Ergastolo ostativo, chi critica la legge 5S passa per colluso di Errico Novi Il Dubbio, 24 novembre 2021 Nella commissione Giustizia di Montecitorio si discute sulla legge che deve recepire il mandato della Corte costituzionale: consentire anche agli ergastolani di mafia e terrorismo di accedere, prima o poi, alla liberazione condizionale anche se non collaborano con la giustizia. Miceli (Pd) e Zanettin (FI) assicurano di voler cambiare il testo base del 5S Perantoni. Ma incombe il rischio che pentastellati e FdI replichino con l’accusa di voler “scarcerare i boss”. C’è un tempo per il garantismo, uno per le chiusure. Passata la golden hour della presunzione d’innocenza, il Parlamento torna a inebriarsi con le fragranze giustizialiste dell’era Bonafede. Su un tema, certo, delicato e pericolosissimo: l’ergastolo ostativo. Così pericoloso che sugli eventuali tentativi di migliorare il testo base, firmato dal pentastellato Mario Perantoni, incombe una minaccia: e cioè il rischio che 5 Stelle e FdI reagiscano con l’accusa di “voler scarcerare i mafiosi”. E la deputata di Italia Viva Lucia Annibali, nelle scorse ore, ne ha avuto un assaggio, come lei stessa racconta in un’intervista al Dubbio. Ergastolo ostativo, cosa dice la Consulta - Ricapitoliamo. Nella commissione Giustizia di Montecitorio è in corso l’esame della legge che deve recepire l’invito rivolto dalla Consulta con l’ordinanza 97 dello scorso 11 maggio: disciplinare l’accesso alla liberazione condizionale anche per quegli ergastolani ostativi che non collaborino con la giustizia. È praticamente un ordine: ma ci sono tutte le condizioni perché venga disatteso, o travisato. Quando c’è di mezzo la mafia tutto diventa più impervio, l’assedio giustizialista si fa irresistibile. E così il comitato ristretto della commissione ha adottato, come “base”, il testo di Perantoni, che della commissione è anche presidente: un articolato carico di condizioni impossibili da rispettare per l’ergastolano che volesse ottenere la liberazione, e veder così riconosciuto il diritto costituzionale a una pena umana, orientata al reinserimento, non alla morte civile. Più di tutto, secondo il testo base l’ergastolano deve provare con “assoluta certezza” (testuale) l’assenza di residui rapporti con la cosca (o l’organizzazione criminale generalmente intesa, visto che le norme si applicano pure ai terroristi). “È un testo semplicemente di partenza, ha una valenza tecnica”, assicura il capogruppo di FI in commissione, Pierantonio Zanettin, “poi ciascuno farà i propri emendamenti. Certo, quella proposta da Perantoni è già una legge più lineare rispetto a quella ipotizzata da un altro deputato 5 Stelle, Vittorio Ferraresi. Noi comunque presenteremo le nostre modifiche, la base non va confusa col punto d’arrivo”. Ergastolo ostativo, la posizione dell’Anm - Chiarissimo: sulle intenzioni di Forza Italia non c’è motivo di dubitare. E neppure ce n’è su quelle del Pd, che nel comitato ristretto è rappresentato da un altro parlamentare di comprovatissima fede garantista, Carmelo Miceli: “Partiamo da un testo più snello rispetto a quello di Ferraresi, ma riteniamo debba essere migliorato. In audizione, il presidente Anm Giuseppe Santalucia ha segnalato tra l’altro la ridondanza che sembra permanere in alcuni passaggi, a cominciare dalla parte in cui si richiede che il detenuto dimostri l’assenza di collegamenti con l’organizzazione criminale in termini di assoluta certezza: Santalucia”, ricorda Miceli, “fa notare che ne poterebbero derivare difficoltà interpretative notevoli”. E certo: come hanno scritto sul Dubbio due prime linee dell’avvocatura penale, Michele Passione e Maria Brucale, la certezza della prova, addirittura “negativa”, prevista in capo non all’autorità giudiziaria ma a una persona rinchiusa da trent’anni in carcere, è una pretesa assurda. Oltretutto, il testo base seppellisce un istituto creato dalla giurisprudenza costituzionale, la “collaborazione inesigibile”, cioè impossibile, o “irrilevante”. “Il testo base supera la logica di quell’istituto”, riconosce Miceli, “perché prevede che il recluso debba produrre una serie di allegazioni per poter accedere al beneficio. Quindi non basta più la collaborazione impossibile o irrilevante, cioè il limite oggettivo di chi proviene magari da un clan totalmente sgominato o svolgeva ruoli così marginali da non poter offrire elementi utili”. Non basta più, e quindi Santalucia anche qui ricorda che si dovrebbe “quanto meno prevedere un regime transitorio” per l’ergastolano che avesse già avviato una procedura basata sui margini consentiti dalla disciplina antecedente la nuova legge. Ma appunto, gli aggiustamenti minimi, a cominciare dall’addio a quella pretesa di assoluta certezza, arriveranno davvero? Zanettin lo assicura. Miceli a propria volta spiega che martedì prossimo “come Pd, svolgeremo un’agorà, un confronto aperto a magistrati, avvocati e accademia, proprio sul 4 bis, per approfondire ogni aspetto in vista degli emendamenti”. Il venerdì successivo, 3 dicembre, scade appunto il termine per proporre modifiche. Zanettin è chiaro: “Non anticipo gli emendamenti di Forza Italia, posso dire che saranno in linea con i princìpi fissati dalla Consulta: nessuna sottovalutazione della sicurezza, ma laicità e garantismo nel recepire la sentenza costituzionale”. Ergastolo ostativo, cosa faranno i “garantisti”? E cosa succederà il giorno dopo se, per esempio, la “assoluta certezza” di Perantoni fosse corretta, da FI, Pd e Italia Viva, in “ragionevole probabilità”? E se qualche deputato avesse il coraggio di osservare come il vincolo della dissociazione, tra i tanti oneri previsti a carico dell’ergastolano, violi il principio del “diritto al silenzio”, di chiara derivazione costituzionale, cosa accadrebbe? Con ogni probabilità, M5S e Fratelli d’Italia (che ha depositato una proposta per cambiare addirittura l’articolo 27 della Carta) griderebbero al “salva mafiosi”. A quel punto i garantisti andrebbero fino in fondo? Diciamo che stavolta, forse la prima volta nell’era Cartabia, sono sotto scacco. E chissà se almeno la guardasigilli potrà impartire, ai deputati, una lezione di diritto costituzionale, quando dovrà esprimere il parere sugli emendamenti. “Io, lapidata dal Movimento per aver fatto una domanda in audizione...” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 novembre 2021 Annibali (Italia Viva): “Ho subito attacchi vergognosi dai grillini per aver criticato il loro testo”. Che per i giuristi è incostituzionale. Articolo 1 bis del testo base sull’ergastolo ostativo: potranno essere concessi i benefici ai detenuti, anche di mafia, “purché oltre alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo, dimostrino l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o l’assoluta impossibilità di tale adempimento”. Lunedì 22 novembre: audizioni in commissione Giustizia. La deputata di Italia Viva Lucia Annibali chiede al presidente Anm Giuseppe Santalucia come giudica questa norma. I 5 Stelle la attaccano via comunicato stampa: “È allarmante che Lucia Annibali si domandi se non sia troppo che un mafioso condannato debba risarcire le sue vittime per accedere ai benefici penitenziari, evidenziando il dubbio che questo meccanismo possa ‘appesantire’ o essere ‘ambiguo’”. Onorevole Annibali, come replica alle parole dei suoi colleghi pentastellati? Il comunicato mi sembra molto scorretto e anche abbastanza vergognoso. Hanno voluto strumentalizzare una mia domanda. Come membro della commissione, ho interpellato il presidente dell’Anm su un aspetto tecnico per capire se quell’ulteriore requisito nel testo base aggravi l’onere della prova per il detenuto, rendendo quindi ancora più difficile l’accesso ai benefici, contrariamente a quanto indicato dalla Corte costituzionale. Ed effettivamente il dottor Santalucia ha rilevato che sarebbe un aggravamento del trattamento penitenziario e ha suggerito una riformulazione. Come se limitare i paletti per l’accesso ai benefici equivalesse a fiaccare la lotta alla mafia... Si tratta di una narrazione distorta e molto ideologica, quale in generale è l’approccio del Movimento 5 Stelle ai temi della giustizia. Basti pensare alla spazza-corrotti. Inutile girarci intorno, bisogna dire chiaramente da che parte si sta: se da quella della Consulta o da quella del ripristino dell’ergastolo ostativo. In generale che pensa del testo base? Su cosa farete emendamenti? Sicuramente il testo base è diverso da quello dell’onorevole Ferraresi. Positivo il fatto che non sia più previsto un tribunale unico per tutte le istanze. Certo bisognerà ragionare sull’onere della prova che al momento resta a carico del detenuto. Poi c’è il grosso problema dell’eliminazione della collaborazione impossibile. C’è quindi il rischio di un ‘nuovo ergastolo ostativo’? Se si ascolterà Caselli il risultato sarà quello... Sarà un percorso difficile, perché ci sono visioni completamente diverse su questo tema. Sono davvero poche le posizioni politiche che realmente vogliono andare nella direzione tracciata dalla Consulta. Rispetto a Caselli, ognuno sceglie di audire chi è più in sintonia col proprio pensiero. Noi abbiamo preferito indicare l’avvocato Catanzariti, co- responsabile dell’osservatorio Carcere dell’Ucpi. Comunque anche il governo dovrà esprimere i propri pareri. Le volevo chiedere proprio questo: servirà un intervento della ministra Cartabia che indichi, anche come ex presidente della Consulta, la strada da seguire? Secondo me la ministra deve dare un segnale, anche per la sua sensibilità e la sua posizione sul tema del carcere. Sempre a proposito di carcere, c’è la Commissione ministeriale al lavoro, ma non sarebbe stato meglio prendere subito provvedimenti per decongestionare gli istituti? Certamente, le possibilità ci sono per fare subito qualcosa. La Commissione va bene, anche se manca al suo interno l’apporto del punto di vista del volontariato. Il carcere non ha più bisogno di belle parole, ma di azioni urgenti. Non si sente parlare ancora di riforma del Csm... Della riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario si sono perse le tracce, dopo l’incontro interlocutorio con la ministra. Sicuramente concentrarsi solo sul sistema elettorale non aiuta a risolvere i problemi di credibilità della magistratura. Per noi è importante affrontare anche altri temi, gli stessi delle Camere penali: valutazioni di professionalità, magistrati fuori ruolo, Consigli giudiziari. Lei, con Mirella Cristina è relatrice del ddl civile: cosa ci può dire? L’aspetto positivo è che c’è un riconoscimento pieno della violenza domestica nelle separazioni civili con affido. Inoltre, finalmente, si mette uno stop alla alienazione parentale, che non ha alcun fondamento scientifico. Il 25 novembre è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. È stato fatto abbastanza? Dal punto di vista legislativo è stato fatto tanto ma su questo tema bisogna sempre fare di più. Sentiamo la frustrazione quando leggiamo di questi casi di cronaca e allora ci rendiamo conto che manca sempre un pezzetto per garantire la protezione e la sicurezza delle donne. Bisogna allargare lo sguardo: non fermarci all’approccio penalistico ma creare degli strumenti che possano rispondere ai bisogni delle donne vittime di violenza. C’è una forma di violenza di cui poco si parla ma che è molto diffusa: quella economica. Assieme alla ministra Bonetti, abbiamo lavorato per istituire il “Reddito di libertà”: un aiuto economico mensile dello Stato per le donne che subiscono violenza, al fine di sostenere lo sviluppo di un progetto di vita indipendente. Detenuti psichiatrici, l’orrore dietro le sbarre del reparto “Sestante” di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 24 novembre 2021 Torino. Dopo la testimonianza della coordinatrice nazionale di Antigone nel carcere Lorusso e Cotugno. Trattamenti inumani e degradanti, la procura apre un’inchiesta. Era il 1998 quando Antigone per la prima volta ricevette l’autorizzazione dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a visitare tutti gli istituti di pena italiani. Allora ai vertici dell’Amministrazione c’era quel magistrato gentiluomo che era Sandro Margara. A lui sembrava naturale che un’organizzazione della società civile potesse avere una funzione di monitoraggio delle condizioni di detenzione. Da allora abbiamo visitato più volte tutte le carceri d’Italia. Lo abbiamo fatto sempre con uno spirito costruttivo e con discrezione. Per alcuni anni siamo riusciti a raccontare non solo con le parole ma anche con le immagini quello che vedevamo. Il tutto sempre in uno spirito non di contrapposizione ma funzionale a rendere la pena coerente con il dettato costituzionale che vieta trattamenti contrari al senso di umanità. Purtroppo nelle ultime visite non abbiamo potuto tradurre anche in immagini le nostre parole in quanto ormai da due anni questa opportunità ci è stata tolta. Le immagini vanno spesso oltre le parole nel potere di raccontare la vita interna. Da quelle, rispetto alla nostra ultima visita al carcere di Torino, sarebbe stata per tutti più forte e immediata la sensazione di trovarsi di fronte a condizioni inumane e degradanti. Antigone rinnoverà la propria richiesta nel 2022 per poter portare all’interno le videocamere, strumento prezioso di trasparenza e democrazia. Nei giorni scorsi Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, è stata in visita all’istituto torinese insieme al coordinatore dell’Osservatorio sulle carceri Alessio Scandurra. Marietti ha raccontato, in un resoconto che ha girato molto, quel che hanno visto nel reparto psichiatrico “Sestante” dell’istituto. Le sue parole hanno prodotto un’indignazione generalizzata che ha indotto l’Amministrazione Penitenziaria a chiudere quel reparto. Un reparto dove le persone vivono chiuse in circa venti piccole celle singole dalle condizioni degradate, vuote di quasi tutto se non un letto inchiodato al pavimento e un bagno alla turca aperto alla vista di tutti. I nostri osservatori hanno trovato persone buttate per terra al buio nell’indifferenza generale, o che parlavano da sole con la faccia contro il muro, o ancora incapaci di reggersi sulle gambe e di tenere gli occhi aperti per i troppi medicinali assunti. Hanno trovato persone ridotte all’incapacità di parola, con la saliva che colava dalle labbra e gli occhi vuoti. Un uomo era al buio poiché la luce della sua cella era rotta e nessuno la aggiustava. Un altro uomo chiedeva che qualcuno scaricasse le sue feci visto che la turca non funzionava. Un ragazzino era terrorizzato. La mamma non era stata avvisata di dove si trovasse. Erano cinque anni che il reparto “Sestante” era sotto l’attenzione pubblica. C’erano stati in precedenza segnalazioni e rapporti sia del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura sia del Garante nazionale delle persone private della libertà. Ora, solo quando l’indignazione ha trafitto i media, si è giunti a prendere coscienza che non si poteva tenere aperta una sezione di questo tipo. Alcune osservazioni conclusive di una vicenda che ha visto la Procura torinese avviare un’inchiesta per maltrattamenti: 1) Il problema dei detenuti affetti da patologie psichiatriche non si risolve né aumentando i posti nelle Rems (che hanno sostituito i vecchi ospedali psichiatrici giudiziari) né trasformando reparti carcerari in veri e propri manicomi criminali. Il problema si risolve attraverso un’accurata ed equilibrata gestione socio-sanitaria di queste sezioni da parte dei servizi territoriali. Non ci si può affidare alla sola terapia farmacologica e là dove possibile bisogna pensare a percorsi che portino le persone a essere curate anche in contesti di libertà. In questi reparti deve essere assicurato un adeguato trattamento penitenziario. 2) È necessario che a partire da Torino si ridia slancio ad una visione della pena che per tutti sia umana e finalizzata al reinserimento sociale. La Ministra Marta Cartabia ne è consapevole. Non ritroviamo la stessa consapevolezza in una circolare dell’Amministrazione penitenziaria che vorrebbe allargare a dismisura la creazione di sezioni ad hoc per i detenuti accusati di essere fastidiosi. 3) Sarebbe importante che i media si riapproprino di un proprio ruolo di informazione e negozino un diverso modo di raccontare quello che accade nelle carceri italiane. Dalle pagine del Manifesto alcuni anni fa lanciammo una campagna per far entrare le tv e i giornali nelle carceri. Ne riconfermiamo oggi l’importanza, anche alla luce dei fatti di Torino. *Antigone Inumana, degradante, illegale: l’inaccettabile realtà della sezione psichiatrica carceraria di Luigi Manconi La Repubblica, 24 novembre 2021 “Nell’ultima cella prima dell’uscita c’era un ragazzino. Avrà avuto 25 anni. Le lacrime hanno cominciato a scendergli dagli occhi. Mi ha detto che non capiva perché fosse lì, che gli mancava sua madre e che aveva tanta paura tutte le notti. Gli operatori mi hanno spiegato che erano in attesa che si liberasse un posto in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) per i pazienti psichiatrici. Il ragazzo non avrebbe dovuto trovarsi lì, non c’era titolo per la sua detenzione. Sono uscita e ho chiamato la madre. Era contenta che almeno qualcuno avesse visto suo figlio. Lei non ci era riuscita, nessuno le aveva detto dove lo avessero portato”. Così Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, che qualche giorno fa ha visitato la sezione psichiatrica del carcere di Torino. Il racconto di Marietti prosegue: “La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con i chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno ha un piccolo cuscino di gommapiuma. Non vi è una sedia né un tavolino. Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere in posizione scomodissima. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio”. In queste condizioni, Susanna Marietti ha trovato sedici detenuti, tra i quali un giovane uomo che “si teneva a stento in piedi sulle gambe. Aveva un filo di bava che gli colava sulla blusa. Gli occhi semichiusi, come se stesse per addormentarsi in piedi da un momento all’altro. Ha tentato di pronunciare qualche parola rivolto a me che mi ero fermata lì davanti. Faceva fatica ad articolare i suoni. Ha balbettato la parola ‘avvocato’. Gli ho chiesto se avesse avuto modo di parlare con il suo legale. Si è chinato e da un mucchietto di carte per terra ha preso un foglietto con un numero di telefono. L’ho copiato sul mio quaderno e gli ho detto che l’avrei avvisato che si trovava lì. Mi è stato spiegato che l’uomo era a Torino per un periodo di 30 giorni di osservazione psichiatrica, mandato lì da un altro istituto”. E poi un altro ragazzo che “stava in piedi con la faccia a pochi centimetri dal muro. Teneva i palmi delle mani rivolti verso l’altro, all’altezza delle spalle. Parlava verso quella parete, ogni tanto si girava verso il letto, poi tornava a rivolgere la faccia al muro. Barcollava e aveva gli occhi a mezz’asta”. In una simile situazione si trovavano tutte le persone recluse nella sezione Sestante, la cosiddetta “articolazione psichiatrica” del carcere torinese. Condizioni inumane e degradanti oltre che palesemente illegali. Dopo che la denuncia di Antigone è stata ripresa ampiamente da La Stampa, c’è stata la risposta da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che ha così replicato: “Oggi (ieri, ndr) è stato sottoscritto il contratto con la ditta aggiudicataria dell’appalto”, che prevede la ricostruzione dell’intera sezione psichiatrica. Nel frattempo, come ha spiegato il capo del Dap Bernando Petralia, gli attuali detenuti verranno trasferiti altrove fino a quando non sarà chiuso il cantiere finalizzato alla riqualificazione di quell’area. E qui c’è già una incongruenza: almeno uno di quei sedici detenuti della sezione Sestante, lì non doveva proprio starci. Perché la sua destinazione sarebbe stata, appunto, in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, e non nella cella di un penitenziario. Ma, ecco il punto, in tutto il territorio nazionale si registra una grave carenza di posti all’interno delle Rems: e, così, le persone che vi sono destinate per legge vengono “scaricate” laddove capita. Proprio contro questa gravissima violazione delle garanzie fondamentali, la Corte europea dei diritti umani, nel gennaio del 2021, a seguito di un esposto dell’avvocato Andrea Saccucci, ha emesso una ingiunzione che vieta tassativamente la reclusione in carcere dei pazienti psichiatrici. Ultima considerazione: il Dap ha la pessima abitudine di non rispondere alle richieste e alle critiche, che provengano dai mezzi di informazione o dai rappresentanti istituzionali, eppure questa volta ha battuto un colpo. Forse l’ha fatto perché poteva - e giustamente - rivendicare una qualche tempestività. È una buona notizia, ma gravemente compromessa dal fatto che la prima segnalazione della tragica situazione del reparto Sestante, a opera del Garante nazionale delle persone private della libertà, risale all’ottobre del 2016. Sono cinque anni giusti giusti di denunce inascoltate e di un intollerabile scialo di sofferenza. Caso “Il Sestante”: la procura indaga e Bernardini accusa la Regione Piemonte di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 novembre 2021 La Procura di Torino ha aperto un fascicolo contro ignoti per maltrattamenti sui detenuti della sezione psichiatrica “Il Sestante” del carcere di Torino. L’inchiesta arriva dopo la lettera- denuncia dei giorni scorsi della presidente nazionale dell’associazione Antigone, Susanna Marietti, che aveva visitato la sezione definendola un ‘luogo vergognoso in cui si rinuncia a vite umane come se valessero niente’. Nel frattempo, Rita Bernardini del Partito Radicale denuncia che hanno un nome e cognome i responsabili della sezione psichiatrica dell’orrore “Il Sestante” del carcere di Torino e sono da ritrovare nella regione Piemonte visto che è lì che ricade la responsabilità della sanità penitenziaria. Ricordiamo che il famigerato reparto del carcere di Torino è ritornato alla ribalta grazie all’accurato resoconto di Susanna Marietti di Antigone, reduce della recente visita. Scene che non vi si ritrovano nemmeno più nel cosiddetto ‘Terzo Mondo’. Una sezione dove - come ha sempre denunciato Antigone nella relazione di marzo scorso un ragazzo di 24 anni fu costretto a bere l’acqua del water. Dove nel 2019 si è uccisa una persona con il cappio al collo e appeso sull’angolo di una finestra aperta per dodici interminabili minuti prima che un agente entrasse. Eppure doveva essere sorvegliato a vista. Parliamo della stessa sezione che già nell’ottobre del 2017 fu segnalata dal Garante nazionale delle persone private della libertà. Nonostante gli impegni presi dalle Amministrazioni in risposta alle Raccomandazioni formulate e nonostante le continue sollecitazioni, l’ultima visita di giugno aveva confermato le condizioni immutate in una considerevole parte del Reparto. L’unico sostanziale passo avanti è stato la chiusura e disattivazione della “cella liscia”, come richiesto dal Garante nazionale sin dal 2018. Rita Bernardini del Partito Radicale, rende noto che con Sergio Rovasio e Mario Barbaro, dopo aver visitato Le Vallette, il 6 agosto scorso, hanno scritto al presidente della regione Alberto Cirio e all’assessore alla Sanità Luigi Icardi, che però non hanno risposto. “Occorre chiamarli in causa perché sono loro i maggiori responsabili. Oltre al fatto che le Asl devono verificare ogni sei mesi lo stato di salubrità dei luoghi detentivi: non hanno avuto niente da dire e da relazionare? “Il Sestante” del carcere torinese Le Vallette da quanto tempo non lo controllano?”, denuncia pubblicamente Rita Bernardini. Durante la visita del 6 agosto, erano presenti anche i Garanti dei detenuti della Regione Piemonte, Bruno Mellano e del comune di Torino, Monica Gallo. Nella lettera hanno denunciato che in ambito sanitario sono stati riscontrati gravi problemi acuitisi negli ultimi due tre anni, e precisamente: assenza quasi totale di medici specialisti con grave carenza strutturale delle attività specialistiche, tra tutte la cardiologia, con costante aumento di traduzione delle persone detenute negli ospedali cittadini; le sezioni “Il Sestante” e “Filtro” con particolari situazioni critiche sanitarie anche dal punto strutturale, compreso il reparto “Servizio Assistenza Intensivo”; vi sono persone detenute con gravi problemi psichiatrici in reparti non adeguati, in particolare vi sono due celle con persone in gravi difficoltà in aree di detenzione comune con altri detenuti nel reparto femminile ubicato al primo piano. Non solo. Sempre nella lettera inviata alla Regione Piemonte, relativamente all’osservazione di donne detenute con disturbi comportamentali gravi, si osserva che nell’ultimo anno si è registrato un aumento di casi per via della consolidata procedura di invio in osservazione psichiatrica al cosiddetto “Sestantino” di donne provenienti anche da altri Istituti. “È grave - ha scritto Rita Bernardini nella lettera - che le camere di pernottamento adibite all’ospitalità delle donne con disturbi, sono situate al primo piano della seconda sezione dell’Istituto in convivenza con altre donne detenute che svolgono attività scolastiche, formative e/ o lavorative”. Sempre nella lettera, vengono denunciate le condizioni igieniche carenti “dovute a scarsa/ inesistente manutenzione, in particolare per mancanza di adeguata disinfestazione di tutte le aree con ambienti degradati e spazi inadeguati sotto il profilo igienico- sanitario e conseguente presenza costante di blatte, scarafaggi e topi”. La lettera conclude con l’augurio che si intervenga con la massima urgenza per limitare il più possibile le gravi carenze indicate. Ma nessuna risposta dalla Regione. Il reparto psichiatrico del carcere di Torino chiuderà: ne sono felice. Ma non fermiamoci qui di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2021 Il mio racconto di alcuni giorni fa su quanto ho visto nel reparto psichiatrico “Sestante” del carcere di Torino ha smosso una grande attenzione e molte reazioni. Tra queste, quella del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che sta in queste ore chiudendo la sezione. Ovviamente ne siamo felici. Immagino quanto sia difficile guidare una struttura complessa come il sistema carcerario. Immagino il carico di lavoro, le responsabilità, i tanti livelli decisionali sovrapposti: sarebbe ingenuo pensare che le cose si facciano con lo schioccare delle dita. Però rimango stupita dal leggere sui giornali che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria avrebbe affermato - firmando il contratto solo ieri, dopo il polverone sollevato, con la ditta aggiudicatrice dell’appalto - che “è un’opera su cui abbiamo lavorato fin dall’inizio del nostro insediamento e che oggi realizziamo conoscendo benissimo la situazione in cui versa la sezione del penitenziario in questione”. Io non ho dormito, dopo aver conosciuto quella situazione. Non riesco a immaginare come possa qualcuno conoscerla addirittura benissimo e lasciarla lì. Se davvero è stato detto quanto riportato, se davvero la conoscevano benissimo (anche dopo le molte segnalazioni, in particolare quelle del Garante nazionale), perché è dovuto servire l’intervento di Antigone per far cambiare le cose? Ripeto: so bene che i meccanismi sono complessi e coinvolgono tante persone, fasi, ingranaggi. Per questo parlo a tutti noi: inorridiamo, per favore. Non diamo nulla per scontato. Non abituiamoci a che ci siano vite da buttare via. Se si conosceva benissimo la situazione e si sono aspettati degli anni, allora si è dato per scontato che qualche vita si poteva trattare così. Fino a che resteremo assuefatti all’orrore non ci sarà scampo. Cambieremo le mattonelle al Sestante, trasferiremo i detenuti in un reparto senza la turca a vista, ma le pratiche profonde con le quali ci rapporteremo a queste persone resteranno le stesse. Non c’è solo quel reparto in Italia. In giro per le carceri si trovano altre sezioni di osservazione psichiatrica, che versano in condizioni strutturali meno degradate ma dove si incontrano le stesse persone imbottite di psicofarmaci e lo stesso abbandono e noncuranza. Sono felicissima che il reparto stia chiudendo, ma non fermiamoci qui. Adesso guardiamo al futuro. Non facciamo sì che la chiusura del Sestante possa costituire una distrazione da tutto il resto. In queste ore abbiamo già avuto preziosi segnali di attenzione da parte del mondo medico, penitenziario, giudiziario. Se il Dipartimento conosce oggi altre situazioni come quella, non aspetti mesi e anni prima di firmare il contratto per i lavori. Non vogliamo leggere tra sei mesi che “conosceva benissimo” ma non ha fatto nulla. Se i dirigenti delle Asl sanno che i loro medici lasciano vivere le persone chiuse in gabbia e incapaci di reggersi in piedi per la quantità di psicofarmaci che ingeriscono, prendano immediati provvedimenti e impongano la chiusura dei reparti per ragioni sanitarie. Se una direzione di istituto sa di avere un reparto come quello nel proprio carcere, urli, lo denunci, lo scriva sui giornali. Non c’è burocrazia di fronte a violazioni così profonde della dignità della persona. *Coordinatrice associazione Antigone Articolazioni psichiatriche penitenziarie: le critiche del Comitato di Bioetica di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 novembre 2021 In una relazione del 2019 evidenziati i problemi dell’assistenza e quelli giuridici. Le “articolazioni psichiatriche penitenziarie” presentano una serie di gravi problematiche: dalla mancanza di copertura giuridica adeguata e di indicazioni sulle caratteristiche strutturali; alla carenza di chiarezza circa la gestione delle articolazioni stesse. Molte delle articolazioni psichiatriche previste sono rimaste finora sulla carta, mentre altre risultano prive di qualsiasi caratteristica sanitaria. A denunciare le forti criticità riguardanti i reparti delle articolazioni psichiatriche nelle carceri, ci ha pensato il Comitato di Bioetica in una relazione del 2019. Non solo, quindi, il reparto “Il Sestante” del penitenziario di Torino, ma è un vulnus che riguarda anche altre strutture. La relazione punta al tema specifico dell’assistenza in carcere, il nodo più delicato e controverso riguarda i condannati e già reclusi cui venga riscontrato un disturbo psichiatrico grave durante la detenzione. Per questi soggetti, il riferimento è agli articoli 147 e 148 del Codice penale (il primo sul differimento pena per incompatibilità con la detenzione, il secondo che stabilisce il trasferimento in Opg). L’articolo 147 permette a chi si trovi “in stato di grave infermità fisica” di godere della sospensione della pena, uscendo dal circuito penitenziario per essere sottoposto alla misura di detenzione domiciliare al fine di curarsi. Il mancato riferimento in questo articolo alla “infermità psichica” ha finora impedito - prima della pronuncia della Corte Costituzionale - di allargare la possibilità della sospensione ai soggetti con malattia psichiatrica, causando una discriminazione lesiva del principio di uguaglianza e del diritto alla tutela della salute. Quanto all’art. 148, la norma sopravvive nonostante l’Opg non esista più. Secondo il Comitato di Bioetica si apre perciò il problema di dove e come debbano essere curate queste persone, nel rispetto del loro diritto alla tutela della salute. “Anche per questi - si legge nella relazione -, non è pensabile un loro ricovero nelle Rems, a meno di non venire meno alla loro finalità curativa, trasformandole in un sostituto dell’Opg”. Il paradosso della sopravvivenza dell’art. 148 dopo la chiusura dell’Opg induce a riflettere. “Da un lato, è direttamente la spia della poca chiarezza circa il disegno complessivo della cura dei “rei folli” 25 ma anche, indirettamente, della cura dei “folli rei”, perché mette in tensione il nuovo sistema di cura delineato per questi ultimi; dall’altro, alimenta la spinta a usare le Rems come se fossero degli Opg in scala minore”, ha sottolineato il Comitato di Bioetica. Il percorso di adeguamento legislativo si è interrotto dopo la legge 81/2014. Non è stato toccato il “doppio binario” di non imputabilità/ imputabilità, che si apre davanti agli autori di reato affetti da disturbi mentali e che produce il “doppio binario” trattamentale: il primo riguardante i cosiddetti “folli rei”, giudicati non imputabili; il secondo per i “rei folli”, considerati capaci di intendere e perciò imputabili. Poiché la legge 81/ 2014 ha affrontato solo il binario assistenziale dei “folli rei”, è rimasta incerta la sorte delle altre tipologie di malati in precedenza ospitati negli Opg: le persone in misura di sicurezza provvisoria in attesa che venga accertata la non imputabilità (con eventuale successiva trasformazione della misura di sicurezza provvisoria in definitiva) e i soggetti in osservazione psichiatrica (i cosiddetti “osservandi”), su disposizione del magistrato, per stabilire l’esistenza o meno della infermità psichica sopravvenuta durante la detenzione. Bambini in gabbia, il dramma di chi passa l’infanzia in carcere con le madri detenute di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 24 novembre 2021 Il governo prepara la svolta: fondi alle Regioni per costruire nuove case protette. Quando il 18 settembre del 2018 Alice Sebesta, una donna tedesca di 33 anni, uccise i suoi due figli - la bambina di sei mesi, il maschio di un anno e mezzo - gettandoli dalle scale della sezione nido del carcere di Rebibbia, tutti dissero: “Mai più”. L’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede ha confidato - anni dopo - di aver pianto, quel giorno. I politici di tutti i colori si sono interessati, per qualche settimana, delle condizioni dei bambini piccoli, piccolissimi, costretti a vivere e crescere dentro a un carcere per espiare la colpa delle loro madri. Ma da allora, quasi nulla è cambiato. C’è una legge che langue in commissione Giustizia alla Camera: il primo firmatario è il deputato Pd Paolo Siani. La ratio è molto semplice: davanti a una madre con figli piccoli, la prima scelta del giudice deve essere sempre una casa protetta (ce ne sono solo due, una a Milano e una a Roma, ma ci sono - approvati nell’ultima manovra di Bilancio - 4, 5 milioni di euro per costruirne altre). E quindi, solo in caso di reati particolarmente gravi o efferati, una madre col suo bambino dovrebbero andare in cella. Oggi è il contrario. Oggi sono la prigione o l’Icam, gli istituti a custodia attenuata, la prima scelta. Quella che porta bambini di pochi mesi, fin a tre anni, a vivere la loro prima infanzia chiusi in posti bui, con le sbarre che si chiudono alle otto di sera, con la possibilità di uscire con i volontari sospesa in tempo di Covid e ancora oggi, in un carcere come Rebibbia, dove l’abitudine di portarli al nido al mattino non è mai ripresa per questioni sanitarie. E dove i nuovi arrivi stanno per una settimana in isolamento Covid con le loro madri (vuol dire chiusi in cella, 24 ore su 24, 7 giorni su 7). Negli Icam i minori possono rimanere fino a 6 anni, alcuni a 10, ma anche se non hanno sbarre, restano una prigione. Dove tornare da scuola senza potersi fermare a casa dei compagni. Dove c’è sempre un’assistente che magari non è in divisa, ma alla quale devi chiedere: “Apri. Ti prego, apri”. È la prima parola che imparano i bambini in carcere, “Apri”. Prima di mamma, prima di papà. E così non parliamo solo di scandali come quello del reparto per malati psichiatrici al Lorusso e Cotugno di Torino, quando parliamo di carcere. Lo ha detto più volte Carla Garlatti, Garante nazionale per l’Infanzia, già giudice minorile: “È una questione di uguaglianza sostanziale: ogni bambino deve poter partire dalle stesse condizioni di partenza degli altri. In un carcere non è possibile. A luglio avevo chiesto che i fondi per le case protette fossero sbloccati. Sono felice che il 15 novembre sia finalmente accaduto”. A Torino, poco distante dal Sestante, il reparto della vergogna, c’è l’Icam, al piano terra della palazzina dei semiliberi. In questo momento ci abitano tre bambini. Chi di loro va a scuola, per farlo deve attraversare i cancelli. Sa di essere in prigione. Sa che la colpa è della madre. Sara (il nome è di fantasia) che ora è stata accolta a Saluzzo dalla comunità Giovanni Paolo XXIII, in quell’Icam è stata tre anni. Nel suo racconto, c’è tutto quello che un carcere fa a bambini così piccoli. È entrata che l’ultima figlia aveva un anno e due mesi. Quando quella di tre anni le ha raggiunte “piangeva, non dormiva la notte, aveva gli incubi, non voleva entrare in stanza”. A un certo punto la lascia a casa con i parenti e anche ai colloqui, la bambina non vuole più andare: “Si nascondeva sotto il tavolo, aveva paura che la tenessi con me”. Torna quando è un po’ più grande e va a scuola, ma il confronto con il mondo fuori fa ancora più male: “Mi diceva stai tranquilla, sto bene, ma poi cominciavano le domande: perché non posso fermarmi al parco dopo scuola? Perché non posso restare a casa dalla mia amica? Molte delle mie compagne i bambini non li mandavano neanche fuori con i volontari, perché poi non volevano tornare, urlavano, si graffiavano la faccia”. Sara - 27 anni oggi, 22 quando è entrata in prigione - ha scoperto in carcere che per vivere si può lavorare, che non si deve rubare per forza. Prima, semplicemente, non lo sapeva. Suo figlio più grande vive con la nonna e con lei non vuole tornare. Quasi non la conosce: “Non voglio vederlo soffrire. Soffro io e va bene così”. Ma fuori, con i 250 euro che prende grazie a un lavoretto da volontaria, con i documenti da apolide che finalmente ha ottenuto, sogna di ricostruire. La luce di fuori è quella di cui parlano a Roma, alla Casa di Leda, una delle due case protette esistenti, Xionati Episcopo e Zhera Hadovic. Xionati ha 30 anni, una condanna a 9 per associazione a delinquere, un marcato accento romano: “Il momento più brutto è stato quando ho lasciato mio figlio che aveva 9 mesi, gattonava, e l’ho rivisto che correva”. I suoi due bambini sono con lei, ma presto potrebbe dover rientrare in prigione: “La notte li guardo dormire tranquilli e so che il mio è un conto alla rovescia. Che succederà? Dovrò mandare in cura anche il secondo. Il primo - quello che quando ero a Rebibbia avevo dovuto lasciare - ci ho messo un anno per riconquistarlo”. Zhera qui ha due figlie. Parla meno di Xionati. Dice però qualcosa che è al fondo di tutto. E cioè: “Qui adesso vedo la luce. In carcere non c’è la speranza”. La casa di Leda (gestita dall’Asp Asilo Savoia) è dedicata a Leda Colombini, mondina, partigiana, deputata del Pci, una vita per gli ultimi e alla fine proprio per i figli delle detenute. Fu la prima a lottare per una legge migliore. Ancora, a 10 anni dalla sua morte, il suo sogno non si è avverato. Dice Marta Cartabia: “I numeri sono limitati, ma anche un solo bambino in carcere è troppo: perché infliggere la pena a un bimbo o una bimba innocente, la cui infanzia sarà segnata per sempre?”