50 detenuti dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita: l’ultimo a Pavia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 novembre 2021 I detenuti continuano a suicidarsi. L’ultimo è avvenuto nel carcere Torre del Gallo di Pavia. Parliamo di un 46enne che stava scontando una pena a 5 anni e 4 mesi di reclusione per violenze e maltrattamenti. Si trovava in isolamento nel reparto protetti, dopo essere rientrato nella casa circondariale in seguito a una visita in ospedale. L’uomo si è suicidato con un lenzuolo annodato, approfittando proprio del suo stato di solitudine in cella e di un momento di mancanza di sorveglianza. È il secondo suicidio dall’inizio del mese a Pavia - Si è trattato del secondo suicidio nel giro di un mese nel carcere pavese: il 25 ottobre scorso si è tolto la vita un detenuto di 36 anni. Anche in quel caso, parliamo di un ragazzo che ha approfittato di un momento di solitudine e di attenuamento della sorveglianza. Il suicidio del detenuto, originario del Torinese, su cui è in corso una inchiesta della procura, è stato il primo episodio più grave tra i diversi gesti di autolesionismo che si stanno verificando tra le sbarre, da diversi mesi, nella casa circondariale di Pavia. La denuncia della garante provinciale di Pavia Laura Cesaris - “La situazione è molto preoccupante - ha denunciato, in quell’occasione, la garante dei detenuti delle tre strutture provinciali Laura Cesaris, docente di Giurisprudenza all’Università di Pavia. I gesti di autolesionismo sono frequenti e sono, a mio avviso, la spia di un disagio sempre più diffuso e di un degrado ambientale, oltre che strutturale, che il carcere di Pavia sta vivendo”. Per la garante tra i nodi critici di Torre del Gallo c’è il sovraffollamento. “Questa è una situazione che si trascina da tempo e che va a esasperare altre situazioni, come la presenza alta di detenuti con patologie psichiatriche - ha spiegato Cesaris -. A questo bisogna aggiungere l’assenza di progetti per i detenuti, che possano rappresentare un’alternativa al malessere per la condizione della detenzione, come ad esempio i corsi scolastici, che da quest’anno si sono notevolmente ridotti. Ho scritto anche al ministero e ora aspetto una risposta”. Cinquantesimo suicidio su 124 detenuti deceduti - Con questo tragico episodio, siamo giunti al 50esimo suicidio dall’inizio dell’anno, su un totale di 124 detenuti deceduti. Una ecatombe di suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose. Ritornando al carcere di Pavia - esempio che rappresenta le criticità generali delle nostre carceri - gli episodi di autolesionismo e il sovraffollamento si intrecciano con un altro problema: la carenza di medici. “C’è una totale insufficienza di assistenza sanitaria - ha denunciato sempre la garante dei detenuti Laura Cesaris -. Ci sono pochissimi medici in servizio, costretti a coprire i turni. I bandi purtroppo vanno deserti, perché fare il medico in carcere non riscuote interesse. Bisognerebbe perciò rendere più allettante questi incarichi, sia sul piano economico che dei punteggi. Questa carenza esaspera le situazioni di fragilità. Per quanto riguarda la psichiatria è prevista una copertura di medici fino al 31 dicembre, poi potrebbero restare solo in due. Si rischia il collasso”. Con l’aumento del sovraffollamento i rischi aumentano - Tutte problematiche che ritornano con prepotenza al livello nazionale. Finito l’effetto pandemia che, grazie soprattutto al lavoro della magistratura di sorveglianza, il sovraffollamento era cominciato a scendere, ora si rischia di ritornare ai numeri allarmanti come recentemente denunciato dal Garante nazionale delle persone private della libertà. Tutto questo, nonostante sia stato prorogato il decreto “Ristori” per quanto riguarda il tema di licenze premio, permessi premio e detenzione domiciliare. Evidentemente non bastano, ma servirebbe un decreto ad hoc. Una terapia d’urto che disinneschi il malessere che affligge sia gli operati penitenziari che detenuti e detenute. Bimbi in carcere, danno da sanare di Andrea Valesini L’Eco di Bergamo, 27 novembre 2021 In Italia attualmente ci sono 29 bambini da zero a sei anni che non stanno crescendo tra le mura protettive di una casa, ma in un carcere, figli di donne che scontano una pena. Sono mamme che hanno rotto i rapporti con i parenti a cui potrebbero affidare la prole o che per scelta preferiscono tenere i piccoli con loro, in anni decisivi per la formazione del legame affettivo con i figli. Attualmente perché il numero dei bambini detenuti varia in continuazione: si è arrivati fino a un centinaio, a giugno erano invece 33 per poi scendere di poco per via del Covid che si è diffuso anche nelle celle. L’alternativa ai penitenziari sono gli Icam, gli Istituti a custodia attenuata. Ma le uniche differenze sono l’assenza delle sbarre alle finestre - per il resto vige il regime carcerario - e che i figli delle detenute possono avere al massimo 10 anni e frequentare scuole esterne. Al ritorno dalle lezioni però non possono fermarsi a casa dei compagni e sono sempre seguiti da un’assistente, anche se non in divisa. Carla Garlatti, Garante nazionale per l’infanzia, già giudice minorile, ha toccato il nocciolo della questione: “È un fatto di uguaglianza sostanziale: ogni bambino deve poter partire dalle stesse condizioni degli altri. In un carcere non è possibile”. Il senso comune potrebbe giudicare la situazione con cinismo: prima di commettere reati, le donne che hanno figli avrebbero dovuto pensarci. Ma il ministro della Giustizia Marta Cartabia rifiuta questa “lettura”: “I numeri dei bambini nelle carceri sono limitati, ma anche uno solo è troppo: perché infliggere la pena a un bimbo o a una bimba innocenti, la cui infanzia sarà segnata per sempre?”. Gli effetti negativi sulla psiche e sulla crescita infatti sono dimostrati e possono essere anche pesanti. Una proposta di legge langue in Commissione giustizia alla Camera: il primo firmatario è Paolo Siani (Pd): prevede il divieto assoluto di custodia cautelare in carcere per donne incinte o con figli fino a 6 anni (salvo per esigenze di eccezionale rilevanza) e che la prima scelta del giudice non sia la detenzione ma una comunità protetta. In Italia però ce ne sono solo due, a Milano e a Roma. Nell’ultima legge di Bilancio sono stati stanziati finalmente 4,5 milioni per costruire case famiglia o comunità alloggio protette. Centinaia di migliaia di euro sono arrivati alle Regioni sempre per questo scopo. Cartabia ha assicurato: “Lavoriamo perché nessun bambino muova i suoi primi passi negli spazi angusti di un carcere o rappresenti il cielo con le grate alle finestre, come ho visto in alcuni disegni. Questo non ha nulla a che fare con la funzione rieducativa della pena di cui parla la nostra Costituzione”. Già, la funzione rieducativa sempre dimenticata nel dibattito pubblico. Proprio in questi giorni la Procura di Torino, dopo un’inchiesta giornalistica de “La Stampa”, ha aperto un’indagine sulle presunte “inumane e degradanti” condizioni in cui per periodi di tempo rilevanti sono stati obbligati decine di detenuti psichiatrici nel “Sestante”, la sezione “osservazione e trattamento” dell’Istituto penitenziario “Lorusso e Cutugno” di Torino. Celle al freddo, water intasati, detenuti curati solo con psicofarmaci e senza assistenza di medici. Un giovane di 25 anni ha perso l’uso della parola per il terrore vissuto in quel luogo lugubre e di dolore solitario. È il carcere l’ambiente più idoneo per malati psichiatrici e tossicodipendenti o sono le comunità di cura? Colletta alimentare: “Gara di generosità verso i poveri con i carcerati che danno l’esempio” di Enrico Ferro La Repubblica, 27 novembre 2021 Oggi la raccolta di cibo a lunga conservazione che sarà poi distribuito alle associazioni che sostengono quasi 1.700.000 persone. Venticinque anni di vita e 170 mila tonnellate di cibo distribuite alle persone in difficoltà. Si potrebbero citare anche gli 11 mila supermercati coinvolti o i 145 mila volontari, ma non sono i numeri il tesoro di Fondazione Banco Alimentare. Il patrimonio di questa realtà con ramificazioni in tutta Italia è l’onda di generosità che si genera ormai da cinque lustri e che prende forma in questo straordinario moto di altruismo che è la Giornata nazionale della Colletta alimentare. Fare del bene per chi ha poco. In questo meccanismo virtuoso è stato coinvolto anche chi ha meno delle persone stesse da aiutare: i carcerati. Il debutto è stato nel 2010 a San Vittore, Opera e Monza, ma poi l’esperienza si è diffusa fino a coinvolgere diversi istituti di pena in tutta Italia, con centinaia di detenuti che sperimentano l’educazione alla gratuità. Banco Alimentare ha coinvolto le carceri di Taranto, Bari, Bollate, Sondrio, Padova, Pesaro, Pisa, Porto Azzurro (Isola d’Elba) e Sollicciano (Firenze). In questi penitenziari ogni detenuto ha la possibilità di donare parte della spesa settimanale: un pacco di pasta, una scatola di tonno, i biscotti per la colazione. In alcune realtà, oltre alla colletta effettuata all’interno del carcere, alcuni detenuti sono usciti anche come volontari nei supermercati della zona. “Sono 25 anni che il Banco Alimentare propone il gesto più semplice di carità: donare del cibo per chi è in difficoltà” evidenzia Giovanni Bruno, presidente della Fondazione Banco Alimentare Onlus. “Il miglioramento della situazione sanitaria, rispetto all’inizio della pandemia, può farci dimenticare che le persone in difficoltà sono ancora tante. Proprio per questo vogliamo continuare a tener viva la solidarietà e speriamo che in tanti raccolgano il nostro appello a compiere questo gesto di condivisione. Chiediamo a tutti di partecipare alla Colletta Alimentare come atto concreto di lotta all’individualismo e all’indifferenza”. Alla Fondazione Banco Alimentare hanno una convinzione: la crisi sanitaria si è trasformata subito in crisi economica e sociale, mettendo in luce tutte le fragilità della società che ancora faticava a riprendersi dalle crisi degli anni precedenti. I dati Istat testimoniano questa situazione di emergenza con oltre 2 milioni di famiglie in condizioni di povertà assoluta. La colletta si svolgerà oggi (sabato 27 novembre) nei supermercati lungo tutta la penisola, dove i volontari inviteranno a comprare prodotti a lunga conservazione come omogeneizzati alla frutta, tonno e carne in scatola, olio, legumi, pelati. I prodotti donati saranno poi distribuiti alle 7.600 strutture caritative convenzionate con Banco Alimentare (mense per i poveri, comunità per i minori, banchi di solidarietà, centri d’accoglienza) che sostengono quasi 1.700.000 persone. “È il gesto educativo di volontariato più partecipato In Italia ed è stata la prima esperienza solidale di questo tipo”, sottolineano con orgoglio i volontari. Processo vero o mediatico? Le insidie delle nuove norme di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 novembre 2021 Il decreto che attua la direttiva Ue finirà per favorire il “mercato nero” delle notizie che vorrebbe stroncare. “Stop alla giustizia-show dei pm”: viene spacciata così l’attuazione governativa della direttiva 2016/343 del Parlamento europeo del 9 marzo 2016 sul “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza”. E invece è l’ennesimo controsenso di chi in politica (magari non sempre in buona fede, e anzi spesso con la coda di paglia, ma comunque a ragione) denuncia i guasti prodotti sul processo vero dalle distorsioni del “processo mediatico”, e perciò invoca rimedi che arginino il mercato nero della notizia che ne è il propellente, ma ogni volta finisce per introdurre regole che hanno l’effetto opposto. Cioè l’effetto di favorire proprio quei legami incestuosi che si proclama di voler spezzare tra fonti inquinanti (tutte per definizione mai disinteressate all’indiscrezione che veicolano) e giornalisti “cani da salotto” del padrone (anziché “cani da guardia” della democrazia come nella celebre definizione coniata dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo). Le nuove norme di per sé non intervengono direttamente sul lavoro del giornalista, perché i destinatari sono invece le “autorità pubbliche” (quindi soprattutto magistrati e polizie), alle quali viene fatto divieto, nelle dichiarazioni pubbliche e nelle decisioni giudiziarie diverse dalle sentenze, di presentare come colpevoli prima di un accertamento definitivo gli indagati, che in caso contrario potranno chiedere alla medesima autorità pubblica di rettificare la propria dichiarazione. Il principio in sé sarebbe dovuto essere già introiettato dalla cultura professionale delle autorità pubbliche di un Paese che in Costituzione all’articolo 27 ha la presunzione di non colpevolezza: sicché è innegabile che, se per sottrarre l’Italia al rischio di una procedura europea di infrazione si è dovuto scriverlo in una norma, è perché negli ultimi anni ne hanno fornito abbondante pretesto quei magistrati e quelle forze dell’ordine che, con scomposte vanterie pubbliche e persino spericolata produzione audiovideo di materiali d’indagine a mo’ di spot giudiziari confezionati su misura di giornali e tv e siti online, hanno talvolta dipinto come già colpevoli gli indagati delle inchieste di cui magnificavano gli esordi ai media. Ma che c’entra, con questa patologia, rendere ancora più asfittica la fisiologia quotidiana e vietare d’ora in poi non soltanto al singolo magistrato (come dal 2006), ma anche al capo dell’ufficio giudiziario di parlare in maniera diretta e trasparente con giornalisti che stiano verificando una notizia non più coperta da segreto d’indagine? In base al decreto del governo su parere delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato, il procuratore della Repubblica sarà legittimato alla diffusione di notizie sui procedimenti solo tramite comunicato stampa o (ancor più eccezionalmente) conferenza stampa, e solo se “strettamente necessario per la prosecuzione delle indagini” (ad esempio la foto di un rapito da cercare), o quando “ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. E qui la contraddizione, tra risultati propiziati e obiettivi dichiarati, è clamorosa. Se - oltre a continuare a non riconoscere ai giornalisti un accesso diretto e trasparente ai provvedimenti giudiziari depositati nei vari momenti di “discovery” alle parti - si chiuderà pure il pertugio di verificare l’esattezza di una notizia, specie laddove fatta circolare apposta falsa e dunque essa sì lesiva di una persona o di una istituzione, si creeranno le condizioni perfette per incrementare, anziché contrastare, il mercato nero della notizia, giacché la nuova norma spingerà i giornalisti all’unica alternativa possibile, e cioè a coltivare nell’ombra rapporti per forza di cose opachi con le varie fonti “negate” alla luce del sole: e all’indagato non resterà che sperare che il giornalista abbia almeno scrupolo, capacità e onestà, ma a volte anche solo fortuna, per riuscire a ricostruire tutti i pezzettini della notizia anziché fermarsi, per comodità o per interesse editoriale, ai primi frammenti che alcune fonti (contando sull’impossibilità di una incrociata verifica diretta e trasparente) saranno interessate a dargli. Una situazione che continuerà a far somigliare il cronista a una sorta di “casco blu Onu” in mezzo al fuoco incrociato di chi, con spezzoni di materiali di inchieste e di processi, combatterà una “guerra” informativa. L’altra evidente contraddizione è che, chi forse in cuor suo con questo modo di attuare la direttiva Ue spera di tagliare le unghie ai pm, non si rende conto di stare invece regalando loro un artiglio, perché metterà nelle mani dei dirigenti delle Procure la valutazione di cosa sia o non sia di “interesse pubblico”, il rubinetto delle notizie, la scelta di quali indagini e di quali circostanze di indagini (tra le tante possibili ogni giorno in Procura) fare diventare notizie per stampa e tv. Strano che non se ne avvedano proprio i teorici fustigatori della proiezione mediatica dei procuratori, in una materia nella quale invece devono essere i giornalisti (anche alla luce di tante sentenze di Strasburgo) ad assumersi la responsabilità di valutare che cosa sia o non sia di interesse pubblico (non di interesse pettegolo per il pubblico), rifiutando di farsi schiacciare sull’unico preteso parametro della rilevanza o irrilevanza penale di quella notizia. Ma anche per i magistrati il controllo del rubinetto delle notizie, pur inconsapevolmente conferitogli dall’eterogenesi dei fini dei “riformatori”, si scoprirà presto un regalo avvelenato: perché li esporrà all’accusa di fare politica - questa volta sì - nel momento in cui, ai fini della divulgazione di un fatto giudiziario, sceglieranno di incollare l’etichetta di “specifico