“Chiusi dentro” di Massimo Razzi La Stampa, 26 novembre 2021 “Chiusi dentro” è un viaggio nel sistema carcerario italiano. Questo podcast parte dal pensiero di Voltaire secondo il quale “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Dopo oltre un anno di lavoro, una quarantina di interviste e i gravi fatti accaduti (come le rivolte di marzo 2020 e la tragedia di Santa Maria Capua Vetere) possiamo dire di aver capito qualcosa. Proviamo a riassumere. 1) Le leggi e le pene - Come spesso accade, la Costituzione (art. 27) e le norme sull’ordinamento penitenziario (legge 354 del 1975 e successive modifiche, la legge Gozzini del 1986 e i vari regolamenti) descrivono un Paese avanzato e consapevole. La recente decisione della Consulta sull’ergastolo ostativo ne è una prova. In sintesi, le pene non possono consistere solo nella prigione e devono servire al reinserimento delle persone nella società; in carcere, non possono e non devono esserci afflizioni ulteriori rispetto alla privazione della libertà; la certezza della pena è definita dal codice penale (tot anni per ciascun reato, ma non necessariamente tutti in carcere) ma da lì in poi il comportamento del detenuto, il suo lavoro su se stesso e l’osservazione delle equipe trattamentali, devono servire a ottenere degli sconti che lo riavvicinino alla libertà. Come ci ha detto Cosima Buccoliero, già direttrice del carcere “modello” di Bollate: “Se un detenuto esce di prigione nel giorno esatto del suo ‘fine pena’, per noi è un fallimento”. Quindi, la normalità dovrebbe essere che si esce di prigione prima del “fine pena” perché la pena si può scontare anche altrove, ovviamente in base ai premi e agli sconti ottenuti grazie alla propria buona condotta e alla volontà di diventare persone migliori. 2) Vendetta sociale? - Ma fuori non tutti la pensano così. Davanti ai reati gravi, ma anche davanti al “fastidio” che ci causano la diversità e il disordine, vorremmo che chi li causa fosse chiuso lontano da noi. La società, insomma, alla prova dei fatti, tende ad avere un atteggiamento “vendicativo” nei confronti di chi ha sbagliato che si traduce nel “buttare via la chiave” che molti, tranquillamente, utilizzano nei loro commenti social. Insomma, il carcerato è “chiuso dentro”, ma anche i nostri cuori e le nostre menti sono “chiusi dentro” nei suoi confronti. Ne consegue un problema che la politica, negli ultimi decenni, non ha saputo (o voluto) risolvere: le norme (spesso approvate su onde emotive dovute a qualche grave fatto di cronaca) hanno teso ad aggravare le pene, col risultato che molti finiscono in prigione per reati molto piccoli, le carceri si riempono e, quando esplodono, la soluzione è quasi sempre stata amnistia o indulto. La normativa sulle sostanze stupefacenti, ad esempio, ha fatto sì che oltre il 30 per cento dei circa 55 mila detenuti sia dentro per reati legati alla droga (di cui neanche un terzo per questioni gravi) e che oltre il 15 per cento delle persone carcerate siano tossicodipendenti. Nello stesso tempo, per fortuna, è aumentato l’utilizzo delle misure alternative (affido, messa alla prova ecc.) che sembrano funzionare. Ma è chiaro che una legislazione diversa sul tema delle droghe risolverebbe quasi tutti i problemi più seri del nostro sistema carcerario che, invece, sembra sempre essere sul punto di esplodere. 3) Discarica sociale - Tutti quelli con cui abbiamo parlato ci hanno spiegato che la “composizione” sociale del mondo del carcere è profondamente cambiata. Oggi chi finisce in prigione proviene (nella grande maggioranza dei casi) dalle aree più degradate e marginali delle nostre città o è extracomunitario e proviene da paesi poveri. E la vita dentro ne risente. I criminali di un tempo, paradossalmente, erano più “adatti” al carcere: sapevano di doversi adeguare, rispettare le regole e cercare di uscire il prima possibile grazie a un buon comportamento. I carcerati di oggi sono più poveri, privi di cultura e hanno spesso un concetto “asociale” di sé. Per questo sono molto poco adatti alla vita in prigione. Sono malati e, spesso, dipendenti da droghe. Diversi di loro non hanno un domicilio fuori ed è difficile mandarli agli arresti domiciliari anche quando un magistrato di sorveglianza si rende conto che sarebbe meglio. Insomma, a molti il carcere non serve e per la collettività sarebbe molto più utile trovare misure alternative, aiutarli e curarli. Il carcere di oggi, dunque, è ormai una “discarica sociale” che serve solo ad allontanare dal corpo della società chi non riesce a stare al passo e a rassicurarci nella nostra paura di chi è diverso. Oltre le mura dei nostri istituti di pena, però, il tasso di suicidi è altissimo: nel 2020, 61 detenuti si sono tolti la vita: uno ogni 863 reclusi. Nella società “libera” i suicidi sono uno ogni 17 mila cittadini: dieci volte di meno. E questo senza contare i tentati suicidi in prigione che (tra veri e falsi) sono migliaia. 4) Le strutture - La maggior parte dei circa duecento istituti di pena italiani è inadatta a un trattamento penale moderno. Molti sono inseriti in antichi edifici (fortezze, castelli), mentre quelli più nuovi risalgono agli anni del terrorismo e dello scontro con la mafia e rispondono alle esigenze di massima sicurezza più che a quelle del recupero dei detenuti. Per lo più si trovano ai margini delle città. Dentro, spesso, l’affollamento è ancora insopportabile anche se la sentenza Torreggiani (Corte europea di Strasburgo, gennaio 2013) ha cambiato le cose. Prima, in una cella di 20 metri quadrati vivevano anche 8/9 detenuti. Adesso, la regola dice che ogni detenuto ha diritto ad almeno 4 metri quadrati di spazio. Al di sotto c’è il “trattamento inumano” e lo Stato deve risarcire quantomeno sotto forma di sconti di pena. Ancora adesso, in molti casi, il “trattamento inumano” è evitato per pochi centimetri. Ma è l’idea stessa di permanenza in carcere che è cambiata: una volta, un detenuto stava in cella anche venti ore al giorno. Oggi, tra attività esterne, studio, sport e “aria”, dovrebbe starci solo per dormire. Infatti la cella si chiama “camera di pernottamento”. E dal 2014 c’è la “sorveglianza dinamica”: i detenuti devono poter passare la giornata negli spazi comuni e muoversi liberamente senza “scorta”. Ci sono carceri come Bollate dove il detenuto è sempre libero di andare e venire e gli agenti si limitano a controllare a distanza, ma ce ne sono ancora altri dove la “sorveglianza dinamica” funziona solo per gruppi di celle o in sezione e per ogni altro spostamento ci vuole un agente che accompagna. Perché tanta differenza tra carcere e carcere? Perché il “sistema Bollate” stenta a diffondersi? Ce lo siamo chiesti e lo abbiamo chiesto un po’ a tutti i nostri interlocutori. Le risposte variano: per organizzare un carcere moderno ci vuole la volontà di farlo, personale disponibile e dirigenti disposti a prendersi responsabilità e serve anche che la comunità civile intorno al carcere sia presente, intervenga, porti idee, smuova le cose, imponga il cambiamento. Non sempre questi fattori sono tutti presenti. E si torna alle antiche abitudini. 5) Scuola, lavoro, cultura - E comunque, rispetto a vent’anni fa, la gestione della pena è molto cambiata. L’amministrazione carceraria si sforza di puntare su forme “trattamentali” che aiutino il detenuto nel suo percorso riabilitativo. La scuola è ormai una presenza importante in ogni istituto di pena e molti detenuti riescono a frequentarla con successo anche a livello universitario. Il lavoro funziona e funzionerebbe anche meglio se ce ne fosse a sufficienza per i detenuti. Oggi meno di ventimila detenuti su 53 mila sono occupati. La maggior parte delle occasioni lavorative (circa 15 mila) sono quelle che arrivano direttamente dall’amministrazione penitenziaria (cucina, manutenzione, biblioteca ecc.). Ma non bastano e ancora troppo poche (qualche migliaia) sono le occasioni di lavoro che arrivano dall’esterno. Perché non è facile organizzarle, perché le strutture sono inadatte, perché gli incentivi alle aziende non sono sufficienti. E, da fuori, non sempre la società civile aiuta: ci sono esempi meravigliosi di volontariato, ci sono gruppi teatrali e musicali, giornali e trasmissioni radiofoniche che nascono da un fantastico “mix” di interno ed esterno, ma la situazione oggettiva è che l’amministrazione carceraria riesce a offrire occasioni di lavoro solo a poco più di un terzo dei detenuti. Il che ha conseguenze anche sul “dopo”. L’italiano medio ritiene che i detenuti facciano una vita più che decente a nostro carico e, spesso, si arrabbia per questo. In realtà, ciascun carcerato deve rimborsare allo Stato circa 110 euro al mese per il suo “mantenimento”. Questa cifra viene trattenuta dallo stipendio di quelli che lavorano. Per gli altri, si accumula e, quando un detenuto torna in libertà, spesso deve allo Stato alcune migliaia di euro che gli verranno trattenute dall’eventuale stipendio che percepirà se troverà un lavoro. Anche per questo, molti ex detenuti preferiscono essere pagati in nero quando hanno un’occupazione. 6) Le rivolte - In questo quadro, l’8 marzo del 2020, in piena pandemia da Covid, sono esplose le peggiori rivolte della recente storia del sistema penitenziario italiano. Hanno riguardato una trentina di istituti (circa il 15%) e hanno avuto un bilancio tragico: 13 detenuti morti, decine di feriti anche tra gli agenti di polizia penitenziaria, danni per milioni. Nessuno se le aspettava, ma riflettendo, è possibile arrivare a delle spiegazioni. Tutto ha origine nella cattiva comunicazione del blocco delle visite in funzione anti-Covid. Dove (come a Bollate o anche a Rebibbia) la comunicazione è chiara e coinvolgente, non accade nulla o quasi nulla. In altre situazioni, è il disastro. Delle tredici vittime, per otto è quasi accertata la causa di overdose ma ci si chiede come mai in carcere, basta entrare in infermeria e rompere un armadietto per procurarsi quantità enormi di sostanze stupefacenti. Alle rivolte, come è quasi prassi, si risponde con la violenza. Nessuno nega che in certe situazioni (e nell’immediato) una dose di violenza sia inevitabile o, forse, anche necessaria. Ma qui accadono cose inspiegabili e inaudite. Diversi detenuti sono morti durante o subito dopo il trasferimento dopo che le rivolte erano state domate. Alcuni sono deceduti addirittura qualche giorno dopo. Per tutti questi casi, il Garante delle persone private della libertà si oppone all’archiviazione e chiede ulteriori accertamenti. C’è da verificare se alcuni sono stati picchiati durante le perquisizioni delle celle (se fossero state fatte subito e bene, avrebbero forse evitato anche le morti per overdose) e c’è da chiedersi come mai i sanitari intervenuti abbiano dato il nulla osta al trasferimento di persone che sono arrivate a destinazione praticamente moribonde. Al Dap ci hanno detto che, in effetti, nella concitazione del momento i nulla osta ai trasferimenti sono stati dati a voce e che, solo il giorno dopo, sono stati compilati dei referti. Insomma, il sistema penitenziario (o, almeno, una parte di esso) non ha retto alla tensione dovuta alla pandemia, ha dimostrato limiti nella comunicazione, gravi disattenzioni e mano inutilmente pesante nella repressione immediata e tendenze pericolosamente vendicative nei giorni successivi. 7) Santa Maria Capua Vetere - Ma il peggio doveva ancora venire perché un mese dopo, il 5 aprile, nel carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere, di fronte a una blanda protesta sempre legata al Covid, è scattata (sotto forma di perquisizione nella sezione “Nilo”) una durissima repressione fatta di violentissimi pestaggi e umiliazioni di ogni genere. I diritti umani più elementari sono stati sospesi per alcune ore mentre un centinaio di agenti si dedicavano alla “riconquista del territorio” con livelli di violenza mai visti, con minacce di morte e urlando frasi purtroppo dense di significato: “Non ne uscirete vivi!!! Adesso lo Stato siamo noi!!!”. Ma quello che è più grave è che grave che sembra che tutto fosse stato avallato e addirittura organizzato dal Dap della Campania e dal Provveditore Antonio Fullone che, qualche settimana prima aveva organizzato una “squadra” di agenti presi da diversi istituti proprio per organizzare imprese come questa. Ed è persino più grave il fatto che nelle ore precedenti e immediatamente successive al pestaggio, il comandante degli agenti, Gaetano Manganelli abbia risposto alle domande del magistrato di sorveglianza Marco Puglia dicendo che si era trattato di una normale perquisizione post protesta e che erano state trovate “droga e armi bianche”. Ma Puglia non se n’è stato e, spinto anche dalle diverse segnalazioni che arrivavano da parenti dei detenuti, si è recato immediatamente in carcere raccogliendo dai detenuti della sezione “Nilo” importanti testimonianze sui fatti e immagini dei segni delle percosse. Poi, il magistrato ha fatto la cosa più importante mandando i carabinieri a sequestrare le riprese delle telecamere di sorveglianza dei reparti prima che venissero cancellate. Quelle immagini hanno mostrato il macello di Santa Maria Capua Vetere, sono finite su tutti i siti di informazione e hanno costruito solidissime basi per l’ordinanza che ha mandato a giudizio oltre cento persone con 52 “misure cautelari”. Quanto la decisione di Puglia sia stata importante in questa vicenda lo dimostrano i fatti del carcere di Melfi del 9 marzo 2020 dove (come racconta l’avvocata Simona Filippi di Antigone) la mancanza di immagini ha praticamente affossato l’indagine che riguardava fatti non molto dissimili da quelli di Santa Maria Capua Vetere. La vicenda del “Francesco Uccella” ha sconvolto l’intero sistema e ha portato tutti a riflettere su come certe cose siano potute accadere. Dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia a Mauro Palma molti hanno parlato di un problema prima di tutto “culturale” e di formazione del corpo degli agenti penitenziari. Evidentemente, nonostante leggi e regolamenti degni di un Paese civile, il sistema penitenziario (almeno in alcune delle sue parti) è ancora permeato da quella logica della pena come “vendetta sociale” che porta facilmente agli eccessi di Santa Maria Capua Vetere. Ma, se era purtroppo evidente (anche da altri segnali) che il problema esisteva nel corpo degli agenti penitenziari, più difficile era immaginare che un Provveditorato importante come quello campano avrebbe potuto avvallare e addirittura organizzare un disastro di queste proporzioni. Il nostro viaggio nel sistema penitenziario italiano, finisce temporalmente con Santa Maria Capua Vetere. E non è una bella conclusione. Ma lungo la strada abbiamo incontrato, comunque, un mondo in movimento, con tante persone di buona volontà che hanno capito e cercano di mettere in pratica il senso dell’art 27 della Costituzione. Abbiamo sentito un ex ergastolano come Carmelo Musumeci spiegarci che l’unico modo di far nascere il pentimento nel cuore di una persona, è trattarla bene: “Se mi tratti male, io mi sento vittima del sistema e finisco per pensare di aver avuto ragione a fare il criminale. Se mi abbracci io comincio a sentirmi in colpa per i crimini che ho commesso”. È un carcere possibile quello che “abbraccia” i detenuti? Per quello che abbiamo capito, sì. E, in giro per il Paese, ci sono esempi (come a Bollate) che si avvicinano al concetto. Ma per un carcere così occorre che anche fuori, nella società, molte cose cambino, che le comunità “abbraccino” le loro carceri e che qualcosa si apra dentro ciascuno di noi. Link al podcast: https://www.lastampa.it/audio/serie/2021/11/25/playlist/chiusi_dentro-682236/ Droghe, carcere e misure alternative: un dramma di Stefano Anastasia Il Manifesto, 26 novembre 2021 VI Conferenza nazionale sulle droghe. Gli effetti della Jervolino-Vassalli del 1990. I tossicodipendenti affidati in prova al 15 dicembre 2020 erano solo 3.404; 18.320 invece gli ordinari. La Conferenza nazionale che si apre domani a Genova poteva essere un’occasione straordinaria per riaprire la partita sulle politiche sulle droghe e tutto ciò che esse comportano. Va comunque a merito di questo Governo e della Ministra Dadone averla rimessa in agenda. Le associazioni e gli operatori che non hanno mai mollato la presa in questi anni di dimenticanze e di oblio sono in attesa di segnali e di risposte, a partire dalla questione carceraria, sintomatica di un modo di intendere le droghe e le pene. Tutto è cambiato con la legge Jervolino-Vassalli che, nel lontano 1990, ha portato in Italia la dottrina reaganiana della war on drugs. Da allora la popolazione carceraria è in aumento costante e l’attuale legge sulla droga ne è il principale motore. Proprio quella legge fu il primo esempio italiano di quello che poi abbiamo imparato a chiamare populismo penale: “Un uso congiunturale del diritto penale tanto duramente repressivo