i detenuti” di Riccardo Bonacina vita.it, 29 novembre 2021 Volontaria nel carcere di Bollate, Ida Matrone ha raccolto in un bel libro le lettere, le mail e le riflessioni di un anno di lockdown, duro per tutti, ma particolarmente per chi era in carcere. “Quello che è emerso in questo periodo è stato scoprire in maniera ancora più esplicita e vera che la presenza del volontariato in carcere ha un unico obiettivo: compiere un pezzo di strada insieme, condividere i nostri bisogni e le nostre domande, in altre parole rendere vero e operativo il grande valore dell’amicizia. Perché la speranza ha il volto dell’amicizia”. “Non si è volontari in carcere perché si fa opera assistenziale, ma perché si aiuta l’altro a diventare la persona che è, in tutta la sua bellezza”, scrive così don Claudio Burgio, cappellano al Beccaria di Milano, nella prefazione al libro di Ida Matrone, Lettere da un carcere. Racconti e volti di un’amicizia (Edizioni Ares, euro 14). Un sottotitolo che esplicita cosa sia davvero il volontariato, in carcere e ovunque, un seminatore di amicizia, amicizia civile, civica. Quello di Ida Matrone è un libro di cui consiglio la lettura, personalmente è un libro che mi ha fatto bene, nelle sue pagine la testimonianza platica e calda di una frase di Fabio Rosini che ho trovato citata: “Qualunque persona venga da noi, deve poter trovare in noi qualcuno che la aiuti a riscoprire la propria bellezza”. Ho seguito la presentazione del libro nel teatro del carcere di Bollate con detenuti, guardie ed esterni hanno seguito, insieme, il racconto di Ida che anche durante il lockdown, lunghissimo nelle carceri, ha tenuto il rapporto con i suoi amici “dentro” attraverso mail e lettere di cui alcune riportate nel libro. “Sono entrata come volontaria dell’Associazione Incontro e Presenza nel carcere di Bollate da 12 anni, ma il mio incontro con la realtà carceraria è avvenuto molto prima. Sono stata allieva alle scuole superiori della fondatrice dell’Associazione, Mirella Bocchini, e sono rimasta anche in seguito, in un costante rapporto d’amicizia con lei: ho assistito quindi alla nascita dell’Associazione, avvenuta 35 anni fa, e grazie ai racconti di Mirella, ero al corrente di quello che succedeva nelle carceri, ma soprattutto degli incontri incredibili che avvenivano in quel luogo, tra volontari e detenuti, che svelavano un’umanità impensabile a noi “fuori”. Il mio rapporto con il carcere è proseguito da insegnante. Ho promosso progetti che facessero incontrare il mondo della scuola con il carcere, nella convinzione dell’importanza che la società modifichi il suo atteggiamento nei confronti dei detenuti. E questo può avvenire solo attraverso un incontro libero da pregiudizi. Infine, per ultimo decido di entrare in carcere come volontaria, entro per caso e poi sono tornata ogni settimana. Hai detto nella presentazione a Bollate che il tuo non è un libro “sul” carcere, cioè? “Non faccio un discorso sul carcere, non si parla del concetto di pena utile, delle misure alternative, del problema del sovraffollamento, e non se ne parla perché queste importanti questioni non rientrano in quello che compete affrontare ai volontari; questo è il tema della politica. Ma c’è un prima alla politica che l’oggetto del libro. Un prima che l’ex magistrato di sorveglianza, Guido Brambilla ha molto chiaramente espresso: “L’opera di risocializzazione (meglio direi di comprensione di sé e del proprio esistere nel mondo), può ricominciare da un rapporto significativo con un TU. Il rapporto con un tu che guardi al soggetto senza giudicarlo, senza congelarlo nel gesto criminale, nel fatto che ha commesso, ma che, senza giustificare nulla (occorre dire pane al pane e vino al vino), guardi al detenuto come uomo degno di stima e che quindi ha una dignità PRIMA di dimostrarsi di nuovo utile per la società, prima che abbia un lavoro, un’istruzione e sia quindi nei termini politicamente corretti considerato riabilitato”. Nel libro parlo in prima persona, perché racconto la mia esperienza di volontaria, quello che ho visto, chi ho incontrato, che cosa è nato, che cosa questa relazione ha prodotto come consapevolezza della propria persona, della mia persona in prima battuta, e della vita. Quindi è un libro che parla di rapporti, i detenuti in questo libro non sono una categoria, hanno tutti un nome, un volto, una storia”. Il libro, hai raccontato, è nato durante il lockdown, nelle sue pagine troviamo tanti dialoghi via lettera o mail... Il Covid-19 che è arrivato con una potenza sconosciuta e destabilizzante per tutti, ha colpito ancor di più chi è ristretto in carcere dove la situazione di isolamento e abbandono è esponenziale, e con esse il sentimento di impotenza, di non poter fare nulla per i propri cari. Tuttavia, il rapporto con i detenuti è continuato soprattutto attraverso lo scambio di mail tra noi volontari e loro, e, nonostante la distanza, i rapporti si sono approfonditi, si è anche arrivati ad una intimità tenera e affettuosa davvero inimmaginabile che mi ha riempito di stupore e gratitudine. Due parole in particolare erano presenti nelle lettere, parole che esprimevano, e che esprimono sempre, due posizioni nei confronti della realtà: Paura e Speranza. Come vincere la paura e dove trovare la speranza. Che risposta è uscita nei vostri dialoghi? Quello che è emerso in questo periodo è stato in maniera ancora più esplicita e vera quella che è la modalità della nostra presenza in carcere: compiere un pezzo di strada insieme, condividere i nostri bisogni e le nostre domande, in altre parole rendere vero e operativo il grande valore dell’amicizia. Perché la speranza, abbiamo capito, ho capito, ha il volto dell’amicizia. Come ha scritto padre Puglisi: “solo gli amici sperano, solo dove c’è amicizia c’è speranza. Chi è completamente solo è disperato; il futuro è solo timore, quando è vuoto d’amicizia, e il presente, per chi è pieno solo di se stesso non ha prospettive. L’amicizia non è mai fine a se stessa spalanca al mondo e ci rende protagonisti del cambiamento della società. Marian, una ragazza poco più che ventenne e mia ex alunna, dopo aver letto il libro e mi ha lasciato un commento, questa è la frase conclusiva: “anche se non li conosco, li ringrazio, li ringrazio perché esistono e spero che con la loro storia, una volta fuori, contribuiscano a rendere più umana la nostra società. Credo infatti che chi ha sbagliato, ha compreso, ha perdonato e si è fatto perdonare abbia qualcosa in più da insegnare, rispetto a chi si crede perfetto e giusto solo perché non ha mai scontato una pena e non ha dovuto avere l’umiltà di dover ricominciare.” Piacenza. In questi giorni il carcere è diventato il set del film “Il giardiniere” Libertà, 29 novembre 2021 Sono giorni speciali per il carcere delle Novate, dove si vedono guardie vere mescolate a poliziotti finti, attori, luci, operatori, fonici. E poi due direttrici di carcere: quella originale e quella “fiction” nell’ufficio di Maria Gabriella Lusi, che guida la struttura e che ha accolto la troupe del film “Il giardiniere” del