Una giustizia riparativa, per dare senso alla pena di Lucio Boldrin* Avvenire, 25 novembre 2021 Un tempo senza tempo, così sono le giornate in carcere. Sei rinchiuso per ore, ti annoi in continuazione. Mentre i ricordi vacillano ci sono cose che non puoi dimenticare. Il tempo è un’efficace tortura. Tempo lungo che non sempre si può, si riesce, a riempire. Qui nulla permette di distinguere un’ora dall’altra. Una volta trascorse, le ore svaniscono nel nulla, ma il minuto presente si può dilatare all’infinità. Il tempo, dunque, non esiste. È una logica da pazzi? Forse. La distorta percezione del tempo, infatti, può creare fantasmi, pensieri ossessivi. E dopo qualche mese di reclusione cresce l’ansia: il ritardo di una telefonata, di una lettera, di un’udienza, di un incontro, anche se di pochi giorni od ore, la moltiplicano. Nel frattempo, il ritmo è sempre quello: la sveglia, la colazione, l’aria, lo studio per pochi, il pranzo, ancora l’aria, il pomeriggio (silenzioso e freddo in questo periodo, da passare sotto le coperte) la cena, la notte. Questo, giorno dopo giorno, fa morire dentro. Ci sono detenuti che s’inventano qualcosa per resistere, ma altri si abbandonano ad azioni autodistruttive. Sono quelli che noi, cappellani e volontari, cerchiamo di incontrare il più possibile, con la speranza o l’illusione di aiutarli a non lasciarsi morire dentro. L’impressione che ho (ma magari esistono delle eccezioni) è che la prigione continui a essere, con la sua temporalità, completamente sfasata rispetto al mondo esterno. Da qui il grande rischio di infantilizzare, deresponsabilizzare e alienare le persone che vi sono recluse. È possibile tracciare un’altra strada? Penso di sì. Andrebbe ripensato innanzi tutto il modello penitenziario. Più a monte, tuttavia, appare ormai ineludibile riflettere sull’obsolescenza del sistema sanzionatorio e sull’idea che la pena carceraria misurata in giorni, mesi e anni - sempre uguale nella sostanza, ma diversa nelle dosi - possa ancora costituire la risposta a tutti i reati. La giustizia penale e i modelli procedimentali dovrebbero dotarsi di robusti e non occasionali innesti di giustizia riparativa. Una prospettiva di riparazione seria, coltivata al di là dei meri confini del risarcimento materiale o morale. Contrariamente alla pena classica, basata sulla rimozione del fatto di reato e sulla separazione del condannato, la riparazione consentirebbe un percorso comunque impegnativo per il responsabile di reato e per la persona offesa, ma idoneo ad agire sulla possibilità di lasciare alle spalle il passato senza risentimenti. Una specie di “oblio attivo” che, a differenza del tempo passivo della pena carceraria, non lascia incatenati colpevoli e vittima allo strappo del reato. Anzi, li proietta verso il futuro. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Quando il carcere diventa ospizio di Valter Vecellio lindro.it, 25 novembre 2021 Il 70 per cento dei detenuti ha almeno una malattia, quasi il 45 per cento è obeso o sovrappeso, oltre il 40 per cento risulta affetto da una patologia psichiatrica, il 53 per cento dei nuovi detenuti è valutato a rischio suicidio. Sì: c’è stato un tempo in cui Carmine Montescuro, boss di Sant’Erasmo e del centro storico di Napoli, faceva paura; il suo nome pronunciato con reverenza, ma più spesso taciuto. Ora del boss che fu, non c’è neppure più l’ombra, il suo nome non lo fa più nessuno perché nessuno sa più chi sia, quel vecchio malandato e semicieco, 88 anni, diabetico. Che ci sta a fare, Montescuro in carcere? Era ai domiciliari, proprio in considerazione del suo precario stato di salute; come mai è tornato in cella? Per ‘violazione delle prescrizioni previste dal regime di detenzione domiciliare’, si legge nel dossier che lo riguarda. Così Montescuro se non quello più anziano, è certamente uno dei più vecchi carcerati italiani. È recluso nel carcere di Secondigliano. Nella sola Campania sono un centinaio i detenuti anziani, con conseguenti problemi per quel che riguarda assistenza, personale specializzato, le intuibili difficoltà nel gestire reclusi con tante criticità. È di qualche mese fa un rapporto del Consiglio d’Europa: in Italia troppi detenuti, troppo anziani. Nel pieno della pandemia si censirono un migliaio di detenuti anziani, e di conseguenza si valutarono misure alternative per far fronte all’emergenza sanitaria. Gli effetti di quelle misure sono come evaporate in questi mesi. Il numero dei nuovi ingressi nelle carceri aumenta, il problema del sovraffollamento torna a essere un’emergenza. Nel caso di detenuti anziani diventa un’emergenza nell’emergenza. Più in generale: il 70 per cento dei detenuti ha almeno una malattia; quasi il 45 per cento è obeso o sovrappeso, oltre il 40 per cento risulta affetto da una patologia psichiatrica, il 14,5 per cento da malattie dell’apparato gastrointestinale, l’11,5 per cento da malattie infettive e parassitarie, il 53 per cento dei nuovi detenuti è valutato a rischio suicidio. Sono le stime rese note da Alessio Scandurra, per conto dell’Osservatorio diritti e garanzie associazione Antigone: “Il carcere è un luogo malsano e le persone detenute hanno spesso bisogno, anche a causa dei contesti di provenienza, di interventi di cura rilevanti e urgenti. Ma ancora oggi ci sono troppi ostacoli per un dignitoso diritto alla cura”. Scandurra evidenzia come “nelle strutture penitenziarie manca il personale e le risorse adeguate a garantire all’interno tutti i servizi necessari e non è facile organizzare scorte e traduzioni per portare fuori i detenuti. Inoltre non tutte le carceri sono vicine a un ospedale e molti grandi istituti, come Gorgona, sono piuttosto isolati. In un quadro simile la telemedicina, e in generale un rafforzamento di tutti i servizi digitali, dovrebbe essere scontato, ma nella realtà il carcere vive ancora una anacronistica arretratezza informatica”. Lo Stato spende oltre 8 miliardi per l’amministrazione della giustizia e il 35 per cento di queste risorse sono destinate al carcere. Tra il 2017 e il 2021, il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) è cresciuto del 18,2 per cento, passando da 2,6 a 3,1 miliardi, e rappresenta il 35 per cento del bilancio del ministero della Giustizia. Il sovraffollamento è pari al 113,1 per cento. Sono 11 le carceri con sovraffollamento di oltre il 150 per cento: i cinque istituti di pena con maggiori criticità si trovano a Brescia (200 per cento), Grosseto (180 per cento), Brindisi (170,2per cento), Crotone (168,2 per cento), Bergamo (168 per cento). Nel 42 per cento degli Istituti ci sono celle con schermature alle finestre che impediscono passaggio di aria e luce naturale. Nel 36 per cento delle carceri ci sono celle senza doccia (il regolamento penitenziario del 2000 prevedeva che, entro il 20 settembre 2005, tutti gli Istituti installassero le docce in ogni camera di pernottamento). Nel 31 per cento degli istituti ci sono celle prive di acqua calda. Nel carcere di Frosinone, si segnalano frequenti episodi di mancanza di acqua corrente. Santa Maria Capua Vetere presenta un problema strutturale di mancato allaccio idrico, l’acqua erogata non è potabile. La gara d’appalto per provvedere all’allaccio idrico c’è stata, ma i lavori non sono iniziati e l’acqua potabile viene data a ciascun detenuto con due bottiglie da due litri al giorno. Una media di un detenuto su quattro è tossicodipendente. Al 31 dicembre 2020 i detenuti presenti con problemi di tossicodipendenza erano il 26,5 per cento: 14.148. Diciotto i suicidi a metà 2021; nei soli primi 3 mesi dell’anno 2.461 gli atti di autolesionismo. Nel 2020 i suicidi sono stati 62 e il numero di suicidi ogni 10.000 detenuti è stato il più alto degli ultimi anni, raggiungendo le undici unità. Per quanto riguarda i casi di autolesionismo, per il primo trimestre del 2021 la Relazione al Parlamento del Garante Nazionale ne riporta 2.461. Ogni anno vengono spesi circa 3 miliardi nelle carceri per adulti e 280 milioni per il sistema di giustizia minorile e le misure alternative alla detenzione. Dei 3 miliardi che sono stati destinati al carcere per il 20211, il 68 per cento è impiegato per la Polizia penitenziaria, la figura professionale numericamente più presente con oltre 32.500 agenti. Il divario con l’organico previsto dalla legge (37.181 unità) si attesta a circa il 12,5 per cento. Diversa la situazione dei funzionari giuridico-pedagogici che, con un organico previsto di 896, sono oggi poco più di 730 (-18,4 per cento). La formazione professionale è in calo: uno studente detenuto su tre ha abbandonato la scuola. Secondo gli ultimi dati diffusi dal Dap, al 31 dicembre 2020 erano 17.937 le persone detenute che lavoravano. Di queste, quasi l’88 per cento (15.746) alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria; il resto (2.191 detenuti) per datori di lavoro esterni. Nino Di Matteo teme i “corleonesi”, che da oltre 30 anni non esistono più di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 novembre 2021 Il consigliere del Csm, nella sua audizione in commissione Giustizia della Camera, ha sostenuto che la modifica dell’ergastolo ostativo era l’obiettivo della mafia di Totò Riina attraverso le stragi del ‘92 e del ‘93. “Il rischio che si corre, è quello di far raggiungere l’obiettivo dei mafiosi stragisti”. È questa la messa in guardia, non nuova, esternata dall’attuale consigliere del Csm Nino Di Matteo durante la sua audizione in commissione Giustizia della Camera a proposito della modifica della legge sull’ergastolo ostativo. La tesi di Nino Di Matteo è sostanzialmente quella di una parte di magistrati antimafia - La tesi sostanzialmente è questa: l’obiettivo delle stragi del 1992 e 1993 consisteva nel ricattare lo Stato per ottenere, tra gli altri benefici, l’abolizione dell’ergastolo e del 41 bis. La tesi di Nino Di Matteo è sostanzialmente quella di una parte di magistrati antimafia che ha stigmatizzato le pronunce della Corte Europea di Strasburgo e della Consulta sulla violazione di alcuni articoli della Convenzione europea dei diritti umani e articoli della nostra Costituzione. In sostanza, secondo le Corti, è illegittima la preclusione assoluta dei benefici penitenziari per chi decide di non collaborare con la giustizia. Secondo il consigliere del Csm, tali pronunce rischierebbero di far raggiungere l’obiettivo dei corleonesi. Eppure parliamo di un’ala che non esiste più, sconfitta ramai quasi 30 anni fa. Un’ala che fu soppiantata subito dopo da quella che ha scelto la via della “sommersione”. Le stragi di mafia in realtà hanno sortito l’effetto contrario - Una Cosa nostra diversa, quella che ha scelto di compiere il suo sporco malaffare senza uno scontro “militare” contro lo Stato. Di fatto, la nuova Cosa nostra ha scelto una via più funzionale al suo sistema. D’altronde le stragi di mafia in realtà hanno sortito l’effetto contrario. La strage di Via D’Amelio ha accelerato l’attuazione del 41 bis, stragi che hanno di fatto anche inasprito l’ergastolo ostativo, diverso da quello ideato da Falcone stesso. Ma Nino Di Matteo, legittimamente, ha una sua idea irremovibile: la nuova legge sull’ergastolo ostativo non deve scoraggiare la collaborazione con la giustizia e, soprattutto, non deve far ritornare in libertà i mafiosi condannati per le stragi. In realtà, come hanno detto alcuni magistrati di sorveglianza auditi in commissione, ciò è davvero difficile, basti vedere il permesso premio respinto ai vari boss stragisti. La stragrande maggioranza degli ergastolani ostativi, non sono boss stragisti - Più in generale, sono numeri da prefisso telefonico coloro che hanno avuto accesso ai benefici. Senza tener conto, che la stragrande maggioranza degli ergastolani ostativi, non sono boss stragisti. Di Matteo, precisa che le sue opinioni sono nel pieno rispetto della Corte costituzionale e del principio dell’articolo 27 della Costituzione, ma per gli ergastolani ostativi bisogna essere più rigidi possibile. Per questo ritiene condivisibile che sia “onere del detenuto, dimostrare effettivamente, oltre alla condotta trattamentale, gli elementi concreti che dimostrino il mancato pericolo di ripristino con la criminalità organizzata”. Eppure tale previsione è a rischio di incostituzionalità, come hanno sottolineato diversi magistrati come i rappresentanti dell’Anm e i giudici si sorveglianza. Altra perplessità espressa da Nino Di Matteo, è l’esclusione dal testo base della competenza specifica a un unico tribunale a cui demandare le decisioni. “Mi preoccupa la frammentazione delle competenze - ha spiegato il consigliere -, penso al rischio di un magistrato di sorveglianza sulla richiesta della liberazione condizionale su uno stragista. Aumenta il rischio di condizionamenti e di minacce”. In realtà gli stessi magistrati di sorveglianza respingono duramente tale tesi. Si viola il principio della competenza del giudice naturale e rischia di burocratizzare le scelte, visto che solo i giudici di sorveglianza, essendo territoriali, hanno la conoscenza diretta dei luoghi di detenzione e hanno gli strumenti necessari per compiere una scrupolosa valutazione. Cari Di Matteo e Caselli, state dicendo che la Consulta vuole favorire la mafia? di Tiziana Maiolo Il Riformista, 25 novembre 2021 Ergastolo ostativo: la decisione della Corte di decretarne l’incostituzionalità chiedendo al Parlamento di legiferare continua a suscitare una levata di scudi da parte della politica e delle toghe. “Il rischio che si corre è che chi ha fatto le stragi per ricattare lo Stato ottenga ora l’obiettivo che ha perseguito con le stragi”. Ci dica lei, dottor Nino Di Matteo, autorevole membro del Csm con un bel passato di pm “antimafia”, come dobbiamo interpretare questa sua frase contro l’abolizione della legge sull’ergastolo ostativo. Vuol forse significare che la Consulta, nel decretare l’incostituzionalità della nonna per la violazione degli articoli 3 e 27 della Costituzione ha ceduto al ricatto della mafia? E che di conseguenza il Parlamento si starebbe avviando a una nuova “Trattativa” con i boss? Speriamo di no, ma ce lo spieghi lei. Anche perché a noi sembrerebbe normale il fatto che i magistrati, specie quelli autorevoli come gli appartenenti al Csm, siano ligi ai principi costituzionali e ai pronunciamenti dell’Alta Corte. Stiamo parlando dei diritti fondamentali della persona e di due articoli della Costituzione che pongono principi che dovrebbero essere le stelle polari di ogni operatore della giustizia. Stiamo parlando di quel “fine pena mai”, cioè la pena di morte sociale che fu introdotta da una legge emergenziale nel 1992, in una stagione molto particolare, dopo le uccisioni dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Molti pensano che fosse indispensabile, in quel momento, dichiarare guerra alla mafia anche con una risposta legislativa illegittima. Non tutti per fortuna la pensano così, ma anche a voler accettare quell’aberrazione che portò in quel momento a derogare sul rispetto della Costituzione, non è chi non veda quanto siamo in un momento completamente diverso dalla stagione delle stragi mafiose. Perché dunque continuare ad accanirsi, dal momento che su quell’incostituzionalità si è già espressa due volte la Consulta su sollecitazione della corte di cassazione e dopo che l’Italia era stata già condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo? Il tutto nell’arco di due anni, tra il 2019 e il 2021. Ora la commissione giustizia della Camera ha iniziato a lavorare su una nuova legge dopo che nell’aprile scorso l’Alta Corte, nel dichiararne l’incostituzionalità, ha messo la norma sull’ergastolo ostativo nelle mani del Parlamento perché ne formuli un’altra che sia in linea con gli articoli 3 e 27 della Costituzione entro l’aprile del 2022. Nelle audizioni che la commissione sta tenendo in questi giorni, dopo aver elaborato un testo base ancora molto “timido” rispetto alle indicazioni della Corte Costituzionale (e che nonostante ciò non è accettato da Fratelli d’Italia che lo vorrebbe più centrato sulle esigenze di sicurezza), sono emerse forti critiche da parte soprattutto dell’ex procuratore Giancarlo Caselli e ieri, appunto di Nino Di Matteo. Si lancia il consueto allarme, come se pericolosi assassini stessero per essere rimessi in libertà senza che abbiano ancora scontato la pena. Si tralascia il fatto che un personaggio come quello che ha sciolto un bambino nell’acido e che si chiama Giovanni Brusca è da tempo libero di circolare in mezzo a noi. E si continua a considerare più importante quel “pentimento” che spesso è falso e comunque sempre interessato, rispetto a quel vero cambiamento della persona che è prodotto dal trascorrere del tempo e da un impegno che non è solo interiore ma “sociale”, se pur ristretto alla piccola società dei reclusi e degli operatori carcerari. Si trascura l’importanza di una giustizia che dovrebbe mettere al centro la persona e i suoi comportamenti nel corso del tempo, invece di tenerla ferma a quella fotografia scattata nel momento della commissione del delitto e alla qualificazione del reato. Non si dà fiducia neanche ai tanti operatori che all’interno delle carceri lavorano ad aiutare i detenuti nel loro percorso di cambiamento, e neanche ai tanti giudici di sorveglianza che decidono ogni giorno con lungimiranza ma anche con rigore su ogni richiesta di permessi esterni o di liberazione condizionale. Nel caso degli ergastolani si tratterebbe comunque di parlarne dopo almeno 26 anni di detenzione. Temiamo che la commissione