e antigarantista, quanto inefficace rispetto alle dichiarate finalità di prevenzione”, ma diretto piuttosto “a ottenere demagogicamente il consenso popolare”, come ha scritto Luigi Ferrajoli. Ogni discorso pubblico intorno alla riforma della giustizia penale e del carcere che non faccia i conti con la legge sulla droga è un mero flatus vocis, magari suadente, ma inefficace. Ancora l’ultimo Libro bianco prodotto da La Società della Ragione e dalle associazioni che si riuniscono nella giornata autoconvocata di oggi a Genova testimonia di questa centralità degli effetti delle politiche sulle droghe nel funzionamento della giustizia e del carcere. Quasi 190 mila persone sottoposte a procedimento penale per detenzione di sostanze stupefacenti nel 2020, il primo anno del Covid, in cui tutte le statistiche giudiziarie penali hanno subito un drastico calo. Processi efficientissimi, che portano a condannare 7 imputati su 10, mentre per reati contro la persona e il patrimonio il rapporto crolla a 1 su 10. Il 30,8% degli ingressi in carcere sono causati da quello stesso unico articolo di legge. Si può credibilmente parlare di alternative al carcere, se carcere e giustizia sono soffocati da una legge finalizzata al controllo e al disciplinamento dei consumatori di sostanze stupefacenti, come quei 30-40mila che ogni anno vengono segnalati al prefetto per l’uso di droghe e rischiano di iniziare un calvario che, anche quando non arriva al carcere, gli impedisce una vita normale nel succedersi di sanzioni amministrative inabilitanti? Né la politica del bastone e della carota enfatizzato dalla legge Fini-Giovanardi del 2006 ha prodotto i suoi risultati sul piano delle alternative al carcere: nonostante il termine più alto per l’accesso all’affidamento in prova terapeutico per tossicodipendenti, i beneficiari al 15 dicembre 2020 erano solo 3404, a fronte dei 18.320 affidati ordinari, mentre il lavoro di pubblica utilità per violazione della legge sulla droga coinvolgeva 700 persone in tutta Italia, e invece per la violazione del codice della strada riguardava più di 8000 persone. E naturalmente, i pochi tossicodipendenti affidati in quanto tali arrivano da un primo assaggio di carcere; al contrario, la gran parte degli affidati ordinari vi arrivano direttamente dalla libertà. Con questi indirizzi, di fatto o di diritto, il carcere poi continua a essere il lazzaretto che è, dove ancora - contro ogni pratica e indicazione terapeutica consolidata - si prosegue diffusamente nella pratica di indurre l’astinenza forzata, magari compensata da eccessi di psicofarmaci. A questi nodi rispondono sia la proposta di legge Magi ancora pendente alla Camera dei deputati che il prossimo referendum sulla cannabis. La Conferenza e il Governo sapranno fare altrettanto? Bambini in carcere: la proposta di legge per “liberarli” è ferma in Parlamento di Ilaria Sesana altreconomia.it, 26 novembre 2021 La proposta di legge che prevede il finanziamento delle case-famiglia protette si è bloccata a otto mesi dall’avvio dell’iter. Al 31 ottobre 2021 nelle carceri italiane erano detenute 19 madri con 22 figli al seguito. L’allarme dell’associazione Cittadinanzattiva. Superare i “profili problematici” della legge 62/2011, la norma che dieci anni fa ha istituito gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) per “impedire che bambini varchino la soglia del carcere”. Sono gli obiettivi della proposta di legge 2298 presentata a dicembre 2019 alla Commissione giustizia della Camera dei deputati (primo firmatario il deputato Pd, Paolo Siani) e che aveva iniziato l’esame della proposta a marzo 2021. A otto mesi di distanza dall’avvio dell’iter, la proposta di legge si è però arenata. La denuncia arriva da Cittadinanzattiva che, insieme all’associazione A Roma insieme-Leda Colombini, chiede di “liberare” i bambini costretti a trascorrere i primi anni di vita nelle sezioni nido delle carceri italiane o in uno dei quattro Istituti a custodia attenuata, offrendo alle mamme detenute in gravidanze e con figli piccoli la possibilità di scontare la pena all’interno di case-famiglia protette. “Inizialmente sembrava che ci fosse una larga convergenza, almeno da parte delle forze politiche di maggioranza, sulla proposta di legge. E questo faceva ben sperare per una rapida approvazione in Commissione giustizia, senza dover passare dal Parlamento. Poi purtroppo tutto si è fermato”, spiega Laura Liberto, coordinatrice nazionale Giustizia per i diritti di Cittadinanzattiva. Il timore delle associazioni è che ora il dibattito attorno a questo tema specifico possa essere ulteriormente rimandato da altre questioni: “In questo momento tutte le energie di deputati e senatori sono concentrate sull’approvazione della legge di Bilancio. E nei prossimi mesi l’attenzione ruoterà attorno al dibattito sull’elezione del presidente della Repubblica -continua Liberto. Il nostro timore è che se passerà altro tempo diventerà ancora più difficile recuperare questa proposta di legge”. In base agli ultimi dati forniti dal ministero della Giustizia, al 31 ottobre 2021 nelle carceri italiane erano detenute 19 madri con 22 figli al seguito. Di questi la maggior parte (14) si trovava all’interno di uno dei quattro Icam (Milano San Vittore, Torino, Giudecca Venezia e Lauro): “Un fenomeno che può apparire dalle dimensioni contenute, ma che invece rappresenta una condizione drammatica e inaccettabile per i diritti dell’infanzia”, sottolinea Liberto. “Durante la mia visita alla sezione nido del carcere di Rebibbia del 20 novembre ho incontrato una mamma alla 33ma settimana di gravidanza con un bambino di 18 mesi, una donna alla 37ma settimana e ancora una detenuta con il suo bambino di appena sei mesi. Il carcere non è certamente il luogo più adatto per far partorire una donna e non è il luogo adatto per dei bambini”, aggiunge Paolo Siani. Nella sua proposta, il deputato Pd propone una revisione della legge 62/2011 “senza modificare l’impianto della legge e perseguendo lo spirito di quella riforma” dia al sistema giudiziario i mezzi normativi ed economici per evitare l’ingresso dei bambini in carcere. Offrendo alternative concrete alla detenzione delle detenute madri. La legge 62/2011 aveva segnato un importante passo avanti nella tutela dei diritti dei bambini e delle detenute madri, aprendo la strada agli Istituti a custodia attenuata: luoghi consentono a mamme e bambini la possibilità di vivere all’interno di ambienti più adatti alle loro esigenze. A differenza di quanto avviene nelle sezioni nido delle carceri, infatti, negli Icam viene garantito il diritto alla privacy a mamme e bambini, le sbarre alle finestre vengono camuffate da tende e vasi di fiori e le agenti di polizia penitenziaria non indossano la divisa. Garantendo così ai più piccoli la possibilità di vivere in un ambiente un po’ più simile a un’abitazione e un po’ meno gravoso rispetto al carcere. Parallelamente la legge 62/2011 ha istituito anche le case-famiglia protette senza però prevedere per queste ultime “alcun onere per lo Stato”. Risultato: solo due strutture sono state aperte negli ultimi dieci anni. La proposta di legge Siani prevede l’obbligo per lo Stato a finanziare le case-famiglia protette per detenute madri, oltre all’obbligo per il ministero delle Giustizia di stipulare convenzioni con gli enti locali per individuare le strutture idonee ad accogliere le mamme detenute con i loro bambini. Il testo della proposta di legge prevede anche alcune modifiche al codice di procedura penale finalizzate a rendere la custodia cautelare delle detenute madri all’interno degli Icam solo nel caso in cui sussistano “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”. In pratica, se la proposta venisse approvata, per una donna con figli piccoli non si dovrebbero mai aprire le porte del carcere: le case-famiglia protette diventerebbero la soluzione ordinaria e il ricorso all’Icam dovrebbe essere l’estrema ratio. Proprio per finanziare l’apertura di nuove case -famiglia protette, e creare un numero di posti sufficienti ad accogliere quelle mamme e quei bambini che ancora si trovavano in carcere era stato approvato a dicembre 2020 un emendamento alla legge di Bilancio che prevedeva la creazione di un fondo ad hoc con una dotazione di 1,5 milioni di euro all’anno per il triennio 2021-2024. “Purtroppo ci sono stati gravi ritardi - sottolinea Laura Liberto. Era prevista la pubblicazione di un decreto attuativo che a un paio di mesi di distanza dall’approvazione della legge ripartisse l’importo tra le regioni. Che però è stato pubblicato solo a metà settembre”. A chi serve il mito della mafia invincibile? di Alberto Cisterna Il Dubbio, 26 novembre 2021 La lotta alla mafia è una cosa seria e immiserendola con l’allarmismo e la propaganda non si rende onore e servigio a quanti hanno sempre ritenuto che fosse un nemico da poter sconfiggere; descrivendola come invincibile, in fondo, ci si iscrive al partito dei conniventi, ossia di quanti la vogliono in esistenza per motivi che troppo hanno a che fare con le proprie fortune. Esiste oggi un’emergenza mafia? La risposta tra quanti conoscono a fondo la reale condizione delle organizzazioni malavitose del paese è tutt’altro che scontata. Diradato il fumo della propaganda, messi da parte gli interessi carrieristici ed economici di quanti hanno fatto della “lotta alla mafia” un mestiere senza il quale non saprebbero come sbarcare il lunario, andare in tv, rilasciare interviste, percepire sovvenzioni pubbliche e prebende varie; messo da parte tutto questo, a dire il vero ci sarebbe da discutere a lungo del tema. Non è controversa la buona fede di coloro i quali - pochini sia chiaro - sono davvero convinti che le piovre abbiano conquistato il paese e che, come nel Benito Cereno di Melville, i poteri legali siano solo il simulacro, l’ombra ingannevole di un centro occulto che muove pedine e burattini e conduce da sempre la nave Italia per rotte illegali. Molti di costoro non possono dimostrare le proprie tesi se non per suggestioni, accostamenti, giustapposizioni e tante supposizioni in cui manca, spesso, ogni prova di un legame certo o anche solo probabile tra i fatti. Decine di libri, di reportage, di dichiarazioni supportano questo credo cui occorre portare rispetto, mi pare evidente. Ci si muove nell’ambito appunto di un credo che - tornando all’illuminante articolo di Aldo Varano di un paio di giorni or sono - tiene insieme, in un fatidico 1969, un summit in Aspromonte dell’Onorata società, il golpe Borghese e, visto che ci siamo, anche lo sbarco sulla luna che, già da solo, costituisce uno dei luoghi privilegiati in cui si esercitano le teorie complottiste. A chi potrebbe replicare, infastidito o irritato, che lo sbarco sulla luna non c’entra nulla con la ndrangheta e con il colpo di stato ideato del 1969, si potrebbe comodamente rispondere che non sarebbe del tutto impossibile trovare qualche accattone di pentito disponibile a dichiarare che la Cia abbia simulato il primo passo di Neil Armstrong sulle sabbie lunari per consentire alle coppole calabresi e ai generali di valersi della possente copertura americana, potenza capace di conquistare lo spazio. Provocazioni, certo, solo provocazioni. Ma senza prove lo sono anche tutte le altre tesi, compresa quella di un mondo governato dalla Spectre mafiosa italiana. I fatti dicono altro. Sequestri e confische antimafia portano a galla marginalità finanziarie e patrimoniali rispetto all’immaginifico mondo dorato descritto da alcuni centri studi e trasferito in report che confezionano stime plurimiliardarie delle ricchezze mafiose tratte da fonti imprecisate, approssimative, suggestive, mai verificate o verificabili. Due dati: basterebbe leggere l’elenco dei beni gestiti dall’Agenzia nazionale per rendersi conto di come non esista alcuna corrispondenza tra quelle stime allarmistiche e ciò che la pur brillante e incessante attività investigativa porta in evidenza ogni anno; secondariamente occorrerebbe banalmente chiarire perché decine di mafiosi, camorristi e ndranghetisti si siano affannati per percepire il reddito di cittadinanza se - suddividendo le stime astronomiche per il numero presunto degli affiliati - ciascun malavitoso dovrebbe avere a disposizione alcuni milioni di euro di profitti illeciti e ogni anno, si badi bene. Da ultimo l’allerta antimafia segnala il tentativo di aggredire il sistema delle misure antimafia e di mettere mano all’ergastolo ostativo, sostenendo che così verrebbero meno due pilastri insostituibili dell’azione di contrasto alla piovra. Bene, chi scrive condivide l’idea che la prevenzione antimafia abbia una propria ragione d’esistere e che, gestita con prudenza e capacità, sia un connotato indefettibile dell’azione di contenimento alle cosche. È proprio chi sposa la tesi dei miliardi di euro occultati ogni anno e mai scoperti, chi sostiene che l’economia mondiale sia inquinata in profondità dai patrimoni mafiosi, chi denuncia che le cripto-valute siano il campo libero del riciclaggio dei clan, chi lancia allarmi persino sui contatti tra ndrangheta e Isis che dovrebbe invocare a viva voce che un sistema del genere, così incapace di far fronte a questa asserita devastazione economica, sia messo da parte. Invece si lanciano allarmi contro il rischio di una dismissione o di una riduzione del sistema di prevenzione, non rendendosi conto - facendo finta di non rendersi conto - che coerenza pretenderebbe che non si difenda l’inefficienza e non si conservi lo status quo. Ma quello della coerenza è un altro discorso. In modo simmetrico, si dice che l’ergastolo ostativo - quello che non consente ai mafiosi di accedere ai benefici carcerari senza una collaborazione di giustizia - sia uno strumento indispensabile e irrinunciabile per la lotta alle mafie. Bisogna intendersi. La Corte costituzionale ha detto altro, ma passi; toccherà (forse) al legislatore mettere mano alla questione. Se si intende dire che occorre far morire i mafiosi in carcere, la tesi ha, come dire, una propria ragionevolezza punitiva. Se ergastolo è che ergastolo sia. Peccato che la Costituzione dica altro e che dozzine di sentenze della Consulta ricordino che l’ergastolo è compatibile con la funzione rieducativa della pena alla sola condizione che preveda un’emenda in corso di esecuzione e, quindi, un’attenuazione. C’è, però, chi abbraccia la tesi di una mera funzione distributiva della pena e, quindi, repressiva. Secondo questa traiettoria, insomma, che muoiano in carcere; punto e basta. Il pendolo del diritto è molto chiaro e corre in direzione opposta, ma ogni opinione è lecita. Se solo si avesse il coraggio di esprimerla in questi termini. Ma, si sa, non è politicamente corretto spingersi in avanti con chiarezza su questo punto e allora si aggira il problema dicendo che, con l’abolizione dell’ergastolo ostativo, si prosciugherebbe il fiume delle collaborazioni di giustizia, strumento parimenti prezioso dell’arsenale antimafia. Anche questa volta, però, i fatti dicono altro. Messa da parte la collaborazione di Gaspare Spatuzza, iniziata da oltre un decennio, il fiume è un rigagnolo, se non un acquitrino, e nessun rilevante pentimento di mafia si è avuto da moltissimo tempo a questa parte. I boss non cedono, non intendono collaborare e le aule di giustizia sono affollate di seconde e terze linee che o non hanno nulla di particolarmente rilevante da dichiarare oppure si inseriscono a mano libera nelle varie main stream più o meno complottiste (golpe, raduni, logge, miliardi e via seguitando) per accreditarsi presso qualche inquirente compiacente o sprovveduto. Insomma la lotta alla mafia è una cosa seria e immiserendola con l’allarmismo e la propaganda non si rende onore e servigio a quanti hanno sempre ritenuto che fosse un nemico da poter sconfiggere; descrivendola come invincibile, in fondo, ci si iscrive al partito dei conniventi, ossia di quanti la vogliono in esistenza per motivi che troppo hanno a che fare con le proprie fortune. Musolino: “Contro la mafia rispettando i diritti: è questa la strada” di Angela Stella Il Riformista, 26 novembre 2021 “Basta con la logica emergenziale nella lotta alla criminalità organizzata” dice il magistrato, sostituto procuratore a Reggio Calabria. Il testo sull’ergastolo ostativo? “Deludente”. Il dottor Stefano Musolino è sostituto procuratore della Repubblica a Reggio Calabria e da luglio è Segretario di Magistratura Democratica. In questa lunga intervista ci dice, tra l’altro, che il metodo targato Caselli di combattere la criminalità organizzata è ormai “finito, è antistorico. La mafia è un fenomeno cronicizzato che deve essere affrontato con una legislazione che tenga insieme le ragioni della sicurezza sociale, insieme ai diritti dei soggetti coinvolti nei processi”. Si sta discutendo molto di ergastolo ostativo. Qual è il suo parere in merito al testo base? Credo che sia