Purtroppo il carcere fallisce ogni giorno di Pietro Chiaro* Il Domani, 23 novembre 2021 Quando, dopo 30 anni di magistratura, sono andato in pensione, ho deciso di fare volontariato, chiedendo di poter accedere nel carcere locale di Rovereto, per dare consulenza ai detenuti. Ho avvertito l’esigenza di conoscere meglio quel mondo dei “rimossi della società” che avevo condannato sulla base delle carte processuali, senza alcuna possibilità di valutazione del loro percorso umano. E ho maturato la convinzione che tutti dovrebbero visitare un istituto penitenziario almeno una volta, per superare quel “niente” che caratterizza la loro conoscenza. Si potrebbe allora capire che nella situazione carceraria vi è la costante di un’immanente “doglianza” legata all’incapacità dello stato di restituire al mondo persone riformate e recuperate, reintegrabili nella società. La limitazione della libertà personale andrebbe prevista solo negli estremi casi di acclarata sussistente e permanente pericolosità: nei 191 istituti penitenziari italiani, nelle celle di pochissimi metri quadri talvolta senza aria e con i servizi igienici pressoché attaccati alle brande, non vi è ragione di tenere reclusi i tossicodipendenti, gli extracomunitari e i poveri disgraziati che non hanno trovato adeguata difesa nel processo. Cominciamo a riflettere sulla necessità di applicare la misura carceraria solo in casi estremi di acquisita e permanente pericolosità del condannato, ricorrendo più spesso alle misure alternative, già previste (affidamento in prova ai servizi sociali, arresti domiciliari, semilibertà, liberazione anticipata). Giustificare l’attuale sistema carcerario significa avallare il sistema della vendetta di stato e della sua violenza, attraverso le misure di sofferenza e dolore inflitte ai ristretti, senza alcun recupero sul piano del tasso di criminalità. *Ex magistrato Ecco perché il testo sull’ergastolo ostativo esce dai binari della Consulta di Davide Varì Il Dubbio, 23 novembre 2021 L’intervento dell’Associazione “Il Carcere Possibile Onlus”: le forze politiche di vocazione panpenalistica, attualmente maggioritarie, osteggiano il raggiungimento dell’obiettivo riformista imposto dalle Alte Corti europea ed italiana. Si è appreso dall’Ansa del 17.11.2021 che la Commissione Giustizia della Camera “ha votato il testo base della riforma dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario”. Lo ha annunciato il presidente della Commissione - il deputato del Movimento 5 stelle Mario Perantoni - spiegando che “Il testo interviene con il fine di recepire l’orientamento della Corte costituzionale che chiede una revisione della norma attuale. Abbiamo trovato una mediazione tra i valori espressi dalla Consulta e la necessità di mantenere il rigore nei confronti della detenzione dei boss mafiosi, un obiettivo per noi irrinunciabile. Renderò presto noto il termine per la presentazione degli emendamenti”. Si apprende, altresì, che in commissione hanno votato in favore dell’adozione del testo tutti i gruppi esponenti dei diversi partiti ad eccezione di quello espressione di Fratelli d’Italia. La dichiarazione rilasciata dal presidente Perantoni, seppur estremamente concisa, ha lasciato presagire che il testo licenziato non avesse affatto recepito i principi espressi dalla Consulta con l’ordinanza 97/2021 che ha accertato l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Se ne è avuta amara conferma quando il testo approvato in commissione è giunto sulle scrivanie di chi - come noi - seguiva i lavori della Commissione ed aveva accolto con entusiasmo la notizia della mancata adozione della proposta elaborata dal Movimento 5 stelle quale testo da cui partire per la modifica dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Era stato, invero, annunciato che il testo da adottare per iniziare i lavori di riforma sollecitati dalla Corte Costituzionale, sarebbe stato il prodotto di una mediazione tra le tre proposte inizialmente depositate - quella della deputata dem Bruno Bossio, quella del deputato 5 stelle Ferraresi e quella del deputato di Fratelli d’Italia Mastro Delle Vedove - cui si è aggiunto in corso d’opera il testo redatto dalla Fondazione Falcone. Ebbene, il testo licenziato non costituisce affatto, nonostante sia stato votato alla quasi unanimità, la sintesi tra le proposte inizialmente valutate; in particolare, mancano i tratti che caratterizzavano il testo della deputata Bruno Bossio ovvero dell’unico testo che, seppur redatto precedentemente all’intervento della consulta, era ispirato dai medesimi principi e perseguiva i medesimi obiettivi dell’ordinanza citata. La spiegazione di quanto accaduto la si rinviene proprio nelle parole del presidente Perantoni riportate nell’incipit del presente scritto che offrono la plastica rappresentazione del contesto all’interno del quale sta maturando la riforma dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Non vi è alcuna voglia di esplorare, in un’ottica riformista, l’eterogeneità e la complessità delle idee di politica criminale tant’è che la proposta della Bruno Bossio, realmente fondata sul principio rieducativo di cui all’art. 27 della Costituzione, è stata completamente pretermessa. Vi è, invece, la tendenza a polarizzare le posizioni, da un lato ci sono le forze politiche che propongono il costante accrescimento di una giustizia sempre più punitiva e, dall’altro, i giuristi e la Corte Costituzionale che - anche alla luce delle pronunce della Corte Europea - intendono offrire al Paese una svolta di civiltà umana e giuridica. Ed allora accade che, onde evitare l’intervento demolitorio della Consulta in ordine all’istituto della liberazione condizionale (per gli ergastolani ostativi non collaboranti) che interverrebbe allo scadere del termine fissato all’11 maggio 2022, le forze politiche di vocazione panpenalistica, attualmente maggioritarie, osteggiano il raggiungimento dell’obiettivo riformista imposto dalle Alte Corti europea ed italiana. Il testo base licenziato dalla Commissione, che è figlio della proposta Ferraresi, appare in parte addirittura “peggiorativo” della disciplina vigente e si pone in conflitto con il contenuto della decisione della Corte Costituzionale e con quello delle pronunce della Cedu. In primo luogo, si prevede un’inversione dell’onere della prova ponendo un obbligo di allegazione a carico del condannato non collaborante. È, infatti, il condannato a dover offrire elementi probatori specifici (le “allegazioni”) che consentano di escludere con certezza sia l’attualità di collegamenti tra sé e la criminalità organizzata sia il pericolo del loro ripristino. Il testo di legge esclude che la non attualità dei legami con la criminalità organizzata sia dimostrabile esclusivamente attraverso la “mera” dichiarazione di dissociazione dall’eventuale organizzazione criminale di appartenenza ed è fatto obbligo al condannato di dimostrare l’integrale adempimento delle obbligazioni civili derivanti da reato. In altri termini, si chiede al detenuto ergastolano - che è recluso da decenni - di dimostrare ciò che dovrebbero, di contro, accertare le autorità pubbliche preposte allo svolgimento di tale attività. Se, come indicato nella proposta di legge, la dichiarazione di dissociazione e la partecipazione fruttuosa ai programmi di reinserimento e rieducazione non sono sufficienti all’ottenimento del beneficio, lo sforzo del legislatore dovrebbe essere proteso ad individuare, tenendo fede il più possibile ai principi di determinatezza e tipicità, quali siano gli elementi dai quali il Tribunale di sorveglianza possa (e non necessariamente debba) trarre il proprio convincimento. La verità è che non si può pretendere, scrivendolo chiaramente in un testo di legge, dal condannato ergastolano di dimostrare qualcosa di diverso dalla dissociazione e dal positivo percorso rieducativo, al fine di valutare la concedibilità dei benefici. È questa, dunque, la ragione che ha determinato la scelta di redigere un testo che, con specifico riferimento alle prove positive adducibili dal condannato (“le allegazioni”), presenta profili di profonda indeterminatezza e, pertanto, sembra volto ad osteggiare la concessione dei benefici. In un’ottica di lealtà ai principi Costituzionali, spetterebbe esclusivamente al comitato provinciale per l’ordine e per la sicurezza pubblica competente il compito di verificare l’esistenza di elementi che accertino l’attualità dei legami del condannato richiedente il beneficio ed il contesto criminale, lasciando che il detenuto sia onerato di provare esclusivamente ciò che può provare ovvero dimostrare di aver svolto un percorso rieducativo serio e di aver eventualmente reso una dichiarazione di dissociazione. Il dato centrale di cui non vi è traccia nel testo è, pertanto, l’individuazione di quali possano essere i processi rieducativi diversi dalla collaborazione che consentano l’accesso ai benefici. Emerge, di contro, una tensione protesa a rendere marginale la concessione di tali benefici dando centralità assoluta al dato probatorio e ad imbrigliare la magistratura di sorveglianza sulla quale graverà l’arduo compito (pressoché impossibile) di verificare, in termini di assoluta certezza, la rescissione di qualsivoglia legame del condannato non collaborante con la criminalità organizzata e l’inesistenza di un pericolo di ripristino di tali collegamenti non soltanto diretti, ma anche indiretti o tramite terzi. Appare poi del tutto ingiustificata la previsione di intervento - nella procedura di sorveglianza - del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo di distretto ove è stata emessa la sentenza di condanna di primo grado e del Procuratore Nazionale Antimafia ai quali è affidato il compito di redigere un parere. Sul punto, non ci si può esimere dall’esprimere la propria contrarietà all’acquisizione di pareri atteso che, come indicato nella relazione illustrativa della deputata Bruno Bossio, “le informazioni propedeutiche alla concessione dei benefici non devono contenere pareri sulla concedibilità o meno del beneficio, ma fornire esclusivamente, qualora ve ne siano, elementi conoscitivi concreti e specifici fondati su circostanze di fatto espressamente indicate che dimostrino in maniera certa l’attualità di collegamenti dei condannati o internati con la criminalità organizzata. Qualora alla magistratura di sorveglianza pervenissero pareri sulla concedibilità, gli stessi non potrebbero essere utilizzati”. La magistratura di sorveglianza, inoltre, in caso di pareri “negativi” è caricata di un onere motivazionale rafforzato affinché dia conto delle ragioni per cui ha ritenuto di superare i contenuti di tali pareri. Orbene, posto che l’obbligo motivazionale dei provvedimenti giurisdizionali racchiude in sé il confronto con ciascuna delle argomentazioni addotte dalle parti, l’imposizione di una motivazione rafforzata appare esclusivamente un segno di sfiducia nei confronti della magistratura di sorveglianza - che da sempre viene manifestata quando la stessa è chiamata a valutare la redimibilità dei condannati per reati ostativi - ed un monito volto a scoraggiare l’adozione di provvedimenti pro libertate. È prevista inoltre la modifica dell’art. 176 c.p., con la previsione che il condannato all’ergastolo “ostativo” non collaborante possa accedere alla liberazione condizionale dopo aver scontato 30 di pena - a fronte degli attuali 26 previsti per gli ergastolani - e dell’art. 177 c.p. con un innalzamento da cinque a dieci anni del tempo trascorso dalla data del provvedimento di liberazione condizionale, per il solo ergastolano “ostativo” non collaborante, al fine di ottenere l’estinzione della pena. Ed ancora, l’applicazione della libertà vigilata più incisiva (per tutto il periodo) nel caso in cui sia accordata la liberazione condizionale ad un ergastolano ostativo non collaborante rappresenta la più grande manifestazione di sfiducia nei confronti non soltanto dell’ergastolano, ma del principio rieducativo. È dunque fondato il timore, si ribadisce, che l’obiettivo perseguito non sia quello di creare il terreno fertile alla compiuta attuazione dell’art. 27 della Costituzione, ma semplicemente di rendere quanto più difficoltoso possibile l’accesso ai benefici. Urge più che mai un cambio di paradigma. Le ultime due ordinanze della Corte Costituzionale sul tema e la sentenza della Cedu nel procedimento Viola contro Italia, che hanno istituito il diritto alla speranza a seguito del costante impegno di giuristi e associazioni, hanno suscitato, di contro, sconcerto e profondo disappunto in una parte della magistratura e della cittadinanza indotta ad inseguire il falso e fuorviante obiettivo della sicurezza collettiva messa in pericolo dall’eventuale scarcerazione, dopo trent’anni di detenzione, di condannati per reati di criminalità organizzata. Ne è seguito l’arroccamento di parte della politica sulle grottesche posizioni securitarie proprio al fine di evitare che i principi enunciati dalle Corti potessero trovare attuazione. Eppure, il superamento dell’ergastolo ostativo non è che un frammento nel percorso che, partendo dalla risalente abolizione della pena di morte, dovrà necessariamente condurre all’abolizione dell’ergastolo così come più volte proposto da diverse commissioni parlamentari a partire dagli anni 70 sino al progetto di riforma Grosso. Il vento che spira finalmente dalla magistratura costituzionale non può essere sopito e represso dallo strumentale utilizzo di sterili politiche securitarie. Al centro del percorso di espiazione della pena deve essere posto il condannato ed il suo magistrato di sorveglianza. Soltanto questi, lontano dalle logiche - talvolta distorsive - di “lotta al crimine” e consapevole dell’intero percorso effettuato nei decenni dal detenuto all’interno del reclusorio, potrà, libero da pareri “sostanzialmente” vincolanti degli uffici di procura, stabilire se è giunto il tempo di riconnettere il detenuto con la società civile. In quest’ottica, si auspica che la commissione giustizia, che sta elaborando la riforma dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, abbia interesse ad incrementare le audizioni al fine di recepire ogni suggerimento che possa emendare il testo base elaborato rendendolo aderente ai principi costituzionali ed in linea con il percorso di civiltà giuridica che le Alte Corti hanno tracciato. Si auspica in particolare che il legislatore profonda il massimo impegno per elaborare ed indicare i processi rieducativi che, in alternativa alla collaborazione, consentano alla magistratura di sorveglianza di orientarsi e comprendere se il detenuto sia o meno pronto per essere reinserito all’interno della comunità. “Che fine ha fatto il rimborso delle spese legali per gli assolti?” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 novembre 2021 La denuncia del deputato di Azione Enrico Costa: “Se il decreto non verrà emanato prima di fine anno, 8 mln destinati agli assolti andranno persi”. Accolto come una svolta importantissima nei rapporti tra cittadini e giustizia, quando ancora a via Arenula c’era il Ministro Bonafede, l’emendamento di Enrico Costa alla legge di Bilancio 2021, che aveva introdotto il rimborso delle spese legali per chi è assolto con sentenza definitiva, non è ancora operativo. Manca infatti il decreto attuativo. La denuncia arriva dallo stesso deputato e responsabile giustizia di Azione su twitter: “La legge sul rimborso spese legali agli assolti è stata approvata a dicembre 2020. Entro febbraio il Ministero Giustizia doveva fare decreto per definire chi ne ha diritto. Ma non lo ha fatto. Se non verrà emanato prima di fine anno, 8 mln destinati agli assolti andranno persi”. Ricordiamo cosa prevede la norma. Nel processo penale, all’imputato assolto, con sentenza divenuta irrevocabile, perché il fatto non sussiste, perché non ha commesso il fatto o perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, è riconosciuto il rimborso delle spese legali nel limite massimo di euro 10.500. Esso dovrebbe essere ripartito in tre quote annuali di pari importo, a partire dall’anno successivo a quello in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, e non concorre alla formazione del reddito. Per averlo l’avvocato deve presentare la fattura, con espressa indicazione della causale e dell’avvenuto pagamento, corredata di parere di congruità del competente Consiglio dell’ordine degli avvocati, nonché di copia della sentenza di assoluzione con attestazione di cancelleria della sua irrevocabilità. Il rimborso non è riconosciuto nei seguenti casi: assoluzione da uno o più capi di imputazione e condanna per altri reati; estinzione del reato per avvenuta amnistia o prescrizione; sopravvenuta depenalizzazione dei fatti oggetto di imputazione. Qual è il problema: la legge di bilancio prevedeva che, con decreto del Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, si adottassero, tramite decreto attuativo, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, i criteri e le modalità di erogazione dei rimborsi, nonché le ulteriori disposizioni ai fini del contenimento della spesa nei limiti delle risorse stanziate, attribuendo rilievo al numero di gradi di giudizio cui l’assolto è stato sottoposto e alla durata del giudizio. Era prevista l’istituzione di un Fondo per il rimborso delle spese legali agli imputati assolti, con la dotazione appunto di euro 8 milioni annui a decorrere dall’anno 2021, che costituisce limite complessivo di spesa. Tuttavia i decreti attuativi non sono mai arrivati e il deputato Costa è “furibondo” come racconta al Dubbio: “il Parlamento ha deciso, con un dibattito anche acceso, ed il mio emendamento è passato all’unanimità. Il Governo deve solo stabilire le regole, senza entrare nel merito della norma. L’Esecutivo non può permettersi di porre un freno ad un principio di civiltà approvato dal potere legislativo”. Costa fa riferimento alla risposta che il Governo diede a maggio ad una sua interrogazione parlamentare, sostenendo che la cifra prevista era esigua per le possibili 125 mila domande che sarebbero pervenute e che era difficile stabilire a quale imputato assolto dare priorità in quanto il fascicolo processuale non è conoscibile: “Il Governo non può ridicolizzare così la norma, non deve sindacare sulla cifra stanziata e di conseguenza dire che la norma è inapplicabile - prosegue Costa. Certo, se avessi potuto far inserire 200 milioni per il rimborso lo avrei fatto, prevedendo una detrazione. Ma siccome una tale somma non c’è, penso che lo Stato abbia fatto bene a dare comunque un segnale sull’affermazione di un principio: ossia che se chiama una persona a rispondere di alcuni reati in un processo penale, deve provvedere a rimborsare le spese legali se quella persona è innocente”. Paradossalmente, ci dice infatti il deputato, “ci vengono a dire che i soldi sono pochi ma poi è lo stesso Governo che nella legge di bilancio in discussione non prevede un centesimo in più per il Fondo. A tal proposito ho presentato un emendamento”. Per Costa “non c’è alcuna ragione per cui dopo undici mesi ancora manchi un decreto attuativo. I magistrati distaccati presso l’Ufficio legislativo del Ministero devono fare quanto è stato stabilito, punto e basta. Altrimenti lascino il loro incarico. Mi sorge il dubbio che l’ostruzionismo sia dovuto al timore che il prossimo passo sia chiedere a chi ha sbagliato i soldi per rimborso delle spese legali”. La norma sulle spese legali completa il puzzle delle altre norme che Costa ha sostenuto: “quella del diritto all’oblio e quella sulla presunzione di innocenza, che tutelano e restituiscono la reputazione e la credibilità ai cittadini ingiustamente indagati e processati”. E conclude: “sono convinto che la Ministra Cartabia non sia stata informata di queste dinamiche. Quindi attraverso la stampa mi appello a Lei e ai suoi nobili principi affinché possa dare una accelerazione all’emanazione del decreto attuativo. Purtroppo non sono bastate le mie precedenti interlocuzioni con gli uffici preposti e le iniziative di sindacato ispettivo”. Dagli uffici giudiziari devono venire parole meditate, non silenzi di Simone Lonati e Carlo Melzi d’Eril Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2021 La direttiva 2016/343/Ue vieta di presentare in pubblico l’imputato come colpevole ed esiste un ormai risalente indirizzo della Corte europea che impone alle autorità pubbliche, nell’informare, di non lasciar trasparire un giudizio di colpevolezza prima dell’accertamento definitivo. In questo contesto il decreto legislativo nazionale, in ritardo di quasi cinque anni, ha evitato al Paese una altrimenti certa procedura di infrazione. Processo e informazione, si sa, sono sposi litigiosi Gli interessi non di rado sono in conflitto: da un lato la libertà di manifestazione del pensiero; dall’altro reputazione, riservatezza, dignità, equo processo, presunzione di non colpevolezza. Ciò in un mondo dei media a cui le vicende giudiziarie interessano soprattutto alle prime “battute”, quando gli inquirenti sono le fonti più informate, il cui punto di vista rischia spesso di essere l’unico. Gli effetti distorsivi sull’imparzialità del giudice, sull’attendibilità dei testimoni, sull’opinione pubblica costituiscono rischi più che concreti. Il decreto persegue due direttrici principali: da un lato i rapporti tra Procure e stampa; dall’altro la redazione degli atti processuali. Si vieta all’autorità di indicare pubblicamente come colpevole l’imputato fino a sentenza definitiva e si impone alle Procure di limitarsi ai comunicati o, “nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti”, alle conferenze stampa. Sarà sempre necessario chiarire la fase del procedimento e indicare il diritto dell’imputato a non essere ritenuto colpevole. Infine si introduce il divieto di assegnare alle indagini “denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Con riferimento alla seconda direttrice, invece, una nuova disposizione di non semplice interpretazione, l’art. 25 bis c.p.p., vieta, anche nei provvedimenti diversi dalle sentenze, di indicare indagato o imputato colpevoli prima dell’accertamento finale. Estrema cautela, inoltre, dovrà essere adoperata nelle ordinanze cautelari: il giudice dovrà limitare “i riferimenti alla colpevolezza della persona [...] alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”. L’impressione è che l’intervento normativo, pur animato da nobili intenti, vieti troppo in astratto e riesca a incidere poco nella pratica. Per scongiurare ipotesi di comunicazione diatonica rispetto alla presunzione di non colpevolezza, infatti, si pretenderebbe di inaridirne una delle fonti, rispetto a fatti di notevole interesse pubblico. Inoltre, sul punto, esiste già una disciplina volta a evitare eccessivi personalismi da parte degli inquirenti. Tuttavia, questa, introdotta nel lontano 2006 con il D.lgs. n. 106 e ribadita nel 2008 dalle Linee guida approvate dal Csm, è rimasta pressoché inapplicata. Basti pensare che già ora ogni informazione sulle indagini proveniente dalla Procura dovrebbe essere attribuita in modo impersonale all’ufficio e nessun pubblico ministero potrebbe rilasciare dichiarazioni se non delegato dal Procuratore. Non è chiaro perché la novella dovrebbe avere sorte differente. Spicca l’antinomia tra un apparato normativo ricco di disposizioni - processuali, penali, civili, amministrative, deontologiche - e una prassi dedita alla loro sostanziale disapplicazione. Anche sulla tecnica redazionale dei provvedimenti il decreto non convince. Si costringe chi deve motivare a complicate acrobazie verbali o a esercizi di ipocrisia argomentativa che in casi limite potrebbero risultare paradossali Quando, ad esempio, un giudice dispone la custodia cautelare deve essere certo dell’esistenza di gravi indizi, che, allo stato degli atti, la condanna rappresenti, sia pure in prospettiva, una qualificata probabilità. Sarebbe stato forse più lineare stabilire l’obbligo per i giudici di indicare sempre la fase in cui pende il procedimento, sottolineando l’eventuale carattere relativo e provvisorio della decisione perché adottata, per esempio, senza contraddittorio con la difesa e senza un accertamento probatorio. Sempre meglio rischiare l’ovvio che imporre arabeschi che rischiano di ottenere una eterogenesi dei fini. Rimaniamo dell’opinione che, in una società democratica, la via da seguire per gli uffici giudiziari non sia il silenzio, ma la parola meditata e misurata. Le buone intenzioni lastricano cattive strade. Violenza sulle donne, 89 casi al giorno di Salvo Palazzolo La Repubblica, 23 novembre 2021 I dati della Direzione anticrimine della polizia. Già 109 femminicidi, aumento dell’otto per cento rispetto al 2020. Ma cresce il numero delle vittime che denunciano abusi e vessazioni. È uno stillicidio che sembra non avere fine. Ogni giorno, in Italia, 89 donne sono vittime di reati di genere. Commessi soprattutto da mariti e compagni, nel 34 per cento dei casi; oppure dagli ex, è il 28 per cento delle aggressioni. Donne vittime di atti persecutori e abusi di ogni tipo: psicologici, fisici, sessuali. Fino al femminicidio. L’ultimo report della Direzione centrale anticrimine della polizia racconta i numeri del dolore, ma anche del possibile riscatto e della speranza. Sempre più donne provano a fermare la violenza. Quest’anno, sono le siciliane in prima linea nelle denunce: 172 ogni centomila abitanti donne. Poi ci sono le donne campane (152 ogni centomila abitanti), le donne lombarde (132), del Lazio (124) e del Veneto (112). “Sono numeri che indicano la gravità del fenomeno - dice il prefetto Francesco Messina, il direttore centrale anticrimine - C’è ancora tanto da fare. E la sfida contro tutta questa violenza si gioca esclusivamente sul campo della prevenzione”. Ieri, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha ribadito che “la tutela delle donne è una priorità assoluta per il governo, che intende affrontare l’odioso problema della violenza di genere in tutti i suoi aspetti, dalla prevenzione al sostegno alle vittime”. I numeri drammatici su cui si fonda l’analisi della Direzione centrale anticrimine ribadiscono che l’emergenza non è mai finita, i nomi delle vittime - spesso giovanissime - raccontano di storie al limite. Magari denunciate, ma il sistema non ha saputo fermare la violenza. Nel 36 per cento dei casi, l’autore del