giustizia della Camera si stia un po’ impantanando nel richiedere il parere di troppi organismi (tra cui la sfilza degli “antimafia”) per ogni decisione e soprattutto l’introduzione di qualche forma di inversione dell’onere della prova, con nuovi rischi di incostituzionalità. E anche con la previsione di centralizzare in un unico tribunale di sorveglianza nazionale la competenza della materia. Con il rischio di buttare a mare tante esperienze positive e proficue. Di giudici forse troppo garantisti. Tutti ricattati dalla mafia? Meglio silenziarli. Insieme alla Consulta. Ergastolo ostativo, l’allarme di Di Matteo: “Chi fece le stragi del ‘92-’93 potrà uscire” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2021 Il pm: “Corriamo il rischio che escano con la libertà condizionale proprio in virtù dell’applicazione della sentenza della Consulta e della legge che state predisponendo”. Le pronunce della Corte costituzionale che hanno depotenziato l’ergastolo ostativo ai benefici per i detenuti di mafia e terrorismo e costretto il legislatore ad approvare modifiche entro giugno prossimo, avranno conseguenze gravi: meno collaboratori di giustizia e pericolo concreto che i boss stragisti escano dal carcere, proprio quelli che misero le bombe per ricattare lo Stato in cambio di maglie larghe per i mafiosi condannati e non pentiti. Lo ha ribadito Nino Di Matteo, consigliere del Csm, pm nel processo trattativa Stato-mafia di Palermo. Davanti alla commissione Giustizia, che lavora su un testo base da poco approvato, Di Matteo ha messo in guardia: “Corriamo il rischio che proprio quelli che hanno fatto le stragi nel ‘92-93 e l’hanno tentata all’Olimpico nel 1994, escano con la libertà condizionale proprio in virtù dell’applicazione della sentenza della Consulta e della legge che state predisponendo”. Di Matteo ha ricordato che “l’obiettivo primario dei vertici di Cosa Nostra è da sempre l’abolizione dell’ergastolo, il rischio che si corre è che chi ha fatto le stragi per ricattare lo Stato ottenga ora l’obiettivo che ha perseguito”. L’ostativo non più assoluto ma relativo per chi non si pente avrà anche un’altra conseguenza: il fenomeno del pentitismo avrà “un calo quantitativo e qualitativo” perché con “la sostanziale abolizione dell’ergastolo ostativo è venuta meno la differenza di trattamento tra irriducibili, stragisti e chi collabora con la giustizia”. Entrando nel merito del testo in discussione in Commissione, Di Matteo ha sottolineato l’utilità dei tanti paletti previsti nel provvedimento in discussione affinché un detenuto irriducibile possa accedere ai benefici, come la condizione “molto importante” che non deve esserci neppure il rischio che il condannato possa riallacciare i rapporti con la criminalità. Nel testo, però, manca una previsione che c’era nel ddl del M5S: un Tribunale unico di Sorveglianza che si pronunci su questo tipo di richieste, come già accade per i 41-bis, decisi da quello di Roma: “La frammentazione delle competenze - ha spiegato Di Matteo - potrebbe produrre effetti pericolosi sotto il profilo della sicurezza dei giudici di sorveglianza chiamati a decidere. Più si frammenta più aumentano i rischi di condizionamenti impropri o di ritorsioni nei confronti dei giudici di sorveglianza” e in questo contesto potrebbe consolidarsi “una giurisprudenza più favorevole agli ergastolani che chiedono i benefici”. Certi “riformatori” sanno che la mafia non è vinta? di Luca Tescaroli Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2021 “Un diritto penale liberale non confisca proprietà, aziende a cittadini ancora innocenti o addirittura assolti” e “non può contenere nel suo ordinamento una norma che si chiama ergastolo ostativo”. Espressioni che le cronache di questi giorni hanno attribuito a un autorevole commentatore nel corso di un convegno organizzato a Firenze da un partito politico. Si tratta di prese di posizioni sempre più frequenti contro i cardini della regolamentazione antimafia, che si inseriscono nel solco di un progressivo processo di erosione degli strumenti introdotti nella nostra legislazione. Le misure di prevenzione patrimoniali - che la proposta di legge n. 3059, presentata il 26 aprile alla Camera dei deputati, di fatto vanificherebbe ove dovesse divenire legge - e la disciplina che impedisce ai mafiosi ergastolani che non collaborano con la giustizia di tornare in libertà, fruendo dei benefici della liberazione condizionale, delle misure alternative, dell’accesso al lavoro esterno e ai permessi premio, hanno consentito di ottenere gran parte dei successi ottenuti nell’azione di contrasto al crimine mafioso. A fronte dei dubbi di incostituzionalità del vigente regime dell’ergastolo manifestati dalla Corte costituzionale, il Parlamento fatica a trovare una convergenza da parte di tutte le forze politiche per introdurre una nuova rigorosa regolamentazione. E tutto avviene nel silenzio, insieme alla convinzione di molti per cui, essendo stata la “Cosa Nostra corleonese” sconfitta, si possa fronteggiare il fenomeno della criminalità organizzata con una legislazione più blanda, che non necessiti più nemmeno del regime del “carcere duro” di cui all’art. 41-bis. Perciò, credo sia utile ricordare la realtà criminale esistente nel nostro Paese, ove albergano plurime strutture mafiose estremamente pericolose, fra le quali, la ‘ndrangheta che ha saputo colonizzare il Centro-Nord d’Italia. La mafia dei corleonesi è stata certamente ridimensionata, con le catture dei latitanti e le condanne degli esponenti più rappresentativi. I numerosi collaboratori di giustizia ne hanno minato la credibilità e intaccato il suo patrimonio più importante, vale a dire l’affidabilità verso l’esterno. Tuttavia, uno dei più autorevoli stragisti, il corleonese Matteo Messina Denaro, continua la propria latitanza, mostrando di disporre di una rete di protezione impenetrabile. Le collaborazioni all’interno della compagine corleonese si sono inaridite e i condannati accarezzano da qualche anno la possibilità di riottenere permessi e la libertà per riprendere il potere. È la ferocia delle gesta dei corleonesi che ha rappresentato l’elemento di traino per giungere al varo della normativa che oggi si vorrebbe cancellare. Il germe della loro scellerata violenza prese le mosse nel 1977, con il progetto di uccisione di Giuseppe Di Cristina, il rappresentante mafioso della provincia di Caltanissetta, ed esplose nei primi anni 80 che videro l’eliminazione fisica o l’emarginazione dei propri rivali. Una lunga scia di sangue con migliaia di vittime e l’abbattimento di numerosissimi esponenti delle istituzioni: il 20.08.’77 il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo; il 9.03.1979 il segretario regionale della Dc Michele Reina; il 21.07.’79 il dirigente della Squadra mobile Boris Giuliano; il 25.09.1979 il giudice Cesare Terranova e il maresciallo di polizia Lenin Mancuso; il 6.01.1980 il presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella; il 3.05.1980 il capitano dei carabinieri Emanuele Basile; il 6.08.1980 il procuratore di Palermo Gaetano Costa; il 30.04.1982 il segretario regionale Pci, Pio La Torre; il 3.09.1982 il prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Solo dopo quest’ultima strage venne approvata la legge La Torre-Rognoni che introduceva le misure di prevenzione patrimoniali (che oggi si criticano), che hanno previsto la possibilità di sequestrare e confiscare i beni, anche solo sulla base di un giudizio di pericolosità sociale, senza che prima sia intervenuta una sentenza penale di condanna. E per giungere alla normativa sull’ergastolo ostativo la mattanza corleonese dovette continuare per tutti gli anni 80 sino agli inizi degli anni 90, con le uccisioni, fra gli altri, dei giudici Alberto Giacomelli, Antonino Saetta (e del figlio disabile Stefano), Rosario Livatino e Giovanni Falcone, che concepì quella regolamentazione, introdotta nel 1991, poi affinata dopo la strage di Capaci nel 1992. Perciò è fondamentale tenere presente i prezzi che sono stati pagati per non essere costretti a rivivere quel tragico passato. Nel quadro di disorientamento che il Paese oggi sta vivendo si esige un impegno quotidiano e serio da parte della magistratura per non dare il fianco a posizioni di attacco sempre più frequenti. Nel carcere duro i boss mafiosi trovano rifugio nella cultura di Attilio Bolzoni Il Domani, 25 novembre 2021 C’è una mafia che non somiglia per niente alla mafia che abbiamo sempre conosciuto, rozza, ignorante, quella dei pizzini sgrammaticati e criptici di Bernardo Provenzano o quella greve di Totò Riina, uno che con compiacimento si presentava agli altri dicendo che era “un quinta elementare”. Nei loro covi avevano sempre una Bibbia, in qualche cassetto i cacciatori di latitanti a volte trovavano anche una copia di Calvello il Bastardo o dei Beati Paoli di William Galt alias Luigi Natoli, per loro testi sacri, letteratura di mafia più che letteratura sulla mafia. Di scritto, nient’altro. Ma i boss cresciuti all’ombra dei Corleonesi non hanno preso esempio dai Corleonesi stessi. Per colpa dei (brutti) tempi hanno trovato rifugio nella cultura, e rinchiusi da un quarto di secolo in celle che sono buchi si sono ritrovati soli in compagnia di Fëdor Dostoevskij e dei fratelli Karamazov, di Lev Tolstoj, Italo Svevo, Boris Pasternak, Luigi Pirandello, dei filosofi tedeschi, dei teologi protestanti, di Virgilio e Immanuel Kant. Crediti universitari - È così, nei bracci speciali, è nata la generazione di mafia più colta di sempre. Avidi di sapere, i figli del 41 bis divorano tutto quello che c’è su carta, sono frequentatori assidui delle biblioteche dei penitenziari, pressano ogni giorno i loro avvocati per convincere pm e giudici di sorveglianza a concedere permessi premio e benefici allegando attestati e crediti universitari. L’ultimo a proporsi è stato il boss delle stragi Filippo Graviano, domandina presentata con incluso il diploma di laurea in economia e un certificato di frequentazione a un corso di finanza. Mentre fuori si legge sempre di meno, dentro si legge sempre di più. Gli uomini della vecchia Cupola studiano, si immergono nella storia e nei misteri della religione, una raffica di trenta e lode nelle discipline umanistiche. La legge ha chiuso per sempre le porte delle celle ma ha spalancato quelle dell’istruzione. Molto significativa la vicenda di Giuseppe Grassonelli, raccolta dal collega Carmelo Sardo fra le pagine di Malerba, un bel libro sul boss agrigentino di Porto Empedocle. Trascinato per la prima volta sull’isola di Pianosa il 15 novembre del 1992, sotto il materasso della sua branda ha trovato una copia di Guerra e pace. Ha cominciato a leggerlo e non riusciva a capire le parole, è scoppiato a piangere per disperazione. Per salvarsi dall’inferno del fine pena mai ha iniziato a studiare. Dopo quindici anni di isolamento la tesi: i moti rivoluzionari napoletani del 1799 e le “insorgenze” nelle province del Regno. La prima laurea in lettere, fra poco Grassonelli avrà anche la seconda in filosofia. È la rivoluzione culturale della mafia siciliana. Il pentito e la fisica quantistica - Un altro che quasi non sapeva mettere la sua firma è il famoso Gaspare Spatuzza, il mafioso palermitano che ha smascherato il falso pentito Vincenzo Scarantino e che con la sua confessione ha portato alla revisione del processo sulla strage di via D’Amelio. Oggi veste sempre di nero come i preti e nella sua libreria c’è Delitto e castigo, ci sono i volumi di filosofia di Giovanni Reale e Dario Antiseri, le dispense di Joe Dispensa sulla fisica quantistica. L’ultima volta che è stato avvistato fuori dal carcere era dalle parti di Misilmeri, un paese del palermitano dove insieme a un compare aveva fatto sparire un uomo nell’acido. Il suo complice raccontò ai magistrati ogni dettaglio dell’omicidio e di Spatuzza disse: “Subito dopo l’uccisione, Gaspare aveva fame e mi pregò di andare a comprare qualcosa, poi addentò un panino, con una mano mangiava e con l’altra arriminava”, con una mano teneva stretto il suo sandwich e con l’altra mano rigirava un mestolo di legno nella vasca dove stava sciogliendo il cadavere. Un passato macabro. A detta di tutti coloro i quali che conoscono i tormenti della sua prima vita, Gaspare è un’altra persona. Si è iscritto a lettere uno dei fratelli di Giovanni Brusca, Calogero. Si è iscritto ad agraria Antonio Tusa, che è il nipote del boss di Caltanissetta Piddu Madonia, si sono iscritti a medicina il mafioso di Niscemi Giancarlo Giugno e a giurisprudenza Carlo Marchese di Riesi. Nel carcere di Spoleto, dove stava scontando l’ergastolo per l’omicidio di un maresciallo, all’età di 72 anni si è laureato poco prima di morire anche Tommaso Spadaro, il “re della Kalsa” di Palermo. Era un ex contrabbandiere di sigarette, i boss lo avevano voluto nella famiglia di Porta Nuova per appropriarsi delle sue navi e dei suoi antichi contatti con la camorra. Don Masino, ovvero Tommaso Buscetta, ha mancato la lode per un soffio: “solo” 110. La sua tesi: “La concezione dell’uomo nel pensiero di Gandhi”. Ma cosa spinge i mafiosi, oltre alle restrizioni del 41 bis, a studiare forsennatamente? Gli esperti della materia ne sono convinti: ergastolo o non ergastolo, il popolo di Cosa Nostra è convinto che prima o poi tornerà libero. Qualche anno fa i giornali hanno dato con clamore la notizia di un trenta e lode conquistato dal corleonese Pietro Aglieri per il suo esame sulla storia del cristianesimo, a Rebibbia ha incassato anche i complimenti dei tre professori della commissione. Niente di particolarmente impegnativo per il più filosofo dei mafiosi siciliani, stratega di quella dissociazione “dolce” (pentirsi senza accusare nessuno) promessa all’allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna. In preda a una crisi mistica da quando era in piena attività, viveva in una tana dove aveva fatto costruire un altare e da ricercato riceveva le visite di un frate dell’ordine dei carmelitani scalzi. Aglieri aveva fatto sapere che, se un giorno si fosse mai costituito, non si sarebbe consegnato alla polizia ma all’arcivescovo di Palermo Salvatore De Giorgi. Un tipo così cosa avrebbe mai potuto leggere in latitanza se non tutte le opere di Edith Stein, la monaca filosofa tedesca che morì ad Auschwitz nel 1942? Un intellettuale mafioso ante litteram. Come quell’altro - se è vero ciò che gli viene attribuito - il famigerato Matteo Messina Denaro, l’imprendibile, protagonista di uno strepitoso scambio epistolare con l’ex sindaco di Castelvetrano Antonino Vaccarino, il proprietario di un cinema arrestato per traffico di stupefacenti. Agganciato dai servizi segreti, Vaccarino sotto lo pseudonimo “Svetonio” scriveva lettere a un misterioso “Alessio” che altro non era che Matteo. Dialoghi sull’esistenza, sull’etica, sulla politica. Con il boss trapanese che confessava all’interlocutore, immedesimandosi nel personaggio inventato dallo scrittore Daniel Pennac, “di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto”. Citava l’Eneide, ragionava su Toni Negri, giudicava Bettino Craxi “il miglior politico che ha avuto l’Italia”. E, dal suo punto di vista non a sproposito, ricordava in ogni lettera le parole di Jorge Amado: “Non c’è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica”. Una raffinatezza di pensiero che sbatte con la grossolanità di un Totò Riina, la primitività di un Leoluca Bagarella, il grottesco linguaggio di Provenzano nei suoi bigliettini agli amici: “Sendi, puoi dirci, ha tuo compare, che siamo entrati in primavera, e lui dovessi conoscere, la verdura nominata Cicoria, se potesse trovare, il punto dove la porta la terra questa cicoria, se potesse fare umpò di seme, quando è granata, e me la conserva? Ti può dire che la vendono in bustine, non è questa allo stato naturale che conosciamo, io volessi questa natura, io volessi il Seme”. Per questi messaggi ritrovati e la mania (o la necessità, per evitare pericolose intercettazioni telefoniche e ambientali) di imbrattare fogli, Provenzano si è persino attirato le malignità di Riina: “Il mio compaesano? Una brava persona, anche se è troppo scrittore”. La cultura però non sempre cambia l’uomo. Per esempio, Cesare Lupo, mafioso di Brancaccio e cognato dei boss Giuseppe e Filippo Graviano, mentre era rinchiuso a Catanzaro si è laureato all’università della Magna Grecia con una tesi su “Le estorsioni”. Voleva festeggiare il titolo di studio con lo champagne, il direttore del carcere gli ha concesso una Coca Cola. Lupo era un profondo conoscitore delle estorsioni tant’è che, appena scarcerato, è stato riarrestato dai poliziotti della squadra mobile di Palermo per lo stesso reato. Luciano Liggio e Socrate - Trent’anni dopo le stragi ce li ritroviamo tutti “dottori” i boss della Cosa Nostra. Chissà, forse avranno preso a modello il vecchio Luciano Liggio, il primo dei detenuti mafiosi ad avere in cella qualche libro. Ascoltato negli anni ‘70 dalla Commissione parlamentare antimafia, Liggio si vantò del suo sapere: “Ho letto di tutto, storia, filosofia, pedagogia. I classici. Ho letto Charles Dickens e Benedetto Croce”. E poi, facendo intendere che non avrebbe mai firmato una confessione, sussurrò sibillino: “Quello che ammiro di più però è Socrate, uno che come me non ha mai scritto niente”. Mattarella e il Csm, ultimatum alla magistratura italiana di Errico Novi Il Dubbio, 25 novembre 2021 Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Vanno sradicati accordi e prassi elusive di norme usate per