un testo poco rispettoso del principio di legalità a causa di una eccessiva fumosità che espone qualsiasi argomentazione del magistrato di sorveglianza a reclami e ricorsi ed impone al detenuto dimostrazioni diaboliche. Vi sono poi aumenti draconiani della pena per accedere ai permessi e alle misure alternative in violazione del principio di progressività trattamentale: non saranno rari i casi che consentiranno di accedere ai permessi solo poco prima del fine pena. Insomma, lo ritengo un esito deludente che lascia soltanto sullo sfondo il quesito decisivo: il detenuto si è liberato della sua appartenenza alla cosca? Non sono stati indicati con chiarezza i criteri ed i metodi per sperimentare nel tempo gli effetti rieducativi della pena e verificare, così, l’autenticità dell’abbandono degli schemi e modelli comportamentali, nonché delle relazioni che erano a base delle scelte criminali pregresse. Non ritiene che sia sbagliata la narrazione di chi sostiene che appoggiare la linea della Consulta significhi vanificare la lotta alla mafia? Continuare a ragionare in termini emergenziali di lotta alla criminalità organizzata è ormai antistorico. La mafia è un fenomeno cronicizzato che deve essere affrontato con una legislazione che tenga insieme le ragioni della sicurezza sociale, insieme ai diritti dei soggetti coinvolti nei processi. Questo è il nuovo equilibrio invocato dalla Corte Costituzionale che è anche una sfida culturale. La risposta del legislatore non è stata adeguata a questa sfida, rimanendo asservita ad una logica eminentemente repressiva della lotta alle mafie. Il dottor Gian Carlo Caselli invece è di parere completamente opposto, come ha evidenziato nella sua audizione... Il dottor Caselli ha grandi meriti ed ha ottenuto brillanti risultati nella lotta alla mafia. Ma quel tempo è finito. E io dico per fortuna, perché significa che lo Stato, nonostante tutto, ha lavorato bene. Ciò non significa affatto che abbiamo risolto il problema, anzi occorre prendere atto del fatto che esso si è cronicizzato: ma proprio per questo, affrontarlo ancora con una normativa repressiva di corto respiro non rappresenta più, a mio parere, una strategia adeguata. Rimanendo in tema di carcere, c’è una commissione ministeriale al lavoro. Ma non sarebbe stato meglio prevedere degli interventi immediati per, ad esempio, diminuire la popolazione? Il garante Palma ha rilevato che “oggi sono detenute in carcere per scontare una pena inferiore a un anno ben 1211 persone, altre 5967 per una pena da uno a tre anni”. Il carcere forse non ha più bisogno di commissioni ma di atti concreti. Sì, condivido molto questa prospettiva. Credo che sia arrivato il momento di affrontare seriamente il problema delle pene brevi che troppo spesso sono trascorse in carcere non per reali esigenze di prevenzione della recidiva ma per la carenza di risorse basiche, quali un tetto sotto il quale trascorrere l’esistenza. Il progetto della Commissione Lattanzi, che apriva alle pene alternative, sembra essersi ristretto con la legge delega. Tuttavia, anch’esso sarebbe incappato negli stessi problemi di carenza di risorse. C’è una evidente necessità che gli strumenti di welfare si estendano anche a questi ambiti, per non abbandonare dentro il carcere la marginalità sociale. Non può essere tutto appaltato al terzo settore. Sul tavolo della giustizia c’è il tema della riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Non se ne sente più parlare. C’è il pericolo che si faccia in fretta e male? Mi pare che non vi sia una progressione del dibattito. La riforma del sistema elettorale del Csm è fondamentale, si dovrà votare a luglio e ancora non sappiamo quale sia l’orientamento del Governo. Il timore è che la soluzione prescelta sarà più attenta a tenere insieme le varie anime che compongono questo Governo, piuttosto che a trovare uno strumento che aiuti a superare le attuali criticità. Ci auguriamo che qualsiasi riforma elettorale venga adottata, garantisca la rappresentanza delle plurali sensibilità che percorrono la magistratura. Questo è il primo antidoto contro le degenerazioni del passato. Per Md quali sono le direttrici pratiche che occorre sicuramente seguire per superare la crisi di credibilità della magistratura? Sono preoccupato soprattutto per la parte più giovane magistratura: intimidita da una formazione in cui è molto enfatizzato il “pericolo” del disciplinare, frustrata dai recenti scandali, costretta a convivere con le continue accuse di politicizzazione dell’azione giudiziaria. Si creano, così, le condizioni per cedere alla tentazione di una chiusura corporativa. E invece la magistratura può recuperare credibilità soltanto se riesce ad essere dialogante, aperta, trasparente. C’è, poi, una prospettiva culturale da recuperare che è quella della magistratura orizzontale (art. 107 Cost.). Dobbiamo rompere lo schema dominante per cui ci sarebbe una magistratura di serie A ed una di serie B; la prima che insegue ruoli ed incarichi di prestigio, la seconda affannata dal dovere di rendere una risposta efficiente e dignitosa alle domande di giustizia, nonostante i carichi di lavoro e le inefficienze strutturali. Servire la giustizia e i cittadini deve tornare ad essere, insieme, obiettivo e parametro di valutazione del magistrato, a prescindere dall’incarico ricoperto. Unione Camere Penali, Partito Democratico, Azione chiedono che venga introdotto il parametro delle smentite processuali nelle valutazioni di professionalità. Giusto o sbagliato? Questo parametro esiste già ed è previsto dal capo quarto della circolare sulle valutazioni di professionalità (“possesso delle tecniche di argomentazione e di indagine, anche in relazione all’esito degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento”, ndr). Certo, il capo dell’ufficio non sempre offre informazioni adeguate sul punto, ma è raro che sfugga una situazione patologica. Mentre è fisiologico un confronto tra orientamenti. E non è insolito che, all’esito, l’interpretazione proposta dal magistrato, smentito in grado di appello, possa rivelarsi quella privilegiata nel cd. diritto vivente. Insomma, enfatizzare ulteriormente il dato delle smentite non offre elementi idonei ad una migliore valutazione del magistrato, ma potrebbe avere effetti intimidenti che inaridiscono il confronto giurisprudenziale. Piuttosto, sarebbe più utile concentrarsi sui metodi per ampliare le fonti di conoscenza del lavoro del magistrato, senza pregiudizio per la sua indipendenza. L’onorevole Costa ha presentato una interrogazione parlamentare per rendere pubbliche le statistiche del sistema giustizia. Sarebbe favorevole? Sì, la giustizia deve essere una casa di vetro. Qualunque strumento che migliori la trasparenza della magistratura e della giurisdizione rafforza la nostra legittimazione democratica. Peraltro, sono convinto che ampliare la trasparenza statistica potrebbe sfatare alcuni pregiudizi sui rapporti tra PM e Giudici. Senza voler entrare nel merito del caso Renzi, è tornato comunque all’attenzione del dibattito il problema dell’inserimento nel fascicolo di indagine di elementi non rilevanti. Lei ritiene che ciò rappresenti una criticità? Credo che sia molto difficile in sede di indagini preliminari stabilire cosa sia rilevante oppure no; per definizione, in questa fase, l’imputazione è fluida ed è impossibile fissare rigidamente un giudizio di rilevanza. Mentre è ampia la nozione di interesse pubblico che giustifica la pubblicazione di una notizia così appresa dalla stampa (per come insegna una consolidata giurisprudenza di legittimità) anche per fatti non strettamente attinenti al tema di prova. Cosa ne pensa della vicenda Storari-Davigo? Ci sono almeno due profili generali da considerare. Uno è quello relativo all’isolamento ed alla sfiducia istituzionale in cui può trovarsi un magistrato. Quanto è accaduto ci insegna che un magistrato solo e sfiduciato è più debole e indifeso; e può, quindi, commettere degli errori, perché gli manca un confronto personale ed un conforto istituzionale che lo aiuti a sostenere al meglio le responsabilità a cui è chiamato. L’altro aspetto interessante è capire se vi siano dei limiti - e quali - all’orientamento dell’azione di un ufficio di Procura, da parte del suo dirigente. Credo che Francesco Greco sia stato nominato Procuratore di Milano soprattutto per le sue straordinarie qualità professionali in materia di reati economici. È quindi evidente che l’organizzazione dell’ufficio che ha approntato abbia destinato a questo settore molte risorse a discapito di altri, creando malumori tra i sostituti, ma anche conseguendo brillanti risultati. Ci si deve interrogare su come gestire, in modo equilibrato, queste differenti esigenze, dando a tutti i magistrati dell’Ufficio la percezione di concorrere ad un obiettivo generale condiviso. E su Davigo? Ho poco da dire su questo. La sua condotta si è sviluppata nell’ambito di una sua personale percezione di quelli che erano i poteri e le prerogative del consigliere del Csm, che certamente non rispettavano l’ortodossia. Non credo che vi siano questioni generali da valorizzare. Pisapia: “Con Davigo è saltata la separazione imputato-indagato” di Carmelo Caruso Il Foglio, 26 novembre 2021 “La giustizia si riforma ora o mai più”. Racconta che c’è un principio giuridico, il segreto d’ufficio, che in Italia viene “quotidianamente violato” e che ce ne accorgiamo solo adesso perché a violarlo sarebbe stato addirittura un ex magistrato, uno come Piercamillo Davigo. E non è peggio? “Direi che è inaspettato. Tanto più che colpisce un protagonista di una stagione in cui è saltata la distinzione tra imputato e indagato”. E Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano e oggi europarlamentare indipendente del Pd, dice che ne soffre e che ne dovremmo soffrire tutti come prima di lui ne soffriva il padre Gian Domenico. Sono infatti loro, i Pisapia, l’ultima “famiglia Beccaria”, gli eredi del lume e del caffè. Spiega dunque che il “segreto” (d’ufficio e d’indagine) è il santuario della giustizia, anzi, “lo strumento, il luogo e il tempo in cui non si accertano le responsabilità ma il passaggio in cui si capisce se ci sono ragioni valide per chiedere un pubblico dibattimento”. E invece? “E invece è accaduto di leggere intercettazioni dove la realtà non è più separata dalla frase sparata grossa. Ormai l’ipotesi non verificata dai giudici diventa una presunzione di colpevolezza. Serve a creare il clima, la gogna mediatica, “dagli, dagli”. In alcuni casi sono state prese intercettazioni del passato e solo per sporcare carriere nuove. Ci si può difendere? “Ovviamente no. La menzogna è facile da diffondere. La verità impossibile da far conoscere. Eppure il codice è chiaro. Intercettazioni sono consentite solo se assolutamente necessarie e indispensabili e per reati particolarmente gravi”. Due giorni fa, Sergio Mattarella, che sta per lasciare il Quirinale, ha speso le sue ultime parole per chiedere alla magistratura di ritrovare il “rigore”, di evitare “i protagonismi”. Ma non è stato forse sempre così? Ricorda Pisapia che prima di Mani pulite, quando frequentava le aule di giustizia, da avvocato, non gli capitava mai di incontrare i giornalisti dietro la porta di un pm. Cosa facevano? “Gareggiavano tra di loro ma per seguire dibattimenti. Voglio dire che i protagonisti non erano i pm ma i giudici. La fase d’indagine si scambia purtroppo con la fase finale del processo”. Recita allora, e per intero, l’articolo 329 del codice di procedura penale, che è l’articolo del segreto d’ufficio, un’altra garanzia. È quell’articolo in cui si precisa che gli atti di indagine “sono coperti dal segreto d’indagine fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza”. Anche Davigo, da indagato, ha provato questa strana sensazione. E allora Pisapia, che è quanto di più lontano anche esteticamente dall’inquisitore, spiega “che dovrebbe farci riflettere tanto più che ormai questa violazione colpisce tutti indistintamente”. E si limita a dire che certo è curioso. Perché? “Fu proprio Mani pulite, che ritengo un’occasione di rinnovamento persa, a far saltare il principio del segreto d’ufficio, questo principio che è civiltà”. Mattarella ha ricordato pure che la riforma del Csm non è più rinviabile. E Pisapia concorda: “Abbiamo parlato di violazioni. Ebbene, la magistratura non può dire ‘deve intervenire la politica’. Io dico deve intervenire il Csm. Non ci sono sanzioni. Da questa crisi se ne può e deve uscire solo con un Csm credibile e coraggioso”. Ieri, è finalmente stata approvata la riforma del processo civile. Non è qualcosa? “È molto. Ma la vera sfida rimane riformare il processo penale. E lo dico davvero pieno di speranza. Credetemi, è questa l’ultima occasione per riformare la giustizia per avere una giustizia equa e celere. Non ce ne sarà più un’altra. È l’ultima”. Cicchitto: “La legge Severino è la peggiore concessione della politica al giustizialismo…” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 26 novembre 2021 “La cosa giusta da fare sarebbe smantellare del tutto la legge. Solo un incosciente oggi può fare il sindaco, con questo apparato normativo”. “La rispondo da un telefonino che mi dicono venga usato dai narcotrafficanti colombiani, vista l’impossibilità di applicarvi un trojan, tant’è che tempo fa ho incontrato Luca Palamara e gli ho detto che se fosse stato un tipo retrò come me e avesse usato un telefonino come questo forse avrebbe evitato una parte dei guai e magari sarebbe diventato presidente dell’Anm”. Inizia così la nostra conversazione con Fabrizio Cicchitto, colonnello berlusconiano negli anni più duri del giustizialismo e ora presidente di Riformismo e Libertà. È d’accordo con la proposta del Pd di modifica della legge Severino a tutela dei sindaci ed evitando la loro sospensione dopo una condanna in primo grado? Con me si sfonda una porta aperta, perché sono radicalmente contrario alla legge Severino in quanto tale. A suo tempo in Forza Italia, durante il governo Monti, fui messo in minoranza dai giuristi professionisti di Berlusconi, perché ritenevo un vulnus in sé il fatto di venir meno ai tre gradi di giudizio, quale che sia il reato. Tra le varie cose che la politica, dagli anni ‘90 ormai ridotta in condizioni pessime, ha concesso al giustizialismo in questo Paese questa è la peggiore. Anche se il colpo finale è arrivato con l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. I dem puntano a un bilanciamento fra trasparenza della Pa e garanzie per i primi cittadini. Il referendum di Lega e Radicali invece abolisce del tutto la Severino. Si troverà un punto d’incontro? La proposta del Pd è il minimo che si può fare. La cosa giusta da fare sarebbe smantellare del tutto la legge. Solo un incosciente oggi può fare il sindaco, con questo apparato normativo. Con l’abuso d’ufficio chiunque può portare dei guai al sindaco. È un provvedimento fatto apposta per punire chi non ha fatto assolutamente nulla: insomma la rappresentazione di un proverbio romano che dice “come ti muovi ti fulmino”. Come si è arrivati a un tale grado di esasperazione da parte dei sindaci, come espresso nell’ultima assemblea dell’Anci dal presidente Decaro? Ci sono stati tanti casi di condannati poi scopertisi innocenti, anche con grande clamore mediatico. Siamo stati dominati dalle più varie forme di giustizialismo. Prima c’è stato quello maior del 92-94, poi da lì è arrivato quello applicato su Berlusconi, infine quello portato avanti dai Cinque Stelle. Arriviamo insomma da trent’anni di mentalità giustizialista che ora dobbiamo provare a ribaltare. In che modo? Credo profondamente nel nostro sistema, che prevede tre gradi di giudizio. Altrimenti arriviamo alla presunzione di colpevolezza che tanti acclamano. Chi dice che abolendo la Severino si rischia di far rimanere impuniti alcuni reati è a favore della presunzione di colpevolezza. Qualcuno, come Davigo, pensa addirittura che qualcuno con la fedina penale pulita sia solo un furbo che l’ha fatta franca. Nella logica intrinseca della Severino c’è la presunzione di colpevolezza e siccome io reputo che anche per i reati più gravi debba valere la presunzione di innocenza, credo che vada abolita. A livello normativo, ritiene ci sia stato un momento in cui le cose per i sindaci siano peggiorate? La fisiologia delle autonomie in questo paese dovrebbe essere rivolto a Comuni e Province, mentre la riforma del titolo V ha creato il mostro del presidente di Regione. I sindaci sono le entità più fragili di questo mondo. Il miglior sindaco dei Cinque Stelle, Chiara Appendino, è stata punita per una manifestazione legata a una partita di calcio sicuramente gestita malissimo ma sulla quale lei aveva responsabilità relative. È stata colpita e affondata e il suo è solo uno dei tanti casi. I sindaci dovranno gestire gran parte dei fondi del Pnrr. In che modo l’attuale quadro normativo