femminicidio è il marito o il convivente. Un altro 36 per cento annovera fra gli assassini ex mariti o conviventi. Il 20 centro sono fidanzati o ex. Nel 40 per cento di questi drammatici epiloghi, la vittima lascia figli piccoli. E in un caso su due è stata utilizzata un’arma da taglio per il femminicidio. Un dolore senza fine, rinnovato in questi ultimi giorni. Sono 109 le donne uccise nel 2021, il 40 per cento di tutti gli omicidi commessi nel Paese. La Direzione della polizia criminale spiega che 93 femminicidi sono avvenuti in ambito familiare, 63 donne sono state uccise dal partner o dall’ex. La violenza nei confronti delle donne cresce, dell’8 per cento. Nello stesso periodo dell’anno scorso, i femminicidi erano stati 101. “La sfida contro tutta questa violenza si gioca sul campo della prevenzione”, ribadisce il prefetto Messina. Uno strumento che ha dato risultati importanti su questo versante è l’ammonimento da parte dei questori: “È una misura di prevenzione che nasce con lo scopo di garantire alla vittima una tutela rapida e anticipata rispetto al procedimento penale. Uno strumento a cui la vittima può accedere facilmente”. C’è un dato importante che emerge dall’ultimo report della “Dac”, elaborato dal servizio centrale anticrimine in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che si celebra il 25 novembre: “Dopo l’irrogazione dell’ammonimento, il numero dei soggetti segnalato all’autorità giudiziaria è inferiore al 10 per cento”. Un dato che indica una possibile strada da seguire per arginare il fenomeno. Gli ammoniti sono soprattutto coniugi, fidanzati, conviventi o ex nel 69 per cento dei casi. Draghi annuncia “nuove risorse per aiutare le donne che subiscono abusi domestici, per accompagnarle nel percorso di uscita dalla violenza, per favorirne l’indipendenza economica”. La strada della prevenzione si intreccia con l’obiettivo di fare sempre più rete. In questi mesi, è stata implementata la banca dati “Scudo”. Spiega il capo della Dac: “Ogni pattuglia di polizia o carabinieri che si trova davanti a una donna in situazione di disagio per una lite con il compagno deve compilare una scheda all’interno di un grande sistema informatico”. Ci sono già oltre 60 mila segnalazioni. Se domani dovesse accadere un altro evento riguardante quella donna, il sistema lo segnalerebbe subito. E, poi, si sta intensificando l’attenzione sugli uomini che maltrattano: “A Milano - dice il prefetto Messina - è stato sperimentato con successo il protocollo Zeus: quando l’uomo viene ammonito dal questore, è invitato a fare un percorso trattamentale. Nel 90 per cento dei casi non molestano più le donne”. Ma l’emergenza continua a crescere. I dati del numero antiviolenza 1522 dicono che nel 2020 c’è stato il 79,5 per cento di chiamate in più rispetto all’anno precedente. Il boom si è avuto in piena emergenza Covid. Oggi, da Catania, la polizia lancia la nuova campagna contro la violenza di genere, con l’hashtag “Aiutiamo le donne a difendersi”. Al Teatro Bellini ci sarà anche la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Obiettivo: “Convincere ogni singola vittima, oggetto di violenza, ad uscire dal silenzio”, è il messaggio del capo della polizia Lamberto Giannini. Il giudice Roia: “Sempre più giovani i maschi che uccidono. Il rispetto si studi a scuola” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 23 novembre 2021 Il presidente vicario del tribunale di Milano e componente dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne: “L’incremento tra i 18-35 anni è figlio della cultura patriarcale. In classe una materia ad hoc”. Troppi giovani uomini pronti a minacciare, picchiare, perseguitare, uccidere le donne che ritengono oggetto di loro proprietà, su cui poter esercitare una qualsiasi forma di possesso e supremazia. Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano, e componente dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne, è preoccupato. “Dalla nostra analisi - dice - viene fuori un notevole aumento dei casi nella fascia d’età tra i 18 e i 35 anni, con vittime donne ovviamente di età simile o ancora più giovani. E questo è un dato molto rilevante”. Uomini così giovani non dovrebbero essere condizionati da un simile retaggio culturale. Cosa ne deduce? “Infatti. E dunque se, vista dal lato delle donne può essere incoraggiante perché ci fa pensare che ragazze più giovani siano pronte a dire no e a denunciare, dal punto di vista degli uomini vuol dire solo che all’interno della famiglia si continua a trasmettere una cultura patriarcale maschilista. Vuol dire che i figli della cultura del delitto d’onore continuano a lasciare dietro di sé un modello fondato sul predominio dell’uomo sulla donna. Non si riesce a sradicare questa mentalità. E se questi sono i nostri giovani adulti, significa che la nostra opera di prevenzione in famiglia e a scuola è fallimentare” Cosa manca? E come si può davvero intervenire in modo efficace? “La scuola, innanzitutto. Dobbiamo introdurre una vera materia. La chiamerei “rispetto della diversità di genere” per usare una formula che non spaventi le famiglie magari preoccupate dai possibili contenuti. Una materia che insegni a rispettare i coetanei di genere diverso, mettendoci dentro nozioni di psicologia, storia, il diritto pubblico delle altre nazioni, ma innanzitutto l’educazione. Ed è necessario che nelle scuole intervenga personale formato a dovere, un altro vulnus dell’intero sistema di prevenzione della violenza contro le donne”. Alcuni degli ultimi femminicidi sono stati commessi da uomini lasciati in libertà nonostante le denunce delle vittime. Cosa non ha funzionato? “C’è un grande problema di assenza di professionalità tra magistrati e forze dell’ordine. I giudici che hanno esaminato queste situazioni non hanno ben valutato gli indici di rischio a carico di questi uomini. È necessario che chi si occupa di questa materia sia formato su scienze complementari, dalla psicologia all’esperienza quotidiana degli operatori dei centri antiviolenza, devono essere in grado di comprendere il ruolo della donna nel ciclo della violenza. Le leggi che abbiamo sono buone, ma non vengono applicate con competenza. Occorre fare un investimento di risorse sulla formazione. La magistratura ha una scopertura di organico del 13 per cento che non ci consente di specializzare i gip, i giudici che danno le misure cautelari”. Alcune ministre hanno suggerito di assegnare una scorta alle donne che denunciano. Lei è d’accordo? “È una proposta che non condivido affatto, la considero di retroguardia. Dobbiamo essere in grado di proteggere le donne che denunciano senza limitare la loro libertà. Le donne stanno sei mesi chiuse nelle case rifugio in attesa che i giudici decidano eventuali misure cautelari nei confronti degli uomini che le minacciano. Ma non dobbiamo sradicarle dalle loro case e dal loro quotidiano, sono gli uomini che dobbiamo togliere dalla circolazione”. E come raggiungere l’obiettivo? Con la riforma delle norme che per ora prevedono solo l’arresto in flagranza? “Questa è una proposta condivisa da tutta la commissione del Senato sui femminicidi. E compresa nella relazione che verrà sottoposta domani all’attenzione delle ministre Bonetti, Cartabia e Lamorgese, in occasione della presentazione delle conclusioni dell’inchiesta”. I crimini informatici stanno diventando emergenza di Roxy Tomasicchio Italia Oggi, 23 novembre 2021 A livello mondiale il cybercrime divora il 6% del Pil. Gli attacchi verso l’Europa erano l’11% due anni fa, oggi sono il 25% del totale. Nel primo semestre sono stati 1.053 quelli gravi, il 24% in più rispetto allo stesso periodo del 2020. L’allarme lanciato dal rapporto Clusit 2021. Si affina la tecnica dei pirati informatici: gli attacchi diventano mirati, per obiettivo e area geografica, e le tecniche diventano sempre più efficaci, tanto che crescono gli attacchi classificati come gravi. Trasformando le parole in cifre: nei primi sei mesi del 2021, il 25% degli attacchi mappati è stato diretto verso l’Europa (senza contare gli attacchi multipli); nel 2020 la quota era al 17% ed era all’11% nel 2019. Sono stati 1.053 gli attacchi gravi, cioè quelli con un impatto in diversi aspetti della società, della politica, dell’economia e della geopolitica. È il 24% in più rispetto allo stesso periodo del 2020, con una media mensile pari a 170 attacchi, contro i 156 del 2020. Una crescita comunque sottostimata, se si considera che il campione comprende solo gli attacchi denunciati e resi noti. A delineare il quadro è la nuova edizione del rapporto Clusit 2021, presentata nel corso di Security Summit Streaming Edition, l’evento di riferimento per la cybersecurity in Italia organizzato da Clusit, Associazione italiana per la sicurezza informatica, con Astrea, agenzia specializzata nell’organizzazione di eventi nell’ambito della sicurezza informatica. Siamo, secondo gli esperti dell’associazione, in una emergenza globale: le perdite stimate per le falle della cybersecurity sono pari a 6 trilioni di dollari per il 2021 e incidono ormai per una percentuale significativa del Gdp mondiale (oltre il 6%), con un tasso di peggioramento annuale a 2 cifre e un valore pari a 3 volte il Pil italiano. Cosa sta succedendo, in particolare in Italia ed Europa? Forse i criminali hanno scoperto che è più redditizio attaccare qui rispetto ad altre zone del mondo? “Io non credo”, spiega Gabriele Faggioli, presidente Clusit, “penso che in realtà i dati derivino da altri elementi e in particolare dalla spinta delle normative che hanno costretto chi subisce attacchi che comportano violazioni dei dati a segnalarlo, quando dovuto per legge, non solo alle Autorità ma anche agli interessati oggetto della violazione. Queste comunicazioni agli interessati unitamente al fatto che sempre più spesso i criminali rendono noti gli attacchi soprattutto ransomware fa sì che sia sempre più difficile nascondere i fatti che accadono. Nel frattempo”, aggiunge, “abbiamo una grandissima occasione: il Pnrr e i fondi che saranno riversati in innovazione digitale nei prossimi anni. Al di là del capitolo di spesa specifico, si deve pensare a tutto il resto. Non esiste innovazione senza sicurezza”. Gli ha fatto eco Andrea Zapparoli Manzoni, co-autore del rapporto Clusit e membro del comitato direttivo Clusit: “Da anni siamo di fronte a problematiche che per natura, gravità e dimensione travalicano costantemente i confini dell’Ict e della stessa cybersecurity. Auspichiamo che il Pnrr, che complessivamente alloca circa 45 miliardi di euro per la transizione digitale, possa rappresentare per l’Italia l’occasione di mettersi al passo e colmare le proprie lacune anche in ambito cyber”. I dati. Sono cresciuti del 21% gli attacchi gravi compiuti per finalità di cybercrime, ossia per estorcere denaro alle vittime, e oggi rappresentano l’88% del totale. Mentre sono aumentati del 18% gli attacchi riferibili alla cosiddetta “guerra delle informazioni”, la information warfare. Calano, invece, quelli classificati come attività di cyber espionage, spionaggio cibernetico, (-36,7%), dopo il picco straordinario del 2020 dovuto principalmente allo spionaggio relativo allo sviluppo di vaccini e cure per il Covid-19. Nel rapporto si misura la cosiddetta “severity” degli attacchi, cioè la gravità secondo quattro categorie. Le variabili sono molteplici e includono l’impatto geopolitico, sociale, economico (diretto e indiretto) e di immagine. Nel primo semestre 2021 gli attacchi gravi con effetti “molto importanti” e “critici” sono il 74% del totale (erano il 49% nel 2020). Il 22% degli attacchi analizzati sono di impatto significativo, quelli con impatto basso solo il 4%. In merito agli obiettivi, in termini assoluti, rispetto al secondo semestre 2020, da gennaio a giugno 2021 si osserva l’incremento più elevato degli attacchi gravi nelle categorie: trasporti e stoccaggio (transportation / storage, +108,7%), servizi professionali, scientifici e tecnici (professional, scientific, technical, +85,2%) e informazione e multimedia (news & multimedia, +65,2%), seguite da commercio all’ingrosso e dettaglio (wholesale / retail, +61,3%) e produzione manifatturiera (manufacturing, +46,9%). Aumentano anche gli attacchi verso le categorie energia e servizi pubblici (energy / utilities, +46,2%), settore pubblico (government, +39,2%), arti e intrattenimento (arts / entertainment, +36,8%) e sanità (healthcare, +18,8%) La categoria dei bersagli multipli, i multiple targets (si tratta di attacchi gravi compiuti in parallelo dallo stesso gruppo di attaccanti contro numerose organizzazioni appartenenti a categorie differenti), registra invece una diminuzione del 23,4% rispetto al secondo semestre 2020. Siamo di fronte a un cambio di strategia da parte degli attaccanti rispetto allo scorso anno: secondo gli esperti Clusit l’aumento di attacchi gravi mirati verso singoli bersagli rappresenta un importante campanello di allarme, in particolare perché caratterizzati da tecniche di tipo ransomware con l’aggravante della “double extortion”, la doppia estorsione, cioè della minaccia di diffondere i dati rubati alle vittime qualora non paghino il riscatto. In termini percentuali la categoria