regista, produttore e montatore Marco Santarelli, per girare parte delle riprese all’interno di un vero istituto penitenziario. Il film racconta la storia di Samad (interpretato da Mehdi Meskar), ragazzo marocchino che ha trascorso un periodo in carcere e che, una volta uscito, cerca di rifarsi una vita, ma è tormentato da profondi dubbi religiosi. Padre Agostino (interpretato da Roberto Citran), suo amico e mentore, è un volontario del carcere e invita Samad a tornare in prigione per testimoniare ai ragazzi musulmani che sono ancora incarcerati che esiste la possibilità di reinserirsi nella società. Qualcosa andrà storto, la tensione salirà e il protagonista si troverà a scegliere da che parte stare. La produzione de “Il giardiniere” è di Kavac Film e The Film Club con Rai Cinema. Sul set era presente anche la Film Commission Emilia Romagna, la struttura che supporta, cofinanzia e trova le location per le produzioni che vengono sviluppate a livello regionale. Civitavecchia (Rm). Il Coni ricomincia da “Lo sport entra nelle carceri” di Giovanni Pimpinelli trcgiornale.it, 29 novembre 2021 Dopo il periodo di stop causato dalla pandemia anche quest’anno a Civitavecchia il Comitato Regionale Lazio del Coni ha ripreso le attività negli istituti penitenziari cittadini grazie al progetto “Lo sport entra nelle carceri”, che rientra in “Coni e Regione, compagni di Sport”. Ad iniziare le attività per quest’edizione è il settore femminile con lo yoga, poiché questa disciplina è legata proprio alla mission del progetto, in quanto da uno studio effettuato, in termini di salute psicofisica, lo sport nel carcere serve a combattere depressione, alienazione, claustrofobia, tensione, aggressività, disturbi psicosomatici e della personalità e ad aumentare l’autostima. Per questo motivo la scelta è ricaduta sullo yoga, attività specifica che incarna in sé tutte queste caratteristiche. Lo Yoga come “Attività Sportiva di Ginnastica finalizzata alla Salute ed al Fitness” infatti, è da sempre un ottimo strumento di rieducazione fisica e mentale in grado di migliorare l’umore, ridurre la propensione a comportamenti aggressivi e antisociali nell’istituto, favorire la socializzazione ed ha già funzionato anche nel passato. Il tecnico scelto dal comitato regionale Lazio è Adriana Calò, presidente e tecnico di una società sportiva dilettantistica operante da anni sul territorio di Civitavecchia. “Sono felice di riportare lo Yoga in questo contesto, che per me è totalmente nuovo, e metterò tutto il mio impregno, come ho sempre fatto in ogni occasione, perché anche in un ambiente così particolare, quale è il carcere, chi partecipa alle mie lezioni possa trarre i molteplici benefici che questa disciplina può dare”. Esprime soddisfazione anche la direttrice dell’istituto, la dottoressa Bravetti, che ha da subito accolto con grande entusiasmo il progetto fin dalla sua primissima presentazione. Il dr Riccardo Viola, presidente del Coni Comitato Regionale Lazio, si è detto soddisfatto per l’alta ricettività del territorio ai progetti che l’ente ha proposto nell’ambito della regione Lazio ed in particolare a Civitavecchia dove negli ultimi anni sono stati realizzati molte progettualità Coni, partendo dallo Sport in Piazza, proseguendo con i Centri Coni e gli Educamp, con l’ottimo lavoro realizzato nel liceo scientifico ad indirizzo sportivo premiato dall’ufficio scolastico regionale ed ora con lo Sport in Carcere. Altri progetti sono pronti a partire e tutto questo non fa che dimostrare la grande propensione allo sport che caratterizza la città di Civitavecchia. Ferrara. Detenuti insieme verso la meta col progetto di Rugby 27 Asd di Davide Soattin estense.com, 29 novembre 2021 A coordinare l’iniziativa è Stefano Cavallini. Una trentina i componenti del team che hanno firmato un codice etico per entrarvi. Aiutare i detenuti nel processo di recupero e di reintegro nella società attraverso il rispetto delle regole e della disciplina, ma anche tramite la costruzione di legami sociali e affettivi che solo lo sport è capace di dare. Questo l’obiettivo del progetto che sta alla base della società Rugby 27 Asd Ferrara, nata a inizio settembre all’interno del carcere di via Arginone, grazie all’impegno di un team composto da una decina di volontari tra allenatori, ex arbitri e giocatori e al sostegno economico di due sponsor come Emilbanca e Cm Srl, aderenti al programma Fir “Rugby oltre le sbarre”. A raccontarne la genesi è il presidente Stefano Cavallini, ex assessore del Comune di Ferrara che nel 2014, dopo aver terminato la propria importante esperienza di presidente di sezione tra le fila di Cus Ferrara, insieme ad alcuni colleghi di Bologna, ha deciso di dare vita all’associazione sportiva Giallo Dozza-Rugby Bologna 1928 dentro al penitenziario felsineo, iscrivendo la squadra al campionato di Serie C. Un’avventura che si è conclusa a fine primavera del 2021, poco prima della proposta al carcere di Ferrara: “La direttrice non ci ha pensato due volte e mi ha detto subito di sì, così ho iniziato a costruire un gruppo di lavoro e abbiamo dato vita alla nostra attività. Nei primi giorni di settembre abbiamo incontrato una sessantina di detenuti, a cui abbiamo illustrato il nostro programma e da lì sono iniziate ad arrivare adesioni”. Oggi i componenti della squadra sono all’incirca 30 e si allenano due volte alla settimana sul campo, mentre il venerdì pomeriggio assistono a lezioni e riunioni tecniche nella sala teatro. “Per fare come a Bologna - rivela Cavallini - è ancora molto presto perché ci mancano le strutture. Il campo ha le condizioni necessarie per essere omologato, anche se ci mancano le H. Ci servono tutto un insieme di autorizzazioni e di soldi, ma lo faremo”. A rincorrere la palla ovale è un gruppo eterogeneo a livello di nazionalità, dove l’età media è tra i 20 e i 35 anni e il più vecchio ne ha 40: “Abbiamo stabilito che al progetto potranno partecipare quelli che hanno minimo tre anni di pena, dal momento che una delle caratteristiche principali è assicurare continuità e stabilità, e non potranno farvi parte quei carcerati che hanno commesso reati sex offenders o di associazione mafiosa, mentre a tutti gli altri abbiamo deciso che va data un’altra opportunità, come spiega l’articolo 27, da cui prende il nome la nostra società”. A tal proposito, Cavallini aggiunge: “I detenuti hanno firmato un codice etico che impone a loro di non prendere nessun tipo di provvedimento disciplinare durante la reclusione, così come di non mettere in pratica nessun atteggiamento provocatorio o violento durante gli allenamenti. La pena è l’esclusione dal progetto, per cui chiediamo continuità e serietà nel presentarsi agli allenamenti”. E questo porta a benefici significativi sul recupero della persona: “Dall’esperienza di Bologna abbiamo visto che attraverso alla partecipazione a questo corso è calata la recidiva oltre il 30%, così come i provvedimenti disciplinari per litigi o aggressioni con ispettori e guardie e il marco visita, vale a dire quando uno si imbosca per non fare