rischi di fermare la loro opera? La gestione dei fondi implica dei livelli di discrezionalità e non ci vuole niente a definire una discrezionalità un reato. L’Italia rischia di essere strangolata da quello che si riteneva essere un grande valore, cioè l’esplosione di giustizialismo. Fino ad arrivare a un sistematico attacco contro qualsiasi potere decisionale. I fondi del Pnrr hanno invece bisogno di uomini e donne che prendano decisioni e lo facciano in modo consapevole. Prima accennava al giustizialismo contro Berlusconi. Pensa che il Cavaliere possa arrivare al Quirinale? In una condizione normale no, ma siccome siamo in una condizione del tutto anormale, nel senso che quasi tutte le forze politiche sono caratterizzate da andamenti stravaganti, è possibile anche una cosa di questo tipo. Via libera al ddl civile, Cartabia: “Ora subito i decreti attuativi” di Simona Musco Il Dubbio, 26 novembre 2021 Le critiche dei civilisti: “I processi non sono generi alimentari, da smaltire quando diventano troppo vecchi, sono la vita e la storia di esseri umani. I diritti sono il fondamento del patto sociale che garantisce la pace”. La riforma del processo civile incassa l’ok definitivo alla Camera, con 364 voti favorevoli, 32 contrari e sette astenuti. Si tratta dell’intervento più importante nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza: l’Europa ha infatti più volte ribadito che la riduzione dei tempi del contenzioso civile rappresenta non solo una priorità nell’ambito della giustizia, per la quale è previsto un impegno di spesa pari a 2,3 miliardi di euro, ma anche per l’erogazione dei fondi dell’intero piano. Lo scopo finale è, dunque, quello di ridurre i tempi dei processi del 40%. “Desidero ringraziare il Parlamento per l’alto senso di responsabilità dimostrato anche in quest’ultima occasione - ha commentato la ministra della Giustizia Marta Cartabia -. Per il capitolo Giustizia, ora tutte le riforme vincolanti per il Pnrr sono state approvate, nell’interesse del Paese. Come già avvenuto per la riforma del processo penale, anche per quella civile il ministero si metterà subito all’opera per una pronta attuazione della legge delega”. Il governo ha ora 12 mesi di tempo per preparare i decreti legislativi di attuazione della delega. L’ok alla riforma del civile arriva dopo il voto definitivo a quella penale, che ha incassato il via libera del Senato lo scorso 23 settembre. Le tensioni, in quel caso, sono state ben più accentuate, dati i diversi punti di vista sulle norme che riguardano l’improcedibilità. Per completare il quadro, ora, manca all’appello la riforma del Csm, la cui urgenza è stata ribadita mercoledì dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Una riforma “non più rinviabile”, ha affermato, anche tenendo conto “dell’appuntamento ineludibile del prossimo rinnovo del Consiglio”. Secondo la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, “i tempi dei processi civili in Italia torneranno in media europea, il nostro Paese tornerà ad essere un ambiente attrattivo per imprese ed investimenti”. Un punto di visto che non trova d’accordo, invece, l’Unione delle Camere civili. “La riforma della giustizia civile - ha sottolineato il presidente Antonio de Notaristefani - non ha convinto nessuno: si sono espressi contro, in ordine sparso e tra i tanti, il Cnf, la Associazione tra gli studiosi del processo civile, le Camere civili, l’Anm, e il Csm ha definito “ben più sensata” la proposta elaborata dalla Commissione Luiso rispetto a questa tardiva riesumazione del non compianto processo societario. Forse per questo, un governo che può contare su di una maggioranza senza precedenti ha dovuto far ricorso al voto di fiducia per farla passare: tra l’autorevolezza che convince, e l’autoritarismo che costringe, si è scelto quest’ultimo”. L’errore sarebbe quello di intendere i tribunali come “aziende”, i cui risultati si misurano in termini di efficienza: “I processi non sono generi alimentari, da smaltire quando diventano troppo vecchi - ha evidenziato - sono la vita e la storia di esseri umani. I diritti e le tutele non sono un freno agli investimenti esteri: sono il fondamento del patto sociale che garantisce la pace”. Critica anche l’Associazione nazionale forense: “È mancato forse il coraggio di voler attaccare i veri nodi irrisolti, a partire da quello del personale, delle strutture e dell’impegno a coniugare rapidità e digitalizzazione mediante l’introduzione delle risorse economiche necessarie”, ha sottolineato il Segretario generale Giampaolo Di Marco. L’unica riforma a convincere l’avvocatura istituzionale è quella che ha istituito il Tribunale della Famiglia. Ma sul punto il Pd preferisce schierarsi con i magistrati minorili, intimoriti, nelle scorse settimane, dalla presunta perdita della collegialità. Tant’è che il deputato Paolo Lattanzio, capogruppo in Commissione Infanzia e adolescenza, ha presentato un ordine del giorno sul punto. “Una delle caratteristiche dell’attuale sistema della giustizia minorile consiste nella partecipazione al procedimento di esperti (ad esempio psicologi e pedagoghi), con l’obiettivo di tenere conto della specifica condizione del minore come persona in via di sviluppo - ha evidenziato -. La bozza in discussione disegna invece un ipotetico vantaggio dato da una maggiore celerità di un procedimento affidato ad un giudice monocratico ma non vale, a nostro avviso, alla rinuncia all’approccio multidisciplinare a tutela del minore stesso”. Soddisfazione è stata espressa, invece, dagli Avvocati giuslavoristi, che nonostante le criticità evidenziano “due importanti interventi: l’estensione della negoziazione assistita sul lavoro alle avvocate e agli avvocati e il superamento del rito Fornero”. Per la presidente Tatiana Biagioni, “la negoziazione stragiudiziale delle controversie di lavoro è strategica non solo in chiave deflattiva, ma proprio nel comune interesse delle parti di conseguire certezze in tempi brevi”. Riforma del Csm, le toghe: “Mattarella ha ragione, si agisca. Senza umiliarci” di Valentina Stella Il Dubbio, 26 novembre 2021 Dalle “difese corporative” ai carichi di lavoro: i gruppi dell’Anm sui nodi del ddl che cambierà la magistratura. Come hanno reagito le correnti della magistratura ai richiami del Presidente Sergio Mattarella? Il Capo dello Stato ha recapitato un doppio pro memoria: innanzitutto, il dibattito sul sistema elettorale del Csm deve concludersi con una riforma “che sappia sradicare accordi e prassi elusive di norme che, poste a tutela della competizione elettorale, sono state talvolta utilizzate per aggirare le finalità della legge” ; inoltre, ha rammentato, il Csm “è chiamato ad assicurare le migliori soluzioni per il funzionamento dell’organizzazione giudiziaria, senza mai cedere ad una sterile difesa corporativa”. Vediamo. Giuseppe Marra, consigliere Csm di “Autonomia e Indipendenza”, ci dice: “Condivido il pensiero del Presidente. È stato infatti tradito lo spirito elettorale della riforma del 2002, che aveva come obiettivo quello di consentire al singolo magistrato di presentarsi alle elezioni, pur non appartenendo ad una corrente: si è tradotto nel risultato opposto, con un rafforzamento del potere delle correnti. Il sistema di voto peggiore è proprio quello maggioritario con collegio unico nazionale. Nessuno, fatta eccezione ad esempio per Di Matteo, è talmente conosciuto a livello nazionale da non aver bisogno del supporto di un gruppo. A me quello che preme è che la riforma elettorale assicuri una quota di proporzionalità e che i collegi siano quanto più possibile territoriali”. Riguardo alla “sterile difesa corporativa”, per Marra il Presidente si stava riferendo “a quelle parti della riforma dell’ordinamento giudiziario che riguardano da un lato i criteri per le nomine dei direttivi e semi-direttivi e dall’altro le valutazioni di professionalità dei magistrati, che sono positive per il 98% dei casi, e che molti chiedono di modificare. In realtà le valutazioni vengono svolte in maniera rigorosa. L’aspetto più importante è scegliere le persone più capaci e svincolate da legami correntizi, che applichino criteri oggettivi nella scelta dei vertici degli uffici. Certo la discrezionalità del Consiglio rimarrà sempre ma deve essere scollegata da logiche di appartenenza”. Diversa la prospettiva di Eugenio Albamonte, segretario di “AreaDg”: “Individuo due temi nelle dichiarazioni del Presidente Mattarella: il primo è relativo al fatto che le pratiche del Consiglio non siano influenzate dalle dinamiche distorsive delle correnti. L’altro è quello di un Csm che non assuma una posizione di retroguardia, legata ad un atteggiamento di resistenza corporativa rispetto a riforme della giustizia che si muovano in favore di una maggior efficienza e credibilità in linea con le aspettative della società. Condivido entrambi i moniti del Presidente: mi fa molto piacere che abbia sottolineato l’importanza della riforma del Csm e del suo sistema elettorale. Noi, come gruppo, diciamo da sempre che una delle cause delle dinamiche di alterazione e stravolgimento della funzione consiliare sia legata sicuramente al rafforzamento del ruolo delle correnti e di potentati personali all’interno del Consiglio. Quindi ribadisco: è impensabile che si vada a votare con l’attuale sistema elettorale o con altri sistemi ricostruiti sulla base di questo. Le parole del Presidente sono un monito anche per la ministra Cartabia e per il Governo a mettere in campo velocemente una riforma del sistema elettorale del Csm”. Sulla possibilità che Mattarella facesse riferimento a una chiusura rispetto ad altri aspetti della riforma dell’ordinamento, Albamonte conclude: “Da parte nostra non c’è stata mai una chiusura rispetto alle altre riforme del Consiglio. La riforma elettorale è la prima cosa da fare ma non è l’unica. Senza entrare nel merito di una disamina puntuale, ritengo che nella prima proposta di riforma Bonafede e adesso in quella della Commissione Luciani ci siano molti spunti positivi che migliorano sia l’efficienza del Consiglio che la sua trasparenza. L’impianto generale in cui si muovono entrambe è molto condivisibile. Non ci sarebbe un atteggiamento di chiusura corporativa rispetto a questi cambiamenti. È ovvio però che neanche si può tacciare di corporativismo la singola considerazione di maggiore o minore apprezzamento. Non si può accettare tutto acriticamente”. Di sprone al legislatore parla anche Rossella Marro, presidente di Unicost: “Credo che il Presidente abbia voluto sollecitare la politica a intervenire per una riforma del sistema elettorale del Csm che metta un freno alle distorsioni verificatesi in passato. Su questo siamo d’accordo, ma auspichiamo che la riforma consenta di avere un Csm capace di rispecchiare le diverse sensibilità presenti in magistratura. Però su un aspetto bisogna essere chiari: nessun sistema elettorale può essere la panacea alle distorsioni che si sono verificate. Se si sono registrate criticità nella materia delle nomine dei direttivi e semi-direttivi, anche a causa della genericità dei criteri di nomina, si intervenga su questo, ma non si mortifichino le diverse sensibilità con un sistema che agevoli la creazione di due poli contrapposti. La demonizzazione dei gruppi associativi, il preteso ridimensionamento degli stessi nella competizione elettorale, può portare a rischi ancora più gravi, ossia alla creazione di cordate sotterranee, e politicamente irresponsabili rispetto agli elettori, a sostegno dei candidati”. Marro ci tiene a precisare che “l’esistenza dei gruppi all’interno della magistratura è ineliminabile, ma non c’è dubbio ovviamente che vada recuperato l’afflato culturale al loro interno. Tuttavia se siamo arrivati a questo punto, la responsabilità è anche della politica, che ha dato vita nel 2006 alla riforma dell’ordinamento giudiziario: quell’intervento ha indubbiamente insinuato il seme del carrierismo, modificando il dna dei magistrati. La riforma relativa agli Uffici di procura ha accentuato la loro verticalizzazione e l’interesse di certa politica per le nomine dei vertici della magistratura requirente. Ora bisognerebbe avere il coraggio di tornare indietro sui propri passi, ristabilendo una serie di principi che prima erano ben chiari, per cui, ad esempio, non esiste una magistratura superiore e una inferiore”. Infine Angelo Piraino, segretario di Magistratura Indipendente, ritiene invece che “il Presidente Mattarella abbia voluto invitarci a non imitare certi comportamenti della politica: all’interno del Csm le singole correnti hanno creato dei gruppi, un po’ come avviene all’interno del Parlamento. Credo quindi che Mattarella speri in un Consiglio superiore in cui non ci siano più condizionamenti esterni, che però vanno distinti da quelle che sono le sensibilità culturali, le quali non possono venir meno”. Quando poi Mattarella parla di “sterile difesa corporativa”, Piraino è d’accordo nel rilevare che “il corporativismo, come difesa delle prerogative del gruppo, è sintomo di chiusura. Da questo punto di vista è chiaro il ragionamento del Capo dello Stato, che chiede di guardare all’interesse della collettività. Però bisogna anche capire che quando alcuni gruppi rivendicano il fatto che i magistrati italiani non sono messi in condizioni lavorative adeguate, questa rivendicazione non è fatta nell’interesse del singolo ma della collettività. Un giudice che è messo in condizioni di lavoro sbagliate rischia di fare errori a scapito dei cittadini da lui giudicati. Oggi ci stanno chiedendo di alzare i nostri standard di produttività per rispondere alle esigenze del Pnrr. Noi faremo la nostra parte, ma qualcuno si preoccupa della qualità delle decisioni che andremo a prendere per smaltire processi e velocizzare i tempi, come ci viene richiesto? Difendere gli interessi della magistratura non significa sempre difendere una corporazione, ma un servizio alla collettività”. Pavia. Detenuto si toglie la vita in cella, è il secondo morto in un mese di Maria Fiore La Provincia Pavese, 26 novembre 2021 Allarme della Garante e degli avvocati penalisti: “C’è un malessere evidente”. Il recluso di 46 anni stava scontando una pena per violenze e maltrattamenti. Ancora un suicidio nel carcere di Torre del Gallo. Dopo l’episodio del 25 ottobre (era morto un detenuto di 36 anni), un altro recluso si è tolto la vita. Il nome è noto: Alessio Inguanta, 46 anni, era stato in passato presidente dell’associazione “Genitori negati” e poi era rimasto coinvolto in una indagine per violenze e maltrattamenti su due collaboratrici familiari e sulla convivente ed era stato arrestato. Torino. Chiude il reparto “Sestante”: era ora, ma ai detenuti servono cure di Alessio Scandurra* Il Riformista, 26 novembre 2021 La procura adesso indaga su maltrattamenti ai danni delle persone che fino a ieri mandava lì. Da anni però Antigone e il Garante nazionale denunciavano la vergogna del reparto di osservazione psichiatrica. Chiude finalmente il Sestante, il reparto di osservazione psichiatrica (il nome corretto è Articolazione per la salute mentale), del carcere Le Vallette di Torino. Chiude perché obsoleto, fatiscente, del tutto inadeguato per svolgere quelle attività di osservazione e cura a cui era destinato. Talmente inadeguato che la Procura di Torino, che fino a ieri mandava lì le persone, adesso ha aperto un’indagine per maltrattamenti a danno delle persone lì detenute. Il Sestante dunque chiude adesso, eppure questa situazione era nota da tempo. Antigone, a cui si deve l’ultima denuncia che ha riaperto il caso, pubblicata da Susanna Marietti subito dopo la nostra ultima visita, segnalava questa la situazione da anni. Denunciavamo le condizioni generali del reparto e quanto accaduto in casi individuali, come quello di M., un giovane che sarebbe stato detenuto per mesi al Sestante, un reparto dove si dovrebbe restare per un massimo di 30 giorni, e che sarebbe stato rinchiuso per giorni in una cella “liscia”, priva di tutto, in cui tra l’altro sarebbe stato lasciato senz’acqua e si sarebbe trovato nelle condizioni di bere dallo scarico del WC. Anche il Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà denunciava da tempo le condizioni del Sestante, ed in particolare della cella “liscia”, eppure solo adesso il reparto viene finalmente chiuso per essere ristrutturato e le persone che ci stavano vengono finalmente spostate altrove. Ma come è stato possibile tutto questo? Come è potuta una simile vergogna andare avanti per anni sotto gli occhi di tutti? Andiamo per ordine. Le articolazioni per la salute mentale, previste dal regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, sono i luoghi in cui si dovrebbe anzitutto accertare l’esistenza o meno di patologie psichiatriche. Un imputato o un detenuto potrebbero simulare la patologia per evitare la pena o accedere ad alternative alla detenzione, e a questo