Il carcere a vita e il profilo latente d’incostituzionalità di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2021 È tempo di dar corso a quanto afferma la Costituzione sulla funzione rieducativa della pena. Ci sono argomenti che nel dibattito pubblico hanno caratteristiche carsiche. Per la maggior parte del tempo restano sotto traccia, suscitano scarso interesse se non in qualche decina di studiosi e di attivisti. Ogni tanto vengono alla luce e quasi sempre quando ciò accade è per fiancheggiare bassa propaganda politica. Tra questi vi è certamente tutto quanto ruota intorno al carcere, dall’uso della detenzione come principale pena per i comportamenti devianti, alla sua concreta quantificazione rispetto a reati ritenuti a torto o a ragione l’emergenza del momento, fino ai problemi annosi di sovraffollamento carcerario che incidono e non poco sul quantum di sofferenza inflitto. La questione poi dell’ergastolo viene utilizzata con un tale tasso di retorica ed emotività da diventare irritante alle orecchie di chi tentala strada della razionalità, prima ancora che della cultura giuridica, per comprendere e valutare le complessità del mondo e della vita. Basti ricordare come leader politici di primo piano abbiano usato espressioni figlie del più retrivo atteggiamento in materia criminale, come “buttare la chiave” o “far marcire in galera”. E invece il livello della civiltà di un Paese si misura anche da come in esso sono trattati i più deboli, tra i quali vi sono senza dubbio coloro la cui libertà personale è sospesa a tempo indeterminato per ordine dello Stato. Nel libro “Contro gli ergastoli”, a cura di Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto, di ergastolo anzi di ergastoli si parla sotto molti punti di vista. Giuridico, naturalmente, ma anche storico, filosofico, statistico, comparatistico. Insomma, chi vuole avere una panoramica approfondita sul tema ha in questo agile volume un perfetto manuale. Da uno dei saggi introduttivi si scopre che il discorso politico sull’abolizione dell’ergastolo non è sempre stato così sguaiato e approssimativo e che, addirittura, nel 1998 una delle Camere aveva approvato un simile “passo”, dopo una raffinata discussione, senza tuttavia giungere alla seconda indispensabile approvazione. Poi, nell’ultimo ventennio, un Parlamento ormai orfano di molte tra le migliori voci sul tema, si è fatto silente, mentre aumentava progressivamente il numero degli ergastolani, sino a essere oggi quasi duemila. È appassionante - ma insieme mette malinconia per lo stato attuale del dibattito pubblico - leggere come all’inizio degli anni Settanta la stessa esistenza della pena perpetua veniva messa in discussione sulla base non solo di impostazioni ideologiche, ma di dati e della loro interpretazione. Così, si discuteva ricordando come, mentre nei primi anni del Novecento gli omicidi erano oltre 4mila l’anno, a metà del secolo si erano ridotti fino a 2mila. Avendo la pena più severa certamente anche una funzione intimidatoria, col diminuire del delitto più grave sembrava non sbagliato escluderla dall’orizzonte di quelle applicabili. Ora, con 315 omicidi nel 2019 e 271 nel 2020, il legislatore appare quasi paralizzato di fronte all’obbligo - dopo le ultime pronunce della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo - di rivedere profondamente almeno l’ergastolo “ostativo”, ovvero quello che impedisce l’accesso ai benefici per chi non collabora. Ma vi è di più: è l’ergastolo in sé, il “fine pena 9999”, come con macabra ironia pretendevano alcuni sistemi di archiviazione dei dati, che ha un profilo latente di incostituzionalità. Esso può avere cittadinanza nel nostro sistema - come ricorda Pugiotto - solo perché il suo significato ultimo di carcerazione a vita è stato in sostanza eliminato. Oggi nessun giudice nell’irrogare la pena massima può dire al condannato “tu sei, ormai, un uomo perduto”, con le parole di Carnelutti. Questa constatazione - insieme alla consapevolezza di vivere in uno dei tempi più sicuri e con meno reati gravi - conduce a una conclusione condivisa dai molti autori del libro: questo è il tempo di condurre alle sue logiche conseguenze quanto afferma la Costituzione sulla funzione rieducativa della pena e, dunque, cancellare quella (una volta) interminabile dal Codice. Eppure, dal punto di vista culturale, purtroppo quello decisivo, siamo arretrati e questa raccolta di saggi lo mostra impietosamente. Il 30 novembre 1786 Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana, fu il primo ad abolire la pena di morte. Allora l’Italia era all’avanguardia su questi temi e, facendo un balzo in avanti di secoli, pure i nostri Costituenti produssero una Carta straordinariamente avanzata sui delitti e sulle pene. Ora, nel periodo storico in cui sia il tasso di criminalità autorizzerebbe scelte coraggiose, viviamo anni piuttosto bui. Eppure, ci sarebbero le condizioni più adatte per un passaggio epocale: l’abolizione degli ergastoli nel cammino verso serie alternative al carcere come pena. Libri come questo arano e concimano il terreno, in attesa che il vento della Storia porti il seme. Il dramma droga nelle carceri. Da Genova la ministra Dadone rilancia la lezione di don Gallo di Erica Manna La Repubblica, 28 novembre 2021 Un detenuto su tre è stato arrestato per spaccio, il 26% ne fa uso, l’attacco di Mauro Palma contro “gli eccessi” delle istituzioni. Un detenuto su tre si trova in carcere per spaccio. E quasi altrettanti - il 26 per cento - soffrono di dipendenza da stupefacenti. Le carceri italiane scoppiano: eppure, ci sono 271 persone dietro le sbarre condannate a una pena inferiore a un anno e 1.603 da uno a tre anni, quando - calcola l’associazione Antigone - lo Stato risparmierebbe 300 milioni di euro all’anno se ricorresse alle misure alternative che sono previste, ma non vengono messe in atto a sufficienza. Il fallimento del Testo unico sulle droghe, la legge 309 del 1990, si delinea chiaro nei numeri della sessione dedicata a “La realtà penale e penitenziaria della dipendenza: nuove proposte su misure alternative, riduzione del danno e sanzioni”, ieri alla Conferenza nazionale sulle dipendenze. “Oltre le fragilità” è il titolo scelto dalla ministra Fabiana Dadone, ma “queste fragilità hanno trovato eccessi di robustezza nella risposta delle istituzioni segregative - è il duro attacco di Mauro Palma, garante nazionale dei diritti dei detenuti - in questi anni il comportamento non omologato si è definito attraverso la penalità, e questo va a colpire anche dopo il carcere: incide sullo stigma”. “La vita del tossico in cella è doppiamente sofferente - incalza Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone - dobbiamo recuperare la complessità, che non ci può far dire che Stefano Cucchi è morto perché drogato: quella è una semplificazione. Come è una semplificazione parlare di droga, quando invece ci sono droghe diverse ed esistono consumatori e dipendenti. Bisogna cambiare la legge 309, che è incentrata su un meccanismo punitivo verso tutto ciò che non ci piace. Spero che con il referendum sulla cannabis si possa aprire un dialogo sulla questione della libertà di massa. Anche perché - attacca Gonnella - non mi pare che i narcotrafficanti abbiano trovato svantaggi dalla situazione legislativa attuale”. Evoca don Andrea Gallo, la ministra alle Politiche giovanili Fabiana Dadone nell’aprire la conferenza nazionale ieri mattina, un appuntamento latitante da dodici anni (“un ritardo criminale”, attacca don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, presente ai tavoli). Dadone promette di “pensare in grande”, citando il prete di strada, e si impegna a far partire da Genova la stesura di un piano nazionale di azione contro le dipendenze. Sullo sfondo ci sono i dati di una crescita esponenziale nel consumo di sostanze, snocciolati da Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia: “Nel 2020 sono state sequestrate 58 tonnellate di stupefacenti e si è stabilito il record assoluto di sequestro di cocaina: 13 tonnellate”. Ma è proprio lì, nelle carceri, che si misura il fallimento dell’approccio punitivo della legge esistente e il primo, cruciale banco di prova per un cambio di passo. “Il carcere è l’istituzione che incontra più persone con problemi di dipendenze, ma non è lo strumento più efficace - snocciola Leopoldo Grosso, coordinatore del tavolo tecnico “Giustizia penale, misure alternative e prestazioni sanitarie penitenziarie nell’ambito della dipendenza da sostanze psicoattive - è necessario rovesciare l’impostazione concettuale della legge 309: dalla predominanza dell’intervento penale a quello di cura. E dunque, tra le nostre proposte c’è quella di sottrarre all’azione penale la coltivazione della cannabis per uso personale e la cessione senza finalità di lucro. E poi, escludere la previsione dell’arresto obbligatorio, eliminare il criterio tabellare del superamento delle soglie per uso personale”. Il tema del ricorso alle misure alternative è un nodo cruciale: “Non può consistere solo nell’andare due volte a settimana al Sert a fare l’esame delle urine - spiega Grosso - il percorso della concessione deve essere meno complesso, e deve essere possibile accedervi anche per i migranti sans papier e chi non ha residenza: i più penalizzati in questo senso”. Ancora: la riduzione del danno. “La proposta - incalza Grosso - è quella di includere queste azioni come atti di natura sanitaria nei regolamenti di istituto: un trattamento integrato e continuo”. “Il sociale non è un costo ma un investimento - si accalora don Luigi Ciotti - una società che non crede nei giovani divora sé stessa”. “Mai più prigioni, sono inumane” di Michele Nardi Il Riformista, 28 novembre 2021 L’appello a Mattarella di un ex magistrato, che scrive dal carcere. “Signor Presidente, sono e mi chiamo Michele Nardi, nato a Pavia nel 1966 magistrato da circa 30 anni, ma le scrivo come detenuto del carcere di Matera, in stato di custodia cautelare da 15 mesi. Ho sempre servito il mio Paese e la giustizia al meglio delle mie capacità. Ma è bastata l’accusa di concorso morale in corruzione in atti giudiziari, fondata sulle sole accuse di un soggetto condannato per usura e privo di qualsiasi credibilità, per essere trascinato dalla Procura di Lecce in questo inferno. Non avendo ammesso le mie colpe - che non ho - mi hanno lasciato in carcere, mentre coloro che hanno posto in essere gli atti giudiziari oggetto di scambio corruttivo e lo stesso corruttore, sono liberi o ai domiciliari da più di un anno per aver ammesso, non potendo fare altro, le proprie responsabilità. Un metodo antico di torturare gli imputati ed ottenere confessioni! Mentre sono relegato in carcere e processato, il presunto corruttore non è stato nemmeno rinviato a giudizio! Nonostante la Suprema Corte di Cassazione abbia annullato quattro mesi fa la mia misura custodiale per carenza di esigenze cautelari, la misura carceraria è stata riconfermata dal Tribunale della Libertà. Ma non Le scrivo, per tediarla con le mie vicende giudiziarie. Le posso solo dire che sono pronto a giurare sulla mia vita e dinanzi a Dio di essere innocente. Mi permetto di scriverle perché provo l’esigenza di esprimerle la mia delusione e quella dei tanti rinchiusi con me in questo girone infernale. Ieri sera abbiano seguito in silenzio e speranza il suo messaggio di auguri. La sua formazione cristiana, che condivido, avrebbe dovuto portarla a spendere una parola, in queste ore difficili, per la condizione dei detenuti. In queste settimane lei ha avuto bellissime parole di incoraggiamento per tutti ma non l’ho mai sentita parlare delle carceri, dei detenuti, degli ultimi della società, quali noi siamo. E il suo silenzio è ancora più assordante visto che il ministro della Giustizia, che lei ha riconfermato in ben due governi, alla prima rivolta carceraria, dopo aver dispensato mediaticamente minacce di ritorsioni e proclami di fermezza, è sparito dai radar della comunicazione. Il decreto legge che avrebbe dovuto alleggerire la presenza dei detenuti nelle carceri è stato, come prevedibile da una semplice lettura del testo, un autentico flop. Lo stesso Csm lo aveva sottolineato spiegandone la assoluta inadeguatezza. Di fatto quel decreto ha ristretto le maglie già strette della normativa preesistente. Altro che decreto “svuota-carceri”. Ma lei, signor Presidente, ha promulgato quel decreto legge. A quella disperata rivolta di schiavi non è stata data alcuna risposta. Nessuno ha nemmeno cercato di capire le ragioni di quelle rivolte. Lei sa come sono state sedate le rivolte nelle carceri? Lei sa che ancora adesso esistono, nella civilissima Italia, le celle di punizione? Sa cos’è una cella di punizione? L’ha mai visitata? Riesce a comprendere e ad immaginare come si possa vivere in uno stato costante di sovraffollamento, nella scarsa igiene, in spazi angusti anche per un animale, senza che sia mai stato distribuito alla popolazione carceraria alcun presidio sanitario minimo come mascherine, gel igienizzanti, guanti? E tutto questo mentre in televisione non fanno altro che bombardarci con messaggi come “distanza sociale”, igiene, utilizzo di mascherine! Tutte cose che a noi sono negate. Delle mascherine, preannunciate dal ministro della Giustizia in Parlamento all’indomani delle rivolte carcerarie, non ne abbiamo vista nemmeno una! E immagina quale possa essere l’angoscia che, in questo luogo infernale, si possa provare per la sorte dei propri familiari che ormai non vediamo da due mesi e che possiamo sentire, per telefono e per pochi minuti, uno o due volte alla settimana? Mia moglie, da cui sfortunatamente sono separato, è una degli eroi che fronteggia il covid-19, un medico gettato nel fuoco della prima linea. E sulle sue spalle ci sono due figli da incoraggiare e portare avanti, ancora storditi dalla carcerazione del padre, colpiti dall’isolamento sociale e dai disprezzo che una immonda campagna stampa nei miei confronti, come nei confronti ormai di chiunque venga raggiunto anche solo dal sospetto ha riversato su tutti i miei familiari. Sui social i miei figli vengono minacciati di morte, di essere bruciati vivi in casa per il solo fatto di essere miei figli. Non vedo e non sento mia madre dal momento della mia carcerazione. Forse non la rivedrò più viva. Le sue precarie condizioni di salute non le consentono di venirmi a trovare e telefonarle significherebbe spendere quei pochi minuti di telefono che ci vengono concessi settimanalmente e sottrarli ai miei figli, così provati dalla mia assenza e dalla mia rovina. Nessuno di voi, lei, signor Presidente e il ministro della Giustizia, potete comprendere cosa significhi vivere in un carcere, mescolarsi a quei corpi disumanizzati che la giustizia ha deciso di eliminare dal consesso sociale, a volte a ragione ma tante volte a torto, precipitati nella Geenna dove “è solo dolore e stridor di denti”, nel fosso più profondo dove anche la tua voce, le tue grida di sofferenza, non arrivano all’esterno. Nelle celle delle carceri ci si ammala, si soffre e si muore, ma nessuno parla di noi a parte il Santo Pontefice. Occorre una altissima caratura morale, come quella del Pontefice, per chinarsi verso il basso e guardare nella gola infernale dello scarto sociale per occuparsi degli ultimi di questa umanità dolente. Per questo mi sarei aspettato dal lei, signor Presidente, un intervento deciso per indirizzare il governo ad adottare serie misure di sfoltimento delle carceri, l’adozione automatica e su larga scala di misure alternative alla detenzione, come fatto persino in Paesi che consideriamo meno civili di noi, al fine di allentare il pericolo di contagio e ridare speranza a questa umanità reietta. Nessuno di voi conosce lo stato delle carceri italiane, vecchie, luride, prive di manutenzione. Nessuno di voi ha mangiato il disgustoso rancio del carcere. Nessuno di voi conosce l’umiliazione di essere spiato e controllato anche quando sei in bagno e il dover implorare per esercitare i propri piccoli diritti, come farsi visitare se stai male o poter inviare una istanza alla Autorità giudiziaria o ricevere la visita di un avvocato. Se non fosse per la pietas dei nostri compagni di sventura e del personale penitenziario di ogni ordine e grado, anche loro dannati con noi in questo girone dantesco, non saremmo in grado di terminare la giornata. E questa situazione già cosi intollerabile per un Paese che si ritiene civile, è aggravata dalla situazione dalla pandemia mondiale di covid-19. Come pensa che ci si possa sentire a vedere gli agenti di polizia dotati di mascherine e guanti quando a noi non viene fornito nulla? È l’ennesima sottolineatura che siamo solo spazzatura da nascondere sotto il tappeto. Ringrazio Dio, mi creda, per avermi fatto vivere questa tragica esperienza. Per trent’anni ho spedito centinaia di persone in prigione l’ho fatto con coscienza e cercando di essere giusto, ma non potevo immaginare l’inferno a cui li condannavo perché il carcere