quello che deve fare, ma soprattutto l’uso del fumo. In più, due anni fa, a Bologna c’è stata la rivolta e l’unico reparto che non vi ha partecipato è stato proprio quello in cui vi erano i rugbisti”. “Il senso della nostra operazione - chiude il responsabile - è proprio questo. Prepararli all’uscita, fornendo a loro gli strumenti per l’integrazione futura. Purtroppo però c’è un buco in questo progetto. Noi cerchiamo di fargli fare anche solo un centimetro verso il recupero, ma resta sempre l’interrogativo su cosa succederà dopo, quando usciranno. Di sicuro uscirà gente un po’ più educata e che ha avuto la fortuna di vivere la pena in maniera meno traumatica ma, se non ci sono offerte, il rischio che si possano ricadere nel baratro devo dire purtroppo che è concreto”. Cannabis, ancora polemiche sulla legalizzazione di Maria Novella De Luca La Repubblica, 29 novembre 2021 Gasparri: “Non passerà mai”. Pierantoni (M5S): “Destra cieca”. Altre reazioni in seguito alle parole della ministra Dadone e durante la conferenza sulle dipendenze a Genova. Dopo lo scontro a distanza Orlando-Salvini, continuano gli schieramenti tra contrari (Gelmini e Binetti) e i favorevoli (Da Della Vedova a Fratoianni). Il dibattito sulla liberalizzazione della cannabis continua, soprattutto anche dopo la conferenza nazionale sulle dipendenze di Genova, un appuntamento tornato dopo 12 anni di assenza. Il governo si è spaccato su un argomento da sempre molto divisivo. E ieri come oggi il mondo della politica è tornata a schierarsi tra favorevoli e contrari. La ministra forzista Mariastella Gelmini, il senatore azzurro Maurizio Gasparri, la senatrice Udc Paola Binetti, ma anche il sottosegretario alla Salute Andrea Costa (Noi con l’Italia), sono tutti per il ‘no’: “Non verrà mai liberalizzata”, avvertono. Dall’altra parte, per il ‘sì’, ci sono il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, il segretario di Più Europa e Sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, e l’esponente pentastellato Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera, che punta il dito contro la destra “cieca e totalitarista su questo tema che aspetta, invece, una ventata di modernizzazione. Non si tratta affatto di consentire ‘libertà di drogarsi’ come loro dicono ma di promuovere politiche efficaci di controllo e contrasto alle illegalità”. A sollevare le polemiche anche l’intervista a Repubblica della ministra delle Politiche giovanili, Fabiana Dadone, che ha detto “basta al proibizionismo delle droghe leggere”. Ieri il botta e risposta a distanza tra il ministro dem del Lavoro, Andrea Orlando, che invitando a guardare alla Germania “che ha cambiato profondamente linea su questo fronte” ha sostenuto che sia “inevitabile che una qualche riflessione la si faccia anche nel nostro Paese”; e Matteo Salvini: “Si occupi di lavoratori, precari e cassaintegrati, lasci che di lotta alla droga si occupino famiglie, esperti e comunità”. Le polemiche vanno avanti. Da una parte, la destra. “Nessuno si sogni di liberalizzare gli spinelli”, ha commentato un altro esponente del governo, la ministra per gli Affari regionali e le Autonomie, Mariastella Gelmini. La legalizzazione della cannabis “è una scelta sbagliata e diseducativa. Non passerà mai né in Parlamento né nel Paese”, ha detto Maurizio Gasparri, responsabile degli enti locali di Forza Italia, durante l’evento “Transizione, la grande scommessa”, organizzato dal partito a Erba, nel Comasco. Per la senatrice Udc, Paola Binetti, la legalizzazione della cannabis non interromperebbe “il narcotraffico criminale, che cerca di diffondere le droghe rivolgendosi ad un pubblico sempre più giovane e disorientato” e “la fragilità degli adolescenti non si cura offrendo loro in modo sempre più accessibile la cannabis”. Contrario anche il sottosegretario di Stato alla Salute Andrea Costa (Noi con l’Italia): “Questa Conferenza dovrebbe affrontare le problematiche connesse alla diffusione di sostanze stupefacenti e il tema dei percorsi di recupero per dare nuovo impulso alla tutela delle persone fragili e con dipendenze, non certo creare le condizioni per aumentare i dipendenti dalle droghe”. Non la pensa così il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni: “Legalizzare la cannabis sarebbe una scelta illuminata sul piano sociale, sanitario ed economico. Un mercato legale e controllato consentirebbe di creare lavoro e di recuperare con la leva fiscale risorse importanti per finanziare le casse pubbliche. Ora però il referendum per il quale sono state raccolte centinaia di migliaia di firme in pochi giorni rappresenta una straordinaria opportunità per dare la parola ai cittadini. La società è più avanti di una politica ipocrita e imbalsamata”. Per il segretario di Più Europa e sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, “il punto ormai non è ‘se’ ma ‘quando’. Passare da un enorme mercato criminale ad uno legale, che consenta anche di far emergere un pezzo di economia sommersa oggi gestita dalle mafie, è una misura di buon governo. In primavera gli italiani potranno scegliere votando Sì al referendum”. Riccardo Magi, deputato e presidente di +Europa, membro del comitato promotore del referendum cannabis, si rivolge a Orlando e Dadone: “Cosa pensano loro del referendum? Il Pd sta ancora pensando a quale posizione assumere, come Letta ci ha detto un mese fa? La richiesta che facciamo a Dadone è questa: il governo si assuma l’impegno di non intervenire a favore e a sostegno della inammissibilità del quesito referendario. Su questo ci aspettiamo una risposta, altrimenti tutto il resto è passerella”. Perché la legalizzazione della cannabis è destinata a fallire ancora di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 29 novembre 2021 Nel gennaio del 1995, il congresso del coordinamento radicale antiproibizionista fu ospitato a San Patrignano: fu un po’ come se il diavolo in persona venisse invitato a parlare in chiesa, perché Pannella era lo storico fautore della legalizzazione della droga e Muccioli il più tenace assertore del proibizionismo di Stato di cui la sua comunità era diventata il simbolo. Lo scontro tra questi due colossi segnò una lunga stagione della Prima Repubblica, culminata in un duello memorabile al Tg2 della sera, ma entrambi alla fine convennero nell’auspicio che nessun tossicodipendente dovesse più finire in carcere. Una questione che resta di stretta attualità, visto che un terzo delle persone detenute sono direttamente o indirettamente legate a questioni di droghe, e che dunque assume sempre più la rilevanza di una vera e propria piaga sociale, di un’emergenza che i lockdown Covid hanno ulteriormente aggravato. Il dilemma, che si riaffaccia periodicamente sulla scena politica, resta lo stesso di quarant’anni fa: legalizzare le droghe leggere o inasprire le pene? Fu questa una delle più fragorose spaccature tra Lega e Cinque Stelle nell’alleanza gialloverde, e l’intervento a gamba tesa della ministra Dadone la sta riproponendo nel governo di unità nazionale. A settembre la sinistra ha votato da sola