scopo erano stati istituiti questi reparti, che si chiamavano appunto di osservazione psichiatrica. Basta entrarci una volta per rendersi conto però che il problema in quei luoghi non è certo la simulazione. Si tratta infatti di spazi per lo più dedicati alla gestione della fase acuta della patologia psichiatrica, fase in cui il paziente è di più difficile gestione, a rischio di aggressività e autolesionismo. In questi luoghi le persone vengono contenute, compensate, e successivamente rimandate da dove vengono, perché la fase acuta è passata e non si avviano percorsi di cura, o indirizzate verso percorsi terapeutici che si svolgeranno altrove. In ogni caso dunque luoghi dove si dovrebbe sostare per un breve periodo, al massimo per 30 giorni, ma dove le persone spesso sono detenute assai più a lungo, in un contesto esclusivamente contenitivo, del tutto inadatto alla cura, ma dal quale senza cure non è facile uscire. E non sono pochi i reparti come il Sestante in Italia. Certo più piccoli, spesso in condizioni materiali migliori, ma tutti rischiano di svolgere la stessa funzione. Il luogo per contenere le forme più acute del disagio mentale. Non un luogo di cura, ma di alternativa alla cura. Perché, e questo è un punto fondamentale, in carcere la presenza del disagio psichico non ha paragoni rispetto al fuori. Secondo i nostri dati più recenti, relativi alle 85 visite che abbiamo fatto da settembre 2020 ad oggi, il 39,6% dei detenuti è in terapia psichiatrica. A fronte di questo dato esorbitante, sempre dalle nostre rilevazioni, risulta che in media, per ogni 100 detenuti, ci sono in tutto solo 8,1 ore di presenza settimanale degli psichiatri. Credo che questi numeri parlino da soli. Il disagio, e la domanda di cura, sono enormi, le risorse per la cura del tutto inadeguate e, in quella comunità “compressa” e difficile che è il carcere, questo si traduce subito in problemi di ordine e sicurezza. Problemi che reparti come il Sestante sono chiamati a risolvere. Perché, se il Sestante era l’alternativa alla cura, la cura è l’alternativa al Sestante. *Associazione Antigone San Gimignano (Si). In Tribunale detenuto conferma pestaggio e riconosce in aula gli agenti radiosienatv.it, 26 novembre 2021 In aula una nuova testimonianza. La difesa dei poliziotti contesta: “Certificati medici doppi e irregolari”. È proseguito oggi al tribunale di Siena il processo che vede protagonisti 5 agenti della Polizia Penitenziaria del carcere di Ranza a San Gimignano, accusati di lesioni, torture e falso ideologico in relazione al presunto pestaggio di un detenuto tunisino nell’ottobre del 2018, nel corso di un trasferimento di cella. Un’udienza fiume, iniziata di prima mattina con l’ascolto di una delle dottoresse del carcere in servizio in quel periodo, che visitò i detenuti l’indomani i fatti contestati. Sui successivi referti medici prodotti è nata la contestazione della difesa dei secondini, che ha documentato la presenza di certificati doppi con diversi orari e contenuti, reputati non validi. “La dottoressa - ha detto il legale di 4 dei 5 agenti, Manfredi Biotti - non li ha visitati, ma solo visti, e tre certificati dove si riporta di alcune lesioni risultano doppi”. Successivamente è stato esaminato e contro-esaminato un altro detenuto testimone oculare della presunta aggressione, da 18 anni recluso e in quell’ottobre in isolamento nella sezione di media sicurezza. L’uomo, accompagnato dalle guardie carcerarie di fronte al giudice, ha confermato di aver udito rumori di calci e pugni e di aver visto dalla cella il tunisino a terra urlare in modo straziante, e per questo ha chiesto a gran voce agli agenti di fermarsi. Per tutta risposta avrebbe ricevuto da uno di loro un pugno in fronte che gli ha provocato un trauma cranico. “Dopo avevo paura che venissero a prendere anche me, ebbi una crisi di nervi” ha riferito. Il detenuto non ha avuto difficoltà a riconoscere in aula alcuni degli agenti imputati presenti e coinvolti nei fatti oggetti del processo, sia visivamente che attraverso le immagini di alcuni frame dei video delle telecamere, messe a disposizione dal pubblico ministero Valentina Magnini. “Lui comandava le operazioni, l’altro mi disse che ero un infame, lui invece mi colpì” ha esclamato durante la ricognizione. Il processo riprenderà ad inizio dicembre. Roma. Escono dal carcere dopo 28 anni per recitare Dante di Flaminia Savelli Il Messaggero, 26 novembre 2021 Il progetto dell’università Roma Tre: i tre detenuti sono usciti ieri per la prima volta in 28 anni. Si sono esibiti nell’aula magna dell’Università degli studi di Roma Tre portando in scena la Divina Commedia di Dante Alighieri. Gli attori sono tre detenuti di Rebibbia, reclusi in regime di massima sicurezza, che ieri pomeriggio per la prima volta dopo 28 anni hanno avuto il permesso di lasciare il penitenziario per tre ore. Sono usciti sotto scorta con un’autorizzazione per lavoro all’esterno in occasione, appunto, dello spettacolo del regista Fabio Cavalli. “Portiamo l’inferno in paradiso” ha commentato il rettore Luca Pietromarchi annunciando l’incontro. Una prima assoluta. Ma non per gli interpreti già protagonisti di Cesare deve morire. La pluripremiata pellicola del 2012 di Paolo e Vittorio Tavani. Il film narra la messa in scena di un altro classico della letteratura, Giulio Cesare di William Shakespeare, dai carcerati di Rebibbia. Gli stessi che fanno parte della compagnia del Teatro Libero di Rebibbia e che ieri hanno prestato la loro voce al Conte Ugolino, a Ulisse e a Paolo e Francesca. Per la rappresentazione che si inserisce nel convegno internazionale Dante e le grandi questioni escatologiche, a cura della Pontificia commissione dantesca. “Un’esperienza significativa quella del teatro nel carcere - ha sottolineato il cardinale Gianfranco Ravasi- per questo abbiamo voluto una rappresentazione di un’opera fondamentale per la cultura universale”. I protagonisti - Filippo Rigano, Giovanni Colonia, Francesco De Masi - si sono alternati accompagnati al pianoforte dal maestro Franco Moretti portando in scena non una semplice lettura, ma una recitazione attraverso le traduzioni dialettali. Quindi le interpretazioni in dialetto napoletano, calabrese e siciliano “per rendere ancora più realistico il parallelismo tra condannati e dannati” ha spiegato il rettore Pietromarchi. “La realtà del carcere - ha aggiunto il rettore- è dolore, paura e rimorso. Ma è anche il senso di un percorso, un cammino di liberazione e oggi Dante vi ha portato fuori dal carcere”. I detenuti hanno aperto la scena con i versi del Purgatorio del cavaliere Manfredi: “Orribil furon li peccati miei, ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei”. Hanno poi via via narrato i canti dell’Inferno dantesco, spiegando: “La descrizione delle colpe nella cantica è minuziosa, come un codice penale. Esistono categorie e sotto categorie come in carcere. Nel sistema giudiziario dantesco saremo i dannati, i diavoli. Eppure oggi siamo qui davanti a voi. Quindi tanto dannati non siamo e il nostro carcere non è l’inferno, piuttosto è un purgatorio”. Per chiudere lo spettacolo, gli attori hanno rappresentato - in dialetto napoletano - il V canto dell’Inferno dove il poeta fiorentino confina i lussuriosi. Hanno perciò ripercorso recitando i versi più celebri della drammatica storia degli innamorati, Paolo e Francesca: “Anche noi in carcere siamo come Paolo e Francesca - hanno spiegato - perché in galera l’amore è proibito per legge. Quando incontriamo le nostre mogli in parlatorio un’ora a settimana e ci stringiamo le mani, in quel momento ognuno di noi è Paolo”. Al termine dello spettacolo, commossi e ancora emozionati, i detenuti sono stati scortati nel penitenziario. Massa Marittima (Gr). Raccolta di giocattoli per i bambini in visita ai loro papà in carcere ilgiunco.net, 26 novembre 2021 Dare una nuova vita ai propri giocattoli e regalare un sorriso a chi ne ha bisogno. È l’iniziativa “Una seconda possibilità per i propri giocattoli” promossa dal Gruppo di Solidarietà Heos e dalla cooperativa Coopthc (Together let’s Help the Community!) in collaborazione con l’Istituto penitenziario di Massa Marittima. Si potrà donare un proprio giocattolo - in buone condizioni e che non preveda l’uso di batterie - contattando al numero 370.3792052 il Gruppo Solidarietà Heos che provvederà, dopo la necessaria sanificazione, a consegnarlo al carcere massetano. Gli ospiti della struttura potranno a loro volta regalarlo ai propri figli in occasione del prossimo Natale. L’iniziativa andrà avanti non soltanto in occasione del 25 dicembre, ma sarà costante durante l’anno. I bambini e le bambine che durante le festività e anche successivamente entreranno nell’istituto penitenziario per far visita al proprio papà porteranno a casa il bellissimo ricordo di un abbraccio e anche un piccolo e certamente gradito dono. Chi volesse partecipare attivamente all’iniziativa donando i propri giocattoli potrà rivolgersi al numero 370.3792052 o scrivere alla mail gruppoheos@gmail.com. Per ulteriori informazioni sull’iniziativa: info@coopthc.org. Il teatro in carcere: uno spazio di libertà di Francesca Mambro Il Riformista, 26 novembre 2021 In occasione delle celebrazioni per il granduca Leopoldo di Lorena, il 30 novembre a Cecina si racconterà l’esperienza del “Teatro legislativo”: una storia di riconciliazione e rinascita. Leopoldo di Lorena, granduca di Toscana, probabilmente non è il primo nome che viene in mente ai nostri ragazzi e nemmeno ai nostri politici. In realtà fu protagonista, in un fazzoletto d’Italia, di una vera e propria rivoluzione copernicana perché il suo governo, dal 1765 al 1790, abolì per la prima volta nel mondo la pena capitale ed eresse un vero e proprio monumento legislativo a quel diritto umano fondamentale e inalienabile che 200 anni dopo la Carta dei Diritti Umani afferma. La Toscana ne va particolarmente orgogliosa e fa bene a ricordarlo ogni anno con una festa importante a cui, giustamente, viene dato un grande rilievo perché questo gesto, profondamente illuminista, avvenne ben prima della decantata Rivoluzione Francese. Il 30 novembre, nel Teatro Comunale De Filippo, a Cecina, per la direzione organizzativa di Maurizio Canovaro, Nessuno tocchi Caino partecipa a questa festa con Rita Bernardini e Porzia Addabbo, la quale porta la sua esperienza sul “Teatro Legislativo”, argomento sconosciuto ai più ma che ha una storia di riconciliazione e rinascita di cui ogni comunità potrebbe far tesoro per affrontare i conflitti umani e sociali che la definiscono. Ci sono storie che nascono e invitano ad agire non dove c’è soddisfazione, ma ferite e vuoti, e sono quella zona franca della vita in cui l’Arte prende posizione e quanto vissuto sulla scena serve per comprendere, discutere e cambiare i valori della società intorno a noi. Pensiamo a quanto accaduto in Sudafrica quando nel 2003 la Commissione Verità e Riconciliazione chiede alla drammaturga e regista Yael Farber di mettere in scena un testo attinente al percorso di giustizia riparativa. Far - ber parte dalla Orestea, un ritorno ai classici per raccontare il presente. Gli archetipi consolidati consentono all’Arte di sedersi nei posti riservati al dissenso e sovvertono il ruolo dello spettatore. Da passivo in attivo. Lo spazio scenico non è convenzionale, né convenzionale lo svolgimento, che necessita di azioni concrete da parte della corte di esperti e legali che dovranno restituire soluzioni ai problemi esposti dalla comunità. Dal Teatro al Parlamento. La scelta del Direttore Artistico di “SconfinaMenti”, Alessio Pizzech, di proiettare il film Bohème al Carcere di Maiano è un’occasione importante per restituire al mezzo teatrale il potere di democrazia transitiva in cui l’elemento culturale e quello politico sociale si fondono. La Bohème di Maiano, non è un film sul carcere, è il racconto dell’allestimento di un’opera lirica all’intenso di un supercarcere. La storia di una micro-comunità all’interno della Polis. E se ogni Polis è una comunità, riguarda noi tutti, perché gli studi sociali affermano che, per una persona che si trovi in condizione di isolamento, dopo tre settimane il mondo circostante non esiste più. Dopo un anno non esiste più nemmeno una realtà interiore. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce salute uno stato di benessere fisico e sociale. Ci sentiamo ancora più non in salute se la nostra vita sociale non è gratificante. Qual è, allora, il nostro stato se viviamo nel mondo a-sociale? Se, come dice il legislatore, il fine ultimo della detenzione è il recupero alla società, il Teatro che è la più concreta imitazione artistica della realtà, diventa l’anti-struttura necessaria, lo strumento per esercitare il pensiero e il processo creativo. L’atto performativo ha il potere di rendere pubblico e sociale ciò che pensiamo privato, personale e rende udibili, visibili, tangibili; ogni artista ha l’obbligo di raccontare “cosa succederebbe se...” affidando poi alla società civile l’elaborazione di soluzioni diverse riguardo alle necessità che il risultato della messinscena propone. Restored Behaviour è il termine con il quale si concludono le corti di Teatro Legislativo nell’ambito della Giustizia Riparativa. “SconfinaMenti” chiama a raccolta Pedagogia, Politica, Arti della Scena per costruire il Nuovo Umanesimo Europeo. Da qui dovremo pensare a un Teatro di Testimonianza, di intervento, che affronti temi attuali e sia mirato alla partecipazione e inclusione delle communitas, che siano “regolate” o no. Ricordando il passato, con Eschilo, Agamennone: “Se rispettano i templi e gli Dei dei vinti, i vincitori si salveranno”. Lo Stato e un peso crescente di Alberto Mingardi Corriere della Sera, 26 novembre 2021 Superate le emergenze, non si torna mai al punto di partenza: è facile istituire nuovi enti e decidere nuovi interventi, ben più difficile cancellarli. Se il passato ci insegna qualcosa, lo Stato tende a crescere nelle crisi. In emergenza si allargano i cordoni della borsa ma soprattutto si amplia il perimetro dei pubblici poteri. Superato il peggio, non si torna mai al punto di partenza: è facile istituire nuovi enti e decidere nuovi interventi, ben più difficile cancellarli. Nell’anno della pandemia, i governi hanno messo in campo ulteriore spesa pubblica per circa il 16% del Pil mondiale. Come giustamente ci ha ricordato l’Economist con la sua copertina della settimana scorsa, si tratta di un picco ma non di un fenomeno nuovo. La spesa tende a aumentare come per inerzia: nei Paesi ricchi, allo Stato chiediamo sempre di più. L’invecchiamento della popolazione si traduce in aumenti di spesa quasi automatici. La burocrazia sostiene pervicacemente che, se qualcosa non funziona nel pubblico, è solo perché non è stato finanziato a sufficienza. Più grande è lo Stato e più i gruppi d’interesse, che siano “i sindacati favoriti dalla sinistra o gli amici della destra nel mondo degli affari”, cercheranno di “catturarlo”, volgendolo a proprio vantaggio. Anche per questo un’impronta più vasta del pubblico nell’economia implica meno efficienza, meno dinamismo e più privilegi. Se a questo aggiungiamo il fatto che il crescente debito pubblico costituisce un’ipoteca sulle nuove generazioni, si capisce perché, come sostiene il settimanale britannico, proprio questo è il momento di interrogarsi “su che cosa deve fare lo Stato”. La domanda rischia di cadere nel vuoto. Se continuiamo a parlare di Reagan e Thatcher, e se restano due spauracchi dei partiti di sinistra, è proprio per la loro eccezionalità, in quella lunga marcia che ci ha portato ad avere Stati che pesano grosso modo la metà del prodotto interno lordo. Rispondere a qualsiasi problema aumentando la spesa o facendo una nuova legge richiede poca fantasia e funziona per guadagnare, almeno nel breve termine, consenso. Perché gli uomini politici facciano qualcosa di diverso debbono avere anzitutto l’impressione che gli elettori glielo stiano chiedendo. In passato, sono stati i cosiddetti “ceti produttivi” e soprattutto la borghesia piccola e media a credere che lo statalismo ne ostacolasse la prosperità. Forse altrove è ancora così: il leader dei liberali tedeschi Lindner farà il ministro dell’economia, nel nuovo governo coi socialdemocratici, anche perché in quel Paese i risparmiatori avvertono la minaccia delle politiche monetarie non convenzionali e delle scelte di spesa che esse rendono possibili. I liberali alle elezioni tedesche hanno conquistato circa il 20% dei ragazzi che si recavano per la prima volta alle urne, in Italia l’unico a usare ancora l’aggettivo è un ultraottantenne, Berlusconi. Che oggi abbraccia il reddito di cittadinanza non solo per immaginarsi con più convinzione candidato al Quirinale: ma forse perché convinto che i suoi stessi elettori, i quali ieri chiedevano regole più semplici e tasse più basse, oggi hanno bisogno di