Carceri, da criminali a cittadini: “Le nostre vite, rinate in prigione” di Gabriele Cruciata e Massimo Razzi La Repubblica, 22 novembre 2021 Voci, numeri, luci e ombre dei penitenziari d’Italia. Un viaggio nelle carceri italiane e nei loro problemi. Un viaggio anche dentro di noi per capire l’idea che gli italiani hanno del loro sistema penitenziario. “Chiusi dentro” è il podcast (8 puntate) che uscirà venerdì prossimo sul sito di Repubblica e degli altri quotidiani del gruppo Gedi in collaborazione con l’associazione Antigone. Oltre un anno di lavoro e 40 interviste per spiegare luci e ombre di un pezzo importante della nostra società. Ecco quattro testimonianze di detenuti che ce l’hanno fatta a reinserirsi nella società. Il sistema penitenziario italiano è governato da buone norme. Prevede che i detenuti debbano solo essere privati della libertà, senza subire ulteriori afflizioni. E che vengano messi nelle condizioni di recuperarsi. Di fatto però, oggi, le nostre prigioni sono “discariche sociali” piene di gente che viene dagli strati più deboli della società, dove il 30% dei 53mila detenuti è dentro per reati legati alla droga e il 15% è tossicodipendente. La recidiva resta altissima (70% e più) ma scende di molto (sotto il 30) nei casi in cui i detenuti usufruiscono di possibilità di lavoro (appena il 20%), scuola e iniziative culturali. Purtroppo, la maggioranza degli italiani ha un’idea piuttosto vendicativa del carcere come strumento di pura “retribuzione” e di allontanamento di chi ha sbagliato. E la politica ha sempre assecondato questa tendenza temendo un giudizio sociale riassunto nella tipica frase: “Quei delinquenti sono dentro a fare la bella vita a nostre spese”. Così, le nostre prigioni, nonostante il grande lavoro di operatori e volontari, restano luoghi di sofferenza e, a volte, come si è visto a Santa Maria Capua Vetere, di incomprensibile violenza. L’ex camorrista: “Così sono diventato attore per Garrone” - Reality e Dogman, due grandi film che in comune la regia di Matteo Garrone, ma anche la presenza di Aniello Arena, attore napoletano pluripremiato. Ma nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza il carcere. Arena prima che attore è stato detenuto dopo una condanna all’ergastolo per aver partecipato alla strage camorrista di piazza Crocelle, a Napoli. Ha girato le carceri di tutta Italia e per anni è stato un detenuto difficile: risse, scontri, un rapporto complicato con l’autorità. “Ma poi ho scoperto il teatro e a quel giovane Aniello che era in me ho iniziato a dare dei calci in testa”, racconta. Arena e il teatro si conoscono a Volterra grazie ad Armando Punzo, regista partenopeo che a partire dagli anni ‘80 ha portato la recitazione in carcere con la sua Compagnia della Fortezza. Dopo mesi di esitazione e passi indietro, Aniello si dà una seconda opportunità e quel giovane rissoso e difficile inizia a scomparire. “Quando sono entrato in carcere neanche sapevo l’italiano. Lì ho scoperto che in italiano si dice basilico e non vasinicola, sedano e non accio”. La storia di Aniello dimostra che il cambiamento fa del bene a sé e agli altri. Ma questo è stato possibile solo grazie ad un esterno come Punzo, che da più di trent’anni crede negli altri e offre alternative. Lo sa anche lo stesso Aniello: “Ho girato molte carceri, e sembrano fatte apposta per incattivirti anziché migliorarti. Il sistema non incoraggia il tuo cambiamento. L’ex ergastolano: “Tre lauree in cella e ora scrivo libri” - Carmelo Musumeci ha 66 anni e vive a Bevagna, nella campagna umbra del Montefalco e del Sagrantino. All’attivo ha una carriera criminale iniziata a 16 anni e culminata nel 1992 con la condanna all’ergastolo per un omicidio di stampo mafioso. Oggi è molto cambiato e parla di perdono e seconde opportunità. Musumeci spiega che “anche il peggior criminale può cambiare, ma lo devi far sentire in colpa”. Una delle maggiori criticità dell’attuale sistema penitenziario italiano è proprio la sua incapacità di far sentire colpevole chi ha sbagliato. Succede perché celle sovraffollate, attività formative carenti e una politica poco coraggiosa impediscono un adeguato reinserimento dei detenuti. Musumeci lo spiega bene: “Il criminale ha paura solo del perdono perché è lì che inizi a cambiare. Io ho cominciato quando un operatore mi ha abbracciato”. Negli ultimi trent’anni ha lottato in prima linea contro l’ergastolo ostativo, riservato a chi come lui ha commesso omicidi di stampo mafioso. Se oggi la Corte costituzionale ha messo fuori legge tale provvedimento è anche grazie a lui, primo ergastolano ostativo a ottenere un permesso premio. In carcere Musumeci ha preso tre lauree e ha scritto nove libri di taglio autobiografico. La sua missione è diventata quella di pensare a un carcere migliore. Per il bene dei detenuti che verranno, certo, ma anche di tutta la società che verrà. L’ex pusher: “Parlo agli studenti di caduta e riscatto” - “Il carcere, com’è, non produce reinserimento. Chi cambia lo fa nonostante grazie alle persone speciali che incontra. Io le chiamo: relazioni significanti”. Come mai un ex detenuto di 49 anni, di cui 14 trascorsi in galera, usa parole così? Carlo Scaraglio, genovese, laureando in sociologia, gira le scuole del Trentino per raccontare ai ragazzi la sua storia per l’associazione “Dalla Viva voce”. Le “relazioni significanti” di Carlo sono state una dottoressa del carcere di Marassi a Genova che gli suggerì di andare a studiare nel carcere di Pisa; i professori che lo hanno accolto e seguito in Toscana; un prete e una suora che lo hanno nominato “sacrestano” sul campo