stravolgere la legge elettorale dei togati”. Ci sono priorità assolute che non sfioriscono col trascorrere del semestre bianco. Sergio Mattarella ne ha una in particolare: assicurare la svolta nel travagliato cammino della magistratura. E se le settimane che separano il Presidente dalla conclusione del settennato rappresentano un cuscinetto troppo sottile, ieri Mattarella ha fatto capire che quel tempo così breve dovrebbe bastare per ottenere la riforma del Csm. O almeno l’approdo definitivo del nuovo sistema per eleggere i togati: perché non si può rischiare, ha avvertito, di “indire le elezioni per il rinnovo del Consiglio superiore con vecchie regole e con sistemi ritenuti da ogni parte come insostenibili”. Il Capo dello Stato ne parla in una cornice solenne e scelta non a caso: la Scuola superiore della magistratura, di cui si celebra il decennale. Scandisce: “Il dibattito sul sistema elettorale per i componenti del Consiglio superiore deve ormai concludersi con una riforma che sappia sradicare accordi e prassi elusive di norme”. È una frase pesante, che in poche battute riassume un quadro di indisturbati abusi corporativi. Mattarella ricorda che le vigenti “norme” per la scelta dei togati, seppur “poste a tutela della competizione elettorale”, in realtà sono state “talvolta utilizzate per aggirare le finalità della legge”. Cosa che, realizzata da chi, della legge, dovrebbe assicurare la corretta applicazione, non è proprio il massimo. Mattarella dice basta alla deriva correntizia - Le pieghe impietose del discorso presidenziale sono forse più aspre dei richiami rivolti da Mattarella al Csm già due anni fa, subito dopo il deflagrare del caso Procure. Anche perché l’evocazione di quelle “prassi elusive” chiarisce una cosa: la deriva correntizia, il mercato delle nomine, non sono un episodico eccesso degli ultimi due o tre anni, ma l’epifenomeno di una concezione distorta dell’autogoverno radicatasi per decenni. Subito la riforma del Csm - Non a caso, al cuore del suo discorso, Mattarella non solo definisce “non più rinviabile la riforma del Csm”, ma ricorda come “l’organo di governo autonomo, quale presidio costituzionale per la tutela dell’autonomia e indipendenza della magistratura” sia “chiamato ad assicurare le migliori soluzioni per il funzionamento dell’organizzazione giudiziaria, senza mai cedere a una sterile difesa corporativa”. È un monito che riguarda sì le logiche interne a Palazzo dei Marescialli, che vanno radicalmente cambiate, ma che segnala anche una questione più immediata: la rinuncia alla “sterile difesa corporativa”, per Mattarella, deve avvenire innanzitutto nelle discussioni che l’Anm e le sue correnti inscenano sulla riforma. Una litigiosità autoreferenziale che al Colle dev’essere sembrata incredibile. Non solo Mattarella, parlano anche la Cartabia ed Ermini - L’evento si tiene ieri mattina nella consueta sede della Scuola superiore: a Scandicci, nella villa di Castel Pulci. Intervengono anche le altre due figure istituzionali chiamate a dirimere le tensioni sulla riforma: la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il vicepresidente del Csm David Ermini. Entrambi puntano su un concetto: “La formazione del magistrato ne garantisce la legittimazione”, come dice il vertice di piazza Indipendenza. E la guardasigilli è altrettanto netta nel definire il percorso formativo un alleato “per il pieno recupero della credibilità e della fiducia nella magistratura”. Aggiunge: quel recupero è l’obiettivo “a cui tutti lavoriamo”. Dopo ieri, si può dare per assai probabile che gli attesi emendamenti di Cartabia al ddl sul Csm arrivino a brevissimo. Forse si voleva ottenere prima il via libera alla riforma del civile, per evitare sovrapposizioni: ma con la fiducia votata ieri a Montecitorio sulla legge delega per il nuovo processo, si può evidentemente passare al dossier magistrati. Un atto di coraggio - Il Capo dello Stato parla con estrema chiarezza. Forse anche alla politica: sa che cambiare il Csm implica un atto di coraggio. Definisce “indispensabile che la riforma venga al più presto realizzata, tenendo conto dell’appuntamento ineludibile del prossimo rinnovo del Consiglio superiore. Non si può accettare il rischio”, infatti, “di doverne indire le elezioni con vecchie regole e con sistemi ritenuti da ogni parte come insostenibili”. È urgente “rivitalizzare le radici deontologiche” della magistratura. “Le vicende registrate negli ultimi tempi”, avverte ancora il Presidente, “non possono e non devono indebolire l’esercizio della funzione giustizia, essenziale per la coesione di una comunità, attività svolta quotidianamente, con serietà, impegno e dedizione, negli uffici giudiziari. Se così non fosse, ne risulterebbero conseguenze assai gravi per l’ordine sociale e nocumento per l’assetto democratico del Paese. Ma occorre un ritrovato rigore”. È in gioco la democrazia. Spazio per sotterfugi, Mattarella non ne vede più. Csm, da Mattarella allarme per la riforma di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 25 novembre 2021 Giustizia. Il presidente malgrado lo scandalo Palamara e le dimissioni forzate di sei magistrati non ha sciolto il Consiglio superiore per aspettare le nuove regole. Ma il tempo passa, le elezioni per la prossima componente togata si avvicinano e la maggioranza ancora attende gli emendamenti annunciati dalla ministra Cartabia. Sergio Mattarella dà voce alle preoccupazioni che circolano nel triangolo Csm-parlamento-ministero della giustizia. Per l’iter parlamentare della riforma del Consiglio superiore della magistratura si sta facendo seriamente tardi. Travolto dallo scandalo Palamara, ma ancora in piedi per precisa volontà del presidente della Repubblica nonostante sei magistrati costretti alle dimissioni, il Csm vedrà il rinnovamento della sua componente togata nel luglio 2022. Mattarella tempo fa ha spiegato sarebbe stato inutile sciogliere l’organo in carica in assenza di una riforma che ne cambiasse organizzazione e soprattutto sistema di selezione. E ieri, visitando la scuola superiore della magistratura di Scandicci, il presidente della Repubblica ha lanciato l’allerta: “È indispensabile che la riforma venga al più presto realizzata, tenendo conto dell’appuntamento ineludibile del prossimo rinnovo del Consiglio”. Allo stato degli atti, il richiamo andrebbe rivolto alla ministra della giustizia, che ieri era accanto al capo dello Stato alla cerimonia di Scandicci. Perché è da lei che i partiti della maggioranza stanno aspettando le proposte che, così com’è stato per la riforma del processo penale e del processo civile, avranno la forma degli emendamenti al vecchio disegno di legge Bonafede (governo Conte due). La ministra, dicono da via Arenula, potrà concentrarsi sul Csm ora che, proprio oggi, con il voto finale sul processo civile, si conclude l’iter parlamentare delle riforme (che però sono in gran parte leggi delega) che il governo si era impegnato nel Pnrr a far approvare entro l’anno. In realtà Cartabia ci sta lavorando da tempo, addirittura dalla primavera quando ha insediato una commissione presieduta dal costituzionalista Luciani che ha presentato le sue proposte a giugno. Un mese fa, dopo alcune difficoltà, si è tenuto un primo vertice di maggioranza in via Arenula che non ha sbloccato la situazione. I nodi sono tutti nel Capo IV del vecchio testo Bonafede, dove ci sono le norme di immediata applicazione che riguardano il numero dei consiglieri del nuovo Csm (dovrebbero crescere a 30), la nuova organizzazione delle commissioni e del disciplinare, l’eventuale designazione dei componenti per sorteggio e soprattutto il nuovo sistema di voto per la componente togata. Tutte le soluzioni sono ancora in campo, salvo il sorteggio integrale che un tempo era un cavallo di battaglia dei 5 Stelle e adesso piace alla destra e a una piccola minoranza delle toghe. La proposta della commissione Luciani di un sistema proporzionale con tre macro collegi e il voto singolo trasferibile non piace alla corrente oggi più forte delle toghe (la destra di Mi) e ha pochi sostenitori tra i partiti, dove prevale la preferenza per un sistema maggioritario uninominale. “Non si può accettare il rischio di doverne indire le elezioni con vecchie regole e con sistemi ritenuti da ogni parte come insostenibili”, ha detto ieri Mattarella. Aggiungendo che la riforma deve “sradicare accordi e prassi elusive delle norme” ora che, dopo gli scandali, “occorre un ritrovato rigore” e “la magistratura è chiamata a rivitalizzare le proprie radici deontologiche, valorizzando l’imparzialità e l’irreprensibilità delle condotte individuali”. Ma il calendario avanza e, a questo punto, tra legge di bilancio ed elezione del presidente della Repubblica, la camera (dov’è incardinato il disegno di legge) non riuscirebbe comunque a dedicarsi agli emendamenti del governo (che questa volta non dovrebbero passare per il consiglio dei ministri) prima di febbraio-marzo. Dal Csm hanno spiegato che oltre maggio con l’approvazione non si può andare, perché alla riforma segue la necessità di cambiare i regolamenti del Consiglio. Ancora una volta l’unica possibilità per rispettare i tempi sarà quella di imbrigliare il parlamento: monocameralismo e tanti voti di fiducia. Indagini e carcere, serve più trasparenza sui dati di procura e ministero di Riccardo Polidoro Il Riformista, 25 novembre 2021 La trasparenza dovrebbe essere una delle prime regole di un Paese democratico. Quanto più il cittadino è informato, tanto più riesce a comprendere l’effettiva capacità di coloro che governano. Solo la piena e totale conoscenza di fatti e dati consente, nel momento di esprimere le proprie valutazioni, un giudizio incondizionato su coloro che hanno in mano le sorti della Nazione, i quali, a loro volta, non possono fare a meno di una conoscenza totale del campo specifico di azione dove sono chiamati ad operare, altrimenti il loro intervento sarà fallimentare o comunque parziale. Ciò vale sempre e, a maggior ragione, per la Giustizia penale il cui funzionamento incide in maniera determinante sulla vita di coloro - indagati, imputati o persone offese - che vengono coinvolti, e spesso travolti, nel suo incomprensibile meccanismo. Le Camere penali, da tempo, portano avanti la battaglia per una piena conoscenza dei dati che interessano il mondo giudiziario, con l’Osservatorio nazionale acquisizione dati giudiziari, e sono dovute intervenire, cifre alla mano, anche per smentire alcune fantasiose teorie, come quella che addossava la colpa della prescrizione dei reati alle istanze di rinvio degli avvocati. La recente interrogazione dell’onorevole Enrico Costa al Ministro della Giustizia Marta Cartabia ha nuovamente riaperto la ferita, mai suturata e sempre sanguinante, della mancata conoscenza o comunque di assenza di pubblicazione di dati fondamentali per comprendere l’andamento della Giustizia in Italia. Numeri che sono indispensabili per indirizzare in maniera efficace le modalità d’intervento, per ridare credibilità ad un sistema da tempo al collasso. Tra l’altro è stato chiesto in che percentuale le sentenze di appello riformano quelle di primo grado, dato significativo per comprendere - e far comprendere - l’importanza del secondo grado di giudizio. In che percentuale vengono accolte le richieste delle Procure della Repubblica, da parte dei giudici per le indagini preliminari, suddivise per reati e tipologia: richieste di misure cautelari, d’intercettazioni, di proroga indagini. Informazioni fondamentali per verificare come si concretizza l’intervento del giudice “terzo” dinanzi alle istanze dell’accusa. Esperienza insegna che una richiesta di proroga non viene mai negata, quasi mai quella d’intercettazioni, a volte quella di misure cautelari. Ma è evidente che occorrono numeri certi, per intervenire. Se si vuole. L’argomento dei dati giudiziari fa ricordare l’indagine sui braccialetti elettronici che l’Osservatorio Carcere Ucpi porta avanti da tempo (il 30 novembre prossimo, come ogni anno, vi sarà a Firenze la giornata dedicata a tale strumento di controllo) e che ha rivelato l’assoluta assenza di elementi essenziali per conoscere il numero di apparecchi disponibili e quello delle richieste avanzate dagli uffici giudiziari, nonché il numero di detenuti, pur destinatari della misura degli arresti domiciliari, rimasti in carcere per assenza del dispositivo. Manca del tutto, poi, una banca dati sulla qualità delle decisioni dei magistrati, in quanto il Ministero della Giustizia registra solo la loro quantità. Circostanza questa che comporta una disparità di trattamento che penalizza ingiustamente chi lavora con maggiore impegno. Invero lo stesso giudice non viene a conoscenza della riforma di un suo provvedimento, in quanto non è prevista alcuna notifica dell’atto riformato a colui che l’aveva redatto. Un grave errore di metodo che non contribuisce certo alla crescita culturale della stessa giurisdizione. Come poi non ricordare la totale assenza di trasparenza che regna sovrana nel sistema penitenziario. Certamente non dovuta a ragioni di sicurezza, ma solo a quell’idea mai del tutto rimossa, che il carcere è un mondo a parte, che non riguarda i liberi e non interessa i politici. Eppure se il dramma delle nostre prigioni fosse patrimonio comune, se la dirigenza del Paese e la cosiddetta “società civile” se ne occupasse in maniera attiva e concreta, non avremmo fatto altro che applicare i principi della Costituzione. Con l’ok di Cartabia parte il rimborso delle spese legali agli assolti. Costa: “Ha fatto giustizia” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 novembre 2021 La notizia è che la ministra Marta Cartabia ha dato il via libera al decreto attuativo attraverso il quale si adottano i criteri e le modalità di erogazione dei rimborsi delle spese legali per gli assolti. Ora manca solo la firma del ministro dell’Economia Daniele Franco. A segnalare il ritardo del provvedimento attuativo, che sarebbe dovuto arrivare già a febbraio di quest’anno, era stato proprio su questo giornale, due giorni fa, il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, autore dell’emendamento alla legge di bilancio 2020, approvato all’unanimità, che stanziava un fondo di 8 milioni annuali. Costa, dalle nostre pagine, si era rivolto proprio alla guardasigilli: “Mi appello a Lei e ai suoi nobili principi affinché possa dare una accelerazione all’emanazione del decreto attuativo”. Se non fosse arrivata la firma entro la fine dell’anno, i fondi per gli assolti sarebbero andati persi. “Ringrazio la ministra Cartabia - dice Costa - perché ha sbloccato una situazione che a livello di struttura non era risolvibile. Avendo avuto delle interlocuzioni con gli uffici ministeriali e avendo fatto atti di sindacato ispettivo, ero consapevole che senza il suo intervento si sarebbe protratta la fase di stallo: per questo mi sono rivolto direttamente a lei, quando mancava davvero poco alla scadenza massima dei termini. Ancora una volta - ci tiene a sottolineare il deputato - ho avuto la dimostrazione che sui principi e nel rapporto con il Parlamento possiamo contare sulla ministra. Non mi ero permesso prima di disturbarla per questa questione, perché credevo che si sarebbe risolta nella fisiologia dei lavori ministeriali”. Costa ci tiene a esprimere riconoscenza anche al nostro giornale: “Ringrazio anche il Dubbio che subito ha dato voce a questa mia urgenza, che poi non è solo la mia ma di tutte quelle migliaia di persone che ogni anno vengono trascinate in un calvario giudiziario e poi assolte. È stata una bella soddisfazione prendere atto che la ministra, nel giro di due giorni, si sia adoperata per una norma che apre uno spiraglio su un tema”. Comunque Costa continua la propria battaglia ed è già pronto a rilanciare, perché conferma che presenterà degli emendamenti all’attuale legge di bilancio per implementare il fondo: “Certo, se i decreti fossero stati emanati entro febbraio di quest’anno, quando ancora c’era il ministro Alfonso Bonafede, adesso, in base alle domande che sarebbero pervenute dai cittadini assolti, avremmo avuto maggiore contezza per chiedere un aumento della somma da poter stanziare”. Ora naturalmente quello che interessa sapere agli interessati è a quali condizioni, come e quando si potrà chiedere il rimborso delle spese legali. Costa infatti ci ha raccontato come siano molte le persone che lo hanno contattato per sapere quando avrebbero potuto procedere. In linea generale la legge prevede che, all’imputato assolto, con sentenza divenuta irrevocabile, perché il fatto non sussiste, perché non ha commesso il fatto o perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, è riconosciuto il rimborso delle spese legali nel limite massimo di euro 10.500. Ristoro che dovrebbe essere ripartito in tre quote annuali di pari importo, a partire dall’anno successivo a quello in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, e non concorrere alla formazione del reddito. L’avvocato, per ottenerlo, deve presentare la fattura, con espressa indicazione della causale e dell’avvenuto pagamento, corredata di parere di congruità del competente Consiglio dell’Ordine forense, nonché di copia della sentenza di assoluzione con attestazione di cancelleria della sua irrevocabilità. Il rimborso non è riconosciuto nei seguenti casi: assoluzione da uno o più capi di imputazione e condanna per altri reati; estinzione del reato per avvenuta amnistia o prescrizione; sopravvenuta depenalizzazione dei fatti oggetto di imputazione. Ora