sentirsi protetti e rassicurati. Per avere uno Stato leggero serve una società pesante: una società fatta di persone che abbiano voglia di essere più autonome, artefici del proprio destino; e che, se necessario, siano capaci di prendersi cura di chi sta peggio. Cosa che il nostro Stato tentacolare spesso non sa fare. Come testimoniano le sempre nuove richieste di intervento e aiuto, a loro modo rivelatrici dell’incapacità di sintonizzare la spesa sui bisogni. Il nostro è sempre più uno statalismo inerziale: non rivela un Paese solidale, ma la nostra pigrizia intellettuale e l’atrofizzazione dei corpi intermedi. La violenza domestica non finirà se non cambiamo noi uomini di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 26 novembre 2021 Ieri, come ogni anno, è stata la giornata dei numeri e delle promesse... ma la vera promessa non sono nuove norme e neppure più fondi. È stata, quella di giovedì 25 novembre, la giornata contro la violenza domestica? O è stata l’ennesima giornata delle promesse? Purtroppo, i dati sulla violenza domestica, in particolare contro le donne, non sono buoni. Il numero degli omicidi è in leggera diminuzione; ma resta stabile se si considerano quelli in cui la vittima è una donna. La parola “femminicidio” genera spesso reazioni di insofferenza. Non sarà una bella parola. Ma è ancora peggio la sostanza. E la sostanza rimane questa: a dispetto delle parole, degli impegni, dei finanziamenti, delle promesse appunto, ogni giorno migliaia di donne si trovano in pericolo, e non per strada al buio la notte; all’interno delle loro case, delle loro famiglie, tra le persone che dovrebbero essere le persone care. Cosa possiamo fare per contrastare questa vergogna? È un fatto di norme; e quelle per il codice rosso, che aprono una corsia d’emergenza per le denunce delle donne, sono senz’altro positive. Ma la violenza domestica è innanzitutto un fatto culturale. E la cultura non cambierà fino a quando noi uomini non ci renderemo conto che siamo proprio noi a dover cambiare. Perché la violenza sulle donne non è un problema delle donne soltanto; è un problema di noi uomini. Siamo noi che dobbiamo cambiare e far cambiare i violenti: coloro che non accettano un No o un Basta, un rifiuto o un abbandono; coloro che si considerano proprietari del corpo e dell’anima della donna, e non sono disposti a riconoscere la sacrosanta libertà della donna di uscire con chi vuole, di amare chi vuole, di sposare chi vuole. Fino a non molto tempo fa, in Italia esisteva il matrimonio riparatore: chi voleva una donna se la prendeva, e lei era moralmente obbligata dalla comunità e dalla famiglia a sposare l’uomo che l’aveva violentata. Il matrimonio cominciava con la violenza, e spesso nella violenza proseguiva. Fino a quando una giovane siciliana, Franca Viola, rifiutò il matrimonio riparatore, aprendo una via che tante altre donne non soltanto al Sud hanno seguito. Ora il problema si ripropone spesso nelle famiglie degli immigrati, dei nuovi italiani. Negarlo nel timore di passare per razzisti sarebbe un’ipocrisia inaccettabile (anche se è importante notare che nel 2019 l’ampia maggioranza dei femminicidi è stata commessa da italiani). Non dobbiamo avere paura della verità. Lo dobbiamo alle nostre madri, che si sono emancipate attraverso un percorso decennale di coraggio e di riscatto. E lo dobbiamo alle nostre figlie e nipoti, che dovranno abitare un Paese e un mondo in cui non si farà più caso se il capo è maschio o femmina, ma se è competente o non lo è, se è onesto o non lo è, se è violento o non lo è. Questa sì è una promessa che dobbiamo fare a noi stessi; e che dobbiamo rispettare. Fine vita, in aula alla Camera il 13 dicembre, ma la maggioranza resta divisa di Liana Milella La Repubblica, 26 novembre 2021 “Era l’unico compromesso possibile” dice il Dem Bazoli. Che però non porterà al voto favorevole del centrodestra. Subito polemico Magi di Più Europa: “Hanno vinto quelli che vogliono mandare la legge sul binario morto e che non sono solo nel centrodestra”. Alla fine, almeno per fissare una data sul calendario della Camera, ce l’hanno fatta. La legge sulla morte medicalmente assistita arriverà in aula il 13 dicembre. Merito dell’insistenza del presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni di M5S, e dei due relatori, il Dem Alfredo Bazoli e il grillino Nicola Provenza, che hanno cercato una mediazione sulle richieste del centrodestra che non assicurano però il loro voto favorevole, ma almeno garantiscono “l’approdo in aula”. Un risultato che però suscita subito la reazione fortemente polemica di Riccardo Magi di PiùEuropa che dice: “Hanno prevalso quelli che vogliono mandare la legge sul binario morto e che non sono solo nel centrodestra”. E dunque in aula a Montecitorio, il testo sulla “morte volontaria medicalmente assistita”, approderà il 13 dicembre. Con quale esito? Bazoli la racconta così: “Abbiamo raggiunto l’unico compromesso possibile che garantisce, appunto, l’arrivo in aula, e non il muro contro muro anche su questo. Ma certo non offre garanzie sul voto favorevole del centrodestra”. Alla domanda cosa faranno Lega e Forza Italia, Bazoli risponde con sincerità: “Certo non voteranno a favore”. Si asterranno? “Vedremo”. Di sicuro c’è che il centrosinistra, Pd, M5S e Leu, ha i voti per mandare il testo al Senato, ma lì il destino del provvedimento sul fine vita si preannuncia negativamente segnato, com’è avvenuto per la legge Zan, proprio per via dei numeri risicati del centrosinistra. In più Italia viva è divisa anche alla Camera: rispetto al sì convinto di deputate come Lucia Annibali e Lisa Noja, che lo hanno espressamente detto nelle commissioni, rispetto al sì di Roberto Giachetti, ci sono anche molti no. Ma è proprio sulla data, il 13 dicembre, che Riccardo Magi protesta. Per lui il giorno giusto per cominciare avrebbe dovuto essere, al massimo, quello del 3 dicembre, passare al 13 invece significa segnare comunque il destino della legge anche a Montecitorio. Perché, spiega Magi, che parla di “binario morto”, “con la sessione di bilancio e gli altri provvedimenti urgenti, e con la pausa di Natale, a quel punto si arriva all’elezione del presidente della Repubblica”. Cioè a febbraio. Magi non nasconde neppure di essere polemico con le concessioni fatte al centrodestra sugli emendamenti. Ma quali sono state, in concreto, queste “concessioni” dei relatori? Sicuramente respinta l’ipotesi di rendere obbligatorie le cause palliative, che anzi potranno essere rifiutate da chi chiede la morte medicalmente assistita. Ma il centrosinistra accetta che chi chiede di morire non solo sia affetto da “una patologia irreversibile”, ma per lui sia stata già preannunciata “una prognosi infausta”. Non solo, le sue sofferenze non dovranno essere solo “fisiche”, ma anche “psicologiche”. A queste concessioni se ne aggiungono anche altre formali lungo l’intero testo della legge. Bazoli, dal suo punto di vista, si dichiara “soddisfatto”, perché il muro contro muro è caduto. L’arrivo in aula è stato sbloccato, ha vinto quella che lui chiama “una decisa volontà di mediazione” che però “non garantisce il voto favorevole”. In compenso, dopo una giornata di estrema tensione, quella di mercoledì, viene meno “il clima di scontro frontale, almeno non ci si affronta all’arma bianca”. Frutto di 24 in cui i relatori Bazoli e Provenza, dal loro punto di vista, hanno fatto di tutto per evitare che la futura legge sul fine vita potesse saltare del tutto all’anno nuovo. Ma secondo Magi ci finirà lo stesso perché al massimo il 13 dicembre partirà la discussione generale, poi ci sarà il necessario rinvio a gennaio, e a quel punto le elezioni del capo dello Stato. Migranti. I lati oscuri di Frontex: dalle spese alle violazioni dei diritti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 novembre 2021 Frontex quest’anno è stato portato davanti alla Corte di giustizia europea per violazione dei diritti fondamentali e abusi ai danni dei migranti. Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, è stata fondata nel 2004 per assistere gli Stati membri dell’Ue e i paesi associati a Schengen nella protezione delle frontiere esterne dello spazio di libera circolazione dell’Ue. In quanto Agenzia dell’Ue, Frontex è finanziata dal bilancio dell’Unione e dai contribùuti dei paesi associati Schengen. Ma è sotto i riflettori sia su sospette violazioni dei diritti dei migranti, sia per bilanci poco trasparenti e non virtuosi come denunciano molteplici associazioni, ong e gruppi del Parlamento europeo. Frontex è la più odiata delle agenzie dell’Unione europea - Come ha scritto recentemente la giornalista Francesca Spinelli in un articolo de L’Internazionale, Frontex è la più odiata delle agenzie dell’Unione europea: nei suoi sedici anni di esistenza, è stata accusata di violazioni di diritti fondamentali così tante volte da fare concorrenza al primo ministro ungherese Viktor Orbán. Con la differenza che, essendo eletto, Orbán può far valere una sua legittimità. A questo, si aggiunge anche il discorso di presunte “spese pazze”. Secondo “EUobserver”, Frontex ha organizzato cinque eventi in quattro anni per 2,1 milioni di euro - Secondo la testata EUobserver, Frontex ha organizzato cinque eventi in quattro anni ai quali hanno partecipato in centinaia tra dipendenti e ospiti. Il conto totale dei budget per le feste in quel periodo ammonta a un totale di 2,1 milioni di euro. EUobserve, che ha avuto accesso ai documenti interni, snocciola i dati: si va dai 94.000 euro spesi nel 2015 per una cena per 800 persone presso l’elegante ristorante Belvedere di Varsavia, città dove ha sede l’agenzia, ai 580 mila euro spesi per una festa in trasferta sul Mar Baltico presso la località balenare di Sopot. Resta il fatto che Frontex, nel corso di quest’anno, per ben due volte è stato portato davanti alla Corte di giustizia europea. L’ultimo risale al mese scorso. Secondo gli avvocati olandesi che hanno presentato la causa, l’agenzia di frontiera dell’Ue avrebbe violato i diritti fondamentali dei rifugiati siriani che sono stati respinti dalla Grecia alla Turchia nell’ottobre 2016. Frontex dovrà rispondere di abusi e respingimenti indiscriminati - La prima causa, invece, risale a maggio scorso. Frontex dovrà rispondere abusi ai danni di migranti, comprese violazioni dei diritti umani, tra cui respingimenti indiscriminati. Parliamo della prima azione legale contro l’Agenzia da parte della ong Front-lex con le organizzazioni Progress Lawyers Network e Greek Helsinki Monitor, presso la Corte di Giustizia Europea. La causa è stata presentata per conto di due richiedenti asilo (un minore non accompagnato e una donna) mentre cercavano asilo in territorio Ue sull’isola di Lesbo, in Grecia. Le accuse mosse contro Frontex traggono fonte da molteplici testimonianze che ricostruiscono gli eventi passati dalle vittime. Tra i fatti presentati si trovano anche prove di altre operazioni di respingimenti senza giusta causa durante i loro tentativi di cercare protezione in Unione europea. Dalle testimonianze presenti nell’azione legale, un membro del presunto gruppo di migranti respinti indiscriminatamente, minorenne e amico del richiedente, anche lui minore, è caduto in acqua ed è morto annegato. Front-lex e il team di avvocati che hanno presentato l’azione legale, sostengono la responsabilità di Frontex in questi event: l’Agenzia dovrebbe svolgere un ruolo di monitoraggio regolare della gestione delle frontiere esterne, compreso il rispetto dei diritti fondamentali. Migranti. La brutalità di Frontex anche contro i volontari di Asgi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 novembre 2021 L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione denuncia che, il 6 novembre, malgrado la regolarità dei documenti, 4 italiani sono stati costretti ad abbandonare a piedi il territorio dell’Unione Europea. “Un gruppo di soci dell’Asgi, nel corso di un sopralluogo al confine greco-macedone nei pressi di Idomeni in Grecia, ha subìto un fermo da parte di una pattuglia mista di poliziotti greci, polizia di frontiera e agenti di Frontex ed è stata costretta a fare ritorno a piedi in territorio macedone”. È la stessa Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), a denunciare il trattamento subìto dai quattro cittadini italiani allontanati dal territorio dell’Unione Europea senza motivazione, in modo illegittimo e con procedure informali, ed esprime allarme nei riguardi delle violazioni dei diritti e la sistematica violenza anche nei confronti di cittadini extra europei. L’Asgi ha effettuato una visita al confine macedone-greco - L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione ripercorre ciò che è accaduto sabato 6 novembre. La sua delegazione ha effettuato una visita al confine macedone-greco, sia dal lato macedone che nel territorio frontaliero greco. Dopo aver raggiunto e attraversato il valico di frontiera denominato Evzoni in taxi, munita dei necessari documenti per l’attraversamento della frontiera greca, la delegazione si è recata dapprima a Polykastro e, successivamente, a Idomeni. I volontari fermati dagli agenti di Frontex - Raggiunta la piccola cittadina di Idomeni il gruppo - come denuncia l’Asgi - ha effettuato un rapido sopralluogo esplorativo nei pressi della stazione ferroviaria, luogo strategico per comprendere e analizzare le dinamiche di attraversamento della frontiera, le violazioni e le procedure di push-back condotte dalle polizie di frontiera. Dopo aver percorso alcune decine di metri lungo i binari che dalla stazione ferroviaria conducono verso la Macedonia del Nord e senza fare ingresso nella zona di transito visibilmente delimitata da una recinzione di filo spinato, la delegazione è tornata verso la stazione costeggiando la ferrovia. Mentre percorreva questo breve tratto, un agente che indossava l’uniforme di Frontex ha raggiunto il gruppo e ha chiesto i documenti e i motivi della visita in quel luogo. Subito dopo è apparso un agente della polizia greca il quale - con tono decisamente più alterato, sottolinea l’Asgi - ha chiesto spiegazioni della presenza in quel luogo, sostenendo che la delegazione si trovava in un’area militare e, dunque, interdetta, nonostante non ci fosse alcun cartello di interdizione al passaggio. Aggrediti verbalmente dagli agenti di Frontex - Nel giro di pochissimi minuti - prosegue nella denuncia l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione - il gruppo è stato accerchiato da una decina di agenti (almeno 3 di Frontex, 1 con tuta mimetica nera e adesivo raffigurante un’aquila e almeno 3 poliziotti greci) e accusato di aver attraversato in modo irregolare la frontiera, nonostante il passaggio attraverso il valico, punto di attraversamento autorizzato, avrebbe potuto essere facilmente verificabile. Poco dopo è giunta sul posto una camionetta della polizia greca, blindata e con i vetri posteriori oscurati. Il gruppo è stato costretto a salire con modalità verbalmente violente; inoltre, i documenti di identità di tutti i componenti sono stati trattenuti dalle forze di polizia senza che fosse fornita alcuna informazione circa le ragioni del fermo. I soci dell’Asgi è stato condotto alla stazione locale di polizia all’interno della quale era presente anche una grande baracca con dei materassi posizionati a terra, dove sono stati rinchiusi un gruppo di sei migranti, evidentemente intercettati durante le operazioni di controllo della frontiera, fatti scendere dalla parte posteriore della medesima camionetta. Inviata una richiesta di chiarimenti al Parlamento, alla Commissione Europea e ai ministeri italiani - L’Asgi rivela che, dopo essere stata aggredita verbalmente anche dal poliziotto presente presso la stazione di polizia, la delegazione ha atteso nello spazio esterno antistante lo svolgimento dei controlli. Malgrado la regolarità dei documenti d’identità per l’attraversamento della frontiera greca, i quattro cittadini italiani sono stati portati con la camionetta al valico di frontiera Evzoni, scortata da due autovetture di Frontex, sono stati costretti a lasciare il territorio dell’Unione Europea proseguendo a piedi fino al valico di frontiera in Macedonia. L’Asgi ha inviato una richiesta di chiarimenti al Parlamento Europeo, alla Commissione Europea, al ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, al ministero dell’Interno, all’Ambasciata d’Italia in Atene, all’Agenzia della guardia di frontiera e costiera europea (Frontex), al ministro delle Politiche europee. Migranti. Al confine tra Polonia e Bielorussia si deve cambiare tutto di Pierfrancesco Majorino* Il Manifesto, 26 novembre 2021 In questi giorni una nostra delegazione di europarlamentari del Pd sarà sul posto per denunciare la condizione di chi è respinto dagli idranti e dalle forze di sicurezza. Quel che sta accadendo in una parte dell’area di confine tra Bielorussia e Polonia è grave