. Dal ministero spiegano quanto siano complessi i casi: a volte, davanti a una possibilità di uscire, alcune madri dicono no. Come dice Monica Gallo, garante dei detenuti a Torino: “Il carcere è diventato un enorme contenitore di disagio sociale”. Ma possiamo continuare a permettere che sia così? “Si sta lavorando da mesi per cercare di offrire a ciascuna madre detenuta con i figli una diversa possibilità, in sintonia con i propri bisogni e con le specifiche esigenze del caso - spiega la ministra della Giustizia - un contributo decisivo ci arriva dalla disponibilità di alcune associazioni del terzo settore, come la Papa Giovanni XXIII”. Cartabia si rende conto che è solo l’inizio: “Lavoriamo perché nessun bambino muova i suoi primi passi negli spazi angusti di un carcere o rappresenti il cielo con le grate alle finestre, come ho visto da alcuni disegni. Questo non ha nulla a che fare con la funzione rieducativa della pena di cui parla la nostra Costituzione”. C’è una legge che langue alla Camera, per fare di più. Basta approvarla (se il Parlamento decidesse di andare avanti - dicono a via Arenula - avrebbe l’appoggio della ministra). Ci sono centinaia di migliaia di euro arrivati alle Regioni per costruire nuove case protette: basta spenderli pensando, per una volta, prima di tutto ai bambini. In questo momento in carcere in Italia ce ne sono 23. Erano 59 a febbraio 2020, prima del Covid. 33 a giugno. Si può fare di più. Basta quella che Luigi Manconi, presidente di A buon diritto, da tempo in lotta su questo tema, chiama: “La volontà politica”. Covid, casi in aumento nelle carceri: positivi 150 detenuti e 152 poliziotti penitenziari ansa.it, 24 novembre 2021 Crescono ancora i casi Covid nelle carceri italiane. I detenuti positivi sono 150 (di cui 14 nuovi giunti), su un totale di 53.816 presenze, mentre i casi sono 152 tra i 36.939 poliziotti penitenziari in servizio. I dati, aggiornati a ieri, sono pubblicati nel report settimanale sul sito del ministero della Giustizia. La scorsa settimana i casi erano 103 tra i detenuti, su una popolazione di 53.777 unità, e 133 tra gli agenti. Tra i detenuti positivi, 146 sono asintomatici, 2 hanno sintomi e sono gestiti all’interno degli istituti e 2 sono ricoverati in ospedale. Tra i poliziotti 149 sono asintomatici in isolamento domiciliare e 3 sono ricoverati in caserma. Dodici sono infine i positivi tra le 4.021 unità del personale dell’amministrazione penitenziaria, tutti in isolamento domiciliare, la scorsa settimana erano 11. Intanto va avanti la campagna di vaccinazione: 83.378 le dosi di vaccino anti covid somministrate ai detenuti. Sono invece 25.051 i poliziotti penitenziari avviati alla vaccinazione e 2.823 unità tra il personale dell’Amministrazione. Mattarella: “Le logiche corporative deprimono la figura del magistrato” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 24 novembre 2021 Il presidente della Repubblica ai referendari di nuova nomina della Corte dei Conti: “La professionalità non può mai ridursi a mera tecnicalità, ma richiede l’esercizio di onestà intellettuale, di equilibrio, di sobrietà, di obiettività, assenza di autoreferenzialità”. “Le logiche corporative deprimono la figura del magistrato”, cui sono richieste rispetto dell’”etica pubblica e assenza di autoreferenzialità”. Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, incontrando al Quirinale i referendari di nuova nomina della Corte dei Conti. “Il filo rosso che deve caratterizzare, non soltanto l’esercizio delle varie funzioni, ma ogni presa di posizione del magistrato in tutte le sedi, è il sentimento profondo di un’etica delle istituzioni, la consapevolezza - ha spiegato il Capo dello Stato - di dover agire sempre sulla base di principi e per l’affermazione di valori. La professionalità non può mai ridursi a mera tecnicalità, ma richiede l’esercizio di onestà intellettuale, di equilibrio, di sobrietà, di obiettività, assenza di autoreferenzialità, disponibilità al confronto, e impone di rifuggire da logiche corporative che snaturano e deprimono la figura del magistrato”. “Fronteggiare la pandemia e sostenere la ripresa - ha ricordato - hanno comportato l’impiego di risorse ingenti, determinando un incremento significativo del debito pubblico, reso possibile dalle scelte di politica monetaria della Banca centrale europea e dalla sospensione del Patto di stabilità. La crescita del debito pubblico richiede un supplemento di responsabilità nella gestione della finanza pubblica e un utilizzo delle risorse mirato alla crescita economica”. “Già a partire da quest’anno - ha poi aggiunto il Capo dello Stato - i documenti di finanza pubblica indicano l’obiettivo di una riduzione del debito pubblico, obiettivo ineludibile se intendiamo rendere la ripresa stabile e duratura”. “Le ingenti risorse attualmente destinate all’Italia” per il Pnrr “vanno utilizzate in modo attento e responsabile, nella consapevolezza che ci troviamo in una condizione senza precedenti e verosimilmente irripetibile. Si tratta di cogliere o di perdere un’opportunità straordinaria per l’Italia e per l’Europa”. “Non è rilevante soltanto quanto le risorse a nostra disposizione ci consentiranno nell’immediato di realizzare -ha aggiunto il Capo dello Stato- ma lo sono in misura ancor maggiore le prospettive aperte da questa coraggiosa e inedita forma di collaborazione fra gli Stati europei. La legalità finanziaria non è un asettico sistema di regole, in quanto riguarda la promozione dell’uguaglianza sostanziale e l’effettiva tutela dei diritti sanciti dalla Costituzione come fondamentali. Basti pensare al diritto alla salute, quanto mai in evidenza in questo periodo. Parimenti, i principi di efficienza, efficacia ed economicità dell’agire amministrativo sono, con la legalità, la garanzia della qualità e quantità delle prestazioni e dei servizi in favore della collettività”. La gran lezione del pg di Trento contro la malagiustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 24 novembre 2021 I pubblici ministeri possono, anzi devono, non includere negli atti di indagine conversazioni (chat, e-mail, sms) acquisite tramite sequestro, ma dal contenuto penalmente irrilevante. Proprio quello che sembra essere avvenuto nell’inchiesta Open, condotta dalla procura di Firenze, dove tra gli atti di indagine sono finiti (oltre all’estratto del conto corrente intestato a Matteo Renzi, non oggetto di indagine) anche conversazioni riguardanti strategie di comunicazione politica e persino messaggi in cui Renzi parla di un amico malato di cancro con Marco Carrai, al quale poi saranno sequestrati cellulare, pc e documenti. A ricordare l’illegittimità di questa pratica è stato il procuratore generale di Trento, Giovanni Ilarda, che alcune settimane fa ha diramato una circolare ai procuratori del proprio distretto “in merito alle modalità operative da adottare nel caso di sequestro di dispositivi di comunicazione mobile finalizzato all’acquisizione di messaggistica memorizzata sugli stessi (chat, email, sms, mms)”. La circolare è poi stata inoltrata anche al procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, e a tutti i procuratori generali presso le varie corti di appello. Tra i temi toccati dal procuratore generale di Trento spicca il richiamo al rispetto del principio di proporzionalità, il quale impone che “il sequestro sia rigorosamente mantenuto sui soli dati della copia forense rilevanti ai fini delle indagini, in quanto il sequestro probatorio è consentito solo per le cose pertinenti al reato necessarie per l’accertamento dei fatti (art. 253, co. 1, c.p.p.), con conseguente obbligo di estrazione dei soli dati d’interesse e restituzione della copia integrale, perché quando non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova, le cose sequestrate sono restituite (devono essere restituite) a chi ne abbia diritto (art. 262, co. 1, c.p.p.)”. Ma è nelle righe successive che il procuratore Ilarda richiama in modo particolare l’attenzione dei magistrati contro il deposito indiscriminato negli atti di indagine dei dati raccolti tramite sequestro. Il passaggio è un po’ lungo, ma merita di essere riportato nella sua interezza: “Un riversamento agli atti del procedimento della copia forense nella sua interezza, comprendente anche chat o messaggi con contenuto irrilevante per il processo, implica, invece, un’inammissibile ed illecita diffusione di dati che attengono alla sfera personale, intima ed inviolabile di ogni individuo e non è assolutamente consentito, perché comporta, inevitabilmente, fra l’altro, la possibilità di divulgazione di fatti lesivi dell’onorabilità e della reputazione della persona, di dati penalmente irrilevanti che possono, però, risultare devastanti per la vita dei soggetti coinvolti (anche se estranei al procedimento) e che quando riguardano l’attività di operatori economici, rendendo conoscibili know how o strategie riservate d’impresa possono anche alterare l’ordinario andamento del mercato con grave danno per l’economia nazionale o di un determinato territorio, nonché la conoscibilità e tracciabilità di orientamenti politici, tendenze sessuali, convincimenti religiosi, rapporti sentimentali, dati sanitari e altri dati sensibili non solo della persona sottoposta ad indagini, ma anche di soggetti del tutto estranei e persino di minorenni”. Il procuratore ricorda che sul punto la giurisprudenza della Corte di Cassazione è “molto chiara e perentoria”, dal momento che stabilisce che “il pubblico ministero può trattenere la copia integrale solo per il tempo strettamente necessario per selezionare, tra la molteplicità delle informazioni in essa contenute, quelle che davvero assolvono alla funzione probatoria sottesa al sequestro”. Vista l’”eccezionale rilevanza e delicatezza delle questioni affrontate”, il procuratore Ilardi ha inoltrato la circolare al procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, pregandolo di valutare “l’opportunità di iniziative dirette a promuovere linee di orientamento e indirizzo uniformi sull’intero territorio nazionale”. La tv come inevitabile destino della giustizia mediatica di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 24 novembre 2021 Vuoi vedere che manca una parte della sceneggiatura. E che parte. Come se in un film d’amore tagliassero i baci appassionati. Chissà se l’avvocato Antonio Ingroia era accompagnato dalla scorta quando ha incontrato la sua nuova cliente, Gina Lollobrigida. Da un paio di mesi, infatti, a Roma valutano se mantenere attiva la protezione solo in terra siciliana. Da Villa San Giovanni in su la sua incolumità non è a rischio per mano mafiosa. Non lo dice un perfido nemico di Ingroia, ma il ministero dell’Interno. All’appuntamento con l’attrice e sua nuova cliente, l’ex magistrato, ex leader politico ed ex aspirante premier, ex pedina del sottogoverno regionale siciliano, ex candidato a sindaco, potrebbe essersi presentato da solo, in giacca e cravatta, come un avvocato qualunque. Senza offesa per l’ordine a cui si è iscritto, naturalmente, ma la scorta è un tratto distintivo che lo rende diverso dagli altri, una cornice che lo colloca ancora in un contesto che non gli appartiene più. La scorta che lo segue suscita un déjà-vu in tutti coloro che lo incrociano. Ci si ricorda che Ingroia, fino a non molto tempo fa, stava dall’altra parte della barricata. Dalla parte dei pubblici ministeri, e per giunta di coloro che conoscono le verità inconfessabili e lottano contro chi vuole tenerle nascoste. Il fatto che non siano riusciti a portare in aula ciò che serve, le prove, in anni e anni di processi è un dettaglio, un peccatuccio. È accaduto per la Trattativa Stato-mafia, per Calogero Mannino processato per venticinque lunghi anni e per il generale Mario Mori assolto non una ma tre volte. Non è andata come i pubblici ministeri avevano dato per certo. C’è un’opinione pubblica che non si nutre di sentenze, però, ma di suggestioni raccontate in televisione, di ricostruzioni farlocche spacciate per verità. Tanto basta per la sopravvivenza. La vita di Ingroia è un contenitore di esistenze vissute alzando sempre più in alto l’asticella dei colpi di scena. Troppo in alto a volte, tanto da finire sopra le righe e sprofondare nel grottesco. Il cognome di Ingroia per una lunga stagione è stato un marchio di fabbrica che andava parecchio di moda. Si sceglieva il personaggio prima ancora della persona. Come poteva essere credibile, ad esempio, che l’ex presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta, lo avesse nominato commissario dell’ex provincia di Trapani, ente già di per sé simbolo di una politica irredimibile, con la pretesa di dare fastidio a Matteo Messina Denaro. No, non poteva essere credibile ed infatti divenne patetico. E che dire della seconda nomina di sottogoverno. Mandarono Ingroia a dirigere una società di servizi informatici e digitali, ma issarono il vessillo della legalità per giustificare la nomina spacciandola per l’ennesima crociata contro il malaffare affidata al comando dell’ex pubblico ministero. Si resta pubblico ministero per sempre. Ci tiene Ingroia a sottolineare, tutte le volte che può e tutte le volte che viene compulsato, la sua militanza fra gli accusatori, così come tiene alla sua scorta per la quale è in perenne battaglia con chi ha deciso di togliergliela. Nel 2018 il Viminale gli aveva comunicato che dopo ventisette anni non c’erano più esigenze di sicurezza. Era stato il prefetto di Palermo d’intesa con l’Ucis - Ufficio centrale interforze per la sicurezza personale - a valutare che non esisteva più una “concreta e attuale esposizione a pericoli o minacce”. Ingroia fece ricorso al Tar del Lazio. Respinto. Andò meglio al Consiglio di Stato. Ricorso accolto. La scorsa estate una pec ha sparigliato le carte. Il ministero ha annunciato la revisione in corso per la revoca della sua scorta su tutto il territorio nazionale esclusa la Sicilia. Non si tratta soltanto di fare i conti in rischi e con la paura - su cui nessun può e deve metter bocca -, c’è il non volersi rassegnare al tramonto di una stagione e di un personaggio, il suo, creato fra aule di giustizia e programmi televisivi. La scorta serve per sentirsi parte di un mondo che non esiste più sia per la scelta di Ingroia di lasciare la magistratura, sia per le condizioni in cui lo Stato ha ridotto Cosa Nostra. I boss di oggi si danno un gran da fare per piazzare bancarelle abusive nelle feste di borgata e selezionare le scalette dei cantanti neomelodici. La mafia succhia la residuale linfa della sua sopravvivenza sguazzando nel malessere sociale, nella mancanza di futuro e lavoro. La stagione dello strapotere mafioso, delle stragi, degli attentati fa parte per fortuna del passato. Lo dicono gli analisti, i magistrati e gli investigatori sul campo quando ripetono che non bisogna mollare per evitare di dare fiato e forza ad un’associazione criminale che arranca. La mafia va tenuta sotto controllo - il numero dei blitz conferma che è questa la strada battuta - ma non fa più pura come in passato. Eppure i successi dello Stato, pagati a caro prezzo con il sangue delle vittime, vengono bisbigliati. Se ne parla sottovoce. Non sia mai che venga sbaraccato l’apparato dell’antimafia. Scorte comprese. Ci sono episodi che spiegano quanto distorto sia il concetto di sicurezza. È accaduto che in occasione delle commemorazioni per la stragi di mafia, a Palermo, sbarcassero decine di auto blindate appena uscite dalla concessionaria. Auto blu nuove di zecca, come un vestito buono da indossare per le passerelle in favore di telecamera. Perché apparire conta più di essere. Fiction e realtà non sono più piani separati. Si intrecciano, si confondono. E così accade che un giorno Gina Lollobrigida chiami Ingroia. All’attrice, oggi novantaquattrenne, è stato assegnato un amministratore di sostegno dal Tribunale, ma la donna ritiene che sia un modo per privarla del patrimonio. Un bel mucchio di soldi accumulati nel corso di una carriera da diva del cinema. Potenza di Netflix. Lollobrigida ha visto la docuserie sulle vendette dell’antimafia. Da una parte Pino Maniaci, anima della piccola emittente televisiva Telejato, assolto dalla più grave accusa di estorsione e condannato per diffamazione. Dall’altra Silvana Saguto, travolta dallo scandalo delle misure di prevenzione, radiata dalla magistratura e condannata nel processo che ha svelato una delle più grandi imposture dell’antimafia, quella che ruotava attorno alla gestione dei beni confiscati alla mafia e agli imprenditori accusato di avere fatto affari con i boss. I protagonisti sono loro due, ma c’è pure Antonio Ingroia, attore e avvocato difensore di Maniaci con il piglio battagliero del pubblico ministero. Che non ha perduto, seppure indossi una toga diversa. Ingroia recita la parte di se stesso perché, come ha candidamente ammesso, l’avvocato vive anche di presenza scenica. La Lollo lo ha notato e gli è piaciuto la sua vena battagliera. Si sono incontrati, piaciuti e scelti con tanto di video che gira su YouTube. Netflix è stato l’approdo naturale per uomo che si è sempre mosso con disinvoltura sotto i riflettori, protagonista indiscusso delle manfrine di una certa televisione che ha individuato nel pubblico ministero l’ariete per sfondare l’Auditel. Per anni ha funzionato. Una toga antimafia e le sue mirabolanti rivelazioni hanno tenuto incollati i telespettatori allo schermo. I processi si facevano in tv spacciando per verità le ipotesi infine crollate al vaglio di giudici dopo che altri giudici ne avevano subito la suggestione. O meglio, il martellamento a colpi di libri, film e talk show. La trama tessuta da Ingroia è stata scandita dai colpi di scena, centellinati come nella migliore narrativa. Innanzitutto la battaglia costituzionale sulle intercettazioni fra Giorgio Napolitano e l’ex presidente del senato Nicola Mancino. Intercettazioni che la stessa procura di Palermo, in un controsenso tuttora inspiegabile, riteneva ininfluenti eppure mosse una guerra senza precedenti contro il Capo dello Stato. Ingroia lasciò l’inchiesta sulla Trattativa prima che entrasse nel vivo della fase processuale. Fece le valigie per approdare nientepopodimeno che alla Commissione internazionale contro l’Impunità in Guatemala che già a leggerne gli obiettivi