il decreto ministeriale dovrà chiarire diversi aspetti: può fare domanda solo colui che è assolto dal giorno dell’emanazione del decreto o anche chi è stato prosciolto prima? L’avvocato a quale organo deve presentare la domanda? Una risposta possiamo già darla: la scelta tra chi rimborsare sarà fatta attribuendo rilievo al numero di gradi di giudizio cui l’assolto è stato sottoposto e alla durata del giudizio. Il meccanismo di erogazione è difatti a rubinetto, ossia che va ad esaurimento, perciò era necessario emanare nel dettaglio i decreti di assegnazione. Giustizia, il Pd vuole cambiare la legge Severino di Liana Milella La Repubblica, 25 novembre 2021 “Stop alla sospensione dopo il primo grado per gli amministratori locali”. Dopo la proposta di ridurre la portata dell’abuso d’ufficio nuovo passo del Pd per “proteggere” governatori, sindaci, assessori. Firmano big dei dem come Rossomando, Parrini, Mirabelli, Bazoli, Giorgis e Ceccanti. Il 18 novembre era stato condannato a 1 anno e 4 mesi e costretto a sospendersi il primo cittadino di Reggio Calabria Falcomatà. Il Pd si schiera con gli amministratori locali. Un mese fa una proposta per eliminare quasi del tutto gli effetti dell’abuso d’ufficio. Adesso via anche gli articoli 8 e 11 del decreto legislativo Severino del 2012 che rendono obbligatoria la sospensione dalla carica per sindaci, governatori, assessori che abbiano subito una condanna in primo grado. A meno che non si tratti di reati gravi. A provocare l’ultima mossa sicuramente l’avvenuta sospensione del sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà, che nel settembre 2020 ha vinto le elezioni guidando una coalizione di centrosinistra, e che è stato appena condannato a 1 anno e 4 mesi proprio per abuso d’ufficio per l’affidamento di palazzo Miramare a un’associazione guidata da un imprenditore che gli avrebbe concesso i suoi locali per la campagna elettorale. Con nomi di spicco del Pd - tra i senatori la responsabile Giustizia Anna Rossomando, Dario Parrini, che ha firmato anche la proposta sull’abuso d’ufficio, Franco Mirabelli, e i deputati Alfredo Bazoli e Stefano Ceccanti e l’ex sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, oggi coordinatore del comitato riforme istituzionali del partito - ecco sul tavolo una mini legge di un solo articolo che però va letta in chiave filo sindaci e amministratori locali. Perché per il Pd, dopo una condanna in primo grado, quindi non definitiva, non è giusto sospenderli dalla carica, ma devono restare al loro posto, in attesa che si arrivi, se ci si arriva, al terzo grado di giudizio e quindi alla condanna definitiva. In mezza pagina il Pd taglia corto su una questione - quella della sospensione degli amministratori locali - che ormai da nove anni è un vero tormentone. Perché chi vuole abrogare la norma sostiene che vi è un contrasto rispetto alla stessa legge Severino che impone la decadenza per uomini di governo e parlamentari italiani ed europei che però siano stati condannati in via definitiva a più di due anni. Fino a oggi polemiche e rimostranze non avevano sortito effetti, né erano riuscite a raggiungere l’obiettivo di cambiare le regole della legge firmata dall’ex ministro della Giustizia Paola Severino e dall’ex ministro per la Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi. Il Pd adesso “ascolta” la voce dei sindaci. Scrive nella sua proposta che la legge Severino, “che intende far convergere anche il nostro Paese su rigorosi standard in materie comuni alle altre principali democrazie, appare ancora attuale”. Proprio per questo i Dem sostengono che uno dei sei referendum radical-leghisti, per cui in Cassazione sono giunte solo le richieste dei Consigli regionali e non le firme raccolte dal partito di Salvini, che chiede l’abrogazione totale della legge Severino, “non appare convincente”. Ma secondo senatori e deputati Pd è “un dato obiettivo che le disposizioni contenute nel testo siano tra loro disomogenee”. Proprio perché sono frutto di “una scelta ragionevole” quelle che riguardano la decadenza dei parlamentari italiani ed europei, mentre non lo sarebbero quelle sugli amministratori locali. “Sulla base della casistica degli ultimi anni - sostengono i Dem - è emerso un problema oggettivo di bilanciamento tra lotta all’illegalità da una parte e salvaguardia dell’efficienza e della stabilità delle amministrazioni dall’altra”. Sospesi dopo la condanna di primo grado, in alcuni casi gli amministratori locali hanno ottenuto un’assoluzione in Appello. Da qui la richiesta del Pd, che sicuramente farà discutere proprio in vista del referendum, di cercare “un opportuno e nuovo bilanciamento che rispetti parimenti le esigenze di legalità e il principio di garanzia costituzionale di cui all’articolo 27 della Costituzione”. Quello che recita al secondo comma: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. C’è da dire che la legge Severino, fino a oggi, è sempre uscita indenne dai pur numerosi ricorsi presentati davanti alla Corte costituzionale. La giornata delle donne contro la violenza di genere di Adriana Pollice Il Manifesto, 25 novembre 2021 Sabato corteo nazionale a Roma. Non una di meno: “Governo immobile rispetto alla popolazione femminile che più di tutti ha pagato la pandemia”. Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. La risoluzione 54/134 del 1999 dell’Onu recita: “Si intende per violenza contro le donne qualsiasi atto di violenza di genere che si traduca o possa provocare danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, comprese le minacce, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia che avvengano nella vita pubblica che in quella privata”. La data è stata scelta per ricordare la storia delle tre sorelle Mirabal, attiviste che lottavano contro la dittatura del generale Trujillo. Il 25 novembre del 1960 nella Repubblica Dominicana furono bloccate dai militari: stuprate, torturate e strangolate, furono gettate in un precipizio per simulare un incidente. Le manifestazioni in giro per l’Italia per mettere al centro del dibattito la violenza di genere proseguiranno fino a domenica. A Roma oggi un’iniziativa in Senato con le parlamentari di vari gruppi, la Women orchestra, l’attrice Claudia Gerini e la cantautrice Grazia Di Michele. Palazzo Montecitorio si illumina di arancione, il ministero dell’Istruzione di rosso. Manifestazione nazionale sabato nella Capitale (partenza da piazza della Repubblica alle 14) indetta da Non una di meno, che accusa il governo di immobilismo nei confronti delle donne, che più di tutti hanno subito la pandemia. Ancora a Roma, oggi, all’università La Sapienza alle 12 presentazione dei dati dell’Osservatorio nazionale su femminicidi e transcidi a cura di Non una di meno nazionale. Quindi “El violador eres tu!”, flashmob a piazzale Aldo Moro e, a seguire, passeggiata rumorosa per l’università. A Bologna oggi alle 9 un drappo rosso e un paio di scarpe rosse saranno posizionati nel cortile d’onore di Palazzo d’Accursio, in una delle sedute di pietra, alla presenza della vicesindaca. Quattro panchine rosse saranno inaugurate nel giardino Lorusso (via dello Scalo). Alle 17 presso la Sala Consiliare di Castenaso ci sarà la posa simbolica delle scarpe rosse; il comune inoltre inaugurerà una panchina rossa nell’area verde presso il nuovo comparto abitativo di via Bulgarelli. All’Università di Bologna dalle 8.30 alle 18.30 presso l’aula Giorgio Prodi il seminario “Donne in movimento e salute mentale”: una maratona di testimonianze sulla resilienza delle donne. A Reggio Emilia la Cgil ha indetto per domani un flash mob dedicato in particolare a Juana Cecilia Hazana, uccisa la scorsa settimana dall’ex compagno in un parco della città. Alle 17 piazza Martiri del 7 Luglio sarà riempita simbolicamente da uomini e donne vestiti di rosso e nero: verranno lette testimonianza di donne vittime di violenza. A Ravenna sabato prossimo flash mob al maschile e corteo dalla sede di CittAttiva a piazza del Popolo. A Firenze il Museo Novecento oggi propone testimonianze in versi di Anna Achmatova, Sylvia Plath, Antonia Pozzi e Anne Sexton. Il reading teatrale “Ho letto che l’anima è immortale”, a cura del gruppo INuovi, accompagnerà i visitatori negli spazi della mostra di Jenny Saville. Alla Biblioteca delle Oblate si inaugura l’esposizione “Com’eri vestita?” legata alla campagna di Amnesty international “IoLoChiedo: il sesso senza consenso è stupro”. A Torino la facciata del Consiglio regionale è illuminata di rosso. L’Università statale di Milano oggi propone l’incontro “La violenza contro le donne. Spunti per un dibattito nazionale e sovranazionale” partecipano Eva Cantarella e Lorenza Violini. Sempre alla Statale dibattiti su “Discriminazioni di genere e lavoro: criticità, sviluppi e prospettive” e “La condizione della donna nel diritto privato tra Medioevo e prima età moderna”. A Napoli oggi un convegno per raccontare i dieci anni di attività della Casa di accoglienza per donne maltrattate Fiorinda. Le sedi campane della Cgil saranno illuminate di rosso per ricordare le 109 le donne uccise da un uomo dall’inizio dell’anno, 8 finora in regione. A Lamezia Terme oggi pomeriggio sit in di Non una di meno davanti l’edificio scolastico. A Palermo sabato mattina in viale regione Siciliana verrà inaugurata una panchina rossa in memoria di Lia Pipitone, uccisa nel 1983 dalla mafia con il benestare del padre per una presunta relazione extra coniugale. Domenica alle ore 18.30 ai Cantieri Culturali alla Zisa va in scena lo spettacolo “Dalla finestra…” da un’idea di Veronica Bonaceto, Angela Chiazza e Cristina Sbacchi. Oggi a Cagliari inaugurazione di una panchina rossa nel Parco di Monte Claro. Oltre il 25 novembre: occorre cambiare la cultura per prevenire i soprusi contro le donne di Antonella Veltri* Il Dubbio, 25 novembre 2021 I casi non vanno considerati come un atto privato, ma come fenomeno strutturale. Oggi leggerete, oltre a questo mio, sicuramente tanti altri articoli sulla violenza contro le donne. Ascolterete e vedrete reportage, inchieste, interventi di ministri, sindaci, assessori. Magari parteciperete a dibattiti, e sarete in piazza con noi a Roma il 27 novembre per la manifestazione Non Una Di Meno. Dichiarazioni di indignazione, di impegno, annunci di iniziative: tutto un popolo che dice a gran voce che la violenza maschile contro le donne deve finire, e che d’ora in poi tutto questo cambierà. Le stesse parole che sentiamo a ogni femminicidio - 109 dall’inizio dell’anno - quando la cruda realtà ci confronta con il fatto che le donne continuano a subire violenza per mano del loro partner, dell’ex partner o di un familiare nell’ 82,3 per cento dei casi (dati D. i. Re 2020). Sono quasi sempre mariti, fidanzati o ex gli uomini che le uccidono. Le stesse parole che ci sentiamo risuonare nelle orecchie quando ci rendiamo conto che del reddito di libertà tanto decantato potranno usufruire solo 625 donne: sempre che riescano a presentare la domanda attraverso i servizi sociali entro il 31 dicembre. Perché i fondi a disposizione sono solo 3 milioni di euro. Oppure quando calcoliamo che i 30 milioni previsti dal Piano nazionale antiviolenza per centri antiviolenza e case rifugio, e resi finalmente misura strutturale nel bilancio dello Stato, si traducono in appena 60 euro investiti per ognuna delle circa 50 mila donne che trovano supporto in uno dei 302 centri antiviolenza accreditati dalle Regioni, secondo le stime dell’Istat ferme al 2018. Questo, a fronte di percorsi che, nei centri antiviolenza della rete D. i. Re, comportano in media 82 ore di colloqui con le operatrici, a cui si aggiunge il supporto legale, quello psicologico e, nei casi a maggior rischio, la protezione in casa rifugio. Di fronte alla tragedia di Sassuolo, in cui un uomo ha sterminato la moglie, i figli e la suocera, o all’annuncio della morte del piccolo Matias, sgozzato dal padre che non avrebbe dovuto avvicinarsi a più di 500 metri alla casa dove viveva con la madre per le violenze a cui sottoponeva la donna, restiamo mute. E sentiamo rimbombare nella testa le tante parole che il 25 novembre sono e saranno pronunciate. Ma la realtà rimane la stessa. Perché si continua a considerare la violenza maschile contro le donne come un evento isolato, un fatto privato, e non come fenomeno strutturale radicato nella cultura patriarcale che determina la disparità di potere tra uomini e donne, un problema che deve essere invece pubblico. Poi ci siamo noi. Le oltre 3.000 operatrici, attiviste, avvocate, psicologhe, educatrici, attiviste dei centri antiviolenza della rete D. i. Re. E le oltre 20.000 donne che accogliamo ogni anno e che supportiamo in percorsi di fuoriuscita dalla violenza e in procedimenti legali - presso i tribunali penali, civili e per i minorenni - che spesso, anziché liberarle dalla violenza in tempi accettabili per consentire loro di ricostruire la propria vita, si trasformano nel calvario della vittimizzazione secondaria. Le leggi ci sono. Ma continuano a essere interpretate e applicate senza tener conto del dettato della Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013 e in vigore dal 2014. Nelle decisioni adottate dai tribunali civili e per i minorenni, la Convenzione di Istanbul non è mai citata come riferimento normativo, come ha rilevato l’indagine “Il (non) riconoscimento della violenza domestica nei tribunali civili e per i minorenni”, condotta tra le avvocate dei centri antiviolenza della rete D. i. Re, e non viene quasi mai fatta la valutazione del rischio. Anche nelle due indagini della Commissione femminicidio del Senato - quella sulla violenza domestica nel sistema giudiziario e quella sul femminicidio presentata ieri - emerge con chiarezza come la violenza maschile contro le donne sia sottovalutata, i maltrattamenti derubricati a liti in famiglia equiparando la donna che subisce violenza all’uomo che la agisce, gli ordini di protezione applicati poco e senza verificarne con costanza il rispetto. È evidente dunque che qualcosa non va. Manca, come D. i. Re dice da tempo, la formazione specializzata di tutti gli attori che intervengono sulla violenza per contrastarla, per prevenirla, per supportare efficacemente le donne che cercano di liberarsene. Una formazione che non può essere limitata solo all’illustrazione delle norme. Quello che serve, ora, subito e in maniera continuativa, è una formazione che cambi la percezione e la comprensione del ciclo della violenza e del suo impatto sulle vittime, e che renda consapevoli degli stereotipi e pregiudizi che condizionano non solo lo sguardo, ma anche atti e procedure messi in campo quando le donne si rivolgono alle istituzioni per dire basta. Occorre far propria una lettura della violenza maschile contro le donne che la riconnetta al contesto culturale e sociale in cui siamo immersi, una conoscenza che non può prescindere dal coinvolgimento delle esperte dei centri antiviolenza che questa conoscenza l’hanno costruita in oltre 30 anni di lavoro. Solo così può cambiare la cultura. E solo cambiando la cultura si può prevenire la violenza e la vittimizzazione secondaria. D. i. Re ha contribuito al corso online Never Again, sulla vittimizzazione secondaria nel contesto della violenza contro le donne, che è accreditato dal Consiglio Nazionale Forense. C’è tempo per iscriversi fino al 30 novembre (www.vittimizzazionesecondaria.it). Un atto concreto, al di là delle parole di questo 25 novembre 2021. *Presidente di D.i.Re. Come si rappresenta il femminicidio nei tribunali italiani di Alessandra Pigliaru Il Manifesto, 25 novembre 2021 25 novembre. Intervista ad Alessandra Dino, docente di sociologa all’Università di Palermo, che ha condotto un’analisi qualitativa su 370 sentenze. “Il problema è quello di una scelta arbitraria fra la dimensione del malinteso spirito di possesso e quella della gelosia; quando c’è quest’ultima i futili motivi non sono spesso concessi”. Nell’ambito degli omicidi volontari di donne andati a giudizio, la lettura delle sentenze consente un’analisi non solo rispetto ai numeri ma anche per ciò che riguarda la qualità di ciò che viene dichiarato. Di dati, tabelle e comparazioni, si è occupata Alessandra Dino, sociologa all’università di Palermo, che ha condotto insieme alla sua unità di ricerca uno studio prezioso su 502 sentenze, selezionandone 467, infine fermandosi a 370. Ne dà conto nel volume Femminicidi a processo. Dati, stereotipi e narrazioni della violenza di genere (Meltemi) ma il lavoro sta proseguendo. “Dalla lettura si possono confermare alcuni punti”, ci riferisce Dino, “ad esempio che la maggior parte dei femminicidi avviene all’interno di una relazione di coppia ancora in atto, quasi come se la donna debba preoccuparsi di più del partner che ha accanto che non di quello che ha lasciato”. Le sentenze possono essere lette come dei testi condizionati da un immaginario culturale che risponde, oltre che all’applicazione della norma, al modo e alla qualità di chi le compone. Quali sono le insidie sulla rappresentazione delle donne uccise? L’esito non è omogeneo, la lettura di queste pagine di sentenze ci consegna però una miniera di scenari che, a parte l’incipit e il verdetto, consente di verificare, nella cosiddetta “parte molle” cioè nelle motivazioni, quel che ogni giudice e ogni Corte può scrivere, utilizzando registri differenti: drammatico-passionali, logico-deduttivi, più legati ai precedenti penali. Le narrazioni interne sono completamente diverse e si possono leggere quasi come