in commissione alla Camera - con l’astensione di Italia Viva - il testo base per la legalizzazione della cannabis, ma in Parlamento i numeri non ci sono, e il tentativo di importare in Italia l’apertura del nuovo governo tedesco per il suo uso a scopi ricreativi è destinato a fallire per la totale contrarietà del centrodestra. Negli anni, comunque, sono stati aperti diversi varchi alla depenalizzazione delle droghe leggere. La maggioranza Pd-Cinque Stelle approvò addirittura un emendamento alla legge di bilancio 2021, poi approvata con la fiducia, che mischiava l’uso della canapa a fini energetici con quello a fini commerciali decidendo surrettiziamente la soglia oltre la quale la cannabis è droga: sotto quel limite, via libera alla vendita. Questo in spregio alle evidenze scientifiche secondo cui anche la cannabis a bassa concentrazione è ad altissimo rischio dipendenza. Ma la stessa Cassazione aveva legalizzato la coltivazione di cannabis in casa, anche se in quantità minime sufficienti solo per uso personale. Una sentenza in contraddizione con tutta la precedente giurisprudenza costituzionale. Il quadro normativo su una materia così sensibile resta quindi troppo generico e lacunoso: il testo di riferimento è la legge 242 del 2016, che aveva come scopo principale quello di implementare la coltivazione della canapa, senza però citare espressamente quali siano le parti della pianta utilizzabili e destinabili alla trasformazione. Una legge che ha autorizzato l’apertura di veri e propri market della marijuana light, andando ben oltre quindi l’uso ad esclusivi fini terapeutici, il cui significato fu ben simboleggiato dalla manifestazione “Hemp Fest” di Milano, una sorta di festival delle droghe leggere contrassegnata dallo slogan “Io non sono una droga”, in palese contrasto con gli articoli 82 e 84 del Dpr del 1990 che perseguono penalmente chi istiga all’uso di sostanze stupefacenti o ne propaganda l’utilizzo. Di fronte alla diffusione sempre più pervasiva della cannabis tra gli adolescenti, dare messaggi ambigui è pericoloso, e la distinzione fra droghe leggere e pesanti è fuorviante, perché tende a dare l’idea che esistano sostanze che non fanno danni. E invece non è così, anche perché solo quest’anno sono comparse ben 44 nuove sostanze chimiche con componenti psicoattivi che incidono sul sistema nervoso centrale. Mentre aumenta la produzione di droga, calano i prezzi sul mercato, si allarga la platea e si abbassa l’età media dei consumatori, con la presenza di sostanze sintetiche sempre più potenti, la strada della legalizzazione sarebbe dunque una scorciatoia non solo azzardata, ma drammaticamente sbagliata. Eutanasia, donare la morte in omaggio la vita di Massimo Recalcati La Repubblica, 29 novembre 2021 Intesa come il regalo di chi riconosce che morire quando la vita è al muro, sommersa dalla sofferenza, è una liberazione che salvaguarda la stessa dignità umana dell’esistenza. È possibile concepire l’interruzione volontaria della vita - eutanasia o suicidio assistito - non solamente come ciò che può evitare lo strazio di sofferenze senza alcuna speranza di guarigione, ma come un vero e proprio dono? La morte può essere in certe circostanze drammatiche un dono che non oltraggia affatto la sacralità della vita ma la onora immensamente? Non esiste morte naturale, scriveva Simone De Beauvoir. Ogni morte umana accade, infatti, sempre prematuramente. Non siamo fatti per morire ma per vivere: la morte è il nostro destino insuperabile ma è anche ciò che contraddice atrocemente il nostro attaccamento alla vita. Dobbiamo morire ma non siamo fatti per morire. In questo senso la morte accade sempre in anticipo, sempre troppo presto, sempre, appunto prematuramente. È la ragione dell’estremo scandalo che suscita la morte di un bambino: la morte avviene in questi casi là dove non è attesa, dove non dovrebbe mai avvenire, non alla fine ma all’inizio della vita. Ma se la morte è un evento che vorremmo sempre evitare, come può assumere il significato di un dono? Si può davvero donare la morte? In uno straordinario film titolato Milion Dollar Baby, Clint Eastwood ha messo scabrosamente in scena questi interrogativi. Una giovane donna si trova paralizzata a letto per una terribile lesione contratta in un combattimento di pugilato. Ha costruito con fatica la sua vita resistendo a innumerevoli difficoltà. Grazie al suo desiderio deciso e la dedizione del suo allenatore trova finalmente la sua affermazione sul ring. Poi il trauma della lesione. La sua vita si trova improvvisamente amputata, alimentata dalle macchine della scienza medica, senza nemmeno più la possibilità di parlare, sommersa da sofferenze inaudite provocate dalla cancrena. Prova prima a suicidarsi mangiandosi la lingua. Successivamente comunica al suo vecchio e amato allenatore il desiderio di non continuare più a vivere così. Lui la chiamava Mo chiusle che nella lingua galeica significa “mio tesoro” e di fronte al dolore senza speranza di questo “tesoro”, Frankie, il vecchio allenatore, decide di staccare la spina mettendo fine alle sue atroci sofferenze. La morte, dunque, può essere un dono d’amore? O forse Frankie si è sostituito impunemente a Dio decidendo sulla vita e sulla morte di un altro essere umano? Quando la vita è sommersa dalla sofferenza e da un male che non lascia speranze, quando il suo orizzonte si è ristretto a quello angusto di un letto in una terapia intensiva permanente, quando la vita ha già perduto il senso della vita, allora donare la morte non sarebbe un atto di amore che salvaguarda il rispetto della vita e la sua immensa sacralità? Quale materialismo grossolano può confondere la vita umana con un respiro alimentato artificiosamente da delle macchine? Ma, soprattutto, quale concezione spietata della vita bisogna avere per escludere la possibilità della resa? Un celebre libro del teologo Dietrich Bonhoeffer si intitola proprio Resistenza e resa. Sono i due movimenti che scandiscono la vita umana. Il primo è quello della resistenza della vita di fronte agli ostacoli, alle prove, alla sofferenza, alla tentazione della morte. Ma fino a quando? Per quanto tempo il dolore e l’assenza di speranza possono essere sopportati? Sino a quale punto una vita può resistere al dolore? Il secondo movimento è quello della resa. Qui la vita si rivela pienamente umana. Infatti se la resa senza la prova della resistenza può essere una fuga dalla vita, la resistenza senza la possibilità della resa può diventare un supplizio o un martirio inutile. Ma chi può misurare il giusto rapporto tra la resistenza e la resa? Alla luce della pietas umana la forza della resistenza dovrebbe avere la stessa dignità della dichiarazione di resa. Quando la vita si arrende alla sofferenza dopo aver resistito sino al proprio limite è giusto che il dono della morte diventi possibile, che la resa non sia impedita, ma, al contrario, onorata. La Legge non può imporre la resistenza senza resa - sarebbe questo il cuore folle della filosofia dell’hitlerismo - ma deve servire a consentire il dono della morte di