government rappresenta il 16% del totale e si conferma al primo posto, come nel precedente semestre. Al secondo posto, ancora la sanità, con il 13% degli attacchi totali, e al terzo i multiple targets, che in questo semestre rappresentano il 12% delle vittime. Sotto l’aspetto delle tecniche di attacco, secondo gli esperti Clusit, gli attaccanti possono ancora fare affidamento sull’efficacia del malware, prodotto industrialmente a costi decrescenti, e sullo sfruttamento di vulnerabilità note, per colpire più della metà dei loro obiettivi, ovvero il 59% dei casi analizzati. Il malware, quindi, è la categoria che nei primi sei mesi di quest’anno mostra numeri assoluti maggiori: rappresenta infatti il 43% del totale, in crescita del 10,5%. Le tecniche sconosciute sono al secondo posto, in aumento del 13,9% rispetto al secondo semestre 2020, superando la categoria “vulnerabilità note”, che è per altro in preoccupante crescita (+41,4%). Il 22% di attacchi realizzati con “tecniche sconosciute” (che crescono del 13,9%) è dovuto al fatto che un quinto degli attacchi diventano di dominio pubblico a seguito di un data breach: in questo caso, le normative impongono una notifica agli interessati, ma non di fornire una descrizione precisa delle modalità dell’attacco. Gli avvocati della solidarietà sempre più attivi nel “pro bono” di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2021 Cresce in Italia l’attività pro bono degli avvocati, vale a dire la consulenza e l’assistenza legale prestate volontariamente e gratuitamente a enti non profit e a persone in difficoltà. Lo dimostrano i dati dell’associazione Pro Bono Italia, costituita nel 2017 (ma le prime attività risalgono al 2014) per promuovere la cultura del pro bono e che oggi conta su 46 associati, tra avvocati e studi legali (erano 29 due anni fa), e su una rete di oltre 800 persone. E lo provano anche i risultati della ricerca Pro bono Index 2020 condotta da Trustlaw, il programma dedicato al pro bono legale della Thomson Reuters Foundation: nelle 18 law firm operative in Italia che hanno risposto al questionario, nel 2020 i professionisti hanno dedicato in media 21 ore all’attività pro bono, contro le 9 ore del 2016. Partiranno da questi dati le analisi che si faranno durante la quarta edizione dell’Italy pro bono day, che si svolgerà dopodomani, mercoledì 24 novembre, dalle 10 alle 18 a Milano (presso lo studio Latham & Watkins con accesso limitato) e in streaming. Le ragioni del pro bono - Ma perché gli avvocati decidono di prestare la propria attività professionale gratuitamente a favore di chi è in difficoltà? Secondo il Pro bono Index 2020 di Trustlaw, la ragione principale è quella di sostenere la comunità, seguita da esigenze di formazione e di sviluppo delle competenze. E l’attività pro bono si rivela utile anche a fini di marketing e di staff retention. Non solo. “Stiamo raccogliendo in Italia le tendenze che vengono dall’estero - ragiona Giovanni Carotenuto, presidente dell’associazione Pro Bono Italia -: la sensibilità per il pro bono è stata portata dagli studi stranieri e dalle società clienti”. Basti pensare, ad esempio, che il rispetto dei parametri Esg (environmental, social and governance), in cui sono incluse anche le attività pro bono, è entrato nei beauty contest per l’affidamento di servizi legali. Così, prosegue, “stanno cadendo le barriere culturali: ci si rende conto che i diritti garantiti dalla Costituzione, a partire dal patrocinio a spese dello Stato, non bastano più per assicurare ai più deboli l’accesso alla giustizia”. L’attività dell’associazione - Pro bono Italia ha esteso negli ultimi due anni il raggio dei suoi interventi, realizzati con le due “clearing house” istituite presso gli enti Cild e Csvnet. Nei fatti, le clearing house hanno il compito di “filtrare” le richieste di assistenza legale gratuita che ricevono e di inoltrarle alla rete di avvocati pro bono per la presa in carico. Il servizio, disponibile in origine solo per associazioni ed enti non profit (che chiedono consulenze soprattutto su diritto delle associazioni, contrattualistica, privacy, diritto del lavoro, riforma del Terzo settore), accoglie dal febbraio 2020 anche le richieste dei singoli individui (che vertono perlopiù su diritto del lavoro, di famiglia e dell’immigrazione). E proprio l’apertura alle persone fisiche ha fatto impennare le domande: dalle 66 del 2019 si è passati alle 122 del 2020. Quest’anno sono state 158, di cui l’80% presentate da individui, ma solo 43 sono state inoltrate alla rete. “Tante richieste individuali - spiega Carotenuto - si fermano a un primo contatto e non vengono fornite le informazioni sulla situazione finanziaria, che peraltro non sono dirimenti: diamo assistenza pro bono anche a chi non rientra nella soglia fissata per il gratuito patrocinio ma presenta una richiesta meritevole”. Da giugno, poi, è online la piattaforma di Pro Bono Italia, attraverso la quale è possibile presentare e gestire le richieste di assistenza legale. E a gennaio 2022 debutterà la nuova clearing house dell’associazione: per sostenerla Pro Bono Italia ha lanciato una raccolta fondi e si affiderà inoltre all’aumento delle fee annuali versate dagli associati, che andranno dai 150 euro per i singoli avvocati ai 3.500 euro per le law firm globali con più di 50 legali in Italia (somme comunque sotto la media europea). No al ricorso personale del detenuto contro mancata autorizzazione a telefonare al figlio recluso di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 novembre 2021 Il diniego del Gip non è impugnabile per cassazione senza l’assistenza tecnica di un difensore abilitato. È inammissibile il ricorso presentato personalmente dal detenuto contro il diniego del Gip all’autorizzazione a colloqui telefonici col figlio anche lui recluso in altro carcere. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 42665/2021, rilevata l’inammissibile presentazione del ricorso “personale” in Cassazione respinge comunque come inammissibili le doglianze del ricorrente che faceva rilevare l’illegittimità della negata possibilità di telefonare al figlio detenuto in un altro istituto di pena, in quanto non era stato adottato nei loro confronti alcun divieto di scambi epistolari o di incontro tra i due familiari. Lamentava il ricorrente l’emergere di un danno per i rapporti affettivi tra padre e figlio. La Corte “costretta” comunque a far rilevare l’inammissibilità del ricorso presentato senza l’assistenza tecnica di un difensore cassazionista precisa in risposta alle lamentele del ricorrente che esse sono state poste ai giudici di legittimità di maniera del tutto generica. Infine la Cassazione precisa che non vi è alcun dubbio di legittimità costituzionale sulla modifica apportata dalla legge 103/2017 all’articolo 613 del Codice di procedura penale dove dal comma 1 della norma codicistica è stata espunta la frase “Salvo che la parte non vi provveda personalmente”. Cioè, conferma la Corte, rientra nella piena discrezionalità del Legislatore riservare ai difensori abilitati la sottoscrizione dell’atto introduttivo del giudizio per cassazione. Caltagirone (Ct). Detenuto muore dopo caduta dal letto a castello: aperta un’inchiesta La Sicilia, 23 novembre 2021 Angelo Minnì, 63 anni, è deceduto il 16 ottobre scorso dopo un mese di coma a seguito di una caduta dal letto a castello nella cella del Casa circondariale calatina. La famiglia ha presentato denuncia. La Procura di Caltagirone ha aperto un fascicolo per la morte di un detenuto, Angelo Minnì, 63 anni, avvenuta il 16 ottobre scorso dopo un mese di coma a seguito di una caduta dal letto a castello nella cella del carcere di Caltagirone in cui l’uomo era ristretto. La famiglia, assistita dall’avvocato Vincenzo Franzone, secondo la denuncia presentata dalla figlia Jessica, sarebbe stata informata con ritardo della caduta. Nella telefonata di comunicazione alla famiglia, gli operatori penitenziari avrebbero minimizzato l’accaduto, non comunicando la gravità delle condizioni del Minnì. I familiari pensano che il congiunto potrebbe essere stato ucciso in cella così come è stato ucciso, sempre nello stesso carcere, un altro detenuto, Angelo Calcagno, lo scorso 3 gennaio. All’inizio la morte di Calcagno era sembrata per cause naturali ma gli accertamenti medico legali hanno stabilito che è stato strangolato da un compagno di cella. Minnì, trasportato prima all’ospedale di Caltagirone e poi con l’elisoccorso al Cannizzaro di Catania, nei giorni successivi, è stato sottoposto ad un delicato intervento che ha provato ad arginare l’emorragia cerebrale riportata per la caduta dalla branda. Da quell’intervento Angelo Minnì non si è più risvegliato entrando in coma irreversibile, fino alla morte. Torino. Interviene il capo del Dap, chiude il braccio della vergogna di Giuseppe Legato La Stampa, 23 novembre 2021 Petralia: il carcere Lorusso e Cutugno sotto osservazione speciale, insieme a Sollicciano. La struttura era già stata ispezionata nel 2019 dopo le denunce per abusi degli agenti. La premessa è una notizia: il reparto psichiatrico del carcere di Torino Lorusso e Cutugno, soprannominato “Sestante” al centro di denunce, inchieste giudiziarie, visite qualificate e ispezioni dall’esito tremebondo, sarà ricostruito da cima a fondo. Con un cantiere che durerà mesi e con gli attuali 16 detenuti che verranno alloggiati altrove - molto probabilmente all’interno di Rems (residenze sanitarie assistite) - fino al termine dell’opera di riqualificazione. Lo ha annunciato a La Stampa il capo del Dap Bernardo Petralia all’indomani dell’approfondimento giornalistico che ne sollevava le condizioni inumane e degradanti: “Oggi (ieri, ndr) è stato sottoscritto il contratto con la ditta aggiudicataria dell’appalto”, dice il capo dell’amministrazione penitenziaria. “È un’opera su cui abbiamo lavorato fin dall’inizio del nostro insediamento e che oggi realizziamo conoscendo benissimo la situazione in cui versa la sezione del penitenziario in questione”. Petralia non va per il sottile: “Al momento, il carcere di Torino e quello di Firenze (Sollicciano, ndr) sono i primi due osservati speciali e particolarissimi del Dap”. Prova ne è che “entro dicembre o io personalmente o il mio vice e il direttore generale del dipartimento faremo un’ispezione a Torino”. L’attenzione verso il Lorusso e Cutugno del capo del Dap è provata dal fatto che qui, nel carcere al centro di complesse e inquietanti (negli esiti supposti dall’accusa) inchieste giudiziarie, fece la prima visita dopo la nomina del 2019. Era il tempo in cui divenne pubblica l’inchiesta su una serie di presunte torture a carico dei detenuti che a breve arriverà in aula. Botte, umiliazioni, pestaggi che hanno portato la magistratura a chiedere il rinvio a giudizio di più di 20 tra agenti e ispettori. Tra questi - per favoreggiamento - figurano indagati l’ex direttore dell’istituto Domenico Minervini e l’allora comandante della penitenziaria della struttura Giovanni Battista Alberotanza. Petralia li sospese immediatamente, nominando una reggente (Rosalia Marino) che adesso ha i giorni contati. Già perché nella “particolarissima osservazione” che il Dap riserva al carcere di Torino è maturata nei giorni scorsi la chiusura dell’istruttoria del bando per il nuovo responsabile del penitenziario: “A ore il nome sarà ufficiale” assicura Petralia. Che ha anche chiesto alla provveditrice regionale Rita Russo di avocare a sé “tutte le dinamiche e le scelte in materia sanitaria sulle carceri piemontesi chiaramente in un’ottica torinocentrica”. Che cosa non funziona? “La gestione amministrativa di questo settore non è stata soddisfacente. Soprattutto nelle interlocuzioni con le Asl e la sanità penitenziaria. Accentrando si lavorerà meglio” assicura Petralia. Sulle condizioni “inumane e degradanti” del Sestante è tornato ieri il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. Un attacco frontale “all’inerzia finora riscontrata nonostante i numerosi solleciti rispetto al tema della dignità di chi ha bisogno di cura”. Anche perché l’ultima visita al Sestante di Torino “datata giugno aveva confermato le condizioni immutate in una considerevole parte del Reparto”. Ieri anche il Parlamento è intervenuto sulle vergognose condizioni in cui i detenuti psichiatrici sono ristretti. Con due interrogazioni, una del deputato del gruppo Liberi e uguali, Federico Fornaro e un’altra della senatrice Anna Rossomando, responsabile Giustizia del Pd. Chiedono alla ministra Cartabia “se non ritenga necessario e urgente, accertare la situazione esistente nella sezione e quali conseguenti provvedimenti intenda assumere in merito”. Torino. “Sestante”, la sezione degli orrori che ricorda gli Opg di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 novembre 2021 La relazione di Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, dopo una visita al reparto in cui sono tenuti i detenuti con problemi psichiatrici descrive una situazione di degrado incredibile. Chi viene tenuto al buio in cella, chi non riesce a scaricare le feci da quattro giorni a causa della turca guasta, in un’altra cella c’è un giovane ragazzo che fa fatica ad articolare i suoni perché imbottito di psicofarmaci. Un ragazzo di 25 anni chiede aiuto in lacrime, perché non sa per quale motivo fosse recluso. Poi si è appurato che era in attesa che si liberasse un posto nella residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Scene da terzo mondo, ma siamo in Italia. Precisamente la sezione del carcere di Torino che funge da articolazione psichiatrica. A descrivere questo inferno è Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, dopo che ha appena visitato la sezione della casa circondariale Lorusso e Cutugno in cui sono tenuti i detenuti con problemi psichiatrici. “Al Sestante - ha scritto Marietti - si trovano circa venti celle, dieci su ogni lato del corridoio. In ciascuna è reclusa una singola persona detenuta. La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con i chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno, ma non tutti, ha un piccolo cuscino di gommapiuma. Non vi è una sedia né un tavolino. Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere in posizione scomodissima. L’intera giornata viene trascorsa chiusi là dentro, senza nulla da fare e nessuno con cui parlare. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio”. Oltre alla condizione della struttura, la situazione drammatica è quella del trattamento dei detenuti: “Qualcuno si è avvicinato alle sbarre al nostro passaggio - ha denunciato la coordinatrice di Antigone - Un uomo mi ha chiesto se potevo fare in modo che la turca della sua cella venisse aggiustata. Erano quattro giorni che non scaricava le sue feci, mi ha spiegato. Un altro uomo era al buio. Si è sporto dalle sbarre e mi ha detto che avrebbe voluto un po’ di luce. Il poliziotto che era con me, un po’ imbarazzato, gli ha detto di accenderla con l’interruttore interno, che sicuramente avrebbe funzionato. Ma lui ha detto di no, mancava proprio la lampadina. Effettivamente la luce non si accendeva. Non so da quanti giorni quel signore fosse al buio dalle quattro e mezza di pomeriggio fino all’alba del giorno dopo”. Un inferno, in realtà, già denunciato da tempo. Ma tutto è rimasto come prima. La prima segnalazione alle autorità competenti è giunta tramite la raccomandazione del Garante nazionale delle persone private della libertà formulata il 29 novembre 2016. Ma nulla da fare. Arriva l’ennesima segnalazione nel 2017, questa volta da parte di Emilia Rossi, componente del collegio del garante nazionale. Ha effettuato una visita al reparto psichiatrico del carcere torinese assieme a Bruno Mellano, Garante Regionale del Piemonte, e della Garante del Comune di Torino, Monica Cristina Gallo. Durante la visita, la delegazione guidata da Emilia Rossi, ha riscontrato nel Reparto Osservazione che le camere si presentano in condizioni strutturali e igieniche molto scadenti, sporcizia diffusa, prive di doccia e servizi igienici a vista. Il reparto Il Sestante viene Istituito dalla Asl To 2 Nord, attraverso il Dipartimento sanitario mentale “Giulio Maccacaro”, collocato nel padiglione A. E’ suddiviso in due articolazioni: la Sezione VII che ospita il reparto osservazione, a cui sono destinate persone sottoposte ad osservazione ex art. 112 o pazienti provenienti anche da altri istituti e persone in fase acuta o sub - acuta che richiedono assistenza temporanea non terapica, e la Sezione VIII in cui è stato costituito il reparto trattamentale, destinato ad accogliere persone sofferenti di patologia psichica accertata, anche provenienti dalla settima sezione, ed ove si realizzano percorsi di adattamento alla detenzione ordinaria. Ma nonostante la segnalazione da parte del Garante Nazionale fatta nel 2018, la situazione è rimasta invariata, se non peggiorata visto la descrizione infernale da parte dell’associazione Antigone che vi ha fatto visita di recente. Ma tale sezione è salita recentemente agli onori della cronaca grazie al rapporto di Antigone stesso. La vicenda viene narrata da un familiare che si rivolge all’avvocato Elia De Caro, il Difensore Civico di Antigone. Un caso riportato da Il Dubbio. Un ragazzo avrebbe tentato il suicidio, per questo sarebbe stato trasferito in una cella liscia, denudato, senza materasso né coperta e con l’acqua chiusa. Per quest’ultimo motivo, si sarebbe trovato nelle condizioni di bere dallo scarico del wc. La sua situazione peggiora, si agita, e la prassi sarebbe stata quella di frequenti iniezioni intramuscolari per cercare di sedarlo. Parliamo di M., un detenuto di 24 anni che espiava la pena presso il famigerato Il Sestante della Casa Circondariale di Torino. Nel 2019, sempre nella medesima sezione, è avvenuto un suicidio. Si chiamava Roberto Del Gaudio e doveva essere controllato a vista. È rimasto fermo immobile, con il cappio intorno al collo e appeso sull’angolo di una finestra aperta dodici interminabili minuti, prima che nella cella entri un primo agente della polizia penitenziaria e si renda conto di che cosa è accaduto mentre chi doveva sorvegliare era distratto altrove. La procura di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio dei tre agenti che erano in servizio quella sera nella settima sezione del reparto psichiatrico Sestante. Sempre la stessa sezione degli orrori. Torino. Il Garante nazionale già nel 2016 segnalò la condizione del Sestante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 novembre 2021 Fin dal novembre 2016 il Garante nazionale ha messo a conoscenza del ministero della Giustizia la situazione del Sestante chiedendo di intervenire. La sezione psichiatrica degli orrori Il Sestante del carcere di Torino è stata, come ribadito nella stessa pagina de Il Dubbio, già messa a conoscenza del ministero della Giustizia fin dal novembre 2016 dal Garante nazionale delle persone private della libertà. A distanza di sei mesi, la componente del Collegio del Garante Emilia Rossi, ha effettuato una visita per vedere se le raccomandazioni hanno dato i loro frutti. Ma nulla da fare. A quel punto, con l’ennesima raccomandazione alle autorità del maggio 2017, il Garante Nazionale ha scritto senza mezzi termini: “La loro ristrutturazione e il ripristino di condizioni di manutenzione che assicurino almeno l’igiene e il decoro si rendono improcrastinabili”. Pertanto, Il Garante ha raccomandato alle autorità di provvedere con urgenza ai lavori di ristrutturazione delle stanze di pernottamento prevedendo, oltre al resto, l’eliminazione dei servizi igienici a vista; predisporre, nell’immediato, interventi di risanamento di tutti gli ambienti che mettano fine alle costanti infiltrazioni d’acqua nel soffitto e sulle pareti e alla diffusione della muffa; provvedere alla costante manutenzione delle stanze di pernottamento e al quotidiano mantenimento della pulizia e dell’igiene al loro interno, anche a prescindere dalla collaborazione dell’ospite; provvedere immediatamente alla sostituzione dei materassi scaduti o in condizioni di cattiva manutenzione. Nella medesima raccomandazione di quattro anni fa, il Garante ha evidenziato con serio disappunto la constatazione che a distanza di oltre sei mesi dalla precedente segnalazione e malgrado l’attivazione del Dipartimento e della Direzione Generale detenuti e trattamento, la situazione sia rimasta invariata e sia stata riscontrata la mancanza di lenzuola in 4 delle 16 stanze occupate. Per tale ragione, il Garante nazionale ha ribadito la raccomandazione formulata con rapporto 29 novembre 2016 e, conseguentemente ha raccomandato che nel caso considerato e in tutti gli altri simili nel territorio nazionale, l’Amministrazione penitenziaria provveda a fornire gli Istituti di lenzuola, reperibili in commercio, di materiale idoneo a evitare un uso autolesivo e che nessuna persona detenuta venga tenuta, soprattutto per periodi prolungati, sistemata nella propria camera con il solo materasso e coperta. Siamo quasi nel 2022 e al Sestante nulla e cambiato, visto la descrizione dopo la recente visita effettuata da Susanna Marietti di Antigone. Prato. Detenuto torturato e violentato dai compagni di cella alla Dogaia di Paolo Nencioni Il Tirreno, 23 novembre 2021 Doveva rimanere in carcere solo una settimana per un furto ai danni di parenti ma la detenzione si è trasformata in un calvario. Presto il processo agli aguzzini. È finito in carcere per un furto compiuto ai danni di alcuni parenti e alla Dogaia ha trovato l’inferno. Doveva rimanere in cella non più di una settimana un giovane detenuto pratese, giusto il tempo di accedere alla misura dell’affidamento in prova, ma quella settimana gli è stata fatale e non potrà più cancellarla dalla mente, perché lo hanno messo in cella con altri due detenuti che ora sono accusati di averlo violentato e torturato per giorni. Questa terribile storia è stata rievocata venerdì 19 novembre in Tribunale, nell’aula del giudice per le indagini preliminari, dove era fissato l’incidente probatorio per cristallizzare il racconto della parte lesa, assistita dall’avvocato Olivia Nati. Il giovane, ora fuori dal carcere, è stato chiamato a rinnovare le accuse che aveva già verbalizzato con gli agenti della polizia penitenziaria dopo la sua disavventura. E ha confermato quanto detto all’epoca dei fatti. Secondo quanto ricostruito dalle indagini, il detenuto alcuni mesi fa è stato rinchiuso nella casa circondariale della Dogaia. Doveva scontare una condanna definitiva a un anno e quattro mesi di carcere essendo stato riconosciuto responsabile di un furto ai danni di alcuni parenti. Ma il passaggio in carcere doveva essere una semplice formalità, perché c’era già l’accordo per l’affidamento in prova ai servizi sociali. Essendogli però stata contestata un’aggravante, era necessario che prima dell’affidamento dovesse passare qualche giorno in carcere. E lì, secondo il suo racconto, è iniziato il calvario. I suoi compagni di cella, due detenuti italiani, lo hanno preso di mira con continue vessazioni, schiaffi, calci, bastonate. Ma questo era ancora niente in confronto a quanto sarebbe accaduto subito dopo. In un’occasione, ha detto il giovane ex detenuto, i due gli avrebbero messo in testa una pentola ancora bollente dopo averla passata sul fornellino. E alla fine lo hanno violentato. Per questo ora i due detenuti sono chiamati a rispondere di tortura, un reato di cui raramente si discute nei tribunali italiani nel terzo millennio, e violenza sessuale di gruppo, un reato che è punito con una pena da 8 a 14 anni di reclusione. Al culmine delle sevizie il giovane detenuto ha trovato la forza di denunciare quanto gli era successo agli agenti di polizia penitenziaria, che lo hanno messo in un’altra cella e hanno avviato le procedure per trasferire in un altro carcere i due detenuti accusati dal primo. Poi finalmente il giovane detenuto è potuto uscire dal carcere e ora sta cercando di lasciarsi alle spalle quanto gli è accaduto. Il suo racconto messo nero su bianco nel corso dell’incidente probatorio davanti al pubblico ministero Valentina Cosci potrà essere usato come prova nel processo che presto verrà disposto nei confronti dei suoi aguzzini. Firenze. Presentazione di una ricerca sulla dimensione affettiva delle persone in carcere met.provincia.fi.it, 23 novembre 2021 Oggi, martedì 23 novembre a partire dalle 10, presso l’Auditorium Spadolini di palazzo del Pegaso, presentazione della ricerca realizzata dalla Fondazione Giovanni Michelucci in collaborazione con il Garante regionale Giuseppe Fanfani. C’è una proposta di legge della Regione Toscana, depositata in Senato, per dare riconoscimento normativo all’affettività e alla sessualità in carcere. Una ricerca della Fondazione Michelucci, intitolata ‘La dimensione affettiva delle persone in detenzione’, si interroga sulle effettive potenzialità del sistema penitenziario regionale di dare concreta attuazione al dispositivo di legge una volta approvato. La ricerca, voluta dal Garante per i diritti dei detenuti, Giuseppe Fanfani, sarà presentata domani, martedì 23 novembre 2021, alle ore 10, nell’Auditorium Spadolini in Palazzo del Pegaso, via Cavour 4 a Firenze. Ai saluti istituzionali di Antonio Mazzeo, presidente dell’Assemblea legislativa, seguiranno quelli di Serena Spinelli, assessore regionale al Welfare, Pierpaolo D’Andria, provveditore dell’amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, Silvia Botti, presidente della fondazione Giovanni Michelucci. Si entrerà poi nel cuore della ricerca, con un’analisi puntuale degli spazi per l’affettività in carcere. Sarà Saverio Migliori ad introdurre e coordinare i lavori, che si articoleranno sulle relazioni di Chiara Babetto (L’affettività in carcere e la proposta di legge toscana), Serena Franchi (Genere e carcere), Massimo Colombo (Gli spazi per l’affettività: dalle esperienze internazionali allo scenario locale), seguite dagli interventi programmati di Stefano Anastasia, Marcello Bortolato, Sofia Ciuffoletti, Franco Corleone, Patrizia Meringolo, Katia Poneti, Grazia Zuffa. Le conclusioni sono affidate a Giuseppe Fanfani. L’incontro, aperto al pubblico con prenotazione obbligatoria per la partecipazione in presenza, sarà` trasmesso anche in diretta streaming sulla Pagina Facebook CRToscana e sul Canale YouTube Consiglio regionale della Toscana. Larino (Cb). “Albero di Falcone” ai detenuti, il