interesse pubblico” a una certa notizia giudiziaria anziché ad altre analoghe tra le tantissime possibili ogni giorno; o di rincorrere e rintuzzare e rettificare una falsa pubblicazione giornalistica invece di un’altra. Così il mito della giustizia rapida ha minato il giusto processo di Rosario Russo* Il Dubbio, 27 novembre 2021 Poiché le lungaggini dei processi erano oggettivamente insostenibili, anche i giudici accettarono perfino di preferire la celeritas alla iustitia e di avallare riforme volte a contenere la domanda di giustizia, dimenticando che la Giustizia non produce frigoriferi. “L’errore italiano è stato quello di dire sempre: “Aspettiamo le sentenze”. Se invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo” (Camillo Davigo). Anno domini 2019, quattro giugno: il Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura ha dato il triste annuncio che la Magistratura Ordinaria è invischiata, ai più alti livelli, “nei giochi di potere e nei traffici venali”. Egli ha parlato pudicamente di “ferita profonda alla magistratura e al Consiglio Superiore. Profonda e dolorosa”, ma i Giuristi, gli Avvocati, i Magistrati e soprattutto l’Utente finale della Giustizia ne hanno amaramente constatato il decesso. L’illegalità diffusa e socialmente accettata ha infine agito come il Covid; che si debella soltanto se s’intervenga prima che diventi endemico, ché altrimenti può risultare inarrestabile e contagiare perfino …infermieri e medici, diventando irreversibile pandemia. In realtà il temibile virus si è realmente materializzato nella forma del trojan. Proprio esso, ‘inoculato’ nel telefonino usato da un magistrato protagonista principale della triste vicenda, il dott. L. Palamara, ne ha consentita l’irrefutabile emersione. Quale allora la vera causa mortis? La Giustizia si è spenta come una fiamma ormai troppo flebile nel vortice di ‘(e)venti’ burrascosi. Ben vero, dopo l’adesione popolare all’operazione “Mani Pulite” (fin troppo mediaticamente esibita), gli italiani sono stati scientificamente ‘bombardati’ da una strategia comunicativa che, in massima parte, ha preso di mira sia i Magistrati, sia e soprattutto la Magistratura in sé e per sé, in quanto istituzione di garanzia democratica, e non soltanto per gli errori che (ovviamente) poteva avere commesso, come sarebbe stato auspicabile. Nessuno ebbe il coraggio - o la forza - di opporre che le fragilità della Magistratura, e soprattutto i gravissimi ritardi della sua risposta, erano subiti dai cittadini e dai Magistrati stessi, ma erano soprattutto funzionali al sistema di potere dominante, al pari della dilagante e irrefrenabile illegalità sistemica. Poiché le lungaggini dei processi erano oggettivamente insostenibili, anche i giudici accettarono perfino di preferire la celeritas alla iustitia e di avallare riforme volte a contenere la ‘domanda’ di giustizia, dimenticando che la Giustizia non ‘produce’… frigoriferi, ma decisioni rese in nome dell’Utente finale (che ha diritto a una decisione meditata e convincente, oltre che solerte); così addossandosi anche gli inevitabili errori. Inoltre, confondendo la malattia (il nichilismo imperante, la crisi della verità, della legalità e della democrazia) con i suoi sintomi (la crisi della Giurisdizione e della Cassazione), perfino la Suprema Corte ha con successo propugnato riforme civilistiche intese a velocizzare la risposta giudiziaria a …qualunque costo, e perciò in scontato pregiudizio dei valori (non solo simbolici, ma) fondanti del processo. Il risultato è stato disastroso: la Giustizia lenta è stata sostituita dalla Ingiustizia …altrettanto lenta. Ma il vero colpo di grazia fu inferto alla Magistratura negli anni 2014-2018. Appena insediatosi (nel febbraio 2014), il Governo scompaginò l’intera struttura giudiziaria (anche) ordinaria, collocando a riposo i magistrati ultrasettantenni (che mai avevano aspirato a essere anzitempo collocati in quiescenza), con eccezione (arbitrariamente personalizzata) dei soli livelli apicali della Suprema Corte. Per conseguenza, al fine di sostituire i magistrati uscenti (soprattutto direttivi e semidirettivi), al neo eletto Consiglio Superiore della Magistratura (insediatosi nel settembre 2014) fu affidato il compito di creare la nuova classe dirigente della magistratura ordinaria: una vasta ‘prateria’ in cui sarebbe stato agevole scorrazzare per le correnti della magistratura, tra cui spiccava il neoeletto dott. Palamara, e per i consiglieri laici appena eletti, sol che lo volessero concordemente. Sul ‘Potere’ non si litiga, se e finché… ce ne sia per tutti. È il sistema spartitorio, come lo ha chiamato Giuliano Amato studiandolo in sede dommatica, ed è proprio quello su cui l’imperturbabile ex giudice Palamara, rivendicandolo e vantandosene, ha addirittura scritto un panegirico. Applicato alle correnti dell’A.N.M., il Sistema Palamara è biecamente clientelare: “tu magistrato mi voti, prima per dirigere l’associazione e poi come membro del Consiglio Superiore della Magistratura, e io ti ripago assecondando le tue ambizioni di accedere immeritatamente alle funzioni semidirettive o direttive!”. Ed è sia incostituzionale, perché l’art. 97, 4° Cost. prescrive non la raccomandazione o la cooptazione, ma il legittimo concorso per l’accesso alle cariche pubbliche; sia illecito dal punto di vista civile, amministrativo, disciplinare e penale, giacché impedisce ai giudici più meritevoli di accedere alla direzione degli uffici giudiziari, tradendo quindi le giuste attese dell’Utente finale della Giustizia. Da tempo molti magistrati si fanno sedurre dal Potere: già l’art. 10 della L. 24 luglio 1908 (Riforma Orlando) prescriveva che “I magistrati debbono scrupolosamente astenersi dal ricorrere a raccomandazioni per appoggiare o sollecitare interessi di carriera, presso i membri del Governo o presso le persone da cui tali interessi dipendono, ed è loro vietato in special modo di ricorrere per tale scopo a persone appartenenti all’ordine forense”. Oggi la raccomandazione carrieristica tra magistrati, espressamente bandita dallo Statuto dell’A.N.M. e dal Codice etico (imperativo anche per i magistrati non associati), costituisce non solo illecito disciplinare ma anche delitto, tentato o consumato (artt. 110 e 323 c.p.). E tali documentati abusi d’ufficio sono tanti, pubblicati a puntate dai quotidiani, raccolti in volumi di grande successo editoriale, acquisiti dalle Procure, dall’A.N.M. e dal C.S.M.! Purtroppo l’ordinamento non si è ripiegato su sé stesso per sanzionare, insieme al “Grande mediatore” (bandito dalla Magistratura per altri misfatti), i tanti magistrati che ot-tenevano da lui vantaggi e privilegi, in danno dei meritevoli. Dopo due anni nessuno si è mosso. Non si sono attivate le Procure competenti. Il P.G. presso la Suprema Corte, sebbene obbligato ad esperire l’azione disciplinare quando il cittadino o il suo avvocato segnalano abusi dei giudici, ha addirittura giustificato ufficialmente le autopromozioni (raccomandato >raccomandante). Ma non si può sapere se egli abbia archiviato anche le eteropromozioni (raccomandato >raccomandante >raccomandatario), giacché ha proclamato subito il proprio potere di impedire la conoscenza delle archiviazioni al cittadino denunciante (ovvero al suo avvocato) e perfino al C.S.M.! Dimenticando così che “La luce del sole è il miglior disinfettante”. Del tutto inerte è rimasto perfino il Ministro della Giustizia sebbene, dotato com’è di un apposito Ufficio Ispettivo, sia titolare del potere di azione disciplinare (art. 107, 2° Cost.), proprio per sopperire all’inazione dei requirenti oltre che della Procura Generale della Cassazione. E difatti nella polemica politica le raccomandazioni anzidette valgono a gettare meritato discredito sulla magistratura, trascurando però che le forze di governo indiretta-mente le avallano, non attivando il rimedio saggiamente previsto dalla Costituzione. E tra-scurando altresì che i favori accordati da Palamara venivano decisi dal C.S.M, i cui componenti, per un terzo, sono eletti dal Parlamento. In conclusione il degrado della Magistratura costituisce uno straordinario esempio di eterogenesi dei fini. Il ‘risveglio’ della Magistratura ambrosiana nella repressione della ‘corruzione ambientale’, ha comportato infine - attraverso perscrutabilissime “astuzie della ragione” (il forzato esodo dei magistrati) - la capitolazione dello stesso ideale di Giustizia, infine imbarbarito dalla ‘raccomandazione correntizia’: tale probabilmente il triste bilancio storico dell’operazione “Mani Pulite”, ora schiacciata mediaticamente dallo scandalo delle “Toghe Sporche”. Forse una Magistratura prostrata, non ‘curata’ né …’vaccinata’ fa comodo a molti, ma certamente non all’Utente finale della Giustizia, l’unico a subirne le conseguenze. Per questa ragione - richiamando il noto monito del dott. Davigo - da due anni invano “aspettiamo le sentenze”, che almeno questa volta soltanto i magistrati possono emettere! *Rosario Russo è stato Sostituto procuratore generale presso la Suprema Corte Ermini: “Riformare il Csm per ridare credibilità alla magistratura” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 novembre 2021 Intervista al vicepresidente del Csm David Ermini: “È il segnale di cambiamento e di cesura che i cittadini si aspettano. Giusto l’appello di Mattarella”. A pochi giorni dal monito del Capo dello Stato in merito alla riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario, oggi raccogliamo il pensiero del vicepresidente del Csm David Ermini il quale, commentando la reazione che le correnti dell’Anm hanno espresso su questo giornale al discorso di Mattarella, ci dice causticamente: “Penso che l’unica trincea che vada difesa sia il principio dell’indipendenza e autonomia della magistratura quale condizione essenziale e irrinunciabile per un ordinamento autenticamente democratico”. Su uno degli snodi cruciali della riforma, ossia le valutazioni di professionalità dei magistrati, aggiunge: “Ho sempre pensato, ma la mia è un’opinione del tutto personale, che la valutazione di professionalità dovrebbe prevedere controlli sulla qualità e sulla tenuta dei provvedimenti”. Ritiene infine che “la normativa sui fuori ruolo possa essere rivista, peraltro sarebbe opportuno ricorrere anche a figure diverse come gli avvocati nei diversi ruoli dell’amministrazione”. Vice presidente, lei ha l’impressione che le parole del Capo dello Stato Sergio Mattarella alla Scuola superiore della magistratura abbiano evitato un compromesso al ribasso, sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario? Ritiene cioè che sia stato un messaggio decisivo inviato alla politica e alla stessa magistratura per indirizzarle verso una ambiziosa riforma? Le parole del Presidente della Repubblica sono importanti e come sempre puntuali. La riforma del Csm fa parte del pacchetto delle riforme della giustizia che servono per il Pnrr, ma ha anche una valenza per segnare una cesura tra un passato che non può essere dimenticato e un futuro di credibilità e autorevolezza della magistratura. La riforma del Csm è il segnale di cambiamento che i cittadini si aspettano. Ieri sul nostro giornale abbiamo raccolto le reazioni di varie correnti dell’Anm alle parole del Presidente Mattarella. Che chiave di lettura ne dà? Crede che la magistratura ancora voglia difendere alcune trincee? L’Anm è una associazione di categoria che svolge, pur sempre, le funzioni di una associazione. Il Csm è un organo di rilievo costituzionale che ha il compito di governo autonomo della magistratura. Sono due piani completamente diversi. Io dico solo che i magistrati hanno oggi l’opportunità, anche alla luce delle riforme della giustizia civile e penale che auspicabilmente ridurranno i tempi dei processi, di risintonizzarsi con la collettività, e penso che l’unica trincea che vada difesa sia il principio dell’indipendenza e autonomia della magistratura quale condizione essenziale e irrinunciabile per un ordinamento autenticamente democratico. Come giudica il silenzio della politica nei confronti del discorso del Presidente Mattarella? Potrebbe celare il timore dei partiti di affrontare una riforma che dovrebbe avere una valenza epocale? Io non giudico il comportamento della politica, chiedo solo, come ormai faccio da più di due anni, che la riforma venga approvata in tempo utile per il rinnovo del Consiglio sulla base di nuove regole. Considerato che prima bisognerà anche provvedere alla modifica dei regolamenti interni, è evidente che ormai stiamo entrando in zona Cesarini. Le parole del Capo dello Stato sono inequivocabili: il rischio che il prossimo Consiglio sia eletto con le attuali regole è semplicemente inaccettabile. Dal Governo ancora non arrivano proposte di riforma concrete su Csm e ordinamento giudiziario. Ricordiamo che a maggio è stato reso noto il lavoro della Commissione Luciani e ci sono state quindi un paio di interlocuzioni con i partiti da parte della ministra Cartabia. Poi nulla più. La magistratura associata teme che alla fine si farà in fretta e male, come è avvenuto per la riforma del processo penale. Condivide questa preoccupazione? In realtà il Consiglio superiore ha già dato il proprio parere sulla proposta di riforma dell’ordinamento giudiziario all’esame della Camera, non appena saranno presentati i nuovi emendamenti provvederemo a dare il nostro contributo tecnico anche su questi. Io penso che ci sia stato sufficiente tempo per elaborare soluzioni proficue e condivise. E tuttavia, mai dimenticarlo, la riforma è essenziale e indispensabile, ma nessuna riforma può avere successo senza un profondo rinnovamento culturale e morale a cui sono chiamati tutti i magistrati. Un nodo cruciale della riforma riguarda le valutazioni di professionalità dei magistrati. A chiederne la modifica non è solo il centrodestra, ma anche il Partito democratico insieme all’Unione delle Camere penali. Qual è il suo parere in merito? Sono già intervenuto durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario chiedendo la modifica della normativa sulle valutazioni di professionalità dei magistrati. Nelle proposte della commissione Luciani vi sono interessanti innovazioni, vedremo quello che sarà presentato in Parlamento. Io ho sempre pensato, ma la mia è un’opinione del tutto personale, che la valutazione di professionalità dovrebbe prevedere controlli sulla qualità e sulla tenuta dei provvedimenti, in modo da consentire la necessaria valorizzazione del merito e del rilievo delle attitudini nei giudizi. In un dibattito pubblico organizzato dal Dubbio abbiamo messo a confronto il presidente dell’Unione Camere penali, Caiazza, con il segretario di Area, Albamonte, anche sul tema dei magistrati fuori ruolo. Per il primo deve finire il distacco, soprattutto presso gli uffici legislativi di via Arenula, per il secondo si potrebbe pensare invece di aprire le porte agli avvocati. Qual è il suo pensiero in merito? Io ritengo che la normativa sui fuori ruolo possa essere rivista, peraltro sarebbe opportuno ricorrere anche a figure diverse come gli avvocati nei diversi ruoli dell’amministrazione. Non dimentichiamo però che per alcune funzioni è la legge che richiede un magistrato. Osservo poi, e non è infrequente, che a chiedere al Csm di avere magistrati nei ministeri o in commissioni parlamentari sono proprio il governo e il Parlamento. Il recepimento della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza, a suo parere, riuscirà a frenare gli eccessi di protagonismo di alcuni magistrati? Qualche anno fa il presidente Mattarella disse che la toga non è un abito di scena: è il miglior monito contro gli eccessi di protagonismo. Dai magistrati i cittadini si aspettano professionalità, dedizione, sobrietà, autorevolezza e imparzialità. Ben vengano le regole, ma anche qui vale il discorso che rifuggire dai protagonismi deve innanzitutto essere una forma mentale di ogni magistrato. Ritengo però che una buona parte di colpa ce l’hanno anche i media. Il protagonismo è direttamente proporzionale alla spettacolarizzazione della giustizia. Vorrei che lo stesso senso di responsabilità che si chiede ai magistrati lo si chieda anche ai giornalisti. Toghe rosse spaccate: guerra di liste tra Md e Area di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 27 novembre 2021 Giustizia. Dopo tredici anni Magistratura democratica correrà autonomamente alle prossime elezioni per le sezioni Anm di Roma e Napoli. È l’esito di una frattura a sinistra di vecchia data, approfondita dal caso Palamara. Un segnale in vista del prossimo Csm, ma anche una conseguenza del sistema elettorale. La magistratura di sinistra si divide. Alle prossime elezioni per le giunte esecutive sezionali dell’Associazione magistrati, a Napoli e a Roma, ci