e, adesso, quelli di “Dalla viva voce”. “Quando decidi di cambiare - spiega - il carcere quasi ti si rivolta contro. Gli agenti ti guardano male, pensano che vuoi diventare dottore per fargliela pagare... E, spesso, anche gli altri detenuti, ti trattano da diverso, se non da infame”. Neanche Carlo s’era voluto bene. A 18 anni lo prendono che gioca a pallone in un parco con 4 grammi di fumo in tasca. Lo sbattono a Marassi. Il suo racconto dell’ingresso va ascoltato: “Sembrava un alveare a 4 piani, tutti gridavano... Io piangevo e non capivo niente”. Poi ancora dentro e fuori: 5 anni a Marassi senza vedere un operatore e la condanna più pesante: 12 anni. Ma ne basta uno per capire che stava buttando via la sua vita e incontrare le sue “relazioni significanti”. L’omicida: “Racconto in poesia la prigione-giungla” - Si può finire in carcere senza essere criminali per la conseguenza di un gesto. Federico Mollo ha ucciso un uomo con una coltellata. Non voleva farlo, voleva difendere una donna picchiata. Ma per la legge era omicidio volontario: 13 anni e mezzo pur con le attenuanti. Da quel giorno, tra Velletri e Rebibbia, lo scopo della sua vita è diventato non farsi cambiare dal carcere, non diventare davvero cattivo. Anche perché fuori c’era ad aspettarlo un figlio di dieci anni. C’è riuscito, Federico, senza mai negare di aver fatto il male (“il pensiero di aver ucciso mi seguirà tutta la vita”). Un giudice gli ha tolto tre anni di galera riconoscendogli la provocazione. Il resto l’ha dovuto fare da solo: con i libri, la musica, la poesia. Le armi “interne” che era riuscito a costruirsi. Adesso è fuori e fa il giardiniere. Lui, grande come un armadio, il sorriso pronto e una gran voglia di ricominciare. Ma dentro è stata dura. C’è una poesia (ne ha scritte tante, tutte in romanesco) che paragona il carcere alla giungla: le guardie sono coccodrilli (cattivi in agguato) e giraffe (che controllano, vedono tutto, ma chiudono un occhio). I carcerati sono scimmiette (che sfuggono), leoni (che ti sbranano), iene (che ridono quando stai male) e serpenti. Federico, forse, si mette tra gli elefanti “che non rompono.... Ma non vonno manco li guai”. Di sicuro, lui è quello “...che gli è caduto addosso il suo destino... e sta giungla non gli serve a gnente”. Il sistema giustizia e le sue ingiustizie di Giusi Fasano Corriere della Sera, 22 novembre 2021 Femminicidi, storie ordinarie di cronaca con donne che denunciano e inutilmente chiedono aiuto: storie nere ma anche racconti di mancata Giustizia. Reggio Emilia. Sono una donna sfinita dallo stalking di un uomo con il quale ho avuto una breve relazione e che, appena lasciato, ha cominciato a perseguitarmi. Chiedo aiuto, denuncio. Lo arrestano. Ma il giorno dopo lo rilasciano vietandogli di avvicinarsi a me. Lui naturalmente se ne infischia e si avvicina, viene arrestato di nuovo e dopo un paio di settimane ottiene gli arresti domiciliari. Tempi e processo veloce, lui finisce davanti al giudice. Il pubblico ministero e il giudice accettano l’idea di un patteggiamento: due anni e pena sospesa. La sospensione della pena è una prognosi positiva sul suo comportamento, giudice e pm avrebbero potuto decidere di non concederla, di dargli un tempo x di arresti domiciliari, e invece accettano di sospendere tutto e dargli fiducia. E in quello stesso momento decade, ovviamente, il divieto di avvicinamento precedente. Così lui è libero di andare dove gli pare, di farsi vedere sotto casa mia. Sono costretta a guardarmi le spalle, a rifiutare una, dieci, mille sue chiamate. Che farà? Dove sarà?, mi chiedo. Era lì, a seguirmi nei giardini pubblici. Aveva un coltello, e ha vinto lui. Mi chiamavo Juana Cecilia Hazana Loayza, avevo 34 anni. Sassuolo. “Patti, stai tranquilla. Lui non farebbe mai una cosa del genere”. Lo avevo detto mille volte alla mia amica che no, lui non ci avrebbe mai fatto del male. Né a me né ai suoi figli. Minacciava di ammazzarmi, è vero. Litigavamo di continuo, sì, ma prima o poi gli sarebbe passata. Me n’ero andata da poco, serviva solo un po’ di tempo... Non è stato così. È arrivato con l’intenzione precisa di fare una strage e ci ha ammazzati tutti a coltellate: me, i nostri due bambini e mia madre. Ogni volta che qualcuno mi diceva di “fare qualcosa” a me veniva in mente la denuncia che avevo fatto contro l’altro, il padre della mia prima figlia. Mentre ero incinta di lei, lui mi seguiva, mi aspettava sotto casa, mi aggrediva, mi diceva: ti pianterò un coltello nella pancia. Così un giorno ho chiamato la polizia. Era il 2010. Siamo arrivati all’udienza preliminare nel 2014. Nel 2016 il rinvio a giudizio, nel 2017 si è prescritto tutto. Secondo voi quanta fiducia potevo avere, io, nella Giustizia dopo quell’esperienza? Mi chiamavo Elisa Mulas, avevo 46 anni. È la cronaca di questi giorni. Storie nere. ma anche racconti di mancata Giustizia. Presunzione d’innocenza: la nuova carta delle garanzie di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2021 In base al decreto che recepisce la direttiva 2016/343 prima della condanna la persona non va mai presentata in pubblico come colpevole. Di sicuro un provvedimento controverso. Di volta in volta rappresentato come un bavaglio all’informazione oppure un passo avanti significativo sulla strada del garantismo. Indubbio però il fatto che, con il decreto legislativo che recepisce nel nostro ordinamento giuridico la direttiva Ue 2016/343, viene introdotta una serie di misure in grado di influenzare aspetti cruciali della comunicazione di vicende penali e non solo. Prova di colpevolezza Il decreto istituisce un set di norme