per conoscerlo, occorre viverlo, non andarci in visita passando dagli uffici della direzione, dove tutto è tranquillo e pulito, ma immergersi negli odori nauseabondi delle celle, nella disperazione dei compagni di prigionia, nella loro rabbiosa prepotenza, nella ristrettezza degli spazi che rende difficile qualsiasi movimento. Si impara, stando qui, che le carceri sono piene di persone che dovrebbero stare piuttosto in un ospedale psichiatrico o ricoverati in reparti ospedalieri o, semplicemente, dovrebbero essere liberi perché innocenti o perché, anche se colpevoli, il carcere assomiglia ad una vendetta consumata nei loro confronti e non ad uno strumento di rieducazione come prescritto dalla Costituzione. Disperati spinti al margine della società e delle possibilità esistenziali, finiti inevitabilmente nelle maglie della giustizia, mischiati a criminali veri e nuovamente vittime, anche qui in carcere. Ci sono malati di cancro allo stato terminale rispetto ai quali il giudice competente non ha avuto la compassione di adottare provvedimenti alternativi e poveracci che devono scontare dieci anni per una serie di piccoli furti di natura alimentare. Ho conosciuto ragazzi di vent’anni che hanno tentato dì impiccarsi ed altri guardarti spauriti, gettare i loro occhi nei tuoi occhi, ancora increduli dell’inverno esistenziale che avvolgeva la loro sorte, come per cercare, nel fondo della tua anima un briciolo di compassione, di comprensione, per sentirsi ancora vivi, riconosciuti, degni di un futuro, di sogni e di speranze. Il carcere invece, aumenta solo la rabbia e la collera, la sensazione della esclusione e del biasimo collettivo e spinge ancora di più a condotte antisociali. Nessuno uscirà di qui migliorato, rieducato, risocializzato. Il carcere è una istituzione arcaica, inutile, dannosa, costosa, dolorosa, brutale, utile solo per neutralizzare temporaneamente i violenti. Alla luce dell’attuale livello tecnologico come è possibile non prevedere gli arresti domiciliari con controllo da remoto, la forma ordinaria di custodia e detenzione? Nello sprofondo di questo inferno, dove sei fortunato se stai in una cella con un bagno in cui riesci a sederti, o farti una doccia con un minimo di privacy, vi sono uomini che marciscono sospesi nel tempo fermo e sospeso del carcere e che stanno soffrendo più di quanto dovrebbero o meriterebbero, per via della attuale situazione e, fra loro, tanti innocenti. Già, perché nelle carceri, spesso si dimentica questo, ci sono anche degli innocenti in attesa di giudizio, ma le stimmate della galera imprimono un marchio di colpa sulla fronte di chiunque varchi il cancello che ci separa dagli altri, da quelli che giudicano e si sentono buoni cittadini. Ma un imputato assolto, dopo anni di sofferenza, non è un colpevole che è riuscito furbamente o fortunosamente a scamparsela, come qualcuno, che siede dove non meriterebbe, ha pubblicamente affermato, ma una sconfitta per l’intero consesso sociale, per il sistema giudiziario, e non perché non sia riuscito a condannarlo, ma perché ha inflitto sofferenza ad un innocente. Il diritto penale, il processo, anche negli attuali ordinamenti civili, mantiene una carica di violenza e brutalità difficile da giustificare sul piano morale. Questa lezione fondamentale di garantismo sembra del tutto dimenticata dalla classe politica, di governo e di opposizione, oltre che, purtroppo, anche da gran parte della magistratura, inevitabile figlia di questa società incattivita e impaurita da continui e ingiustificati allarmismi. Lei, signor Presidente, rischia di diventare, inconsapevolmente, il volto credibile e perbene della sanguinaria ondata giustizialista che ha travolto le radici garantiste della nostra cultura giuridica. Ma con la sua storia personale e familiare, la sua cultura e la formazione giuridica, la profonda conoscenza dei diritti fondamentali dell’uomo “riconosciuti” dalla Costituzione repubblicana, avrebbe dovuto indicare la strada, essere di ispirazione, richiamare tutti al rispetto degli alti principi di civiltà giuridica che l’Italia - il nostro Paese di cui essere orgogliosi e fieri testimoni - sin dai tempi di Cesare Beccaria ha insegnato al mondo intero. Ci saremmo aspettati una sua parola, un piccolo pensiero anche per noi. Forse avremmo evitato rivolte e manganellate, di sicuro saremmo stati risparmiati dall’amarezza e dalla delusione e, con noi, le nostre famiglie provate dal nostro dolore, dalla nostra mancanza. Forse non avremmo ricevuto niente di concreto ma almeno avremmo avuto l’illusione di avere ancore il rispetto e la considerazione del Presidente della Repubblica, delle Istituzioni, della società civile, rispetto e considerazione che sostanziano la dignità umana, quella che sembra non spettarci più per il solo fatto di essere qui, in questo mondo a parte, dove sembra che non basti privarci della libertà, ma occorre spogliarci della dignità umana, degli affetti della dimensione vitale che rende uomini, perché solo considerandoci più tali, ma scarti di cui liberarsi, si può moralmente indifferenti alle nostre disumane condizioni di detenzione e, persino, al pericolo concreto di farci ammalare e morire di Coronavirus. Il processo non è una pratica da smaltire, un risultato aziendale da inserire in una statistica di produttività, ma un pozzo nero di umanità nei quale occorre immergersi, sporcandosi, perché solo così si può diventare davvero giudici di uomini, titolari legittimi del destino altrui. Perché la giustizia vive in quella sottile e sfumata linea dell’orizzonte dove il mare delle vicende umane incontra il cielo delle regole e del diritto e il compito del giudice è leggere la corretta. Decisione su quell’impalpabile confine, dove quelle due realtà, quella umana, concreta e dolorosa e quella astratta e perfetta della norma, si incontrano come per confondersi una nell’altra. Per quanto mi riguarda posso dirle di aver trovato più umanità qui, compassione, vicinanza, fra detenuti e personale penitenziario, di quanto ne abbia mai sperimentato nella vita precedente. Come la vedova che getta nel tesoro del Tempio la sua ultima moneta, così i detenuti di Matera hanno rinunciato, in alcuni casi, anche ad acquistare il sopravvitto per il giorno di Pasqua per donare i pochi spiccioli del loro peculio carcerario alla Caritas, perché aiuti le famiglie in difficoltà economica! Gli ultimi della terra che insegnano a tutti la solidarietà concreta, e non solo a parole. Verso un Paese in ginocchio, gemente e disperato. Ecco perché, di fronte a questo spettacolo di umanità dolente, di cui faccio pienamente parte, ringrazio il Signore che, Crocifisso e reietto, mi ha mostrato, attraverso questa via crucis, che sono stato chiamato a vivere per caso come l’ignaro Cireneo, il Suo volto Santo attraverso quello dei miei Compagni di sventura. Noi, crocifissi accanto a Lui, crocifissi in Lui. Mi creda, signor presidente, di fronte a tutto questo dolore e mestizia che mi circondano passa in secondo ordine anche il mio destino processuale. La vita qui ha trovato la sua vocazione: essere la loro voce, la voce degli ultimi che nessuno ascolta, che nessuno vuole ascoltare. È il modo più alto per essere magistrato della Repubblica: reclamare, con tutta la voce che ho, i diritti inalienabili della parte più debole del mio Paese! La prego, per tanto, dal basso della mia condizione, dal fondo della mia umiliazione, di voler considerare l’opportunità di sollecitare il governo ad adottare misure legislative adeguate per rendere anche questo “mondo a parte” degno di un Paese civile, quale orgogliosamente deve essere e rimanere sempre la nostra amata Italia”. Chi è Michele Nardi Michele Nardi, dopo aver lavorato come giudice a Trani, ha prestato servizio all’Ispettorato del Ministero della giustizia e quindi alla Procura di Roma come pm. Nel 2016 è stato indagato dalla Procura di Lecce con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e al falso. Dal 14 gennaio 2019 al 24 giugno del 2020 è stato sottoposto alla custodia cautelare in carcere. La Cassazione, per tre volte, ha annullato il provvedimento di carcerazione preventiva. L’anno scorso è stato condannato in primo grado 16 anni e 9 mesi di reclusione. Attualmente è sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Questa settimana ha chiesto al Csm di poter tornare in servizio. Si è sempre proclamato innocente ed ha depositato a Palazzo dei Marescialli un dossier sul modo in cui sono state condotte le indagini ed il processo. Alla base delle accuse vi fu la testimonianza dell’imprenditore pugliese Flavio D’Introno. Quando Nardi venne arrestato era titolare di importanti fascicoli su esponenti politici di primo piano. Pubblichiamo la lettera che Michele Nardi ha inviato al presidente Mattarella in occasione della scorsa Pasqua, direttamente dal carcere di Matera. Giustizia e stampa, non il silenziatore ma la parola meditata e misurata di Francesco Puleio* La Stampa, 28 novembre 2021 In un recente decreto modifiche destinate ad incidere sensibilmente sul difficile rapporto tra giustizia ed informazione. “So che è un segreto, perché lo sento sussurrare dappertutto”. Così un drammaturgo del ‘700 inglese descriveva l’illusione (e l’impossibilità) di sottrarre all’attenzione generale una notizia (a torto o a ragione) reputata di interesse pubblico. Non vorremmo che in questo stesso vagheggiamento sia caduto il nostro legislatore che, con un recente decreto, ha dato attuazione alla direttiva dell’Unione Europea n. 343 del 2016, disciplinando la comunicazione all’esterno di notizie sul processo penale (relativamente alla fase delle indagini, posto che in quella successiva del dibattimento, la regola è quella della pubblicità). Questione importante e delicata, visti gli interessi in gioco (e non di rado in conflitto): da un lato la libertà di manifestazione del pensiero ed il diritto di informazione dell’opinione pubblica e di critica; dall’altro reputazione, riservatezza, dignità, equo processo, presunzione di non colpevolezza. Due le linee strategiche del decreto, presidiato dalle immancabili sanzioni disciplinari. Quanto ai rapporti tra procure, organi di polizia e stampa, si prevede che la diffusione di notizie sui procedimenti penali è possibile solo in due casi: a) quando strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini; b) quando ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico; si impone al pubblico ministero di limitarsi ai comunicati o, “nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti” (da evidenziarsi con “atto motivato”), alle conferenze stampa, sempre chiarendo la fase del procedimento e precisando il diritto dell’imputato a non essere ritenuto colpevole fino a sentenza definitiva; infine, si introduce il divieto di assegnare alle indagini “denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Quanto alla tecnica di redazione degli atti processuali, si vieta, nei provvedimenti diversi dalle sentenze, di indicare indagato o imputato colpevoli prima dell’accertamento finale; inoltre, nelle ordinanze di misura cautelare il giudice dovrà limitare “i riferimenti alla colpevolezza della persona [...] alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”. È previsto per l’indagato un diritto di rettifica. Volendo qui limitarci a una breve riflessione sulle modifiche destinate ad incidere sensibilmente sul difficile rapporto tra giustizia ed informazione, è da dire che - da tempo - i Procuratori della Repubblica e le Forze di polizia, allorché concludano indagini di rilievo, ne danno notizia attraverso conferenze stampa. Tanto serve a rendere trasparenti (e quindi controllabili) le attività degli inquirenti: le notizie correttamente veicolate ai media oltre tutto incentivano - soprattutto in terra di mafie - la collaborazione dei cittadini, che riacquistano fiducia nell’operato degli organi dello Stato se verificano i risultati investigativi delle loro denunce. Vero è che sussiste il pericolo di abusi e di strumentalizzazione delle notizie per proiettare all’esterno l’immagine di singoli eroi solitari, unici interessati alle verità che i ‘poteri forti’ intendono occultare, a tutto discapito del rispetto delle esigenze di equilibrio, misura e riservatezza che sempre devono caratterizzare l’attività della magistratura e delle forze di polizia. Del pari vero è che specifici abusi e strumentalizzazioni, veicolati nelle conferenze stampa e magari enfatizzati nel corso di comparsate televisive, andrebbero sanzionati disciplinarmente, evitando invece di colpirne cento per educarne uno. Per contro, rendere arduo e di spinosa escogitazione la comunicazione dell’operato degli inquirenti, agitando il capestro della sanzione disciplinare per una parola di troppo, comporterà il prevedibile azzeramento all’esterno del flusso informativo, se non filtrato dal ricorso ad artifici dialettici o pelosi eufemismi, producendo quasi omeopaticamente l’opposto rischio di alimentare ufficiali silenzi e, sottobanco, fughe incontrollate di notizie a beneficio di cronisti ritenuti affidabili, indiscrezioni ed anticipate criminalizzazioni di persone ancora da giudicare. Per i media, ridimensionare il diritto di informare comporta il pericolo del possibile ritorno alle deprecabili prassi di tempi andati, quando i corridoi di procure, questure e caserme pullulavano di cronisti a caccia di notizie, a volte addirittura sorpresi ad origliare dietro le porte. Giornalisti che, in alcuni casi, per svolgere la propria funzione di informare dovevano accattivarsi la simpatia di funzionari disposti a compiacenti confidenze su temi riservati. Così il pericolo è che la riforma determini non un progresso, ma un ritorno al passato. E anticamente, se ci riflettiamo un momento, tranne qualche eccezione (pensiamo al processo a Socrate, celebrato in una Atene maestra di civiltà), il processo era sempre un fatto segreto, un’inquisizione oscillante tra cavalletti, tenaglie e confessioni estorte. Nella tradizione savonarolesca si ricerca e si accerta la Verità fuori del contraddittorio e fuori del controllo pubblico. La pubblicità non ha la funzione di controllo, ma di messaggio sociale sulla esemplarità della pena e della pronunzia della condanna. Per questo l’istruttoria è rigorosamente segreta mentre la condanna a morte o a pena corporale è eseguita in pubblico. La Giustizia usciva alla luce solo al momento della proclamazione della condanna e della sua esecuzione, evento drammatico nella vita di una comunità: spettacolo terribile che, attraverso la esemplarità della pena, segnava il trionfo del potere costituito sulla ribellione del delitto. In questa ottica la illustrazione della decisione giudiziaria costituiva in antico un attentato alla certezza del diritto: il giudice decide secundum conscientiam. Solo con l’illuminismo si afferma l’opposto principio, In questo, il primato (uno tra i tanti) è del Regno di Napoli: con il celebre dispaccio del ministro Bernardo Tanucci del 23 settembre 1774 si prescriveva l’obbligo di motivazione delle sentenze nel Regno: “… Si spieghi la ragione del decidere, o siano i motivi sui quali la decisione è appoggiata …”. Tale conquista, garanzia di trasparenza e correttezza per tutti, inizialmente limitata alla fase del dibattimento, è stata poi giustamente estesa anche a quella delle indagini. Nelle cose di Giustizia, la risposta non è mai il silenzio, non è il segreto dappertutto sussurrato, ma la parola meditata e misurata. *Procuratore aggiunto della Repubblica di Catania “L’antimafia è indietro di trent’anni, e spesso si schiera contro lo Stato” di Errico Novi Il Dubbio, 28 novembre 2021 Lo storico Salvatore Lupo: “Se la Corte costituzionale ricorda come l’ergastolo ostativo debba contemplare per tutti una possibilità di perdono, nasce un problema. Come per i giudici di sorveglianza, ritenuti inadatti a vagliare le istanze dei boss”. “Uno Stato nello Stato: l’antimafia degli anni Novanta è una forza, una componente formata da persone con responsabilità e funzioni istituzionali che ritengono di dover conservare un sistema di risposta alla mafia adatto al quadro di trent’anni orsono. E pur di conservare tale prospettiva, da cui non riescono a sciogliersi, qualcuno è pronto a contrapporsi persino ai giudici: ai magistrati di sorveglianza o ai giudici della Corte costituzionale”. Salvatore Lupo è uno storico, non un giurista. Ed è forse la formazione che prescinde dalla sola meccanica del diritto a dargli la forza di guardare negli occhi le cose. Incluse la mafia per come è oggi e l’antimafia per come si è conservata immutabile rispetto ad alcuni decenni fa. Il professore di Storia contemporanea dell’università di Palermo, autore di alcuni volumi decisivi sulla mafia, è impietoso nel definire il paradigma antimafioso: un po’ nostalgico, un po’ irriducibile nei propri schemi. Della mafia s’è cristallizzata l’immagine stragista degli anni Novanta... È quanto dico e scrivo da tempo. Parliamo della mafia stragista, o corleonese, anche se il secondo