un atto teatrale, personaggi e interpreti di cui la regia è il collegio giudicante che utilizza di volta in volta, ibridandoli, linguaggi presi dalla giurisprudenza ma anche dalla psichiatria, dalla psicologia e da tutti quei saperi esperti di cui si servono per elaborare la sentenza stessa. Un esempio è la psicologizzazione dell’autore come affetto da qualche patologia psichica, mentre solo nel 7,8% è stata rinvenuta una psicosi grave. Quali altri elementi possono essere sollevati? Sono diversi. L’efferatezza, cioè nella maggior parte dei casi abbiamo l’utilizzo di armi da taglio, oggetti contundenti, aggressione fisica. Si fa ricorso alle armi da fuoco solo nel 15% dei casi (tra gli italiani). Altro aspetto importante è il luogo del delitto che coincide spesso con l’abitazione della vittima, del femminicida o di entrambi. A proposito delle motivazioni troviamo, nel 44% circa, femminicidi che i giudici definiscono come sentimentali, per rifiuto abbandono gelosia, oppure relazionali, per possesso. Ci sono poi uccisioni per motivi economico-strumentali, mentre il resto (un 10% circa) sono i cosiddetti femminicidi per patologia mentale e altruistici, ovvero l’uccidere una donna, la propria compagna, madre eccetera, perché ha una patologia e non la si vuol far più soffrire. Soltanto nel 25% dei casi l’omicida ha precedenti penali generici e solo il 6% di essi riguardano reati di violenza contro la vittima, nel 37% dei casi ci sono invece violenze pregresse contro la vittima, denunciate o meno, da cui si evince la continuità. Sulla nazionalità, abbiamo un 25% di vittime e autori di reato che sono stranieri con una rappresentanza più rilevante da chi proviene dall’est europeo. Riguardo le pene comminate abbiamo notato delle ricorrenze (pregiudiziali?) tra la pena e la nazionalità, sia in primo che in secondo grado: quelle verso gli stranieri sono più severe. Quali aspetti concorrono a mantenere o a rompere i pregiudizi? Il problema è quello di una scelta piuttosto arbitraria, compiuta dai giudici, fra la dimensione del malinteso spirito di possesso e quella della gelosia; quando c’è quest’ultima i futili motivi per esempio non sono spesso concessi. Parto da una premessa perché al momento mi sto occupando di un caso di femminicidio piuttosto paradigmatico andato a giudizio nel 2015 a Palermo; in questo caso, il delitto viene chiamato esplicitamente femminicidio perché, scrive il giudice nella sentenza di secondo grado, il termine è mutuato dal linguaggio giornalistico. E, aggiunge, che lo fa per mettere in evidenza la relazione di possesso e il senso di dominio che l’uomo esprime nei confronti della donna. Anche in questo caso virtuoso in cui si nomina ciò che è accaduto per quel che è, il collegio giudicante non riconosce all’assassino la premeditazione e parla invece di dolo d’impeto per segnalare che il motivo che lo ha spinto a quel gesto è stato il “sentirsi sbeffeggiato dalla donna”. L’altro caso che viene in mente è quello di una donna incinta che viene strangolata con un laccio; da ciò che l’autore dichiara emerge una gelosia soffocante da parte di lei, una continua vessazione in nome di un malinteso legame affettivo per poi concludere che quanto all’aggravante per futili motivi la Corte osserva come “l’imputato sia stato indotto ad agire da un sincero e profondo amore verso la vittima, motivo di per sé non futile e non espressivo di un’indole malvagia o depravata ovvero di un malinteso spirito di possesso”. Il processo di vittimizzazione secondaria sta nella descrizione della vittima che molto spesso viene vista come ondivaga, fragile, quando non si evidenzia la sua condotta sessuale disinibita all’origine del gesto. Riguardo la vittimizzazione secondaria nella rappresentazione interna ai tribunali, i centri antiviolenza Di.Re. stanno procedendo con l’osservatorio sul tema in cui indicano l’aspetto della cosiddetta sindrome da alienazione parentale. Crede che anche questo faccia parte della narrazione di cui lei parla presente anche nelle perizie esterne? L’argomento dell’affidamento del minore è di grande rilevanza là dove molto spesso c’è la possibilità di un affidamento congiunto anche in casi di violenza. Nella sentenza di cui mi sto occupando adesso, nonostante l’imputato venga condannato a 30 anni con rito abbreviato, quando viene descritto l’iter della relazione, là dove la donna aveva denunciato il compagno per ripetute vessazioni (per esempio aveva perso temporaneamente la vista a causa delle bastonate infertele) siccome spesso ritirava le denunce, il figlio era stato affidato a lui. La Corte segnala che gli Uffici della Procura non avevano “sufficientemente attenzionato” il caso e formula precise accuse di nei confronti dei Servizi Sociali il cui impegno è definito “grandemente insufficiente e spesso negligente”, ponendo quasi sullo stesso piano il comportamento della vittima e del suo assassino in un gioco di reciproche accuse. Solo il giorno prima di essere uccisa la donna aveva ottenuto la possibilità di trasferimento in comunità insieme a suo figlio di tre anni, che poche ore dopo ha assistito alla uccisione della propria madre. “Il detenuto ha diritto all’indennità di disoccupazione”. La sentenza del giudice del lavoro di Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 25 novembre 2021 Una decisione che farà giurisprudenza per i casi analoghi. Il giudice del Lavoro di Padova ha dato ragione a un detenuto del Due Palazzi, di origini tunisine, che dopo aver svolto per diversi mesi nel 2019 un’attività lavorativa in favore dell’amministrazione penitenziaria, alla fine aveva presentato domanda all’Inps al fine dell’ottenimento dell’indennità di disoccupazione (Naspi), vedendosela respingere. Per questo motivo, con il sostegno di Inca Cgil e Cgil Padova, il detenuto ha deciso di ricorrere al tribunale contro ciò che riteneva un abuso. E il giudice gli ha dato ragione. Il ricorso presentato dagli avvocati della Cgil ha puntato sul fatto che il detenuto, che lavorava per conto di una cooperativa, aveva diritto allo stesso trattamento degli altri dipendenti, che infatti avevano potuto accedere all’indennità. E invece l’Inps aveva rifiutato il contributo al carcerato perché lo classificava come un dipendente del ministero di Giustizia. Altri tre detenuti stanno affrontando lo stesso iter giudiziario e potrebbero aver presto ragione. Sono una quarantina i dipendenti della coop che lavorano all’interno del carcere a cui è stata negata l’indennità, e che ora potrebbero ricorrere. Il tunisino era assistito dall’avvocato Marta Capuzzo, mentre la vicenda è stata seguita dall’inizio dallo sportello Inca all’interno del Due Palazzi. “All’origine di tutto - dice Antonella Franceschini, direttrice dell’Inca Cgil Padova - c’è il messaggio Inps del 2019 con il quale l’Istituto, informava che i detenuti dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria non hanno diritto alla Naspi. Una situazione in cui si trovava il ricorrente che aveva lavorato come addetto alla distribuzione dei pasti. Si badi bene, che se invece di lavorare direttamente per il carcere, avesse lavorato per conto di una delle cooperative che operano all’interno del Due Palazzi, la Naspi gli sarebbe stata riconosciuta. Secondo l’Inps, la sua posizione era del tutto simile a quella di qualsiasi dipendente del Ministero che non ha diritto alla Naspi”. “Consideriamo questa sentenza - aggiunge Sergio Palma della Cgil - la conferma del pieno riconoscimento di un diritto, e cioè che il lavoro deve valere sempre in termini etici, morali ed economici indipendentemente se lo si svolge dentro o fuori un istituto di pena. È veramente assurdo da un lato, da parte dell’Inps, parificare il detenuto lavoratore a qualsiasi altra persona dipendente a tempo indeterminato del Ministero di Giustizia e, allo stesso tempo, negare qualsiasi equiparazione con i detenuti che lavorano per datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria. Una differenza di trattamento che il giudice del Lavoro, nella sua sentenza peraltro molto articolata, è riuscito a smontato pezzo per pezzo”. Padova, accolto il ricorso di un detenuto a cui l’Inps aveva negato il diritto alla Naspi collettiva.it, 25 novembre 2021 Inca e Cgil provinciali: “Vittoria! Il Tribunale ci ha dato pienamente ragione sul primo dei quattro ricorsi che abbiamo presentato a favore di altrettanti detenuti a cui l’Inps ha negato l’indennità di disoccupazione che avevano maturato con il loro lavoro. Almeno una cinquantina i detenuti nella medesima situazione” “Per questo motivo (il Tribunale del Lavoro di Padova) accoglie il ricorso ed accerta il diritto del ricorrente alla Naspi (…) e condanna l’Inps a rifondergli le spese di giudizio (…)”. È con queste parole che si conclude la Sentenza n 603/2021 con la quale il giudice Roberto Beghini del Tribunale del Lavoro di Padova, circa una decina di giorni fa, ha dato pienamente ragione ad un detenuto di origine tunisine che dopo aver svolto per diversi mesi, nel corso del 2019, un’attività lavorativa in favore dell’amministrazione penitenziaria, una volta cessata, aveva presentato domanda all’Inps al fine dell’ottenimento dell’indennità di disoccupazione (Naspi) vedendosela respingere, motivo per cui, con il sostegno di Inca Cgil e Cgil Padova, aveva deciso di ricorrere al tribunale contro ciò che riteneva un abuso. E il giudice gli ha dato ragione. “All’origine di tutto - dice Antonella Franceschin, direttrice dell’Inca Cgil Padova - c’è il messaggio Inps n 909 del 2019 con il quale l’Istituto informava che i detenuti dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria non hanno diritto alla Naspi. Una situazione in cui si trovava il ricorrente che aveva lavorato come addetto alla distribuzione dei pasti. Si badi bene, che se invece di lavorare direttamente per il carcere, avesse lavorato per conto di una delle cooperative che operano all’interno del Due Palazzi, la Naspi gli sarebbe stata riconosciuta. Secondo l’Inps, la sua posizione era del tutto simile a quella di qualsiasi dipendente del Ministero di Grazia e Giustizia che in quanto tale non ha diritto alla Naspi. A noi sembrava una evidente forzatura per cui, di comune accordo con la segreteria confederale della Cgil, abbiamo deciso di “accompagnare” alcuni detenuti, per la precisione 4, nei loro ricorsi. Questa è la prima sentenza che ci arriva e ci conforta, considerato che le altre tre situazioni sono praticamente uguali. Ma al Due Palazzi saranno almeno una cinquantina i detenuti a cui è stata negata la Naspi dopo aver lavorato per l’amministrazione penitenziaria”. “Siamo ottimisti - conclude la direttrice dell’Inca Cgil di Padova - sull’esito finale, anche perché ci sono state altre sentenze simili in Lombardia, contro cui l’Inps ha deciso di ricorrere in Cassazione. Per capire se e quando procederanno con i pagamenti toccherà attendere l’esito di questi ricorsi. Intanto però voglio pubblicamente ringraziare l’Avvocata Marta Capuzzo dello Studio Legale Moro per questo ennesimo ottimo risultato e Graziano Boschiero, dello sportello Inca all’interno del Due Palazzi che ha seguito fin dall’inizio la vicenda”. “Consideriamo questa sentenza - interviene Palma Sergio della segreteria confederale della Cgil di Padova - la conferma del pieno riconoscimento di un diritto, e cioè che il riconoscimento del lavoro deve valere sempre in termini etici, morali ed economici indipendentemente se lo si svolge dentro o fuori un istituto di pena, come in questo caso. Veramente assurdo da un lato, da parte dell’Inps, equiparare il detenuto lavoratore a qualsiasi altro lavoratore dipendente a tempo indeterminato del ministero di Grazia e Giustizia e, allo stesso tempo, negare qualsiasi equiparazione con i detenuti che lavorano per datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria. Una differenza di trattamento che il giudice, nella sentenza, ha smontato pezzo per pezzo riconoscendo, peraltro, assolutamente infondata la pretesa da parte dell’Inps di negare l’involontarietà della disoccupazione data la cessazione del rapporto di lavoro con la fine della detenzione. Un’evidente alterazione della realtà, dal momento che, come è stato scritto nella sentenza, non è certamente il detenuto a scegliere quando essere rimesso in libertà e quindi non dipende certo da lui la fine del rapporto di lavoro”. Milano. “Riabilitare i detenuti, a Bollate la sfida è vinta” di Roberta Rampini Il Giorno, 25 novembre 2021 L’ex direttore del carcere Luigi Pagano: “Abbiamo soltanto provato ad applicare l’articolo 27 della Costituzione”. Compie vent’anni il carcere di Bollate, seconda casa di reclusione del capoluogo lombardo e ancora oggi unica in Italia per il trattamento avanzato dei detenuti: celle aperte e decine di progetti di recupero sociale e lavorativo dei detenuti. “Non abbiamo inventato niente di nuovo, in realtà abbiamo applicato il comma 2 dell’articolo 27 della nostra Costituzione: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, commenta Luigi Pagano, che, già direttore di San Vittore, è stato il primo direttore di Bollate. Secondo una ricerca il carcere aperto abbatte la recidiva dal 70% al 17%. A distanza di vent’anni si sente di dire che il modello funziona? “Faccio una premessa: non credo molto alle statistiche. O meglio, bisogna considerare tante variabili, come per esempio il periodo di riferimento, il tipo di detenuto e di pena. Mi sento di dire che il modello Bollate funziona, non perché abbatte la recidiva, ma perché si basa sul rispetto della dignità della persona, perché è impostato sulla rieducazione del detenuto, lo responsabilizza e lo riabilita. Era quello che volevamo quando lo abbiamo immaginato vent’anni fa”. Nel 2000 la sperimentazione pensata è stata condivisa da tutti? “L’obiettivo era quello di restituire la dignità negata, presentammo il progetto in un convegno, si parlava di ridurre la permanenza dei detenuti nelle celle lasciando loro la libertà di muoversi nel reparto e nel carcere per partecipare alle attività. Era una sfida, perché questo modello organizzativo richiedeva fatica da parte di tutti, anche dei detenuti che non erano considerati soggetti passivi ma attivi, della polizia penitenziaria che era chiamata a un ruolo di custodia diverso. I fatti ci hanno dato ragione”. C’è un altro fattore che è stato fondamentale per il modello Bollate? “Sicuramente l’apertura verso l’esterno, il territorio, le associazioni, gli enti locali e le imprese. I rapporti di collaborazione sono stati importanti per abbattere le barriere culturali e creare legami con chi stava fuori”. Immagino che abbia molti ricordi, ce n’è qualcuno che vuole condividere? “Sicuramente l’apertura del call center, poi la scuola di informatica avviata da Lorenzo Lento per i detenuti, ma anche l’esperienza di Pino Cantatore, ergastolano che dopo aver vissuto un percorso di formazione professionale in carcere ha fondato la cooperativa Bee4 che dà lavoro a un centinaio di detenuti”. Cosa augura al carcere di Bollate? “Oggi dopo vent’anni è necessario stabilizzare il modello affinché non degradi, perché se è vero che il momento creativo e la follia sono stati l’input iniziale ora bisogna normalizzare il sistema con la stessa tenacia del 2001”. L’Aquila. Ingiusta detenzione, Petrilli ricevuto da Bazoli (Pd) Il Centro, 25 novembre 2021 L’aquilano Giulio Petrilli, che da anni si batte per affermare la necessità dei risarcimenti dopo l’ingiusta detenzione, è stato ricevuto nei giorni scorsi dal capogruppo del Partito democratico in commissione giustizia Alfredo Bazoli. “Avevo chiesto alla deputata Serracchiani, capogruppo alla Camera del Pd”, scrive Petrilli, “di intercedere per la possibilità di un incontro e così è stato. L’incontro serviva per analizzare il perché ogni anno il 77% delle domande per il risarcimento da ingiusta detenzione viene rigettato. Un dato molto alto di persone assolte che si vedono rifiutare il risarcimento perché magari si sono avvalse nel primo interrogatorio della facoltà di non rispondere o perché, secondo i giudici, con le loro frequentazioni o comportamenti avrebbero tratto in inganno gli inquirenti. Ho fatto notare a Bazoli che solo in Italia esiste una norma che consente al giudice di valutare la personalità e i comportamenti di una persona e concedere il risarcimento non guardando esclusivamente la sentenza definitiva di assoluzione, bensì stabilendo un giudizio morale. La mia battaglia proseguirà anche in sede europea”. Bologna. 