per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un imputato non è stata provata, le dichiarazioni pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla attribuzione di responsabilità penale non presentino la persona interessata come colpevole. Come pure nel testo trova posto il rafforzamento delle garanzie sulle modalità di partecipazione alle udienze, che solo in caso di ragioni motivate attraverso ordinanza del giudice potranno prevedere l’utilizzo di particolari cautele, come le manette. Autorità responsabilizzate - Più nel dettaglio, allora, alle autorità pubbliche (concetto di notevole estensione, comprendendo non solo i magistrati, le forze dell’ordine e tutti i soggetti chiamati all’applicazione della legge, ma anche figure come i ministri e altri funzionari pubblici) è fatto divieto di presentare prematuramente come colpevole la persona sottoposta a indagini o imputata in un procedimento ancora in corso. A quest’ultima è riconosciuto il diritto di richiedere la rettifica della dichiarazione resa all’autorità pubblica e, di conseguenza, l’obbligo di provvedere entro le successive quarantotto ore. Ammessa la rettifica - In caso di accoglimento, la rettifica andrà resa pubblica “con le medesime modalità della dichiarazione o, se ciò non è possibile, con modalità idonee a garantire il medesimo rilievo e grado di diffusione della dichiarazione oggetto di rettifica”. Viceversa, in caso di respingimento o comunque di inerzia nell’assumere la decisione richiesta entro il termine, l’interessato potrà rivolgersi al tribunale affinché, sulla base del proverbiale articolo 70o del Codice di procedura civile, ordini all’autorità pubblica che ha trasgredito il divieto l’immediata pubblicazione della rettifica della dichiarazione. Il ruolo del Procuratore - Per quanto riguarda le comunicazioni delle Procure il decreto stabilisce, innanzitutto, che il Procuratore della Repubblica, già tenuto sulla base dell’ordinamento giudiziario a mantenere personalmente o attraverso delegato, i rapporti con gli organi di informazione, deve affidare le proprie esternazioni a forme “ufficiali” di comunicazione, potendo convocare conferenze stampa unicamente quando le vicende da trattare rivestono particolare rilevanza pubblica. Si prevede, inoltre, che la diffusione di notizie sui procedimenti penali è possibile solo in due casi: a) quando strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini; b) quando “ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. Comunque, anche in queste circostanze, le informazioni andranno diffuse in modo da chiarire la fase in cui si trova il procedimento e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili. Alt anche a denominazioni suggestive per le inchieste: nei comunicati o nelle conferenze stampa non potranno essere assegnate ai procedimenti pendenti qualificazioni lesive della presunzione di innocenza. Introdotto un divieto di riferimenti pubblici alla colpevolezza nei “provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato”, dal quale vengono esclusi comunque gli atti del pubblico ministero indirizzati a dimostrare la colpevolezza. Si precisa inoltre che nei provvedimenti che, pur non essendo diretti alla decisione sul merito della responsabilità penale dell’imputato, presuppongano comunque la valutazione di prove o indizi di colpevolezza, l’autorità giudiziaria è tenuta a limitare i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato “alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”. Quanto ai rimedi, si è riconosciuto all’interessato il diritto di richiedere la correzione del provvedimento, nei dieci giorni successivi. Rafforzato poi il diritto al silenzio, introducendo una disposizione che, in contrasto con la giurisprudenza consolidata, ammette alla riparazione per ingiusta detenzione anche chi, in sede di interrogatorio, non ha risposto. Più soluzioni stragiudiziali e alti livelli di professionalità: così cambia la difesa penale di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2021 Aumenterà il ricorso a riti alternativi, messa alla prova e tenuità del fatto. Rischio inammissibilità degli appelli per mancanza di specificità dei motivi. Meno dibattimento, compensato da maggiori soluzioni stragiudiziali. Atti di appello più “specifici” per evitare l’inammissibilità. E guardia alta sulle proroghe dei termini di improcedibilità, per azionare i ricorsi in Cassazione. È lungo queste direttrici che la riforma del processo penale è destinata a modificare l’approccio alle strategie difensive. La legge (134/2021, in vigore dal 19 ottobre) deve ancora essere attuata (i gruppi di lavoro incaricati di mettere a punto le proposte per i decreti legislativi sono stati nominati a fine ottobre) ma è già possibile individuare quelli che saranno i principali effetti della riforma. Le alternative al dibattimento - Un numero crescente di procedimenti, negli obiettivi della legge delega, dovrebbe concludersi con un rito alternativo, o uno dei nuovi meccanismi premiali in materia di giustizia riparativa. Si tratta di modifiche rilevanti per la funzione difensiva, visto che puntano a evitare il processo grazie a percorsi di mediazione penale tra reo e vittima. Le disposizioni sulla giustizia riparativa, in ottica deflattiva, hanno potenzialità maggiori rispetto ai riti alternativi, che - per quanto incentivati nella riforma - comportano comunque l’alea processuale, in caso di giudizio abbreviato, o l’applicazione di una pena, nel patteggiamento. Al contrario, l’esito positivo dei programmi di giustizia riparativa - attivabili in ogni stato e grado del procedimento, anche