saranno liste contrapposte delle toghe progressiste: Area Democratica per la giustizia contro Md. La prima è stata per sette anni “il gruppo dei gruppi”, la sigla che ha riunito la storica corrente di sinistra Magistratura democratica con i “verdi” dei Movimenti e alla quale Md ha delegato la rappresentanza nel Csm e nell’Anm. La seconda, la corrente, nell’ultimo congresso di Firenze ha deciso di riprendersi la sua autonomia dopo un periodo di difficoltà culminato, esattamente un anno fa, in clamorose dimissioni di una parte del gruppo dirigente di Area da Md. Al fondo la convinzione degli ultimi gruppi dirigenti di Magistratura democratica che vada recuperata una radicalità nella critica della giurisdizione e dell’organizzazione della giustizia che, spiegano, negli ultimi anni si è persa. Area nel congresso di Cagliari, a settembre, ha deciso di chiudere l’associazione ai gruppi organizzati, consentendo solo adesioni di singoli. Reazione obbligata, dicono, alla decisione di Md di non affidare più la rappresentanza ad Area: “Abbiamo adeguato lo statuto alle realtà dei fatti”. La cesura definitiva potrebbe essere il divieto di doppia iscrizione, che non è dietro l’angolo tanto che in queste elezioni ci sono candidati di Area iscritti a Md (che si candidano contro Md) e candidati di Md iscritti ad Area (che si candidano contro Area). Da molto tempo ormai il lavoro associativo si è divaricato, i magistrati progressisti si impegnano o in Area o in Md. L’elemento scatenante delle tensioni è stato, anche qui, l’esplosione della questione morale nel Csm. Dopo il caso Palamara le toghe di sinistra - i cui rappresentanti non sono rimasti fuori dalla valanga di intercettazioni raccolte dal trojan - si sono divise sul grado di rinnovamento necessario per salvare l’associazionismo giudiziario. La critica delle degenerazioni, per Md avrebbe dovuto essere ancor di più un’autocritica. La spaccatura di Napoli e Roma prelude logicamente a una corsa separata delle “toghe rosse” alle elezioni di luglio 2022 per il Csm. Ma non è detto, visto che il sistema elettorale cambierà certamente e ancora non si sa in quale direzione. Le fratture in vista del voto, persino questa che non si vedeva da tredici anni, si spiegano anche con le leggi elettorali. Per le giunte esecutive di sezione si vota con il proporzionale puro: un invito a marciare divisi e massimizzare i consensi. A patto che poi si riesca a colpire uniti, come in effetti non escludono i rappresentanti delle due parti. “L’importante è l’azione concreta nell’Anm e nel Csm, la base culturale è comune e comuni sono le differenze che sentiamo rispetto agli altri gruppi, il percorso unitario si può riprendere oltre la guerra di sigle”, dice Eugenio Albamonte, segretario di Area. “La nostra proposta di alleanza elettorale è stata respinta, ma non mancheremo l’obiettivo di coltivare un’alleanza strategica che garantisca adeguata rappresentanza a tutta la magistratura progressista”, dice Stefano Musolino, segretario di Md. Guerra alle cosche, il fronte si sposta al Nord di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 27 novembre 2021 Qualche settimana fa, tre operazioni coordinate delle Direzioni distrettuali antimafia di Milano, Firenze e Reggio Calabria hanno portato all’arresto di 104 persone, al sequestro di beni immobili e aziende, nonché al ritrovamento - parte a Gioia Tauro, parte al porto di Livorno - di quasi 1000 chilogrammi di cocaina. Risultati notevolissimi ma che, fermo restando l’accertamento processuale delle singole responsabilità, suggeriscono una prima amara riflessione: a undici anni dall’indagine Crimine-Infinito (luglio 2010) appare immutato il quadro allora delineato sulla presenza della ‘ndrangheta calabrese nel Nord del Paese. Nonostante le condanne inflitte, le centinaia di arresti e di processi che si sono susseguiti, la ‘ndrangheta ha continuato a rafforzare la sua presenza nelle regioni settentrionali, soprattutto in Lombardia. Presenza dominante nelle attività illegali - a cominciare dal traffico di stupefacenti, la prima fonte della potenza economica delle mafie - ma significativa anche in quelle legali. È doveroso chiedersi come sia stato possibile. Un punto fondamentale, confermato da tutte le indagini, sta nella disponibilità di operatori economici e commerciali e di professionisti a entrare in affari con gli ‘ndranghetisti, fornendo loro know how (persino in materia di evasione fiscale) e offrendo “facce pulite” dietro cui nascondere la loro presenza. Questa disponibilità viene talvolta motivata con la necessità di far fronte alle pretese estorsive dei mafiosi, pronti a intervenire là dove le banche negano i finanziamenti. Ma sempre più spesso il collegamento con i criminali deriva unicamente dalla volontà di fare affari, di arricchirsi. Come se mettersi in società con un mafioso fosse una cosa normale e non un’avventura gravida di rischi, come peraltro dimostrano decine di processi. Oltretutto, grazie a queste disponibilità, la ‘ndrangheta si rafforza e si espande acquisendo la rete di relazioni economiche, sociali e anche politiche che appartengono a ogni nuovo “socio”. Sono gli stessi malcapitati imprenditori a mettere a verbale che i boss “avevano necessità di soggetti puliti che potessero essere credibili per avere lavoro in Lombardia e, da questo punto di vista, io e... (un altro indagato, n.d.r.) eravamo perfetti, in quanto avevamo contatti sul territorio ed entrambi avevamo rivestito cariche pubbliche. Io avevo anche l’esperienza di funzionario di banca per ottenere fidi e la fiducia del sistema creditizio”. Lo stesso schema si ripete nelle altre regioni del Centro-Nord. La Dda di Firenze ha scoperto che le cosche reggine avevano fatto transitare ingenti quantitativi di cocaina dal porto di Livorno giovandosi della complicità di un dipendente della Compagnia portuali, così come investimenti mafiosi sono stati individuati anche in Toscana, in Umbria e nel Lazio. L’attività della ‘ndrangheta si estende anche oltre confine, per esempio in Svizzera. Un Paese - si ascolta in una intercettazione - in cui conviene stare “perché non c’è il 416 bis” cioè il reato di associazione mafiosa. E infatti un imprenditore intercettato rivela che gli ‘ndranghetisti (di cui peraltro è socio), “hanno trasferito grandissima parte della loro attività in modo legale al Nord, dove loro non compaiono più. Hanno i contatti, hanno le cose. Le società sono nel Nord, sono sparse nell’Europa, sono sparse nel mondo. Perché dipende poi dalla quantità di contanti che riescono a mettere insieme”. La preoccupazione per la presenza delle mafie nell’economia legale non può che crescere nel momento in cui si devono investire gli ingenti fondi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza e ci sono molti segnali della volontà delle organizzazioni criminali di acquisirne una parte. Nonostante tutto, però, va ricordato che la situazione nelle altre regioni d’Italia è ben diversa da quella calabrese. Come ha detto il Procuratore di Milano, nel Nord “le mafie hanno più difficoltà a prendere il controllo, anche politico: ma rischiano di arrivare a prenderlo se non si alza la soglia di allerta”. In buona sostanza, i criminali fanno ovunque il loro mestiere e dipenderà solo da noi riprodurre quella sinergia tra forza repressiva dello Stato (che funziona e ottiene risultati), capacità di reazione politica, etica professionale e senso civico espressi da ogni singolo cittadino: la stessa sinergia che ha sconfitto la mafia siciliana delle stragi. La videoripresa di azioni non comunicative è atto d’indagine diverso dalle intercettazioni di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2021 Non va autorizzato dal giudice al pari di appostamenti di polizia e non viola il domicilio se registra solo spazi esposti al pubblico di un edificio. La videoripresa di comportamenti non comunicativi è prova atipica nel processo e ad essa non si applica il regime “garantista” delle intercettazioni. La registrazione non captativa dello scambio di messaggi tra le persone inquadrate non contrasta né con l’inviolabilità del domicilio né con le regole autorizzatorie delle intercettazioni. La ripresa di comportamenti non comunicativi costituisce prova atipica nel processo e non necessita dell’autorizzazione del giudice delle indagini. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 43609/2021, ha perciò respinto il ricorso che contestava la legittimità della deposizione dell’agente di polizia giudiziaria relativa a delle videoriprese effettuate da edificio adiacente a quello oggetto di indagine. La Corte sostanzialmente le equipara alla lecita attività di indagine svolta dalla polizia tramite appostamenti. Rientrano cioè nell’autonoma iniziativa degli investigatori, che possono procedervi senza bisogno di essere autorizzati: per cui sottratte alla necessaria autorizzazione da parte del Gip, come previsto per le captazioni delle comunicazioni tra persone nel mirino di un’indagine. Inoltre, la Cassazione nega la lamentata illegittimità delle videoriprese oggetto del ricorso anche sul piano del rispetto della vita privata e quindi del domicilio su cui ogni individuo ha pieno diritto excludendi verso i terzi. Spiega, infatti, la Cassazione che la videoripresa delle parti esposte al pubblico - anche di quello che possa costituire una privata dimora - non viola il diritto costituzionale posto a tutela del domicilio. Per cui la ripresa del piazzale, delle finestre e delle porte di ingresso di un luogo di lavoro è pienamente legittima anche se si tratta di luogo che garantisce la riservatezza dell’esplicazione di atti della vita privata del titolare. Nel caso specifico la polizia indagava sull’illecito trattamento e sversamento di rifiuti all’interno di un opificio. La finalità della videoripresa era quella di osservare i movimenti di mezzi e uomini all’esterno dell’opificio. La videocamera era stata piazzata al vertice di un edificio adiacente a quello sotto indagine al fine di superare le barriere poste a escludere la visione dall’esterno. Su tale punto la Cassazione chiarisce che la parte esposta al pubblico - per quanto schermata da barriere architettoniche - non fa assurgere a domicilio i luoghi esterni a un edificio. La necessità di dover posizionare la videocamera sulla sommità di altro edificio - come avvenuto nel caso concreto - non muta la natura dei luoghi come “esposti al pubblico”. Infine, conclude la Cassazione, la videoripresa di comportamenti non comunicativi effettuata dagli investigatori equivale alle riprese delle telecamere posizionate a fini di sicurezza all’esterno di un edificio che hanno registrato i movimenti avvenuti nel suo raggio d’azione e sono acquisibili senza essere state preventivamente autorizzate. Diversa qualificazione del fatto ma stessa notizia di reato, ammesso l’uso delle intercettazioni di Pasquale Annicchiarico* Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2021 Con la sentenza n. 36353 depositata il 7 ottobre 2021, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata sulla dibattuta vicenda dell’inutilizzabilità delle intercettazioni in procedimenti diversi. In particolare, tale recente pronuncia degli Ermellini ha inteso chiarire che “i risultati delle captazioni disposte nell’ambito di un procedimento non possono essere utilizzati in procedimenti diversi, tali dovendo intendersi quelli instaurati in relazione ad una notizia di reato che deriva da un fatto storicamente diverso da quello oggetto dell’indagine nel corso della quale il mezzo di ricerca della prova sia stato autorizzato, anche se tale fatto è emerso dalle stesse intercettazioni, salvo che tra i fatti-reato, nonostante la differenza storica, sussista una connessione ex art. 12 c.p.p. o, comunque, un collegamento ex art. 371, comma 2, lett. b) e c), c.p.p., sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico, che vale a ricondurre ad unitarietà i procedimenti”. L’utilizzo è invece ammesso invece quando i procedimenti a carico dell’indagato nascono da una stessa notizia di reato, e ciò che muta è esclusivamente la diversa qualificazione giuridica del fatto. Nel caso di specie, il ricorrente deduceva vizio di violazione di legge con riguardo all’inutilizzabilità delle intercettazioni, anche in considerazione di quanto recentemente statuito dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 51 del 2020. Nello specifico, la difesa osservava che le intercettazioni erano state autorizzate nel procedimento presso la D.D.A. di Trento per i reati di cui all’art. 416 bis c.p. e di contrabbando, e successivamente gli atti erano stati trasmessi per competenza alla Procura di Bolzano, che apriva un nuovo fascicolo per altro reato (art. 416 c.p.). L’insussistenza dell’iniziale reato ipotizzato (art. 416 bis c.p.), secondo la tesi difensiva, farebbe venir meno il presupposto della connessione, ed inoltre i reati contestati non avrebbero permesso l’arresto obbligatorio in flagranza. Secondo i giudici di legittimità, il ricorso non meritava accoglimento, in quanto la notizia di reato (nonché i fatti) erano gli stessi sia per il procedimento iniziato dalla D.D.A. di Trento (per la ipotizzabilità del reato ex art. 416 bis c.p.) e sia per il procedimento poi proseguito dalla Procura della Repubblica di Bolzano dopo la trasmissione degli atti da parte della D.D.A. di Trento. Trattandosi di un procedimento unico, non trovava dunque applicazione l’art. 270 c.p.p. come interpretato dalla citata sentenza delle Sezioni Unite, che individua l’inutilizzabilità delle intercettazioni “in procedimenti diversi”. Di fatto, i due procedimenti in oggetto nascevano da una stessa notizia di reato, e ciò che era mutato, secondo la Suprema Corte, era solo la diversa qualificazione giuridica del fatto associativo. Firenze. Io, cappellano di Sollicciano, dico: non dimentichiamo chi vive e muore in carcere Il Dubbio, 27 novembre 2021 La lettera di denuncia di don Vincenzo Russo dopo l’ultima relazione del Garante dei detenuti: in quel resoconto manca un “bilancio sociale”, scrive, che fotografi il disagio reale vissuto ogni giorno in cella. Gentile direttore, ho letto il resoconto del garante territoriale dei detenuti di Firenze e apprezzato soprattutto lo sforzo di mettere in relazione le varie competenze e le diverse responsabilità istituzionali. Il quadro presentato non è privo di spunti che lasciano trapelare intenzioni e prospettive positive. Ma lo sguardo prospettico, a mio avviso, non può da solo dare senso ad una riflessione approfondita sulle attuali condizioni che le detenute e i detenuti delle strutture fiorentine si trovano a vivere oggi. Si, oggi! Perché è l’oggi che conta più di tutto e che deve essere al centro delle preoccupazioni e degli sforzi delle persone a ciò preposte. Per questo sono rimasto un po’ deluso dalla relazione presentata dal Garante al Consiglio Comunale, ricca di progetti e proposte interessanti, ma nella quale non ho trovato un solo accenno alle specifiche condizioni che i detenuti e le detenute vivono sulla loro pelle. Su questo mi sono trovato più in sintonia con quanto affermato a suo tempo dal Sindaco Nardella quando ha parlato della comunità carceraria come di una comunità “afflitta da impotenza e depressione”, e il carcere (di Sollicciano in particolare, più da chiudere che da restaurare). Nella relazione del garante non ci sono notizie sui numeri, le presenze, le provenienze, i reati, le ammissioni alle misure alternative, le recidive. Queste notizie non possono essere secondarie, ma punto di partenza fondamentale per una conoscenza puntuale della realtà di queste strutture. Una relazione sugli interventi in carcere non può prescindere da una sorta di “bilancio”, nella fattispecie un bilancio sociale per avere una fotografia precisa della realtà e di quanto fatto per modificarla, risolverla o quant’altro. Dove incardinare altrimenti progetti credibili e realizzabili? Dalla visita del Sindaco Nardella e dalle sue dichiarazioni drastiche ma pragmatiche nulla è cambiato. Le criticità e le emergenze sono continuate, si sono susseguite senza interventi di sorta, quasi si fosse rassegnati ad un inevitabile decorso negativo. Parlo del caldo asfissiante durante l’estate, del freddo e dell’umido durante gli inverni, del degrado strutturale con crolli e pericoli, dei servizi non funzionanti, della presenza più volte denunciata di cimici ed altri animaletti non proprio salubri. Ma voglio parlare anche e soprattutto dei problemi di salute fisica e psichica, delle detenute e dei detenuti, degli episodi di autolesionismo, delle morti, dei suicidi. Notizia di un giorno e poi più niente. Voglio parlare delle difficoltà con cui si affronta una malattia in carcere, e non solo quella da Covid. Voglio parlare del disagio