veniva difficile orientarsi tanto erano fumosi. Ci rimase un paio di mesi, giusto il tempo di dare un tocco di esotico ai suoi collegamenti televisivi via satellite con le palme a fare da sfondo. Ancora oggi resta il dubbio che fosse tutto vero. Ingroia ricomparve in carne e ossa in Italia una mattina di dicembre. In un teatro romano si diedero appuntamento per firmare il manifesto elettorale ‘Io ci sto’ e candidarsi. Stare dove? Di sicuro non in Guatemala, da cui tornò in fretta e furia per buona pace dei guatemaltechi, sedotti e abbandonati. Gli sarebbe toccato il rientro in magistratura, ma fare il sostituto ad Aosta gli stava stretto. Un palcoscenico anonimo troppo lontano dal malaffare della criminalità organizzata siciliana. Altro giro, altra corsa. Addio alla toga, lo aspettava la politica. Quella delle campagne elettorali e delle preferenze, mica la politica giudiziaria. Fra rivoluzioni civili, liste del popolo e salti del cavallo ne raccolse poche di preferenze. Stessa cosa nel suo ultimo colpo di teatro, quando si candidò a sindaco di Campobello di Mazara, piccolo comune trapanese. Raccolse il 19 per cento dei voti. Disse che nella terra di Messina Denaro aveva vinto la paura della mafia, la paura dei ricatti, la paura di pagare i prezzi della legalità. Più semplicemente la gente si era stufata delle piroette di Ingroia, le sue trovate avevano smarrito il gusto dell’imprevedibilità, per assumere quello stantio del pane raffermo. Erano scontate come il finale dei film in cui vivono felici e contenti. Si accasò allora nel sottogoverno di un altro rivoluzionario dimenticato, Crocetta, ed è pure incappato nell’incidente di percorso di una condanna per peculato. Siamo in primo grado e gli imputati sono innocenti, Ingroia da ex pm lo sa (?) fino a sentenza definitiva. Da qualche tempo Ingroia fa l’avvocato. “La mafia non dimentica”, disse la prima volta che gli tolsero la scorta. Ingroia ritiene di vivere una minaccia attuale e bolla come paradossale la decisione di scortarlo solo in Sicilia. Seguiranno ricorsi e controricorsi, c’è da giurarci. Si decida, una volta e per tutte il caso dell’ex pm, che non è l’unico. Tanti altri vivono ancora sotto protezione dello Stato con dispendio di uomini, mezzi e risorse economiche. Sono e saranno sempre soldi ben spesi se c’è da difendere la vita di una persona, ma l’ipotesi di una rivalutazione, da più parti invocata, non è un’eresia. Altrimenti la scorta diventerà come la cabina telefonica rossa di Londra, che ormai esiste solo nelle foto. Una cornice dell’ultimo quadro dell’antimafia. Magistratura onoraria: “Bene stabilizzazione in Ddl Bilancio, no a nuove prove concorsuali” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2021 Per Maria Flora De Giovanni, Presidente Unagipa: “La magistratura onoraria in servizio ha sostenuto un regolare concorso per titoli ed esame di idoneità prima dell’ingresso nelle funzioni”. E sulla retribuzione: “Almeno uguale al magistrato che abbia superato la prima valutazione di professionalità”. A un giorno dall’inizio dell’ennesimo sciopero della magistratura onoraria - che parte oggi e va avanti sino a sabato - nella giornata di ieri è arrivata una apertura sulla stabilizzazione grazie a un emendamento da inserire nella legge di bilancio. Facciamo un passo indietro: l’astensione era stata proclamata la settimana scorsa dalla Consulta della M.O. proprio perché nonostante la Ministra Cartabia, rispondendo al question time della Camera (il 4 novembre scorso), avesse definito “improcrastinabile” il riconoscimento delle tutele per quasi 5mila lavoratori e avesse annunciato le risorse in Bilancio, il testo arrivato al Senato non conteneva alcuno stanziamento. All’esito dell’incontro con Stefania Cacciola, Monica Cavassa e Massimo Libri (già componenti per la magistratura onoraria della commissione ministeriale di riforma, presieduta da Claudio Castelli), la Ministra ha invece annunciato due possibili linee di intervento da introdurre con un emendamento governativo al Ddl Bilancio “così da assicurare risposte definitive alla categoria entro il 31 dicembre 2021”. Di cosa si parla esattamente? La prima ipotesi, spiega un comunicato di Via Arenula, è la possibilità di stabilizzazione nelle attuali funzioni di tutta la magistratura onoraria in servizio, secondo un procedimento da completare nell’arco di tre anni, in base all’anzianità di incarico. La stabilizzazione dovrebbe però avvenire tramite una verifica - “in ossequio all’art. 97 della Costituzione” - con prove ancora da definire “volte a valorizzare le esperienze pregresse e tenendo conto delle procedure di conferma già esistenti”. La seconda possibilità è un’indennità forfettaria che verrebbe “calibrata sulla base degli anni di servizio maturati”. “Concordiamo con la stabilizzazione di tutta la magistratura onoraria - afferma Maria Flora De Giovanni, Presidente Unagipa-, siamo lavoratori e magistrati europei; ma non comprendiamo cosa la Ministra intenda per ‘prove’, non è ancora definito”. “La magistratura onoraria in servizio - prosegue De Giovanni - ha sostenuto un regolare concorso per titoli ed esame di idoneità prima dell’ingresso nelle funzioni - che la maggior parte dei colleghi svolge in via continuativa ed esclusiva anche da oltre 25 anni - ed è stata sottoposta a procedure di conferma quadriennali che per pacifica giurisprudenza di Cassazione sono procedure para concorsuali. Per cui basta valorizzare quanto già in essere, senza umilianti verifiche a professionisti in attività da lustri”. De Giovanni ricorda poi che lo status della Magistratura onoraria attuale è ben diverso da quello degli ex pretori che pur vennero stabilizzati nel con la 217 del 74. “In quel caso - spiega - si trattava di colleghi entrati nelle funzioni su chiamata e quindi con un provvedimento politico discrezionale”. Sul fronte delle retribuzioni poi Via Arenula fa sapere che “il trattamento economico, è attualmente oggetto di ulteriori interlocuzioni tra il Ministero della Giustizia e il Ministero dell’Economia e delle finanze, al fine di arrivare, nel limite del possibile, ad un risultato corrispondente alle indicazioni fornite dalla commissione ministeriale”. Sul punto, dunque, è possibile si apra un altro fronte. Per De Giovanni infatti “è assolutamente indispensabile - anche perché è uno dei punti della procedura di infrazione Ue - che le retribuzioni previste per questa stabilizzazione siano in qualche modo comparabili con quelle del lavoratore omologo ovvero con il magistrato di tribunale”. “È imprescindibile, quindi, che siano similari al magistrato che abbia superato almeno la prima valutazione di professionalità, per garantire autonomia e indipendenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale. E il rispetto dello stato di diritto!”. Solo così affermano i non togati si adempie a quanto ci richiede l’Europa e non si rischia di pregiudicare le risorse del Recovery. Violenza sulle donne, Valente: “Serve una rivoluzione civile come nella lotta alla mafia” di Giovanna Casadio La Repubblica, 24 novembre 2021 Parla la senatrice dem presidente della Commissione parlamentare sul femminicidio: “Interpretiamo i fenomeni come raptus. Non è così. Il gesto della violenza fisica o sessuale, fino alla tragedia dell’omicidio, è l’escalation in una relazione segnata dalla disparità di potere”. “Contro la violenza sulle donne c’è bisogno di una rivoluzione civile come fu la lotta alla mafia negli Anni Novanta”. Valeria Valente è la senatrice dem presidente della Commissione parlamentare sul femminicidio. Elenca i dati della relazione della commissione: “Sconcertante che una sola donna su sette denunci colui che diventerà il suo assassino, e che ben il 65% delle donne vittime di violenze non ne parli con nessuno, non si confidi neppure”. Senatrice Valente, tanti strumenti, a partire dal codice rosso, per combattere la violenza sulle donne, e poi 89 donne ogni giorno le subiscono. Come può accadere? “Siamo un Paese dove c’è una forte asimmetria di potere tra uomo e donna, ancora più rischiosa oggi perché nascosta”. Cosa significa asimmetria di potere e in quale relazione sta con la violenza? “Per troppo tempo abbiamo continuato a pensare - lo vediamo spesso scritto nelle sentenze - che gli atti violenti siano frutto di raptus, di una tempesta emotiva. Voglio premettere che gli stati passionali come causa per escludere l’imputabilità, sono stati cassati dal nostro ordinamento con l’articolo 90 del codice penale. Ma ancora leggiamo la violenza sulle donne come raptus. Non è così. Il gesto della violenza fisica o sessuale, fino alla tragedia dell’omicidio, non avviene all’improvviso, ma è l’escalation in una relazione segnata appunto dalla disparità di potere. Non esserne consapevoli ci fa approntare strumenti non sufficientemente adeguati dal punto di vista della lotta”. Qualche dato della relazione della commissione parlamentare? “Ad esempio che il 34% degli uomini che ammazzano le donne si suicida. Lo cito per chiedere: quanto può contare l’inasprimento delle pene a chi è disposto a morire? Allora quali strumenti? “Solo una battaglia di carattere sociale e culturale in grado di cambiare i termini della relazione uomo/donna può avere successo. Sociale significa promuovere l’affermazione delle donne nella sfera pubblica. Culturale vuol dire combattere e superare gli stereotipi e i pregiudizi che incasellano le donne in un determinato ruolo sociale”. Solo una donna su sette aveva ha già denunciato il suo assassino? “Sì. Peggio ancora trovo il dato che il 65% di donne vittime di violenza non ne ha mai parlato con nessuno, né la sorella, né una amica. È una fotografia inquietante. Forse dovremmo assumerci le nostre responsabilità davanti a un fallimento: una donna tace o non denuncia perché non si sente creduta, ma etichettata, giudicata se non colpevolizzata”. Cosa è riuscita e riesce a fare la commissione da lei guidata? “Intanto tenta di imprimere un cambio di marcia. Non c’è esclusivamente da inasprire le pene, ma bisogna lavorare di più e meglio sulla prevenzione. La violenza contro le donne è un fenomeno pubblico, non privato; strutturale e non emergenziale. Sul terreno concreto, nella relazione della commissione suggeriamo alcuni strumenti come le misure di protezione, a partire dall’uso più diffuso del braccialetto elettronico per gli uomini violenti. Maggiore efficacia delle misure cautelari e pre-cautelari, insomma”. Alcuni femminicidi si sarebbero potuti evitare in questo modo? “Non credo si possa fare un discorso generalizzato, ma occorre vedere caso per caso. Però mi sento di dire che qualche risultato in più si sarebbe potuto ottenere”. Alla vigilia della giornata internazionale, si fanno convegni e si parla tanto di violenza sulle donne. E poi? “Rischia di tornare il silenzio e se ne occupano coloro che lo fanno abitualmente, gli operatori. La campagna sul “1522”, il numero telefonico anti violenza, dovrebbe essere 365 giorni all’anno”. I centri anti violenza hanno pochi fondi? “I centri anti violenza funzionano grazie all’abnegazione e alla enorme sensibilità, ma sono finanziati poco e male. Nella relazione della nostra commissione diamo indicazioni su come intervenire”. Violenza sulle donne, gli esperti del Centro uomini maltrattanti: “Non solo panchine rosse” di Centro Prima Onlus La Repubblica, 24 novembre 2021 L’Associazione Centro Prima Onlus, già Centro Ascolto Uomini Maltrattanti Sezione di Roma (Cam Roma), è attiva dal 2015. È la prima associazione a Roma e nel Lazio ad occuparsi specificatamente del lavoro con gli uomini autori di violenza nelle relazioni affettive. Qui l’intervento inviatoci da Anna Valeria Lisi e il suo gruppo di lavoro basato sull’esperienza dei casi con i quali sono venuti a contatto. Le panchine rosse, così come tutte le strategie comunicative fondate principalmente sulla condanna e il rifiuto della violenza, sono il segno di una denuncia sociale, il tentativo che tale denuncia resti visibile e una strategia di promozione di un senso di appartenenza a quel movimento che vuol contrastare la violenza di genere. Ma, d’altra parte, con le panchine rosse ci sembra non si riesca a raggiungere quello che è forse l’obiettivo più ambizioso che ci si pone installandole: raggiungere quella fetta di persone che non si sente coinvolta in questo tentativo di contrasto alla violenza per sensibilizzarla o, se vogliamo, contattare quella parte di ciascuno di noi più pigra e svogliata, quella che se una cosa non ci riguarda da vicino non si lascia coinvolgere, per farla risvegliare dal torpore. Sappiamo bene che nella società c’è sempre chi distoglie lo sguardo e nega il problema, come c’è chi condanna la violenza ma senza voler provare a comprenderla davvero o aver voglia di capirne le ragioni; c’è quindi chi si ferma alla superficie delle cose senza la curiosità di esplorarne i perché e chi infine ritiene che la cosa in effetti non lo riguardi in quanto persona emancipata. Così, troppo spesso la violenza di genere - non solo il femminicidio - viene spiegata in modi frettolosi, semplicistici, liquidatori. Raramente ci si addentra nel provare a capire cosa significhi davvero per chi la compie, come si produca, che cosa comporti o come operi. La condanna, la colpa, la punizione e il rifiuto sono subito chiamati in causa per darne ragione. E tuttavia, questi modi non bastano a provare a dare un senso che aiuti a comprendere il fenomeno né a contrastarlo per risolvere i danni che fa o prevenirne di nuovi. Più che mai oggi c’è bisogno andare oltre il senso comune e di creare nuove competenze e modelli di lettura per provare a intervenire in maniere valide ed efficaci. Lavorare con gli autori di violenza ci ha consentito di entrare, nel tempo, nelle storie di vita di molti di loro e di conoscere le dinamiche che li hanno portati a mettere in atto la violenza, di contattarne le fantasie, le paure, le ossessioni, i desideri. Sono, queste storie, anche molto diverse l’una dall’altra ma in esse è possibile scorgere alcuni elementi che di solito ricorrono. Il primo di questi elementi è il vissuto che questi uomini hanno di sentirsi uno “scarto”, di sentirsi senza valore; non è questa una sensazione unicamente percepita nei confronti della donna verso cui hanno agito violenza ma, in generale, verso il mondo e i contesti in cui vivono. Il secondo di questi elementi è il vissuto di essere loro le vere vittime. Diversamente da come alcuni pensano, non c’è quasi mai sadismo né soddisfazione nel compiere violenza verso la propria compagna; piuttosto, spesso ci troviamo di fronte all’idea pervasiva di essere vittime di una qualche forma di tradimento, di un abbandono insopportabile. Questo vissuto diventa progressivamente sempre più centrale nella loro rappresentazione della realtà e rende concepibili fantasie violente di vendetta. Attraverso questo vissuto vittimistico questi possono quindi legittimare la violenza nonostante il forte discredito, attuare uno spostamento della responsabilità della violenza da sé all’altro e percepire la partner come una nemica. Percepire la partner come nemica sembra inconcepibile nel senso comune, ma dobbiamo comprendere una specifica dinamica psicologica per capire il perché di questo passaggio da oggetto d’amore a nemico oggetto di violenza. Nella nostra primissima infanzia per ognuno di noi il vero pericolo non è la presenza del nemico, come invece avviene per tutte le altre specie animali (i predatori, la fame ecc.), ma l’assenza della figura “amica”, della persona portatrice di cure (in poche parole, della madre). Per l’uomo il nemico non è il nemico, ma l’assenza della persona amata e portatrice di amore. Per questo, nel momento in cui l’uomo sente il venir meno della propria partner, la percepisce come nemica o, più precisamente, come assenza della persona amica, come esposizione alla piena percezione del senso di impotenza, cioè la più atavica e profonda paura per l’essere umano. Il terzo elemento è il modo in cui opera la costruzione della violenza. Di solito, questa si realizza secondo delle escalation, le cui iniziali avvisaglie sono retrospettivamente ben riconoscibili in quegli atteggiamenti relazionali comuni e assai diffusi come il provocarsi, il pretendere, il lamentarsi, il diffidare, l’obbligare e il controllare, tutti atti che, nel loro insieme, possiamo pensare come altrettanti tentativi di semplificare il rapporto con l’altra persona fondandolo sul potere e sul possesso, anziché sullo scambio reciproco e sulla condivisione di scopi. Le strategie finora pensate per trattare il problema sociale della violenza di genere appaiono spesso strategie scaturite da una visione fondata sulla desiderabilità sociale, ossia su un pensiero che vorrebbe che le cose accadessero in un certo modo: quando le cose non vanno come dovrebbero, in definitiva basta ricorrere a modi correttivi, che riconducano le cose a come dovrebbero andare. La sostanziale novità che suggeriamo con il nostro modello si fonda su un’idea totalmente diversa, che prende forma dal tentativo di provare a comprendere quelle che sono le motivazioni che generano le aggressività per poi sfociare nei comportamenti violenti. La nostra ipotesi è che la violenza sia sempre il prodotto dell’incapacità di dare senso a quel che si prova. E le emozioni possono essere esperite solo in due modi: o sono pensate e comprese - e in tal senso sono un utilissimo modo per dare senso e comprendere quali sono le nostre aspettative e le nostre possibilità verso il mondo e verso gli altri - oppure possono essere agite allo scopo di raggiungere in modo immediato (ma sempre e solo apparente) ciò che si vuole. È evidente che la violenza è sempre l’esito di questo secondo modo di funzionare coercitivo e impulsivo. La violenza è pertanto l’esito del tentativo illusorio di liberarsi di emozioni difficili o angoscianti o, se vogliamo, il tentativo (sempre fallimentare) di semplificare il proprio mondo affettivo. Chi agisce violenza è qualcuno che, in situazioni di elevata conflittualità o profonda tensione emotiva, rimane del tutto incapace di dare senso a quel che prova: non sapendo che farsene di quel che pensa e che sente, sperimenta solo la realtà di vissuti che lo sovrastano e la violenza gli appare il modo (forse l’unico) per liberarsi di questo senso di oppressione. Prospettiamo che la violenza possa essere moderata e superata soltanto aiutando le persone a rivedere questa modalità che li porta a liberarsi delle emozioni, promuovendo al contempo lo sviluppo di modi alternativi di rapportarsi anzitutto a se stessi e alle proprie emozioni e poi, di conseguenza, anche agli altri. In definitiva, non basta dire NO alla violenza: piuttosto occorre entrarci in rapporto per comprenderne la struttura e le ragioni. Le panchine rosse, così come tutte le strategie comunicative fondate principalmente sulla condanna e il rifiuto della violenza, non riescono ad avere pieno successo perché si fondano sulla logica del giudizio e della colpa. Per la stessa ragione, anche molti percorsi riabilitativi per uomini violenti hanno un effetto parziale e, talvolta, anche