fronte a una esistenza che può dichiarare, dopo il tempo della resistenza, la sua resa. In questo caso la morte rende ancora più sacra la vita perché la riconosce profondamente vulnerabile, fragile, umana. Non è qui in gioco la morte come semplice soppressione della vita o, peggio, come selezione della vita, ma come dono di chi riconosce che morire quando la vita è al muro, senza speranze, sommersa dalla sofferenza, è una liberazione che salvaguarda la stessa dignità umana della vita. Se il dono della vita è il dono di una avventura possibile, quello della morte può essere il dono che riconosce la resa della vita di fronte all’impossibile. Amnesty International, “Firma una lettera, salva una vita” di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 29 novembre 2021 La campagna ventennale per attiviste e attivisti in pericolo. È iniziata giovedì scorso la campagna di Amnesty International “Write for rights”, giunta ormai al suo ventesimo anno. Nel 2020 sono state raccolti quattro milioni e mezzo di testi scritti a favore di attivisti e attiviste perseguitate. Dal 2001, nelle ultime settimane dell’anno, l’organizzazione raccoglie firme, post, e-mail, lettere e cartoline a sostegno di persone ingiustamente imprigionate o perseguitate: dalle 2326 lettere raccolte il primo anno, nel 2020 è passata a quattro milioni e mezzo di testi scritti. Si tratta della più grande campagna di invio di lettere di Amnesty International. Ed è efficace: l’ultimo esempio positivo è quello di Jani Silva, un’ambientalista della Colombia sottoposta a minacce di morte, in favore della quale nel 2020 si sono mobilitate oltre 400.000 persone. “La campagna mi ha tenuta viva. Ha dissuaso le persone che volevano uccidermi perché si sono rese conto che dietro di me c’eravate voi!”, ha dichiarato Silva. Write for rights 2021. La campagna “Write for Rights” 2021 chiede protezione, giustizia o libertà per dieci coraggiose persone dedicatesi alla difesa dei diritti umani. Una delle storie è quella di Janna Jihad, 15 anni, cresciuta nel piccolo villaggio palestinese di Nabi Saleh. Nel 2009, quando Janna aveva tre anni, la sua comunità ha iniziato a svolgere manifestazioni pacifiche settimanali contro l’occupazione israeliana, affrontate con violenza. All’età di sette anni, Janna ha cominciato a usare il telefono cellulare della madre per raccontare la vita della sua comunità: per questo è stata riconosciuta come una delle più giovani giornaliste del mondo. Per la sua attività subisce minacce e intimidazioni. Attiviste in pericolo in Cina, Messico, Eritrea, Ucraina. Un’altra attivista per cui si chiede protezione è Zhang Zhan, la giornalista condannata a quattro anni di carcere per essersi occupata dello scoppio della pandemia da Covid-19 a Wuhan e che è in grave pericolo di vita a seguito di uno sciopero della fame. Anche Wendy Galarza, ferita gravemente in Messico mentre prendeva parte a una manifestazione per chiedere giustizia per un femminicidio, necessita supporto. Ciham Ali invece è scomparsa in Eritrea oltre otto anni fa, appena quindicenne, mentre cercava di fuggire dalla repressione in atto nel paese. Infine, Anna Sharthina e Vira Chernygina, hanno ricevuto attacchi e intimidazioni in Ucraina, dove difendono i diritti delle persone LGBTQIA+. La campagna presentata a Roma e a Milano. Per promuovere la campagna “Write for Rights”, dal 25 al 27 novembre sarà in Italia Wendy Galarza, attivista per i diritti delle donne in Messico, accompagnata da Edith Olivares Ferreto, direttrice di Amnesty International Messico, entrambe in Europa per un tour della campagna “Write for Rights”. Ospiti delle sezioni di Amnesty International in Francia, Belgio, Spagna, Italia e Islanda per parlare di diritti umani e violenza sulle donne in Messico, Wendy ed Edith saranno a Roma il 25 e 26 novembre per incontri con le scuole (Liceo Righi e ITS Salvini), con funzionari del ministero degli Affari esteri e per un evento pubblico. Il 27 saranno a Milano per prendere parte a un ulteriore evento pubblico. Al confine polacco si rischia il carcere per portare l’acqua ai migranti di Pierfrancesco Majorino Il Domani, 29 novembre 2021 La zona rossa è un lembo di terra, posto al di qua dei confini europei. Chi ci entra rischia il carcere, per incontrare gli attivisti che aiutano i migranti al confine tra Bielorussia e Polonia bisogna andare in luoghi nascosti. “Portare loro l’acqua”, dice uno di loro sotto la garanzia dell’anonimato, “è diventato un gesto da partigiano”. “Nella foresta si crepa”, e la foresta “è cattiva”, ci spiegano. E la sola cosa a cui riusciamo a pensare è che tra la Bielorussia delle manovre del regime e la Polonia dei muri non ci può essere spazio per l’ennesima pagina dell’Europa dei silenzi. La zona rossa è un lembo di terra, posto al di qua dei confini europei. È un territorio fortemente presidiato che divide la Bielorussia e la Polonia ed è l’imbuto dove sono finiti i migranti sospinti da Lukashenko, persone trattate come carne da macello portate fin qui anche con le minacce e gli inganni e convinti, così, a raggiungere un presente diverso. Il governo polacco, com’è oramai noto, ha reagito alla torbida azione del dittatore del regime bielorusso nel modo peggiore: ha sbarrato ogni porta d’accesso, ha creato un muro nei fatti. Così la zona rossa è il bosco dove uomini, donne, bambine, bambini hanno loro malgrado trovato un spazio dove tentare di sopravvivere. Si tratta di un luogo difficile e paludoso, inospitale e segnato dal freddo che l’oscurità avvolge. Un limbo del diritto buio dentro al quale non si distinguono neppure gli alberi, alti e robusti, quando a conclusione di una nostra giornata di “missione” con altri due colleghi - il capodelegazione del PD Brando Benifei e lo storico “medico di Lampedusa” Pietro Bartolo - improvvisiamo un breve discorso. “Nella foresta la gente crepa”, ci ripetono gli attivisti europei, prevalentemente proprio polacchi, che hanno deciso di salvare vite. E aggiungono che in questo periodo dell’anno è “una foresta cattiva”. Lo spiega anche un’infermiera che chiede di non essere citata. Si commuove quando dice della donna morta di parto, con, tra le sue braccia, il minuscolo cadavere del neonato. Il governo polacco, del resto, fa le cose sul serio. Non lascia spazio alla compassione e ostacola in tutti i modi ogni tentativo di soccorso. Apriamo tutti gli occhi: questo è quel che accade in Polonia, cioè in Europa, in questi mesi che precedono l’inverno. Migranti arrivati fin qui - prevalentemente originari della Siria, dell’Afghanistan, dell’Iraq - cercano in ogni modo di farcela mentre le autorità nazionali ostacolano gli operatori umanitari affinché non aiutino e i giornalisti affinché non vedano. L’azione del governo polacco mostra una sua efficacia sul piano autoritario e della disumanità, non c’è che dire. Sopravvivere e disperdersi - I profughi sopravvivono nel dramma e si disperdono, diversi di loro finiscono in Lituania, altri si sparpagliano, e le autorità, da Varsavia, ribadiscono di non avere voglia di cambiare la direzione