e inaccettabile. La scelta, folle, di Lukashenko, di favorire e organizzare un flusso di migranti verso l´Unione Europea, non è altro che il tentativo di giocare, utilizzando le persone come carne da macello, la propria partita. La partita, assai sporca, portata avanti da un regime autoritario, periodicamente spalleggiato dalla Russia di Putin, che non può certamente essere riconosciuto come un interlocutore - cosa purtroppo in parte già accaduta - dalla comunità internazionale. Il Parlamento Europeo ha fatto proprio bene, quindi, a ospitare, il 24 di novembre, l´intervento di Svetlana Tikhanovskaya, leader dell’opposizione democratica al regime di Lukashenko, e a ribadire, attraverso il Presidente Sassoli, ancora una volta, piena sintonia con le sue parole. Parole di democrazia, libertà, diritti. Se vogliamo affrontare l´emergenza umanitaria materializzatasi al confine, dunque, dobbiamo partire da qui: considerare le pesantissime responsabilità di Lukashenko come un punto irrinunciabile per qualsiasi reazione. E, però, dobbiamo anche sapere che questa riflessione non basta. Le gravi colpe del regime bielorusso rappresentano una parte del complicato problema che abbiamo di fronte. L´altra riguarda la dimensione della vita vera, cioè quel che stanno realmente subendo donne, uomini, bambine, bambini. Persone, non numeri, rispetto alle quali serve un immediato intervento umanitario, e l´apertura di canali d´accesso legali verso la Ue. Il contrario di quel che sta mettendo in campo la Polonia che, al pari dell´Ungheria di Orbàn, si presenta oggi come un laboratorio autoritario, in pratica un avamposto della paura, pervaso da un istinto alla regressione civile e culturale assolutamente incompatibile con i valori dei padri fondatori europei. In questi giorni una nostra delegazione di europarlamentari del Pd - composta da Pietro Bartolo, Brando Benifei e il sottoscritto - sarà sul posto per osservare quel che sta accadendo, denunciare e contribuire a far crescere la consapevolezza, ad ogni livello, sul senso dell´urgenza che ci comunica la condizione di chi si trova ad essere respinto dagli idranti e fronteggiato dai cordoni delle forze di sicurezza. Saremo lì convinti, ancora una volta, che sul piano delle politiche riguardanti l´immigrazione servano scelte molto diverse da quelle compiute fino ad ora. Dico di più: io credo che su questa materia si debba avere il coraggio di cambiare tutto. E lo debba fare l´Europa, lo debbano fare le sue istituzioni e i suoi Stati membri. Cambiare tutto significa mettere mano ad una politica che sfugga dall´egemonia della destra. La destra, quella peggiore, ha infatti segnato in modo devastante il dibattito sull´immigrazione. Ciò è avvenuto anche a prescindere dai risultati elettorali dei singoli partiti sovranisti e ha finito con il condizionare in modo sciagurato gli orientamenti e le decisioni di chi di volta in volta si é trovato a far fronte alla questione migratoria. Così si è arrivati alla paralisi. Quella che di fronte ai bambini ammassati ai bordi dell´Europa non riesce ad esprimere interventi immediati di sostegno, aiuto, solidarietà. La cosa non è nuova e non nasce in questi giorni. Dai campi di concentramento libici alle scelte ambigue operate in Bosnia, dagli accordi con la Turchia alla generalizzata alzata di spalle di fronte al Mediterraneo quel che accade dimostra innanzitutto l´assenza di coraggio. Finché non si mette mano ad un piano - ben diverso da quello presentato in questi mesi dalla Commissione Europea - relativo a vie legali d´ingresso, canali d´accesso, progetti di inclusione la politica continuerà a produrre barriere, respingimenti e muri. Scorciatoie pericolose sul piano umanitario che alimentano il traffico illegale di persone e calpestano la dignità delle donne e degli uomini. Quel che accade in Polonia (fortunatamente messo in discussione da tanti cittadini polacchi che hanno deciso di “aiutare” gli altri) dunque, è un´altra puntata di una “serie” a cui, stagione dopo stagione, ci si è abituati. La storia si ripete più volte, lungo i confini. E lo schema, l´approccio, sembra essere sempre quello di chi si illude che il mancato intervento o il filo spinato - più o meno materiale - possano essere un pezzo di una strategia. Si chiama “esternalizzazione” e produce scorciatoie davvero pericolose laddove invece avremmo bisogno di immaginare l´accoglienza come una grande responsabilità da condividere nel nome della cooperazione tra gli Stati. Quel che tenteremo di fare, attraverso il nostro piccolo gesto, è semplice. Cercheremo di ripetere ciò che andiamo dicendo nelle aule parlamentari: va provata e sperimentata un´altra strada. La strada illuminata dal faro del rispetto dei diritti umani. Strada praticabile se si ha il coraggio, dentro i confini europei, di combattere una grande battaglia culturale. E se, contestualmente, si è molto più radicali sulla questione sociale che riguarda “noi”. La paura verso le migrazioni, infatti, cresce laddove le diseguaglianze e la precarietà non diventano temi affrontati di petto. Rimettere al centro la giustizia sociale come grande valore di fondo è dunque il primo modo per sconfiggere proprio quell´egemonia a cui alludevo che ha incantato la società civile e politica nostrana. E poi, non dimentichiamolo: affrontare con più radicalità la questione sociale esistente, il sentimento di insicurezza rispetto al proprio futuro che segna ancora tante cittadine europee e tanti cittadini europei è in sé ciò che deve motivare chi fa parte di un campo sociale e politico di stampo progressista. *Europarlamentare del Pd Dopo dodici anni il governo torna a occuparsi di droghe di Rita Rapisardi Il Domani, 26 novembre 2021 Voluta dalla ministra Dadone si svolge, domani e domenica, la Conferenza nazionale sulle droghe. Oggi la “Fuori conferenza” delle associazioni. Dopo dodici anni questo sarà il week end della Conferenza nazionale sulle droghe. Per legge, secondo il Testo unico sugli stupefacenti, sarebbe da convocare ogni tre anni, ma nessuno degli ultimi governi si è preoccupato di farlo. Il titolo dato alla due giorni, che si terrà appunto il 27 e il 28 novembre, è “Oltre le fragilità” e conta di approfondire le problematiche connesse alla diffusione di sostanze stupefacenti e psicotrope. A volere l’evento è stata la ministra per le Politiche giovanili, titolare della delega sulle droghe, Fabiana Dadone, che a ridosso della sua nomina aveva anticipato questa volontà: “Negli anni ci siamo abituati a facile propaganda su temi delicati a scapito dei numerosi appelli, è doveroso accogliere il dialogo, il confronto, la statistica e la scienza”, ha dichiarato la ministra spiegando come la preparazione, durata mesi, ha interessato oltre ai rappresentanti delle istituzioni, la società civile e del privato sociale. “Auspico il confronto sull’annoso problema delle dipendenze, della criminalità e delle sofferenze quotidiane che molti sono costretti a vivere in Italia”, ha aggiunto. I sette tavoli di confronto e i ben dieci ministri presenti, affronteranno numerosi aspetti, che superano il discorso legato alla dipendenza o alla pericolosità delle sostanze, e riguardano la società tutta. Un appuntamento atteso e decisivo, perché le relazioni conclusive saranno il terreno sul quale pensare una riforma del Testo unico, vecchio di trent’anni, scritto e pensato per esigenze diverse e incapace ormai di rispondere alle sfide contemporanee. Il tema delle droghe è stato spesso ricondotto a slogan e opportunità politiche: la destra che negli anni si è arroccata nel proibizionismo e in un “no alla droga” generico, mentre a sinistra resta un argomento divisivo. Intanto gli operatori del settore reclamano da anni un passo avanti nel trattare queste tematiche: la riduzione del danno fatica a trovare spazio - in un primo momento addirittura esclusa dai lavori di preparazione della conferenza - i servizi sanitari sono talvolta carenti e le carceri sono affollate di tossicomani lasciati a loro stessi. Una situazione che si differenzia da regione a regione per l’assenza di un’amministrazione unica dovuta al Titolo V: accanto a regioni virtuose, in cui Asl, SerD e SerT funzionano su volontà di pochi, ce ne sono altre in cui gli sono gravi le mancanze e farne le spese sono i consumatori. Tutto questo mentre nel dibattito pubblico si discute sul referendum per la depenalizzazione della cannabis, per cui hanno firmato oltre 620mila persone, dimostrando che il tema è sentito e merita una risposta da parte delle istituzioni. Trieste 2009. L’ultima Conferenza nazionale è stata a Trieste nel 2009, un’edizione blindata in cui è stata denunciata una forte chiusura istituzionale. Mentre la più importante, almeno secondo gli operatori, si è tenuta sempre a Genova nel 2000, convocata dall’allora ministra della Solidarietà, Livia Turco. In quell’occasione si è aperta una discussione sulle nuove droghe e sul mondo della notte, e Sandro Veronesi, ministro della Salute, con un intervento criticato dal presidente del Consiglio, Giuliano Amato, aveva proposto di sperimentare la legalizzazione della cannabis. Un appello ancora inascoltato. La peggiore è invece considerata quella di Palermo, convocata da Carlo Giovanardi. Allora, il movimento di riforma della politica delle droghe aveva organizzato una contro conferenza guidata da Andrea Gallo, in cui era stato presentato il primo Libro bianco, promosso, tra le altre, da Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), Associazione Luca Coscioni e Forum droghe. Una lunga accusa alla Fini-Giovanardi, una legge proibizionista e punitiva che ha riempito le carceri di consumatori e piccoli spacciatori, senza intaccare veramente i grandi mercati, dichiarata incostituzionale nel 2014. Anche in quest’occasione la rete ha deciso di richiamare l’attenzione con una “Fuori conferenza”, oggi, sempre a Genova. Saranno al centro del dibattito, scrivono su Forum droghe, “approcci pragmatici e convenienti per tutti, per fare pace con le droghe e chi le usa, verso un modello alternativo di regolazione sociale del consumo di sostanze, promozione della salute e un sistema di interventi alternativo all’attuale modello repressivo, penale e patologico”. Sarà anche previsto un confronto con la ministra Dadone, con l’obiettivo di lanciare una campagna contro l’inerzia del parlamento sul referendum sulla cannabis. Come motto le parole di don Andrea Gallo: “È l’ora di pensare in grande”. Droghe. Da Palermo a Genova II, il travaglio delle Conferenze di Grazia Zuffa Il Manifesto, 26 novembre 2021 VI Conferenza nazionale sulle droghe. L’appuntamento triennale governativo fu richiesto dalle opposizioni per valutare gli effetti criminogeni della legge punitiva del 1990. Alla vigilia della Conferenza governativa sulle droghe di Genova ripercorriamo la ratio, le finalità, la storia di questo appuntamento, per avere un metro di giudizio politico più solido sull’evento che ci sta davanti. L’appuntamento triennale della Conferenza fu introdotto nella legge del 1990, la Jervolino-Vassalli. Insieme alla Relazione Annuale al Parlamento, fu il frutto della battaglia delle opposizioni durante la discussione parlamentare. Poiché il disegno di legge del governo introduceva un giro di vite proibizionista (in particolare punendo il semplice consumatore), le opposizioni chiesero strumenti per monitorare gli effetti delle nuove norme. Il Presidente del Consiglio deve convocare ogni tre anni la Conferenza, le cui conclusioni “sono comunicate al Parlamento anche al fine di individuare eventuali correzioni alla legislazione antidroga dettate dall’esperienza applicativa” (art.1, comma 15). Il primo obiettivo della Conferenza è la verifica della legge penale, ricordiamolo bene. Tanto più perché, dopo l’abrogazione da parte della Corte Costituzionale delle modifiche della Fini-Giovanardi, la normativa attualmente vigente è ancora quella del 1990 (senza le sanzioni penali per il consumo abolite dal referendum, ma con le sanzioni amministrative). Palermo 1993, il referendum spinge - Palermo è il primo grande appuntamento politico sulle droghe dopo il referendum popolare del 1993, che aveva bocciato la svolta punitiva della legge Jervolino Vassalli (vedi: la norma manifesto di divieto di assunzione di sostanze stupefacenti, le sanzioni penali per il consumo, le norme che limitavano la libertà terapeutica). Nel clima post referendario, il termine “riduzione del danno” compare ufficialmente per la prima volta nelle parole della ministra Fernanda Contri. Scompare la comunità terapeutica vista come “la soluzione” alla dipendenza: le comunità mantengono un posto di rilievo nella cura, ma i servizi pubblici diventano il fulcro del sistema e i trattamenti con metadone “a mantenimento” sono finalmente legittimati. Il cambio di passo si registra anche nelle parole dell’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato, a suo tempo uno dei sostenitori dell’approccio proibizionista duro: egli cita positivamente l’esperienza dell’Olanda “in cui il giudice non applica la sanzione penale e può contare sul medico al quale risulta affidato il compito di somministrare anche droga al giovane assuntore in maniera controllata” (il riferimento è ai trattamenti con eroina medica). Il gruppo di lavoro sulla riduzione del danno, coordinato da Luigi Manconi, stende un programma articolato di riforme: dal potenziamento dei programmi con metadone, alla sperimentazione di trattamenti con eroina, agli interventi di prevenzione dell’Aids in carcere, fino all’alleggerimento del trattamento penale per la cannabis). Palermo, sotto la spinta del referendum popolare, rappresenta dunque una rottura con l’approccio tough on drugs. Napoli 1997, la riduzione del danno - La Conferenza di Napoli in gran parte si concentra sulla riduzione del danno, dietro la spinta degli sviluppi europei ma anche di un movimento diffuso: molte sono le prese di posizione dei consigli comunali (da Torino a Venezia, da Bologna a Firenze e molte altre) a favore di un mutamento di rotta. All’ipotesi riformista dà voce un documento delle Ong, elaborato proprio in vista della Conferenza. Si propone: il completamento della depenalizzazione del consumo personale iniziato col referendum, la legalizzazione della cannabis, l’espansione della riduzione del danno e la sperimentazione di nuovi interventi (in specie, i trattamenti con eroina). Si propone anche di innovare i processi della decisione politica, dando nuove competenze ai Comuni e prevedendo la partecipazione vasta di soggetti sociali, in primis i consumatori di droghe. A livello governativo, l’obiettivo è di “sdoganare” la riduzione del danno, facendo sì che sia accettata il più largamente possibile dal vasto mondo delle comunità terapeutiche, molte delle quali ancora riluttanti a rinunciare all’obiettivo unico dell’astinenza e ad accettare i trattamenti con metadone non finalizzati al passaggio veloce all’astinenza. Si cerca un difficile equilibrio fra continuità e discontinuità, fra “lotta alla droga” e governo pragmatico e umanitario del fenomeno, come è evidente dallo slogan dell’evento: “Contro le droghe, cura la vita”. Pur con questi limiti, Napoli 1997 rimane una tappa importante. È attivato un gruppo sulle politiche della cannabis, che conclude i lavori proponendo di sperimentare forme di regolazione legale. La proposta non passa, ma la Conferenza si pronuncia positivamente sulla completa depenalizzazione del consumo: su questo si impegna il governo, come anche sul rafforzamento della riduzione del danno. Genova 2000, la scienza e la riforma - Nonostante gli impegni della Conferenza di Napoli, la depenalizzazione completa del consumo trova un ostacolo nelle campagne di allarme sul tema sicurezza, cui il governo e le forze politiche, anche a sinistra, sostanzialmente soggiacciono. Anche sul fronte della riduzione del danno permangono le resistenze ideologiche. In questo clima, il movimento rialza la posta. Si forma un ampio Cartello di associazioni (Per un’altra politica delle droghe) e nasce una rete antiproibizionista di centri sociali (Mdma). Il Cartello “Per un’altra politica delle droghe” promuove spazi di dibattito paralleli su temi scottanti, oltre quelli ufficiali, come “carcere, depenalizzazione e decriminalizzazione della vita quotidiana dei consumatori”. Genova passa alla storia per la ricchezza del dibattito e per lo scontro nel governo: da una parte il ministro Umberto Veronesi apre alla cannabis legale e caldeggia la sperimentazione dei trattamenti con eroina; dall’altra, il presidente del Consiglio Amato frena il dibattito sul nascere. Interessante lo scambio fra i due esponenti governativi, poiché si confrontano due concezioni della politica. Veronesi affronta il merito delle questioni e trae indicazioni per le politiche dalle evidenze scientifiche disponibili. Amato definisce il suo approccio “tecnico”, contrapposto al “politico” inteso come pura negoziazione fra le forze politiche (nel governo non c’è accordo sulla depenalizzazione, fa sapere il presidente del Consiglio). Quanto al movimento, rischia di diventare una “anomalia di sistema”, in una politica ormai distaccata dalla scienza, dalla cultura, dall’esperienza. Da Genova 2000 a Genova 2021 - Le conferenze di Palermo II, del 2005, e di Trieste del 2009 non hanno storia: la prima finalizzata a propagandare il disegno di legge Fini-Giovanardi, contrastato sia nel parlamento che nel Paese; la seconda, a legge approvata grazie a forzature anticostituzionali, tesa solo a legittimare a posteriori la svolta punitiva. Il movimento non ci sta e organizza spazi di discussione e mobilitazione fuori Conferenza. Che dire oggi di Genova II? A giudicare dal programma, pare una conferenza che “parla d’altro”. Fuoriluogo, soprattutto fuori tempo. Invece di affrontare il nodo della legge e i suoi effetti criminogeni sui consumatori, si parla della “realtà penale e penitenziaria della dipendenza”. Invece di parlare di consumi e del governo sociale degli stessi, ci si concentra esclusivamente sulle “dipendenze patologiche”. Perfino la ricerca è limitata alle dipendenze, con ospite di riguardo Nora Volkow, principale sostenitrice della addiction come brain disease: proprio oggi che i limiti del modello neurobiologico sono sempre più esplicitamente denunciati. Quanto alla riduzione del danno, se ne parla, ma rigorosamente entro il recinto dei servizi. Le politiche della cannabis neanche sono nominate, né per gli sviluppi di legalizzazione in ambito internazionale, né in ambito nazionale (vedi il successo delle firme per il referendum). Per discutere sul serio, meglio affidarsi al “Fuoriconferenza”. Droghe. Cannabis, l’eterno “vilipendio” di una pianta senza colpe di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 26 novembre 2021 VI Conferenza nazionale sulle droghe. La marijuana entra nella discussione solo se “terapeutica”. Le dimensioni culturali della canapa e dei suoi derivati sono state totalmente silenziate ed escluse dai tavoli. A metà novembre il Corriere della Sera ha ritenuto opportuno pubblicare in prima pagina una lettera che accusava il Comitato promotore del referendum cannabis legale di vilipendio alla bandiera per aver osato sovrimporre la foglia a sette punte nel bianco del tricolore. Da quando alla fine del 2006 l’Italia ha legalizzato la prescrizione di cannabinoidi per uso terapeutico, la cannabis è entrata nella vita di migliaia di persone con problemi di salute e che, magari, fino ad allora, l’avevano considerata una droga. Forse “leggera” ma sicuramente l’avevano sentita presentare sempre come una droga. Il neutro “cannabis” al posto del criminale “marijuana” o l’esotico “hashish” ha contribuito a rendere la pianta il simbolo di scelte mediche, o auto-terapeutiche, sempre più diffuse e rivendicate. Negli ultimi anni, sempre più frequentemente, la musica hip hop, trap e trip hop, quella con miliardi di streaming e visualizzazioni su youtube, ha fatto emergere la presenza della pianta in quelle che una volta si sarebbero chiamate contro o subculture giovanili ma che oggi sono presenze scontate nella quotidianità di milioni di persone. Cantanti e produttori, raramente oltre la trentina, da meri influencer sono diventati maître à penser che preoccupano la politica e i media vecchio stampo perché con uditori paralleli rispetto a quelli tradizionali. La potenza di questi messaggi è tale e tanta da scavalcare i blocchi imposti dai social network a determinate parole o immagini. Malgrado le tradizionali rigidità istituzionali, la cannabis è tornata a essere una componente strutturale e sempre più visibile della cultura italiana oltre che delle nostre colture tipiche. Non sappiamo quante siano le ricette che da 15 anni prescrivono cannabis per fini terapeutici; è invece noto che dal 2014 presso lo Stabilimento Farmaceutico Militare di Firenze è iniziata una produzione di infiorescenze. Il timido progetto pilota è stato poi confermato con risorse crescenti ma con una produzione largamente insufficiente. La domanda diffusa ha portato il fabbisogno stimato dall’Onu per l’Italia a tre tonnellate. Nonostante l’aumento dell’importazione dall’Olanda e l’indizione di gare d’appalto straordinarie vinte da aziende non europee, lo Stato non riesce a garantire quantità costanti di prodotti creando problemi a migliaia di persone che grazie alla pianta hanno migliorato la qualità della loro vita o la convivenza con la malattia. Dal 2016 è stata di nuovo resa legale la coltivazione di canapa con bassissimi livelli di principi attivi per fini industriali recuperando così una tradizione che negli anni Cinquanta vedeva l’Italia seconda solo all’Urss, in quanto a produzione per cordami, tele e altro. La storia patria racconta come Cavour la coltivasse nelle sue tenute, mentre le brache di Garibaldi, ora custodite al Museo Centrale del Risorgimento al Vittoriano, sono un esempio di impiego non psicoattivo della pianta. Sempre nel 2016, a sostegno dei vari disegni di legge sulla cannabis presentati in Parlamento e dell’intergruppo arrivato a superare le 300 adesioni, le associazioni che annualmente pubblicano il Libro Bianco sulle Droghe consegnarono alla Camera oltre 67.000 firme a sostegno di una proposta di legge d’iniziativa popolare per una regolamentazione legale della produzione, uso, scambio e commercio della cannabis e dei suoi derivati. Anche se l’allora maggioranza decise di non portare a termine l’iter parlamentare, per la prima volta nella storia della Repubblica si arrivò a un dibattito in Aula alla Camera. Di tutto questo non si trova traccia nei lavori della VI Conferenza Nazionale sulle droghe del 27 e 28 novembre. Si è tenuto un tavolo sulla cannabis terapeutica, ma niente di più. Le dimensioni culturali della pianta sono state totalmente silenziate. E, stando a quanto discusso, la mancanza cronica di prodotti, la qualità e la quantità della cannabis “made in Italy” o di quella importata, le licenze per la distribuzione o la promozione di formazione, e l’informazione del personale specializzato o dell’utenza in generale sono rimasti auspici. Forse si parlerà di un’agenzia nazionale per la cannabis. Stesso trattamento è stato riservato al ritaglio in tre parti della 309/90 previsto dal Referendum sulla cannabis che, col sostegno di oltre 630.000 firme, è stato depositato in Cassazione un mese prima della tenuta della Conferenza nazionale. Vista quest’assenza non sapremo come si porrà il Governo di fronte al referendum. La Ministra Dadone non ha firmato il referendum, questa sua “neutralità” caratterizzerà l’esecutivo in Corte Costituzionale quando dovrà esser decisa l’ammissibilità del quesito? Ragionevolmente, se non razionalmente, l’onere della prova dovrebbe esser in capo a chi ha creato buona parte dei problemi di cui si discute e non su chi da anni elabora proposte di governo di un fenomeno di massa come quello dell’uso della cannabis. Il Corriere della Sera, qualche giorno dopo, ha ospitato una replica del Comitato per il referendum. A pagina 37. Fino a quando la gerarchia della visibilità resterà questa, il confronto non potrà essere ad armi pari. Stati Uniti. Il racconto dal braccio della morte in 10 anni di corrispondenza con l’Italia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 novembre 2021 Nell’ultimo quarto di secolo la Comunità di Sant’Egidio ha favorito, direttamente e con l’aiuto di altri, 15.384 corrispondenze epistolari con condannati a morte negli Stati Uniti d’America e di altri stati. Solo nell’ultimo anno, le richieste ricevute sono state 2500. In occasione del 30 novembre, Giornata mondiale contro la pena di morte e data ormai storica dell’iniziativa “Città per la vita - Città contro la pena di morte”, cui partecipano oltre 2000 municipalità in ogni parte del mondo, Ianieri Edizioni pubblica “La seconda lettera. Corrispondenza con un condannato a morte, di Laura Bellotti. Bellotti traduce di solito ciò che scrivono altri autori, ma stavolta è lei a prendere la parola. Anzi, la penna. E scrive, incuriosita dalla proposta della figlia. Inizia così, nel 2012, una lunga corrispondenza con James Aren Duckett, condannato a morte nello stato della Florida. Questo è un estratto della seconda lettera ricevuta dal braccio della morte: “Buongiorno. È stato bello ricevere una lettera da te, ieri sera. È stato particolarmente importante ricevere la seconda lettera, perché quando qualcuno mi scrive per la prima volta, non so mai se scriverà di nuovo, dopo la mia risposta. È stato un gran sollievo e una grande felicità vedere la tua busta datata 5 gennaio. Grazie! La lettera ha impiegato 11 giorni… mi domandavo quanto tempo impiega ad arrivare una lettera dall’Italia alla Florida”. Duckett è stato condannato a morte per un’azione orribile: lo stupro e l’uccisione di una bambina di 11 anni. Immagino sia stata una scelta difficile, soprattutto per una madre, avviare questa corrispondenza. Ma non è solo l’asserita innocenza di Duckett, su cui speriamo un giorno le corti d’appello vorranno approfondire, a dare a Bellotti la spinta per mantenere aperto questo dialogo a distanza. Non sono solo i pensieri, le paure e le riflessioni di un uomo che ormai da oltre 30 anni è sospeso tra la speranza di uscire dal carcere e la paura di terminare a sua vita legato al lettino dell’esecuzione. A segnare quasi 10 anni di scambi epistolari è soprattutto il rifiuto dell’idea che la giustizia passi attraverso la pena capitale. L’idea, sempre più diffusa grazie alle campagne delle organizzazioni abolizioniste, che la risposta dello stato a un reato (ammesso, in questo caso, che sia stato commesso) non può essere né uguale né, tantomeno, peggiore. Russia. Scandalo torture nelle carceri, silurato il direttore dell’amministrazione penitenziaria rainews.it, 26 novembre 2021 Dopo una serie di scandali riguardanti torture e violenze, compresi stupri, dei detenuti nelle carceri russe, il presidente Vladimir Putin ha silurato il direttore dell’amministrazione penitenziaria Aleksandr Kalashnikov, generale del Fsb. A sostituirlo sarà Arkadij Gostev, vice-ministro dell’Interno che nel suo ministero si occupava degli affari amministrativi. I difensori dei diritti dell’uomo non credono che la sostituzione dell’uomo proveniente dai servizi con un poliziotto possa contribuire a far migliorare il sistema penitenziario russo. Formalmente Aleksandr Kalashnikov ha rassegnato le dimissioni di sua propria volontà, presentando la domanda di dimissioni al presidente. Secondo alcune informazioni, Kalashnikov è stato delegato nel sistema penitenziario, conservando il suo grado del generale del Fsb e pertanto potrebbe ritornare nei ranghi dei servizi. La relatrice del disegno di legge sull’inasprimento delle pene per torture, senatrice Liudmila Narusova, ha constatato la volontà politica di sradicare le torture nell’amministrazione penitenziaria, pur ammettendo che anche nell’ambito del ministero dell’Interno e del Servizio Federale di Sicurezza (Fsb) si praticano le torture anche se non in modo così sistematico come nell’amministrazione penitenziaria: ciò va oltre ogni concetto di una società civile. Ferite di guerra in Congo di Michele Calamaio e Leonardo Di Stasi Il Manifesto, 26 novembre 2021 “Non è normale che quando una donna esce di casa rischi la vita. Rischia di essere violentata e uccisa”. Con queste parole Jean-Claude Ilunga, attivista congolese e presidente dell’associazione “Les amis du Congo solidarité” a Bruxelles definisce in maniera lapidaria la situazione socio-politica femminile nella Repubblica democratica del Congo. Ilunga ha lasciato il suo Paese 40 anni fa per emigrare a Bruxelles dove vive e lavora tutt’ora nell’associazione da lui stesso fondata che ha come obiettivo l’essere un punto di contatto primario per l’integrazione di immigrati e ponte tra le prime e seconde generazioni di congolesi in Belgio. “L’est del Congo è in preda alla violenza da 20 anni. Tutti i giorni in questa parte del Paese ci sono dei massacri - prosegue Ilunga - ma se non si tratta di ambasciatori non se ne parla. Il riferimento è all’assassinio dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio nello scorso febbraio - evento che aveva portato l’attenzione mediatica sui diritti umani nello Stato centraficano. Per Ilunga “non si va a lavorare in un Paese per morire, non è normale. Per me l’uccisione dell’ambasciatore è una catastrofe”. La Repubblica democratica del Congo continua a vivere in un clima particolarmente instabile. Soprattutto nelle province orientali del Nord e Sud Kivu persiste la presenza di bande armate, di milizie non governative, di ex-militari e di gruppi tribali, i quali effettuano razzie e massacri di civili. Secondo l’ultimo rapporto del segretario generale al Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’insicurezza è aumentata ulteriormente nella parte orientale del Congo dopo le crescenti tensioni politiche all’interno della coalizione di governo, culminate col suo scioglimento da parte del presidente della Repubblica, Félix Antoine Tshilombo Tshisekedi, nel dicembre 2020. L’anno scorso, la Missione di stabilizzazione delle Nazioni unite nella Repubblica democratica del Congo (Monusco) ha documentato 1.053 casi di violenza sessuale legata al conflitto che hanno colpito 675 donne e solo tre uomini e cinque ragazzi. La maggioranza (700) è stata attribuita a gruppi armati non statali. Gli attori statali hanno rappresentato i casi rimanenti, tra di essi 239 violenze sono attribuite alle Forze armate della Repubblica democratica del Congo (Farc), 76 alla Polizia nazionale Congolese e 38 ad altri attori dello Stato. Le violenze perpetrate dalla polizia hanno riguardato per oltre la metà i minori e si sono verificati all’interno delle case delle vittime, nei centri di detenzione, nei campi o in altri luoghi isolati. La disponibilità dei servizi pubblici sanitari in Congo è molto precaria, a causa dei continui soprusi e conflitti tra bande armate. Già dal 1999, per affrontare la continua emergenza e cercare di salvare le vite di migliaia di donne, è stato aperto l’ospedale Panzi a Bukavu, il capoluogo della provincia del Sud-Kivu. Il centro è specializzato nel trattamento dei sopravvissuti alla violenza, la maggior parte dei quali ha subito abusi sessuali (200 letti su un totale di 350). Per fare fronte a questa emergenza medica e umanitaria il professore Guy Bernard Cadière, esperto di chirurgia mininvasiva all’Ospedale Saint Pierre di Bruxelles, è da un decennio impegnato assieme a Denis Mukwege, medico congolese specializzato in ginecologia e ostetricia, fondatore nel 1998 del Panzi Hospital a Bukavu, ospedale in cui è diventato il massimo esperto mondiale nella cura di danni fisici interni alle donne vittime di violenze e stupro. Un lavoro per il quale Mukwege è stato insignito del Nobel per la Pace nel 2018. Cadière racconta così al manifesto il suo primo incontro con Mukwege: “È venuto a trovarmi dieci anni fa presso il dipartimento di chirurgia dell’Université Libre de Bruxelles ed è rimasto colpito dalla mia tecnica per le operazioni chirurgiche, che non prevede l’apertura della cavità addominale ma solo piccole incisioni. Mukwege mi ha invitato a unirmi alla sua missione in Congo, dove ha già operato oltre 40 mila donne vittime della barbarie umana. Per me è stato naturale seguire questo tipo di missione assieme a lui”. La chirurgia mininvasiva consiste nell’operare all’interno della cavità addominale senza aprirla ampiamente. “Facciamo piccole incisioni di 5 millimetri, inseriamo il dispositivo e la fotocamera. Grazie a questo possiamo operare utilizzando lo schermo che ci permette di visualizzare perfettamente l’organo genitale molestato” spiega Cadière; senza aprire ampiamente la cavità addominale, il recupero del paziente è più rapido. Le persone possono lasciare l’ospedale dopo 2 giorni dall’operazione e non vi è alcun rischio di infezione o contaminazione. Mukwege a Cadière tra il 2011 e 2015 oltre a curare circa 260 bambine vittime di stupro hanno operato circa 200 donne e ragazze di età compresa tra 16 e 49 anni con la tecnica della laparoscopia. La morbilità (il rapporto tra numero di morti e numero di persone esposte al rischio di morire) è risultata molto bassa dopo le operazioni, ma Cadière sottolinea quanto sia importante “sostenere le vittime anche dal punto vista legale e psicologico per aiutarle a reintegrarsi in una società che le stigmatizza”. E sul futuro della sua missione avverte: “Non sono io quello che cambierà il destino del Congo, né il suo sviluppo. Continuerò a lavorare con il dottor Mukwege per insegnare ad altri medici questa tecnica per curare sempre più persone”; Poi aggiunge un pensiero sul futuro del Paese: “Sono molto preoccupato per l’impunità in Congo. La giustizia è l’unico modo per ottenere la pace”.