contraddittorio, perseguendo il cambiamento prevalentemente attraverso lo stigma, la paura e la promozione di strategie di controllo e inibizione delle emozioni e dei comportamenti. Chi agisce violenza è consapevole più di quel che si creda che i propri comportamenti sono incoerenti, assurdi e distruttivi, il problema è una mancata visione di alternative possibili e un senso di urgenza riguardo al bisogno di liberarsi di alcune emozioni angoscianti. È necessario, oggi più che mai, diffondere un messaggio di sostegno al cambiamento per gli uomini che sono, sono stati o possono divenire maltrattanti, a partire dalla condivisione dell’idea che quello che vivono è un dramma anche per loro. Questo, ovviamente, non vuol dire che dobbiamo rivolgere loro la nostra compassione o una qualsiasi forma di giustificazione o deresponsabilizzazione. Piuttosto, pensiamo che sia possibile provare a rintracciare e sollecitare in loro una domanda di cambiamento, a partire dal desiderio di vivere relazioni migliori, più piene, piacevoli e soddisfacenti. Questi uomini, come tutti gli altri, vogliono amare ed essere amati e questa esigenza può essere raccolta insieme a loro e trasformata in una domanda da stimolare, sostenere e accogliere. Solo quando si ha una domanda di sviluppo di sé si può veramente cambiare. Il nostro invito è quello di implementare una strategia nuova di contrasto alla violenza, che non sostituisce le strategie “delle panchine rosse”, ma si affianca ad esse, una strategia che non sia fondata sulla vendetta e sul regolamento dei conti ma sull’impegno, sempre faticoso, a capire i perché di certi comportamenti e che si fondi sulla convinzione di poter stimolare una vera domanda di cambiamento negli uomini, a partire dalle loro chiare difficoltà a creare relazioni soddisfacenti. Questa ci pare una nuova proposta culturale da sperimentare. Toscana. “Uno spazio dedicato agli affetti dei detenuti” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 24 novembre 2021 Mazzeo, presidente del Consiglio regionale, scrive a Roma: sbloccate la nostra legge. “Istituire in ogni carcere uno spazio per l’affettività dei detenuti e i loro familiari”. Lo chiede a gran voce la Toscana al Parlamento, dopo che nel 2021 il Consiglio regionale aveva promosso la legge che chiedeva strutture adeguate in ogni penitenziario. Quella legge è adesso ferma, da circa un anno, in Commissione giustizia del Senato, con relatrice la senatrice del Partito Democratico Monica Cirinnà. “Sarà forse un tema impopolare - ha detto il presidente del Consiglio regionale Antonio Mazzeo - ma noi vogliamo dare voce a chi non ha voce, per questo chiediamo con forza che la nostra proposta di legge venga discussa al più presto. Non è possibile che sia ferma da così tanto tempo. Scriverò personalmente al presidente della Commissione giustizia per far sì che la discussione venga inserita subito nel calendario parlamentare”. Secondo il Garante dei detenuti regionale Giuseppe Fanfani, nelle carceri toscane “non ci sono luoghi adeguati per far vivere l’affettività e la sessualità dei reclusi” ed ecco perché “chiediamo al Parlamento di modificare l’articolo 28 dell’ordinamento giudiziario stabilendo che in tutti i penitenziari sia possibile trovare questi spazi adeguati”. Anche la fondazione Michelucci, in un’ampia ricerca, ha sottolineato come gran parte degli spazi attualmente presenti per l’affettività sia inadeguato o addirittura inutilizzato, come ad esempio il giardino degli incontri a Sollicciano. Ci sono però dei luoghi virtuosi, che soprattutto durante la pandemia hanno permesso un contatto più concreto tra reclusi e familiari. Tra questi il carcere di Livorno che ha permesso ai detenuti di avere dei ritratti fotografici insieme ai loro cari che hanno esposto nelle celle. E poi la casa di reclusione di Porto Azzurro, che accoglie gli ospiti in uno spazio simile ad un parco. E ancora il Gozzini di Firenze dove i detenuti possono incontrare perfino i loro animali domestici. Un appello al Parlamento arriva anche dall’assessore regionale alle politiche sociali Serena Spinelli: “Non possiamo continuare a non trattare questi temi del carcere, servono spazi per l’affettività negli istituti perché è un diritto delle persone. Il carcere non deve essere solo un luogo securitario ma anche un luogo di ricostruzione”. Infine, nel dossier presentato dalla Fondazione Michelucci, viene messa in evidenza una buona notizia, ovvero il considerevole calo di reclusi nei penitenziari toscani negli ultimi dieci anni, che da circa 4 mila sono passati a circa 3 mila. Toscana. Incontrare la famiglia, ma anche l’animale domestico: nelle carceri è possibile gonews.it, 24 novembre 2021 Dal “Giardino degli incontri” alla “Casa delle mosche”: tutti gli istituti, in modi diversi, cercano di accogliere gli affetti delle persone detenute Gli Istituti toscani, in modi diversi, si propongono di accogliere gli affetti delle persone detenute nella loro totalità, secondo il principio di dignità. L’attenzione verso le relazioni affettive è ben testimoniata, per esempio, dai corsi di supporto alla genitorialità che si svolgono nella maggior parte di essi e dall’organizzazione di momenti conviviali, come le Feste della famiglia che, periodicamente, vengono organizzate e che vedono le persone detenute cucinare e accogliere i loro cari dentro le mura del carcere. Significativa in questo senso è l’esperienza realizzata all’interno della Casa Circondariale di Livorno che, durante una di queste occasioni, ha permesso alle persone detenute di avere dei ritratti fotografici insieme ai loro cari, supportando le persone detenute nella riappropriazione, anche simbolica, della propria presenza all’interno nel nucleo famigliare, da poter testimoniare attraverso una fotografia, da esporre all’interno della camera detentiva, ma anche da consegnare ai propri cari, come testimonianza del loro legame. Un altro spazio dedicato agli affetti, in particolare ai bambini, è certamente l’area verde, usufruibile nella bella stagione e presente nella quasi totalità degli Istituti che, come nel caso della Casa di Reclusione di Porto Azzurro, risulta curata e attrezzata per poter accogliere gli ospiti in uno spazio il più possibile simile ad un parco. Sempre più frequentemente, inoltre, a questi spazi viene associata l’attività di Pet Therapy che vede l’accompagnamento dei bambini da parte di cani addestrati, capaci di rendere meno traumatico l’impatto con la dimensione della struttura detentiva e supportando l’incontro col genitore, non sempre sereno. Importante è anche l’esperienza portata avanti nell’Istituto Mario Gozzini a Firenze dove le persone detenute possono incontrare i loro animali domestici. All’interno della struttura di Massa Carrara, invece, è stata realizzata una casina rossa pensata per gli incontri con i bambini e collocata nel giardino e nella Casa Circondariale. A Pistoia si è tenuto un percorso partecipativo che ha portato alla realizzazione di un giardino per le visite dei famigliari. Un altro aspetto che testimonia una maggiore attenzione all’accoglienza dei visitatori, soprattutto ai più piccoli, è l’allestimento delle sale colloqui con angoli morbidi o ambienti specificatamente dedicati ai bambini, così come i servizi di animazione che in alcuni Istituti rendono maggiormente sopportabile l’attesa o il colloquio stesso. In tal senso, una grande rivoluzione è stata introdotta dall’emergenza sanitaria che ha reso possibile la prenotazione dei colloqui, andando ad eliminare le file dinanzi agli Istituti e i tempi di attesa, spesso trascorsi all’esterno, senza protezione dalle intemperie o in ambienti non sempre adatti ed accoglienti. Anche l’introduzione delle videochiamate, soluzione emergenziale per tamponare la sospensione dei colloqui, è andata ad intercettare una necessità, propria di coloro che non erano soliti fare colloqui a causa della distanza della famiglia, ma che ha permesso comunicazioni più frequenti e meno onerose. In questo senso, nel carcere di Livorno è emerso come le videochiamate tramite WhatsApp, più brevi, ma anche più frequenti, vengano spesso preferite rispetto ai collegamenti più lunghi tramite Skype. Naturalmente risulta auspicabile che la possibilità di videochiamare e di prenotare i colloqui restino in vigore anche una volta superata l’emergenza sanitaria. Sempre a Livorno e a causa dell’emergenza sanitaria, è stato introdotto un servizio di scansione e invio tramite posta elettronica della corrispondenza, che ha portato alla riduzione dei tempi necessari per le comunicazioni scritte. Per quanto riguarda la definizione di spazi espressamente dedicati alle visite, in alcuni Istituti come quelli di Arezzo e Livorno sono stati intrapresi degli approfondimenti per verificarne la fattibilità. Anche la Casa di Reclusione di Volterra è da anni impegnata nella definizione di un progetto che porti alla creazione di una stanza per gli affetti che, pur non essendo ancora approvato e realizzato, permetterebbe una rapida e preparata applicazione della nuova Legge. Sull’Isola di Pianosa è, invece, attiva la cosiddetta ‘Casa delle mosche’ dove i familiari delle persone detenute possono risiedere e trascorrere del tempo libero con i loro cari nella fascia oraria che non li vede occupati nelle attività lavorative (15.00 -21.30). In orario serale, però, le persone recluse devono rientrare al Sembolello. La Casa delle mosche consiste di due appartamenti, uno destinato ai detenuti che possono già usufruire di permessi e un altro per le persone che ancora non ne possono usufruire e che sono quindi autorizzati ai soli colloqui visivi con familiari o terze persone. Altro elemento interessante di questa sperimentazione è l’equiparazione delle persone terze ai familiari; ciò ha permesso, infatti, ad alcuni detenuti di avere colloqui visivi anche con le rispettive fidanzate conosciute su internet. La Casa delle mosche è certamente un’esperienza facilmente replicabile anche in altri contesti, in primis nella Casa di Reclusione di Porto Azzurro che potrebbe ristrutturare una delle foresterie per destinarla a questo tipo di incontri. L’intervento potrebbe essere di tipo progressivo e rivolgersi, in una prima fase, alle persone in permesso, per poi allargarsi anche agli altri detenuti sempre nel rispetto delle indicazioni del Magistrato di sorveglianza. Un’esperienza simile è stata sperimentata anche sull’Isola di Gorgona, dove i famigliari hanno potuto permanere per alcuni giorni e vedere i propri cari, in permesso sull’isola, in un ambiente attrezzato. L’opera che, tuttavia, rimane un punto di riferimento per la definizione di un luogo pensato per ospitare gli affetti, è sicuramente “Il Giardino degli incontri” all’interno del Nuovo Complesso Penitenziario di Sollicciano a Firenze. Progettato dall’Architetto Giovanni Michelucci, rappresenta un caso unico all’interno del panorama regionale e nazionale. Nato come luogo per gli incontri tra il detenuto e i familiari in visita, si caratterizza per la qualità degli spazi che offre in antitesi con l’architettura carceraria, mitigandone la sensazione di oppressione specialmente quando alle visite partecipano dei minori. Attraverso il giardino, infatti, la persona detenuta può godere un momento di effettivo rilassamento in compagnia di familiari ed affini in visita. Il Giardino degli incontri accoglie al suo interno un’area verde, un teatro all’aperto, percorsi a pergolato, corsi d’acqua e panchine che ricordano quelle del “Parc Guell”. Attualmente gli spazi destinati ai colloqui consistono in specifici locali per colloqui visivi ed un edificio per gli incontri interno al Giardino. Per gli incontri con i minori è presente uno spazio giochi collocato all’interno dell’edificio del giardino dove i bambini possono attendere il genitore detenuto. L’edificio per gli incontri prevede anche una vasta area esterna dove poter effettuare incontri all’aria aperta durante il periodo estivo. La modalità di accesso avviene a seconda del regime di detenzione. Toscana. Carceri, a Sollicciano c’è l’unico reparto per transgender d’Italia gonews.it, 24 novembre 2021 Genitorialità, diritti, sessualità. In via di discussione approcci diversi alla detenzione femminile, in un’istituzione pensata per gli uomini “La riflessione sulla condizione delle donne detenute, inserite in un’istituzione pensata per gli uomini e assoluta minoranza nel mondo carcerario, ha messo in luce i pregiudizi sul genere, che nel carcere hanno una maggiore persistenza rispetto al mondo esterno, sebbene anche lì sopravvivano - ha sottolineato il Garante per i diritti dei detenuti della Toscana Giuseppe Fanfani presentando la ricerca della Fondazione Michelucci durante il convegno ‘La dimensione affettiva delle persone in carcere’ - Si sono discusse proposte di approcci differenti alla detenzione femminile, che restano aperte come possibili alternative. La ricerca è un passo avanti, uno strumento che può servire a progredire verso un cambiamento reale”. (Le donne detenute in Toscana sono il 3% sul totale della popolazione carcerata, a fronte di una media nazionale pari al 4,2%) La segregazione binaria obbligatoria per sesso di appartenenza si scontra con una realtà che deve necessariamente tenere conto dei diritti e delle necessità di una popolazione variegata che non corrisponde affatto a tale suddivisione. Un esempio su tutti, la gestione delle sezioni per detenute e detenuti transgender come il cosiddetto Reparto D (o “reparto trans”) della Casa Circondariale Firenze Sollicciano rappresenta a oggi l’unica esperienza nazionale in cui le persone transgender (unicamente M to F) sono detenute all’interno di un reparto femminile, andando contro il paradigma prevalente che prevede l’assegnazione in sezioni protette all’interno del reparto corrispondente al sesso biologico. Nel ricercare un modello alternativo per la detenzione femminile che contrastasse l’imposizione del carcere maschile alle donne, tradizionalmente è stato proposto un modello femminile ben distinto rispetto al carcere maschile, ma quanto mai oppressivo e pervasivo, perché ricalcato sull’esperienza dei riformatori - di fatto, istituzioni volte a riprodurre e confermare approcci rieducativi basati su un’immagine stereotipica della donna deviante. Un altro modello che si dovrebbe portare avanti è invece il carcere delle donne che vale anche per gli uomini: recupera degli aspetti della differenza femminile cercando di superare la sussidiarietà della detenzione delle donne, presentandosi come un modello più comprensivo dei diversi soggetti e quindi capace di farsi portatore di diritti a prescindere dall’appartenenza di genere. Il tema della genitorialità in carcere è uno dei punti chiave per ridiscutere le percezioni condivise sulla differenza maschile/femminile. Tanto i dati esperienziali di chi frequenta il carcere per lavoro o volontariato, quanto le ricerche condotte nel contesto del penitenziario confermano la centralità del tema della genitorialità per le donne detenute, che nel successo o fallimento della propria capacità genitoriale riescono a trovare un punto di forza o un motivo di forte sofferenza. Ciò nonostante, si ritiene necessario garantire la continuità del rapporto tra genitori e figli per tutta la popolazione detenuta, non solo per le detenute donne. L’essere e (soprattutto) raccontarsi madre diviene un’arma dalla lama affilata e doppia. Da una parte, è possibile intravederne il ruolo sociale narrato come necessario, come elemento di trattamento; dimostrare di essere una buona madre ne è parte costitutiva. I figli e le figlie sono un’àncora necessaria per riuscire a reggere durante la carcerazione, ma allo stesso tempo diventano motivo di profonda sofferenza aggiuntiva a causa del ruolo mancato e della lontananza affettiva. Altro tema estremamente significativo è la presenza di relazioni omosessuali, letti spesso in un’ottica patologizzante da parte dell’Amministrazione penitenziaria, quasi a decretare il carcere responsabile di disturbi del comportamento sessuale. Tuttavia, l’omosessualità femminile è maggiormente accettata rispetto a quella maschile. Viene infatti considerata meno problematica perché le donne sembrano farla ricadere all’interno delle relazioni affettive, con un preciso richiamo a un ambiente di tipo familiare. Ancora una volta, viene censurato il corpo sessuato e si focalizza l’attenzione sulla relazione: le donne, si dice, si vogliono bene in modo gentile e non creano problemi. Il problema della sessualità in carcere viene raccontato come un problema di sicurezza: gli uomini vengono percepiti vivere la sessualità in maniera violenta e aggressiva, mentre le donne sembrano esprimersi senza traumi e problemi. Tuttavia, se l’Amministrazione penitenziaria italiana pare assumere un approccio naturalistico nell’analisi dell’omosessualità femminile in carcere già agli inizi degli anni Novanta si è cercato di confutare tale posizionamento introducendo il concetto di gender fluidity, negando l’esistenza di ruoli prestabiliti. Lazio. La Regione “manda” i detenuti all’università: stanziati i fondi da destinare agli atenei romatoday.it, 24 novembre 2021 La giunta approva una delibera da 180mila euro. Coinvolte ad oggi Roma Tre, Tor Vergata, Cassino e Tuscia. Prosegue l’opera della Regione a sostegno della popolazione detenuta del Lazio. Dopo i 550.000 euro disposti per la riqualificazione degli spazi e interventi di adeguamento tecnologico e i 170.000 per fornire nuove competenze digitali, la Pisana approva in giunta una delibera per ulteriori 180.000 euro da destinare alle Università per rendere più facili gli studi universitari tra chi è privato della propria libertà. Non solo sostegno allo studio ma anche creazione di poli universitari dedicati (come già accaduto a La Sapienza su iniziativa del Senato accademico), nonché l’ampliamento dell’offerta didattica a distanza, questi sono gli obiettivi principali dello stanziamento economico che coinvolge, al momento, gli atenei di Roma Tre, Tor Vergata, Cassino e Tuscia, tutte firmatarie di un protocollo d’intesa sottoscritto da Regione, Garante dei detenuti e Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziari. “Sono misure queste finalizzate al miglioramento delle condizioni della popolazione detenuta della nostra regione - commenta Valentina Corrado, assessora a Turismo, Enti Locali, Sicurezza Urbana, Polizia Locale e Semplificazione Amministrativa della Regione. Favorire e promuovere gli studi, in particolare, significa offrire nuovi stimoli e contrastare l’immobilità mentale, implementare il bagaglio culturale e quindi dare strumenti di formazione e istruzione capaci di incentivare la riflessione ma anche agevolare l’instaurazione di relazioni umane”. Torino. La Procura indaga su maltrattamenti a detenuti psichiatrici di Sarah Martinenghi La Repubblica, 24 novembre 2021 Blitz in carcere della polizia giudiziaria. Nel reparto “Sestante” reclusi al buio, ambienti luridi, umiliazioni: un incubo denunciato dall’associazione Antigone. Ora anche la procura di Torino accende un faro sul Sestante, il reparto del carcere di Torino con celle buie, piccole e sporche in cui, secondo la denuncia sporta dall’associazione Antigone, i detenuti sono reclusi in condizioni disumane. Un fascicolo, al momento contro ignoti, è stato aperto dai pm Gianfranco Colace e Chiara Canepa: si ipotizza il reato di maltrattamenti. Proprio questa mattina gli inquirenti hanno mandato gli ispettori di polizia giudiziaria per verificare la situazione e prelevare la prima documentazione. La stessa pm Canepa ha partecipato all’ispezione per rendersi conto di persona dei luoghi che saranno oggetto di indagine. La sezione dove sono detenuti persone private della libertà che presentano problemi psichiatrici è da anni oggetto di segnalazioni per situazioni invivibili e degradanti. Ma è stata una relazione di Susanna Marietti, presidente dell’associazione Antigone, a sollevare con più forza l’attenzione sul padiglione A: “un luogo vergognoso dove si rinuncia a vite umane come se valessero niente”. Il resoconto della sua ultima visita è un elenco di situazioni in cui i detenuti appaiono come tristi fantasmi privati di dignità. “Al Sestante - ha infatti spiegato la coordinatrice - si trovano circa venti celle, dieci su ogni lato del corridoio. In ciascuna è reclusa una singola persona detenuta. La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con i chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno, ma non tutti, ha un piccolo cuscino di gommapiuma”. “Non vi è una sedia né un tavolino - continua la denuncia - Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere in posizione scomodissima. L’intera giornata viene trascorsa chiusi là dentro, senza nulla da fare e nessuno con cui parlare. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio”. Adesso sarà la magistratura ad accertare se dietro a queste condizioni sia stato commesso anche il reato di maltrattamenti nei confronti dei detenuti. Perché tenere le persone che avrebbero bisogno di cure in cella, (alcune di loro sono in attesa che si liberino i posti nelle Rems), è già qualcosa di non previsto dal codice. Tenerle in condizioni degradanti è una violenza. Trento. Troppi detenuti con gravi disagi psichici: situazione difficile nel carcere di Spini lavocedeltrentino.it, 24 novembre 2021 La questione delle molte, troppe persone detenute nella Casa circondariale di Spini di Gardolo affette da disagio psichico anche grave, che né il personale sanitario né gli agenti di polizia penitenziaria sono in grado di gestire e contenere adeguatamente per carenza di organici, è emersa con evidenza dalle consultazioni volute ieri dalla Quarta Commissione presieduta da Claudio Cia (FdI). Le audizioni - dedicate alle condizioni di vita dei detenuti e del personale della Casa circondariale, nonché alle possibili misure migliorative da adottare - chieste per primo da Paolo Zanella (Futura), hanno permesso di acquisire informazioni dai più importanti interlocutori coinvolti: la Garante dei diritti dei detenuti Antonia Menghini; la sostituta comandante del reparto dirigente di polizia penitenziaria della Casa circondariale Ilaria Lomartire (intervenuta al posto della direttrice Annarita Nuzzaci); Simona Sforzin dell’Azienda provinciale servizi sanitari; e Andrea Mazzarese, segretario del Sindacato nazionale autonomo di polizia penitenziaria (Sinappe). La Garante dei diritti dei detenuti Antonia Menghini si è soffermata sull’incidenza della pandemia nella vita all’interno della Casa circondariale, con alcune problematiche generate dal Covid 19 e altre acuite dalla crisi sanitaria. Ha parlato di situazione interna particolarmente difficile per colpa della pandemia che ha visto sospese le visite dei parenti, le restrizioni dei movimenti e la lontananza dal mondo esterno. La pandemia ha inciso anche sui numeri delle persone detenute, che in Italia sono calate di 7.000 unità. Poi si è registrato un leggero e progressivo aumento. Da questo punto di vista la Garante ha ricordato l’importantissimo lavoro svolto dalla magistratura di sorveglianza, che per limitare il pericolo di diffusione del contagio e considerando alcune situazioni particolarmente a rischio, ha permesso di riconoscere per qualche tempo misure alternative alla detenzione per l’esecuzione della pena all’esterno della struttura. Molto critica - ha sottolineato la Garante - anche la ricaduta della pandemia sui trasferimenti, perché le richieste presentate sono state sospese tranne che per gravissimi motivi di salute e di sicurezza. Questo si è riflesso sul diritto il diritto del detenuto di esecuzione della pena nell’istituto più prossimo al luogo di dimora della famiglia. Anche la polizia penitenziaria è stata colpita dal contagio durante la pandemia e si è resa quindi necessaria una riorganizzazione del personale. Lo stesso è accaduto per il comparto sanitario. Menghini ha segnalato che - il dato è di ieri - nella struttura di Spini vi sono 305 persone detenute che lavorano, ma molto spesso questo risulta solo sulla carta, perché nel 93% dei casi si tratta di attività che durano al massimo sei mesi all’anno e neppure full time, limitate a un solo turno lavorativo. Investire sul lavoro è rimane comunque assolutamente centrale - ha sottolineato la Garante - e per questo servirebbero convenzioni con cooperative o imprese interessate ad affidare alle persone detenute a Spini alcune attività. Due “luci” importanti - ha ricordato - si sono però accese in questo periodo nero che la vita detentiva sta attraversando: dall’inizio dell’estate 2021 è iniziato il progetto “seminare oggi per raccogliere domani”, anche con un finanziamento della Provincia, che coinvolgerà 43 persone, 17 delle quali in esecuzione penale esterna. Quest’anno hanno iniziato a lavorare per questo progetto 7 donne il cui impegno è stato particolarmente apprezzato. Si tratta di un progetto costoso ma del quale le persone detenute hanno estremo bisogno, perché non si tratta di occupare il loro tempo ma di fornire una formazione professionalizzante che un domani sia spendibile all’esterno nel mercato del lavoro. Opportunità di cui questo progetto è uno splendido esempio. Altro progetto: un corso per le detenute con quattro macchine da cucire donate all’istituto di pena per una formazione nel settore della modellistica sartoriale. Esperienza, questa, che ha dato a queste persone la soddisfazione di sentirsi produttive e creative. San Gimignano (Si). I dieci agenti torturatori in carcere non possono rientrare in servizio di Marco Preve La Repubblica, 24 novembre 2021 “Lesivi per il prestigio della divisa”. La sentenza del Tar per i fatti avvenuti nella struttura di San Gimignano. Erano stati condannati per un brutale pestaggio. Per Salvini fecero il loro dovere. I dieci poliziotti penitenziari condannati per tortura non possono rientrare in servizio anche la condanna non è definitiva. Lo ha deciso il Tribunale amministrativo regionale della Toscana respingendo i ricorsi di dieci agenti del carcere di San Gimignano condannati con rito abbreviato a febbraio per tortura e lesioni aggravate. Altri cinque hanno scelto il processo con rito ordinario. Per i dieci condannati erano scattate le sospensioni dal servizio. Gli interessati hanno presentato ricorso al Tar. Secondo i giudici però il ministero si è mosso correttamente facendo scattare la sospensione solo dopo la sentenza di condanna. Il Tar ha poi ricordato che il provvedimento di sospensione facoltativa è motivato dai fatti contestati agli agenti “ritenuti lesivi del prestigio del corpo e di grave pregiudizio nell’assolvimento dei compiti istituzionali”. Il caso riguardava un detenuto tunisino. Erano andati a prenderlo in quindici per trasferirlo da una cella all’altra del carcere di San Gimignano: agenti e ispettori di polizia penitenziaria. Indossavano tutti i guanti. Era il pomeriggio dell’11 ottobre 2018. Lui, un cittadino tunisino di 31 anni, pensava di andare a fare la doccia, aveva le ciabatte ai piedi e un asciugamano al braccio. Invece è stato trascinato per il corridoio del reparto isolamento, picchiato con pugni e calci. “Gli hanno abbassato i pantaloni”, lui “è caduto” e hanno continuato a picchiarlo. “Sentivo le urla” racconta un detenuto, “poi lo hanno lasciato svenuto” in un’altra cella. Nell’ordinanza si parla di “trattamento inumano e degradante”, di “violenza” e “crudeltà”. A febbraio l’associazione Antigone aveva ricordato come nei giorni dell’inchiesta l’allora ministro degli Interni del primo governo Conte, Matteo Salvini andò in visita al carcere di San Gimignano per portare la propria solidarietà ai poliziotti indagati: “Chiediamo oggi, alla luce di queste condanne, che Salvini chieda scusa alle vittime e alla giustizia italiana” aveva dichiarato Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che sottolineava come “è la seconda volta in poche settimane (il primo caso riguardava un agente in servizio nel carcere di Ferrara) che i giudici applicano la legge per la quale Antigone ha combattuto vent’anni e che, dal 2017, punisce questo crimine contro l’umanità”. La sospensione dopo una condanna definitiva è uno dei provvedimenti reso più efficace dalla nuova legge sulla tortura che il nostro parlamento ha approvato nel 2017 dopo un difficile iter e dopo che l’Europa lo chiedeva da anni al nostro paese. In realtà, in ottemperanza alle prescrizioni internazionali e alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo già prima sarebbe stato possibile per le amministrazioni intervenire con sospensioni e radiazioni addirittura in fase di indagini preliminari di fronte ad alcuni reati commessi da rappresentanti delle forze dell’ordine. Ma il nostro Stato è sempre stato piuttosto cauto nell’attuare simili provvedimenti e lo dimostrano le mancate sospensioni per i condannati per le violenze e le false accuse del G8 di Genova. Palermo. S’impiccò nella sua cella di Pagliarelli, assolti due medici del carcere di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 24 novembre 2021 Il Gup ha scagionato Carmelo Geraci e Bernardo Mazzerbo che erano accusati dell’omicidio colposo di Samuele Bua, 29 anni, che si suicidò a novembre del 2018. Secondo l’accusa, il detenuto non sarebbe stato accuratamente controllato. Gli imputati però lo visitarono oltre un mese prima del decesso. “Il fatto non sussiste”. È con questa formula che il Gup Stefania Brambille, al termine del processo che si è svolto con il rito abbreviato, ha deciso di assolvere i medici Carmelo Geraci e Bernardo Mazzerbo, entrambi in servizio nel carcere di Pagliarelli. Gli imputati erano accusati dell’omicidio colposo di un detenuto, Samuele Bua, che a novembre del 2018 si suicidò all’interno del penitenziario. Il giudice ha accolto le tesi degli avvocati Claudio Gallina Montana, Valeria Minà e Gianluca Corsino, che difendono i medici, stabilendo che non avrebbero avuto alcuna responsabilità per il gesto estremo (e non prevedibile) di Bua. La stessa Procura, rappresentata dall’aggiunto Ennio Petrigni e dai sostituti Renza Cescon e Salvatore Leopardi aveva chiesto l’assoluzione. La famiglia della vittima si è costituita parte civile con l’assistenza dell’avvocato Giorgio Bisagna. Bua aveva 29 anni ed era affetto da una grave forma di schizofrenia quando si tolse la vita, impiccandosi con i lacci delle scarpe. Il detenuto, poco più di un mese prima del suicidio, era stato posto in vita comune, ma sarebbe subito stato male, sostenendo che se non fosse stato lasciato da solo avrebbe “spaccato tutto”. Gli imputati, su disposizione della direttrice del carcere, visitarono quindi Bua, per il quale alla fine si decise la detenzione in una cella singola. Dove sarebbe rimasto per 34 giorni, visitato ogni giorno da altri medici (precisamente degli psichiatri), senza che vi fossero segnali di un possibile gesto estremo. Un isolamento comunque legato ad un preciso nulla osta, che in quel periodo era stato pure rinnovato. Alla fine, però, Bua venne trovato impiccato. Per l’accusa, gli imputati non avrebbero tenuto conto della certificazione di un altro medico che avrebbe disposto la detenzione di Bua nel reparto “grande sorveglianza”, con un compagno che potesse controllarlo. La parte civile ha poi sostenuto che nel sangue della vittima erano state trovate tracce di alcol. Geraci e Mazzerbo hanno sempre professato la loro innocenza, spiegando di aver sempre operato correttamente e seguendo le linee guida. Cosa che oggi è stata riconosciuta anche dal giudice che li ha scagionati. Castrovillari (Cs). Al carcere un flashmob contro la violenza sulle donne cosenzachannel.it, 24 novembre 2021 Lo comunicano in una nota il dirigente penitenziario Giuseppe Carrà e la preside dell’istituto Ipseoa della città del Pollino. Il direttore della Casa circondariale di Castrovillari, Giuseppe Carrà, congiuntamente con la dirigente dell’istituto alberghiero Ipseoa di Castrovillari. Immacolata Cosentino, rendono noto che un gruppo di detenute dell’istituto penitenziario - alunne Ipseoa - ed un gruppo di giovani studentesse dell’istituto, metteranno in scena il flashmob “wow! World of women” nella giornata del 25 novembre 2021 - giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Accolta la proposta progettuale nata dalla prof.ssa Annamaria Rubino, che ha inteso coinvolgere nella realizzazione le alunne degli istituti. Il flashmob si terrà all’interno dell’istituto penitenziario nella sala cinema alle ore 9.00 alla presenza delle autorità comunali e dei presidenti delle associazioni di volontariato che collaborano con l’istituzione penitenziaria e vedrà mettere in scena - nei pochi minuti della manifestazione - una poesia nata dall’attività laboratoriale intramuraria ed una coreografia musicale interpretata dalle studentesse. “Il flashmob - dichiara il dirigente Carrà - è un messaggio forte per dire stop alla violenza sulle donne ed assume una ancor maggiore valenza provenendo da questo istituto che custodisce anche i ristretti per reati di violenza contro le donne. L’idea - con la dirigente cosentino - è stata quindi quella di lanciare un messaggio alla società civile di sensibilizzazione contro qualsiasi atto di violenza di genere, atto che sia di natura fisica, sessuale o psicologica. Tutto ciò insomma che leda la dignità della donna nel riconoscimento di un ruolo imprescindibile nell’ambito della società, del lavoro e della famiglia”. Per il dirigente Carrà si tratta di una iniziativa “assolutamente innovativa in ambito carcerario” che vede “la piena sinergia tra le istituzioni e non solo: i “vasi comunicanti” della trasmissione delle esperienze tra la vita libera, declinata al femminile, e la vita detentiva, parimenti declinata, impone la proiezione nella vita dell’altro/a, il “mettersi in gioco” per uscire da se stessi, per affermare l’appartenenza di genere, ovvero essere donne, libere, capaci di autodeterminarsi nel rispetto della propria dignità”. Gorgona (Li). Dalla Toscana a Roma, 5 detenuti mettono in scena Omero ansa.it, 24 novembre 2021 Un adattamento dell’Ulisse all’interno di “Destini incrociati”. Sono partiti dalla Casa di Reclusione dell’isola di Gorgona e dismessi i panni da carcerati hanno vestito quelli di attori teatrali. Cinque detenuti hanno affrontato il viaggio che li ha portati dall’isola dell’arcipelago toscano a Roma, al teatro Palladium, dove sono andati in scena con un adattamento dell’Ulisse di Omero all’interno di “Destini incrociati”, ottava edizione della Rassegna Nazionale di Teatro in Carcere che si è conclusa la settimana scorsa. “Ulisse o i colori dell’anima”, questo il titolo dello spettacolo, è il risultato di un progetto nato due anni fa nel carcere di Gorgona grazie anche alla disponibilità del direttore Carlo Mazzerbo, racconta il regista Gianfranco Pedullà. Sono una trentina i detenuti coinvolti anche se il permesso per raggiungere la Capitale lo hanno ottenuto solo in cinque. Insieme a loro, sul palco, anche attori professionisti. Il lavoro si è aggiudicato il Premio ANCT 2020, Catarsi Teatri della Diversità come miglior spettacolo di teatro sociale in Italia nel 2020 ed è il primo episodio della trilogia “Il teatro del mare”, il secondo affronterà le Metamorfosi di Ovidio, anticipa il regista, il terzo è ancora da decidere. La tappa romana non è la prima uscita pubblica, a settembre c’è stata la prima proprio sull’isola, poi ad ottobre è andato i scena al Teatro delle Arti di Lastra a Signa (FI), dove Pedullà dirige la compagnia stabile del Teatro Popolare d’Arte. “Gorgona è un luogo speciale - racconta - la prima volta che sono andato sono rimasto impressionato dal contesto naturalistico, dal mare e ho subito pensato ad Ulisse. E’ nato poi il laboratorio con i detenuti, abbiamo preparato il testo e insieme al musicista Francesco Giorgi e Chiara Migliorini, formatrice teatrale e attrice, abbiamo fatto una sintesi, ma il contenuto è dedicato a loro, ai reclusi, sono le loro biografie. La prima volta che lo abbiamo messo in scena lo abbiamo fatto all’aperto davanti al mare, con una barca che si muoveva sull’acqua”. Poi lo spettacolo è stato adattato anche per un teatro al chiuso con la fantasiosa quanto essenziale scenografia di Claudio Pini. “‘Ulisse o i colori dell’anima’ è un working in progress - avverte il regista che da 25 anni lavora con il teatro nelle carceri - abbiamo già fatto dieci repliche e non ho avuto mai gli stessi attori, nel teatro normale sarebbe una tragedia, qui diventa una ricchezza. È un po’ come nella commedia dell’arte e questo mi piace molto”. La pieces teatrale, aggiunge Pedullà, “parla del rapporto fra gli animali e gli uomini, tra l’istinto e la ragione, tra la libertà e la schiavitù, fra la vita, la sua bellezza e le sue mostruosità”. Mentre il tema del mare ricorre incessante, come colore, come luogo da attraversare, come elemento che separa, come entità da dominare, come suono. La messa in scena gioca con disinvoltura tra la commedia dell’arte e il teatro classico. Mischia il testo originale, quello nuovo, le musiche popolari, le danze sfrenate e riattualizza la figura di Ulisse, sempre navigante in viaggio verso casa, ma anche un uomo dei giorni nostri. Il protagonista ci ricorda che ognuno di noi è un po’ naufrago di qualche tempesta, ognuno è straniero in qualche luogo ed è spesso anche straniero a se stesso. È un Ulisse dalle molte anime, è al contempo un migrante, un marinaio, un soldato, un assassino, un uomo solo in cerca della sua patria ovunque sia, è un clandestino perché viaggia di nascosto di terra in terra, di popolo in popolo, ma tutti i popoli, recita il testo, “sono ostili ai clandestini del destino”. Sul palco ripercorriamo le avventure di Polifemo, di Circe, delle sirene. “Sono sirene - tiene a precisare Pedullà - che rispettano l’impianto classico: mostruose donne uccello con una voce suadente, esseri minacciosi che mangiano la vita”. Le avventure di Ulisse approdano in una sorta di circo Barnum, con fenomeni da baraccone, con gli ultimi della società, impegnati in una danza concitata, che finisce davanti al mare, luogo di approdo e di ripartenza, mentre un coro di voci dagli accenti più disparati fa da sottofondo sonoro, dando voce a tanti naufraghi: “Siamo partiti