delle proprie scelte ed anzi si appoggiano alla legislazione d’emergenza. Un’emergenza, ad oggi, costituita da alcune migliaia di persone in carne ed ossa trattate come ombre. Le istituzioni europee, in questo quadro, reagiscono con lentezza e imbarazzo, certamente in modo violentemente inadeguato. Se dal Parlamento si leva più di una preoccupazione il Consiglio europeo e perfino la Commissione non mostrano cenni particolarmente incoraggianti: del resto sull’immigrazione si deve cambiare tutto e questa è un’altra pagina che lo dimostra, nella sua irriducibile spietatezza. La pensano così anche i cittadini che dalle parti di Michalowo organizzano tentativi di solidarietà. La loro azione è semplice, materiale: a volte è fatta di sacchi a pelo e coperte termiche, come quelle che aiutano i senzatetto che dormono nelle strade di diverse metropoli d’Europa, altre volte di cibo, in altri casi ancora di interventi di medici e operatori sanitari. Si tratta, sempre, di una solidarietà preziosa che fa i conti con l’opera autoritaria in atto. Così gli attivisti hanno paura, non si fidano, spesso scelgono l’anonimato. In alcuni casi vogliono essere incontrati in luoghi seminascosti. Portare l’acqua, un gesto da partigiani - Del resto se si accede alla zona rossa si rischia il carcere. “Portare l’acqua è un gesto da partigiani, non lo avrei mai pensato”, ci dice uno di loro con cui ci confrontiamo nel seminterrato di un locale di cui non si può rivelare il nome. Sono parole che lasciano sbalorditi, impressioni che conferma anche Alessandro Metz, di Mediterranea, arrivato qui a consegnare beni raccolti con la cooperativa sociale Nuova Ricerca Agenzia Res “la Polonia è una punta avanzata di criminalizzazione del soccorso, servirebbe subito un salvacondotto europeo”. Che poi vorrebbe dire una forma immediata, urgente di intervento. Un gesto di umanità, di giustizia, lo si chiami come si preferisce. Per quel che ci riguarda lo abbiamo sollecitato e continueremo con ancora più insistenza a farlo. Perché tra la Bielorussia delle manovre del regime e la Polonia dei muri non ci può essere spazio per l’ennesima pagina dell’Europa dei silenzi. Perché il mondo di domani riparte dal Vicino Oriente di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 29 novembre 2021 Il vertice tra Draghi e Macron. Italia e Francia, seppur divise, decidono di allearsi. Il ruolo del presidente americano Biden. Le insidie e le opportunità del futuro. Premetto, a scanso di equivoci, di essere un inguaribile ottimista. Lo devo alla natura che mi ha donato la gioia di nascere senza ereditarie frustrazioni. Ho avuto un’infanzia difficilissima e dolorosa, ma poi la vita mi ha spinto ad andare avanti, senza capitomboli. Il mio mentore è un grande filosofo della Grecia più antica, Eraclito. Disse “Il destino dell’uomo è il suo carattere”. Lapidario e per me perfetto. Da ottimista sono convinto che il mondo, stimolato dai più giovani, abbandonerà le guerre (pratica assai obsoleta) e si avvierà verso una complessa ma pacifica convivenza. Mi ha colpito l’enfasi che in Italia, in Francia, e nel mio amato Vicino Oriente, è stata data al vertice di giovedì tra due leader mediterranei e diversissimi tra di loro: il presidente del Consiglio Draghi e il Presidente francese Macron. Concreto, coraggioso e realista il primo, scaltro il secondo. Italia e Francia sono Paesi fratelli ma non si sono mai davvero amati. Eppure ci sono importanti novità. Il mondo sta cambiando radicalmente. L’America è più debole e cerca sponde dappertutto. L’Europa sta acquisendo una nuova e propria identità e si sta rafforzando, proprio ora che la Germania sta per perdere la timoniera Angela Merkel. Il Presidente Americano Joe Biden sta cercando di dettare nuove regole. È uscito dalla trappola afghana e ora cerca le coordinate del nuovo mondo. Ecco perché una delle palestre sarà il mio Medio Oriente, pur nel mare delle diversità. Pensate che Italia e Francia divergono quasi radicalmente sulla politica estera. Parigi è vicina all’egiziano Al Sisi, massacratore di Giulio Regeni e torturatore di Zaki, che noi consideriamo quasi italiano. Parigi non è mai stata dura con il presidente turco Erdogan, che Draghi ha giustamente definito, senza se e senza ma, un dittatore. Nell’Estremo Oriente Parigi ha quasi pretese aggressive, che noi rifiutiamo. Eppure Draghi e Macron hanno deciso di collaborare fattivamente. Il vertice di Roma è stato il passo più importante per stringere un’amicizia fatta di interessi e di necessità reciproche. Draghi può, con l’aiuto di Biden, rafforzare la necessità di un’apertura con la Russia di Vladimir Putin, che è comunque un Paese che deve guardare al futuro e posizionarsi con il prestigio del suo peso e della sua storia. E anche guardare più attentamente alla Cina dell’incredibile capital-comunismo, che un giorno qualcuno ci dovrà spiegare. Ma è nel Vicino Oriente che si comincerà il percorso verso il nuovo mondo. Per sedare o ammorbidire conflitti cementati nei secoli. E nell’Africa, che ha bisogno dell’aiuto di tutti per sconfiggere la povertà e le malattie. Draghi e Macron, difficoltà a parte, hanno cominciato un cammino che il presidente Mattarella e Papa Francesco (pontefice dei credenti ma anche dei non credenti, come spiegai una volta a un collega americano) sostengono con determinazione, vigore e coraggio. Crediamoci. Siria, il ritorno di Assad: l’Interpol reintegra il regime di Domenico Quirico La Stampa, 29 novembre 2021 Così il dittatore rientra nella società internazionale e aumenta il controllo su oppositori e dissidenti. Mi chiama un amico siriano. Uno di quelli che definiamo fortunati: “i siriani della Merkel” che hanno ottenuto asilo in Germania, hanno approfittato del breve periodo in cui questi sventurati relitti della guerra siriana divennero popolari, ebbero diritto a un lampo della nostra compassione grazie a un bambino annegato nel mare greco. Di cui oggi facciamo perfino fatica a ricordare il nome. So di cosa mi vuol parlare. Ho pensato a lui quando ho letto la notizia. Che l’Interpol, l’organizzazione internazionale delle polizie, ha reintegrato nei suoi meccanismi di scambio delle informazioni il regime di Bashar Assad. Dal 2012, pur non essendo stata formalmente espulsa, la polizia di uno Stato criminale del nostro tempo era stata di fatto scollegata. Eppure l’amico siriano dapprima non sembra volere parlare di questo trionfo del tiranno che dopo dieci anni sembra ormai onnipotente signore delle rovine e di un cimitero con mezzo milione di morti. Con i siriani ho imparato che la sofferenza diretta e brutale non desidera parole, almeno nel momento in cui viene provata ed è ancora viva. La sofferenza aperta è timida, riservata e silenziosa. Siamo noi che proviamo compassione, che viviamo la sofferenza in via indiretta, che abbiamo bisogno di esprimerci a parole. “Sai che più passa il tempo e più mi sembra di diventare pazzo? Delle volte la sera quando scende l’oscurità mi viene voglia di salire sul balcone come facevamo nel 2011 ad Aleppo e lanciare come sfida il “takbir”, cominciare a gridare Allah akbar! E poi sentire i soldati che per sfogare la loro rabbia si mettevano a sparare. Mi fermo in tempo, ma un giorno non ci riuscirò e griderò fino a quando i miei bravi vicini tedeschi accenderanno le luci e spaventatissimi, pensando a qualche terrorista entrato nel palazzo, chiameranno la polizia... Sì, forse sono già pazzo”. Solo allora parliamo di Bashar riammesso, con i suoi sgherri e torturatori, nel parlamento mondiale dei poliziotti, sotto il simbolo della bilancia della giustizia in perfetto equilibrio. E immaginiamo come i “mukhabarat” delle innumerevoli polizie segrete siriane, gli sgherri del padre e del figlio, stiano festeggiando nelle loro caserme con annessa lugubre sala per gli interrogatori l’ennesimo atto di viltà ipocrita del mondo. E se la ridono delle assicurazioni della organizzazione che ha sede a Lione (la Francia, il Paese dei diritti umani...) perché il personale siriano “ha seguito dei corsi di addestramento” e comunque l’utilizzo dei dossier dovrà “seguire lo spirito della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”. Gli sbirri addestrati da decenni di esercizio della violenza legalizzata staranno già accumulando pile di pratiche interessanti, immaginando come usare le “notizie rosse”, gli avvisi di ricerca emessi dagli Stati membri dell’Interpol, per chiedere la estradizione dei “terroristi”, ovvero gli oppositori fuggiti; o per ostacolare i loro sforzi di ottenere lo status di rifugiati. Ci sarà molto lavoro nei prossimi anni, adesso che sono diventati interlocutori accettabili, colleghi delle polizie democratiche. Ogni volta mi stupisco della precisione e dei dettagli con cui rievoca, uno a uno, i nomi, l’età e le azioni degli attivisti suoi compagni che i poliziotti di Bashar hanno torturato e ucciso, racconta con tono risoluto le vicende del la morte di ciascuno. Vite brevi come un lampo. Delitti perfetti in cui gli assassini ora trionfano. Improvvisati e maldestri esploratori del ventunesimo secolo pensavamo di aver visto già tutto. Invece siamo solo all’inizio. Qualche mormorio a mezza voce, niente di rilevante, ha accolto la elezione alla guida di Interpol di un generale emiratino che voci multiple e attendibili accusano di torturare dissidenti e prigionieri. La riabilitazione poliziesca di Bashar, che è senza dubbio la riprova del peso che Emirati e Cina hanno ormai conquistato in questa delicatissima organizzazione, è passata invece sotto silenzio. Nessuno finora ha intonato l’eterna, inutile solfa: come è possibile nel terzo millennio che accadano ancora cose simili? Consumiamo la notizia e la gettiamo nella spazzatura. Di nuovo intrappolati Nel 2011 il senso della rivoluzione siriana era stato aver infranto il muro della paura. I genitori dei ragazzi scesi in strada erano assoggettati da decenni con la paura. Loro erano andati oltre. Dopo dieci anni sono di nuovo intrappolati in quella morsa di ferro, perfino coloro che pensavano con la fuga di essersi sottratti a quell’infernale subbuglio. L’intrattabile Bashar, unendo astuzia geopolitica e barili bomba, ha vinto, controlla il settanta per cento del territorio siriano, assedia, paziente, Idlib, ultima enclave ribelle e jihadista, ha cacciato via alcuni milioni di potenziali oppositori, quelli che non ha ucciso, ha superato il pericolo del cedimento interno, del finale alla Macbeth. E ora lavora per rientrare a testa alta nella buona società internazionale come se nulla fosse successo. Nessuno gli ha tolto il seggio alle Nazioni Unite. Ha compreso tutto: trionfa sempre l’omertà di combriccole semplicemente utilitarie, dei grandi assassini resta riverita memoria, delle vittime non ci importa nulla. Il loro anacronismo è dimostrato dal loro costante insuccesso. Per dimostrare con inoppugnabile certezza che niente è cambiato e verificare le reazioni ha organizzato una rielezione per un quarto mandato e altri sette anni di potere. Copione scritto da lui, intangibile: due candidati finti e i sostenitori che andavano in giro tra le rovine delle città che lui ha metodicamente distrutto con i cartelli: scegliamo l’avvenire, scegliamo Bashar. Nell’elezione precedente si era accontentato dell’88 per cento, stavolta ha voluto il novanta. Come a dire: vedete? La Siria è mia. Il Paese è in agonia strangolato dalle sanzioni, dalla mancanza di carburante mentre incombe l’inverno e dilagano affarismo e corruzione. I pescecani del clan Assad, passata la paura, hanno ripreso allegramente i vecchi metodi: rubare. È cambiato il capo mafia: ora dirige i traffici e il contrabbando Asma, una prima donna glamour e senza scrupoli. Tutto è in famiglia. Dal mondo sunnita gli arrivano segnali sempre più espliciti di distensione. I Paesi del Golfo gli fanno la corte perché vogliono che allenti i legami con i diavoli di Teheran, che per aiutarlo si sono svenati in questi dieci anni senza ricavare grandi frutti. Una delegazione saudita è venuta a Damasco in visita ufficiale per “parlare di sicurezza”. I ricchi emiri fanno intravedere aiuti finanziari indispensabili per sopravvivere e pressioni su questa America atona, incolore perché lo riabiliti dal ruolo di canaglia. Bashar ci conosce, sa che basta attendere. Afghanistan, la grande fame a Kabul: a Herat i bambini muoiono denutriti di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 29 novembre 2021 Le immagini dalla clinica di Herat di Medici senza frontiere mostrano bambini di un chilo e mezzo, devastati da polmoniti e malattie da denutrizione. “Le mamme non hanno latte, muore un bambino al giorno”. I volti dei neonati che muoiono di fame sembrano quelli dei vecchi. Pelle rugosa, occhi semichiusi, pochi capelli sul cranio ormai ben visibile. Una volta le loro foto venivano dalle carestie africane. Le più recenti però sono quelle dei bambini afghani, piccole vittime innocenti del collasso del loro Paese dopo il ritiro della coalizione a guida americana lo scorso agosto e il ritorno del regime talebano. Guardiamo quelle che ci giungono dalla clinica di Herat, dove opera l’organizzazione umanitaria Medici Senza Frontiere. C’è il piccolo Jawad, nato un mese e mezzo fa e ricoverato già da nove giorni. Pesa solo un chilo e mezzo, talmente debole che polmonite e setticemia lo stanno devastando. Nel letto vicino si trova Farzana, 8 mesi, pesa poco più di tre chili, la mamma è troppo malnutrita per poterla allattare. Il padre faceva il macellaio, ma a causa della crisi economica la gente non compra più carne, così mancano i soldi per acquistare il latte in polvere per la figlia. Poco lontano ecco Imran, tre anni, un’altra vittima della mancanza di cibo. È affetto da gravi disfunzioni neurologiche, gli mancano le energie per camminare. “La fame aggrava ogni patologia. Ci sono al momento 75 piccoli ricoverati le cui malattie dipendono sostanzialmente da insufficienza di nutrimento. Le mamme non hanno latte e i bambini diventano troppo deboli per poterlo succhiare. Ne muore almeno uno al giorno”, spiegano i medici. Avviene ad Herat, dove sino alla fine dello scorso giugno era acquartierato