aggettivo risente di un’estensione forzata, perché i primi mafiosi stragisti non erano corleonesi. In ogni caso si tratta di un periodo che è cominciato e finito da un pezzo. È trascorso quello che si definisce un tempo storico, dall’epoca in cui lo stragismo mafioso ha concluso la propria vicenda. Quindi siamo aggrappati a un totem? Semplicemente, quello schema non esiste più. Lo suggeriscono i dati. La violenza delle cosche è stata innanzitutto inframafiosa, e sappiamo come oggi l’incidenza degli omicidi legati al crimine organizzato sia diminuita nettamente: ora parliamo dei femminicidi, cioè di delitti legati a dinamiche sociali e sottoculturali. Il fenomeno di trent’anni fa ha poi avuto, come sappiamo, una connotazione violenta proiettata all’esterno, terroristica, e in questo deriva dal modello del terrorismo politico. Ma è evidente come non solo sia scomparso lo stragismo mafioso, ma anche come il suo modello, il terrorismo politico, sia a propria volta archiviato da tantissimo tempo. Ci siamo affezionati allo stato d’eccezione? Alla mafia stragista, lo Stato ha risposto in modo efficace e rude. Non mi stupisco, non trovo incomprensibile quel tipo di reazione. Affermare lo Stato di diritto e difenderlo non significa ignorare le diversità della storia. D’altra parte l’opinione pubblica ha apprezzato quel tipo di risposta. Solo che non è più tempo per quella rudezza. Non tutti sono d’accordo: c’è chi chiede di preservare gli stessi istituti di allora, a cominciare dall’ergastolo ostativo senza possibilità di un perdono slegato dalla collaborazione... Ecco, mi dispiace che l’antimafia, che dovrebbe costituire un crogiuolo di legalità, un laboratorio contro fenomeni di malaffare, di illegalità complessivamente intesa, si riduca a un paradigma forcaiolo che contraddice i principi generali del diritto. Nella vicenda dell’ergastolo ostativo come in altre simili. Non esistano più i presupposti di quella reazione brutale operata trent’anni fa dallo Stato: pensare di perpetrarla non è utile né alla libertà né all’ordine. Tutti sanno che un po’ di indulgenza, persino nelle carceri, è funzionale e necessaria. Alcune letture critiche dell’antimafia intravedono anche una tendenza a preservare funzioni, interessi, vere e proprie vicende professionali possibili solo in quella cornice... Guardi che si potrebbe dire la stessa cosa per gli interpreti del modello passivo e indulgente affermatosi negli anni Settanta: non parliamo di cose nuove, tutti gli apparati funzionano secondo una logica di continuità. Anche Carnevale, per dire, era legato a un modello del passato, lo giudicava degno, agiva di conseguenza. Allo stesso modo alcuni magistrati antimafia si sentono allievi di Falcone. Mi limito a dire che non è più il tempo in cui Falcone ha dovuto adottare determinate strategie di risposta, perché non è più nemmeno il tempo di Riina. Non si può far finta che la storia sia ferma: ma alcune figure, alcuni protagonisti dell’antimafia, inclusi alcuni magistrati, si sono formati in quell’atmosfera e non riescono a uscire da quella logica. Però vorrei che un concetto emergesse senza equivoci. Dica pure... Anche in chi resta ancorato a un modello ormai estraneo al presente, non c’è né complotto né cattiva volontà, si tratta semplicemente della tipica cultura degli apparati. Parlamentari e magistrati convinti che nella nuova legge sull’ergastolo ostativo servano paletti più severi sembrano quasi diffidare della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità dell’istituto per com’è ora... Sì, comprendo la sua analisi, ma questo dimostra semplicemente che non si può semplificare e dire che quell’impostazione sia sempre a favore dei magistrati: è per i magistrati solo quando condannano. Se assolvono, li si contrasta. Avrà visto che le più scomposte correnti del movimento antimafia si sono distinte in scene vergognose, in proteste pubbliche nelle aule di tribunale, quando degli imputati sono stati assolti. Ma scusi, quindi l’antimafia è una specie di partito nostalgico? Aspetti. È un partito la parte di questo fronte che sta nell’opinione pubblica. Nel caso della magistratura, si tratta di un pezzo di istituzione: è lo Stato, la burocrazia che si è formata a una certa cultura, in una data situazione storica. Ha difficoltà, e non ha interesse, ad abbandonare quella impostazione. Ha interesse piuttosto a giocarsi, nelle istituzioni, partite che possono condurre a polemizzare con chiunque. Anche con il Capo dello Stato, In altre parole, non possiamo spiegarci la posizione di tali componenti della magistratura come ispirate a un assoluto e intransigente rispetto per lo Stato: sono componenti che vogliono giocarsi le loro partite. Nel processo trattativa si è ritenuto di colpire il ministro della Giustizia o il ministro dell’Interno per scelte e atti compiuti nel pieno delle rispettive competenze costituzionali. Spesso si dice che non avrebbe dovuto essere il governo, o un ministro, ad assumere certe decisioni, ma qualcun altro. E ci risiamo: ci risiamo con la logica dell’eccezionalismo. Che però, alla luce della storia, non si giustifica più. E invece abbiamo ancora una legislazione antimafia da stato d’eccezione... È sbagliata l’idea per cui le leggi contro la mafia debbano essere eccezionali, prescindere dai principi generali del diritto. Devono invece essere leggi intese a colpire un fenomeno deteriore e pericoloso ma nel quadro dei princìpi generali del diritto. E vale anche per l’ergastolo ostativo... Se deve esserci, secondo Costituzione, la possibilità che l’ergastolo sia lenito, che contempli un perdono, così deve essere. Non si può dire che in certi casi il perdono è escluso. Si diffida della Consulta, ma più di un partito, più di un magistrato, vuole sottrarre le decisioni sulla liberazione degli ergastolani ostativi ai giudici di sorveglianza e attribuirle al solo Tribunale di Roma. Come se non fosse materia adatta a loro, a quei singoli magistrati territoriali... Però un’idea simile implica l’idea di una magistratura speciale, che è un’idea pericolosa, e che il pensiero liberale e democratico ha sempre contrastato. Ci sono gli incidenti della storia e tra questi anche eventuali decisioni giudiziarie cedevoli, condizionabili, ma vanno risolte con gli strumenti già a disposizione, con le inchieste. D’altronde, anche il magistrato penale che non assolve mai opera in modo non condivisibile. Ciascuno è esposto a condizionamenti, ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità e per ciascuno è possibile intervenire in caso di errore. Ma non è con lo stato d’eccezione che ci si mette in salvo dagli incidenti della storia. Detenzione di materiale pedopornografico anche se i file sono nella cartella “eliminati” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2021 Lo ha affermato la Corte di cassazione, sentenza n. 43615 depositata ieri. In caso di detenzione di materiale pedopornografico, non sfugge all’aggravante per la “ingente quantità” chi abbia cancellato una parte delle foto contenute nello smartphone, comunque rinvenibili nella cartella “eliminati di recente”. Lo ha affermato la Corte di cassazione, sentenza n. 43615 depositata oggi, riagganciandosi a una analoga giurisprudenza in merito al trasferimento di file all’interno della cartella “cestino” di un personal computer. Respinto dunque il ricorso di un uomo condannato dalla Corte di appello di Brescia alla pena di 5 anni e 22mila euro di multa (oltre che per il reato previsto dal 600-quater, commi 1 e 2, anche per il 600-ter comma 1, n. 1 e il 609 undecies) perché trovato in possesso di 95 foto e 19 video di minori in parte da lui stesso sollecitati via social. Mentre le 35 foto “cancellate” non sono valse a eliminare l’aggravante per la rilevante quantità. Come nel caso del pc, argomenta la Corte, dove i file “restano comunque disponibili mediante la semplice riattivazione dell’accesso al file “, così nel caso di uno smartphone benché non sia previsto “l’inserimento delle stesse in un cestino, tanto il sistema Android che quello degli smartphone Apple consentono procedure piuttosto elementari e di comune conoscenza per ripristinare le immagini eliminate non in modo permanente”. E nel caso specifico, “le immagini, recuperate e sequestrate, si trovavano in una cartella del cellulare denominata “eliminati di recente” e, quindi, erano di facile ed immediato ripristino”. Per la III Sezione penale deve, quindi, affermarsi che “ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 600-quater cod. pen., non ha alcuna rilevanza il trasferimento di foto pedopornografiche nella cartella del cellulare denominata ‘eliminati di recente’ in quanto le stesse restano comunque disponibili mediante una semplice operazione di ripristino delle foto”. Inoltre, la Corte ricorda che il reato in questione è integrato anche dall’accertato possesso di file pedopornografici, “pur se successivamente definitivamente cancellati dalla memoria accessibile del sistema operativo di personal computer, in quanto l’avvenuta cancellazione determina solo la cessazione della permanenza del reato e non, invece, un’elisione ex tunc della rilevanza penale della condotta per il periodo antecedente alla eliminazione dei file sino a quel momento detenuti”. Ragion per cui, conclude sul punto, non è neppure rilevante la deduzione difensiva secondo cui la permanenza delle foto nella cartella “eliminati di recente” non era definitiva ma soggetta ad una durata temporanea limitata. Inoltre, la Corte ha confermato la condanna per il delitto di pornografia minorile, art. 600-ter, che punisce anche colui che pur non realizzando materialmente la produzione di materiale pedopornografico abbia istigato o indotto il minore a farlo. Per i giudici infatti “risulta evidente la configurabilità del reato contestato, in quanto la condotta di produzione aveva un carattere abusivo per le modalità ingannevoli - evidenziate dalla Corte territoriale - con le quali l’imputato induceva i minori alla realizzazione di materiale pornografico”. E questo grazie alla dissimulazione della propria età attraverso la creazione di un falso profilo con la pubblicazione di una foto ritratto di un ragazzo di circa 17 anni; l’utilizzo del tipico slang giovanile. Tutti elementi, conclude la decisione, “che avevano impedito alle giovani vittime di porre in essere idonei meccanismi di difesa”. Udine. Ancora aperto il caso del 22enne morto in carcere di Anna Dazzan udinetoday.it, 28 novembre 2021 La perizia dice overdose, la difesa mix di farmaci. “Si chiamava Ziad Dzhihad Krizh ed era un giovane detenuto di 22 anni, morto a Udine - in carcere - il 15 marzo 2020”, cominciano così le memorie difensive dell’avvocato Marco Cavallini del Foro di Udine Ne abbiamo scritto nella primavera del 2020: Ziad è morto in carcere a Udine a 22 anni, quando la pandemia aveva appena iniziato a ruggire e a determinare la nostra quotidianità. La mamma del giovane chiedeva chiarezza, il garante per i diritti delle persone detenute si interessava al caso. Ora è l’avvocato Marco Cavallini a presentare le sue memorie. Le memorie dell’avvocato Si chiamava Ziad Dzhihad Krizh ed era un giovane detenuto di 22 anni, morto a Udine - in carcere - il 15 marzo 2020. È uno dei tanti detenuti morti in cella in questo periodo di pandemia, segnato da un peggioramento delle condizioni e anche da forti proteste e da pesanti repressioni. (...). La morte di Ziad appare poco limpida e le sue cause poco chiare, tanto da essere oggetto della presente indagine tutt’ora in corso. L’analisi chimico-tossicologiche sui campioni biologici prelevati dal cadavere del povero Ziad, effettuata dal dr. Antonio Colatutto e consegnata alla Procura della Repubblica di Udine il 10 agosto dello scorso anno, attesta che sono state rinvenute esclusivamente tracce di metadone e di benzodiazepine, assenti di converso tracce di oppiacei, cannabis, cocaina, amfetamina, ecstasy, buprenorfina ed etanolo. Il dott. Moreschi ha svolto le indagini medico-scientifiche volte ad identificare la causa del decesso e, su espressa richiesta del Pubblico Ministero volta a comprendere se “le cause del decesso fossero riconducibili a errori diagnostici e/o terapeutici dei sanitari che lo ebbero in cura presso la Casa Circondariale di Udine, specificando, in caso affermativo, se siano state osservate le linee guida, protocolli o buone prassi applicabili al caso in esame, il titolo e il grado di colpa”, è pervenuto alle proprie conclusioni che, a parere dei prossimi congiunti del de cuius, non sono sufficientemente satisfattive delle esigenze di verità che devono permeare questa indagine. Il povero ragazzo venne trovato - dall’infermiere incaricato della distribuzione dei medicinali - privo di coscienza alle 7.45 e decedeva alle 8.21, dopo che gli era stato eseguito massaggio cardiaco e con defibrillatore. La cella n. 13, che lo alloggiava, era occupata da cinque detenuti; il sesto, che avrebbe ceduto dell’hashish a Krizh, era uscito dal carcere il 7 marzo. I compagni di detenzione riferiscono che il giorno prima la vittima aveva uno stato febbrile, sopra il 37.5 gradi. Un altro detenuto attesta che alle cinque Krizh era vivo perché lo aveva sentito russare. Il diario clinico - La visita di primo ingresso gli viene fatta il 5 novembre 2019 e da essa risulta l’autodichiarazione di consumo di diverse sostanze stupefacenti risalente a quattro mesi prima. Non è presente sindrome di astinenza e viene prescritta una terapia con Diazepam e Seroquel. Il 26 febbraio 2020, dopo quattro mesi, viene prescritta una terapia di Diclofenac per una lombalgia cronica. Il 1° marzo viene citata una Osservazione clinica, non si sa da chi sia stata effettuata, e il paziente riferisce “uno stato di agitazione con sintomi psicotici da abuso prolungato da metanfetamine e crack. Sta usando Suboxone e Tramadolo con beneficio sulla sua condizione di dolore e agitazione. Si prescrive quindi Metadone 20 mg”. Appare anche l’indicazione di somministrazione di Rivotril mattina e pomeriggio, Lyrica mattina e pomeriggio, Rivotril, Seroquel. Dunque, un pesante cocktail di farmaci, non si capisce da chi e perché prescritti. Il 5 marzo viene richiesta visita del Servizio per le tossicodipendenze (SerT) per una rivalutazione della terapia. Il 14 marzo, il giorno prima della morte, Kritzh viene sottoposto a visita medica in sezione, durante la quale avrebbe dichiarato “di aver fatto abuso in questi giorni di sostanze stupefacenti (cannabinoidi) e altre sostanze”. Gli viene consegnata una mascherina chirurgica per prevenzione Covid. L’autopsia - Nell’autopsia vengono segnalate varie escoriazioni compatibili con atti di autolesionismo. Per il resto non vi sono rilevazioni di patologie. In sostanza trattavasi di un giovane sano. Il prof. Moreschi adduce come causa della morte una overdose di metadone. In realtà, è costretto a ipotizzare “l’assunzione contemporanea di altri farmaci e sostanze che possono agire con effetto additivo nell’aumentare il rischio di morte. Solitamente i decessi dovuti all’assunzione di metadone si verificano per arresto respiratorio spesso nel contesto di abuso di più sostanze”. La relazione che dovrebbe rispondere agli ulteriori quesiti è invece più scarna della precedente, ma compare l’indicazione di visite mediche non citate: il 21 novembre viene ancora modificata la terapia farmacologica con inserimento di Tavor, conferma di Seroquel e Rivotril e sospensione di Valium. Nei giorni seguenti per una lombalgia di origine misteriosa viene trattato con farmaci antinfiammatori; nel febbraio 2020 risulta una visita del medico SerT con prescrizione di Lyrica, sospensione di Seroquel sostituito con Nozinam e aumentato il Rivotril. Non si riesce a comprendere se fosse stata prescritta anche la buprenorfina. Errori diagnostici? Con assoluta sicurezza il prof. Moreschi attesta che “non si ravvisano errori diagnostici e/o terapeutici dei sanitari. Il decesso non è correlabile alle cure prestate”. Una sicurezza che, francamente, è difficile da condividere se sol si considera che il povero Krizh era, come detto poc’anzi, un giovane sano ed in salute, privo di precedenti patologie. La famiglia del detenuto ha interpellato un ex Direttore del Dipartimento dipendenze delle ASL di Napoli che ha sollevato i seguenti quesiti/approfondimenti che ci permettiamo di rivolgere agli Organi inquirenti e che riteniamo debbano essere oggetto di ulteriore indagine: 1) Per quale ragione non sono stati ricercati i metaboliti degli psicofarmaci somministrati? 2) Perché non è stato somministrato il naloxone (antagonista degli oppioidi per l’overdose) e l’anexate (antidoto per le benzodiazepine)? 3) Perché il Krizh era in carico al SerT e perché era in terapia con metadone pur non facendo uso di eroina? E perché il metadone non veniva somministrato in infermeria ma direttamente all’interno della cella? 