dal pubblico ministero - potrà portare al proscioglimento preprocessuale, incardinandosi negli istituti della messa alla prova e della non punibilità per lieve entità del fatto, ulteriormente ampliati e rafforzati dalla riforma. Quanto alla messa alla prova, la legge delega ne prevede l’estensione ai delitti puniti con pena non superiore a sei anni, quando oggi il tetto è quattro anni; un numero rilevante di reati sarà perciò estinguibile con la messa alla prova, la cui condizione di accesso per l’imputato sarà che voglia prestarsi ai nuovi percorsi risocializzanti e riparatori, gestiti da un mediatore esperto iscritto in appositi albi. L’estinzione del reato per particolare tenuità del fatto, che oggi riguarda i reati con pena non superiore a cinque anni, sarà ampliata: verrà meno il tetto massimo, e ci sarà solo quello minimo della pena non superiore a due anni. Il giudice dovrà “dare rilievo alla condotta susseguente al reato ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità”, cioè il buon esito del programma di giustizia riparativa. Nello scenario della giustizia riparativa, il ruolo del difensore è più di natura sociale, che tecnico e processuale: se si considera che il nuovo istituto impatterà massivamente sul rito monocratico, cioè quello più impegnativo per la classe forense, visto che tratta il maggior numero dei processi, il cambio di mentalità e prospettive professionali appare obbligato. Allo stesso tempo, alcune importanti fasi del procedimento saranno caratterizzate da un maggior grado di tecnicità, che imporrà un innalzamento della professionalità e dell’esperienza specifica nel settore penale. Basta pensare che verrà introdotta una causa di inammissibilità per l’appello “per mancanza di specificità dei motivi”. È il principio espresso dalla sentenza 8825/2016 dalle Sezioni unite della Cassazione, per cui l’atto di appello deve consistere in una critica “specifica, mirata e necessariamente puntuale della decisione impugnata”, che serve “sia a circoscrivere l’ambito dei poteri del giudice stesso sia a evitare le iniziative meramente dilatorie che pregiudicano il corretto utilizzo delle risorse giudiziarie, limitate e preziose, e la realizzazione del principio della ragionevole durata del processo”. Le stesse considerazioni valgono per le novità in materia di indagini preliminari, controllo della legittimità delle perquisizioni non seguite da sequestro, e improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione. In tutti questi casi, il difensore dovrà prestare una grande attenzione alla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali sui cui l’atto invasivo, o le proroghe dei termini, si fondano, attivando le impugnazioni appositamente previste, che attribuiscono un ruolo essenziale alla Cassazione, il cui accesso richiede alti standard di professionalità nella stesura degli atti. Presunzione di innocenza. I paletti rischiano di favorire informazioni sottobanco di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2021 Si interviene sulla disciplina dei rapporti delle Procure della Repubblica con gli organi di informazione, contenuta nell’articolo 5 Dlgs 106/2006 laddove, al comma i, è attribuito al procuratore della Repubblica il compito di mantenere personalmente, ovvero tramite un magistrato dell’ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione. Viene ora specificato che i rapporti con la stampa devono essere intrattenuti “esclusivamente tramite comunicati ufficiali, oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa”. In realtà, negli uffici di Procura “più illuminati” già si procede in questo modo, per garantire una corretta informazione e la par conditio tra i mezzi di comunicazione. Ora la si vuole estendere trasformando la prassi in legge. È un intendimento corretto, soprattutto perché si fissano in modo chiari i presupposti della corretta informazione. Le informazioni devono essere fornite garantendo il principio di non colpevolezza e, quindi, in modo da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta ad indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino alla decisione irrevocabile di condanna. Buona norma cautelare da rispettare dovrebbe essere, allora, quella di evitare l’indicazione dei nomi/generalità (ma anche delle immagini) delle persone coinvolte. Proprio tali indicazioni, se intempestivamente “gettate in pasto” all’opinione pubblica, farebbero un danno irrimediabile. Vengono poi codificate le ragioni che legittimano l’informazione, individuate (e limitate) nella soddisfazione di esigenze investigative o di specifiche ragioni di interesse pubblico. La possibilità di diffondere informazioni quando ciò è “strettamente necessario” per la prosecuzione delle indagini è declinata anche nell’articolo 329 Cpp, laddove si consente che, con provvedimento motivato, il pubblico ministero, per tale ragione, possa consentire la parti di essi: può servire, infatti, diffondere i particolari di un’indagine su un rapinatore o un truffatore seriale per scoprire altri episodi o prevenirne la ripetizione. L’altra ragione legittimante l’informazione è, invece, quella correlata alla ricorrenza di “specifiche ragioni di interesse pubblico” a conoscere della vicenda: possono apprezzarsi tali ragioni nella particolare gravità del fatto investigato ovvero nell’esigenza di evitare equivoci o fraintendimenti informativi. Piuttosto, con inutile rigore, si vuole che, quando il veicolo dell’informazione sia rappresentato dalla conferenza stampa, le ragioni di interesse pubblico siano rafforzate (e giustificate) con l’esplicitazione della “particolare