dalle nostre città distrutte alla ricerca di un nuovo mondo. Siamo foresti, giunti qui spinti da un destino impensabile” e avverte: “La vita è un lungo ritorno”. Cala il sipario. Tanti applausi emozionati l’altra sera al Teatro Palladium e mentre gli attori sorridono a testa alta i detenuti-attori si fanno seri, qualcuno abbassa la testa per nascondere l’emozione troppo forte. Tra i cinque che arrivano dal carcere di Gorgona c’è chi sta vivendo la prima uscita dopo anni di detenzione, chi invece ha scontato la sua pena e da qualche giorno è libero, chi ha una prospettiva a breve di tornare un uomo libero, grazie anche al riconoscimento del lavoro svolto con il laboratorio teatrale. Lavoro a umanità aumentata di Marco Bentivogli La Repubblica, 24 novembre 2021 I dati pubblicati nei giorni scorsi dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps, confermano che, anche negli ultimi mesi, le grandi dimissioni non si fermano: 112 mila cessazioni ad agosto, 952 mila nei primi 8 mesi. Al netto dei pensionamenti, +12% di cessazioni di rapporti a tempo indeterminato in un anno è un dato che deve far pensare. Il “si vive una volta sola”, lo sgretolamento della propria soglia di tolleranza ha anche lati positivi, accanto al rischio frequente, di trasformarsi in una ancor più grande, rassegnazione. Che fare allora? La prima cosa è inserire e integrare sempre di più la dimensione della “cura” in qualsiasi ambito della nostra esperienza umana nel lavoro. I sistemi produttivi e la vecchia economia fordista “curavano” poco, anzi, piuttosto generavano necessità di cura. Si chiedeva uno sforzo fisico, spesso ripetitivo, logorante. Nella grande trasformazione del lavoro il digitale, la robotica cooperativa, gli algoritmi spingono il lavoro verso un maggiore ingaggio cognitivo (contributo umano), le vere aziende 4.0 inseriscono negli obiettivi lo “zerofatiche”, perché la fatica è sempre più inutile e costosa e con essa gli eccessivi carichi posturali, la scarsa ergonomia. Non siamo neanche a metà strada, e bisognerà occuparsi dello stress da lavoro correlato, che, invece, in molti casi, aumenta. Bisogna operare affinché il lavoro richieda la nostra dote più incontendibile con le macchine e cioè la nostra #umanitàumentata. Torna con forza la capacità di costruire tessiture sociali territoriali in grado di realizzare diversamente le comunità del lavoro. Già da prima della frammentazione del lavoro, i suoi luoghi erano sempre meno comunità. Anche tra i lavoratori ha vinto un’altra cultura che divide, illude di poter vincere da soli. E si resta veramente più soli, in una dimensione che ci opprime, costruendosi mille scuse e maledendo chi ha il coraggio o l’incoscienza di cambiare davvero. In un momento in cui, peraltro, c’è tanto da cambiare, a partire dalle parole, “mercato” del lavoro, “capitale” umano, “risorse” umane. Abbiamo abusato di un lessico che non sa far altro che ricondurre le persone al denaro come unico generatore di valori, di significati e di senso. Finalmente ci si accorge che questa riduzione non solo è disumana ma neanche funziona. Ciò può rappresentare un’occasione per un nuovo inizio, per costruire una condizione umana più piena. Non servono gli esperti della fuga dal lavoro, ma architetti del nuovo lavoro. Coloro che hanno la capacità e il coraggio di riflettere e progettare, andando oltre le vecchie categorie, perfette per capire ieri, ma che oggi sono inutili se non dannose finanche a descrivere il lavoro. Inserire la dimensione della cura è difficile. Il digitale sta “scongelando” il tempo e lo spazio del lavoro. E i nuovi spazi van ripensati per contenere tempi diversi, apparentemente non conciliabili: quello dell’efficienza (per sua natura, veloce) e quello appunto della cura (che non può che essere lento perché aiuta a prestare attenzione, accudisce). È proprio su questo che dobbiamo edificare ciò che ci sarà dopo il capitalismo: la persona, come protagonista di partecipazione e riscatto del lavoro dignitoso, quello che realizza, cambia le imprese, il territorio, le relazioni e i rapporti sociali, quello che giorno dopo giorno, rende più umani. Ribaltiamo la discussione: invece di mettere in luce cosa si abbandona, torniamo a valorizzare la libertà di scelta delle persone e le motivazioni che orientano i loro percorsi. Torniamo a scegliere noi i territori e le città dove vivere. Non le città vetrina dove tra Ztl e periferia ci sono 5-6 anni di speranza di vita di differenza (in Brasile, a San Paolo 25). Valorizziamo con le nostre decisioni audaci, i lavori, le imprese, i corpi sociali e politici che sono great place to learn, to grow. Dove non si smetta mai di crescere perché la formazione è un diritto, un dovere. Il miglior luogo di lavoro è quello dove la sfida progettuale è alta non solo perché l’ansia che ne consegue è grande ma perché la si compie insieme e con gli strumenti migliori: la migliore qualità di formazione. Si sceglie di andare o di restare, dove si sta bene e ci si mette in gioco. Dove ci sia una zona franca dalle vecchie regole del gioco: il servilismo e le buone conoscenze. Schiacciate una volta tanto dall’impegno, dalla competenza, dal buonsenso nutrito dal senso critico, ma soprattutto dove vi sia spazio di cura. Lo spazio che abilita sfide cooperative: quella di lavorare insieme, tutti, meglio e per questo, meno. Occuparsi dell’altro, del contesto, del tessuto delle relazioni. Bisogna battere i modelli manageriali che agevolano l’abbandono di cuore e cervello fuori dai cancelli, con la riconsegna all’uscita e con in mezzo qualche banale e strapagata indagine sul clima. Si vive volentieri il lavoro edificato su quella vitalità fatta di azioni invisibili che rendono più forte, perché più giusta, una comunità. Il lavoro è anche relazione e ritessere le comunità del lavoro è fondamentale proprio per ricostruire il nuovo senso del lavoro. Serve intelligenza sociale dell’impresa. L’impresa che pensa è un motore sano di crescita e democrazia. Ora come non mai, perché abbiamo l’occasione di farci domande più sincere a cui non ripetere vecchie risposte autoconsolatorie. Fine vita, la lunga corsa a ostacoli della legge, tra Consulta, referendum, giudici e politica di Liana Milella La Repubblica, 24 novembre 2021 Dalle “condizioni” della Corte ai paletti del centrodestra. Nello Rossi: “Una legge è indispensabile, ma il Parlamento sovrano può andare oltre la pur coraggiosa sentenza del giudice costituzionale”. Una sentenza della Consulta con quattro precise condizioni. Un referendum in attesa del via libera della stessa Corte costituzionale. Una legge in fieri in Parlamento, ma ferma ancora al vaglio delle Commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera. Sono questi i tre pilastri da tener presente per orientarsi nel diritto all’eutanasia e al suicidio assistito. Diritto che reclama chi è ridotto a vivere una vita che non si può più considerare tale. Diritto che Pd e M5S condividono, ma che il centrodestra - Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia - avversa. La Cei, più volte, è intervenuta contro ogni forma di legittimazione dell’omicidio del consenziente. A tutto questo si aggiungono le pronunce dei giudici di Ancona che hanno reso possibile la “morte” di Mario. Suicidio assistito, la decisione della Consulta - È del 25 settembre 2019 - ma depositata il 22 novembre - la decisione della Corte costituzionale, presieduta in quel momento dal giurista Giorgio Lattanzi, che interviene sull’articolo 580 del codice penale che disciplina “l’istigazione o l’aiuto al suicidio”. La Corte si pronuncia perché a richiedere il suo verdetto sono i magistrati di Milano alle prese con l’incriminazione di Marco Cappato che ha accompagnato in Svizzera Dj Fabo immobilizzato dopo un gravissimo incidente. La Corte, per la prima volta nella sua storia, dà al Parlamento la possibilità di cambiare la legge, concede 12 mesi per farlo. Siamo nel 2018, passa un anno, ma le Camere restano immobili. A quel punto la Consulta decide. La sua sentenza pone quattro condizioni in presenza delle quali l’aiuto al suicidio non è penalmente sanzionato. Eccole. Non è punibile chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Il testo è chiaro, ma è evidente che a questo punto serve una legge. Sulla base di questa decisione, il 23 dicembre del 2019, Marco Cappato - il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, che da anni si batte per l’eutanasia - viene assolto dai giudici di Milano per il caso Dj Fabo. Il referendum sull’eutanasia - Siamo al 2021 e il Parlamento sul fine vita latita ancora. L’Associazione Luca Coscioni lancia in primavera la raccolta delle firme per un referendum finalizzato all’abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale. Nel quesito referendario si chiede il “si” dei cittadini per abrogare la sanzione penale attualmente prevista per l’omicidio del consenziente - la reclusione da sei a quindici anni - mentre rimarrebbe in vita l’altra parte dell’articolo 579 che sancisce l’applicabilità delle disposizioni relative all’omicidio “se il fatto è commesso contro una persona minore degli anni diciotto, contro una persona inferma di mente (o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti) o contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”. L’associazione Luca Coscioni sostiene che la parziale abrogazione consentirebbe l’eutanasia “attiva”, come viene praticata in Belgio e in Olanda. Qualora il referendum, che ha raccolto oltre un milione di firme, dovesse passare, dopo l’eventuale via libera della Consulta, “il principio dell’indisponibilità della vita, sancito dal codice Rocco del 1930, lascerebbe il posto a quello della disponibilità della propria vita a determinate condizioni, quelle previste dall’ordinamento e dalla sentenza della Consulta sul caso Cappato”. Con questa strada, sempre secondo l’associazione Coscioni, “sarebbe possibile intervenire medicalmente, su richiesta della persona, per assisterla direttamente nel fine vita”. Con l’effetto di “trasformare l’eutanasia clandestina, praticata oggi in Italia, in eutanasia legale”. A fronte di queste “certezze” tra i giuristi corrono molti dubbi. La domanda è: che cosa comporta la semplice cancellazione di una parte dell’articolo 579? Il rischio che si paventa è che l’articolo del codice penale, a quel punto, non direbbe nulla sulle “condizioni” in cui si trova di chi chiede di morire. Il rischio resta sempre quello di possibili “abusi” dell’eutanasia nei confronti di persone che non sono in grado di proteggersi. La legge in Parlamento sul suicidio assistito - Sotto il titolo “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita” le commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera stanno faticosamente tentando di arrivare a una legge. Ma il cammino è molto difficile. Previsto in aula il 22 ottobre, il ddl è slittato prima al 22 novembre e poi ancora al 29. Ma il centrodestra sta premendo per un ulteriore e più pesante rinvio. Il testo attuale elenca i requisiti necessari per la richiesta di morte volontaria. Essa deve provenire da una persona maggiorenne, in grado di assumere decisioni libere e consapevoli ed affetta da sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili e può essere presa in considerazione se il richiedente è vittima di patologie irreversibili ed è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. A partire da questi presupposti il testo tratteggia una rapida procedura, che inizia con la richiesta e con un rapporto medico sulle condizioni del richiedente, prosegue con il parere del Comitato etico territorialmente competente e, nei casi di esito favorevole, si conclude con l’intervento del Servizio sanitario tenuto a garantire che la morte avvenga - nel domicilio del paziente o presso una struttura sanitaria pubblica - nel rispetto della dignità della persona malata e in modo da non provocare ulteriori sofferenze ed evitare abusi. Questo testo sarebbe efficace per risolvere il problema? Secondo Nello Rossi, già Avvocato generale in Cassazione e oggi direttore di Questione giustizia, la rivista online di Magistratura democratica (che domani pubblica un suo articolo sul tema), “il testo all’esame del Parlamento” ha il pregio di individuare una procedura certa nei tempi e nelle responsabilità, ma “ resta, su due nodi cruciali, troppo prigioniero di una impostazione che la Corte costituzionale ha dovuto adottare per rimanere nei limiti di una pur coraggiosa sentenza manipolativa”. Secondo Rossi invece, avvalendosi della sua libertà, “il Parlamento può superare la formula ‘trattamenti di sostegno vitale’, chiarendo che i trattamenti sanitari che giustificano la richiesta di assistenza non sono solo quelli artificiali di collegamento a una macchina, ma anche tutti i trattamenti realizzati con dolorose terapie farmaceutiche, ad esempio una severa e permanente chemioterapia, o con altre forme di assistenza medica la cui interruzione determinerebbe la morte del malato in maniera non necessariamente rapida, diventando perciò fonte di ulteriori sofferenze”. Il secondo punto “critico” dell’attuale testo, sempre secondo Rossi, è “la definizione della morte volontaria medicalmente assistita descritta come il decesso cagionato da un atto autonomo con il quale si pone fine alla propria vita con il supporto del Servizio sanitario nazionale. Se per atto autonomo si dovesse intendere solo un gesto fisico, materiale, e non invece un atto di autonoma volizione, il risultato sarebbe paradossale. L’assistenza pubblica sarebbe negata proprio a chi è così totalmente prigioniero del suo corpo e della malattia invalidante da non essere in grado di attuare una volontà che pure è ferma e inequivocabile”. Il legislatore dunque potrebbe e “dovrebbe chiarire che ove la volontà di por fine alla vita sia inequivocabile ma sia impossibile un gesto fisico autonomo, il morente possa ricevere l’aiuto materiale necessario per il suo compimento”. Un tale “aiuto a morire” potrebbe essere ancora considerato come una forma di aiuto al suicidio o comunque essere qualificato dal legislatore come l’unica scriminante - limitatissima e chiaramente regolata - dell’omicidio del consenziente. La parola passa ai giudici - Intanto, com’è sempre accaduto sin qui, la questione è di nuovo approdata nelle aule giudiziarie. Il paziente paraplegico “Mario” si è rivolto ai giudici di Ancona con il ricorso d’urgenza previsto dall’articolo 700 del codice di procedura civile. In due successive ordinanze il giudice monocratico e il tribunale collegiale del capoluogo marchigiano hanno affermato che a “Mario” non può essere riconosciuto “un vero e proprio diritto soggettivo (azionabile in giudizio) a essere assistiti nel suicidio” da parte del personale del servizio sanitario nazionale. In assenza di un intervento del legislatore potrà essere esclusa, quando ricorrano le condizioni indicate dalla Corte costituzionale, solo la punibilità di un’eventuale condotta di aiuto al suicidio. Al paziente “Mario”, dunque, è stato riconosciuto un diritto diverso e minore: quello di pretendere dall’Azienda sanitaria marchigiana “l’accertamento” nel caso di specie “della sussistenza dei presupposti richiamati nella sentenza della Corte costituzionale 242 del 2019 ai fini della non punibilità di un aiuto al suicidio praticato in suo favore da un terzo e di ottenere una verifica dell’idoneità ed efficacia del farmaco scelto dal paziente per porre fine alla sua vita. Quindi “Mario” non potrà ottenere l’aiuto a morire da parte del Servizio sanitario nazionale, ma chi lo aiuterà a morire potrà invocare la scriminante garantita dalla Consulta. Eutanasia. Dalla Corte costituzionale una sentenza dirompente di Massimo Villone Il Manifesto, 24 novembre 2021 Non c’è dubbio che una persona in piena salute possa decidere di porre fine alla propria vita. Potrà violare un precetto religioso, ma non incontra ostacoli di ordine giuridico. Con la sentenza 242 del 2019 la Corte costituzionale si pronunciò sul suicidio assistito, dopo aver inutilmente atteso che il parlamento si occupasse in un modo o nell’altro della questione. Fu una pronuncia cauta per un verso, e per l’altro dirompente. Cauta perché si fermò a una illegittimità costituzionale parziale, per di più assoggettata a condizioni stringenti, dell’art. 580 del codice penale per la parte in cui “non esclude la punibilità” di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio. Dirompente, perché con una pronuncia additiva costruì un percorso che ora nemmeno il legislatore, volendo, potrebbe sbarrare. Non può essere punibile l’assistenza al suicida nel caso di persona “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Inoltre, è necessario che “le condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Nel caso di specie, per la Corte la decisione ultima sul se e come si muore non spetta alla persona interessata, ma alla struttura pubblica e al comitato etico (con accentuazioni diverse in ragione del diverso ruolo). È comunque su questa base che ad Ancona fa un passo avanti, dopo mesi di battaglia anche nella sede giudiziaria, una richiesta di accedere al suicidio assistito. Il parere del comitato etico ha aperto la via. Ma la vicenda non sembra conclusa, se - come leggiamo - si discute ancora sulle modalità da seguire per la somministrazione del farmaco che porrà eventualmente fine alla vita del malato. Emerge una aporia. Non c’è dubbio che una persona in piena salute fisica e mentale possa decidere di porre fine alla propria vita in uno di mille modi diversi, tra cui l’assunzione di farmaci che producano il risultato voluto. Potrà violare un precetto religioso, ma non incontra ostacoli di ordine giuridico. Nemmeno è dubbio che una persona, tenuta in vita con mezzi artificiali ma capace di intendere e di volere e di esprimere la propria volontà, possa decidere di suicidarsi semplicemente rifiutando il trattamento sanitario salvavita. Trova in questo il supporto dell’art. 32 della Costituzione. Quindi, un diritto di morire sembra indubbiamente riconosciuto. Nessuno può obbligarmi a vivere, se decido di voler morire. Ma è un diritto da esercitare in solitudine. Si richiede cautela, se qualcun altro mi porge il flacone che contiene le pillole al fine necessarie. Questo può accadere senza conseguenze di ordine penale per chi mi assiste nei soli casi previsti dalla Corte e sulla base di un accertamento della struttura pubblica e del parere del comitato etico territorialmente competente. Che potrebbero anche ritenere che la mia decisione non risponde ai canoni restrittivi disegnati dal giudice. Se venisse un diniego, potrei certo ribadire la mia decisione. Praticandola però in solitudine, se in grado di farlo. Allora, per una persona in perfetta salute la decisione di morire è più agevole che per una persona in condizioni disperate. È un paradosso? Certamente sì, per un verso. Ma va compreso che le cautele costruite intorno a casi estremi come quelli del DJ Fabo, o quello cui assistiamo ad Ancona, vogliono anche garantire che intorno al suicidio non si crei un’area melmosa in cui potrebbero giocare interessi non trasparenti. Questo