25 novembre, un film sulle donne detenute della Dozza di Ambra Notari redattoresociale.it, 25 novembre 2021 Diretto da Licia Ugo, ripercorre le attività di volontariato di Udi Bologna nella sezione femminile del carcere bolognese: “Volevo raccontare il significato dell’essere donna oggi e dell’essere donna oggi in carcere. Il tema della violenza di genere era il filo rosso che correva sotterraneo”. Una scelta precisa: trasformare in un docufilm il lavoro di volontariato svolto nella sezione femminile del carcere della Dozza dalle volontarie Udi, l’Unione donne italiane, della sezione di Bologna. Un’opera per riflettere, per accendere una luce su un tema dimenticato dai più su donne pressoché invisibili. Un’occasione per aprire dibattiti nelle scuole e nei centri sociali, non una limitata descrizione di ciò che accade nell’istituto penitenziario. Sono queste le motivazioni che hanno spinto la regista Licia Ugo a dirigere “Detenute fuori dall’ombra” (prodotto da Arimvideo) che, dopo il Festival di Bellaria - dove è stato insignito del premio Pari Opportunità - e LiberAzioni di Torino, proiettato insieme con altri 7 lavori - parte in tour in Emilia-Romagna e giovedì 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, arriva al Cinema Lumière di Bologna (ore 20). L’ispirazione arriva quando Licia Ugo conosce Alba Piolanti, volontaria Udi: Udi Bologna già da tempo porta avanti nella sezione femminile un’intensa attività di volontariato. “Un lavoro poco conosciuto - spiega Ugo -. Rimasi ammirata, colpita dalla generosità di donare il loro tempo alle donne detenute. Tempo ma anche aiuto pratico, conoscenze professionali, solidarietà senza giudizio”. Le donne detenute hanno scelto liberamente di partecipare al progetto: tra le voci raccolte, oltre alle loro, quelle di alcune donne ex detenute e delle volontarie Udi. A chiudere, gli interventi di Claudia Clementi, direttrice della casa circondariale, e Massimo Ziccone, direttore dell’area educativa dell’istituto. “Mi interessava parlare dello stigma - racconta Ugo - dei percorsi di risocializzazione. Del ruolo del volontariato tra scrittura, lettura, percorsi di autocoscienza per sostenere queste donne nel recupero di sé stesse. Molte vengono da contesti di forte disagio e non hanno gli strumenti per difendersi da sole. L’intenzione era che questo documentario fosse in grado di camminare con le proprie gambe, sollevando domande, interrogativi, riflessioni sulla nostra società e sulle modalità utilizzate per punire chi commette dei crimini. Tutto ciò, però, volevo fosse inscritto in un cerchio più grande: quello dell’essere donna oggi, dell’essere donna in carcere. Il tema della violenza sulle donne era il filo rosso che correva sotterraneo”. Il making of non è stato semplice: “Dopo mesi di attesa, a poche settimane dalla consegna (il docufilm è stato finanziato grazie a un bando promosso dal dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ndr) - era il 2019, non sapevamo a cosa stavamo per andare in contro -, il Dipartimento amministrativo penitenziario finalmente sblocca la pratica e autorizza le riprese in carcere: due ore per le detenute, due mezze mattine per le interviste a Clementi e Ziccone, interdicendoci l’accesso a tutte le zone sensibili. In pratica, ovunque”. Un altro aspetto da considerare, “il rischio che, con il loro bisogno di parlare, le donne detenute potessero esporsi o danneggiarsi. La loro tutela era prioritaria per me, non volevo realizzare nulla di morboso. Dignità e rispetto sono state le mie parole d’ordine. Ho scelto di sublimare il loro desiderio usando immagini di arte eterna, il Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca di Bologna, accompagnato da una musica moderna a contrasto”. E con un linguaggio ‘visivo’ è stato reso anche il lavoro in carcere delle volontarie Udi - Katia Graziosi, Alba Piolanti, Giuseppina Martelli, Anna Vinci, Barbara Lodi e Barbara Verasani - e le testimonianze di Donatella e Rosa, due ex detenute che, “con la loro generosa testimonianza hanno gettato una luce su un aspetto spesso trascurato, la risocializzazione di chi è stato in carcere, un processo molto doloroso”. “Lavoriamo in Dozza dal 2015 - spiega Alba Piolanti, ‘miccia’ del progetto -, su invito del Comune di Bologna. Il progetto era ‘Non solo mimose’, un invito a entrare in carcere non solo l’8 marzo”. Letture, dialoghi, incontri, confronti. Poi è arrivato il bando del dipartimento per le Pari opportunità: “Abbiamo scritto un progetto sul tema della violenza sulle donne detenute organizzato sotto forma di moduli: lettura, scrittura e cinema; lavoro dentro e fuori la detenzione; benessere - condotto da una psicoterapeuta e da un’assistente sociale -; diritti. È in questo contesto che si inserisce il lavoro di Licia Ugo. “Noi stavamo già raccogliendo materiale per un volume - racconta Piolanti - l’abbiamo titolato ‘Fuori dall’ombra’. Con il docufilm, però, volevamo qualcosa che trasmettere l’essere e l’essenza delle donne detenute. Licia ha colto in pieno il senso del progetto”. Quando Piolanti parla delle detenute della Dozza parla di ‘amiché. “Stare con loro è un’esperienza coinvolgente e molto arricchente. Con loro ci siamo sempre poste solo come donne: quando si crea sorellanza riescono a esprimersi, non abbiamo mai parlato né di colpa né di reato”. Udi Bologna ha in cantiere un nuovo progetto, questa volta sulla maternità in carcere: “Stiamo partecipando a diversi bandi, speriamo di trovare presto qualcuno disposto ad aiutarci. Le donne detenute hanno bisogno di noi, così come di essere impegnate in attività”, conclude Piolanti. Durante il lockdown i contatti si sono spostati online e, al momento, stentano a riprendere gli incontri dal vivo: “Volevamo che almeno potessero sentire le trasmissioni che su Eduradio (programma radiofonico di didattica, cultura e informazione rivolto ai detenuti della Dozza, ndr) parlavano di loro e del nostro progetti ma, al femminile, non c’è un apparecchio radio disponibile. Ecco un’altra grande discriminazione. Ne abbiamo acquistati alcuni noi, sono stati autorizzati ma mai consegnati: dicono che non erano adeguati. E così, da troppi mesi, non parliamo con loro. Speriamo presto di ricominciare con loro: ci dicono che, senza nemmeno il nostro supporto, hanno fatto come i gamberi, ovvero sono tornate indietro. Per fortuna alcune del gruppo originario nel frattempo sono uscite, altre sono state trasferite. Quelle che sono rimaste ci hanno confidato di sentirsi completamente abbandonate”. Como. I detenuti del Bassone dicono no alla violenza sulle donne di Marco Marelli laregione.ch, 25 novembre 2021 Realizzato un red carpet di 30 metri che verrà steso all’entrata di Palazzo Cernezzi per dire che alle donne si stendono i tappeti. Contro la violenza un ‘red carpet’, lungo trenta metri, cucito da detenute e detenuti del Bassone, carcere di Como. Sono numerosi gli eventi in provincia di Como programmati per giovedì 25 novembre in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. In città ComoPride ha deciso di scendere in piazza Volta alle 16.30. Nell’ambito della campagna di sensibilizzazione ‘Questo non è amorè, sarà presente in Largo Miglio, dalle 10 alle 16, il camper della Polizia di Stato: con la sezione di Como di ‘Telefono Donna’, saranno fornite informazioni e consigli utili per aiutare le donne a non rimanere in silenzio. Alle 21 in città al Teatro don Guanella andrà in scena ‘Anatomia di una triste storia contro ogni violenza di generè, spettacolo teatrale a cura dell’Associazione Donne Giuriste di Como. Ma l’attenzione si concentra soprattutto sull’iniziativa che ha coinvolto detenute e detenuti del Bassone: sotto la guida di una volontaria hanno realizzato nei laboratori del carcere la lunga passatoia per invitare tutti a “stendere tappeti rossi, anziché calpestarle come tappeti”. L’iniziativa parte dalla volontà di realizzare un oggetto simbolico, utilizzando materiali ed elementi differenti, per rappresentare le diversità delle donne. Sulla passatoia che sarà stesa all’ingresso di Palazzo Cernezzi, la casa della città, i versi di alcune poesie, primo fra tutti: “Le donne non si calpestano, alle donne si stendono i tappeti”. Alessandria. All’outlet di Serravalle Scrivia la “boutique” del carcere Fulvio Fulvi Avvenire, 25 novembre 2021 Nello spazio allestito a Serravalle Scrivia i prodotti realizzati dietro le sbarre dai detenuti della Casa di reclusione di Alessandria: “Dignità nel lavoro”. Non solo brand d’alta moda e firme glam di abbigliamento e accessori. Ora, ai 230 negozi del Designer outlet di Serravalle Scrivia, il più grande d’Europa, si aggiunge una boutique speciale. È quella di “Fuga e sapori” che propone al pubblico, fino al 9 gennaio, prodotti realizzati dai detenuti delle carceri di Alessandria e di altri istituti penitenziari italiani. Si tratta di eccellenze locali e artigianali come il panettone “Maskalzone”, le birre “La Sbirra-Illegale non berla” e “La Skizzata-Bevila con calma”, la camomilla e il caffé delle ragazze di Pozzuoli, gli agrumi di Siracusa, la crema spalmabile “La Brigantella-Un reato non assaggiarla” (senza latte o suoi derivati o grassi vegetali o animali). Ogni prodotto disponibile nel temporary shop ha una sua storia ed è il frutto di un progetto che i visitatori possono conoscere attraverso il materiale informativo messo a loro disposizione. Nello store sono messi in vendita anche eleganti oggetti in legno riciclato costruiti nel laboratorio dove sono impegnati i detenuti che hanno seguito i corsi di formazione professionale della cooperativa. La gestione del punto vendita è stata affidata al personale e ai volontari della cooperativa sociale Idee in Fuga che dal 2015 opera nelle due strutture penitenziarie di Alessandria (in totale circa 700 detenuti) con progetti di falegnameria sociale, commercio equo e solidale e agricoltura sostenibile. La principale sfida dello shopping solidale di Fuga di Sapori, come delle altre attività della coop alessandrina, è quella di creare lavoro fuori dalle mura carcerarie. “I piccoli produttori sono restii ad assumere chi è uscito dal carcere - spiega Carmine Falanga, presidente della cooperativa - e la formazione da sola non basta, c’è bisogno di concrete opportunità sul mercato del lavoro”. “Il lavoro è l’unico e più potente strumento per abbattere la recidiva che in Italia è stimata dagli ultimi dati del ministero della Giustizia con una percentuale dell’80% - dice Andrea Ferrari, consigliere di Idee in Fuga e ideatore dello shop all’interno del centro commerciale di Serravalle - ciò significa che tre detenuti su quattro commettono reati una volta saldato il loro conto con la giustizia e ritornano dietro le sbarre. Recuperiamo, con il nostro progetto, molto ampio, sia persone che materiali”. Grazie ai fondi raccolti durante i tre mesi di attività del negozio nell’outlet, Idee in Fuga potrà continuare a sostenere le iniziative finalizzate all’inserimento lavorativo e all’educazione alla legalità già avviate sul territorio. Torino. Teatro, carcere e poesie: i vent’anni dell’associazione La Brezza iltorinese.it, 25 novembre 2021 Domenica 28 novembre lo spazio polivalente di Barriera di Milano accoglie la IX edizione del progetto “Scambi di luce”, in collaborazione con Vol.To. Sala Scicluna, spazio polivalente nel cuore di Barriera di Milano (via Renato Martorelli 78), accoglie all’interno della stagione culturale 2021/22 uno speciale evento che intreccia volontariato e teatro sociale. Il programma della giornata prevede, alle ore 15.30, la presentazione del testo Brezza venti, con la lettura di poesie e il racconto dei progetti realizzati dal 2001 a oggi. Alla sera, dalle ore 20.30, il pubblico potrà assistere ad Aria, performance teatrale nata dalla collaborazione tra La Brezza, alcune persone inserite in percorsi alternativi al carcere, la Gipsy Musical Academy di Torino e la cantautrice Anna Castiglia. Regia di Stefania Rosso, della compagnia Liberipensatori “Paul Valéry”. Un evento patrocinato da Vol.To - Centro Servizi per il Volontariato. Ingresso libero con prenotazione obbligatoria tramite SMS o WhatsApp al numero 3474002314; posti limitati. Per accedere è richiesto il Green Pass; ingresso e fruizione nel rispetto delle normative da contenimento Covid-19 vigenti. L’associazione d’ascolto La Brezza opera con i propri volontari all’interno della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino e altri istituti penitenziari del Piemonte. L’obiettivo che si prefigge è di promuovere interventi finalizzati a sensibilizzare il territorio nei confronti del mondo carcerario, per far sì che il grande divario esistente tra la società e il carcere possa essere attenuato. La Brezza nasce nel 2001, inizia a operare all’interno dell’ospedale Amedeo di Savoia rivolgendosi, con specifici spazi di ascolto, a persone sieropositive. Dal 2003 gli spazi di ascolto vengono dedicati anche ai detenuti delle Vallette. Durante uno degli incontri è nata l’esigenza di creare un ambiente in cui dare alle persone la possibilità di esprimersi liberamente senza nessuna forma di giudizio, scegliendo l’arte come strumento d’espressione e di ascolto. Inaugurata nel 2017 da Katia Capato, direttrice artistica di Nuove Cosmogonie Teatro e presidente della neonata Associazione culturale Joseph Scicluna, Sala Scicluna nasce come atto d’amore e promessa mantenuta nei confronti di Joseph (alias Pino) Scicluna, attore, drammaturgo e regista maltese, suo compagno di vita, venuto a mancare due anni prima a seguito di una grave malattia. Ex carrozzeria, situata in un interno cortile, Sala Scicluna si presenta oggi come un’oasi riparata dal caos urbano, nuovamente fruibile al 100% della capienza da tutti coloro che ricercano quiete e bellezza nella musica, nel teatro, nelle mostre figurative o negli incontri a tema librario. La programmazione, concepita volutamente come un cantiere in costruzione, è tuttora aperta a proposte dal territorio, con la volontà di arricchire lo scambio tra gli artisti e il presidio culturale. “Intenzione, azione, determinazione, non dare nulla per scontato, valutazione e scelta, presa di coscienza dei momenti difficili e, nonostante tutto, ancora una certa fiducia nel miracolo, nella serendipità, e nella benevolenza e creatività dell’universo e del genere umano. Con questo spirito Sala Sicluna riapre ancora una porta, portando avanti quel sogno e progetto che anni fa le ha permesso di prendere vita”. Così la direttrice Capato, che aggiunge: “In Barriera di Milano, quartiere ancora troppo spesso vittima di pregiudizi ma crogiolo di creatività, si realizza il sogno e la promessa. Sala Scicluna è una realtà totalmente autosostenuta. Il prezioso supporto del pubblico e di coloro che, riconoscendola quale oasi di bellezza e di sincero incontro, ne hanno chiesto in uso spazi e servizi, ne ha garantito la ripartenza in seguito ai lockdown della pandemia”. Il programma completo della stagione di Sala Scicluna è consultabile sul sito www.nuovecosmogonieteatro.com Teatro e carcere, storie fra espiazione e riscatto di Gianfranco Capitta Il Manifesto, 25 novembre 2021 Al Palladium la nuova edizione della rassegna “Destini incrociati”. Non è usuale trovare un pubblico così giovane e agguerrito a una manifestazione che ha al suo centro il rapporto (e gli esiti) tra teatro e carcere. È successo anche quest’anno alla nuova edizione di Destini incrociati, la manifestazione che su quel rapporto indaga, addensando al Teatro Palladium riflessioni, esperienze, documentazioni video e spettacoli grazie agli sforzi comuni dei ministeri di cultura Rebibbia al teatro, con assoluto entusiasmo. Grazie alla drammaturgia costruita per lui da Valentina Venturini (e con il coordinamento scenico di Fabio Cavalli), Cosimo Rega ripercorre la propria storia, con una dedizione emotiva palpabile, “duettando” con il pianoforte di Franco Moretti, e ottenendo in quella maniera “dolce” un effetto potente. Anche se lui è già abbastanza noto (Cesare non deve morire dei Fratelli Taviani lo vedeva tra i protagonisti), sorprende e commuove sempre la sua lucidità, e la comunicativa soddisfazione per quanto ha ottenuto. Tra le numerose esperienze presenti in rassegna al Palladium, particolare fascino e ricchezza ha mostrato Ulisse o i colori della mente, spettacolo ricco di linguaggi e suggestioni che il Teatro popolare d’arte ha realizzato con alcuni suoi attori e i detenuti del carcere della Gorgona. Sull’isoletta toscana la compagnia guidata da Gianfranco Pedullà (autore e regista del progetto) ha lavorato, sfidando anche l’isolamento dovuto alle tiranniche leggi del mare, seguendo una intuizione affascinante: l’Odissea come processo di successivi stadi di liberazione dell’eroe omerico (da Polifemo alle Sirene a Circe) per raggiungere il ritorno pieno alla propria identità di uomo libero e riconosciuto nella sua realtà piena, umana e sociale. E se la guerra di Troia era stato un delitto cruento quel viaggio di ritorno non significa solo espiazione, ma confronto vittorioso contro tutte le situazioni e i luoghi comuni che spesso impediscono la riconquista di sé. Tutto questo composto senza retorica, ma anzi con gli strumenti festosi della teatralità (pupazzi, colori, luci ed effetti scenici) che sembravano davvero restituire coscienza, oltre che piacere, ai personaggi sulla scena. Una compagine mista di detenuti attori e attori professionisti (che rimpiazzavano anche coloro che per motivi giudiziari non sono potuti uscire dall’isoletta carceraria), che fortemente testimoniava, con allegria e felicità, che anche il carcere, come i condizionamenti sociali e mitologici si possa superare, come era riuscito al vecchio Ulisse, che non a caso, la battaglia più dura l’aveva dovuta superare una volta tornato a casa nella sua Itaca. Il coraggio e la grazia con cui Zerocalcare affronta il tabù dei suicidi giovanili di Daniela Giraudo Il Dubbio, 25 novembre 2021 La serie tv ha la capacità di restituire un tema intoccabile ad una dimensione molto umana, e prova a dare ragione dello smarrimento di chiunque abbia dovuto accostarvisi. Caro Direttore, mai avrei immaginato di scriverTi per dare un mio contributo per la serie di Zerocalcare recentemente uscita su Netflix. Non che Zerocalcare per me fosse sconosciuto, dato che ben ricordo le interminabili file di giovani per il suo firma copie a Lucca Comics, ma da una rapida occhiata alle schiere di appassionati diligentemente allineati (fila un po’ all’italiana in realtà) avevo dedotto di non essere nel target previsto, che era molto più vicino