dono del Reparto Carabinieri Biodiversità tltonline.it, 23 novembre 2021 Il Reparto Carabinieri Biodiversità di Isernia dona “l’Albero di Falcone” alla speciale sezione carceraria dell’Istituto Agrario “San Pardo” di Larino. Nel corso di una sentita e partecipata cerimonia di consegna, tenutasi nella Casa Circondariale e Reclusione di Larino, il Col. Federico Padovano, Comandante del Reparto Carabinieri Biodiversità di Isernia, ha affidato il prezioso albero alle cure dei detenuti iscritti al corso di studi per il conseguimento del diploma di perito agrario. Partecipi e co-promotori dell’evento il Direttore dell’Istituto Carcerario, Dott.ssa Rosa La Ginestra, ed il Prof. Antonio Vesce, Dirigente dell’Istituto Omnicomprensivo “Magliano”, accompagnati dai loro più stretti collaboratori e da una rappresentanza del Comando Compagnia CC di Larino. L’Iniziativa, inserita nell’ambito del Progetto Nazionale di educazione ambientale “Un Albero per il Futuro”: importante attività ecologica che vede protagonisti i Carabinieri Forestali dei Reparti Biodiversità e gli studenti delle scuole d’Italia nella creazione di un grande “Bosco diffuso” su tutto il territorio nazionale, è promossa dal Raggruppamento Carabinieri Biodiversità che, in accordo con la Fondazione “Falcone”, ha da tempo avviato le attività di duplicazione del Ficus macrophilla columnaris magnoleides situato all’ingresso della abitazione palermitana del giudice assassinato dalla mafia nel 1992, divenuto celebre come “l’Albero di Falcone”. Attraverso complesse procedure di laboratorio sono state portate a radicazione circa 1.000 piantine con lo stesso genoma della pianta madre, con l’intento di donarle e metterle a dimora nelle Scuole e negli Enti che ne fanno richiesta. In questa cornice è stata organizzata la consegna simultanea delle prime 100 piante nel corso della manifestazione che sabato 20 novembre si è tenuta a Palermo all’interno dell’aula Bunker del carcere dell’Ucciardone e, nella stessa giornata, nelle Scuole e negli Enti che hanno aderito all’iniziativa nel territorio di appartenenza dei vari Comandi Regione Carabinieri Forestale - In occasione dell’evento, sono state consegnate anche le prime 20 piante delle oltre 1000 previste per la seconda fase del Progetto “Un Albero per il Futuro” e che nelle prossime settimane saranno messe a dimora nei tanti Istituti Scolastici e Comuni del Molise che hanno entusiasticamente aderito alla “sfida” lanciata dai Carabinieri Forestali, dal Ministero della Transizione Ecologica e dal Ministero dell’Istruzione. Arma dei Carabinieri, Scuola e Amministrazione Penitenziaria insieme per la legalità, per un futuro più verde ed un mondo più pulito e sano da consegnare in eredità alle prossime generazioni. La vendetta del boss, l’omicidio di Salvia ordinato da Raffaele Cutolo di Angelo Agrippa Corriere del Mezzogiorno, 23 novembre 2021 L’ex vice direttore di Poggioreale ucciso per vendetta e l’ultima intervista al boss Nco. Si chiama “La vendetta del boss - l’omicidio di Giuseppe Salvia” (Guida editori) e racconta, con un contributo documentale assolutamente rilevante, la storia dell’ex vice direttore del carcere di Poggioreale che fu ammazzato, su ordine di Raffaele Cutolo, il 14 aprile del 1981: due settimane prima del sequestro dell’allora assessore regionale dc Ciro Cirillo. Forse questa premessa che connette temporalmente i due avvenimenti spiega già in parte perché l’omicidio di Salvia sia rimasto sepolto così a lungo nella memoria collettiva e istituzionale. Il libro scritto da Antonio Mattone, portavoce della Comunità di Sant’Egidio ed egli stesso volontario nel carcere di Poggioreale, è frutto di oltre cinque anni di ricerche affrontate con instancabile impegno nei polverosi archivi ministeriali, in quelli fuligginosi e abbandonati dell’istituto di pena napoletano, e di implacabile caccia a persone e testimoni che hanno vissuto gli anni bui e insanguinati degli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, in quello stesso mondo dove il trentottenne Salvia si aggirava con mitezza, ma soprattutto nel pieno rispetto delle regole, e per questo fu eliminato. Tanti di quei testimoni ancora oggi si sono rifiutati di raccontare ciò che sanno e hanno custodito in tutto questo tempo (vogliamo sperare per l’impossibilità di liberarsi dagli artigli della colpa affondati nella carne delle loro coscienze) come racconta l’autore in alcune memorabili pagine. Le ricerche di Mattone - Ma tutto è ripartito una decina di anni fa, quando Mattone - che con la Comunità di Sant’Egidio organizza ogni anno il pranzo di Natale a Poggioreale - riceve la telefonata di uno dei due figli di Salvia, il quale gli chiede di partecipare al pranzo con i detenuti assieme alla mamma, la vedova dell’ex vice direttore. Ed è da quel momento che il racconto si trasforma in Storia, cresce fino a diventare maiuscola, ad imporsi ed a soffiare sulle pagine, gonfiandole di volti e ricordi, di prove e documenti, di domande ancora senza risposte. Il libro di Mattone contiene in sé una serie di pregevoli e diversi elementi compositivi: accoglie l’ultima intervista-confessione di Raffaele Cutolo, nella quale il boss rivela di essere stato il mandante dell’assassinio di Giuseppe Salvia. Si dipana, inoltre, come meticolosa ricognizione storica nel permeabile mondo carcerario di quegli anni: riflesso di una società slabbrata ed in continua balia di tensioni sociali e violente, nella quale il confine tra legalità e illegalità svaniva nell’opportunismo politico e nel cinismo di buona parte di quella classe dirigente a vocazione parassitaria. Ed è infine un commovente tentativo di strappare all’oblio la memoria dell’ex vice direttore di Poggioreale, di cui lo Stato si è ricordato soltanto pochi anni fa, quando finalmente ha conferito all’istituto di pena il suo nome, e di salvare il valore del suo estremo sacrificio. Venerdì la presentazione a Milano - Una storia amara e drammatica, identica a quella di tanti martiri civili di quegli anni, uccisi dalla criminalità o dal terrorismo, ma ammazzati una seconda volta dalla neghittosa indolenza delle istituzioni pubbliche e di chi le governava. Venerdì 26 novembre, il libro “La vendetta del boss - L’omicidio di Giuseppe Salvia” sarà presentato a Milano in via Olivetani, 3, presso la Comunità di Sant’Egidio, alla presenza di Lucia Castellano, direttore generale del ministero della Giustizia; di Claudio Salvia, figlio di Giuseppe Salvia; Armando Spataro, già magistrato; e dell’autore, Antonio Mattone. Modera Alessandra Coppola del Corriere della Sera. Dopo le critiche, servono le proposte di Dacia Maraini Corriere della Sera, 23 novembre 2021 Sofia, una ragazza italiana raccontava come è entrata in corrispondenza con Mike, un condannato del braccio della morte in America. Si scrivono lettere, sebbene non si conoscano. Ma dalla corrispondenza nasce una amicizia commovente. I due prima sono impacciati, trovandosi così diversi, così lontani, con un destino che va in direzioni opposte. Ogni critica dovrebbe essere accompagnata da una proposta. Hai individuato il male? allora, subito, cosa proponi come rimedio? È troppo facile criticare a fondo perduto. Tutti vogliamo la libertà, un mondo felice, dove la gente non muore, dove i bambini sono sereni, dove le cose funzionano perfettamente. Ma se il presente non ti soddisfa, dimmi, come lo cambieresti? Ecco, io vorrei che chi rifiuta i vaccini, mi dicesse con voce serena che cosa proporrebbe di fronte a una malattia così invasiva che sta portando morte e disastri in tutto il mondo. Se mi risponde che il virus non esiste, mi verrà da abbracciare lo struzzo che mi trovo davanti, per dirgli in un orecchio che, sebbene nasconda con ostinazione la testa sotto terra, il suo corpo rimane esposto a tutti gli attacchi. Gli direi che faccia attenzione e cacci fuori la testa per guardare in faccia a una realtà che è più semplice e profonda di quanto pensi. La mattina mentre mi vesto e faccio colazione ascolto la radio. Da Radio 3 mi arrivano le voci di Prima pagina, utilissime per capire l’aria che tira. Di solito, poi, mi metto a scrivere e quindi chiudo. Ma stamattina ho proseguito di poco l’ascolto: Sofia, una ragazza italiana raccontava come è entrata in corrispondenza con Mike, un condannato del braccio della morte in America. Si scrivono lettere, sebbene non si conoscano. Ma dalla corrispondenza nasce una amicizia commovente. I due prima sono impacciati, trovandosi così diversi, così lontani, con un destino che va in direzioni opposte. Eppure piano piano le loro voci si fanno fiduciose, i loro discorsi confidenti, le loro parole affettuose. Ecco che lui parla della malattia che incombe, ma senza paura, con il coraggio di chi sa che la morte lo aspetta dietro la porta. Lei pure gli parla della malattia, ma con la voce serena di una persona saggia e razionale che è capace di provare empatia e comprensione per chi soffre. Si rimane stupiti dalle meraviglie che possono compiere la curiosità e l’amicizia. Sentimenti poco coltivati in questo momento di sospetti e odi insensati. Sofia e Mark ci insegnano come potrebbe essere usato il social, che permette conoscenze lontane, complicità, affiatamento, ricerca intelligente dell’altro. Due voci che, con semplicità e umanità, riescono a superare gli oceani e le pandemie, invitandoci a creare reti di intesa. Inquinamento da Pfas nel Veneto, in arrivo missione Onu di Giuseppe Pietrobelli Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2021 Verificherà se la gestione dell’emergenza ha violato i diritti umani. La delegazione incontrerà non solo autorità ed enti locali, regionali e nazionali, ma anche chi “ha vissuto e vive sulla propria pelle la sfida di abitare in un territorio che è teatro di uno dei più gravi casi di inquinamento a livello internazionale”. È in arrivo in Veneto una missione delle Nazioni Unite per verificare se la gestione dell’emergenza Pfas abbia costituito una violazione dei diritti umani. Da anni tre province (Vicenza, Verona e Padova) devono fare i conti con il gravissimo inquinamento della falda che scorre sotto la superficie del Veneto e, conseguentemente, con l’adulterazione degli acquedotti. La colpa è stata individuata nello sversamento di sostanze industriale costituite da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) che si attaccano alle cellule dell’organismo creando gravi danni alla salute. A causa di questo inquinamento è in corso a Vicenza un processo che vede sul banco degli imputati i proprietari della Miteni di Trissino, l’azienda che viene indicata come la causa principale del fenomeno. Adesso però la vicenda si apre a una dimensione internazionale. “Noi madri non siamo armate, non facciamo la guerra. Ma il nostro istinto è l’arma più potente che esista, un’arma che è strumento di cambiamento, che crea e ricostruisce, questo è quanto desideriamo ogni giorno e vogliamo insegnare ai nostri figli”. Così dichiara una delle mamme No Pfas, Michela Piccoli, animatrice del movimento nato spontaneamente e impegnato a chiedere più salute e maggiore informazione, commentando la notizia della missione Onu che dal 30 novembre al 4 dicembre sarà operativa in Veneto. L’appello di genitori e cittadini, sottoscritto a settembre e riassunto in una lettera di denuncia, è stato raccolto. Sarà una missione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani a verificare la situazione che si è creata in Veneto. “Quello che è successo nel nostro territorio è certamente un crimine ambientale, ma quali sono gli effetti sulla popolazione di un disastro di tale portata? Siamo certi che siano stati rispettati i diritti delle centinaia di migliaia di cittadini che vivono in quest’area? Soprattutto il diritto all’informazione, alla salute, al rimedio effettivo?”