dei lavoratori, delle carenze di numero e di possibilità di affiancamento ai detenuti nei loro percorsi di riemersione dall’illegalità verso un ritorno nella società che non sia peggiore dell’andata. Faccio quotidianamente esperienza di tutto questo, come, credo, tutti coloro che con una certa sensibilità sociale entrano e lavorano nelle strutture penitenziarie di questa città. Anche fuori l’aria che si respira non è molto diversa: anche fuori la povertà è crescente, la forbice sociale si allarga, c’è disoccupazione, carenza di cultura, di possibilità, di solidarietà. Ho sempre considerato il carcere come parte ed espressione del territorio, quel che accade “fuori” non è mai tanto diverso da quanto si ritrova “dentro”. I problemi del fuori sono sotto gli occhi di tutti, non servono relazioni, basta guardarsi attorno e dentro. E dunque come è possibile che dentro sia tutto così positivo ed avviato a soluzione concreta? Invidio lo sguardo così ottimista del Garante, ma fatico a condividerlo. Certo non voglio imputare al Garante responsabilità che sono enormemente più estese. Ma preferirei una descrizione più concreta anche se forse meno piacevole. Se non si parte dal concreto non si arriva da nessuna parte, ce lo dice la logica e l’esperienza. Dato il punto di arrivo (di non ritorno come dicono i nostri giovani nelle piazze del mondo) non è una impresa facile. Comunque sia bisognerà cominciare, a piccoli passi, con pazienza e perseveranza, partendo da quanto (poco? Tanto?) realizzato per migliorare, allargare. Questo deve essere l’impegno di tutti ed il mio pensiero va immediatamente alle associazioni, al volontariato, alle imprese, agli artigiani impegnati in questo cammino che non è di solidarietà ma di reciproco sostegno, di reciproco arricchimento, di conoscenze, di energie e di forza. Tra queste non posso non ricordare quella che insieme a me nella realtà di casa Caciolle dell’Opera Madonnina del Grappa, offre strade alternative a chi sconta una pena o ha espiato la condanna, col lavoro ed il servizio agli altri. A Caciolle proviamo ad esercitare l’arte del vivere sociale nella costruzione di un percorso di formazione e di arricchimento culturale. Una educazione, non, permettetemi, unanime rieducazione, perché non cancelliamo il passato, le esperienze passate delle persone, anzi le vogliamo valorizzare facendole diventare un unicum di realizzazione piena. Con piccoli gesti e passaggi quotidiani si prova a riedificare quanto, sovente, è stato distrutto dalle condizioni vissute in carcere, Vincenzo Russo, Cappellano della casa circondariale Sollicciano di Firenze Napoli. I Garanti Ciambriello e Ioia: “Poggioreale è una pentola a pressione” Il Mattino, 27 novembre 2021 “Siamo stati al padiglione Milano - primo piano - per farci raccontare come sono andate le cose durante l’ora d’aria dell’altro giorno. Due detenuti stranieri di 34 anni e di 23 anni, tossicodipendenti e con problemi psichici, durante il passeggio hanno scatenato una rissa con coltelli rudimentali, causando ferite a tre detenuti. I detenuti incontrati al Milano, presenti in celle da otto e nove persone e ambienti socio-sanitari raccapriccianti, ci hanno raccontato che non si è trattato di una rissa tra bande criminali, quanto piuttosto di un episodio dovuto alla mancanza di ambienti di socialità, all’insofferenza per i ritardi nelle decisioni della magistratura, ai problemi connessi al Covid. Il sovraffollamento mette a serio rischio ogni ipotesi di attività trattamentale finalizzata al recupero dei detenuti. Abbiamo visto anche uno dei due detenuti in questione che veniva medicato in infermeria perchè si era procurato dei tagli con forme di autolesionismo nella giornata di ieri”. Così il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello e quello di Napoli Pietro Ioia all’uscita del carcere di Poggioreale. I due garanti sono stati, poi, al reparto Firenze, sia per incontrare delle volontarie che hanno promosso un corso settimanale di giovedì, dal titolo Libera-mente, sia per incontrare una delegazione di detenuti. Anche al Firenze, che è un reparto di detenuti che per la prima volta entrano in carcere, ci sono celle da nove e dieci. Ciambriello e Ioia così concludono: “A Poggioreale mancano agenti di polizia penitenziaria, educatori, psicologi, psichiatri, mediatori culturali e linguistici. I detenuti immigrati che entrano per la prima volta in istituto, vengono mandati in padiglioni con reclusi recidivi. Dall’inizio dell’anno ci sono stati 185 atti di autolesionismo, 15 tentativi di suicidio sventati prontamente dagli agenti di Polizia penitenziaria, un suicidio e 132 colluttazioni. I sindacati di polizia dicono che Poggioreale è una pentola a pressione, noi aggiungiamo che è una polveriera con miccia corta. Il governo e il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria devono intervenire, così come la politica che vive - ad oggi - un distanziamento carcerario”. Alessandria. La pandemia è stata una prova dura. E oggi le carceri sono “stanche” di Alessandro Venticinque lavocealessandrina.it, 27 novembre 2021 La dottoressa Elena Lombardi Vallauri, 54 anni, dal dicembre 2017 è direttrice delle due carceri alessandrine, casa circondariale “Cantiello e Gaeta” (detta anche “Don Soria”) e casa di reclusione “San Michele”. La pandemia ha cambiato radicalmente il mondo esterno, e inevitabilmente ha cambiato la vita anche di chi sta “dentro”. Un’emergenza dentro l’emergenza, che va sommata alle difficoltà esistenti già prima del Covid. Oggi, mentre il periodo più brutto sembra essere passato, gli istituti penitenziari, stanchi e a corto di “ossigeno”, provano a ripartire. Dottoressa Vallauri, le nostre carceri come hanno vissuto l’emergenza Covid? “Veniamo da periodi difficili, la pandemia è stata una prova molto dura, imprevista e preoccupante, che ha stravolto completamente tutte le procedure del carcere. Tutte, dalla prima all’ultima. Dalla sicurezza, sanitaria e di ordine, alla possibilità di ricevere persone dall’esterno, per le diverse attività, fino alla impossibilità di incontrare i familiari. Questa è una delle cose a cui tengono di più, mantenere i rapporti con la propria famiglia è necessario nel percorso di reinserimento. Era tanta la preoccupazione dei detenuti, ma anche di tutti noi, dagli operatori al personale, perché nessuno sapeva nulla di questa malattia”. Oggi, invece? “Direi che gli istituti sono “stanchi”, sia per quello che hanno dovuto affrontare, sia per questa limitazione che c’è e continua a pesare sulla quotidianità e anche sulle prospettive. Il personale e i detenuti hanno aderito alla campagna vaccinale, compattamente, e si spera di ritornare alla normalità. Sono veramente pochi coloro che non hanno accettato di vaccinarsi, ma questo non condiziona la vita di ciascuno di noi. Condizionano ancora le norme sul distanziamento, le mascherine, le procedure di sanificazione. Ma a questo un po’ di abitudine l’abbiamo fatta”. Durante l’emergenza sanitaria ci sono state anche diverse proteste all’interno dei nostri istituti... “Ci sono state delle proteste, e anche forti, ad Alessandria. Momenti difficili e tristi, per quanto mi riguarda, generati dalla paura, scomposta, senza razionalità, per l’arrivo di una pandemia sconosciuta. Rivedendoli, alla luce del tempo che è passato, sono eventi molto tristi, dove è emersa questa rabbia, che è comprensibile ma che non ha risolto il problema pandemico. Dobbiamo pensare che l’esplosione del Covid è stata scioccante per tutti all’esterno, ma lo è stata ancora di più per chi vive in un ambiente chiuso come il carcere”. Dopo queste proteste si è tornati a parlare di sovraffollamento. Nelle carceri italiane sono recluse poco più di 53 mila persone, a fronte di una capienza di 47.445. Ad Alessandria quali sono i dati? “Qui per fortuna non c’è questo problema. Negli ultimi due anni i numeri sono molto diminuiti. Contiamo circa 500 persone, nel complesso dei due istituti: 200 al Don Soria e 300 a San Michele”. Solo nel 2020, in Italia, si contano 62 detenuti che si sono tolti la vita in carcere, uno dei numeri più alti degli ultimi 20 anni. Nel 2021 siamo a 48 (fonte: ristretti.it). Sono numeri complessi da comprendere… “È difficile dare una lettura generalizzata per eventi individuali. Immagino che la disperazione che coglie l’individuo non possa che essere aggravata da ciò che vede intorno a sé. Il carcere è un luogo a rischio, lo sappiamo. Uno degli aspetti di maggiore impegno, da parte dell’amministrazione e del personale, è intercettare e cogliere questo disagio, per prevenire affinché la disperazione non abbia il sopravvento. E poi occorrerebbe pensare, all’interno del percorso del detenuto, anche a una rete sanitaria di supporto”. Queste per voi sono sconfitte? “Io non faccio questo lavoro con l’idea di vincere o di perdere. Chi fa questo mestiere è qui per dare delle opportunità, ma siamo essere umani e non siamo sempre così bravi a cambiare e migliorare. E, soprattutto, è difficile dare una svolta a determinate storie di vita, con ambienti e contesti particolari. Sarebbe fin troppo presuntuoso… Certamente, mi domando se avremmo potuto fare di più e come si poteva intervenite in modo diverso. Ma i bisogni sono tanti, servirebbe un accompagnamento personalizzato, attento e curato”. Dottoressa, a fine ottobre sono state depositate in Cassazione 630 mila firme per un referendum sulla depenalizzazione della cannabis, che renderebbe legale la coltivazione per uso personale eliminando tutte le pene detentive, a eccezione dei casi riferibili ad associazioni finalizzate al traffico illecito. Secondo i dati di cui disponiamo, il 35% dei detenuti è “dentro” per reati legati alla droga. Depenalizzandola si svuoterebbero le carceri? “Svuotare non lo so, ma sicuramente si alleggerirebbe la situazione. Lavorare in sovraffollamento rende tutto sempre più difficile: non si ha spazio, si è sempre con qualcuno che ti pesta i piedi. Il tutto amplificato anche dalla pandemia. Non mi permetto di prendere una posizione… penso che negli istituti penitenziari ci debbano stare coloro per i quali la carcerazione ha una utilità. Il mio desiderio è che, per le persone che mi sono affidate, il carcere diventi un’occasione, una sanzione che porti a un rinnovamento, un’occasione concreta di provare a mettersi in gioco. In un altro modo”. Secondo il “Libro Bianco sulle droghe”, oltre il 36% di chi entra in carcere è consumatore problematico di sostanze. Mentre si parla di 16.934 detenuti “tossicodipendenti”, pari circa al 27% del totale... “Un numero molto alto… Sicuramente sono tanti i detenuti che hanno problemi di tossicodipendenza, difficili da affrontare in carcere. Spesso queste persone hanno reati di spaccio, accompagnati da altri reati connessi a questo stile di vita. Il carcere, però, non è attrezzato adeguatamente per gestire queste situazioni. Si devono pensare percorsi differenti, aiutati da un supporto medico e psichiatrico, per portare risultati positivi. Questo aspetto chiaramente condiziona anche la partecipazione alle attività del carcere: spesso l’astinenza porta al malessere, e appiattisce tutti gli altri stimoli”. L’Italia è uno degli ultimi Paesi in Europa a costruire carceri. Perché? “A vederla in modo ottimistico, possiamo pensare che lo Stato italiano abbia intenzione di intervenire con misure alternative, dando la risposta giusta in base al bisogno della persona. Sicuramente il sovraffollamento è determinante, in negativo, sulla qualità del nostro lavoro. Quale sia lo strumento per farlo bene, è complesso da dire. Occorrerebbe capire quali e quante sono le risorse che lo Stato ha a disposizione per operare con qualità. Non è una questione solo di numeri e spazi”. Le vostre attività come sono cambiate con il Covid? “Per molti il carcere è un luogo di rinascita. E svolgere queste attività, oltre al recupero di queste persone, vuol dire anche dar loro un futuro. Durante i mesi più duri della pandemia è andata avanti la scuola, con tutte le sue difficoltà. Il forno e la falegnameria hanno continuato a funzionare, con interventi organizzativi e sugli spazi per cautelare la salute di tutti. Poi, riducendo le visite dei familiari, è nata la possibilità di attivare i collegamenti in video. Questo ha consentito a persone che hanno i parenti lontani di vedersi anche dopo anni. Mi hanno raccontato di momenti davvero commoventi. Non hanno mai smesso di aiutarci le associazioni di volontariato e tutte le risorse “esterne”. La rete non si è mai interrotta, hanno continuato a starci vicini, anche distanti eravamo presenti l’uno all’altro. La pandemia non ha creato fratture ma ha unito ancora di più. Adesso, con le misure di distanziamento, le attività stanno riprendendo tutte. Spero che la gestione dei problemi collettivi sia meno pressante e consenta di concentrare più energie sui bisogni dei singoli, operatori e persone detenute”. Un augurio, da qui ai prossimi anni, per le nostre carceri... “L’augurio è che si possa lavorare sempre meglio. Se c’è una cosa che il carcere deve fare è migliorare, ogni giorno di più, la propria qualità”. Cosa vuol dire per lei fare questo lavoro? “Vuol dire cercare di dare il mio contributo a questa società, provare a essere utile dando un’opportunità a chi la vuole cogliere. Personalmente sono piena di speranze. Credo nelle persone, nella loro debolezza e, soprattutto, nella loro forza di ricominciare da zero. Anche quando farlo sembra impossibile”. Modena. Pestaggi a detenuto: il Garante manda la lettera alla Procura di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 27 novembre 2021 Il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, fa sapere di aver inviato alla Procura di Modena la lettera (anticipata dalla Gazzetta) che gli aveva mandato un detenuto straniero raccontando scene di brutalità e violenza gratuita subite dopo la rivolta di Sant’Anna avvenuta l’8 marzo 2020 e terminata con la morte di nove detenuti (ufficialmente per overdose). Il manoscritto parlava esplicitamente di fatti molto gravi. Il detenuto, allora trasferito altrove, si esprimeva in questi termini: “Siamo stati ammazzati di botte”. “La più grande macelleria che ho visto nella mia vita”. Raccontava di essere stato denudato e messo contro il muro a gambe allargate e bastonato senza motivo. “Mi hanno picchiato con pugni e calci vicino al muro e tenuto su col manganello alla gola. Sputavo sangue dalla bocca”. Anche nel nuovo carcere dopo il trasferimento lamentava di aver subito soprusi di ogni genere. Denunciava anche il fatto che a Modena gli erano stati presi in consegna soldi e preziosi che non gli sono mai stati restituiti. Il Garante ha chiesto alla direzione di Sant’Anna di far luce sulla scomparsa di questi effetti personali di valore. Intanto ha inviato la lettera del detenuto in Procura. Lettera che si aggiunge alla denuncia firmata dai cinque detenuti e ad altre testimonianze di pestaggi di detenuti estranei alla rivolta ora la vaglio delle pm Francesca Graziano e Lucia De Santis, titolari delle indagini. Roma. Don Guernieri: una vita accanto ai detenuti di Salvatore Tropea romasette.it, 27 novembre 2021 Il coordinatore dei cappellani di Rebibbia è morto il 25 novembre. Le esequie il 27 al Divino Amore. Don Spriano: “Ci ha lasciati come ha sempre vissuto: aiutando”. Una vita, da sacerdote ma prima ancora da uomo, al fianco di chi, in debito con la giustizia, aveva bisogno di una mano per ripartire, per riconciliarsi con se stesso e con la società e cercare di non sbagliare più. Con questo spirito ha vissuto don Roberto Guernieri, prima cappellano nella Casa circondariale maschile del nuovo complesso di Rebibbia e poi, dal 2016, coordinatore dei Cappellani dello stesso carcere romano, che si è spento ieri, 25 novembre, all’età di 62 anni. “Ci ha lasciati come ha sempre vissuto, aiutando i detenuti”, racconta con commozione Don Sandro Spriano, al suo fianco per quasi trent’anni, anch’egli cappellano a Rebibbia fino alla scorsa estate. “È venuto a mancare - racconta - dopo essere andato ad accompagnare un detenuto in una delle due case-alloggio che aveva creato molti anni fa, proprio per ospitare e dare un tetto a chi uscito da poco dal carcere o in permesso premio”. Dopo i primi anni, dal 1998 al 1994, come vicario parrocchiale di Santa Maria del Divino Amore a Castel di Leva, don Roberto Guernieri era entrato come cappellano a Rebibbia nel 1993. “Per oltre 28 anni - ricorda Spriano - abbiamo lavorato insieme con i detenuti in mille modi, curando sia l’aspetto religioso e spirituale sia quello umano e più materiale. Don Roberto - racconta - era un uomo di fede, con un carattere a volte un po’ scontroso, ma finiva sempre per trovare in sé e negli altri il sorriso e la riconciliazione”. L’unico