ai miei figli che a me. Tuttavia in questi giorni la polemica è divampata a Biella, con più di un articolo sui bisettimanali locali e quindi in me è cresciuta la curiosità di capire di cosa si trattasse e perché i miei concittadini fossero tanto indignati. Quindi, di ritorno da Roma, sul Frecciarossa di sabato mattina, con la prospettiva di tre ore di viaggio ho deciso di togliermi la curiosità, immaginando che non sarei andata oltre la visione della prima puntata per raggiunti limiti di età. Sì, perché mi ero del tutto convinta che non mi sarebbe piaciuto per niente ma che almeno avrei capito perché se ne parlasse tanto. Ovviamente non è andata così. In realtà ho visto tutta la serie, esattamente come fanno i ragazzi, divertita e commossa dalla storia che si dipanava, puntata dopo puntata. Devo dire allora che non condivido nessuna delle polemiche emerse, né quella locale, né quella linguistica. Non quella locale perché non trovo che Biella venga raffigurata in modo ingeneroso, anzi. La storia, per chi l’ha vista, la dipinge come un luogo di belle persone, di persone perbene. Gli scorci sono reali, la nostra bella città è riconoscibile e colorata, solo - purtroppo - il Frecciarossa non arriva sino a qui. In effetti siamo così, persone perbene, grandi lavoratori, forse oggi un po’ smarriti in una crisi economica che purtroppo ha morso in modo feroce anche qui, soprattutto qui. Ma è normale che i nostri ragazzi abbiano il desiderio di sperimentarsi altrove, di viaggiare e di vivere altrove. Non tutti ci riescono ma il messaggio che ho colto io è che Biella è comunque un nido che ti accoglie, che poi possa non bastare a lenire il male di vivere, quella purtroppo è un’altra storia. Tantomeno condivido quella lessicale/linguistica. Non sono romana ma la parlata è del tutto comprensibile e rende la storia aderente ai personaggi che non sarebbero credibili se parlassero da accademici della Crusca. Di contro, per chi li sappia cogliere, ci sono molti riferimenti, dal mito della caverna di Platone all’hybris delle tragedie greche, che disvelano un piano di lettura tutt’altro che banale della sceneggiatura, il tutto reso godibile da una serie di aneddoti che - francamente - non possono che essere riconosciuti da tutti noi come parte della quotidianità (ammetto di essermi sentita molto vicina a genitore 1…). Insomma, la verità è che a me è piaciuta, moltissimo, che affronta un tema scabrosissimo e quasi intoccabile con la capacità di restituirlo ad una dimensione molto umana, e prova a dare ragione dello smarrimento di chiunque abbia dovuto accostarvisi. Non so se Zerocalcare si immaginasse di annoverarmi tra i suoi lettori, ma lo sono diventata. “L’acqua, l’insegna la sete”. Un film dedicato ai ragazzi che la scuola perde di Enrico Caiano Corriere della Sera, 25 novembre 2021 E ai prof che almeno hanno provato a salvarli. La storia dei ragazzi della IE dell’istituto professionale Roberto Rossellini di Roma, dalle bocciature ai fallimenti esistenziali dell’età adulta. Il regista Valerio Jalongo: “Anche i prof migliori a volte fanno promesse che la scuola non può mantenere”. “Se potessi tornare indietro, avrei proseguito con gli studi”. In realtà l’aveva pure promesso al professore, l’adorato Gianclaudio Lopez che dopo un consiglio di classe gli comunicava che avrebbe dovuto ripetere l’anno: il primo all’Istituto di Istruzione Superiore statale Cine Tv di Roma intestato a Roberto Rossellini. Alessio aveva riconosciuto di aver combinato poco “anche per colpa mia” in quell’anno scolastico. Ma “ar Lopez”, come chiamano lui e i compagni in gergo borgataro il prof di letteratura italiana e inglese, il più amato dai ragazzi, aveva assicurato che il settembre prossimo lo avrebbe rivisto, che si sarebbe reiscritto. E invece, eccolo lì. Quindici anni dopo lo vediamo, nel documentario L’acqua, l’insegna la sete, da ieri e fino a domani in 15 cinema in tutta Italia (secondo la formula “evento” con cui escono ormai molti film di casa nostra che non si rassegnano alla piattaforma senza almeno un piccolo passaggio nelle sale), sollevare cassettoni stracolmi di carta. E rovesciarne il contenuto in bidoni. Alessio si divide infatti tra lavoretti da fattorino e magazziniere. I suoi sogni ora spaziano tra il lavoro di idraulico e la speranza di imparare la strada del guadagno facile con il poker. Un caso lampante, quasi esemplare di dispersione scolastica. Un dolore lancinante per il nostro sistema scolastico. Oggi la pandemia, la Dad, hanno contributo sicuramente a peggiorare la situazione. La scuola media e superiore italiane di quella patologia però soffrono da molto prima. I dati più recenti raccontano di uno studente su 7 che non finisce i 5 anni del ciclo superiore: il 13,1 per cento. Ma c’è di peggio: spesso la rinuncia arriva già al termine del primo anno. Di fronte a una bocciatura o anche per disillusione personale. O perché le famiglie capiscono in corsa di non essere più in grado di aspettare: le tante crisi economiche che si sono succedute negli anni mordono e l’idea meritoria di investire nella formazione culturale del figlio in vista di un lavoro meglio retribuito e appagante naufraga di fronte all’esigenza dei pochi soldi maledetti e subito di un lavoro immediato. Alla fine gli italiani tra 25 e 64 anni con un diploma in mano sono appena 4 su 10 secondo l’ultimo censimento Istat 2020 con dati 2019. La storia della I E dell’istituto professionale romano Rossellini protagonista del film diretto da Valerio Jalongo, regista che in quell’istituto ha pure insegnato, si inquadra purtroppo benissimo in questa realtà. Nel film fa ancora più male vedere come la passione e l’amore per i ragazzi del professore protagonista alla fine approdi a un fallimento. La “storia di classe”, anche nell’accezione sociale che questo sottotitolo della pellicola indica, raccontata attraverso un video-diario partito nel 2004 e durato 3 anni, poi integrato dalle riprese di 15 anni più tardi, con professore incanutito e ragazzi ormai sulla trentina messi di fronte ai loro temi più riusciti - quelli in cui tiravano fuori davvero sé stessi - è la prova provata che troppe cose non vanno e anche un’esperienza virtuosa è destinata alla resa. Alla fine, come nel titolo del film, mutuato dall’incipit di una poesia di Emily Dickinson insegnata ai ragazzi da Lopez (L’acqua, l’insegna la sete / La terra, gli oceani trascorsi / Lo slancio, l’angoscia / La pace, la raccontano le battaglie / L’amore, i tumuli della memoria / Gli uccelli, la neve) si scopre che quei ragazzi ora trentenni hanno “scoperto” la vita adattandosi per reazione ad essa, spinti più che altro dal proprio istinto, senza che le discipline imparate a scuola, nel famoso istituto professionale che dovrebbe più dei licei favorire uno sbocco lavorativo coerente, siano riuscite ad arrivare all’obiettivo. In molti casi quei ragazzi hanno almeno assecondato la propria sensibilità. Jessica assiste gli anziani con quell’amore disinteressato che mai era riuscita ad avere da suo padre, che abbandonò lei ragazzina e la madre; Corinna, che cercando lavoro ha maturato un forte risentimento per “la gente cattiva”, gestisce una pensione per cani e protegge gli animali domestici in genere; Yari la cui madre “vendeva il fumo”, lui che arrivava spesso fatto a scuola e chiuse i rapporti con lei quando a mo’ di regalo gli fece trovare nel piatto della cocaina, ora vive per la bambina di 5 anni che cerca di crescere al meglio anche se roso dai rimorsi perché la vita lo ha portato a dividersi dalla sua compagna dopo 11 anni assieme. Il momento in cui il professor Lopez legge ai colleghi (che hanno già deciso con lui di bocciarlo), il tema in cui lui racconta del rapporto con la madre con un lessico e una sensibilità miracolosa per un ragazzo cresciuto come lui, è il momento forse più struggente del film. Il regista Jalongo (già autore 10 anni fa del film di fiction sul mondo dell’istruzione con La scuola è finita, protagonista Valeria Golino) ha scelto stavolta la strada del documentario perché solo così era possibile “capire cose che non mi erano affatto chiare come professore: ho capito che a volte anche i migliori sono coinvolti in promesse che la scuola non riesce a mantenere. Come Lopez e molti suoi colleghi promettevamo ai nostri studenti che se si fossero impegnati, se si fossero dimostrati meritevoli avrebbero avuto un lavoro sicuro, certezze, riconoscimenti... non immaginavamo che il mondo stava preparando per quei ragazzi un futuro precario, pieno di passi indietro anche nei diritti che consideravamo acquisiti per sempre”. E lui, Lopez? Anche il professore, uomo appassionato come pochi di insegnamento, in grado di conservare con cura certosina l’esperienza di quegli anni attraverso i temi dei ragazzi, spesso riposti nei suoi faldoni anche in originale (“È contro la legge, lo so”, dice nel film) con l’amico Jalongo, si è angosciato a “scoprire che nessuno di quei ragazzi dava la colpa alla scuola del proprio fallimento scolastico. Nessuno sembrava arrabbiato o deluso, fosse anche solo per il fatto che su una classe di 29 ragazzi solo uno lavora (da precario) nel mestiere che ha studiato a scuola”. Merito suo l’aver reso indimenticabili quegli anni di fallimento con la sua umanità trasmessa ai ragazzi. Demerito della scuola italiana aver consentito che da quel diamante splendente di umanità sul fronte della vita reale non nascesse niente. Come in un’immortale canzone di De André. Il suicidio assistito delle Camere impantanate tra giustizia ed elezioni anticipate di Francesco Damato Il Dubbio, 25 novembre 2021 Così rapidi e sensibili nel difendere il carattere “parlamentare” della Repubblica ogni volta che qualcuno propone il presidenzialismo o il semipresidenzialismo, magari accontentandosi di quello di fatto intravisto, a torto o a ragione, dietro certi passaggi politici come quello del governo in carica presieduto da Mario Draghi, costituzionalisti e politici dal palato fine, anzi finissimo, assistono senza fiatare, o quasi, a uno spettacolo paradossale come quello in corso di un suicidio assistito autorizzato dalle strutture sanitarie nelle Marche in esecuzione di una sentenza della Corte Costituzionale, non di una legge. Sulla quale, per quanto chiesta dalla stessa Corte con un’abrogazione parziale o praticamente virtuale dell’articolo 580 del codice penale, il Parlamento non è riuscito a fare altro che giocare a palla, cioè rinviare. Ora, di fronte al clamore provocato dal dramma del tetraplegico marchigiano si profila un più o memo miracoloso approdo in aula, a Montecitorio, di una legge troppo a lungo giocata appunta come una palla in commissione. Ma con quante poche prospettive che qualcuno riesca a segnare davvero un gol è facile immaginare considerando la fase dei lavori parlamentari contrassegnata dal percorso del bilancio e quella successiva in cui su tutti gli altri problemi o scadenze prevarrà la successione a Mattarella - se sarà davvero successione al Quirinale. Non vorrei sembrare irriverente verso l’istituto parlamentare e dintorni ma in occasioni sempre più frequenti la Repubblica sembra diventata quella di Pinocchio. Il cui naso notoriamente si allungava con le bugie. Non è solo il problema del suicidio assistito ad avere impantanato il Parlamento. È tutto un impantanamento tra problemi generali della giustizia, per esempio, per quanto chiasso politico abbia prodotto l’intervento recente sulla durata del processo penale, e l’adeguamento della legge elettorale alle Camere che deriveranno la prossima volta, massimo fra un anno e mezzo, dal taglio dei seggi. In un gioco a dir poco perverso di pigrizie, furbizie, opportunismi e simili si rinviano le decisioni, si allungano i brodi e si lascia il campo, volenti o nolenti, alla supplenza dei referendum abrogativi. Che non a caso sono stati promossi in gran numero negli ultimi tempi per cercare di fare sciogliere direttamente dagli elettori, abrogando appunto o confermando le norme in vigore, i nodi irrisolti dai gruppi parlamentari e dai partiti di riferimento. Il guaio è che nella loro ormai intrinseca debolezza, per quanto enfatici siano i richiami al carattere - ripeto - parlamentare della Repubblica, le Camere riescono anche a uccidersi pur di non decidere, passando alle nuove le loro debolezze. Il tanto sempre temuto scioglimento anticipato, precluso a Mattarella da luglio scorso per i limiti derivanti dal cosiddetto semestre bianco del suo mandato, tornerà a incombere con l’elezione del nuovo presidente, o la pur ormai sempre più improbabile conferma del presidente uscente. Ma non è per niente detto che continuerà a essere una prospettiva temuta, per quanto siano tanti i parlamentari uscenti senza più alcuna possibilità di essere ricandidati o rieletti per mancanza di posti o di voti: i primi tagliati forse troppo imprudentemente dagli stessi interessati e i secondi perduti il più delle volte meritatamente per strada a causa degli errori compiuti. Lo scioglimento anticipato è ormai dal lontano 1972 - l’anno in cui fu costretto a ricorrervi per la prima volta nella storia della Repubblica l’appena eletto presidente Giovanni Leone - una buona occasione per gli interessati di turno a evitare referendum abrogativi ai quali non ci si sente preparati a livello di partiti. I cui elettorati sono generalmente spaccati dai quesiti referendari. Il buon Renzi, si fa per dire, ha appena fatto una polemica rassegna di tutti quelli che sarebbero interessati alla fine prematura di questa legislatura, di cui lui invece vorrebbe la prosecuzione per il peso che riesce ad avere con la sua quarantina fra deputati e soprattutto senatori. Ed ha indicato le ragioni di tanta voglia di elezioni anticipate in interessi, diciamo così, di bottega: Enrico Letta, per esempio, per fare lui le liste dei candidati del Pd e disporre finalmente di gruppi parlamentari fidati, come lo stesso Renzi fece nel 2018 perdendo tuttavia le elezioni; Giuseppe Conte per le difficoltà analoghe che ha nei gruppi parlamentari delle 5 Stelle, o in ciò che ne è rimasto; Matteo Salvini per cercare di fermare la crescita di Giorgia Meloni nel centrodestra e via discorrendo. Il povero Renzi, a questo punto, pur avendo ormai preso il posto che fu prima di Bettino Craxi e poi di Silvio Berlusconi nella difficoltà o drammaticità dei rapporti con la magistratura, si è dimenticato della principale ragione che potrebbero avere i suoi nemici sulla strada delle elezioni anticipate. Essa consiste nel comune interesse a evitare, rinviandoli per effetto appunto delle elezioni, i referendum sulla giustizia in cui rischiano di rimettere i loro privilegi, o solo le loro brutte abitudini, i magistrati più politicizzati. O quelli - per ripetere la formula abituale di Mattarella quando ne parla, come ha appena fatto al Quirinale incontrando le toghe della Corte dei Conti - che svolgono il loro lavoro condizionati più da “logiche corporative” che dalla legge. Droghe. A Genova 21 anni dopo, la conferenza e il referendum di Franco Corleone Il Manifesto, 25 novembre 2021 Il 27 e 28 novembre si svolgerà a Genova la conferenza nazionale sui problemi relativi alle sostanze stupefacenti e psicotrope. Ufficialmente è la sesta conferenza, ma è il caso di precisare che la quarta convocata a Palermo da Carlo Giovanardi fu un flop gigantesco e che la quinta organizzata a Trieste nel 2009 dall’allora capo del Dipartimento antidroga, Giovanni Serpelloni, fu un evento blindato, senza la possibilità di un confronto di idee. Il movimento di riforma della politica delle droghe ebbe la forza di organizzare una controconferenza, con Andrea Gallo. Proprio in quella occasione, reduci dall’appuntamento Onu di Vienna (dove il Presidente boliviano Evo Morales sul palco masticò foglie di coca), presentammo il primo Libro Bianco sugli effetti di tre anni di applicazione della legge iperproibizionista e punitiva, la Fini-Giovanardi. Dunque, l’ultimo vero dibattito risale alla terza conferenza che si tenne proprio a Genova nel novembre del 2000, convocata dalla ministra della Solidarietà Livia Turco. Ventuno anni dopo dobbiamo ancora fare i conti con le resistenze, assai simili, verso un’altra politica delle droghe, intelligente e umana, e perfino alla riduzione del danno (si vedano i trattamenti con eroina ignorati e il drug checking ancora controverso). Le premesse di Genova I erano fosche, perché veniva esclusa la centralità della questione carcere, allora come ora contenitore di persone colpevoli di consumo e di piccolo spaccio; tanto meno si parlava di decriminalizzare il consumo e di legalizzare la canapa. Ma la rete costruita negli anni era forte e si fece sentire fuori, con cortei di migliaia di attivisti e operatori nella città, fino al carcere di Marassi; e anche dentro, con la presentazione di una associazione per la canapa medica e con la illustrazione ai ministri della piattaforma del movimento (lo fece Cecilia D’Elia, presidente di Forum Droghe a nome della coalizione). La Conferenza che pareva segnata da un’impostazione burocratica e narcotizzata esplose per merito dell’intervento del ministro della sanità Umberto Veronesi. Una grande lezione di verità a favore della distinzione fra le droghe e della smitizzazione dei danni della cannabis: che fece indispettire il Presidente del Consiglio Amato rendendo plateale l’incapacità del centrosinistra di affrontare un tema cavalcato spregiudicatamente dalla destra. Amato definì l’intervento di Veronesi come tecnico, in realtà la delegittimazione non scalfì il