4) Risulta che al 1° marzo Krizh avesse una terapia con Rivotril (benzodiazepina di abuso dei tossicodipendenti) Seroquel, Lyrica e Metadone. Tali farmaci possono interagire tra loro e potenziare vicendevolmente gli effetti sedatici e depressivi sul sistema centrale. 5) Al test tossicologico delle urine compare solo THC e benzodiazepine, in quello del sangue compare il metadone (tracce). Non può essere causa della morte la cannabis. Inoltre, Krizh assumeva il metadone per cui aveva una tolleranza che rende poco probabile l’ipotesi di una overdose legata questo oppioide, visti i dosaggi. 6) Occorre una più approfondita valutazione delle lesioni presenti sul corpo del ragazzo e l’eventuale legame con lo stato di depressione e confusione che viene descritto. In buona sostanza, pare che l’ipotesi che il cocktail di farmaci prescritti abbia causato effetti deleteri non possa essere scartata. Così pure, appare una evidente confusione e contraddittorietà nelle prescrizioni scritte o in quelle di fatto e nelle visite mediche effettuate. Soprattutto di fronte a un quadro clinico precario come quello che emergeva dalla visita del 14 marzo, appare una scelta discutibile lasciare il paziente in cella e non provvedere, piuttosto, a un ricovero o a una sistemazione più consona con una previsione di visita notturna. La perizia, con un pizzico di cinismo tautologico, ci dice che Krizh è morto perché è morto. Non basta, né ai famigliari né può bastare allo Stato che deve tutelare i propri detenuti. Ora che il ragazzo è deceduto gli si deve almeno chiarezza e trasparenza, rigore negli accertamenti e nelle conclusioni. Confidiamo, dunque, che il Pubblico Ministero Voglia svolgere ogni ulteriore indagine indispensabile per l’accertamento del reale accadimento dei fatti. Terminano così le memorie difensive dell’avvocato Marco Cavallini, che rappresenta la mamma del giovane. Anche a Monza la violenza entra nelle celle del carcere di Luigi Mastrodonato Il Domani, 28 novembre 2021 Si è aperto il processo per cinque agenti che sono accusati del pestaggio di uno dei detenuti. Loro si difendono parlando di un caso di autolesionismo. Ma un video sembra raccontare altro. Da una cella della casa circondariale di Monza sbuca il braccio di un detenuto, si allunga sul pavimento. Il palmo della mano continua a picchiare per terra, probabilmente per richiamare l’attenzione. Poi il braccio scompare, trascinato via. Non si sa cosa stia accadendo nella stanza perché la scena a quel punto è fuori dall’inquadratura delle telecamere di videosorveglianza, l’unica certezza è che con il detenuto ci sono alcuni agenti di polizia penitenziaria. Considerando le immagini crude dei secondi precedenti nel corridoio, oltre che il rinvio a giudizio per diversi reati tra cui lesioni aggravate e violenza privata per cinque secondini, la sensazione è di essere davanti a un nuovo, ennesimo, caso di abusi in divisa nelle carceri italiane. Il 16 novembre, dopo due anni di indagini, è cominciato il processo con cui si dovrà stabilire verità e giustizia. Telecamere di sorveglianza - È l’estate del 2019 quando un detenuto, attraverso il supporto esterno del fratello, denuncia di aver subìto una violenta aggressione da parte di alcuni agenti penitenziari. L’uomo stava portando avanti da giorni una protesta, con tanto di sciopero della fame, per essere trasferito. Quando la moglie lo trova tumefatto durante un colloquio vuole vederci chiaro su quello che può essere accaduto in carcere. L’associazione Antigone prende sùbito in mano il dossier e nel settembre di quell’anno presenta un esposto in procura per l’avvio delle indagini, costituendosi poi anche parte civile nel procedimento. L’elemento forte dell’accusa è un video diffuso dal Tg1 qualche mese fa. Nel filmato, della durata di alcune decine di secondi, l’inquadratura è su un corridoio del carcere di Monza. In basso a sinistra compare una barella, sopra alla quale si trova il detenuto che ha denunciato le violenze. Si divincola e gli agenti cercano di immobilizzarlo, mantenendogli ferme le braccia. Un poliziotto a quel punto gli sferra diversi colpi e schiaffi in faccia con violenza, gridandogli qualcosa. Nella ripresa successiva, da un’altra prospettiva, si vede arrivare la barella al centro della scena con il detenuto steso sopra. Gli agenti lo strattonano e gli tengono le braccia, che appaiono molli, prive di resistenza. Il detenuto viene di fatto scaricato per terra dalla barella, che viene inclinata bruscamente a mo’ di scivolo. Nell’ultima parte del video si vede solo un braccio uscire dalla cella e picchiare sul pavimento del corridoio, prima di essere trascinato nella stanza. Da questo punto mancano le riprese, le immagini non possono dire cosa sia successo nella cella in cui si trovavano il detenuto e gli agenti. Cinque agenti sotto processo - A luglio 2021, dopo quasi due anni di investigazioni, il procuratore capo di Monza ha rinviato a giudizio cinque poliziotti penitenziari, tra cui un ispettore capo e un commissario capo. I capi d’accusa sono molti: lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, omessa denuncia di reato, abuso d’ufficio, mentre l’imputazione della tortura è stata archiviata. Oltre al video delle telecamere di sorveglianza, l’unico finora disponibile, a convincere il procuratore a rinviare a giudizio gli agenti sono state le intercettazioni telefoniche e ambientali, la testimonianza dettagliata rilasciata dal detenuto e la sua certificazione medica. In quest’ultima si parla di trauma contusivo arbitrale bilaterale e della rottura di un dente, avvenuti proprio nell’arco temporale su cui ora si sta cercando di fare chiarezza. La prognosi era di 17 giorni. La versione degli agenti è che l’uomo abbia avuto un atteggiamento aggressivo, dimenandosi e cercando di scappare mentre si trovava sulla barella nel corridoio. Si parla di pugni rifilati agli agenti proferendo continue minacce di morte, oltre che di un calcio non ripreso dalle telecamere a causa di un cono d’ombra. Per quanto riguarda le ferite, se le sarebbe procurate da solo in cella sbattendo la testa contro il muro. Violenza di vita quotidiana - Queste circostanze non trovano però riscontro nelle immagini dell’unico video esistente e gli agenti sono anche accusati di aver falsificato il racconto dei fatti nei rapporti interni. Oltre a questo, un agente è accusato di aver indotto il detenuto con minacce e pressioni contenenti riferimenti anche “alla fine di Stefano Cucchi” a fare una dichiarazione spontanea in cui affermava di non aver subìto aggressioni fisiche e di essersi ferito con l’autolesionismo. Il 16 novembre è cominciato ufficialmente il processo. La difesa si è opposta alla costituzione di parte civile di Associazione Antigone, una richiesta già fatta in passato ma respinta dal giudice che definì gli eventi di una gravità tale da riguardare un’associazione a tutela dei diritti umani. Il 2 marzo 2022 è stata fissata la prossima udienza e il giudice dovrà pronunciarsi nuovamente su questo. “Come associazione ci auguriamo che il tribunale possa acclarare i fatti e portare luce su quanto accaduto”, commenta la presidente di Antigone Lombardia, Valeria Verdolini, presente alla prima udienza del processo. “Siamo addolorati per quanto raccontano le immagini, e per la violenza della vita quotidiana che emerge. Allo stesso modo, siamo grati alle persone che hanno avuto la forza di raccontarci l’accaduto, un coraggio non semplice visto che molto spesso permangono in condizione di privazione della libertà”. Roma. Parla Amra, la ragazza rom che partorì da sola in cella di Andrea Ossino La Repubblica, 28 novembre 2021 Il drammatico racconto di Amra, che il 31 settembre mise al mondo la sua piccola a Rebibbia: “C’era una che diceva che avrebbe ucciso mio figlio non appena fosse nato”. Amra sa di aver sbagliato. Con quattro figli alle spalle, una vita nel campo nomadi di Castel Romano e diversi soggiorni in carcere, la sua maturità va oltre la terza media, l’ultima scuola che ha frequentato. Amra sa che non è l’unica ad aver sbagliato: “La mia bambina ha rischiato di morire, chiedevo aiuto, avevo paura, ma forse nessuno mi credeva. Mia figlia è nata in carcere solo grazie all’aiuto della mia amica Marinella”, racconta mentre la commissione carceri della camera penale di Roma e il garante dei detenuti del Lazio, Gabriella Stramaccioni, approfondiscono ciò che è accaduto la notte del 31 agosto scorso, nel penitenziario di Rebibbia, quando una bambina è venuta al mondo. Amra ha 23 anni e due occhi grandi, color nocciola. Sbucano fuori dalla mascherina che copre un volto ancora da bambina: “Questa cosa la faccio solo perché nessuno deve vivere ciò che ho vissuto io, nessuna donna dovrebbe partorire in carcere”, dice al suo avvocato, il penalista Valerio Vitale. Amra, la hanno arrestata mentre era incinta... “Secondo lei mi piace quello che faccio? La mia vita è bella? Non l’ho scelta io” Com’è la sua vita? “Non sono mai andata a una festa, non sono mai stata a ballare, non ho mai frequentato una palestra. Io non sono come tutte le altre ragazze”. E adesso ha vissuto anche un’esperienza che non dimenticherà facilmente... “Sono stata arrestata il 22 giugno. Ero incinta di sei mesi e mi hanno portata in ospedale. I poliziotti erano gentili e in commissariato ci hanno dato da bere e mangiare. Il giorno dopo però mi hanno accompagnata in tribunale e dopo la decisione del giudice sono arrivati i poliziotti vestiti di blu e mi hanno portata in carcere, nel reparto cellulare, dove ci sono piccole celle” Come stava? “Dopo due giorni gli ho detto che avevo delle perdite e mi hanno portata in ospedale, al Pertini. Mi hanno fatto un monitoraggio e ho spiegato che in passato ho avuto minacce di aborto. Non mi hanno ricoverata e quindi sono tornata a Rebibbia, questa volta in infermeria. Mi hanno detto che tutto andava bene e che non c’era bisogno di ricoverarmi”. Per monitorarla meglio? “Avrei preferito 6 mesi negli altri reparti piuttosto che un giorno in infermeria. Ero da sola in cella, le altre urlavano, una ragazza sbatteva la testa contro il muro, un’altra si strappava i peli e li mangiava. Una donna diceva che avrebbe ucciso mia figlia non appena fosse nata. Io piangevo sempre. Poi il 9 luglio è finito l’isolamento Covid e hanno portato la mia amica Marinella, era stata arrestata con me”. Quando sarebbe dovuta nascere sua figlia? “Il 10 settembre, ma già il 18 agosto ho avuto contrazioni. Mi hanno visitata anche il 22 e il 26 agosto. Il mio avvocato chiedeva al tribunale di farmi uscire perché avevo avuto anche altre gravidanze a rischio. Ma il giudice non voleva”. Quindi cosa è successo? “La sera del 31 agosto stavo male, avevo mal di testa e di pancia, mi hanno dato una tachipirina. Era passata anche l’assistente, le avevo detto che stavo male ma è andata via. Non ho mai pianto così tanto, avevo paura per la mia bambina. Avevo troppo dolore. Marinella allora ha iniziato a suonare. L’assistente ha detto: ‘Chi è che suona a quest’ora? cosa volete? Ora arrivo’. Era tutto buio, l’assistente è arrivata fuori dalla cella ma non mi credeva, voleva andare via. Marinella ha urlato: ‘Non ci lasciare’. Mi dicevano di chiudere le gambe, ma Marinella mi ha detto di non farlo perché il bambino poteva soffocare. Poi ho messo la mano sotto e ho sentito la testa, avevo paura cadesse per terra e mi sono sdraiata. È nata da sola e non piangeva, voi come la chiamate quella cosa, la camicia?” La placenta? “Si quella. Era tutta sulla sua faccia e non respirava, Marinella ha detto alle assistenti di levarla, di darle un guanto, ma loro dicevano di non toccarla. Quindi Marinella l’ha levata con le mani e la bambina ha iniziato a piangere, a respirare. Il dottore è arrivato dopo e poi anche l’ambulanza. Mi ricordo che hanno discusso perché nessuno voleva tagliare il cordone, poi ci ha pensato il medico del reparto”. E dopo il parto? “Sono rimasta in ospedale. E poi a casa, dopo che mi hanno condannata”. Ora come sta la piccola? “Bene, tutti i miei figli stanno bene, il più grande ha 5 anni tra un pò andrà a scuola. Non deve avere un futuro come il mio”. Cosa vorrebbe che facesse quando è grande? Cosa sogna per lui? “Non so, forse in un ristorante, non ho sogni”. Anche lei può fare un’altra vita... “Io voglio solo lavorare, per questo sto provando ad avere i documenti italiani. Devo cambiare vita, lo devo fare per i miei figli”. Lucca. Sezione del carcere chiusa per inagibilità, stop a nuovi detenuti di Luca Tronchetti Il Tirreno, 28 novembre 2021 Tutti gli arrestati dirottati al don Bosco di Pisa oppure nella casa di reclusione di Massa. Disagi per le forze di polizia. Non c’è pace nel penitenziario di San Giorgio. Dopo l’incendio e le devastazioni delle scorse settimane, con nove celle inutilizzabili perché completamente distrutte, l’azienda sanitaria locale ha deciso di chiudere la terza sezione perché praticamente inagibile. I lavandini sono rotti, i componenti in ferro staccati e il principio d’incendio sprigionatosi durante la rivolta di sei-sette detenuti, particolarmente aggressivi e provenienti da altri istituti di pena, ha completamente annerito le pareti rendendo irrespirabile e insalubre l’aria di quell’ambiente. Non solo. Delle quindici celle che componevano la terza sezione nove sono risultate inagibile, ma le sei agibili non si trovavano su un solo lato, ma sono sparse in alternanza tra i due lati dell’edificio e quindi per l’Asl unica soluzione era la completa chiusa della sezione. Anche perché la terza sezione era priva di celle di isolamento e non poteva essere garantita la quarantena Covid per i nuovi ingressi. Così almeno sino a metà gennaio e forse persino oltre la casa circondariale di San Giorgio non potrà ricevere nuove persone sottoposte a custodia cautelare in carcere. Morale? Un istituto di pena senza posti e senza bolla Covid. Per non parlare dei disagi delle forze dell’ordine: carabinieri, polizia, finanza, vigili urbani in caso di arresto in carcere dovranno accompagnare la persona sottoposta a misura restrittiva nel penitenziario don Bosco di Pisa oppure all’istituto di pena di Massa. Con un notevole dispendio di energie e di tempo visto che il trasferimento richiede l’impiego di pattuglie che devono percorrere decine e decine di chilometri per consegnare il detenuto alla struttura carceraria. Uomini e mezzi distolti da altri servizi sul territorio. La speranza è che il disagio non si procrastini più di un paio di mesi e che a febbraio la situazione torni alla normalità. Ma la ristrutturazione completa dell’intera terza sezione del carcere di San Giorgio dovrà essere finanziata dal Ministero attraverso lo stanziamento stabilito del Provveditorato per le strutture penitenziarie che dovrà fare le valutazioni di spesa, recepire e stanziare i fondi necessari a ripristinare la situazione originaria all’incendio e alla devastazione e a rendere vivibile la struttura carceraria. E vista la lentezza della burocrazia italiana l’impressione è che, senza un intervento della politica, della riapertura della terza sezione non se ne parlerà prima dell’inizio dell’estate con tutti i problemi che ne conseguono. Quest’ulteriore difficoltà, che si assomma alla carenza di personale costretto a lavorare in condizioni inaccettabili e senza garanzie di sicurezza nonostante l’impegno quotidiano che gli agenti di polizia penitenziaria e la direttrice Santina Savoca, fa tornare di attualità l’ormai improcrastinabile esigenza di abbandonare l’antico edificio del centro cittadino - un convento adibito a luogo di detenzione dal 1806 - e costruire una nuova e più moderna casa circondariale al passo con i tempi e con le attuali esigenze. Perché mettere continuamente “toppe” sulle criticità di un penitenziario che ha compiuto 215 anni rischia di diventare un inutile dispendio di energie economiche. Roma. Un prete di strada che viveva a Rebibbia di Mauro Leonardi L’Osservatore Romano, 28 novembre 2021 Giovedì 25 novembre è improvvisamente morto don Roberto Guernieri, sacerdote, oblato della Madonna del Divino Amore, mantovano, classe 1959, che ha dedicato l’intera vita agli emarginati, in particolare ai detenuti del carcere di Rebibbia a Roma, dove risiedeva da oltre 30 anni. Malato da tempo, è stato stroncato da un infarto mentre aiutava due carcerati. Nell’estate del 2020 riportai qui su “L’Osservatore Romano” un lungo e commovente dialogo con lui. In quell’occasione raccontò ai lettori come avesse imparato ad essere “prete di strada” con don Luigi Di Liegro, aprendo un centro di accoglienza alla stazione Termini. Finito il suo turno di giorno andava poi, di notte, al Gemelli per aiutare i ragazzi malati di Aids a morire bene. Tre anni dopo il cardinale Ruini lo aveva chiamato per nominarlo cappellano al carcere di Rebibbia e lì aiutava tutti come volevano essere aiutati. Così per esempio quando Totò Riina, catturato di notte in pigiama, non aveva come coprirsi per presentarsi all’interrogatorio accadde a don Roberto di chiedere in prestito a un confratello un clergyman per vestirlo. Quando raccontava la sua esperienza don Roberto parlava della sua