rilevanza pubblica dei fatti”: non si coglie che l’importanza è la correttezza dell’informazione, non il mezzo usato. Proprio tale non comprensione, ha portato a prevedere che in caso di conferenza stampa ne debba essere data informazione al Procuratore generale presso la Corte d’appello. Si finisce allora con l’introdurre un irrigidimento nella procedura che potrebbe portare a privilegiare l’utilizzo del comunicato stampa: utile, ma anche asettico, e non in grado di consentire un più adeguato spazio di intervento per i media. Si tratterà allora di vedere la declinazione pratica della nuova normativa, per evitare che possibili rigidità operative - specie in punto di organizzazione delle conferenze stampa - possano finire con il mortificare il diritto di cronaca e di informazione. E perpetuare il rischio delle informazioni sotto banco fornite dalle parti che, di volta in volta, possano avervi interesse. Presunzione di innocenza. Un primo passo per evitare l’irreparabile gogna mediatica di Vittorio Manes Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2021 Nel difficile bilanciamento tra informazione giudiziaria e diritti fondamentali dei soggetti coinvolti, il legislatore europeo - con la Direttiva Ue 2016/343 - ha preso atto di un evidente squilibrio e di un’esigenza di rafforzamento della presunzione di innocenza, garanzia fortemente pregiudicata dalla divulgazione di notizie ed atti riferibili ad un procedimento penale. Quando vengono diffuse notizie concernenti una indagine penale - spesso con toni sensazionalistici e con accentuazioni colpevoliste - nel “palcoscenico di verità di pronto consumo” offerto dai media, la presunzione di innocenza si converte, fatalmente, in presunzione di colpevolezza, e i soggetti coinvolti subiscono una immediata - e spesso irrimediabile - perdita di status. Davanti al tribunale della pubblica opinione, if there’s smoke there’s like, e il soggetto coinvolto in un procedimento penale - come imputato o anche semplicemente come indagato - appare subito come un “presunto colpevole”, con una ustionante degradazione pubblica ed un sacrificio spesso irreversibile della presunzione di non colpevolezza e di ulteriori diritti personalissimi coinvolti e travolti nella catabasi mediatica: onore e reputazione, in primis, ma anche vita privata, familiare, lavorativa, professionale, etc. Ed anche i terzi interessati - per qualche ragione - da atti di indagine, finiscono spesso nella centrifuga mediatica, come dolorosamente insegna l’esperienza delle intercettazioni telefoniche irrilevanti, e purtuttavia ostentate sui giornali squadernando le “vite degli altri”. In questa cornice si iscrive, dunque, l’importante direttiva Ue a cui il legislatore italiano dà attuazione, introducendo regole e cautele allo scopo - appunto - di rafforzare la presunzione di innocenza, anzitutto, come regola di trattamento: prima di un accertamento compiuto e definitivo, il soggetto sottoposto ad indagini non potrà più essere presentato coram populo come colpevole. Di qui il divieto “alle autorità pubbliche di indicare come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”; divieto che si è voluto persino corredare, in caso di violazione, con il riconoscimento all’interessato di un - per vero problematico - diritto di rettifica della dichiarazione resa (attivabile anche in sede cautelare), “ferma l’applicazione delle eventuali sanzioni penali e disciplinari, nonché l’obbligo di risarcimento del danno”. Analoga stretta si impone alle modalità di comunicazione tra gli organi inquirenti e gli organi di informazione, dove la diffusione di notizie - che dovrà comunque evitare di “assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza” - sarà consentita solo ove “strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini” o se ricorrono “altre specifiche ragioni di interesse pubblico”: limitazioni la cui tenuta dipenderà - come si intuisce - dalla serietà con cui verranno interpretati, nella prassi applicativa, i presupposti generali appena evidenziati. Si tratta, senza dubbio, di un primo, importante passo avanti nella tutela dei diritti fondamentali coinvolti nell’accertamento penale, apprezzabile anzitutto sul piano culturale: avvertiti comunque che il cammino per la piena affermazione della presunzione di innocenza è ancora lungo, e che l’effettività di queste innovazioni dipenderà dal rigore deontologico di tutti gli attori coinvolti, giacché nessuna riforma normativa ha effetto senza il cemento sociale che la sostenga. Sulla mediazione c’è una scommessa del governo, anche se un po’ “interessata” di Errico Novi Il Dubbio, 22 novembre 2021 Incentivi fiscali al rito alternativo: il ddl civile li prevede, ma “minaccia” di scaricarli sul contributo unificato. Eppure sembra farsi avanti una cultura dell’accordo tipica del mondo forense. Due principi, non sempre destinati a incrociarsi: pieno accesso dei cittadini alla giustizia ed efficienza del sistema. Sul sottile e complicatissimo algoritmo che regola la sintesi fra i due obiettivi si gioca l’intera riforma del processo, e non solo di quello civile. Anzi, nell’equilibrio fra effettività della tutela e celerità della risposta si coglie l’intero dilemma della giustizia al tempo del Pnrr. La guardasigilli Marta Cartabia si è sforzata di raggiungere quell’equilibrio. In alcuni casi, l’esito della riforma civile, che proprio domani dovrebbe approdare alla Camera per l’approvazione definitiva, è consistito in interventi sul rito - in particolare sulla fase introduttiva - che hanno sfidato i limiti del parossismo, nel loro tentativo di costringere i tempi