pensiero, sempre fisso, di don Guernieri, come racconta l’amico sacerdote, era “stare accanto a chi era emarginato e diseredato, ben conscio che in mezzo ai poveri e ai fragili c’è la presenza di Cristo”. Soprattutto negli aiuti più materiali, tanto che “ogni anno, a parte con il Covid, don Roberto festeggiava il suo compleanno, a gennaio, con una Messa e un enorme pranzo, invitando centinaia di famiglie di detenuti e del personale del carcere. Tutti venivano non per il pranzo ma per ringraziare sinceramente un fratello che stava accanto a loro e li aiutava o li aveva aiutati in passato”. Anche nei momenti liturgici più importanti dell’anno, racconta sempre don Sandro Spriano, “si spendeva molto in cerca di colombe, panettoni e soprattutto vestiti e viveri per chi sapeva essere meno abbiente”. Un esempio di solidarietà e umanità, ma “guai a pensare lo facesse perché era sacerdote - precisa don Spriano -. Parlare di Gesù Cristo per lui era ovviamente fondamentale, ma era forse l’ultimo pensiero perché tutto partiva, certamente, dalla fede, ma poi il suo percorso con i detenuti si concentrava sulla vicinanza umana, fraterna e filiale con le persone. Perché gli altri erano proprio questo per lui: persone, semplicemente persone”. Le esequie del sacerdote si svolgeranno domani, 27 novembre, alle 14.30 al santuario nuovo della Madonna del Divino Amore, in via del Santuario 10. A presiedere sarà il cardinale Enrico Feroci. Milano. Colletta alimentare, la lettera di Alessandro dal carcere La Repubblica, 27 novembre 2021 “Ecco perché anche per noi è importante aiutare chi sta fuori e soffre”. La raccolta fondi dei detenuti di Opera: “L’aiuto è una moneta corrente “dentro” e la Colletta che orienta a farlo anche per “fuori” è solo un’altra occasione”. Ha un senso proporre la Colletta Alimentare in carcere? Anche quest’anno l’associazione Incontro e Presenza chiede ai detenuti, che hanno già i loro guai, di fare la spesa per aiutare i poveri. Può sembrare una proposta folle: chi è “fuori” è immensamente più ricco di chi vive “dentro”, se non altro perché gode della libertà. Dunque, perché aiutarlo? È proprio ciò che mi ha detto qualcuno dei miei compagni che mi vedeva appendere in bacheca la locandina con l’invito a partecipare alla Colletta. Lì per lì ho dato risposte generiche ricordando che c’è sempre chi sta peggio, che “fuori” esistono persone che muoiono di fame, che il Covid ha peggiorato la situazione, eccetera. Ma non nascondo che quei commenti mi hanno amareggiato. Nella società comoda e benestante del mondo di oggi - almeno in Occidente - sembra che sempre più si affermi un silenzioso pensiero per cui la compassione non c’è più. Sembra morta la capacità di farsi carico del dolore altrui, di accorgersi della sofferenza se non è la nostra: non si “compatisce”, che vuole dire proprio sentire il dolore altrui come nostro. Questa qualità degli esseri umani viene dileggiata e bollata come buonismo. La solidarietà o quello che una volta si chiamava “mutuo soccorso” ed era un sostenersi a vicenda, si è trasformata nel cercare di stare bene da soli, senza gli altri e addirittura contro gli altri. Ma a guardar bene, in carcere la situazione è differente. Nella realtà le persone si aiutano molto dentro queste mura: è difficile che uno sia abbandonato. C’è un gran cucinare per chi non sa o non può farlo; ci si presta o regala scarpe e vestiti, nessuno va a colloquio con i parenti a mani vuote, qualcosa da portare per fare festa con loro c’è sempre. I volontari in questo sono di esempio e spingono per una specie di “resistenza” contro l’egoismo, che fa sì che qui il “com-patire” sia decisamente attuale. Lo vivono in tanti, anche senza accorgersene. Allora ho capito che vale la pena spendersi per farlo notare, sottolineando che la compassione e l’aiuto sono moneta corrente “dentro”, e che dunque la Colletta che orienta a farlo anche per “fuori” è solo un’altra occasione. Sembra cosa troppo grossa da dire ma si coglie proprio qui, dove il dolore è di casa, che la dignità è vera dove anche un solo essere umano ne riconosce un altro, si china su di lui e lo abbraccia. E’ un piccolo miracolo che la Colletta alimentare ha ricreato anche quest’anno. Ancora una volta noi detenuti di Opera abbiamo guardato “fuori”, non sognando ma vedendo cosa c’è. Quanto noi si sia stati capaci non so: i “conti” della raccolta li faranno al Banco Alimentare. Intanto, grazie agli amici di Incontro e Presenza che ci hanno offerto l’occasione e grazie a quanti l’hanno colta. Alessandro Padova. L’alta pasticceria dei detenuti che fa risparmiare lo Stato di Marco Fattorini linkiesta.it, 27 novembre 2021 Tra i migliori panettoni artigianali italiani c’è quello preparato dai detenuti del carcere Due Palazzi. La pasticceria Giotto, situata all’interno della prigione, dà una seconda possibilità ai reclusi, che oltre ad essere assunti con contratti regolari, sfornano dolci di prima qualità. Venti ore di lievitazione e nove gusti diversi, l’ultimo arrivato è gianduia e amarena. Ma c’è anche quello al moscato Kabir oppure fichi e cioccolato. Uno dei migliori panettoni artigianali italiani viene prodotto in carcere. Premiato dal Gambero Rosso, mangiato da Papa Francesco. Lo ordinano le grandi aziende e si vende in 240 negozi, anche all’estero. Prima di arrivare sugli scaffali però, il dolce natalizio deve superare cancelli di ferro e metal detector. Siamo a Padova, nella casa di reclusione Due Palazzi. Un casermone grigio con le sbarre rosse che ospita 500 detenuti condannati in via definitiva. Qui nel 2005 la cooperativa Work Crossing ha deciso di trasferire il suo laboratorio di alta pasticceria. Così è nata Giotto. “Ci siamo buttati”, racconta il presidente Matteo Marchetto. “Decidemmo di puntare su prodotti artigianali di altissima qualità. Abbiamo offerto un lavoro vero ai detenuti, con regolare contratto. La nostra non era un’iniziativa di assistenzialismo, dovevamo stare sul mercato e confrontarci con la concorrenza”. Le paure erano molte. La diffidenza dei clienti, in primis. La difficoltà di lavorare dietro le sbarre, con la burocrazia e gli ostacoli che ne conseguono. Oltre alla formazione di lavoratori che, inevitabilmente, partono da condizioni difficili. Dopo diciassette anni e decine di migliaia di panettoni, la scommessa può dirsi vinta. Oggi alla pasticceria Giotto lavorano 46 detenuti coordinati da quattro maestri pasticceri. Sfornano biscotti, torte, gelati, focacce e colombe. Si fa tutto dietro le sbarre: produzione, confezionamento e logistica. “Lo studio su alcuni prodotti dura mesi, se non anni”, racconta il capo-pasticcere Matteo Concolato, che ogni giorno varca le soglie del Due Palazzi. Tutto parte dalla scelta maniacale delle materie prime. “Quest’estate ho assaggiato dieci tipi di burro e sei varietà di canditi, prima di scegliere quelli giusti”. Tra macchinari pulitissimi e citazioni letterarie sui muri, non sembra di stare in carcere. “Quando sei qui dimentichi di essere in galera”, racconta Mario, 56 anni di cui 14 passati nella pasticceria di Giotto. “Ero stato trasferito nel 2001 al carcere di Padova, quando ho iniziato a lavorare non sapevo nulla di pasticceria. La bellezza di questo mestiere sta nel fatto che crei con le tue mani e vedi il risultato del tuo lavoro”. Qui le barriere umane e carcerarie si abbattono. Ci sono ergastolani, uomini condannati a pene lunghissime. Capita che, tra una sac à poche e una spatola, il boss debba imparare il mestiere da uno scippatore. Si maneggiano coltelli, si instaurano rapporti di fiducia. “Un miracolo”, per dirla con le parole del presidente Marchetto. “Quello che mi ha colpito - spiega il maestro pasticcere Matteo Concolato - è vedere quanto queste persone si appassionino, si sentano protagoniste e responsabili del lavoro che fanno”. La sfida dell’alta qualità, prima di essere accettata, dev’essere compresa dai detenuti. “Una delle cose più faticose - racconta Concolato - è stata far capire che alcuni prodotti andavano scartati perché non rispondevano al criterio estetico o perché il gusto non era ottimale. Per molti di loro, che magari non avevano mai assaggiato quel tipo di dolci, era un fatto strano”. Nulla è dato per scontato, nel mondo chiuso della prigione. Nemmeno i premi ricevuti in questi anni e le fiere del settore in cui è sbarcata la pasticceria Giotto. I detenuti, selezionati dopo una serie di colloqui, fanno un tirocinio di sei mesi per imparare il mestiere. Poi, se tutto va bene, vengono assunti a tempo indeterminato con un contratto collettivo nazionale. E uno stipendio vero che consente di mandare i soldi a casa. “Questo è un passaggio fondamentale per loro che, invece di essere considerati un peso, possono aiutare le proprie famiglie”, spiega il presidente di Work Crossing Marchetto. “Qualche tempo fa il figlio di un detenuto aveva appeso nella sua cameretta, accanto al poster di Ronaldo, la prima busta paga del papà pasticcere”. Per molti lo stipendio mensile era qualcosa di sconosciuto nella vita precedente. Il primo vero impiego con regole e orari. Spesso l’opportunità di lavorare in prigione innesca una rivoluzione. Lo racconta Mario, che a Padova sta scontando la sua pena: “Sono grato per quest’occasione, ho imparato un mestiere e mi sento utile. In carcere senza far nulla guardi il soffitto e ti incattivisci. La maggioranza delle persone che accetta la sfida del lavoro cambia la sua vita”. Al Due Palazzi oltre 200 detenuti hanno sfornato dolci in questi anni. C’è chi, una volta uscito, ha aperto una pasticceria. In molti hanno cominciato a lavorare nel settore della ristorazione. “La più grande soddisfazione è vedere la trasformazione da mani che facevano del male a mani che fanno qualcosa di buono”, dice il presidente di Work Crossing Marchetto. Il lieto fine non è quello che ci si aspetterebbe. Il lavoro in carcere rappresenta uno dei pilastri della rieducazione dei condannati e un investimento sulla sicurezza del Paese. Abbatte la recidiva dal 70 al 5 per cento e fa risparmiare un mucchio di soldi allo Stato: ogni punto di recidiva guadagnato corrisponde a 40 milioni di euro. Eppure, oggi in Italia solo il 4 per cento dei detenuti lavora per imprese o cooperative. Una percentuale minima. Nonostante il successo di esperienze come quella di Giotto. Roma. Vincenzi: “Socialità e affettività due valori imprescindibili” garantedetenutilazio.it, 27 novembre 2021 Saranno illustrati in Consiglio regionale i risultati della ricerca dell’Università di Cassino sulle relazioni affettive delle persone detenute e la proposta di modifica della normativa in materia La casetta dell’affettività nel carcere femminile di Rebibbia. “Siamo lieti di ospitare i risultati di questa importante ricerca. È fondamentale, soprattutto in questo periodo storico, porre sempre di più l’accento sulle condizioni dei detenuti nelle nostre carceri. La socialità e l’affettività sono due valori imprescindibili”. Così il presidente del Consiglio regionale del Lazio, Marco Vincenzi, nell’annunciare la presentazione dei risultati della “ricerca-intervento” dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale “Affettività e carcere, una proposta di riforma tra esigenze di tutela contrapposte”, che si terrà martedì 30 novembre (alle ore 15) nella sala Mechelli del Consiglio, in via della Pisana, 1301. “Le relazioni affettive e sentimentali dei detenuti sono state messe a dura prova con il Covid e hanno mostrato tutti i limiti del nostro quadro normativo”. È quanto afferma il Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, secondo il quale “la ricerca dell’Università di Cassino ci consente di rivedere tutta la materia, superando anche il tabù della sessualità che può essere consentita attraverso la riservatezza dei colloqui dei detenuti e delle detenute con i propri nuclei familiari e i propri partner”. “Come ente di ricerca, oltre che di studio, la nostra università ha contribuito in modo tangibile al delicato tema dell’affettività nelle carceri della nostra regione”. Lo dichiara il Rettore dell’Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale, Marco Dell’Isola. “In piena pandemia - prosegue Dell’Isola - eravamo lì per capire cosa stesse accadendo realmente alle relazioni affettive dei detenuti, in considerazione delle restrizioni sanitarie particolarmente delicate in un contesto già chiuso come quello carcerario. Questa ricerca si pone nel solco dell’impegno della nostra università in ambito penitenziario che, da oltre tre anni, grazie anche agli stimoli del Garante Anastasìa, ci vede in prima linea sul fronte dei diritti, con lo Sportello per i diritti dei detenuti, e della formazione, con i nostri tutors che settimanalmente entrano in carcere per affiancare gli studenti detenuti nel loro percorso universitario”. Cofinanziata dalla Presidenza del Consiglio regionale del Lazio, la ricerca - responsabile scientifica Sarah Grieco - è volta ad approfondire gli istituti giuridici in materia di diritto all’affettività e a esaminare l’aderenza (o lo scollamento) del nostro ordinamento penitenziario ai parametri indicati dalla Costituzione e da quelli indicati dal diritto internazionale, circa il diritto delle persone recluse alla propria affettività. Sono stati coinvolti detenuti e operatori di quattro istituti penitenziari: la Casa circondariale “San Domenico” di Cassino, la Casa circondariale “G. Pagliei” di Frosinone, la Casa di reclusione di Paliano e la Casa circondariale di Rebibbia Femminile. La ricerca si è svolta mediante la somministrazione di questionari standardizzati, un’ulteriore intervista semi-strutturata, rivolta a figure professionali e dirigenziali penitenziarie, un’osservazione diretta centrata sulle strutture con particolare riferimento alle stanze colloquio, alle aree verdi, ai luoghi dove vengono effettuate le telefonate. Tra maggio e luglio 2021, sono stati intervistati oltre 200 detenuti, che stanno scontando pene in differenti regimi penitenziari: comuni, alta sicurezza, sex offenders, collaboratori di giustizia. Sulla base delle risultanze della ricerca e dello studio del contesto, si è ricalibrato il quadro normativo e regolamentare con l’elaborazione di una proposta di legge per la “Tutela delle relazioni affettive e della genitorialità delle persone ristrette”, con una riforma dell’ordinamento così come del regolamento penitenziario. Ecco il programma dell’incontro. Saluti del Presidente del Consiglio regionale del Lazio, Marco Vincenzi Saluti del Rettore dell’Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale, Marco Dell’Isola Saluti della Presidente della commissione Affari istituzionali e sicurezza, Sara Battisti Modera: Laura Caschera Illustrazione dei risultati della ricerca: Sarah Grieco, responsabile della ricerca, Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale Simone Digennaro, Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale Intervengono: Leonardo Circelli, magistrato del Tribunale di sorveglianza di Roma Monica Cirinnà, senatrice della Repubblica, relatrice del disegno di legge d’iniziativa del Consiglio regionale della Toscana in materia di affettività nelle carceri Fabio Vanni, dirigente Ufficio detenuti del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise Chiusura dei lavori: Stefano Anastasìa, Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio Mauro Buschini, consigliere regionale, già presidente del Consiglio regionale del Lazio Per assistere all’incontro in presenza, è necessario accreditarsi, inviando nome, cognome, numero di telefono al seguente indirizzo di posta elettronica: info@garantedetenuti.it. All’ingresso è necessario esibire un documento d’identità e il green pass. “Canzone per un ergastolano”, parole in musica per un carcere più umano Il Dubbio, 27 novembre 2021 “Canzone per un ergastolano”, musica e canto di Marco Chiavistrelli, su liriche liberamente tratte da poesie di Carmelo Musumeci. Regia di Monica Chiaroni. “Canzone per un ergastolano”, è un brano nato dalla collaborazione tra Marco Chiavistrelli e Carmelo Musumeci che compaiono insieme nel video a suggellare un profondo rispetto e una bella amicizia. Carmelo Musumeci, arrestato nel 1991 e condannato all’ergastolo per omicidio e associazione mafiosa, ha intrapreso una lunga e coraggiosa battaglia per la eliminazione dell’ergastolo ostativo e l’umanizzazione dell’istituto carcerario, con una nuova visione di rieducazione per detenuti che sono anche vittime di disagio ed emarginazione sociale. La canzone solidarizza con questa battaglia, esprime e rappresenta il dramma, l’agonia lenta e inesorabile dell’ergastolo. Le bestie catturate dal male rinchiuse per sempre nel recinto. Umiliate pestate torturate battute isolate sedate. Ma il vero male è della società così altrimenti non