. È quello che si chiedono le Mamme No Pfas, citando gli articoli della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo in materia di salute e informazione. Non è un caso che vi sia un riferimento alla trasparenza dei dati, vista la fatica con cui hanno ottenuto dalla Regione Veneto (con ricorso al Tar) i risultati delle analisi riguardanti la presenza dei Pfas negli alimenti e nelle coltivazioni. Le Mamme No Pfas citano anche lo spostamento della produzione del C6O4 (un nuovo composto chimico che ha sostituito il Pfoa) alla Solvay di Spinetta Marengo e degli impianti della Miteni in India. “Chiediamo un processo-indagine e l’attenzione internazionale. Il crimine ambientale è un crimine sociale e la violenza multispecie e multiverso di questo crimine non deve essere trascurata. Questa è la nostra tesi. Cambiando l’approccio cambia il mondo” concludono citando la lettera all’Onu scritta da Alberto Peruffo, di Pfas.land, e inviata all’Alto commissario delle Nazioni Unite Marcos Orellanus, su invito di Giuseppe Ungherese di Greenpeace Italia. La missione incontrerà non solo autorità ed enti locali, regionali e nazionali, ma anche chi “ha vissuto e vive sulla propria pelle la sfida di abitare in un territorio che è teatro di uno dei più gravi casi di inquinamento a livello internazionale”. Cristina Guarda, consigliere regionale di Europa Verde, che vive in una delle zone più contaminate nel Vicentino, ha dichiarato: “È significativo come le mamme No Pfas e Pfas.land si siano dovuti rivolgere all’Onu per esigere quelle risposte che non sono giunte dalle istituzioni. La notizia dona speranza ai cittadini e scuote anche il mondo politico”. Di fronte all’illusione che la situazione sia risolta, Cristina Guarda osserva: “Non lo è affatto. Mi riferisco al diritto alla salute dei cittadini che vivono nelle aree inquinate, anche quelle finora escluse da controlli ad hoc come le Zone Arancioni. Non da meno è poi il diritto all’informazione. Non dimentichiamo che ancora oggi molti cittadini non hanno accesso allo screening per conoscere il livello di Pfas presente nel proprio corpo”. Suicidio assistito. Mario potrà morire, via libera dal Comitato etico di Maria Novella De Luca La Repubblica, 23 novembre 2021 L’associazione Coscioni: “Il primo sì in Italia al suicidio assistito”. Tetraplegico da dieci anni, per lui è arrivato l’ok dall’Azienda Sanitaria delle Marche che ha seguito le indicazioni date dalla Consulta nella sentenza del sul caso del dj Fabo . L’annuncio della Coscioni: “Il suo calvario è quasi finito”. Mario: “Adesso mi sento più leggero”. “Mario” potrà morire. Il paziente marchigiano tetraplegico immobilizzato da 10 anni, che aveva chiesto da oltre un anno all’azienda ospedaliera delle Marche che fossero verificate le sue condizioni di salute per poter accedere, legalmente, in Italia, ad un farmaco letale per porre fine alle sue sofferenze, ha ottenuto il via libera dal Comitato Etico. Lo ha annunciato l’Associazione Coscioni, che dopo la sentenza della Corte Costituzionale 242 del 2019 sul caso di Dj Fabo, si è battuta affinché nel rispetto delle condizioni indicate dalla Consulta, il suicidio assistito, a cominciare dal caso di Mario, 43 anni camionista di Pesaro, immobilizzato al letto dopo un incidente stradale, potesse essere effettuato anche in Italia. Potesse essere cioè considerato non punibile, se quelle condizioni tra cui l’irreversibilità della malattia, l’insostenibilità del dolore e naturalmente la chiara volontà del paziente, fossero state evidenti. Mario, nome di fantasia, sarà infatti, così si legge nel comunicato diffuso dall’Associazione Coscioni, “il primo malato a ottenere il via libera al suicidio medicalmente assistito in Italia”. “Il Comitato Etico ha riscontrato che l’uomo rientra nelle condizioni stabilite dalla Consulta per l’accesso al suicidio assistito. Restano da individuare ora le modalità di attuazione”. Questi i passaggi della battaglia giudiziaria che segna una pagina storica verso la libertà di scelta sul fine vita nel nostro Paese. “Dopo il diniego dell’Azienda Sanitaria Unica Regionale Marche, una prima e una seconda decisione definitiva del Tribunale di Ancona, due diffide legali all’Asur Marche, Mario ha finalmente ottenuto il parere del Comitato etico, che a seguito di verifica delle sue condizioni tramite un gruppo di medici specialisti nominati dall’Azienda sanitaria regionale, ha confermato che Mario possiede i requisiti per l’accesso legale al suicidio assistito”. Mario dopo aver letto il parere ha commentato: “Mi sento più leggero, mi sono svuotato di tutta la tensione accumulata in questi anni”. Accudito dalla madre, Mario (il nome è di fantasia) sarebbe potuto andare in Svizzera, ma ha scelto di combattere per cambiare la legislazione italiana. Dichiara Filomena Gallo, codifensore di Mario, Segretaria dell’Associazione Luca Coscioni: “Il comitato etico ha esaminato la relazione dei medici che nelle scorse settimane hanno attestato la presenza delle 4 condizioni stabilite dalla Corte Costituzionale nella sentenza Capato-Dj Fabo. Ovvero che Mario è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. È quindi affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che reputa intollerabili. E’ pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli e che non è sua intenzione avvalersi di altri trattamenti sanitari per il dolore e la sedazione profonda. E’ molto grave che ci sia voluto tanto tempo, ma finalmente per la prima volta in Italia un Comitato etico ha confermato per una persona malata, l’esistenza delle condizioni per il suicidio assistito”. “Su indicazione di Mario - continua Gallo - procederemo ora alla risposta all’Asur Marche e al comitato etico, per la parte che riguarda le modalità di attuazione della scelta di Mario, affinché la sentenza Costituzionale e la decisione del Tribunale di Ancona siano rispettate. Forniremo, in collaborazione con un esperto, il dettaglio delle modalità di autosomministrazione del farmaco idoneo per Mario, in base alle sue condizioni”. Il suicidio assistito consiste nell’aiutare un paziente terminale a suicidarsi, appunto, cioè a ingerire da solo il farmaco letale. A differenza dell’eutanasia con la quale il paziente muore attraverso un’iniezione letale che gli viene praticata da un medico. “Dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha a tutti gli effetti legalizzato il suicidio assistito, nessun malato ha finora potuto beneficiarne, in quanto il Servizio Sanitario Nazionale si nasconde dietro l’assenza di una legge che definisca le procedure” aggiunge Marco Cappato, Tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni. “Mario sta comunque andando avanti grazie ai tribunali, rendendo così evidente lo scaricabarile”. Manca ora la definizione del processo di somministrazione del farmaco eutanasico. “Tale tortuoso percorso - chiarisce Cappato - è anche dovuto alla paralisi del Parla-mento, che ancora dopo tre anni dalla richiesta della Corte costituzionale non riesce a votare nemmeno una legge che definisca le procedure di applicazione della sentenza della Corte stessa. Il risultato di questo scaricabarile istituzionale è che persone come Mario sono costrette a sostenere persino un calvario giudiziario, in aggiunta a quello fisico e psicologico dovuto dalla propria condizione. È possibile però che la decisione del Comitato etico consentirà presto a Mario di ottenere ciò che chiede da 14 mesi”. “Il naufragio del Ddl Zan non fermerà la lotta alla omotransfobia” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 23 novembre 2021 A protestare è una generazione di giovani che spazzerà via, attraverso la partecipazione attiva e il voto, tutti coloro che al Senato festeggiavano la morte del ddl Zan”. A parlare è il giornalista e scrittore Simone Alliva - autore della prima inchiesta sull’omofobia in Italia, “Caccia all’omo. Viaggio nel paese dell’omofobia” (Fandango, 2020) - in riferimento alla mobilitazione di piazza che accompagna la fine del ddl Zan, il cui iter parlamentare si è arrestato mercoledì 27 ottobre nell’aula di Palazzo Madama in seguito all’approvazione a scrutinio segreto della richiesta di Lega e Fratelli d’Italia di non passare all’esame degli emendamenti sul disegno di legge. Alliva, la lotta contro l’omotransfobia si è spostata nelle piazze? Da quando il ddl Zan è stato affossato, in tutta Italia si sono riempite tantissime piazze, affollate da persone che, quando si tratterà di andare a votare, non concederanno il proprio consenso elettorale a quanti hanno sancito la fine del percorso del ddl Zan. Durante le ultime amministrative si è parlato tanto di astensionismo e non ci si rende conto che queste piazze stanno dicendo qualcosa alla politica, mentre la politica, sbagliando, le sta ignorando. Come giudica quanto accaduto? In realtà era prevedibile, sin da quando Italia Viva ha deciso di aprire una mediazione sul ddl Zan dopo averla invece approvata alla Camera senza modifiche. Il problema vero è stato cercare delle mediazioni con chi si è sempre opposto a questo disegno di legge. A ciò si aggiunge un’altra questione che è stata poco sottolineata dai giornali: questo ddl non ha mai avuto il sostegno del governo, il Presidente del Consiglio Draghi non ha mai preso posizione al riguardo. È ormai un dato di fatto: il Parlamento ha ormai un ruolo marginale e senza la spinta del presidente del Consiglio difficilmente il processo legislativo va a buon fine. Lo stesso Alessandro Zan, deputato Pd e primo firmatario del ddl, ha accusato che “una forza politica, Italia Viva, si è sfilata e ha flirtato con la destra sovranista solo per un gioco legato alla partita del Quirinale”. Concorda? È verosimile. Premesso che il voto è segreto, dai conti fatti emerge che effettivamente i franchi tiratori sono stati di più rispetto a quelli che ci aspettavamo. Il centrodestra non ha i numeri per eleggere il Presidente della Repubblica, quindi deve per forza stringere alleanze. Insieme a Italia Viva e a una parte del Misto potrebbe quindi formare una nuova maggioranza in grado di giocare una partita importante per l’elezione del Presidente della Repubblica. La lettura di Zan mi sembra abbastanza aderente alla realtà. Come giudica invece la posizione della Chiesa? Ricordo che nel 2019, quando è stato incardinato il ddl Zan in Commissione Giustizia alla Camera, la Cei aveva già assunto una posizione contraria e parlava già di ostacolo alla libertà di espressione. La posizione della Chiesa rappresenta tuttavia un sottofondo, qualcosa che sentiamo ormai da venticinque anni, non dovrebbe sorprenderci. Penso che chi ha voltato le spalle a questo ddl non l’ha fatto con gli occhi rivolti a Oltretevere, come succedeva anni fa, ma per altre ragioni. Il Vaticano, infatti, oggi non influenza più di tanto la politica e soprattutto una destra che su tantissime tematiche, migranti in primis, si rivela antitetica rispetto al pensiero della Chiesa. Potrebbe costituire al massimo un alibi. Il percorso legislativo contro l’omotransfobia si è concluso per sempre o in futuro si potrà fare qualcosa al riguardo? Il ddl Zan è morto per sempre: questa legge, in questi termini, non si può più ripresentare. Ho letto che Licia Ronzulli, vicepresidente del gruppo di Forza Italia al Senato, ha affermato che si potrebbe ripartire dal suo disegno di legge che preveda semplicemente delle aggravanti penali per le aggressioni. Innanzitutto, oggettivamente non c’è il tempo materiale per produrre un progetto di legge e poi sottoporlo ad approvazione. Anche se fosse, non è questo il modo corretto per combattere il fenomeno dell’omotransfobia. Il ddl Zan era composto da dieci articoli, di cui i primi tre proponevano la cosiddetta aggravante, ma non è tanto questa che può fermare l’omotransfobia in Italia, quanto la cultura, la formazione e l’informazione nelle scuole. Il ddl non è andato avanti perché chi era contrario si opponeva proprio a tale componente culturale e formativa. Aggiungo che, tutte le volte che non si approva una legge sui diritti o che la si approva monca - come è avvenuto per le unioni civili senza la step child -, si tende sempre a rimandare alla volta successiva, ma poi non si arriva mai alla fine. È una tecnica di distrazione di massa, che conosciamo bene. Fa ancora molto spavento un percorso culturale volto alla tolleranza e all’inclusione? A respingere una legge che combatta l’omofobia da un punto di vista culturale sono stati coloro che applaudivano e festeggiavano in Senato la caduta del ddl Zan. Approfittando di un deficit culturale nel nostro paese enorme su certe questioni, hanno alimentato tre menzogne: la minaccia alla libertà d’espressione, la fake news del gender e trasformato un termine giuridico ben presente nel nostro ordinamento, cioè identità di genere, in un grimaldello che apre alle peggiori nefandezze dell’umano. Fantasmi creati da loro stessi per ottenere consenso. Va da sé che durante le audizioni c’è stato chi ha definito la pedofilia un orientamento sessuale e quindi protetta dal ddl Zan. Sono state tutte discussioni che riflettevano la scarsa cultura di questa classe politica fuori tempo. Durante le dichiarazioni di voto hanno affermato chiaramente che si sarebbero opposti a un disegno di legge che portasse la cultura della tolleranza e dell’accettazione all’interno delle scuole. Ha influito, inoltre, anche una distorsione dell’informazione sul ddl Zan, nel punto in cui esso prevedeva una giornata contro l’omotransfobia - celebrata ogni anno dal Presidente della Repubblica, del Senato e della Camera - da svolgersi in autonomia nelle scuole, senza alcun obbligo, come invece riportato da una certa narrazione alquanto diffusa. Egitto. 