il contingente militare italiano. “La situazione è disperata e peggiora di giorno in giorno”, ci segnalano i collaboratori locali. In effetti, però, l’intero Afghanistan è precipitato in una crisi economica, sanitaria e umanitaria gravissima. Mancano contanti, le banche sono chiuse, non vengono quasi più pagati gli stipendi da agosto, chi può scappa all’estero (in genere i professionisti, tra cui medici, ingegneri, professori), la popolazione non ha soldi per comprare da mangiare e combustibile per riscaldarsi, l’energia elettrica arriva a singhiozzo. In poche parole: il collasso. A farne le spese, come quasi sempre nelle situazioni più gravi, sono i bambini, i più piccoli. Vittime impotenti, che non hanno scelto nulla, non sanno cosa siano i talebani, gli hazara, i pashtun, gli uzbeki, i tagiki o i soldati stranieri, ma restano semplicemente alla mercé del fato. Un recente rapporto-appello delle Nazioni Unite denuncia in toni allarmati che lo scenario afghano sta diventando “uno dei peggiori al mondo”. Su una popolazione che probabilmente tocca i 35 milioni (mancano censimenti precisi), almeno 22,8 milioni sono “a rischio malnutrizione”. A detta del World Food Program: “Circa 3,2 milioni di bambini sotto i 5 anni d’età soffrono già di malnutrizione acuta e un milione potrebbe presto perdere la vita”. Ai primi di ottobre i mercati popolari di Kabul erano già stracolmi di mobili e casalinghi che la gente svendeva pur di raccogliere i soldi per comprare cibo. Ora però l’organizzazione umanitaria Save the Children denuncia la crescita del “mercato dei bambini”. Sono registrati casi di minori venduti per 500 dollari. In passato la tratta degli innocenti andava ad arricchire i lugubri guadagni dei trafficanti di organi. Particolarmente richieste sono le bambine, date in spose ancora prima della pubertà. La Reuters segnala la vicenda di una famiglia che ha venduto le due figlie di meno di 10 anni per 3.000 dollari. Un altro motivo di allarme sono i parti in casa. Specie nelle zone rurali, scarseggia il carburante anche per portare le partorienti alle cliniche, dove ormai mancano medicinali e personale. Una situazione destinata a fare salire i decessi al momento del parto, sia delle donne che dei figli. Il governo talebano prende le distanze, chiede la fine dell’embargo internazionale, l’accesso agli oltre 9 miliardi di dollari dei fondi dello Stato chiusi nelle banche americane e il ritorno degli aiuti umanitari dall’estero. “Lavoriamo giorno e notte per cercare di risolvere i problemi. Presto arriveranno gli stipendi degli impiegati statali”, ha reso noto tre giorni fa il premier talebano, Mohammed Hassan Akhund. Ma l’impasse resta palese. La comunità internazionale non ha ancora trovato il modo di inviare aiuti senza legittimare i talebani e rafforzare indirettamente il loro regime. Occorre si trovi presto un sistema: i bambini continuano a morire. Sparare agli occhi: la repressione delle proteste in Colombia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 novembre 2021 In un rapporto pubblicato il 26 novembre, Amnesty International, Tembolores e il Programma di azione per l’uguaglianza e l’inclusione sociale (Paiis) dell’Università delle Ande hanno denunciato che la violenza e la repressione delle forze di sicurezza colombiane durante lo Sciopero nazionale hanno causato traumi oculari a oltre 100 manifestanti. Il rapporto documenta 12 casi in cui l’azione violenta delle forze di sicurezza, in particolare della Squadra mobile antisommossa (Esmad) ha causato traumi oculari irreversibili. Quattro episodi riguardano gli anni precedenti, mentre otto si sono verificati durante lo Sciopero nazionale del 2021 nelle città di Bogotá, Popayán, Florencia, Medellín e Manizales. Il Corpo di verificatori digitali di Amnesty International ha analizzato oltre 300 filmati sull’operato repressivo dell’Esmad tra il 28 aprile e il 20 ottobre 2021, dai quali ha tratto la conclusione che le forze di sicurezza hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani ai danni dei manifestanti ferendoli agli occhi nel contesto di un uso sproporzionato di armi non letali. Il rapporto illustra le storie delle vittime dei traumi oculari e descrive i molteplici ostacoli che queste persone hanno dovuto affrontare per ricevere cure mediche specialistiche e assistenza psicosociale. Per molte di loro è stato poi sempre più difficile trovare un lavoro dignitoso o proseguire nei programmi scolastici in condizioni di uguaglianza. Dalle testimonianze sono emersi dettagli che hanno portato a concludere che le ferite non sono state inferte in modo accidentale ma nel contesto di attacchi mirati contro chi esercitava il diritto di manifestazione pacifica. Ancora una volta, l’Esmad ha replicato l’uso eccessivo e sproporzionato della forza. Una delle storie più emblematiche descritte nel rapporto è quella di Leidy Cadena, una studentessa di Scienze politiche di Bogotá che il 28 aprile stava prendendo parte a una manifestazione insieme al suo fidanzato e ad alcuni amici. “Quando gli agenti dell’Esmad si sono avvicinati a noi con fare aggressivo, io ho urlato ‘Andiamo via!’ ma un attimo dopo ho sentito un forte calore sul viso. Non riuscivo più a vedere da entrambi gli occhi”, ha raccontato Leidy. Amnesty International ha analizzato le immagini in cui si vedono cinque agenti dell’Esmad avanzare con gli scudi, due di loro impugnando materiali antisommossa, tra cui armi cinetiche. Leidy si copre un occhio da cui perde sangue, gli amici chiedono aiuto ma gli agenti dell’Esmad ignorano la richiesta. Leidy ha perso un occhio. È certa che si sia trattato di un atto di violenza di genere poiché i suoi amici erano disarmati e sin dall’inizio della manifestazione aveva notato varie aggressioni contro le donne. Dopo aver denunciato l’accaduto alla Procura generale, Leidy è stata interrogata almeno dieci volte e questo ha prodotto un effetto-vittimizzazione. Ha anche ricevuto minacce attraverso i social media e il 16 ottobre 2021 ha rinvenuto polvere da sparo sotto la porta di casa. Insieme alla madre e al fidanzato, ha dovuto lasciare la Colombia. Sulla base di quanto emerso nel rapporto, Amnesty International, Temblores e Paiis hanno sollecitato le autorità colombiane a dare seguito alle raccomandazioni della Commissione interamericana dei diritti umani che, dopo aver visitato il paese nel giugno 2021, aveva chiesto l’adozione di regole e protocolli rigidi in materia di controllo dell’ordine pubblico. Al fine di prevenire l’uso eccessivo della forza durante le proteste, le autorità colombiane dovranno intraprendere una riforma strutturale della Polizia nazionale, in particolare dell’Esmad, per assicurare approcci non militarizzati nei confronti delle proteste, meccanismi indipendenti ed efficaci di monitoraggio e protocolli d’investigazione per quanto riguarda le indagini interne. È infine fondamentale che vi siano programmi di sostegno alle persone ferite agli occhi e colpite dalla violenza di genere, che comprendano prevenzione, cure mediche, riabilitazione e assistenza psicosociale.