attraverso vincoli alle parti e agli avvocati. Ma su altri versanti il ddl che più di tutti, forse, suscita l’apprensione dell’Ue, promette di ottenere alcuni risultati notevoli. E il discorso vale in particolare per le soluzioni alternative delle controversie. Nella riforma si compie uno sforzo anche economico per potenziarne l’effetto. È vero che tale beneficio, a guardare la forma assunta dal ddl dopo i decisivi emendamenti Cartabia introdotti al Senato, si concentrano in modo preponderante sulla mediazione, civile e commerciale, e assai meno su altri strumenti. Ma è anche vero che l’idea di “risolvere la controversia attraverso un accordo”, per citare la relazione tecnica con cui il governo illustra i ricordati emendamenti, è un principio che meglio di qualunque altro coniuga lo sforzo efficientista con il rilievo della funzione svolta dall’avvocato. Basta citare un altro passaggio della relazione tecnica, nella parte relativa appunto al rafforzamento degli incentivi fiscali alla mediazione: si punta a “realizzare da un lato l’obiettivo di una più ampia adesione alle procedure stragiudiziali da parte dei singoli interessati ed in particolare all’istituto della mediazione sia come mezzo obbligatorio che preventivo di deflazione del contenzioso, e dall’altro”, scrive il governo, a “garantire sia una risposta della giustizia che consenta un effettivo accesso al sistema sia un potenziamento di tale strumento, che svolga una funzione di filtro per la risoluzione delle controversie, con positivi effetti sulla celerità e sulla certezza del diritto”. In pratica il discorso è: la risposta di giustizia deve tenere insieme esigenze diverse, quelle del cittadino e quelle della “macchina”, anche a costo di filtrare l’accesso alla causa civile vera e propria, perché solo in base a una logica del genere riduciamo il contenzioso e velocizziamo il sistema. Non che il discorso sia sgradevole. È solo privo di un accenno che invece l’avvocatura, nelle sue componenti più favorevoli alle Adr, non manca mai di enfatizzare: comporre i conflitti con un accordo è in sé motivo di una buona giustizia, non a caso possibile in virtù del supporto tecnico del difensore. Conciliare insomma, per l’avvocato, è strumento di civiltà e di coesione civile. Dal punto di vista dello Stato, almeno del governo attuale, conciliare è invece soprattutto un’opportunità di sveltire la macchina. Da punti di vista assai diversi si converge sullo stesso obiettivo. È forse lo snodo della riforma civile che meglio realizza questo piccolo miracolo. Si può dire che il governo, e il ministero della Giustizia, abbiano manifestato un radicale cambio di prospettiva sulla necessità delle Adr? Sì ma entro certi limiti. Lo si può rilevare da qualche contraddizione nel piano della riforma, in cui alle Adr è riservato l’articolo 2. Da una parte si contano numerosi interventi per incoraggiare il ricorso alla mediazione: per esempio, l’incremento dell’esenzione dall’imposta di registro, che da solo vale circa 3 milioni di euro, o un credito d’imposta esteso al compenso degli avvocati, (oltre che agli organismi di mediazione) con un tetto innalzato dai 500 a 600 euro. C’è una filosofia chiara in altre sfumature della riforma, per esempio l’ulteriore credito d’imposta introdotto in relazione al contributo unificato ma concesso solo se si verifica l’effettiva estinzione del giudizio. E ancora si potrebbe citare l’allargamento del patrocinio a spese dello Stato alle stesse procedure di mediazione e di negoziazione assistita, sempre attraverso un credito d’imposta, che in questo caso va a compensare il mancato introito per l’organismo. Però, a fronte di tutto questo, si prefigura un monitoraggio sulla sostenibilità complessiva degli interventi (il solo credito per la mediazione comporta un maggior costo di 39 milioni di euro annui) con una curiosa “norma di chiusura”: qualora si verifichi uno scostamento finanziario rispetto alle previsioni di spesa si rimedia con un incremento del contributo unificato. Come a dire: lo Stato è sì disposto ad avvicinare i cittadini alla giustizia attraverso il maggior uso delle Adr, ma solo perché nel complesso la partita dovrebbe essere economicamente vantaggiosa; se non fosse così, il principio dell’accesso facilitato alla giustizia verrebbe subito rinnegato, con l’innalzamento di quella barriera economica, il contributo unificato, già oggetto del maldestro intervento in legge di Bilancio”. Sono luci alterne ad ombre. Di continuo. Si pensi a un altro dei passaggi controversi della riforma, già ben radicato nel testo Bonafede: l’utilizzabilità nel successivo giudizio delle prove raccolte in fase di negoziazione assistita. In apparenza, un modo per esaltare la funzione dell’avvocato quale figura in grado di sussumere il servizio giustizia. Dopodiché, negli emendamenti conclusivi è scomparsa la previsione del maggior compenso, fino al 30 per cento, che sarebbe spettato al difensore per il risparmio concesso al giudice su quell’istruttoria. Norma dunque in parte svuotata, certamente indebolita, con un cinismo che un po’ tradisce le buone intenzioni. Eppure s’intravede in altre sfumature la ricezione di una cultura dei riti alternativi tipica dell’avvocatura. Un esempio è il peso accordato, nel “rinnovato” articolo 2 del ddl civile, agli artefici materiali della mediazione, e in particolare alla solidità del loro percorso formativo: si prevede che la durata della formazione, per i mediatori, debba aumentare, e che vadano ampliati “i criteri di idoneità per l’accreditamento dei formatori teorici e pratici”. Si scorge dunque la consapevolezza