predilezione, fin dall’infanzia, per i funerali: da una parte potrebbe sembrare curioso ma, conoscendolo e sentendo il dovere di riportare il mio personale ricordo, mi sono convinto di come in effetti la morte possa illuminare l’essenziale della vita. Proprio quella luce ha guidato don Roberto nella sua vocazione: lo ha spinto a curare le parti nascoste e reiette dell’umanità per illuminare con la luce di Cristo tutta l’esistenza di tutti gli uomini. Se non c’è niente di nascosto che non debba venire alla luce, don Roberto ha fatto sì che anche gli angoli più bui e disperati dell’umanità conoscessero la luce del perdono, della speranza lasciando un segno indelebile su ciò che significa essere cristiano e sacerdote. Don Guernieri non ha mai pensato che il suo compito di affiancare l’umano dovesse mettere tra parentesi il dovere eminentemente divino, sacramentale, che unge la vita di ogni sacerdote. In quell’occasione lo spinsi a confidare a tutti quanto mi aveva insegnato quando avevo mosso i primi passi come volontario ex art. 17 nel carcere di Rebibbia. Allora don Roberto era il cappellano coordinatore e in quel ruolo mi ordinò come mia “prima esperienza” di andare a celebrare ai detenuti del 41 bis, ovvero ai condannati per reati di mafia. Probabilmente riteneva formativo per il mio percorso personale iniziare dal punto più basso, cioè dal reparto che accoglieva i più lontani dalla vita cristiana. “Nel 1999 - mi raccontò in quell’occasione e disse poi nell’intervista - andavo a celebrare la Messa sezione per sezione: tutti facevano la comunione ma nessuno si confessava mai. Una mattina arrivo con il necessario per celebrare ma non celebro. I detenuti erano con il blindato aperto ma dietro al cancello della cella, e mi chiedono cosa sta accadendo. Allora dico: “Non ha senso. Voi non vi confessate, quindi pensate di non averne bisogno, e fate la comunione. Ma come? Il Papa si confessa, io mi confesso, e voi non vi confessate mai?” Li ho lasciati senza la Messa per un bel po’”. Chi stava accanto a don Roberto assimilava il senso della vita come dono non per le parole che diceva ma perché si sentiva iscritto dentro quella Presenza più grande e misteriosa della quale lui si nutriva. Di questo sono testimone. Milano. I detenuti (gratis) taglieranno l’erba e rimuoveranno i graffiti per il Comune primalamartesana.it, 28 novembre 2021 Protocollo d’intesa tra l’Amministrazione di Cologno Monzese, il ministero della Giustizia e il carcere di Opera. Da una parte la manutenzione del verde nei giardini e parchi pubblici della città di Cologno, dall’altra l’attività di rimozione di tag e scritte sui muri (anche di abitazioni private) della città, simbolo di degrado. Il tutto gratuitamente, come prevedono i lavori di pubblica utilità. Mansioni che per i carcerati a fine pena della casa circondariale di Opera diventeranno “strumenti” per agevolare il loro ritorno alla libertà, una volta finito di scontare la pena. I contenuti del progetto di inclusione sociale sono stati messi nero su bianco in un protocollo d’intesa, che ha già ottenuto l’ok dalla Giunta guidata dal sindaco Angelo Rocchi e che ora dovrà essere siglato. Poi per ogni detenuto dovrà essere stilato un preciso progetto ed ecco allora che potranno iniziare a svolgere i compiti. Tra gli obiettivi del progetto c’è sicuramente quello di ridurre il rischio di recidiva, ossia che una volta fuori dalle sbarre i detenuti tornino a commettere reati e che quindi facciano di nuovo ingresso nelle patrie galere. Aosta. Brissogne, inaugurata la statua realizzata dai detenuti nel laboratorio di artigianato di Alessandra Borre aostasera.it, 28 novembre 2021 Benedetta nella casa circondariale di Brissogne la statua frutto del laboratorio di artigianato a cui hanno partecipato alcuni detenuti. Una statuetta di legno, posta in un’edicola all’entrata della Casa circondariale di Brissogne. Questo è il nuovo segno di riscatto e redenzione di coloro che in carcere stanno scontando la loro pena. Svelata e inaugurata nella mattina di sabato 27 novembre, la rappresentazione lignea della Madonna è stata benedetta dal cappellano Don Nicola e dal vescovo Monsignor Don Franco Lovignana. La statua è stata poi esposta nell’edicola all’ingresso del penitenziario, l’ingresso che si trova dopo i due cancelli verdi scorrevoli che, con il loro inconfondibile rumore, separano il mondo esterno e quella realtà che le persone che a Brissogne scontano la loro pena: “Affidiamo alla Madonna - ha recitato Don Nicola -, questo luogo di pena, perché sia sempre di più luogo di redenzione e di vita”. Il laboratorio che si è concluso con la realizzazione della Madonna di legno e di altre statue per ora non esposte, è stato curato da Arnaldo Seris, scultore di Saint-Vincent, ma soprattutto, da dieci anni, volontario in carcere: “Appena ho iniziato questa attività non è stato semplice, devo ammettere che la percezione che si ha del carcere al di fuori è spesso sfasata. Io ho incontrato sulla mia strada persone consapevoli che devono scontare una pena, ma sempre aperte, educate e predisposte all’apprendimento. Per me è stata un’esperienza arricchente, ogni laboratorio mi lascia dentro tanto e, questa volta, anche un risultato tangibile: una statua che spero possa essere un simbolo del penitenziario e un segnale importante di speranza per chi qui deve scontare la sua pena”. Arnaldo non è l’unico volontario che opera nel carcere, così come spiega Maurizio Bergamini, presidente dell’AVVC (Associazione Valdostana Volontariato Carcerario), che ha sottolineato l’importanza dell’attività svolta dai volontari per quanto riguarda i laboratori e la costruzione di un ambiente positivo e sano all’interno della casa circondariale: “Negli ultimi 30 anni la presenza e l’attività dei volontari sono state costanti e fondamentali e hanno aiutato a creare un’ambiente migliore nel penitenziario. Queste persone hanno dedicato buona parte della loro esistenza a queste attività di promozione sociale e questa giornata è importante non solo per i detenuti, ma anche per loro, per il riconoscimento del loro operato. I volontari sono presenti con diverse attività, tra i quali il laboratorio di apicoltura e quello di coltivazione dello zafferano, tra i tanti, momenti che saranno preziosi e spendibili per i detenuti una volta fuori dal penitenziario. Abbiamo istituito anche un gruppo di parola per la ricostruzione morale, che possa servire a chi è qui e deve attraversare un processo di redenzione”. L’importanza di queste attività è stata sottolineata anche dalla direttrice della casa circondariale, Antonella Giordano: “Qui a Brissogne ho trovato un ambiente positivo, sano, in cui è stato possibile organizzare diverse attività. Quelle dei volontari sono senza dubbio importanti perché ci sia uno scambio proficuo, ma devo ammettere che molto fa quello che qui già ho trovato, ovvero personale qualificato e preparato e in grado di lavorare in sinergia con i detenuti. Il risultato del laboratorio di artigianato, questa Madonna lignea è un segnale importante e un esempio di come assicuriamo opportunità e diritti a detenuti”. Cercate nel reo il frumento sotto la zizzania di Lorenzo Fanini Avvenire, 28 novembre 2021 Jean-Claude Guillebaud, giornalista francese di gran vaglia (fu per diversi armi inviato speciale di “Le Monde”), protagonista in età adulta di un ritorno alla fede cristiana culturalmente motivato (ha rivestito l’incarico di direttore editoriale della prestigiosa casa editrice Seuil), ha più volte affermato che, quando era non credente, notava un fatto curioso: che quando aveva a che fare con i giudici, quelli cristiani erano differenti nel giudicare le persone colpevoli di un qualche reato: “Mi hanno sempre dato l’impressione di uomini e donne che non identificavano il reo solo con i suoi misfatti, ma pensavano che la persona è sempre qualcosa in più delle proprie azioni. Anche nel caso di azioni malvagie”. Potenza dell’insegnamento evangelico. L’aneddoto torna alla mente nel raccontare come il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, intenda la portata della giustizia umana di fronte all’errore umano, anche il più efferato. Le riflessioni su tale argomento sono affidate dal porporato a un recente testo scritto insieme a Paola Ziccone, dirigente penitenziaria attiva in Emilia Romagna e Marche, in particolare modo nell’ambito della giustizia minorile. “Verso Ninive. Conversazioni su pena, speranza, giustizia riparativi” (Rubbettino, pagine 124, euro 12) è un testo in cui lo scandalo del male, la giustizia della pena, ma anche il “diritto alla speranza (sancito dalla Corte Costituzionale!) fanno risuonare in maniera innovativa l’impostazione evangelica che anima il pensiero di Zuppi. Il quale non si sottrae al confronto e non scende a compromessi populistici quando c’è da parlare di giustizia. Arrivando anche, con coraggio inusitato, ad affermazioni come queste: “Il punto è che è facile comprendere la disperazione di una vittima, mentre è molto più difficile entrare nella disperazione di chi ha commesso un reato”. E per non restare sul vago, il cardinale cita un esempio concreto, riferendosi a una vittima del terrorismo rosso e a una terrorista della stessa matrice: “Agnese Moro, in un incontro durante il Festival Francescano a Bologna nel 2019, diceva che le si erano aperti gli occhi quando aveva scoperto la disperazione di Adriana Faranda. Proprio così, questo fatto l’aveva aiutata a chiudere il cerchio della propria sofferenza”. Si torna dunque lì, a quello che Guillebaud aveva notato nei magistrati credenti: “La persona, in realtà, non è il suo peccato, o meglio, lo è solo in piccola parte” scandisce Zuppi. Il quale rilegge una pagina biblica su cui, in un’ottica più spirituale, molto aveva insistito l’allora cardinal Bergoglio: Giona e Ninive. Cosa centra quella vicenda biblica con una teoria della giustizia? Esemplifica Zuppi: “Giona ritiene che Ninive sia il nemico e che, come tale, vada combattuto, senza mettere minimamente in conto l’ipotesi di una seconda possibilità. Il profeta non vuole dare ai niniviti un’altra possibilità: essi non devono avere l’opportunità di poter riparare al male fatto. Giona è fermo alla logica della condanna: vuole applicare la giustizia ed essa esclude la misericordia”. In questo, Giona arriva perfino a battagliare con l’Altissimo, ricorda Zuppi: “Giona rimprovera Dio perché è misericordioso. Per il Profeta bisogna che il nemico resti nemico e che, quindi, non vada mai accolto e perdonato. In fondo, l’atteggiamento misericordioso di Dio fa vacillare le sicurezze di Giona: “Come può Dio voler bene a quelli a cui io voglio male?”. Queste riflessioni, annota Ziccone, sono nate dalla frequentazione di “centinaia di ragazzi tra i 14 e i 25 anni che incontrato come autori di reato o vittime, ma anche dalle centinaia di genitori di ragazzi, volontari, insegnanti, educatori, studenti, avvocati, artigiani, agenti di polizia penitenziaria, docenti universitari, sacerdoti, amministratori psicologi, psichiatri, scrittori, pedagogisti” che hanno girato intorno all’esistenza di una dirigente di carcere. Che alla fine torna alle parole del cardinal Martini, faro per credenti, riferimento per non credenti, quando, parlando del carcere (realtà che spesso ha frequentato da arcivescovo di Milano), affermava: “L’uomo non è bestia da domare, bersaglio da colpire, delinquente da condannare, nemico da sconfiggere, mostro da abbattere, parassita da uccidere. Non esistono persone soltanto negative, tutte e sempre malvagi, identificabili nel reato; in ognuna c’è del frumento buono mescolato alla zizzania, come nel campo evangelico”. L’antimafia tradita da politica e giornalismo nel racconto di Franco La Torre di Lucio Luca La Repubblica, 28 novembre 2021 Il saggio del figlio del segretario regionale del Pci ucciso da Cosa nostra. “‘L’inadeguato senso di responsabilità e dell’agire incoerente della nostra classe dirigente, la difficoltà di aggiornare la lettura del fenomeno mafioso e l’incapacità di costruire e nutrire ampie alleanze”. In una tiepida mattinata di settembre del 1982, a Villa Pajno, sede della Prefettura di Palermo, si presenta Romolo Dalla Chiesa, fratello del generale dei ‘Cento giorni’ ucciso qualche giorno prima dalla mafia insieme alla moglie Emanuela e all’autista di scorta. Poco più avanti, in via Carini, dove i sicari di Cosa nostra avevano massacrato l’uomo inviato in Sicilia per combattere le cosche, c’è ancora la scritta lasciata da un autore anonimo: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. Romolo Dalla Chiesa chiede di entrare per recuperare alcuni effetti personali del fratello, ma il portiere di Villa Pajno non lo lascia passare. Al suo posto entra un ex impiegato della Prefettura, cacciato qualche mese prima per le sue parentele mafiose. La famiglia Dalla Chiesa riuscirà a visitare quella che fu l’ultima casa del generale e della moglie soltanto alcune settimane più tardi. Troverà la cassaforte vuota. Qualcuno, evidentemente, si era preoccupato di eliminare qualsiasi carta compromettente. Il suo testamento, comunque, il generale che sconfisse il terrorismo lo aveva consegnato a Giorgio Bocca, in un’intervista a Repubblica che è rimasta nella storia. Quella nella quale denunciava lo Stato di averlo mandato al macello senza dargli quei poteri indispensabili per lottare ad armi pari contro una piovra mai così forte con in quei primi anni Ottanta. Parte dalla strage di via Carini il racconto dell’antimafia tradita di Palermo firmato per Zolfo Editore da Franco La Torre, figlio del segretario regionale del Pci ucciso soltanto qualche mese prima di Dalla Chiesa. Pio La Torre aveva avuto un’intuizione semplice ma decisiva per combattere i boss: togliergli i patrimoni, le aziende, le case. In una parola, i piccioli, i soldi, la ragione della loro vita. Perché un mafioso lo puoi arrestare, metterlo al 41 bis, levargli pure i figli. Ma i soldi no, quello proprio non riesce a sopportarlo. Non fece in tempo il povero La Torre a vedere approvata la sua legge, i sicari di Cosa nostra arrivarono prima. E, per sua fortuna, non ha visto nemmeno lo scempio che alcuni magistrati hanno fatto di quella sua intuizione, i beni gestiti come propri, le assunzioni di amici e clienti, lo scandalo passato alla storia come il ‘caso Saguto’ con tanto di condanne - in primo grado - per la presidente delle Misure di prevenzione e i suoi fedelissimi. L’antimafia tradita, riti e maschere di una rivoluzione mancata colloca proprio all’indomani della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa la nascita di un movimento di rivolta dei “cittadini onesti” contro le cosche. “Questo libro non nasce per celebrare i risultati ottenuti ma per ragionare di una crisi che l’antimafia, nel suo complesso, vive ormai da tempo - scrive Franco La Torre - Perché è successo questo? Perché oggi l’antimafia sembra essere diventata, soprattutto, uno stanco rito dove sempre le stesse persone ricordano i caduti di una terribile guerra?”