però suggerisce ai soggetti pubblici coinvolti che le garanzie predisposte dalla Corte debbano essere intese nel senso non già di ostacolare o impedire la volontà di porre fine alla propria vita, ma di verificare che tale volontà sia liberamente formata, e che sia portata al fine voluto nel modo migliore per la persona interessata. Nella sentenza 242 la Corte avrebbe potuto orientarsi per una decisione più radicale, con una mera dichiarazione di illegittimità della fattispecie di cui all’art. 580 del codice penale. Disegnando un percorso complesso, ha supplito a una intollerabile inerzia del parlamento, che dovrebbe essere un tempio non solo della democrazia - come dice Mattarella - ma anche e soprattutto dei diritti. E che invece con il suo silenzio ci ha portato ad avere sì il diritto di morire, ma da soli. Interpol, la rivolta di dissidenti e Ong contro gli “impresentabili” di Emirati arabi e Cina di Gianluca Modolo La Repubblica, 24 novembre 2021 L’Agenzia internazionale che fa dialogare le polizie di tutto il mondo è riunita a Istanbul. I candidati dei due paesi rispettivamente alla presidenza e al comitato esecutivo fanno discutere: sono accusati du aver avuto parte attiva in torture e repressioni degli oppositori dei loro governi. Contro gli “impresentabili” all’Interpol si stanno muovendo europarlamentari, ong, attivisti per i diritti umani, dissidenti in esilio. Da ieri a Istanbul l’agenzia internazionale che fa dialogare le polizie di 195 Paesi del mondo è riunita per rinnovare i propri vertici. Ma due candidati si stanno attirando le critiche: il generale Ahmed Naser al-Raisi, ispettore generale al Ministero dell’Interno degli Emirati Arabi Uniti, e il cinese Hu Binchen, funzionario del Ministero di Pubblica Sicurezza di Pechino. Il primo corre per la presidenza, il secondo cerca un posto tra i 13 membri del comitato esecutivo. Accusato di essere un torturatore, Al-Raisi ha già collezionato denunce in cinque Paesi: in Francia, dove si trova il quartier generale dell’Interpol (a Lione) e in Turchia (dove si sta svolgendo l’elezione che darà un verdetto domani). Preoccupazione per la nomina di Al-Raisi hanno espresso 45 europarlamentari che il 19 novembre hanno scritto direttamente a Josep Borrell, l’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, per denunciare come il generale abbia tra i suoi compiti “la gestione e la supervisione delle forze di polizia degli Emirati, le stesse che sono responsabili degli arresti arbitrari di dissidenti pacifici, spesso con la violenza e senza fornire i necessari mandati”. E di come la polizia sia stata “più volte denunciata per aver praticato la tortura come mezzo per estorcere false confessioni”. L’altro nel mirino è Hu Binchen, funzionario del Ministero di Pubblica Sicurezza cinese. La sua elezione, hanno scritto in una lettera 50 parlamentari di 20 paesi dell’Inter-Parliamentary Alliance on China, “metterebbe a rischio ancora di più le decine di migliaia di dissidenti di Hong Kong, uiguri, tibetani, taiwanesi e cinesi che vivono all’estero”. Hu, infatti, è sospettato di aver utilizzato l’Interpol per dare la caccia ai dissidenti in esilio per poi riportarli in patria. In un altro appello altri 40 attivisti, tra cui l’uiguro Dolkun Isa e l’attivista di Hong Kong Nathan Law, scrivono che l’elezione di Hu avrebbe “gravi conseguenze”. Gravi conseguenze, potenzialmente, anche per se stesso. L’ultimo cinese all’Interpol, Meng Hongwei, è stato inghiottito nel buio delle carceri del Dragone. L’ex presidente dell’agenzia, sparito nel settembre del 2018 durante un viaggio in Cina, venne poi arrestato dalle autorità di Pechino. Nel 2020 in un’aula del tribunale di Tianjin ha “ammesso” le sue colpe: condannato a 13 anni e mezzo di prigione per corruzione per aver intascato 2 milioni di dollari di tangenti. La settimana scorsa in una esclusiva intervista all’Associated Press ha parlato la moglie, Grace, rifugiata politica in Francia che vive sotto scorta e non vede e non sente il marito da tre anni. “Il governo cinese è un mostro”. “Torturatore”, polemiche per il generale a capo dell’Interpol di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 24 novembre 2021 Al-Raisi, alto funzionario degli Emirati Arabi Uniti, è il candidato favorito a diventare il nuovo presidente ma su di lui pesano tre denunce per torture. Il generale Ahmed Naser al-Raisi, potente alto funzionario degli Emirati Arabi Uniti, è il candidato favorito per diventare il nuovo presidente dell’Interpol, l’organizzazione che riunisce le polizie di 195 Paesi. L’elezione è prevista domani a Istanbul, e dopo oltre quarant’anni di carriera nella polizia del Golfo al-Raisi potrebbe succedere al sudcoreano Kim Jong-yang nella sede di Lione. Solo che al momento di insediarsi, all’inizio del 2022, il nuovo coordinatore supremo della lotta al crimine nel mondo potrebbe essere arrestato dalla polizia francese. Uomo forte, anche troppo, degli Emirati, il generale al-Raisi è colpito in Francia da tre denunce per torture. La prima è stata presentata a Parigi dagli avvocati del difensore dei diritti umani e blogger Ahmed Mansour, da quattro anni rinchiuso in isolamento in una cella di quattro metri quadrati, perché accusato di avere “minacciato l’ordine pubblico” e diffuso “false informazioni”. La lotta implacabile del generale al-Raisi contro criminalità e terrorismo, secondo le organizzazioni per i diritti umani, si allarga alla persecuzione di qualsiasi oppositore al regime dello sceicco Khalifa bin Zayed. Ieri a Istanbul una conferenza stampa è stata organizzata dall’avvocato inglese Rodney Dixon, che assiste l’accademico britannico Matthew Hedges arrestato dalla polizia degli Emirati nel maggio del 2018 e poi accusato di spionaggio a favore del Regno Unito. Hedges ha raccontato di essere stato imprigionato in una cella minuscola, picchiato, torturato, drogato e obbligato a firmare una falsa confessione. Condannato all’ergastolo, è stato liberato dopo due anni di maltrattamenti in seguito alle pressioni di Londra. Secondo Hedges “il generale al-Raisi è responsabile di quel che mi è successo, è impossibile che non fosse al corrente delle violenze”. Una terza denuncia è stata presentata da Ali Issa Ahmad, cittadino britannico come Hedges, che nel gennaio 2019 si trovava negli Emirati e ha seguito una partita della Coppa d’Asia indossando una maglietta della nazionale del Qatar. In quei giorni gli Emirati Arabi Uniti partecipavano al blocco contro il Qatar dichiarato anche da Arabia Saudita, Bahrein ed Egitto e proseguito fino al gennaio 2021. Ali Issa Ahmad è stato arrestato, picchiato e accoltellato. “Nella carta dell’Interpol è menzionato l’obbligo al rispetto dei diritti dell’uomo, ed è impensabile che la presidenza di un’istituzione nata per perseguire in tutto il mondo gli autori dei crimini più odiosi abbia alla sua testa un individuo coinvolto in casi di tortura”, dice William Bourdon, l’avvocato parigino incaricato dalla ong Gulf Center for Human Rights di difendere Ahmed Mansour. Bourdon ha chiesto alla Turchia, che ospita in questi giorni l’Assemblea dell’Interpol, di arrestare al-Raisi per le accuse di tortura, ma proprio ieri il principe ereditario degli Emirati, Mohammed ben Zayed al-Nahyan, è stato accolto calorosamente ad Ankara dal presidente turco Erdogan per rilanciare le relazioni tra i due Stati. Gli Emirati hanno garantito a Interpol un finanziamento di 56 milioni di dollari, diventando il secondo contributore dell’organizzazione dopo gli Stati Uniti, e con il governo francese hanno un rapporto privilegiato che si manifesta anche nell’acquisto di decine di caccia Rafale. Il vertice dell’Interpol sta diventando una carica delicata: nel 2018 l’allora presidente Meng Hongwei, scomparso all’improvviso dalla sede di Lione, è stato condannato in Cina a 13 anni di carcere per corruzione. Stati Uniti. Afroamericano scagionato da tre omicidi dopo 43 anni di carcere tgcom24.mediaset.it, 24 novembre 2021 È uno dei casi di errata condanna più clamorosi della storia americana. Ora il desiderio di Kevin Strickland, oggi 62enne, è di vedere la tomba della madre e l’Oceano. L’afroamericano Kevin Strickland, condannato all’ergastolo per l’uccisione di tre uomini bianchi, è stato scagionato da un giudice dopo aver trascorso 43 anni in carcere. Ora il desiderio dell’uomo, 62enne, è di andare sulla tomba della madre e sull’Oceano, che non ha mai visto di persona. L’ennesimo caso di malagiustizia, venato forse da pregiudizi razzisti, è l’esempio più lungo di errata condanna nel Missouri e di uno dei più lunghi nella storia degli Stati Uniti. L’assenza di prove e la confessione del killer - Strickland fu condannato nel 1978 per l’omicidio di Sherrie Black, 22 anni, Larry Ingram (21) e John Walker (20). Il tutto nonostante l’assenza di una prova fisica che lo legasse alla scena del crimine, l’alibi fornito da più famigliari e l’ammissione dei killer che lui non partecipò al triplice delitto. La falsa testimonianza - Il caso fu costruito basandosi sulla testimonianza di Cynthia Douglas, l’unica sopravvissuta e testimone dell’aggressione, che però subì le pressioni degli investigatori e poi tentò inutilmente di ritrattare le sue dichiarazioni. Le motivazioni della scarcerazione - “In base a queste circostanze uniche, la fiducia della Corte nella condanna di Strickland è così minata che non può reggere, quindi la sentenza deve essere cancellata”, ha scritto il giudice James Welsh, decretando l’immediata scarcerazione del detenuto. Una decisione criticata dai repubblicani del Missouri, a partire dal governatore. La vicenda - Tutto cominciò il 25 aprile 1978, quando il 21enne Vincent Bell - un vicino da cui suo padre gli aveva detto di restare lontano - Kim Adkins (19), Terry Abbott (21) e un sedicenne si fermarono fuori dell’abitazione di Strickland, che dopo una breve chiacchierata preferì restare a casa con la figlioletta nata da poco. Il gruppo poi organizzò una spedizione punitiva in un bungalow per vendicare una perdita al gioco con dadi truccati, legando e uccidendo tre giovani che si trovavano all’interno. Douglas, che era la fidanzata di una delle vittime, restò ferita e finse di essere morta. Poi riuscì a liberarsi e a cercare aiuto. Quindi la polizia piombò a casa di Strickland e lo portò in caserma per un riconoscimento insieme ad altri afroamericani. Uno degli investigatori fece pressioni sulla giovane perché indicasse lui e così fu processato e condannato. A nulla valsero gli alibi e l’ammissione di Bell e di Abbott che il loro amico non era presente nel luogo del massacro. La prima volta che Douglas avvicinò il procuratore dopo la testimonianza di Bell che scagionava Strickland, fu allontanata e minacciata di venir incriminata di spergiuro. Un episodio simile accadde anche negli anni 90. “I cadaveri dei manifestanti nel Nilo”. Il Sudan scopre l’orrore delle milizie di Antonella Napoli La Repubblica, 24 novembre 2021 Il racconto della repressione dopo il golpe militare. Con una promessa: “Nonostante il ritorno del premier le proteste continuano”. Abdul ha profondi occhi nocciola. Uno sguardo fiero che dice molto dei suoi 13 anni. Non è un adolescente come tutti gli altri, Abdul, che ha visto morire con un colpo alla testa il suo più caro amico, tre anni più grande di lui. Non lo è nessuno delle centinaia di ragazzini che hanno animato le proteste che dal golpe del 25 ottobre si sono susseguite con il loro pesante carico di violenza e morte. “Alle persone scomparse durante le manifestazioni, a chi ha alzato barricate per manifestare contro il colpo di Stato: siete nei nostri pensieri e nelle nostre azioni. Vi cercheremo e vi troveremo e continueremo a lottare anche nel vostro nome. #massacrodelcomandogenerale #sudandesaparecidos”, ha scritto con un pennarello rosso su un cartellone che stringe forte tra le mani. Slogan delle rivolte odierne e passate che il popolo sudanese non ha intenzione di fermare. Una forma di dissenso pacifica che coinvolge uomini, donne, bambini e persino disabili scesi in carrozzina a manifestare per la democrazia e la libertà. Ma anche per chiedere verità e giustizia per le vittime e le persone scomparse nelle ultime quattro settimane. “Dispersi” di cui non si ha certezza del destino ma che, secondo testimoni, dopo essere stati uccisi sarebbero stati gettati dalle Rapid support force nelle acque ingrossate del Nilo a causa di una stagione delle piogge abbondante che ha portato all’innalzamento del livello del più importante fiume africano in tutto il Sudan. Se nelle periferie si è riversato oltre gli argini devastando coltivazioni e distruggendo case, a Khartoum, la capitale, ha favorito l’occultamento dei corpi dei manifestanti. Fino a quando il riemergere di un cadavere nei giorni scorsi, più a valle dall’epicentro delle rivolte, ha svelato tutto l’orrore che molti testimoni della brutalità delle milizie hanno raccontato con dovizia di particolari. “Temo che le persone di cui non sappiamo più nulla siano ancora lì, nel Nilo”, racconta Wahid Arman Yousif, ingegnere e attivista politico che sotto il regime del presidente Omar al-Bashir è stato più volte arrestato “Ma le acque per quanto limacciose e vorticose non riescono mai a nascondere troppo a lungo”, è la sua convinzione. Due giorni dopo l’ultima manifestazione contro i militari, che nel frattempo hanno ripristinato il governo del primo ministro Abdalla Hamdok, la capitale del Sudan appare placida e tranquilla, come se non fossero stati compiuti massacri di civili così cruenti da riportare alla mente il giorno più nero delle “rivolte del pane” di due anni fa, il 3 giugno del 2019, quando le Rapid support force, le milizie agli ordini della Giunta militare, uccisero 130 persone radunate davanti al quartier generale sella Difesa. Eppure, nonostante la repressione delle nuove proteste sia stata altrettanto sanguinosa, uomini, donne e bambini non hanno esitato a manifestare senza paura. E oggi, tutti loro, non perdonano ai generali che volevano prendere il controllo assoluto del Paese di essere ricorsi, ancora una volta, alla violenza. Centinaia di feriti, molti in gravissime condizioni, e 50 morti il bilancio delle repressioni. Per ora. Per disperdere la folla, mentre la polizia lanciava gas lacrimogeni sono stati utilizzati anche cecchini. “Hanno aperto il fuoco con l’intento di uccidere e scoraggiare altri a prendere parte alle proteste. Il massacro più grave è stato compiuto il 17 novembre quando per impedire che attraversassero il ponte, che collega Omdurman a Khartoum, hanno mirato alla testa”, è l’atto d’accusa di Mohamed Suleiman, del Comitato dei medici sudanesi, che ha assistito decine di feriti. Uno schema già visto, stesso modus operandi perpetrato decine, centinaia, migliaia di volte per reprimere chiunque manifestasse malcontento e intenzioni rivoltose in Sudan. A Khartoum come in Darfur e sui Monti Nuba e in tutte le altre regioni sudanesi dove il governo del presidente-dittatore Omar Hassan al- Bashir, prima, e il Consiglio sovrano guidato dai militari, oggi, utilizzano le milizie, i famigerati janjaweed, per annientare il dissenso. “Finita l’era del regime precedente, il Sudan è ancora in balia di assassini feroci”, afferma Adam Ishag, avvocato del Justice Sudan Center. “Le forze paramilitari che hanno cambiato nome ma mantenuto gli stessi metodi sotto il comando del colonnello Mohamed Hamdan Dagalo”. È ormai chiaro a tutti che sia lui, “Hemeti” come è meglio conosciuto il comandante delle Rsf, a guidare l’apparato della difesa e delle forze di sicurezza del Paese e non il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Consiglio sovrano, di cui è vice. Appare surreale, in tale contesto, l’annuncio del premier di voler istituire un’inchiesta per accertare chi abbia sparato sui manifestanti. L’impegno del “ripristinato” primo ministro Hamdok, agli occhi della Sudanese professionals association, appare anche peggio: una vera e propria azione mistificatoria, una presa in giro. Ed è per questo che i diciassette sindacati che compongono la Spa non hanno alcuna intenzione di riprendere le trattative con chi si è macchiato le mani del sangue di centinaia di sudanesi. “Stiamo ancora aspettando giustizia per i martiri del 3 giugno, figuriamoci se avremo mai quella per i manifestanti scesi in piazza per difendere la transizione. Noi non stringeremo mai più accordi con i militari”, è la ferma posizione dell’Associazione dei professionisti sudanesi che proseguirà con “la resistenza non violenta” fino a quando i militari non lasceranno il potere “ad un governo civile al 100 per cento che porti alle elezioni nel 2023”. Per domani, a un mese dal colpo di Stato, è già convocato un nuovo sciopero generale. Altre repressioni saranno inevitabili. Le donne yazide abbandonate dall’Europa di Marta Serafini Corriere della Sera, 24 novembre 2021 Vendute come schiave, stuprate e uccise dall’Isis dopo il massacro di Sinjar del 2014, per loro ci sono stati proclami, premi, sostegno e dichiarazioni. Ma ora come altre migliaia di migranti iracheni, siriani e curdi, sono respinte al confine tra Polonia e Bielorussia. Sono le stesse donne che, in quanto parte di una minoranza religiosa - quella yazida - sono state vendute come schiave, stuprate e uccise dall’Isis dopo il massacro di Sinjar del 2014. Di quelle giovani i media di tutto il mondo hanno raccontato il dolore. E ancora oggi, a distanza di sette anni, avvocati del calibro di Amal Clooney si battono nei tribunali affinché venga riconosciuto loro lo status di vittime di genocidio. Per loro l’Europa si è spesa in proclami, premi, sostegno e dichiarazioni. Eppure, ora, quelle stesse donne vengono respinte alla frontiera tra la Bielorussia e la Polonia. È accaduto nei giorni scorsi, quando 430 di loro sono rientrate nel Kurdistan iracheno dopo aver speso tutti i loro risparmi per tentare il viaggio. Erano arrivate alle porte dell’Europa, come altre migliaia di migranti iracheni, siriani e curdi, dopo che la Bielorussia ha iniziato a concedere visti a chiunque voglia tentare l’ingresso in Europa. Una prassi che Minsk - accusa l’Europa - non persegue certo nel nome del diritto umano. Ma che ha messo in atto per esercitare pressione politica su Bruxelles. In mezzo allo scambio di accuse ci sono loro, donne cui il Parlamento europeo ha consegnato il Premio Sacharov nel 2016 e che oggi non hanno nemmeno i soldi per pagarsi il taxi per tornare a casa dall’aeroporto. Ragazze, tra le poche sopravvissute ai massacri dell’Isis di cui abbiamo ascoltato i racconti strazianti dopo che i jihadisti le avevano liberate dietro riscatto e cui molti Paesi europei, in testa la Germania, nel 2015 hanno riconosciuto lo status di rifugiate politiche. Dove è allora il nostro senso di giustizia di fronte a quel muro in Polonia? Dove è lo spirito dell’Europa? Pochi giorni fa un bambino siriano è morto di freddo nella foresta a pochi chilometri dal confine europeo. Accettare i ricatti non è la strada, certo. Ma nemmeno girare la testa dall’altra parte mentre le donne yazide si vedono negato il diritto all’asilo può portare l’Europa molto lontano.