del fatto che radicare nel sistema il ricorso alle soluzioni alternative richiede innanzitutto uno sforzo complessivo di crescita culturale. Se ne ricava analogo segnale dallo spazio riservato nel disegno di legge delega a un istituto particolarmente apprezzato dalle istituzioni forensi qual è la mediazione demandata dal giudice: il testo del ddl evoca esplicitamente l’incentivo “immateriale” della “stretta collaborazione fra uffici giudiziari, università, avvocatura, organismi di mediazione, enti e associazioni professionali e di categoria sul territorio”. E anche qui si attribuisce il necessario peso alla “formazione degli operatori”, innanzitutto dei magistrati. Quale può essere il giudizio conclusivo? Se ne può azzardare uno evolutivo, per così dire. Lo Stato, il governo, si inoltra con una scommessa fin troppo “calcolata” sul terreno delle Adr: gioca ma rischia poco. Eppure, grazie al fatto stesso di collaudare con più convinzione un terreno ritenuto prezioso da tanti avvocati, se ne potrebbero scoprire risorse persino sottovalutate. Fino a decidere, magari fra qualche anno, che gli investimenti per potenziare le soluzioni stragiudiziali delle controversie, se davvero se ne vorrà incrementare la diffusione, possono essere anche più coraggiosi. “Arbitrato, nella riforma uno sguardo aperto al futuro: svolta decisiva sulle misure cautelari” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 22 novembre 2021 Francesca Sorbi: “Valorizzare la funzione dell’arbitro significa offrire un’ulteriore affermazione del ruolo centrale che spetta alla professione forense”. La risoluzione stragiudiziale delle controversie è un obiettivo ambizioso per una giustizia vicina ai cittadini e in grado di valorizzare al meglio il ruolo dell’avvocato. Gli interventi che si sono susseguiti nel corso degli anni e che sono in cantiere - si pensi al disegno di legge delega per la riforma del processo civile - vanno nella direzione di una valorizzazione del lavoro delle Camere arbitrali forensi con l’utilizzo di strumenti sempre più adeguati. La centralità dell’arbitrato - Il testo delle proposte in materia di arbitrato della “Commissione Luiso” sottolinea la centralità dell’arbitrato stesso con l’obiettivo di un potenziamento delle sue specifiche prerogative al fine di deflazionare il contenzioso giurisdizionale. Di qui l’esigenza di un rafforzamento della imparzialità del giudice arbitrale. Una figura di garanzia dalla quale deriva un sistema di trasparenza e dalla quale possono trarne tutti beneficio. La relazione della “Commissione Luiso” stabilisce, a questo proposito, che in capo agli arbitri designati è attribuito “un generale obbligo di rivelazione di tutte le circostanze di fatto (quali, in via esemplificativa, la presenza di eventuali legami o relazioni con le parti o i loro difensori) che potrebbero minare la garanzia dell’imparzialità anche soltanto nella percezione delle parti stesse”. Stiamo parlando del cosiddetto Duty of disclosure, contemplato a livello normativo già da altri ordinamenti e nei sistemi giuridici di Common law. Il dibattito e le conseguenti proposte in materia di arbitrato intendono soddisfare esigenze precise. Spiccano il rispetto e il rafforzamento dei valori di terzietà e imparzialità in capo alla giustizia arbitrale. Altro aspetto di non poco conto è quello di creare fiducia nell’istituto tra i potenziali fruitori e tra i soggetti che intendono ricorrere alla giustizia arbitrale. Il dibattito nell’avvocatura è aperto e ci si interroga sulle prospettive future. Arbitrato, parla Francesca Sorbi - Sulla figura dell’arbitro abbiamo parlato con Francesca Sorbi, consigliera del Cnf e vicepresidente della Fondazione dell’Avvocatura italiana. “Nel disegno di legge delega per la riforma del processo civile - dice l’avvocata Sorbi - troviamo una apertura verso un arbitrato capace di risposte immediate, aperto alle possibilità di interventi endoprocessuali, che potrebbero in effetti rendere più fluido l’intervento del Giudice privato. Mi riferisco alla possibilità di emettere provvedimenti cautelari. Il potere di emanare misure cautelari è un segnale di grande apertura verso un più ampio ricorso a questo strumento di giurisdizione, che raccoglie un’esperienza positiva della Camera arbitrale di Milano, sicuramente un organismo capace di competere a livello internazionale”. “Si tratta anche di una valorizzazione del ruolo dell’arbitro, che per vocazione è ricoperto dall’avvocato. In questo senso avremo una ulteriore affermazione della importanza della funzione del libero professionista forense, attraverso un’altra declinazione della giurisdizione che lo stesso professionista può gestire, direttamente con gli arbitrati ad hoc o meglio ancora ovvero attraverso un ente che amministra la procedura, come una Camera Arbitrale Forense”. Gli elementi innovativi dell’arbitrato - All’orizzonte si intravede una giurisdizione versatile; si tratta di un elemento innovativo. “Altro aspetto molto rilevante nella legge delega - evidenzia la consigliera del Cnf - è la previsione del passaggio tra giudizio arbitrale e giudizio ordinario e viceversa. Si tratta di una ulteriore apertura verso una maggiore duttilità nella scelta della giurisdizione. Una implementazione ulteriore, pensata in passato ma mai attuata, potrebbe consentire alle Camere Arbitrali forensi l’emissione di provvedimenti di ingiunzione di pagamento, riservando alla giurisdizione della stessa Camera l’eventuale giudizio di opposizione, nell’accordo delle parti”. Per i suoi costi, attorno all’arbitrato è stato costruito il cliché di una “giustizia per ricchi” in