. Per l’autore, la crisi dell’antimafia è il risultato “dell’inadeguato senso di responsabilità e dell’agire incoerente della nostra classe dirigente, della difficoltà di aggiornare la lettura del fenomeno mafioso e dell’incapacità di costruire e nutrire ampie alleanze”. In sostanza, lo Stato avrebbe dovuto assumersi le sue responsabilità e non l’ha fatto. Ha scelto di intervenire in risposta agli attacchi mafiosi, ma non di dare alla lotta alla mafia la priorità che merita quando a essere minacciata è la democrazia e non l’interesse di pochi. Ha delegato la magistratura che ha fatto quello che ha potuto. Del resto gli stessi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino dicevano che la loro azione era paragonabile allo svuotare il mare con un bicchiere. Per questo si erano rivolti alla politica affinché fosse lei il motore. Ma la politica, secondo il figlio del segretario del Pci siciliano, è stata assente. Come se, con l’approvazione della Rognoni-La Torre, avesse considerato assolto il suo compito mentre, nel frattempo, qualcuno continuava a fare affari come prima. “Sono certo che mio padre - scrive La Torre - rimarrebbe un po’ perplesso nel vedere l’antimafia seguire, ormai da anni, lo stesso canovaccio, che si autocelebra e che scambia l’analisi e l’azione con il calendario degli omicidi delle vittime innocenti. L’antimafia come liturgia che celebra il passato ma non guarda verso il futuro”. La Torre non può fare a meno di rivolgersi anche ai media, la cui attenzione verso il fenomeno mafioso, negli ultimi anni, è quasi del tutto scemata. “La mafia è passata di moda, non fa più notizia” spiega. “Poi, un giorno, su un giornale nazionale, ho scoperto la storia di Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia, che si era abilmente costruito l’immagine di paladino contro le cosche e, per questo, era stato nominato responsabile Legalità di Confindustria nazionale e nel direttivo dell’Agenzia nazionale per la gestione dei beni confiscati. Oggetto d’indagini per reati di mafia e corruzione, è stato condannato in primo grado, con rito abbreviato, a quattordici anni di reclusione per associazione a delinquere e corruzione. Una notizia clamorosa che è stata trattata quasi alla stregua di un evento locale e spesso è rimasta sulle pagine dei giornali della sola Sicilia”. Ecco, secondo La Torre la vicenda Montante è il paradigma dell’antimafia tradita, la storia di una rivoluzione mancata in una terra come la Sicilia che ha ancora bisogno di rialzarsi. “L’antimafia l’abbiamo tradita noi - conclude l’autore - tradita dal venire meno di un impegno collettivo. L’abbiamo tradita in tanti, forse anche io che non sono stato all’altezza del patrimonio ereditato da mio padre. Ognuno ci ha messo del suo, chi più e chi meno. L’abbiamo tradita perché ci siamo accontentati. Abbiamo pensato che, se non avessimo agito noi, l’avrebbe fatto qualcun altro. Abbiamo delegato, insomma, perché ritenevamo di avere cose più importanti di cui occuparci”. La scheda - “L’antimafia tradita. Riti e maschere di una rivoluzione mancata”, di Franco La Torre, Zolfo Editore, pagg. 256, euro 17. Green Pass, libertà e salute pubblica di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 28 novembre 2021 Le nuove restrizioni introdotte dal governo approfondiscono la diversità di trattamento che già conosciamo tra i vaccinati, i non vaccinati ma “tamponati” e coloro che non sono né vaccinati né certificati a seguito di tampone. La nuova disciplina introdotta dal decreto-legge non crea, ma rinnova l’occasione di proteste all’insegna della denunzia di discriminazioni e della rivendicazione di libertà. Ma anche questa volta si tratta di proteste non giustificate. Ogni libertà trova limiti nella libertà e nei diritti altrui. La Costituzione, accanto al riconoscimento dei vari classici diritti di libertà, menziona i diritti umani inviolabili, ma impone l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà. E così si spiega, in materia di salute, che l’esclusione di qualunque trattamento sanitario che non sia accettato dalla persona cui viene praticato, si unisca alla espressa possibilità di eccezioni previste dalla legge. E le vaccinazioni sono da tempo l’esempio più evidente e accettato. Va aggiunto che nella Costituzione ogni diritto specificamente considerato prevede che la legge possa imporre limiti e condizioni, per rispondere a esigenze pubbliche di varia natura. Naturalmente le limitazioni imposte devono essere ragionevoli, correlate e proporzionate rispetto alla esigenza che le giustifica. Nel nostro caso si tratta della salute pubblica, che la Costituzione riconosce interesse della collettività, oltre che diritto fondamentale dell’individuo. È così che proprio le vaccinazioni sono state ritenute compatibili con la Costituzione dalla Consulta e che analogamente in Europa si siano pronunciate le altre Corti costituzionali e la Corte europea dei diritti umani. Va tenuto presente che la protezione della salute pubblica richiede anche la capacità del Servizio sanitario nazionale di assicurare le cure necessarie, senza essere travolto dal numero e dalla gravità dei malati. Vi è cioè uno stretto legame tra le vicende sanitarie individuali e l’andamento generale di una pandemia come quella in corso. Cosicché la gestione della propria salute, nel corso di una epidemia che comporta ricoveri ospedalieri e cure complesse e costose, non si mantiene nell’ambito della libertà individuale, ma diviene questione di interesse pubblico (a meno di accettare che non venga curato chi si ammala a causa del rifiuto di vaccinarsi e di adottare le idonee cautele). È esperienza accertata nel corso della pandemia la difficoltà o addirittura l’impossibilità del Servizio sanitario nazionale di provvedere alle cure di tutti gli ammalati: non solo di quelli da Covid 19, ma anche degli altri. Ecco allora che le terapie come la serie di vaccinazioni, insieme all’uso delle mascherine e dei gesti-barriera con il mantenimento della distanza tra individuo e individuo, considerano sia il valore della salute dei singoli, sia quello che riguarda la collettività. Il governo ha quindi non solo il diritto, ma anche il dovere di intervenire. Tutti i governi, non solo in Europa, in vario modo usano gli strumenti che sono a disposizione: non sono infiniti e, nel continuo evolvere della situazione epidemiologica e delle conoscenze scientifiche sul virus, possono solo variamente combinarsi nel porre obblighi e nel mantenere libertà. Ed è evidente che il rifiuto di accettare selettive limitazioni alle normali libertà obbliga all’alternativa di prevedere vincoli generali, cioè il ben noto lockdown (che qualche Stato vicino sta già adottando). Va quindi considerato che esistono gruppi di popolazione diversi e che la differenziazione è principalmente legata ai vaccini. Esistono una popolazione a minimo rischio (quella vaccinata o che è guarita dal Covid) e una a massimo rischio (quella non vaccinata). All’interno poi dell’una e dell’altra, la rischiosità si presenta diversamente per effetto delle diverse attività svolte, in particolare per il maggiore o minore contato con persone vulnerabili o con il pubblico generale. Ciò spiega e giustifica un intervento della autorità pubblica diversificato in considerazione non solo delle vaccinazioni, ma anche del settore di attività in cui le persone operano. Non si tratta di discriminazione, ma anzi di corretta considerazione delle differenze. A meno di negare l’evidenza e sostenere che vaccinati e non vaccinati siano eguali sul piano della sanità pubblica. La ammissibilità legale di imposizioni come la vaccinazione (a tutta la popolazione o a parte di essa) o come l’esclusione di accesso ad attività e luoghi per chi non disponga della certificazione di vaccinazione o di quella diversa del tampone negativo, non chiude il problema del come governare la ancora grave situazione. È necessaria la valutazione della praticabilità dei controlli relativi a ogni imposizione di obblighi, poiché una legge che non si sia in grado di far osservare è peggio della assenza di legge. E l’ammissibilità di una diversità di trattamento delle varie categorie di persone si combina con la necessità che la disciplina legislativa sia ragionevole e proporzionata nella scelta sia del diverso trattamento, che dei diversi soggetti cui la legge si applica. Si tratta del richiamo a un importante principio costituzionale, oltre che di opportunità politica. Esso va insieme al riconoscimento della difficoltà di un esercizio cui il governo non può sottrarsi, poiché ineludibile è la sua responsabilità di tutela dell’interesse pubblico. In piazza per avere un reddito di libertà contro i femminicidi di Marika Ikonomu Il Domani, 28 novembre 2021 Una marea di pañuelos fuxia, i fazzoletti di stoffa simbolo di lotte delle donne, ha invaso le strade del centro di Roma, in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Sono stati organizzati pullman da 20 città italiane - Bologna, Brescia, Genova, Mantova, Reggio, Calabria - e voli da Palermo, confluiti nella capitale per gridare che “ci vogliamo vive” e ricordare che il patriarcato è frutto della nostra cultura e la violenza è strutturale. “Noi oggi siamo qui per tantissime ragioni”, dice Alessia Piermarini del Collettivo Malelingue di Teramo, “per la violenza del patriarcato a tutto tondo, perché non è una violenza solo fisica, è anche psicologica”. Partito alle 14 da piazza della Repubblica un lungo corteo femminista e transfemminista si è diretto a piazza San Giovanni, dove una distesa di candele ha simbolicamente ricordato tutti i femminicidi, i lesbicidi e i transicidi. “Noi siamo da sempre in piazza contro la violenza. Personalmente dal 1971 a oggi”, dice Giuliana Pinselli, 81 anni, della Casa delle donne di Modena. “In questo momento è importante esserci, perché c’è un attacco generale contro le donne che si unisce al disastro del Covid. C’è un bisogno estremo di farci sentire, per reclamare e per imporre”, continua. In cinquant’anni la situazione per i diritti delle donne è cambiata, ma a volte “anche in peggio”, dice Pinselli, che sottolinea un elemento che rimane costante nel tempo: “Tutta la società capitalistica si regge sul lavoro non pagato di noi donne ed è una situazione che va affrontata. È una delle cause della violenza in famiglia”. Le chiavi di casa - La violenza avviene nella maggior parte dei casi tra le mura domestiche. “Sono qua perché ho subito violenza dalla persona che pensavo che più mi amasse al mondo”, racconta B.L. (le iniziali sono a tutela della persona intervistata). “La violenza si compone nel quotidiano”, continua, “nel possesso. È subdola, perché entra dentro la tua vita e non te ne accorgi, o te ne accorgi troppo tardi”. B.L. evidenzia quindi l’importanza di partire dalla prevenzione nelle scuole, dove lavora, nell’educare bambine e bambini alla diversità, perché “alcune professoresse dicono che non hanno tempo per poter intervenire” a favore di un’educazione che contrasti la violenza maschile contro le donne. Per questi motivi all’ingresso di via Cavour migliaia di persone hanno preso in mano e agitato le chiavi di casa, perché “l’assassino ha le chiavi di casa”, le stesse che “la sera teniamo in mano anche come strumento di autodifesa”, dicono le attiviste di Non una di meno. L’osservatorio - Nel 46 per cento dei casi infatti, secondo i dati dell’Osservatorio nazionale femminicidi, lesbicidi e transicidi, l’assassino era il partner, mentre nel 15 per cento dei casi l’uccisione è avvenuta per mano dell’ex partner. Gli osservatori istituzionali e le statistiche nazionali non bastano. Per questo Non una di meno il 25 novembre scorso ha reso pubblico l’Osservatorio nazionale femminicidi, lesbicidi e transicidi, che raccoglie dati e analizza le caratteristiche dei femminicidi. “È emerso che molte donne sono state uccise con un’arma da fuoco e che si tratta nella maggior parte dei casi di uomini italiani”, dice Serena di Non una di meno Roma. Il nuovo osservatorio ha l’obiettivo di “produrre una narrazione dal basso del fenomeno dei femminicidi, che ancora si affrontano come un’emergenza che riguarda il privato delle case. E invece è solo la punta di un iceberg di violenza che attraversa ogni ambito della nostra esistenza”, continua. Il reddito di libertà - Il reddito di libertà per le donne che intraprendono un percorso di fuoriuscita dalla violenza è essenziale e, secondo i movimenti femministi, le politiche messe in campo dalle istituzioni sono ancora insufficienti. “Noi chiediamo un reddito di autodeterminazione per liberare le donne dal ricatto della precarietà e della violenza, che non sia condizionato e che non sia vincolato al reddito familiare, né alla ricerca del lavoro”, spiega Serena di Non una di meno Roma. Secondo D.i.R.e., Donne in rete contro la violenza, la circolare INPS che definisce requisiti e modalità di accesso rimane un intervento di facciata. “Le istituzioni si sono appropriate del nostro linguaggio, delle nostre parole, dei nostri temi. Ritroviamo nei dispositivi legislativi e nel nuovo Piano nazionale antiviolenza le nostre parole prive, però, dei contenuti”, dice Antonella Veltri, presidente di D.i.R.e., alla piazza. “Manca un piano attuativo. La Convenzione di Istanbul viene citata dalle istituzioni ma non viene applicata. Dobbiamo cambiare la cultura di questa società”, continua Veltri. Donne migranti - Associazioni e movimenti che prendono parte al corteo portano in piazza anche le istanze delle donne migranti, che più di tutte subiscono violenza. “Noi siamo donne, ma siamo bianche, etero e abbiamo dei privilegi rispetto alle donne migranti”, dice Alessia Piermarini, del collettivo Malelingue. L’associazione Differenza Donna a Roma ha un centro per vittime di tratta e ospita Leila (nome di fantasia), afghana, che ricorda che la situazione in Afghanistan per le donne è sempre più difficile. “Erano già trattate come schiave prima, ma oggi per le donne è ancora più difficile lavorare, uscire, ricevere un’educazione. Per me è un’opportunità essere qui e vedere così tanti uomini che partecipano a questa manifestazione”, dice. Migena Lahi è la responsabile del centro per le vittime di tratta di Differenza Donna e ha dedicato il suo cartello “alle 20mila donne kosovare, alle donne bosniache e croate stuprate durante la guerra, che non hanno ancora ottenuto giustizia. Lo stupro è un crimine di guerra”, denuncia Lahi. Droghe. A Genova si tenta di voltare pagina di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 novembre 2021 Genova. Al via la VI Conferenza nazionale sugli stupefacenti. Senza la cannabis. Forte contrasto tra gli interventi degli esperti e quelli dei ministri. L’impostazione della VI Conferenza nazionale sulle dipendenze che si è aperta ieri a Genova, è - per volontà della ministra alle politiche giovanili Fabiana Dadone - un timido, disperato ma non impossibile tentativo di affrontare il nodo delle sostanze stupefacenti e delle dipendenze in modo razionale e de-ideologizzato. E di voltare pagina rispetto all’ultima Conferenza tenutasi a Trieste nel 2009, quella dove, come ricordavano alla Fuoriconferenza degli autoconvocati, “si è celebrato il matrimonio tra patologizzazione e repressione” (Susanna Ronconi). Ci proverebbe, la ministra, a cogliere l’esortazione di “pensare alla grande” che don Andrea Gallo aveva espresso proprio qui a Genova vent’anni fa, alla terza conferenza governativa. Il “prete da marciapiede” per eccellenza viene evocato in molti interventi, anche dall’arcivescovo di Genova che va giù diretto più di tanti ministri: “I tabù non servono più a nessuno”, dice alla platea ammessa nella magnifica Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, affollata da prelati e divise d’ordinanza (ma i giornalisti non possono entrare). Il senatore azzurro Gasparri e l’ex Giovanardi (autore della legge carcerocentrica e incostituzionale che porta il suo nome), seduti in prima fila, soffrono, non applaudono mai, tranne che alla ministra Gelmini quando condanna la legalizzazione della cannabis. Ma la titolare degli Affari regionali, se non altro, evoca il tema tabù. Il referendum sulla legalizzazione della cannabis che ha raccolto 630 mila firme, infatti, non viene neppure ricordato dalla Conferenza governativa nata per fare il check alle politiche sulle droghe. Chissà che non sia proprio questo il motivo per il quale la poltrona riservata al ministro della Salute Roberto Speranza rimane vuota. E, mentre intervengono dal vivo o con videomessaggi ben 20 tra ministri e rappresentanti delle istituzioni, Speranza non invia neppure un breve testo registrato di saluto. In questo contesto, il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha gioco facile nel fare la parte del leone, quando dice che con “la tolleranza zero non si è certo vinta la guerra alle dipendenze”, che è ora di smettere di strumentalizzare il tema droghe a fini elettorali, che “l’approccio meramente repressivo è stato pregiudizievole e respingente, e non si è fatto carico delle fragilità”, che la questione droghe non riguarda solo i giovani e “le fasce vulnerabili della società”, ma anche “le élite”, e che auspica “una pietra tombale su una stravagante tentazione di immaginare una via solo italiana di lotta alle droghe”. Perché “non possiamo ignorare” le nuove politiche europee, tanto più se “un partner importante come la Germania sta pensando di cambiare linea su questo fronte”. La parola cannabis però non riesce proprio a pronunciarla (ma fa infuriare lo stesso Salvini che gli suggerisce di occuparsi di lavoro). Quello che salta agli occhi nel primo giorno dei lavori della Conferenza intitolata “Oltre le fragilità” - che si conclude oggi con (forse) una bozza di relazione da inviare al Parlamento per una messa a punto della legge - è la forte distanza tra le dichiarazioni ingessate dei politici, quasi immutate nel tempo, che non restituiscono le trasformazioni totali cui abbiamo assistito in questi dodici anni, e i tavoli tecnici come quello sulla “Realtà penale e penitenziaria della dipendenza” coordinato da Leopoldo Grosso (Gruppo Abele), dove esperti del calibro di Cafiero De Raho (procuratore nazionale antimafia), don Ciotti (Libera), Patrizio Gonnella (Antigone), Luciano Lucania (Società italiana sanità penitenziaria), Mauro Palma (Garante nazionale detenuti) e Ferdinando Ofria (economista dell’università di Messina) mettono il dito nella piaga, chiedendo in modo netto e con dati, slide e studi dettagliati, la modifica dell’attuale Testo unico sulle droghe del 1990. Legge che, come fanno notare dal mondo dell’associazionismo, non ha affatto fallito, avendo ottenuto forse proprio quel risultato che i suoi estensori si proponevano: incentrare tutte le politiche sulle sostanze e non sulle persone; allineare ogni tipo di consumo alla dipendenza patologica, semplificare la questione anziché riconoscerne tutta la sua complessità, come sollecita Gonnella. La ministra Dadone pone