si spiega il fatto che la maggior parte dei detenuti provenga da situazioni di tremendo degrado e miseria, da quartieri emarginati, da vite spezzate, da condizioni di miseria, povertà, abbandono, dove i bambini già si identificano in strutture mentali di arrangiamento, privazione della cultura, devianza”. L’obbligo non obbligatorio di Michele Ainis La Repubblica, 27 novembre 2021 Per il vasto popolo dei non vaccinati (8 milioni), il Green Pass è un cappio al collo. Sempre più stretto, man mano che le sue condizioni s’inaspriscono, generando Maxi o Super Green Pass. Ma fin dove può stringersi la corda? C’è un limite, un punto di rottura, che rompe al contempo la legalità costituzionale? Sta di fatto che le misure di contrasto al virus stanno cambiando segno: dalla persuasione all’induzione, dall’induzione alla costrizione. E l’ultimo decreto battezzato dal governo aggiunge altre cinque spine. Primo: la durata del Green Pass si riduce (da 12 a 9 mesi). Secondo: il certificato verde diventa obbligatorio anche per accedere ai treni regionali, agli autobus, ai tram, alla metropolitana, oltre che negli alberghi e negli spogliatoi per l’attività sportiva. Terzo: non basterà più il tampone per assistere a spettacoli e cerimonie pubbliche, per entrare in discoteca, per pranzare al ristorante (queste attività vengono ormai riservate ai guariti e ai vaccinati). Quarto: l’obbligo vaccinale s’estende alla terza dose. Quinto: alle categorie già sottoposte all’obbligo s’aggiungono i militari, le forze di polizia, gli agenti del soccorso pubblico, il personale amministrativo della sanità, i docenti e gli altri lavoratori della scuola. Diciamolo: è un cambio di strategia, un nuovo paradigma. A questo punto la regola non sta più nella libertà di non vaccinarsi (a eccezione delle categorie obbligate), bensì nel suo opposto. Regola è l’obbligo vaccinale, da cui alcune categorie (per il momento) vengono esentate. Però sempre di meno, e sopportando ulteriori restrizioni. Dunque il vaccino è già obbligatorio, benché gli italiani non ne siano stati informati. Nessuno scandalo, il governo talvolta dev’essere insincero, per non allarmare i cittadini. D’altronde la politica - diceva Valéry - è l’arte d’impedire alla gente di impicciarsi di ciò che la riguarda. E d’altronde sono insinceri pure partiti e intellettuali che s’oppongono al Green Pass, reclamando casomai una scelta chiara, l’obbligo vaccinale timbrato dalla legge. Ora l’obbligo c’è, ma loro continuano ad opporsi. Invece il Green Pass ha superato il vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo, del Tribunale Ue, del Conseil constitutionnel francese, di varie magistrature anche italiane. Mentre la vaccinazione obbligatoria è una decisione consentita dalla Costituzione, e già oggi esercitata in 10 casi, nei riguardi dei minori. No, il problema non sta nella sostanza, bensì piuttosto nelle forme di quest’obbligo mascherato. L’articolo 32 della nostra Carta pretende l’uso della legge, per imporre un trattamento sanitario. Mercoledì scorso l’esecutivo è intervenuto con un decreto legge; provvedimento provvisorio - dice l’articolo 77 - che perde efficacia “sin dall’inizio”, se le Camere non lo convertono in legge entro 60 giorni. Tuttavia stavolta i suoi effetti sono irreversibili, permangono anche se il Parlamento rifiuti la conversione del decreto. Perché si consumeranno dal 6 dicembre al 15 gennaio, e perché dunque l’eventuale bocciatura parlamentare - alla fine di gennaio - non potrà riaprire le porte d’una trattoria o uno stadio a chi le trovò sbarrate. Il diritto non è una macchina del tempo. Ma un decreto non è una legge, anzi può divenire lo strumento per eludere la riserva di legge prescritta dall’articolo 32 della Costituzione. Da qui un paradosso, giacché ogni emergenza sollecita risposte immediate, per decreto. Paradosso doppio, rispetto al modo obliquo con cui il governo sta introducendo l’obbligo della vaccinazione. Una strategia dettata dalla preoccupazione di non esacerbare gli animi, di non accendere nuove rimostranze. Invece le proteste si moltiplicano, attraverso il conto dei sommersi e dei salvati. Così, gli albergatori denunciano una discriminazione rispetto agli affitti brevi. Altri indicano un’incongruenza fra assembramenti liberi (nei supermercati o nelle chiese) e controllati (per esempio in un concerto). E via via, l’elenco sarebbe più lungo d’un lenzuolo. Ma il lenzuolo è la conseguenza della via italiana per la vaccinazione: un obbligo non obbligatorio. Lavori lavori e non succede niente di Sandro Bonvissuto La Stampa, 27 novembre 2021 Il lavoro ha perso di dignità e denaro, quindi si torna a emigrare, ricominciando da dove avevamo finito; è un cerchio che si chiude. Era già successo a chi ci ha preceduti, ci si mette in viaggio per cercare qualcosa che qui non c’è o non c’è più. Credo sia la felicità. Come famiglia discendiamo da emigrati (mio nonno italiano è morto ed è sepolto in Sud America), e i figli di questi hanno poi a loro volta avuto modo di tornare in Italia. I figli loro, nipoti dei primi espatriati, fra cui io, sono riusciti infine a restarci. Ma i figli nostri ora, proprio come avevano fatto i loro bisnonni, prendono di nuovo le valigie, le riempiono con quello che possono, e vanno via. Non sono più bagagli di cartone legati con lo spago, ma il concetto è lo stesso: puoi portarti dietro solo una parte dei tuoi affetti. Ogni trasloco è una perdita, ogni addio una mutilazione, ogni partenza ha un fardello fatto di oblio, e la zavorra più pesante è sempre quella invisibile. Si tratta della storia di molte famiglie come la mia, e me ne ricordo perché è da stolti restare nella propria vita personale e basta, credere come solo all’interno di questa debba compiersi per intero il nostro destino. Bisogna affacciarsi alla storia, abbracciare almeno le epoche che corrispondono alle generazioni con le quali siamo ci siamo sovrapposti, accavallati. Le facce delle quali si ha ricordo e sentimento, persone da cui si può avere una narrazione incarnata di ciò che è accaduto. Parlare del passato, all’interno della propria comunità familiare costituisce la più antica e nobile forma di cultura mai sperimentata dalla specie umana, e questa verte da sempre sul racconto orale. Se solo voi capiste la differenza tra la testimonianza che i nostri nonni possono farci della loro vita, e le notizie che del medesimo arco storico sono riportate in un documentario televisivo, scoprireste di trovarvi di fronte a due categorie completamente diverse del sapere: una è conoscenza, l’altra informazione. Quando mia nonna mi racconta della guerra o dell’emigrazione quello è un processo morale che attraverso una colleganza affettiva con chi narra fonda l’etica di chi ascolta, mentre quando leggi un articolo come questo ti limiti ad avere un semplice ragguaglio su certe cose, nozioni che dimenticherai al primo starnuto. Nel racconto di un anziano c’è conoscenza principalmente perché chi trasferisce sa quello che dice, cioè la conoscenza ce la deve avere prima di tutto chi parla perché la si possa poi far transitare a chi ascolta. I veterani delle nostre comunità sono quindi un patrimonio vivente, e parlare con loro è avere accesso a l’unica forma di cultura ancora libera, non assoggettata a concetti strumentali di produttività, fatturato, prodotto interno lordo: “Voi vivete per acquistare, a noi non ci serve niente”. La sera cenano con un piatto di verdura e un bicchiere di vino. Il racconto di questa gente recuperabile direttamente all’interno delle nostre famiglie dentro casa nostra, è avulso da ogni tipo di propaganda e di interesse, libero dal politicamente corretto, dalla menzogna degli ideali meritocratici del tipo: “Se ti impegni puoi farcela”, ascoltati anche per bocca di presidenti americani insigniti col premio Nobel. Certo che se mi impegno ce la faccio, solo che non ho capito a fare che cosa. Si tratta di slogan al servizio della moderna disciplina del lavoro, fatti a sua stessa immagine, somiglianza e utilità. Ma adesso lavori lavori lavori e non succede niente. Una volta i giovani si chiamavano come i loro nonni, proprio per creare a priori la possibilità che venisse mantenuto un legame fra queste due generazioni, fra le quali ce n’è una terza. E poi perché trionfasse l’individualismo è bastato smettere di mangiare insieme, di raccontarsi a vicenda, parlare senza fini di lucro, cose che da questo progresso sono considerate inutili. Per la società contemporanea tutto quello che sembra trascendente deve essere rinnegato perché incerto, e le tradizioni consolidate ignorate perché a matrice collettiva anziché privata. È la morte del sacro di cui parlava qualcuno. Gli antenati vedono con chiarezza la definitiva eclissi di ogni valore e speranza nelle moderne società industriali, votate al tornaconto, all’arricchimento, schiave del guadagno e del profitto. L’idea di paese sovrano è tramontata, traslata nel concetto di mercato, e nessuna nazione governa più a casa sua, il mondo globale è un’azienda acefala, i cui destini sono in mano a capitali senza bandiera. Che cosa sia stato dei nostri avi ancora precedenti non lo so, perché degli antenati di prima non è rimasta traccia, due guerre mondiali hanno provveduto a cancellare tutto. In mezzo a queste quattro generazioni, circa cento anni a oggi, non c’è stata solo la guerra però, c’è stata pure la Liberazione, la pace, la Costituzione. E proprio in questa c’è scritto che l’Italia avrebbe dovuto essere una Repubblica democratica fondata sul lavoro. E invece ha finito per essere fondata sullo sfruttamento del lavoro; l’era contemporanea del nostro paese vive sotto lo scacco dell’ennesimo tradimento. Mio nonno lavorava in fabbrica, ci andava col tram e faceva il gelataio, mia nonna stava a casa, hanno avuto sei figli e pagato sempre l’affitto: “Ma non lo capisci che oggi vai a lavorare, per comprarti la macchina, per andare a lavorare?”. Parlano dall’alto di un sapere che è stato capace di salvare loro la vita, e che gli era stato insegnato dalla vita stessa, alla quale preme più di tutto di autoconservarsi. Di fronte ai processi disumani della società capitalistica, di fronte allo sviluppo tecnologico che ha creato il mito della rapidità e dell’efficienza, mi ricordo dei pensionati che avevano la senile abitudine di dormire con la valigia sotto al letto, perché può sempre succedere di doversi rimettere in cammino nella vita. Anzi sbaglia chi ha creduto di potersi fermare. L’esistenza ribolle di continuo, la storia è spesso violenta nelle sue maniere. L’uomo è nomade, la donna pure, altrimenti saremmo nati con le radici come gli ulivi. Per l’ennesima volta avevano ragione i vecchi: non è mai vero che la felicità ci viene incontro, siamo noi che dobbiamo inseguirla. Abbandoniamo i pregiudizi e parliamo finalmente di droghe di Vanessa Roghi Il Domani, 27 novembre 2021 Da decenni il problema viene trattato in Italia e altrove facendosi influenzare da stereotipi e generalizzazioni. Ma la trasformazione e l’allargamento abnorme del mercato delle sostanze ora richiedono un nuovo approccio. Si tiene oggi e domani a Genova la conferenza nazionale sulle droghe. Un appuntamento atteso dal 2009, anche se per legge avrebbe dovuto essere convocato ogni tre anni. “Un po’ come Dorothy quando realizza di non trovarsi più nel Kansas ma nel mondo di Oz, così anche gli americani a un certo punto si sono accorti di non trovarsi più negli anni Cinquanta”. Così lo storico David Musto ha descritto la brusca presa di coscienza dei cittadini statunitensi di fronte alle trasformazioni sociali degli anni Sessanta fra le quali, la più scioccante, è stata il fatto che le persone che conoscevano avevano iniziato a usare droghe illegali. Una metafora perfetta, quella del brusco risveglio, che prendo in prestito per descrivere la sorpresa degli osservatori politici, della stampa, della pubblica opinione, di fronte alla nuova ondata di consumo di eroina che ha investito, negli ultimi vent’anni, l’occidente e quindi anche l’Italia. A partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, infatti, si è andata diffondendo l’idea che l’eroina fosse scomparsa, non fosse più un problema, riguardasse solo fasce marginali di disperati. Non era vero e accanto all’eroina erano comparsi nuovi derivati dell’oppio, normalmente legali. Oggi, di fronte alle notizie allarmanti che arrivano dagli Stati Uniti (due giorni fa il New York Times per ultimo ha lanciato il suo grido d’allarme sul consumo di fentanyl) i giornali italiani, invece di interrogarsi su quello che accade da noi, approfittando dell’allarme d’oltreoceano, riprendono la notizia tale e quale, come se fosse un dato che ci riguarda nello specifico. Ma non è così. Per fortuna in Italia, come sottolinea Pino Di Pino, operatore del Sert di Mestre, in strada, non vi sono tracce di uso di questo potente anestetico, che per ora viene usato solo da chi vuole sperimentare. L’allarmismo senza informazione non serve a niente. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. “Sapere intuitivo” - “Il campo delle opinioni sul problema della droga è largamente dominato in Italia come altrove, da ciò che si potrebbe chiamare “il sapere intuitivo”: da quell’insieme di valutazioni basate sul senso comune, ma che tutti reputano ben ponderate, circa una serie di intricate questioni quali le “ragioni che spingono i giovani alla tossicodipendenza”, le dimensioni dell’economia e dei profitti clandestini, le responsabilità della criminalità organizzata, il “che fare” per risolvere, ridimensionare o semplicemente convivere col problema”. Così Pino Arlacchi introduceva, nel 1990, il suo studio su Verona e le tossicodipendenze nel quale sottolineava come il discorso sulle droghe va continuamente aggiornato, pena la totale incomprensione del fenomeno. A rileggerla oggi, la riflessione di Pino Arlacchi appare quasi profetica, visto quello che è accaduto dopo, negli anni Novanta, quando si è andato ridisegnando complessivamente non solo il consumo delle droghe illecite, ma anche il posizionamento dell’eroina entro la gerarchia delle stesse. Mentre avveniva questa trasformazione, malgrado ogni evidenza, il “senso comune” stabiliva che l’eroina non era più un tema degno di interesse, essendo l’inevitabile corollario di ambienti marginali o degradati, cosicché anche i giornalisti avevano smesso di occuparsene. Come ha scritto uno di loro, Aldo Cazzullo, qualche anno fa: “Ricordo bene il giorno in cui, praticante alle cronache italiane della Stampa (sono passati trent’anni), ricevetti la disposizione di non passare più le “brevi” sui morti per overdose: erano troppi, e non facevano più notizia”. Il ricordo è del 2018, dunque il calo dell’attenzione risale più o meno intorno alla data in cui Arlacchi sta conducendo la sua inchiesta, agli inizi degli anni Novanta. L’eroina scompare dai radar dell’informazione per un cambio di paradigma che non ha niente a che vedere con la diffusione reale della sostanza, ma con alcuni fattori di tipo culturale e, possiamo dire, merceologici. Cito quelli che ritengo i due principali: l’impatto che la diffusione dell’Aids ha avuto sui consumi di sostanze e sulla lettura delle stesse, (nonché sulla costruzione culturale della figura del drogato), e la diffusione di sostanze psicotrope nuove, non sempre catalogabili come illegali. Inoltre la diffusione capillare di un sistema di servizi territoriali nei fatti funzionante che ha salvato la vita e tolto dalla strada migliaia di persone. In questo scenario in trasformazione è intervenuta la legge 309 del 1990, una vera sciagura che ha criminalizzato nuovamente la figura del consumatore riportando indietro la società italiana agli anni che precedono la legge del 1975 quando, per l’appunto, il drogato era sempre un soggetto patologico o criminale. Questa lettura manichea non ha aiutato certo il dibattito pubblico a cogliere quello che stava accadendo: una vera a propria rivoluzione nel consumo delle sostanze per cui se prima esisteva una relazione che potremmo definire monogamica con la singola droga (l’eroinomane e il cocainomane erano due icone molto ben definite e distinguibili) non era più così. La ricerca che aveva fatto passi in avanti giganteschi fino a quel momento, ha subìto le conseguenze di questo restringimento di punto di vista. Come non manca di farmi notare Claudio Cippitelli, sociologo ed esperto di questi temi, in Italia per ricerca si intende solo tabellatura di sostanze psicotrope al fine di definirle illegali. La ricerca sociale e qualitativa non viene in alcun modo incoraggiata e finanziata. Mancano le parole, le categorie, per capire quello che accade perché ogni ragionamento sulle sostanze è schiacciato su un presentismo intollerabile. Cambiare approccio - Per