46 Ong chiedono la fine della persecuzione del difensore dei diritti umani Bahgat La Repubblica, 23 novembre 2021 Il giornalista investigativo sotto processo per aver esercitato il suo diritto alla libertà di espressione e per il suo attivismo. È accusato di reati informatici, “diffusione di notizie false” e “uso di un profilo social per commettere reati”. Quarantasei Ong hanno chiesto alle autorità egiziane di porre fine alla persecuzione di Hossam Bahgat, noto difensore dei diritti umani e giornalista investigativo, attualmente sotto processo solo per aver esercitato il suo diritto alla libertà di espressione e per il suo attivismo in favore dei diritti umani. Bahgat, direttore e fondatore dell’Iniziativa egiziana per i diritti personali, è accusato, ai sensi del codice penale e della legge sui reati informatici del 2018, di “insulto alla Commissione elettorale”, “diffusione di notizie false” e “uso di un profilo social per commettere detti reati” per aver espresso critiche su Twitter riguardo allo svolgimento delle elezioni parlamentari. Il verdetto sarà reso noto il 29 novembre. Bahgat rischia fino a tre anni di carcere e una multa equivalente a quasi 20.000 euro. Il divieto di viaggiare e il congelamento dei beni. Questa è solo l’ultima di una serie di persecuzioni subite da Bahgat negli ultimi anni. Nel 2015 è stato tenuto in stato d’arresto per tre giorni con l’accusa di “diffusione di notizie false”, dopo che il portale indipendente Mada Masr aveva pubblicato un suo servizio sui processi in corte marziale contro un gruppo di militari accusato di aver complottato per rovesciare il governo. Nel 2016 le autorità egiziane gli hanno imposto un arbitrario divieto di viaggio e hanno congelato i suoi beni in relazione al “caso 173”, la famigerata indagine sui finanziamenti dall’estero che ha preso di mira decine di Ong. Nel luglio 2021, uno dei giudici del “caso 173” lo ha interrogato sulla base di una relazione segreta dell’Agenzia per la sicurezza nazionale e lo ha accusato di incitamento contro le istituzioni dello stato. “Le accuse infondate di terrorismo”. Se gli sviluppi nel “caso 173” hanno visto chiudere le indagini nei confronti di 75 Ong e 220 attivisti e impiegati, la parte che riguarda Bahgat e l’Iniziativa egiziana per i diritti personali resta aperta. Per di più, nel novembre 2020, tre dirigenti dell’Iniziativa egiziana per i diritti personali - Gasser Abdel-Razek, Karim Ennarah e Mohamed Basheer - sono stati arrestati e detenuti per parecchi giorni per infondate accuse di terrorismo, dopo che avevano discusso sulla crisi dei diritti umani in Egitto con un gruppo di diplomatici europei. Nonostante siano stati scarcerati a seguito di una grande mobilitazione internazionale, nei loro confronti restano in vigore il divieto di viaggio e il congelamento dei beni. Il caso di Patrick Zaki. Un importante ricercatore dell’Iniziativa egiziana per i diritti personali, Patrick Zaki, è stato arrestato nel febbraio 2020 all’aeroporto del Cairo, dove era arrivato da Bologna, la città in cui studiava. Dopo 19 mesi di detenzione preventiva, è stato rinviato a giudizio per l’infondata accusa di “diffusione di notizie false”. La prossima udienza del processo, di fronte a un tribunale d’emergenza, è prevista il 7 dicembre. Emirati Arabi. Il generale e torturatore al Raisi favorito per l’Interpol di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 23 novembre 2021 Gli Emirati lo sostengono a colpi di finanziamenti. Delle ong, tra cui il Gulf Centre for Human Rights e Human Rights Watch, accusano il generale di aver promosso la pratica della tortura nelle carceri degli Emirati. Un generale accusato di tortura alla testa di Interpol? Ahmed Naser al-Raisi, alto graduato del ministero degli Interni degli Emirati arabi uniti, è favorito per essere nominato alla presidenza dell’organizzazione internazionale di polizia all’assemblea generale che si tiene da oggi a giovedì a Istanbul. Al-Raisi, che ha alle spalle una carriera di più di 40 anni a Abu Dhabi, come rappresentante dell’Asia dal 2018 è già membro del comitato esecutivo di Interpol, che ha sede a Lione. Contro di lui, all’ultimo momento si è candidata Sarka Haurankova, della Repubblica ceca, vice-presidente di Interpol per l’Europa. L’opposizione alla nomina di al-Raisi si è organizzata in Europa. A giugno, 35 parlamentari francesi hanno scritto a Macron per chiedere di opporsi a questa promozione. A novembre, dei parlamentari tedeschi hanno espresso “profonda preoccupazione”. A settembre, ci sono state tre denunce in Francia contro al-Raisi, possibili grazie alla competenza universale della giustizia francese. Delle ong, tra cui il Gulf Centre for Human Rights e Human Rights Watch, accusano il generale di aver promosso la pratica della tortura nelle carceri degli Emirati. In particolare, due denunce riguardano gli “atti di barbarie” commessi contro il blogger e poeta Ahmed Mansur, condannato negli Emirati nel 2018 a dieci anni di carcere e da allora tenuto in isolamento. C’è anche una denuncia presentata in Gran Bretagna, che riguarda Matthew Hedges, un dottorando inglese arrestato nel 2018 all’aeroporto di Dubai e condannato all’ergastolo negli Emirati come spia. Un’ultima denuncia è stata presentata recentemente da avvocati francesi in Turchia, nella speranza di bloccare la nomina. Gli Emirati sostengono la promozione di Ahmes Naser al-Raisi a colpi di finanziamenti: nel 2017, Abu Dhabi ha fatto una donazione-record di 50 milioni di euro a Interpol, per sedurre i 194 stati membri. Le ong francesi temono che Macron temporeggi: il presidente ha in programma un viaggio negli Emirati a dicembre e Abu Dhabi è tra i principali clienti di armamenti made in France. Gli Emirati, inoltre, sono al centro di scandali internazionali di intercettazioni, sono stati tra i maggiori utilizzatori di Pelagus, il software israeliano utilizzato per spiare giornalisti, militanti e anche politici, un caso esploso qualche mese fa. Interpol, l’organizzazione internazionale nata nel 1923 per mettere in relazione le polizie del mondo, non è sempre stata al di sopra di ogni sospetto. Nel passato ha dovuto far fronte ad accuse di essere uno strumento usato da alcuni stati membri per arrestare degli oppositori politici nel mondo, anche se l’articolo 3 del suo statuto promette “stretta neutralità”. Il penultimo presidente di Interpol, il cinese Meng Hongwei, è sparito da Lione nel 2018, poi ricomparso in Cina dove è stato condannato nel 2020 a 13 anni di carcere per corruzione. La moglie Grace, che ha ottenuto l’asilo politico in Francia, ha chiesto a Interpol di indagare sulla sua sorte, per sapere se è ancora in vita. Sit-in rifugiati siriani all’Aia: “Apra inchiesta su crimini del regime” di Alessandra Fabbretti agenziadire.com, 23 novembre 2021 “Io e la mia famiglia non vediamo mio fratello Samir da oltre dieci anni. Venne arrestato durante le manifestazioni popolari del 2011 e per due anni non abbiamo saputo nulla di lui. Poi è stato trasferito, e di tanto in tanto ci confermano che è vivo i detenuti che erano in cella con lui, e che vengono rilasciati, oppure i secondini dietro compenso. Aveva vent’anni quando è stato incarcerato”. Mohammad è un rifugiato siriano e all’agenzia Dire racconta la storia del fratello minore, una vicenda analoga a quella di altre migliaia di siriani detenuti nelle carceri del governo di Damasco. I loro sono nomi di fantasia, una precauzione in più per non mettere in pericolo Samir, incarcerato e mai processato per il reato che le autorità gli contestarono nelle proteste popolari pacifiche del 2011: partecipazione a un’azione volta a destabilizzare la sicurezza dello Stato. Per chiedere la liberazione di Samir e degli altri detenuti, Mohammad ieri ha partecipato a un sit-in organizzato dalla comunità dei siriani in Olanda davanti alla sede del Tribunale della Corte penale internazionale (Cpi). All’Aia, una cinquantina di manifestanti hanno anche esortato la Corte ad aprire un’inchiesta contro il governo del presidente Bashar Al-Assad per crimini di guerra e contro l’umanità: “Sappiamo che la Cpi ha ricevuto molti dossier sui crimini commessi dall’esercito” continua Mohammad. “È ora che anche la comunità internazionale intervenga. Ad oggi, le dimensioni della guerra siriana non sono state ancora comprese”. Al momento, solo un tribunale della città tedesca di Coblenza ha portato a processo due ex funzionari del regime di Damasco per arresti arbitrari, torture e uccisioni compiute a danno dei manifestanti tra il 2011 e il 2012. Eppure nelle sollevazioni popolari contro il governo del presidente Bashar Al-Assad, e poi negli anni del conflitto, moltissimi siriani sono stati incarcerati, e di molti di loro si è persa traccia. Chi è uscito invece ha raccontato di aver subito torture e privazioni. Ancora non esistono stime del fenomeno, a marzo scorso però la Commissione d’inchiesta sulla Siria istituita dalle Nazioni Unite ha diffuso un report in cui ha indicato “decine di migliaia” di persone “detenute illegalmente dal governo e dalle milizie armate”. I ricercatori hanno contato un centinaio di centri di detenzione e hanno raccolto testimonianze in ciu si parla ancora di violazioni, torture e uccisioni. Ne è un esempio il fratello di Mohammad: oltre a non aver mai incontrato un avvocato o affrontato un processo per i suoi presunti crimini, l’uomo vive isolato dal mondo. In dieci anni, “solo una zia è riuscita a incontrarlo dopo aver dato a un agente una somma di denaro”. I familiari di Samir non possono fargli arrivare né lettere né cibo, vestiti, medicine o sapone “neanche durante il Covid” dice il fratello. Il sit-in davanti all’Aja richiama anche un’altra vicenda che coinvolge la Siria: domani si apre ad Istanbul l’89esima Assemblea Generale dell’Interpol, organismo giudiziario che a fine settembre ha riammesso la Siria tra gli Stati membri. Una decisione che ha sollevato numerose critiche da parte di associazioni e giuristi di tutto il mondo in quanto, come scrive il Guardian, “esporrà le persone fuggite dalla guerra alla detenzione e all’estradizione, oltre a complicare le domande di asilo e le cause legali internazionali contro i funzionari siriani”. Ancora al Guardian Toby Cadman, un avvocato britannico che lavora sui procedimenti giudiziari per crimini di guerra relativi alla Siria, ha dichiarato: “Sono profondamente deluso e preoccupato che sia stata presa una decisione del genere. I sistemi dell’Interpol sono opachi, senza una reale supervisione o responsabilità, e consentono a Stati come la Siria - che hanno poco riguardo per i diritti umani - di usarli in modo irregolare”. Nei giorni scorsi ben 64 ong hanno chiesto un’urgente riforma dell’Interpol “affinché il suo sistema rispetti la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”. Siria. I miliziani dell’Isis liberi in cambio di mazzette di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 23 novembre 2021 La denuncia del Guardian: le forze curde rilasciano i jihadisti catturati dopo la sconfitta dello Stato islamico. I militanti di Isis liberati dalle forze militari curde in cambio di denaro e mazzette. Avviene in tre carceri del Rojava (come i curdi nella Siria nord-orientale definiscono la loro regione autonoma), dove sono ancora imprigionati circa 10.000 guerriglieri delle milizie del Califfato. Jihadisti duri e puri, che combatterono agli ordini di Abu Bakr al Baghdadi e molti dei quali catturati nel marzo 2019 durante la battaglia finale di Baghouz. Il quotidiano britannico Guardian ha parlato con due di loro, i quali rivelano parecchi dettagli della liberazione. Abu Jafar, che ovviamente afferma di non avere mai ucciso o perpetrato alcuna violenza dice di aver pagato 8.000 dollari agli ufficiali curdi per essere ammesso al programma di “riconciliazione”, che poi gli ha permesso di essere liberato assieme alla moglie ed ai figli che erano detenuti nel grande campo di concentramento di Al Hol. Ma aggiunge anche di aver sborsato altri 22.000 dollari in bustarelle per riuscire ad avviare la pratica. Lui e la famiglia hanno quindi raggiunto la zona controllata dalle milizie sunnite attorno alla città siriana di Idlib e poco dopo ottenuto il permesso di entrare in Turchia. Un racconto molto simile fa Abu Muhammad, con l’aggiunta di una descrizione accurata sulle terribili condizioni di detenzione nella prigione di Hasakah, dove a suo dire la tortura viene applicata regolarmente. Il portavoce delle forze curde, Farhad Shami, nega vi sia alcun programma di liberazione dei militanti di Isis ritenuti ancora pericolosi e tantomeno che ciò avvenga in cambio di denaro. Per contro, già da tempo le autorità di Rojava liberano i prigionieri che si ritiene “non abbiano le mani sporche di sangue” per cercare di ridurre le spese della loro detenzione. La vicenda torna comunque a ricordare il problema dei prigionieri di Isis in mano ai curdi. Ai circa 8.000 militanti siriani e iracheni si aggiungono 2.0000 stranieri giudicati pericolosi e decine di migliaia di donne e bambini ancora chiusi ad Al Hol. Che fare di loro? Da tempo i curdi chiedono aiuto alla comunità internazionale senza ottenere risposte. In carcere per una bandiera: il pugno di ferro dell’Indonesia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 novembre 2021 Almeno otto persone a Papua e 11 nelle Molucche sono attualmente in carcere con l’accusa di tradimento, prevista dagli articoli 106 e 110 del codice penale indonesiano per aver esercitato pacificamente i loro diritti alla libertà di espressione, di manifestazione e di associazione. Nella maggior parte dei casi, per aver sventolato una bandiera. Pieter Likumahua, Alexsander Workala e Benjiamin Naene sono stati arrestati tra il 7 e l’8 aprile 2021 per il possesso di una bandiera e di documentazione della Repubblica delle Molucche del sud, non riconosciuta dall’Indonesia. Da allora, la loro detenzione è stata prorogata per ben sette volte. Il processo è finalmente iniziato il 26 agosto ma è stato rinviato, l’ultima volta il 17 novembre, per la ridicola motivazione che la pubblica accusa non aveva preparato tutte le carte.