le scuse istituzionali per questi dodici anni di latitanza governativa, auspica di “arrivare alla stesura del piano nazionale di azione” e all’”innovazione di quello che oggi è chiamato ancora Dipartimento delle politiche antidroga, per provare a estendere la definizione di dipendenze”. Spiega che a motivarla ancora di più sono stati alcuni tossicodipendenti e operatori recentemente incontrati, come quelli di “una comunità dove si usano metodi innovativi come l’arrampicata a scopi terapeutici”, struttura che “ha espresso un solo auspicio: diventare un modello per tutta Italia”. La ministra infatti la scorsa settimana ha visitato la storica Comunità semi-residenziale “La Tenda” di Roma, dove ha potuto verificare che senza fondi ad essere fragili non sono solo i tossicodipendenti ma anche chi se ne prende cura. In manovra, però, annuncia Dadone, “abbiamo già ottenuto due milioni di euro per la prevenzione alle dipendenze quest’anno, e due milioni per l’anno prossimo”. In pochi, però, sembrano seguirla nel suo timido tentativo di voltare pagina. Un supporto lo trova naturalmente nei suoi colleghi di partito, il presidente della Camera Fico e il ministro degli esteri Di Maio che ricordano l’immenso patrimonio gestito dal mercato illegale delle droghe e l’altrettanto grande danno procurato alle vite delle persone, e invitano a seguire le indicazioni delle organizzazioni internazionali nel contrasto ai traffici. Anche Cafiero de Raho, il procuratore antimafia che già auspicò la legalizzazione della cannabis per combattere le narcomafie, ha riferito ieri che “nell’ultima riunione della conferenza Onu si è espresso un forte orientamento di modifica alle politiche del proibizionismo”, e ha indicato il testo di legge sulla depenalizzazione dei fatti di lieve entità firmato dal deputato di +Europa, Magi, come un “testo meritevole di considerazione”. Peccato che dal governo, nella Sala del Maggior consiglio, non sia arrivato altro meritevole di considerazione. Cannabis legalizzata, Orlando: “Riflettiamoci”. E il governo si spacca di Maria Novella De Luca La Repubblica, 28 novembre 2021 Il ministro del Lavoro guarda all’esempio tedesco. Gelmini: “No alla libertà di drogarsi”. Salvini: “Il ministro pensi piuttosto a cassintegrati e precari. Sarebbe bastata la foto di don Andrea Gallo davanti alla sala della conferenza sulle droghe per capire che qualcosa è cambiato. Il sorriso del “don” (nel ricordo dei 20 anni dal G8 di Genova) fondatore della Comunità di San Benedetto al Porto, strenuo oppositore delle politiche di repressione dei tossicodipendenti, soccorritore degli ultimi, descrive infatti il tentativo, a 12 anni dall’ultima conferenza sulle droghe, dove la parola d’ordine era “tolleranza zero”, di cambiare, finalmente, il linguaggio. Invece è sulla Cannabis, oggi come ieri che la conferenza e la maggioranza di Governo si sono spaccate. Fabiana Dadone, convinta antiproibizionista, ha provato a costruire il grande meeting di Genova, portando sul tavolo temi assai concreti pur tentando, di evitare (ma non era possibile), il dibattito sulla legalizzazione della Cannabis. Dal fallimento della “tolleranza zero” verso chi consuma alla inattualità del testo unico sulle droghe del 1990, dallo spaventoso numero di tossicodipendenti in carcere, alle mafie del narcotraffico sempre più aggressive e invincibili. Invece è sulla legalizzazione, o meno, che il dibattito è planato, perché oggi la questione non è più rinviabile, con un referendum per l’autocoltivazione di marijuana che ha raccolto oltre seicentomila firme e un ragazzo su quattro che ammette di farne uso. Sono state le parole del ministro del Lavoro, Andrea Orlando, (dopo l’intervista di Repubblica in cui la ministra Dadone ha affermato “basta proibizionismo sulle droghe leggere”) a riaprire il dibattito. Riferendosi alla imminente decisione della Germania di legalizzare la Cannabis, Orlando ha rilanciato: “Nel momento in cui una parte non proprio irrilevante e un alleato non proprio trascurabile dell’Italia, come la Germania, sembra cambiare profondamente linea su questo fronte, credo che sia inevitabile che una qualche riflessione la si faccia anche nel nostro Paese”. Del resto Orlando aveva iniziato il suo intervento citando proprio don Andrea Gallo e Fabrizio De Andrè che la fragilità di chi si droga hanno raccontato e cantato. Immediata la reazione di buona parte della Destra, a cominciare dalla ministra per gli Affari Regionali di Forza Italia, Maria Stella Gelmini. In apertura del suo intervento ha subito precisato di essere “contraria alla legalizzazione di ogni tipo di sostanza stupefacente”, avvertendo che “nel Governo su questo tema ci sono sensibilità diverse”. Sulla stessa linea, naturalmente, Massimiliano Fedriga, leghista e presidente della Conferenza delle regioni. Orlando e Dadone da una parte, quindi, M5S e Pd, Lega e Forza Italia dall’altra. Un netto scontro all’interno della maggioranza che su temi sensibili e diritti civili, dal Ddl Zan al suicidio assistito, non sembra avere alcuna concordia. Con posizioni diversificate all’interno degli stessi partiti. Matteo Salvini ha poi attaccato frontalmente Andrea Orlando. “È molto preoccupante che un ministro, anziché ascoltare le tante comunità di recupero che eroicamente salvano migliaia di ragazzi parli con leggerezza di droga. Pensi piuttosto a cassintegrati e precari”. Dadone, poi, a Palazzo Ducale, ha ribadito che “il Parlamento dovrebbe valutare la legalizzazione”, trovando autorevole sponda nella posizione del Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho: “Sono orientamenti che cominciano farsi strada a livello internazionale. Nell’ultima riunione della commissione Onu c’è stata una direzione forte verso le modifiche della politica del proibizionismo”. Un dibattito dai toni già noti che ha in parte oscurato lo sforzo di questa sesta conferenza sulle dipendenze, di utilizzare un linguaggio nuovo nel parlare delle droghe. Puntando sulla “fragilità” e il bisogno di ascolto di chi si droga (300 morti di eroina l’anno) piuttosto che di emarginazione e carcere. Seicentomila firme anti-proibizioniste, ma le Camere snobbano il referendum di Maria Novella De Luca La Repubblica, 28 novembre 2021 La revisione del Testo unico sulle droghe in Parlamento procede a rilento per i veti incrociati. Come nel caso del suicidio assistito. Un referendum che ha raccolto seicentomila firme. Una revisione della legge, il “Testo unico sulle droghe” del 1990, che procede, in commissione Giustizia, a passi da formica. È simile alle altre leggi sui diritti civili il percorso parlamentare, anzi extraparlamentare, che potrebbe portare, se non alla legalizzazione, certamente alla depenalizzazione del consumo di marijuana. Come l’eutanasia, appunto. Da una parte c’è il referendum dell’Associazione Coscioni che conquista migliaia di firme e punta ad abrogare l’articolo 579 del codice penale che prevede sanzioni per “l’omicidio del consenziente”, dunque a depenalizzarlo. Dall’altra una legge in Parlamento sul suicidio assistito, sul quale i veti incrociati sono così forti che la meta appare lontana se non impossibile. Così è per la cannabis. Mentre il referendum proposto dai Radicali italiani, Associazione Coscioni ed Europa più, per abrogare il reato di coltivazione di Cannabis per uso personale, ha raccolto e superato in tempi record le firme necessarie per essere accolto e validato dalla Cassazione, la legge in Parlamento è ferma. Procede a rilento cioè la revisione del “Testo unico sulle droghe” la cui inattualità è stata sottolineata durante la conferenza di Genova. Il testo è la legge Iervolino Vassalli, numero 309 del 1990 che introduceva la differenziazione tra droghe leggere e droghe pesanti, con pene diversificate per lo spaccio a seconda delle sostanze. E introduceva il concetto comunque di “lieve entità”, che mitigava le sanzioni. La legge viene poi riscritta nel 2006, dal ticket Fini-Giovanardi, diventando in materia di stupefacenti la legge più repressiva d’Europa. Scompare, all’articolo 73, la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, lo spaccio è punito da 6 a 20 anni. Le critiche sono pesantissime, le carceri si riempiono non di narcotrafficanti ma di tossicodipendenti, migliaia di ragazzini con un po’ di hashish in tasca per consumo personale si ritrovano con la fedina penale sporca. Sono gli anni della tolleranza zero che l’Italia copia (in ritardo) al modello americano di Rudolph Giuliani. Gli effetti di quella legge sono così drammatici che nel 2014 la Consulta dichiara incostituzionale l’articolo 73 riscritto da Fini e Giovanardi. Dunque la nostra attuale legge in materia di stupefacenti è tornata ad essere la Iervolino Vassalli del 1990 con alcune variazioni. Una legge vecchia di oltre trent’anni, mentre il panorama del consumo e del mercato delle droghe è radicalmente cambiato. In commissione Giustizia oggi giacciono diversi disegni di legge di revisione (a firma Radicali italiani, Lega e Pd), ma è stato di recente adottato un testo unico proprio sulla coltivazione della Cannabis per uso personale. Lo stesso punto previsto dal quesito referendario dei radicali, che prevede la non punibilità per chi coltiva per uso personale. Se il referendum passasse diventerebbe lecito far crescere sul proprio balcone circa 4 piantine di Cannabis. Ma come per l’eutanasia l’iter parlamentare è un campo di battaglia che blocca tutto. Mentre la navicella dei referendum corre veloce e racconta un Paese sideralmente lontano dal Palazzo. Droghe. Dark web, la più grande piazza di spaccio di Francesco Castagna L’Espresso, 28 novembre 2021 Un giro d’affari di oltre 16 miliardi di euro, un consumo crescente delle droghe sintetiche. Il lockdown ha cambiato il mercato e sono saltati i parametri per valutare la diffusione. In tre anni cresciuto del 2,5 per cento il consumo di cocaina. Non solo Covid19. Lo stato di emergenza, il Pnrr e le dosi booster rischiano di far dimenticare la piaga silenziosa della droga. Mentre il consumo galoppa e il mercato cresce. Alimentando un business che in Italia ha un valore stimato in di 16,2 miliardi di euro (dati della relazione al Parlamento del 2021). Quasi il 40 per cento riguarda la cannabis e il 32 per cento la cocaina, con un incremento di quest’ultima del 2,5 per cento rispetto agli ultimi tre anni. Non bastassero i canali tradizionali, con una tecnologia sempre più alla portata delle nuove generazioni, è molto facile accedere al dark web. Basta scaricare sul pc di casa un programma come Tor e una Vpn, in grado di anonimizzare la propria connessione in rete, e poi trovare online i link giusti per accedere a piazze di spaccio sconfinate. Nella prima fase della pandemia, gli effetti del lockdown hanno influito in maniera sostanziale sull’attività dei SerD (servizi pubblici per le dipendenze patologiche), che si sono dovuti riorganizzare secondo le nuove disposizioni di sicurezza. Parallelamente, la criminalità lavora sottotraccia sui nuovi canali. Dark web e piattaforme di messaggistica come Telegram e Wickr me sono i nuovi strumenti dei pusher, che le usano per il loro commercio su chat cifrate dove si paga esclusivamente con cripto-valute. A Genova, il 27 e 28 novembre si terrà “Oltre le fragilità”, la VI Conferenza nazionale sulle politiche antidroga per provare a fare il punto su diffusione e consumo. E per far tornare a dialogare a 12 anni di distanza dall’ultimo incontro di Trieste del 2009, rappresentanti delle istituzioni, società civile e privato sociale. In questi anni infatti i ministeri, il dipartimento per le politiche antidroga e le regioni sono stati responsabili di uno scaricabarile. Le difficoltà di capire chi debba mettere in campo delle soluzioni e monitorare con esattezza chi fa uso di sostanze stupefacenti e psicotrope riflettono la confusione. Nell’ultima relazione governativa (dati del 2020), su tutto il territorio sono state individuate 44 nuove sostanze psicoattive. Tutte riconducibili nella maggior parte ai catinoni sintetici, cioè analoghe alla molecola presente nella pianta psicoattiva del khat. Unico elemento positivo, il calo della diffusione di cocaina tra gli studenti, fermo all’1 per cento. Ma non esiste un metodo preciso per definire quanta droga le organizzazioni criminali producano e a quanto ammonti con certezza il traffico. Si parte dal basso, analizzando i dati degli acquirenti, quindi il consumo della sostanza stessa. In pieno lockdown il computo è saltato. Le istituzioni, l’associazionismo e i centri di recupero hanno dovuto reinventarsi. Le attività di prevenzione selettiva, ad esempio, hanno assunto una vera e propria funzione di riduzione del rischio e del danno. Il sistema di contenimento dei guasti da stupefacenti fu l’argomento centrale del forum del 2009 sotto il ministero di Carlo Giovanardi, che aveva la delega alle politiche antidroga nel governo Berlusconi, e che con Gianfranco Fini, vicepresidente del Consiglio aveva firmato la legge del 2006 che annullava la differenza tra droghe pesanti e leggere, poi bocciata dalla Corte Costituzionale nel 2014. E su cui ha rimesso le mani, da posizioni diametralmente opposte, la ministra della Salute del secondo governo Prodi, Livia Turco. Del dibattito di allora restano strumenti ancora in uso. Dall’”Allerta Rapido”, ad opera di Giovanardi, per monitorare la comparsa di nuove droghe e intervenire tempestivamente dal punto di vista della profilassi alla legge di Livia Turco sul fondo antidroga per attivare servizi di prevenzione, cura e presa in carico. Di droghe si occupò anche Beatrice Lorenzin, ministra della Salute dal 2013 al 2018, per la quale l’inefficienza del Dipartimento antidroghe è frutto dello spostamento di quest’organo dal ministero della Salute alla presidenza del Consiglio dei ministri. Da lì in poi si è fatta un’attività più di analisi dei dati che di azione sui territori. Ora la conferenza sotto l’egida della ministra del governo Draghi, Fabiana Dadone. “Il governo ha stanziato in legge di Bilancio 2 milioni per il 2022 e altrettanti per il 2023, sotto consiglio anche di enti, addetti ai lavori e istituzioni.”, dice la Ministra per le politiche giovanili: “Questo fondo non era stato rifinanziato negli ultimi anni”. La sesta conferenza dovrà affrontare, causa pandemia, le problematiche legate ai giovani: “L’essere stati chiusi in casa per mesi ha alimentato questi mercati e di conseguenza si è reso necessario approfondire il tema della fragilità individuale e dell’isolamento che poi portano i giovani a determinate scelte”, dice la ministra Dadone in base alle competenze del suo ministero. Sul tema della legalizzazione della cannabis, la ministra fa parte del gruppo parlamentare dei Cinque Stelle che si è più volte espresso a favore ed è firmataria di una proposta di legge antiproibizionista. In piena campagna referendaria, c’è da giurare che al forum, il dibattito finirà per polarizzarsi anche su questo. Nel caos di Ventimiglia tra bivacchi, ronde, proteste e l’ultimo migrante ucciso di Marco Imarisio Corriere della Sera, 28 novembre 2021 Sotto il ponte del fiume Roja ci sono giacche a vento, sacchi a pelo, imballaggi di cartone, e una pozza di sangue rappreso. Non c’era bisogno dell’ennesima tragedia per capire che i migranti alla vana ricerca del passaggio in Francia, non hanno più un posto dove andare, e dove aspettare. E quindi si fermano qui dopo essere stati respinti dalla polizia di frontiera. La scorsa notte un giovane ancora senza nome, nemmeno trentenne dicono i Carabinieri, forse di origine sudanese, è stato ucciso a coltellate da un suo compagno di disgrazia. Lo hanno ritrovato riverso sul suo giaciglio, e forse proprio la titolarità di quel posto dove passare la notte è all’origine della lite con il suo assassino. Intanto, a Ventimiglia. Ancora una volta, ancora di più. Nel 2021 gli episodi di violenza tra profughi sono aumentati a ritmo vertiginoso, quasi uno alla settimana. L’edizione locale del Secolo XIX titola “La città ostaggio dei disperati”, ed è una buona sintesi. L’atrio della stazione sembra un dormitorio, una lunga fila di corpi sdraiati ai quali nessuno ormai fa più attenzione, come fossero diventati elementi abituali del paesaggio. I migranti hanno ripreso a bivaccare sul greto del fiume, davanti al cimitero, e adesso anche nella città vecchia, tra gli sguardi indifferenti dei pochi turisti francesi. La Asl ordina al Comune la bonifica dell’intera frazione di San Secondo, “a causa dei problemi di carattere igienico-sanitario derivanti dalla presenza di decine di persone migranti nelle aree ferroviarie”. I treni sono l’unico mezzo per evadere da un Paese nel quale non vogliono stare, perché i gendarmi francesi esercitano un controllo draconiano e spesso violento sui valichi di terra. Li rimandano sempre indietro, non prima di avere tagliato a metà le loro scarpe con una fresa. Tre mesi fa, due adolescenti sono morti folgorati sul tetto del vagone dove si erano rifugiati. Negli ultimi due anni, sono almeno