questo appare veramente prezioso il volume La minaccia stupefacente di Paolo Nencini pubblicato dal Mulino qualche anno fa, perché da farmacologo si è accorto che per essere davvero scientifici non basta riportare dati quantitativi. L’approccio alle sostanze deve mutare nel tempo e prendere in considerazione anche la storia della loro diffusione del loro consumo, una cosa che si fa negli Stati Uniti ma che in Italia fa fatica a passare. Ma solo così è possibile capire e intervenire. Le persone che consumano sostanze, salvo rare eccezioni, non sono devote a una sola (per usare il titolo del bel romanzo di Antonella Lattanzi, Devozione, appunto). Possiamo parlare di un culto politeista, semmai, dove gli idola sono diversi, e spesso legali: si passa dall’analgesico all’anfetaminico dalla cocaina all’eroina. Ho chiesto a una amica tossicodipendente di mandarmi l’elenco delle sostanze che ha usato da quando, a 13 anni, ha iniziato a usarle. Ketamina, lsd, eroina, micropunte, ecstasy, cocaina, mdma, salvia divinorum, ayausca, anfetamina, shaboo. Alcune sostanze legali altre illegali. Del resto l’allarme che arriva dagli Stati Uniti proprio in questi giorni, come accennavo, riguarda proprio una sostanza legale, che sta mietendo vittime in modo preoccupante. Il fentanyl è stato sintetizzato per la prima volta nel 1959 come sostituto della morfina. L’oppioide sintetico è prescritto per trattare il dolore, anche per i malati di cancro. È spesso somministrato in un cerotto; gli abusatori hanno scoperto come masticare o fumare i cerotti o farne aderire delle strisce alle gengive. Come riporta il New York Times, l’allarme fentanyl preoccupa moltissimo la società americana che dagli anni Novanta ha assistito alla nuova ondata di morti per uso di oppioidi sintetici come oxycontin, anch’esso antidolorifico perfettamente legale. Ma come fa notare Sam Quinones nel suo libro Dreamland, l’uso e l’abuso di queste sostanze ha a che vedere con una mentalità e un sistema sanitario che noi in Italia semplicemente non abbiamo. Basta entrare in una farmacia americana e chiedere una pillola per il mal di testa per accorgersi che da noi i blister hanno 20 pasticche qui 200. Questo non significa che in Italia i problemi non esistano, ma sono di natura diversa e bisogna stare attenti ad affrontarli nel giusto modo. Preoccuparsi per il fentanyl senza invece dire niente, per esempio, sulla progressiva chiusura negli anni dei centri per la riduzione del danno operati da diverse amministrazioni pubbliche è quantomeno ridicolo. In Italia infatti questa assenza uccide più del fentanyl. Anche questo ha a che vedere con l’affermarsi di una cultura punitiva, che storicamente possiamo far risalire al concetto di war on drugs, che da Nixon in poi ha dominato le politiche pubbliche statunitensi con risultati fallimentari come è evidente. Come mi fa notare ancora una volta Pino Di Pino: “È la 309 che prevede che se trovi qualcuno con sostanze illegali devi segnalarlo in prefettura e poi ai servizi. Ma questo passaggio deve essere cancellato perché il sistema dei servizi diventa un apparato punitivo e nei servizi stessi c’è la percezione di un servizio di cura fatto di premi e sanzioni. Gli articoli che riguardano le condotte illegali sono di gran lunga superiori di quelli che regolano strutture che dovrebbero essere al servizio della salute pubblica e non alternative al carcere”. Aspettative - L’allarme da oltreoceano arriva comunque quasi provvidenziale per obbligare l’opinione pubblica a prestare attenzione alla Conferenza nazionale sulle droghe che si terrà a Genova oggi e domani. Una conferenza attesa dal 2009, anche se per legge avrebbe dovuto essere convocata ogni tre anni, (e davvero grazie alla ministra Dadone per essersene resa conto). Chiedo a Claudio Cippitelli quali aspettative hanno gli operatori impegnati sul campo: “Finalmente questa conferenza ci offre la possibilità di trovare uno spazio di riflessione comune e di fare il punto sulle politiche pubbliche sulle droghe. Importante fin dalle premesse che intanto siamo riusciti a far passare: l’idea che non si parla più di tossicodipendenti ma di più persone che usano droghe. Fin dall’ultima conferenza infatti il dato più eclatante si conferma la trasformazione e l’allargamento abnorme del mercato delle sostanze e le nuove culture di consumo, che impone di ripensare completamente la struttura dei servizi, l’impianto normativo e la regolazione del fenomeno”. Speriamo che serva davvero a portare il discorso a un livello più alto e serio. Droghe. Dadone: “La legge va cambiata, io vorrei ma non è facile” di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 novembre 2021 VI Conferenza nazionale sulle droghe. La Ministra Fabiana Dadone interviene alla Fuoriconferenza degli autoconvocati. Don Ciotti: “Il testo unico del ‘90 non serve più, neppure modificato, perché è cambiato tutto”. La vigente legge sulle droghe, quella del 1990 con successive modifiche, “non serve più”. “Non solo è invecchiata, ma proprio non serve, perché nel frattempo tutto è cambiato: le strategie e le rotte delle narcomafie, le sostanze, gli assuntori, il mondo dei servizi sociosanitari inclusi quelli dedicati alle nuove dipendenze, l’atteggiamento della società verso le sostanze legali e illegali”. È netto il giudizio di Don Luigi Ciotti, intervenuto ieri alla Fuoriconferenza organizzata dalla “Rete per la riforma delle politiche”, l’insieme di associazioni e personalità “autoconvocate”, non contro la Conferenza nazionale governativa sulle dipendenze che si apre oggi a Genova, ma in supporto. Per pungolare, criticare, lottare - “a favore di tutti, non solo dei fruitori di sostanze stupefacenti”, come sottolinea Peter Cohen, uno dei maggiori esperti internazionali presenti qui, a Palazzo San Giorgio. Forse come don Ciotti la pensa anche la ministra alle politiche giovanili Fabiana Dadone, che ha la delega alle droghe e che a sera raggiunge la sala degli antiproibizionisti per dire che l’obiettivo di combattere le narcomafie è anche il suo. E che la legge “andrebbe” cambiata. Lo dice ma mentre parla sembra che si muova su un tappeto di fragili uova. “Uso il condizionale non per insicurezza, la mia posizione già la conoscete, ma potete comprendere la mia difficoltà che è sotto gli occhi di tutti”, ammette la ministra pentastellata. “Io credo che il Testo unico sulle droghe vada rivisto da tutti i punti di vista, anche perché ha la mia stessa età. Ma non è facile. D’altronde se la Conferenza non l’hanno convocata per dodici anni, un motivo ci sarà. Vediamo cosa verrà fuori in questi due giorni di dibattito, credo che anche in questo contesto molto frammentato e complicato si possa riuscire ad intervenire, ma non voglio che si arrivi ad uno scontro tra proibizionisti e antiproibizionisti”. La ministra Dadone (che ai microfoni di Radio 24 ha detto che andrà a votare al referendum per la legalizzazione della cannabis) ascolta, durante la tavola rotonda, i tanti che le pongono domande e sollevano questioni, compresa la rappresentante dei consumatori di sostanze. Prende appunti, perché sa di essere seduta tra i maggiori esperti europei di politica delle droghe. “Voi che vi occupate di questi temi da molto più tempo di me…”, ammette. “La mia è una delega di coordinamento, non posso certo risolvere da sola tutte le questioni che mi avete posto, ma da lunedì, dopo la conferenza - promette - possiamo costruire ulteriori tavoli per cercare di andare avanti. Ci sono punti, come quello delle pene imposte ai minori di cui mi avete parlato, che non sono poi così divisivi. Su altri punti sarà più difficile, ma credo che si possa spingere il parlamento ad andare oltre le posizioni precostituite. Con dati alla mano, non ci si può più nascondere dietro a un dito. Almeno questo è il mio auspicio”. La conferenza autoconvocata si prefigge lo “Stop war on drugs”, “facciamo la pace con le droghe e con chi le usa”, ma la ministra Dadone sa che non c’è processo di pace più difficile di questo, nel suo governo. E, come spiega Cohen, “senza repressione, il mercato dei narcotici difficilmente sarebbe redditizio”. Per questo “esistono potentissime lobby per la proibizione, mentre soprattutto nelle grandi città l’uso di alcune sostanze è normalizzato”. Che è il contrario di legalizzato. Decine di interventi hanno mostrato, dati alla mano, gli effetti nefasti della legge attuale. Il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma snocciola i dati dell’impatto penale sulle carceri. Franco Corleone ci tiene a “demitizzare le misure alternative che non hanno funzionato”. Come lui, anche Riccardo Magi ricorda che la ministra Lamorgese prima del Covid aveva annunciato un inasprimento delle pene per i fatti di lieve entità legati alle sostanze, quelli che il referendum vorrebbe depenalizzare. Come se ne esce lo spiegano in tanti, dalla Cnca ai Radicali italiani, dalla Cgil ad Antigone, dall’Ass. Coscioni alla Società della Ragione, dalla Lila ai Serd. E anche, in collegamento, dall’Uruguay, dagli Usa, dal Canada e da alcuni network internazionali di studio sull’uso e l’abuso delle sostanze che dialogano con Marco Perduca. Oggi la parola passa ai tavoli istituzionali e poi alla politica. Sperando che possa nutrirsi della linfa vitale della Fuoriconferenza. Migranti. La realtà delle cose, la loro percezione e il racconto che se ne fa per ragioni politiche di Carlo Ciavoni La Repubblica, 27 novembre 2021 Le informazioni che arrivano dal Mediterraneo centrale - si sottolinea in un dossier diffuso dall’ISPI, l’Istituto per gli studi di politica internazionale - lo fanno sempre più assomigliare a una zona di guerra, dove la percezione può più della realtà. Sono quintuplicati gli sbarchi di immigrati negli ultimi due anni e ci sono stati naufragi mortali a poche miglia dalle coste italiane ed europee: l’ultimo è stato quello avvenuto nel Canale della manica mercoledì scorso. E poi: speronamenti da parte delle motovedette della cosiddetta guardia costiera libica, oltre alla tragedia dei migranti e richiedenti asilo ai confini tra la Bielorussia, la Polonia e la Lituania. Dunque, le informazioni che arrivano dal Mediterraneo centrale - come sottolinea Matteo Villa nel suo lavoro diffuso dall’ISPI, l’Istituto per gli studi di politica internazionale - “lo fanno sempre più assomigliare a una zona di guerra e, come in tutte le guerre, la percezione può più della realtà. Quanto c’è di vero nella narrazione che raccontano l’Italia come ‘inondati’ dagli sbarchi da Tunisia e Libia? - ci si chiede nella nota dell’ISPI - Quanto ha contato Covid-19 sull’aumento delle partenze? L’Italia è lasciata sola dall’Europa?” La realtà e le percezioni nel confronto col passato. La verifica dei fatti a proposito di migrazioni mostra, senza alcun dubbio, che gli sbarchi in Italia sono aumentati rispetto al 2019, e che con l’impulso impresso dalla pandemia c’è anche stata una notevole accelerazione dei flussi migratori. C’è sicuramente stato un balzo significativo degli sbarchi che da 11.000 sono arrivati a circa 45.000 negli ultimi 12 mesi. La prima domanda. “Ma una prima domanda da porsi - si legge ancora nel documento dell’ISPI - è se gli sbarchi siano ancora in aumento rispetto ai numeri attuali: al momento diversi indicatori fanno pensare, al contrario, che i numeri si stiano stabilizzando intorno ai 50.000 l’anno. E la seconda. Una seconda domanda da porsi è: cosa significa che gli sbarchi si stiano avvicinando alla soglia delle 50.000 persone l’anno? Si tratta di qualcosa di inaudito? La risposta è no - è la conclusione dello studio realizzato dall’Istituto - infatti già nel 2011, nel corso delle Primavere arabe e in particolare della Rivoluzione tunisina, circa 60.000 persone sbarcarono sulle coste italiane”. E ancora: “nel periodo 2014- 2017 si registrarono tra i 110.000 e i 180.000 sbarchi l’anno. Insomma, malgrado la pandemia abbia aggravato le condizioni nei Paesi di partenza e contribuito a un rapido aumento degli sbarchi, siamo ancora molto lontani dal periodo degli “alti sbarchi” in Italia”. Lo stato di salute del sistema d’accoglienza italiano. Lo studio dell’ISPI prosegue poi analizzando la situazione del sistema d’accoglienza in Italia, domandandosi se è o non è sotto pressione. La risposta - in estrema sintesi - è che la condizione delle strutture di accoglienza italiane “è lontanissima dal numero massimo di migranti accolti, fatto registrare a ottobre 2017: allora erano 191.000, oggi sono 76.000 (-60%). C’è tuttavia da notare - si sottolinea - che, anche se il sistema di accoglienza italiano ha dimostrato di saper gestire numeri ampiamente più elevati di quelli odierni, ancora oggi circa due migranti su tre sono ospitati nei CAS, i Centri di Accoglienza Straordinaria pensati più per far fronte all’arrivo di grandi numeri che per gestire l’accoglienza ordinaria. Il sistema dell’accoglienza diffusa, con piccoli numeri e progetti d’integrazione più mirati ai loro ospiti (e che nel tempo ha cambiato nome diverse volte, da SPRAR a SIPROIMI a SAI), accoglie solo circa 25.000 persone sulle 76.000 presenti”. Il ruolo delle ONG tutt’altro che colluse con i trafficanti. Altro argomento affrontato dallo studio dell’ISPI ruota attorno ad un’altra domanda: “L’aumento degli sbarchi c’entra con l’attività delle ONG?” La risposta anche in questo caso smentisce i numerosi tentativi di imporre una narrazione che tende a considerare collusive con i trafficanti le attività delle ONG, soprattutto di fronte alle coste libiche. La realtà è ancora una volta un’altra. Infatti, l’opera di salvataggio dei migranti da parte delle organizzazioni umanitarie “Non incide in misura significativa sul numero di migranti che partono da quelle coste. A maggior ragione, dunque, le Ong non dovrebbero avere molto a che vedere con il numero di sbarchi in Italia, dal momento che a raggiungere l’Italia non è solo chi parte dalla Libia, ma anche chi si imbarca da Tunisia, Algeria, Egitto, e persino Grecia o Turchia”. Il confronto Salvini-Lamorgese. E viene fatto un confronto tra il periodo della “gestione Salvini” del Ministero dell’Interno quando sbarcavano in media circa 1.000 migranti ogni mese, e il periodo della “gestione Lamorgese”, quando gli sbarchi mensili sono quasi triplicati, arrivando a 2.600, “ma il ruolo delle Ong ha continuato a rimanere molto marginale, inferiore al 15% del totale degli sbarchi”. E questo in pratica “Significa che quasi 9 migranti su 10 raggiungono le coste italiane senza l’aiuto delle imbarcazioni delle Ong e che, quindi, anche senza Ong in mare queste persone sarebbero arrivate lo stesso in Italia”. I nessi tra flussi migratori e pandemia. Un altro capitolo del lungo Fact-Checking proposto da Matteo Villa per l’ISPI riguarda il nesso diretto tra gli sbarchi e la pandemia. Un nesso che, come si precisa nello studio, “ ha contribuito all’aumento della pressione migratoria irregolare alle frontiere Sud d’Europa”, con un cospicuo aumento degli arrivi sia in Spagna che in Italia. Ma la diffusione del virus ha anche generato un altro trend, secondo il dossier dell’ISPI: quello cioè della “regionalizzazione delle rotte irregolari”, a dimostrazione del fatto che “i migranti irregolari tendono a compiere tragitti più brevi rispetto a prima. Per l’Italia, infatti, l’aumento più consistente è stato quello dei migranti arrivati dalla Tunisia, e in particolare proprio di tunisini, passati dai 2.600 del 2019 a quasi 13.000 nel 2020. Anche gli sbarchi di chi proviene dalla Libia - si legge nel documento - riguardano sempre più spesso persone che si trovano nel Paese africano da molto tempo, spesso da anni, e non arrivi recenti”. Libia: le migliaia di migranti detenuti “ufficiali” e non. C’è poi la parte dello studio che riguarda la Libia. “In Libia le cose vanno meglio?”, è la domanda che dà avvio alla ricerca. “Malgrado l’arrivo del nuovo Governo di unità nazionale a marzo di quest’anno 2021 - si legge nel dossier dell’ISPI - il numero dei migranti ospitati nei centri di detenzione ufficiale in Libia è tornato a crescere. Questo numero, che aveva conosciuto un crollo dalla seconda metà del 2019 (da oltre 6.000 a circa 1.000 persone) è tornato a impennarsi e, oggi, ha superato le 5.000 persone”. Ma a preoccupare sono soprattutto le migliaia di persone migranti di cui si sa poco, moltissimi dei quali avrebbero diritto d’asilo e alla protezione internazionale, ma non sono nelle condizioni neanche di avanzare regolare richiesta. Infatti, “accanto alle cifre ufficiali, si stima che diverse altre migliaia di migranti siano trattenuti in centri di detenzione non ufficiali”. “L’Italia lasciata è sola dall’Europa?” E’ questo l’altra domanda dell’articolato “Fact Checking”. “Malgrado la proposta della Commissione europea per un Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo - si legge nel dossier - la riforma delle regole Dublino è in alto mare. E, malgrado il Governo italiano abbia ottenuto che il tema delle migrazioni fosse inserito nell’agenda del Consiglio europeo del 24-25 giugno scorso, dal vertice non sono uscite nuove proposte rispetto alla riattivazione degli accordi sui ricollocamenti. Né su quelli obbligatori che avevano suscitato cause legali e polemiche tra il 2015 e il 2018, né su quelli volontari dei migranti soccorsi in mare conosciuti come ‘accordi di Malta’ attivati nel settembre 2019”. Nonostante tutti questi momenti d’intesa (reale o presunta) rimane il fatto che dei circa 53.000 migranti sbarcati tra ottobre 2019 e maggio 2021, solo circa 990 persone sono state ricollocate in altri Paesi europei, meno del 2% del totale. In altre parole significa che rimangono in Italia quasi 9 persone migranti su 10 soccorse in mare. Le quattro domande finali del Fact Checking. - è vero o no che il numero di stranieri in Italia aumenta?”; - le persone che arrivano sono protette dall’Italia come prima? - il processo di integrazione nel tessuto sociale è davvero così difficile? - esistono canali regolari sufficienti d’ingresso? Il numero di migranti. “Tra il 2014 e il 2021 - si afferma nel documento dell’ISPI - in Italia sono sbarcati più di 700.000 migranti. Con tutta l’attenzione mediatica concentrata sugli sbarchi, è naturale pensare che negli stessi anni il numero di stranieri presenti in Italia sia aumentato in maniera significativa. La realtà, invece, è molto diversa. Proprio dal 2014, infatti, il numero di stranieri regolarmente presenti in Italia (che nel decennio precedente era più che raddoppiato, passando da 1,9 a 4,9 milioni di persone) è rimasto praticamente stabile, crescendo solo del 2% (da 4,92 a 5,04 milioni di persone). Anche includendo gli stranieri irregolari, dal 2014 la presenza straniera in Italia è aumentata solo del 6% (da 5,27 a 5,56 milioni di persone)”. Tutto ciò ha molto a che fare con il fatto che in quello stesso arco di tempo 900.000 stranieri sono diventati cittadini italiani (“4 su 10 sono persone nate in Italia da genitori stranieri”). Ma ha a che fare anche con un altro fatto, relativo allo stesso arco di tempo: e cioè che circa 320.000 persone regolarmente residenti in Italia hanno preferito andarsene, chi nei Paesi d’origine e chi, indipendentemente da accordi di distribuzione dei migranti, in altri Paesi europei. Proteggiamo gli stranieri, concedendo loro asilo? “Il cosiddetto ‘Decreto sicurezza’ (poi convertito in legge il 1° dicembre 2018) - dice ancora il dossier - ha di fatto abolito la protezione umanitaria, introducendo al suo posto una nuova ‘protezione speciale’“, ponendo vincoli ristrettivi e precisi”. Dunque, le autorizzazioni per la protezione internazionale hanno subito un calo netto medio del 28% negli anni 2015- 2017 e una assai frequente tendenza a negare la protezione internazionale: “se prima l’Italia concedeva una protezione (tra asilo, protezione sussidiaria e umanitaria) a circa 4 richiedenti asilo su 10 (il 42% nel 2017), il tasso di protezione è sceso a circa 2 richiedenti asilo su 10 (il 21% nel 2019)”. Tuttavia, per tentare di riequilibrare la situazione “che in due anni ha lasciato nell’irregolarità in Italia più di 40.000 stranieri”, un anno fa il Governo Conte II° ha adottato il “Decreto immigrazione” (convertito in legge il 18 dicembre 2020) attraverso il quale, sebbene non reintroduca il permesso di soggiorno per motivi umanitari, “è di fatto tornato ad allargare le maglie della protezione”. Il processo di integrazione. I dati più recenti a disposizione ci dicono che i cosiddetti “migranti economici” - vale a dire le persone non europee entrate nel Continente in modo regolare - nell’80% dei casi riescono a trovare lavoro entro 5 anni dal loro ingresso, sebbene il grado di occupazione risulta più alto nei primi 2 anni per poi tendere a calare un po’ nel prosieguo della permanenza. Discorso diverso - rivela il documento dell’ISPI - è per i rifugiati e coloro i quali viaggiano per ricongiungersi con la famiglia che riescono invece a trovare un lavoro solo nel 30% dei casi, entro i primi 5 anni dal loro arrivo. Esistono canali regolari d’ingresso? No, non esistono è la risposta in estrema sintesi. Sebbene sia difficile - come sottolinea il dossier - “dare una definizione di ‘sufficienti’“. E’ comunque evidente che i canali regolari verso l’Unione europea, nel corso dell’ultimo decennio, non si sono per niente allargati, ma “fortemente ristretti”. L’Italia, ad esempio regola l’ingresso nei propri confini per i cittadini extra comunitari “attraverso i cosiddetti decreti flussi annuali, che stabiliscono quote d’ingresso”. Escludendo quindi le quote “riservate ai lavoratori stagionali, che ogni anno possono fare il proprio ingresso in Italia per poi tornare nel proprio paese d’origine (di solito dopo circa 6 mesi), i flussi di ingresso di maggiore permanenza sul territorio nazionale si sono notevolmente ridotti”. Un dato esemplificativo: le quote annue dal 2011 ad oggi sono scese dell’85%. Stati Uniti. La soluzione alla “politicizzazione” dei giudici è stata di eleggerli di Riccardo Fratini Il Domani, 27 novembre 2021 Per quanto si possa ritenere criticabile la scelta sostanziale, non si può che ammettere la profonda democraticità di questo procedimento, che obbliga l’élite giuridica di un Paese a tenere conto del sentimento che alberga nei cuori della maggioranza, mentre, senza controllo, una minoranza potrebbe imporre, a colpi di sentenze, ciò che il popolo non ha avuto il tempo di maturare come pensiero diffuso. I fatti degli ultimi anni hanno molto cambiato la percezione italiana sul ruolo del ramo giudiziario sulla vita del paese. Se dopo Tangentopoli e le mafie era diffusa la convinzione che la classe dei giudici potesse essere la garanzia della legalità, oggi questa immagine luminosa della categoria si è molto adombrata. Naturalmente le massimizzazioni sono sempre erronee, ma è evidente che la magistratura, e tutto il mondo legale di cui essa è il fulcro, vive una forte crisi reputazionale. Un problema che deriva in parte dalla sensazione di “politicizzazione” che investe il mondo giudiziario. Molti si sono fatti - a ragione o a torto - questa idea che l’autogoverno dei magistrati produca frutti non sempre eccellenti, se non altro perché, come diceva anche Montesquieu in tempi non sospetti, “anche la virtù ha bisogno di limiti”. L’esperienza degli Stati Uniti - Una questione del tutto analoga si era posta negli Stati Uniti già alla metà del secolo XIX, quando la rapida espansione aveva generato una molteplicità di “nuove” costituzioni statali che ricalcavano il sistema di nomina già vigente nella Costituzione federale americana: i giudici venivano nominati dal Governatore, così come quelli delle Corti federali dal Presidente. Nel panorama locale (che al tempo era davvero ristretto in un’America poco abitata), tuttavia, le dinamiche della politica locale finivano per influenzare troppo profondamente le nomine e questo si traduceva in una connivenza profonda tra una parte politica (quella che nominava o confermava) e il giudice che sedeva sulla sbarra. La stagione delle riforme del 1848, quando l’Europa iniziava a dotarsi di costituzioni nazionali, significava per gli Stati Uniti l’inizio di questa riflessione. Una conclusione possibile era il passaggio ad un sistema concorsuale di nomina tecnica simile a quello di stampo francese (e al nostro), che avrebbe annullato ogni influenza politica sul braccio giudiziario e con essa, secondo le discussioni del tempo, anche ogni controllo democratico sui giudici. La soluzione di mezzo veniva ideata e fortemente sostenuta dal Presidente Andrew Jackson, secondo cui “i Giudici non dovrebbero essere indipendenti dal popolo e non dovrebbero restare in carica più di sette anni. il popolo rieleggerà sempre i giudici capaci”. Moltissimi lettori si trovano quantomai in disaccordo con questa affermazione quando vi incappano, ma per giudicarla bene occorre chiedersi se il concetto di “capace” che declinava Jackson coincida con quello che oggi noi giudichiamo un giudice “capace”. Basti dire che le preoccupazioni non mancavano anche negli Stati Uniti oltre un secolo fa e che certi deputati della Convenzione di New York, primo Stato ad adottare il sistema, ritenevano che il sistema elettivo avrebbe condotto i Giudici a “conformarsi ai capricci popolari, ai pregiudizi, o alle momentanee passioni del pubblico”. Nonostante queste perplessità, tra il 1846 e il 1853 venti Stati della Federazione adottarono il sistema elettivo: i giudici erano legittimati direttamente dalle nuove Costituzioni statali, ma da esse venivano anche le regole che ne stabilivano i limiti di mandato, di solito di sette anni, e le modalità di elezione, di solito stabilite nell’elezione diretta a due candidati contrapposti in quel sistema sostanzialmente bipartito. Era il nuovo modello di controlli e contrappesi, che limitava tutte le parti del governo e quindi anche il braccio giudiziario. Il piano per il merito o “missouri plan” - Come tutti i sistemi umani, anche quello dell’elezione diretta della magistratura portava con sé una serie di problemi. Nel corso degli anni ‘30 del XX secolo, il pubblico americano stava diventando sempre più insofferente verso i partiti e, di conseguenza, verso il ruolo che questi avevano nella selezione dei giudici nel modello originario. I partiti potevano direzionare i voti della propria maggioranza su un candidato, anche quando non si trattava di una esplicita votazione partitica. Questo influenzava non solo la selezione delle persone dei giudici, ma anche le loro singole decisioni, che venivano sempre “controllate”, in ultima analisi, dal sistema dei partiti. In ultimo, problema non minore, i giudici dovevano spendere così tanto tempo a fare le campagne elettorali l’uno contro l’altro da lasciarne ben poco al lavoro, con conseguente congestionamento del casellario che si riempiva di cause mai decise. Così, nel novembre del 1940, si provava a correggere questi problemi, ma senza modificare la possibilità di controllo del popolo sui giudici: l’obiettivo era rendere le elezioni meno politicizzate e più attinenti al gradimento del popolo per il lavoro del Giudice. Era una legge di iniziativa popolare ad emendare la Costituzione del Missouri, con l’adozione del Nonpartisan Selection of Judges Court Plan, piano per la selezione non partitica dei giudici, che passò poi alla storia con il nome di Missouri Plan. Da quel momento il piano fu adottato in oltre trenta degli Stati americani ed è diventato il modello più diffuso dell’elezione giudiziale. Il senso più profondo del piano è la selezione dei giudici sulla base del merito professionale, senza sottrazione di sovranità popolare sull’organo. Di conseguenza, ai fini della selezione dei nuovi giudici, in un primo momento, una commissione non politica, di solito composta a sua volta di giudici, valuta i candidati, fa i colloqui e seleziona un gruppo di tre candidati eleggibili per solo criterio di merito. Tra questi tre, a questo punto, quando la professionalità dei candidati è garantita, la scelta tra i tre è rimessa al Governatore di uno Stato o comunque ad un rappresentante dell’esecutivo. A questo punto, il fortunato che è stato selezionato dal Governatore diventa giudice e il lettore comincerà a chiedersi dove sia l’elezione. L’elezione arriva dopo certo tempo, quando il giudice ha potuto lavorare e dare prova di sé alla sbarra, senza spendere soldi e tempo nella campagna elettorale. Dopo un certo periodo, però, le scelte fatte alla sbarra diventano abbastanza per valutare il lavoro svolto. Solo a quel punto si va all’elezione ed il giudice può essere votato per proseguire il lavoro oppure lasciarlo. Le differenze - Le differenze sono molte: innanzi tutto il giudice non corre contro un avversario, ma solo contro la sua storia di decisioni. Decisioni che al Popolo potrebbero apparire contrarie al proprio sentimento oppure anche solo irragionevoli. Comunque, non essendoci un avversario, non si crea quella polarizzazione che è propria delle elezioni dirette. In secondo luogo, anche qualora il giudice fosse votato per non restare al suo posto, l’elettorato vedrebbe sempre garantita la competenza del suo successore attraverso il meccanismo di selezione della scelta per merito. Questo tipo di elezione viene comunemente definita retention election, che letteralmente significa elezione di “trattenimento” dell’ufficio, e che, per evitare questo orrore di cacofonia, chiameremo, nel seguito, solo “conferma”. Essa rendeva enormemente più attenuata la rilevanza dei partiti nel sistema elettivo, che invece tornava ad essere in auge solo quando il giudice per primo si carica di decisioni ad alto valore politico. Il 3 aprile del 2009, un gruppo di tre giudici della Corte Suprema dell’Iowa appoggiavano l’opinione della Corte Distrettuale di garantire a sei coppie dello stesso sesso di poter accedere al matrimonio omosessuale, che era già presente in molti altri Stati americani. L’Iowa è, però, uno stato singolare in cui, nonostante non sia vigente alcuna discriminazione nei confronti delle persone con quell’orientamento sessuale, l’elettorato era, almeno a quel tempo, scarsamente avvezzo a concepire un matrimonio del genere. La decisione, peraltro, era estremamente discrezionale, dato che i Giudici avevano tratto il principio dall’interpretazione della clausola di uguaglianza davanti alla legge contenuta nella Costituzione dello Stato, che nulla diceva esplicitamente sul tema. L’anno successivo, due dei tre giudici che avevano preso la decisione vennero sottoposti al vaglio delle urne secondo il sistema del Missouri Plan ed il sentimento conservatore dell’elettorato prevalse, rimuovendoli dall’ufficio. Era la prima volta nella storia dello Stato dell’Iowa che un giudice perdeva un’elezione. Per quanto si possa ritenere criticabile la scelta sostanziale, non si può che ammettere la profonda democraticità di questo procedimento, che obbliga l’élite giuridica di un Paese a tenere conto del sentimento che alberga nei cuori della maggioranza del popolo, mentre, senza controllo, una minoranza che si ritenga più “illuminata” del Popolo a cui appartiene potrebbe cadere nel tranello di imporre, a colpi di sentenze, ciò che il popolo non ha avuto il tempo di maturare come pensiero diffuso. Libia: un Gheddafi e 98 candidati, elezioni a rischio di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 27 novembre 2021 Saif al Islam si è presentato. Sulla carta, così come chiesto dall’Onu, la Libia andrà alle urne il 24 dicembre, ma la tensione tra i concorrenti è altissima e il rinvio più di una ipotesi. Torna un Gheddafi al centro dell’imbroglio libico. Per molti aspetti le controversie che accompagnano la candidatura di Saif al Islam alle elezioni presidenziali ben rispecchiano le enormi difficoltà sul percorso del voto. Sulla carta, così come chiesto dall’Onu, la Libia andrà alle urne il 24 dicembre. La speranza del rappresentante Onu, il neo-dimissionario Jan Kubis, era si effettuassero nello stesso giorno due scrutini: uno per scegliere i 200 parlamentari e l’altro per designare il presidente. Tuttavia, dopo lunghe schermaglie, si è optato per il primo turno delle presidenziali subito (con 98 candidati, di cui 5 predominanti, sarà impossibile un vincente subito con più della metà dei suffragi) e dopo 52 giorni le parlamentari assieme al ballottaggio delle presidenziali. Ad oggi, tuttavia, è guerra aperta tra i candidati presidenti. Con una mossa annunciata da tempo, il 49enne Saif, noto come il figlio più politico di Muammar Gheddafi, ha presentato la sua documentazione all’ufficio elettorale. Con lui stanno i fedelissimi del Colonnello linciato alle porte di Sirte dieci anni fa, assieme a tanti disillusi dal caos in cui è piombato il Paese e i nostalgici di un nuovo uomo forte. Ma subito la Commissione elettorale centrale di Tripoli, controllata dalle forze legate al fronte islamico, l’ha bocciato, mentre le milizie di Misurata ne chiedono l’arresto immediato. Come se non bastasse, una squadraccia legata all’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, ha impedito con la forza ai rappresentanti di Saif di fare ricorso. La cosa non è strana: Haftar, la cui candidatura è stata invece accettata ma ora viene rifiutata dalle milizie di Misurata, vede nel rampollo di Gheddafi un concorrente che “pesca” nel suo stesso elettorato. Mosca, che una volta sosteneva Haftar, oggi sta con Saif e chiede il rinvio del voto. Il premier uscente Abdul Hamid Dbeibah preme invece per essere confermato. La via resta in salita e il rinvio possibile.