peso tutto politico di una dichiarazione di fallimento della “guerra alla droga”. Seguì poi l’ubriacatura di “la droga è droga”, con la legge Fini Giovanardi (che nel 2014 fu cancellata dalla Corte Costituzionale). Negli ultimi anni, nel mondo ha cominciato a soffiare il vento del cambiamento: la cannabis è legale in Uruguay, in Canada e in molti Stati degli Usa. In Italia, un gruppo di associazioni ha cercato di tenere il passo ai cambiamenti: si sono denunciati i danni inconfutabili della legge antidroga redigendo ogni anno il Libro Bianco (giunto alla dodicesima edizione). È stata elaborata una riforma completa e radicale del Dpr 309/90 sia nella parte penale che in quella dei servizi e anche una proposta specifica di legalizzazione della canapa. Nel frattempo, nella società italiana molto è cambiato. A settembre, quando si è offerta la possibilità di firmare il referendum “niente più carcere per la cannabis”, per porre fine alla persecuzione e allo stigma per chi consuma e coltiva cannabis per sé, si è verificata una valanga di consensi. A Genova, il 26 novembre lanceremo come associazioni promotrici del referendum la campagna contro l’inerzia del Parlamento e perché la prossima primavera si possa votare con libertà e responsabilità. Tutte e tutti dobbiamo avere come bussola il monito di don Andrea Gallo: è l’ora di pensare in grande. Migranti, l’Europa e la lezione bielorussa di Bernard-Henri Lévy* La Repubblica, 25 novembre 2021 Dobbiamo prendere di petto la questione dell’accoglienza. Bisogna ricordare agli europei che l’ospitalità ha delle leggi (che portano il sigillo dell’inevitabile finitezza di questo o quel luogo di adozione) ma anche dei principi (che sono invece infiniti e quindi incondizionati). Prima di tutto, lo stupore. Non che questa sia la prima volta. Gheddafi faceva altrettanto quando, ogni anno alla fine dell’estate, negoziava con Roma la salvaguardia delle sue frontiere. Né ragiona diversamente il suo quasi gemello Erdogan, quando dice agli europei: “Trattenetemi o saranno dolori; pagatemi la mia rendita annua o non trattengo più nessuno e scarico sulle vostre coste i milioni di ostaggi che ho”. Ma la cosa non era mai stata così chiara. Mai prima d’ora si era andati a cercare i migranti in questa maniera. Mai prima d’ora si erano noleggiati aerei, mobilitate reti sociali, agenzie di viaggio locali, veri e falsi trafficanti, mai prima d’ora si erano impiegati così tanti mezzi per attirare gli esuli, per far balenare il miraggio di un El Dorado o di un festino e spedirli contro le frontiere europee. Mai dei dittatori, in questo caso Lukashenko e Putin, avevano pianificato così freddamente la trasformazione di una colonna di disperati in un cavallo di Troia. È il massimo del cinismo. E in questi speculatori della miseria che giocano con gli esseri umani come se fossero pedine e reinventano, in definitiva, una nuova forma di commercio triangolare troviamo la quintessenza dell’abiezione. Questo è un evento. È un supplemento senza precedenti all’arte della guerra, ed è letteralmente un evento. L’altro evento è che l’Europa, di fronte a questo atto di belligeranza senza precedenti e destinato, in piena logica clausewitziana, a disorientarla, ha cominciato a vacillare, a chinarsi, a tremare di fronte ai russi, a ringraziare (ci chiediamo di cosa!) la Turchia, ma alla fine ha visto la trappola e, a essere onesti, non ci è veramente caduta. Dobbiamo darne credito al presidente Macron che ha subito indicato la mano di Putin? O alla cancelliera Merkel che, forte del gesto kantiano che le fece accogliere un milione di rifugiati nel 2015, non ha voluto uscire di scena sotto i fischi e il sarcasmo degli illiberali trionfanti? È stato il calpestio di stivali sul confine ucraino che, al momento opportuno, ha ricordato ai padri coscritti del Senato di Bruxelles che la guerra, quella vera, era alle porte? È stata la diplomazia lituana che, avvezza alle prove di forza con i suoi temibili vicini, ha capito che il ricatto dei bielorussi e dei russi che minacciavano di tagliarci il gas era un bluff? Il fatto è che Lukashenko ha dimostrato di essere una tigre di carta senza mezzi, né giuridici, né tecnici, per chiudere i rubinetti. Il re Putin è apparso nudo, tanto spaventato di rimanere senza i nostri euro quanto noi di patire il freddo quest’inverno. E abbiamo riscoperto la legge secondo la quale la nostra debolezza morale è spesso la principale fonte per la forza delle tirannie. L’Europa si è scossa. Si è, come è di moda dire, leggermente risvegliata. E aumentando il livello delle sanzioni e rendendosi opportunamente conto che mancavano dei dettagli alla montagna di contratti per la convalida del gasdotto Nord Stream 2, che trasporterà miliardi di metri cubi di gas russo e a cui il Cremlino tiene tanto, sembra aver fatto riflettere Putin e il suo valletto Lukashenko. Ma, da questa crisi, si trae purtroppo anche una terza lezione. Avremmo potuto benissimo, mentre alzavamo la voce contro i russi, abbassare la guardia nei confronti di queste migliaia di migranti, una goccia d’acqua nell’oceano del benessere di 300 milioni di europei. Ci siamo invece barricati in casa nostra. Ovunque, si è cercato solo di arginare “l’ondata” e non di creare uno “sfogo”. Abbiamo picchiato. Abbiamo minacciato di sparare. E, se pure il ricatto ci ha scosso, ci siamo poi allineati a una visione delle cose che riconosceva in questi rifugiati non degli esseri umani, ma armi, nemici per vocazione e destinazione, oggetti. Bisognerà riconsiderare tutto questo. Dobbiamo prendere di petto, una buona volta, la questione dell’accoglienza che è nel cuore della patria di Omero, di Dante, di Victor Hugo e di Edmund Husserl. Bisognerà ricordare agli europei che l’ospitalità ha delle leggi (che portano il sigillo dell’inevitabile finitezza di questo o quel luogo di adozione) ma anche dei principi (che sono invece infiniti e quindi incondizionati). E sarà necessario, a metà strada tra questa finitezza politica e la parte infinita dell’esigenza etica, trovare un posto in questo mondo per coloro che non possono vivere dove il destino li ha fatti nascere - bisognerà preoccuparsi dei diritti degli uomini che sono solo uomini perché non sono più, o non ancora, soggetti di diritto. Nell’attesa, la situazione è questa. Donne e bambini si sono aggirati, e si aggirano ancora, nel buio delle foreste. Alcuni di loro erano curdi e avevano combattuto al nostro fianco contro l’Isis. E mentre ci perdevamo in ignobili discussioni, non sulla miseria concreta che avevamo davanti agli occhi e che era così facile alleviare, ma su questa famosa “miseria del mondo” che “non possiamo accogliere tutta” ma che, come l’universale astratto dei filosofi, non ha mai altra esistenza se non quella delle ombre, alcuni sono morti sulla nostra sacra soglia. E questo è imperdonabile. *Traduzione di Luis E. Moriones Le ombre dei regimi autoritari sull’elezione dell’Interpol di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 25 novembre 2021 Oggi si decide il presidente della polizia internazionale. Elezione turbolenta: il generale emiratino in corsa potrebbe avere autorizzato torture. La candidata ceca: “Impossibile ignorare le accuse”. “Benvenuti all’Interpol”, dice il cartello che all’aeroporto di Istanbul accoglie i delegati dell’organizzazione internazionale della polizia criminale. In un centro congressi lontano dal centro città e blindato dalla polizia, i rappresentanti dei 190 stati membri dell’organizzazione internazionale sono chiamati a scegliere il sostituto del sudcoreano Kim Jong Yang, presidente uscente, in una disputa tra le più discusse negli ultimi anni. L’elezione è stata criticata prima ancora di arrivare al nome del nuovo capo: le organizzazioni per i diritti umani si sono mobilitate contro la candidatura del generale degli Emirati Arabi Uniti, Ahmed Naser al Raisi, accusato di avere approvato torture contro prigionieri e dissidenti nelle carceri emiratine. Quella di al Raisi non è l’unica candidatura controversa. Hu Binchen, un funzionario della pubblica sicurezza cinese, è in corsa per un posto nel comitato esecutivo dell’Interpol, un organo di 13 rappresentanti che imposta i lavori dell’Assemblea generale. Il timore è che attraverso Binchen, che otterrebbe più poteri esecutivi, la Cina possa perseguitare all’estero i suoi cittadini accusati di reati politici. Dopo anni di critiche e richieste di riforme, l’assemblea generale dell’Interpol ha approvato il 23 novembre delle modifiche per garantire maggiore trasparenza sui candidati. La candidata - Tra uomini, generali e funzionari della sicurezza che corrono per la presidenza, c’è anche una donna: la ceca Šárka Havránková, attuale vicepresidente dell’organizzazione poliziesca. Dopo aver ottenuto nel 1998 il diploma dell’accademia di polizia, si è laureata in diritto pubblico internazionale e ha iniziato a lavorare nel dipartimento di sicurezza della Repubblica Ceca a Praga. Dal 2004 è membro del Consiglio dell’Unione europea e nel 2008 è diventata delegata dell’Europol. È entrata nell’Interpol nel 2018 come componente del comitato europeo ed è diventata vicepresidente un anno più tardi. Una scalata rapida. “Se dovessi vincere, il mio obiettivo primario sarà quello di rafforzare le voci dei paesi membri e le loro esigenze all’interno della governance dell’organizzazione”, dice Havránková. La sua campagna per la presidenza ruota attorno a tre elementi chiave: “Migliorare la comunicazione tra il comitato esecutivo e i paesi membri; assicurare che le attività e il supporto dell’Interpol corrispondano ai bisogni concreti dei membri; accrescere l’importanza dell’impegno dei membri nella definizione delle priorità”. Per questo, secondo la Havránková, è importante accrescere il numero di agenti di polizia distaccati da tutte le regioni e avere una maggiore trasparenza nelle attività del Segretario generale. La vicepresidente si è espressa anche sulla candidatura del generale al Raisi. “È impossibile ignorare le accuse di crimini molto gravi affrontate da uno dei nostri colleghi in diversi paesi. Questa situazione mette l’intera organizzazione sotto un’enorme pressione e porta a una perdita di fiducia nei confronti della nostra istituzione”, dice. Havránková critica anche i viaggi istituzionali che il generale emiratino ha effettuato quest’estate in Africa e in Asia alla ricerca di voti per la sua elezione: “Non si può comprare il rispetto, bisogna guadagnarselo attraverso azioni specifiche. Il denaro, la ricchezza o il potere politico del paese non dovrebbero mai influenzare le prestazioni indipendenti della polizia”. Le “red notice” - Secondo avvocati di criminalità internazionale ed esperti di estradizione, uno dei nodi più controversi che l’Interpol deve risolvere è l’utilizzo delle “red notice”, ovvero gli avvisi di arresto internazionali che gli stati membri sottopongono all’organizzazione. Gli “avvisi rossi” sono richieste inviate dall’Interpol alle forze dell’ordine di tutto il mondo in cui si chiede di localizzare e arrestare provvisoriamente una persona in attesa di estradizione o altri azioni legali. Ong e associazioni a difesa dei diritti umani sostengono da anni che stati autoritari come Cina, Russia, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Turchia si sono serviti di questo sistema per colpire i dissidenti residenti all’estero. Non tutti però vogliono rimuovere le “red notice”, tra questi c’è Havránková: “Il sistema degli avvisi rossi è uno dei meccanismi più efficaci e più conosciuti di Interpol. Non spetta a me commentare i singoli casi, né commentare se gli Stati membri ne abusano o meno. Tuttavia, posso assicurarvi che Interpol fa molta attenzione a garantire che l’emissione di tutti gli avvisi siano controllati molto rigorosamente”. La strana coincidenza - Il principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed al Nahyan, ha visitato il 24 novembre il presidente turco Erdogan. Un meeting definito storico dato che l’ala dei Fratelli musulmani rappresentata da Erdogan è molto vicina al Qatar, paese finito sotto embargo dal 2017 fino al gennaio del 2021 dagli altri paesi del Golfo Persico (tra cui gli Emirati) e dall’Egitto. La visita del principe al Nahyan, quindi, può essere interpretata in diversi modi: come una missione diplomatica per mettere pressione ai delegati ed eleggere il suo uomo (al Raisi), oppure per essere già pronto a celebrare una sua eventuale vittoria. “Questo lavoro è minato da individui che non capiscono cosa significa essere un vero agente di polizia. Il sistema Interpol deve capire questa vulnerabilità. È tempo di una riforma seria”, dice Havránková. Oggi si saprà se avrà vinto la sfida e diventerà la seconda donna a capo della più importante agenzia poliziesca di cooperazione al mondo. Prima di lei ci è riuscita solo la francese Mireille Ballestrazzi, in carica dal 2012 al 2016. Rilasciato a sorpresa dalla giustizia italiana, l’aguzzino di Pinochet è già in Germania di Elena Basso Il Manifesto, 25 novembre 2021 Cile. Reinhard Doring Falkenberg, tedesco-cileno arrestato a Forte dei Marmi lo scorso settembre, era in procinto di essere estradato a Santiago. Torturatore e fondatore insieme ad altri nazisti della Colonia Dignidad, è stato liberato per motivi di salute. La Questura di Lucca al Manifesto: “Rilasciato da cittadino libero, ha fatto ritorno a casa sua in Germania”. La giustizia italiana ha rilasciato Doring Falkenberg Reinhard, un cittadino tedesco-cileno accusato di essere stato un torturatore del regime di Pinochet. Falkenberg, uno dei 10 cileni ricercati dall’Interpol più pericolosi al mondo, era stato arrestato il 22 settembre scorso a Forte dei Marmi, mentre si trovava in vacanza. L’uomo, che oggi ha 75 anni, è accusato di crimini di lesa umanità ed era scappato dal Cile nel 2005 quando si era aperto un processo per il sequestro e la sparizione di Elizabeth Rekas, Antonio Ormaechea e del cittadino italocileno Juan Maino. Il 19 novembre - secondo i legali della famiglia Maino - è stata depositata negli uffici di competenza del Ministero della Giustizia italiana la richiesta di estradizione per Falkenberg da parte del governo cileno. La Corte d’Appello di Firenze il 18 novembre ha deciso però di revocare la custodia in carcere dell’uomo per motivi di salute e perché non risultava ancora essere pervenuta la richiesta di estradizione. Falkenberg era uno degli imputati del processo per la scomparsa di Maino, Rekas e Ormaeche perché è stato uno dei leader di Colonia Dignidad, uno dei luoghi più oscuri della storia recente cilena: creata da un gruppo di nazisti scappati dalla Germania alla fine della guerra, Colonia Dignidad è stata una vera e propria setta che si è macchiata dei più atroci delitti, dall’assassinio all’abuso sistematico di minori. Durante la dittatura di Pinochet la Colonia è stata adibita a centro clandestino di tortura per gli oppositori politici del regime. Maino, Rekas e Ormaeche, studenti e militanti, sono stati sequestrati il 26 maggio del 1976 e dopo essere stati condotti a Villa Grimaldi, centro di tortura a Santiago, sono stati portati a Colonia Dignidad, per poi scomparire. Grazie alla confessione di un colono fuggito dal Cile è stato possibile ritrovare l’auto di Juan che era stato sotterrata all’interno della Colonia. Raggiunti telefonicamente dal manifesto i responsabili della Questura di Lucca hanno confermato che Falkenberg è stato rilasciato, come ordinato dalla Corte di appello di Firenze, il 18 novembre, e che si è regolarmente presentato in caserma tutti i giorni come previsto dal provvedimento fino al 22 novembre, giorno in cui scadevano i tempi che aveva a disposizione il governo cileno per presentare la richiesta di estradizione. Come dichiarato dai legali di Maino però la richiesta di estradizione è stata depositata negli uffici competenti della giustizia italiana il 19 novembre scorso. I responsabili della Questura di Lucca hanno dichiarato che: “Come da provvedimento emanato dalla Corte d’Appello di Firenze Falkenberg si è presentato tutti i giorni in Questura fino al giorno 22 novembre, giorno in cui è stato rilasciato da cittadino libero e ha fatto ritorno a casa sua in Germania, domicilio di cui abbiamo l’indirizzo. La Corte d’Appello ha notificato di continuare la misura cautelare nei confronti di Falkenberg solo dopo la scadenza del provvedimento, quando Falkenberg non si trovava più nel territorio di Lucca”. Falkenberg nel 2005, quando si è aperto il processo contro di lui in Cile è scappato in Germania, Paese di cui ha la nazionalità e da cui non può essere estradato. Il provvedimento della Corte d’appello di Firenze del 18 novembre scorso, con cui si revoca la custodia in carcere di Falkenber è stata emanata dai magistrati Paola Masi, Alberto Panu e Anna Favi. La Corte d’Appello di Firenze, contattata telefonicamente, non ha per il momento voluto rilasciare dichiarazioni, così come i funzionari dell’Ambasciata cilena in Italia. Da Santiago del Cile Margarita Maino, sorella di Juan, dice: “Non ho parole per esprimere la rabbia e il dolore che provo. Mi sento impotente. Questa è una gravissima mancanza di rispetto verso le migliaia di persone che sono state torturate e fatte sparire dal regime di Pinochet. Falkenberg era l’unico che poteva dirci, finalmente dopo 45 anni, cosa è successo a mio fratello. Poteva raccontare cosa è successo a lui e a tutti gli altri desaparecidos di Colonia Dignidad. E questa era l’unica occasione che avevamo per riportarlo in Cile per processarlo”.