venti le persone che hanno subìto questa sorte. Alcuni sono invece annegati, altri sono stati investiti in autostrada. I commercianti protestano in piazza, mentre il Comune organizza ronde notturne nei quartieri. La distribuzione dei pasti avviene sotto la campata del ponte, la stessa dove la scorsa notte è avvenuto il delitto. La fila è così lunga che quando piove non c’è spazio per proteggere le persone in attesa. Se ne occupano pochi gruppi di volontariato, la Caritas, la Diaconia Valdese e l’associazione We world. Perché dall’inizio della pandemia non c’è più nulla a regolare il flusso e le necessità dei migranti. Negli ultimi giorni, don Ferruccio Bortolotto ha aperto le porte della chiesa di Sant’Agostino, nel centro del paese, per ospitare una decina di migranti che gli sono stati consegnati dalla Polizia. “Non c’è più un luogo dove poter accogliere queste persone in transito. Mi chiedo spesso come sia possibile parlare sempre di emergenza ed esser così impreparati”. Quel posto esisteva. Il campo di prima accoglienza della Croce Rossa era arrivato a ospitare anche seicento persone. Non è mai stato una soluzione definitiva, ma aveva almeno attutito le tensioni tra gli abitanti e i locali. Ognuno per sé, a ognuno il suo spazio. Nell’agosto del 2020, il centro di prima accoglienza è stato chiuso, su decisione della prefettura. Gaetano Scullino, civico sostenuto da tutti i partiti del centrodestra, lo aveva promesso alla cittadinanza durante la campagna elettorale. “Premesso che io non ho imposto nulla, è vero che non funzionava più, ormai era diventato un albergo”. L’attuale sindaco rivendica i risultati ottenuti a colpi di ordinanze che proibiscono il bivacco, la vendita di alcolici ai migranti, il divieto di abbeverarsi alle fontane pubbliche per i non residenti. Ma adesso è tornato il casino, ammette con il suo linguaggio colorito, arrivando a riconoscere che sotto il profilo dell’accoglienza “la nostra città non sta dando una risposta adeguata”. “Per molto tempo si è scelto di stare fermi in base a una semplice motivazione ideologica” sostiene invece Enrico Ioculano, consigliere regionale Pd e predecessore di Scullino. Comunque sia, il risultato è un eterno ritorno casella di partenza. La soluzione individuata per risolvere una emergenza perpetua che si sta aggravando con l’arrivo dei profughi afgani è l’apertura di un altro centro di prima accoglienza, chiesta anche dalla attuale amministrazione. Come quello che c’era prima, solo un po’ più lontano. Oltre i famosi giardini Hanbury, quasi al confine con la Francia. Anche se poi ci sarà da convincere gli ospiti a salire fin lassù. La nuova struttura aprirà tra sei mesi, forse. Mentre lasciamo Ventimiglia, due elicotteri volano nel buio alla ricerca di un giovane migrante disperso nei boschi. Negli Stati Uniti l’ingiustizia eretta a sistema di Luca Celada Il Manifesto, 28 novembre 2021 Da Ahmaud Arbery a Malcolm X, l’apartheid giudiziario verso i neri è una costante ineludibile della storia americana. Sui gradini del tribunale della Georgia dove sono stati condannati i suoi assassini, la madre di Ahmaud Arbery ha ringraziato Dio per il verdetto che non avrebbe mai immaginato di vedere emesso. È un’affermazione che può sembrare singolare per chi abbia visto il video, girato dagli stessi carnefici, che documenta come il giovane jogger Afroamericano sia stato braccato in pickup da tre uomini bianchi che gli hanno poi sparato a bruciapelo perché ritenevano sospetto il suo fare. Ma il sollievo con cui è il verdetto è stato accolto non solo dai famigliari, ma dall’America civile e dagli Afroamericani che hanno seguito il processo col fiato sospeso, dà la misura della trepidazione con cui il paese affronta ancora fantasmi profondamente radicati ed agitati negli ultimi anni dalla recrudescenza razzista. Il verdetto Arbery è giunto infatti un paio di giorni appena dopo quello che ha assolto Kyle Rittenhouse, il vigilante adolescente che ha ammazzato due manifestanti anti razzisti in Wisconsin dopo essersi autonominato difensore di Kenosha e recatosi a “pattugliare” quella città del Wisconsin imbracciando un AR 15. Quella sentenza è stata osannata dalla destra suprematista che ha fatto del ragazzo un simulacro di una “autodifesa armata” che oggi viene apparentemente sancita dai tribunali (come lo sarebbe in tutta probabilità dalla Corte Suprema blindata dai togati a vita istallati da Trump). È un filone che anche senza voler ricorrere a stereotipi rimanda inevitabilmente al retaggio di violenza sommaria del paese fondato su individualismo, schiavismo e pulizia etnica. Il verdetto Arbery - come aveva fatto qualche mese fa la condanna del poliziotto assassino di George Floyd - costituisce una rara incrinatura della pretesa di impunità bianca che fino ad oggi è stata la norma. Senza scomodare complessi di superiorità che i sovranismi sdoganati nella fortezza Europa rendono a oggi vieppiù ingiustificati, sono avvenimenti che in America hanno un’immediatezza che rimanda ad una storia razziale antica e recente che il nazional populismo ha pericolosamente rimestato. Parallelamente ai verdetti a sfondo politico-razziale (fra cui bisogna annoverare anche quello civile contro i neo nazisti organizzatori della mortifera manifestazione di Charlottesville, condannati martedì a risarcirne le vittime), la scorsa settimana ha registrato anche casi clamorosi di “errori” giudiziari. Prima lo scagionamento dei due uomini falsamente accusati dell’assassinio di Malcolm X, Muhammad Aziz e Khalil Islam che hanno entrambi scontato pene di decenni in prigione. Pochi giorni dopo è stato rimesso in libertà Kevin Strickland, scagionato 43 anni dopo la falsa condanna per omicidio che la polizia di St Louis gli aveva cucito addosso quando era 22enne. In questi casi si ravvisa la trama un vecchio film, la replica permanente in cui le vittime che di rado vengono liberate dopo decenni trascorsi ingiustamente in galera, o più spesso continuano a marcirvi, hanno sempre lo stesso colore di pelle. Frequentemente, come per Khalil Islam nel caso Malcolm X, la sentenza che lo scagiona arriva solo postuma. Dal 1989 l’Innocence Project, un consorzio di avvocati volontari e studenti di legge, lavora per il riesame dei casi mediante analisi sul Dna dei condannati, molti dei quali, spesso a meno di 21 anni di età, erano stati indotti a firmare confessioni imposte dalla polizia. Ad oggi in 37 stati americani 375 detenuti sono stati scagionati - in media avevano trascorso in prigione 14 anni, e 21di questi si trovavano nel braccio della morte. L’ultimo e più inquietante dato conferma una tragica e accettata verità: negli Stati uniti un numero imprecisato ma sicuramente consistente di innocenti sono stati, e vengono tuttora, messi a morte. Non si tratta quindi di occasionali “errori” ma di un problema sistemico dall’innegabile sfondo razziale: il 60% dei casi riesaminati ha riguardato afroamericani (mentre nella popolazione generale i neri costituiscono poco più del 10%). Protagonisti e martiri di una storia al contempo secolare e sempre attuale dai linciati del “Jim Crow” ad Emmett Till alle Pantere Nere uccise o rinchiuse dal programma Cointepro del FBI (ricordo l’uscita di prigione dopo 27 anni di Geronimo Pratt giovane dirigente delle Pantere di Los Angeles quando venne incastrato da una testimonianza procurata dalla polizia nel 1972). E poi di volta in volta i Groveland four, i Central Park five…le storie che scandiscono l’ingiustizia sedimentata come sistema. Questa è la storia che oggi non solo la destra ma anche molti “moderati” chiedono di non riesumare o magari insegnare per non turbare la pace (e gli fanno eco le controparti che in Europa si ergono a paladini della cultura occidentale contro la correttezza politica multiculturale). La storia invece è ineludibile - ma non irripetibile, come conferma in qualche modo il “rapporto sullo stato globale della democrazia” pubblicato sempre questa settimana da International Institute for Democracy and Electoral assistance di Stoccolma che ha per la prima volta inserito gli Stati uniti fra i paesi caratterizzati da una “regressione democratica,” specificamente in virtù delle manovre repubblicane volte a consolidare il potere di minoranza mediante la soppressione e l’inibizione del voto di Neri e minoranze - adattamento odierno delle operazioni messe in campo dal Sud segregazionismo per mantenere l’apartheid per un secolo dopo la fine della guerra civile. In Bosnia dove torna l’incubo della guerra: “Rischio secessione” di Fabio Tonacci La Repubblica, 28 novembre 2021 L’escalation di atti secessionisti del leader nazionalista serbo Dadik minaccia gli accordi di Dayton. Ma come trent’anni fa a Banja Luka sono pochi ad ammettere la crisi. All’ipotesi di un’altra guerra balcanica qui non vuol credere nessuno. E se non ci trovassimo nella Repubblica serba di Bosnia sarebbe una notizia confortante. Anche trent’anni fa, però, quando cominciarono i primi ammazzamenti dalle parti di Vukovar sul Danubio (maggio 1991) e quando i serbi di Sarajevo presero a scavare trincee nel quartiere vicino all’aeroporto (giugno 1991), da queste parti non ci credeva nessuno. Sappiamo poi come è finita: solo in Bosnia più di 100 mila morti e due milioni di profughi. Proprio per questo va preso con estrema serietà l’ultimo report dell’Alto rappresentate Onu Christian Schmidt, garante degli accordi di pace di Dayton siglati nel 1995. Non più tardi di un mese e mezzo fa, di fronte alla ricostituzione di un esercito indipendente deciso dai separatisti serbi, Schmidt ha avvertito le Nazioni Unite che, nella complicata terra dei Balcani, “il rischio di un nuovo conflitto civile è concreto”. Eppure nella gelida Banja Luka si finge di non vedere, si nega, si parla d’altro. All’eventualità che l’escalation di provocazioni, atti e dichiarazioni secessioniste da parte del sessantaduenne Milorad Dodik, componente serbo della presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina, conduca a un altro conflitto non crede Bojan. È uno dei camerieri del Balkon, il più famoso e frequentato bar ristorante di Banja Luka, la capitale della Repubblica serbo-bosniaca. “Dodik è un brav’uomo e sa quello che fa, nessuno qui pensa che ci trascinerà in un altro conflitto”, dice Bojan, mentre regge un vassoio con quattro bicchieri di Rakija, il distillato locale col 70 per cento di contenuto alcolico. Sono le 5 del pomeriggio, il Balkon è pieno di giovani, avvolto da una cappa di fumo di sigaretta. Le mascherine per proteggersi dal Covid non le indossa nessuno. Un violinista suona per strada. Si va per negozi a fare shopping. La crisi diplomatica interessa poco. Che Dodik abbia incassato il supporto della Serbia e della Russia di Putin, cosa che dà sostanza e credibilità ai suoi proclami, interessa anche meno. “Se l’Ue ci darà sanzioni, proclameremo l’indipendenza e ci difenderemo da soli”, afferma il leader serbo. “Se ci risponderanno minacciando l’intervento Nato chiederemo ai nostri amici, che ci hanno fatto capire che non ci abbandoneranno - di aiutarci”. Sfide e allusioni, per testare fin quanto può tirare la corda. L’analista politico ed ex diplomatico Luciano Kaluza, che si professa “di sinistra e non nazionalista”, ritiene lo scontro armato una possibilità assai remota. “Bojan non è un separatista - dice a Repubblica - sta soltanto difendendo la Srpska (la Repubblica serba, l’entità a maggioranza serbo-ortodossa che con la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, a maggioranza invece bosgnacca, compone lo Stato, ndr) dall’aggressione dei politici di Sarajevo che vogliono togliere autonomia e potere ai serbi”. A Banja Luka, capitale della Srpska, la città che durante la guerra “sapeva di kerosene”, come la ricorda Paolo Rumiz nel suo libro-reportage Maschere per un massacro, si tende a minimizzare. Se non addirittura a ribaltare la lettura che fanno a Bruxelles delle manovre spregiudicate di Dodik, già presidente della Srpska (2010-2018) e leader del partito nazionalista serbo maggioritario. Pochi giorni fa nove europarlamentari in rappresentanza di quattro partiti (Popolari, Verdi, Socialisti Democratici e i liberali di Renew) hanno scritto una lettera ai ministri degli Esteri dell’Unione per chiedere urgentemente sanzioni contro Dodik, e chiunque lo sostenga, per violazione dell’accordo di Dayton. “Siamo indubbiamente di fronte alla più seria crisi politica dai tempi della fine del conflitto”, scrivono. “Il boicottaggio alla legge che punisce i negazionisti del genocidio e dei crimini di guerra, la creazione di un esercito autonomo della Repubblica Serba e le esercitazioni paramilitari vicino a Sarajevo dimostrano che Dodik sta portando avanti la sua agenda separatista, con il supporto indiretto di Serbia e Russia e nell’assenza di risposta da parte dell’Unione Europea”. La Commissione, sulla questione Bosnia, continua a essere afona. Dodik paventa la secessione da almeno 15 anni, però a questo giro alle parole hanno cominiciato a seguire i fatti. La temperatura si è alzata quando quest’estate l’Alto rappresentante Onu ha imposto, nell’ordinamento normativo bosniaco, un emendamento che punisca i negazionisti del genocidio di Srebenica (8.000 civili massacrati), ordinato dal criminale di guerra Radko Mladic nel 1995 e tuttora messo in discussione da una parte dei nazionalisti serbi. “C’è chi sostiene che non sia mai avvenuto e che le vittime erano già morte prima - spiega l’analista di Ispi Giorgio Fruscione, che segue da anni il quadrante dei Balcani - altri dicono che le cifre dei morti sono molto inferiori, altri ancora che è stata solo una normale operazione militare”. La legge sul negazionismo è stata il pretesto per Dodik per riaffermare la dannosità del cappello Onu, annunciare la messa al bando della magistratura, delle forze di sicurezza e dell’intelligence bosniache, e avviare così l’escalation. Non prima, però, di essersi incontrato l’11 ottobre a Belgrado con il ministro degli Esteri Serghej Lavrov in occasione del summit dei Paesi non allineati. Il 20 ottobre è la data dell primo atto concreto: l’assemblea dell’entità serba approva la creazione di un’agenzia per l’approvvigionamento dei medicinali. Autonoma, separata dal resto delle istituzioni, serb only. “Non voglio la guerra e non voglio la secessione”, va ripetendo Dodik. “Ma l’autorità dei serbi deve rimanere ai serbi”. Vojin Mijatovic, che nell’assemblea di Banja Luka siede sui banchi dell’opposizione in quanto membro dei Social-democratici, conosce bene Dodik. Non foss’altro perché ne è stato il braccio destro per anni, prima di rompere. “Quell’uomo è uno dei più ricchi d’Europa - dice oggi - non vuole la guerra. Il suo vero intento è un altro: coprire più di vent’anni di malefatte, per evitare di essere arrestato”. Turchia. Resta in carcere il filantropo Osman Kavala La Repubblica, 28 novembre 2021 Per il suo rilascio si erano mobilitati dieci ambasciatori europei e gli Stati Uniti. Osman Kavala resta in carcere, così ha deciso venerdì un tribunale turco estendendo la detenzione del filantropo la cui reclusione ha rischiato di scatenare una crisi diplomatica tra la Turchia e gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali. Kavala è in carcere in attesa di processo da più di quattro anni: molti in Turchia lo considerano un perseguitato politico di Ankara. “Questo processo è l’ennesimo episodio sfacciato dell’incessante persecuzione politica per la quale la Corte europea ha condannato la Turchia”, ha affermato Nils Muiznieks, direttore per l’Europa di Amnesty International. “Quando uno stato mostra tale disprezzo per i suoi obblighi ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il Consiglio d’Europa deve agire e avviare una procedura di infrazione”. Il Consiglio d’Europa aveva avvertito la Turchia a settembre che avrebbe avviato procedimenti a carico del Paese se Kavala non fosse stato rilasciato. Il processo potrebbe portare alla sospensione dell’adesione o dei diritti di voto della Turchia, isolando ulteriormente Ankara e minacciando il rapporto con l’Europa. Gli ambasciatori di 10 Paesi, tra cui Stati Uniti, Germania e Francia, il mese scorso avevano chiesto l’immediato rilascio di Kavala in linea con una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2019. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha minacciato di espellere gli ambasciatori prima di fare marcia indietro. Le decisioni della Corte europea sono vincolanti per i suoi membri e due anni fa la Corte aveva chiesto il rilascio di Kavala in attesa del processo, affermando che la sua detenzione non era supportata da prove di un reato. Kavala, 64 anni, è accusato di aver finanziato le proteste anti-governative del 2013 a Getzi Park e di aver contribuito a orchestrare un tentativo di colpo di stato tre anni dopo. Ha sempre negato le accuse, che comportano l’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale: Kavala non ha partecipato all’udienza di venerdì presso l’Alta Corte Penale.