grado di soddisfare l’esigenza di sottrarsi alla giurisdizione ordinaria, ai suoi tempi ma anche alla aleatorietà di trovarsi davanti ad un giudice non adeguatamente preparato per risolvere il caso. Situazioni insostenibili per chi opera nel campo finanziario ed imprenditoriale, dove l’esigenza di una rapida definizione di una controversia prevale spesso anche sul buon esito della stessa. Il falso problema dei costi - “Quello dei costi - conclude Sorbi - è spesso un falso problema: quanto costa una causa sino al giudizio di Cassazione, considerando onorari, spese legali e contributi unificati vari? L’apertura verso una giurisdizione, chiamiamola così, privata non deve essere pensata come al ricorso ad una giustizia per ricchi. Possono essere previste regole che stabiliscono i compensi e incentivi fiscali anche per chi ricorre all’arbitrato. Quello su cui occorre riflettere è che se nel giudizio ordinario l’impegno per assicurare qualità può essere profuso dal difensore per quanto lo concerne personalmente, nell’ambito dell’arbitrato, specialmente quello amministrato dalle Camere Forensi, la qualità della prestazione diviene un impegno di cui l’avvocatura si fa carico per tutti i ruoli e le funzioni dell’intero giudizio arbitrale, non solo riguardo i difensori ma anche il giudice ed i servizi a supporto del procedimento”. Perché è proibito conoscere i dati delle Procure: renderli noti provocherebbe un terremoto di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 22 novembre 2021 Fa molto bene l’onorevole Enrico Costa a chiedere con ripetute interrogazioni parlamentari accesso ai dati statistici sulla amministrazione della giustizia; ma non li avrà. Non tutti, almeno, non quelli che ha chiesto. I penalisti italiani sono da sempre persuasi della centralità di questo tema. Impossibile discutere in modo serio e non ideologico di amministrazione della giustizia, di durata dei processi, di uso o abuso della custodia cautelare, di efficacia delle indagini, senza accesso alle statistiche dei vari uffici giudiziari. Perché dovete sapere che questo accesso è tutt’ora precluso a noi cittadini e allo stesso Parlamento. Conosciamo solo i dati che i detentori degli stessi -cioè Procure, Tribunali, Corti- decidono di rendere noti. Cosa che di norma avviene nel corso delle famose cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario. Vi dico di più: nemmeno il Dipartimento Statistiche del Ministero li possiede tutti, almeno fino a quando i sistemi di archiviazione non saranno unificati e centralizzati. In altri termini, fino a quando il Ministero non sarà nella condizione tecnica e strutturale di acquisire i dati in via autonoma, senza doverli chiedere alle singole Procure o Corti di Appello. Che li forniscono, quando richiesti, se, quando e nella misura in cui riterranno di volerlo fare. Perciò fino a quando si tratta di dati molto generali (quante assoluzioni, quante condanne, quante prescrizioni), nulla quaestio. Ma provate a chiedere dati più specifici, più articolati, più diretti, e vi troverete a sbattere contro un muro invalicabile. Ovviamente non parliamo di dati sensibili, cioè di informazioni sui procedimenti: ci mancherebbe altro. Quella è la favoletta con la quale si giustifica l’omertà. Parliamo sempre e solo di statistiche. Faccio qualche esempio. Quante richieste di misure cautelari, personali o reali, vengono ogni anno formulate dai P.M. ai GIP, e soprattutto, in quale percentuale vengono accolte o respinte? Quante sono le richieste di intercettazioni telefoniche o ambientali avanzate dalle Procure, e in quale misura vengono accolte o respinte? Quale obiezione può seriamente opporsi a una simile, banale richiesta? Nessuna ovviamente. Puro dato statistico. Ma non c’è verso di saperlo. Eppure, basterebbero un paio di clic. Se ottenessimo risposte a richieste così banali e legittime, potremmo tutti discutere in modo più serio di terzietà del giudice (delle indagini preliminari, in questo caso); in termini generali, cioè su base nazionale, e per singolo distretto giudiziario. In tale ultimo caso creandosi la possibilità di valutare eventuali anomali discostamenti dalla media nazionale. Non parliamo poi di dati volti a ricostruire produttività e qualità professionale dei singoli giudici. Quante sentenze di quel singolo giudice sono state riformate nei gradi successivi, e con quale percentuale di scostamento dalla media nazionale? Sarebbero dati preziosi, indispensabili al momento della valutazione quadriennale di avanzamento delle singole carriere. Qui non invocheremmo, sia ben chiaro, giudizi popolari o mediatici. Dati così importanti sarebbero riservati alla valutazione degli organi preposti al giudizio di professionalità. Sarebbe senza alcun dubbio agevole costituire fascicoli informatici che raccolgano le statistiche di ciascun magistrato, in modo da rendere pertinenti ed effettivi i giudizi di professionalità. Ma non c’è verso. Si è consolidata una idea proprietaria delle statistiche giudiziarie, che invece dovrebbero essere messe a disposizione della collettività. Siamo tutti in fervida attesa della prudente ostensione di queste informazioni, selezionate e comunicate con solenne e condiscendente arbitrio in occasioni delle cerimonie annuali. Nemmeno veniamo informati dei criteri con i quali i dati vengono raccolti e selezionati. Non è affare nostro. Dodici anni fa l’Unione delle Camere Penali, d’intesa con l’Istituto Eurispes, decise di analizzare statisticamente ciò che avveniva nelle udienze di primo grado, per comprendere con oggettività le vere cause della lentezza dei processi. Bastò questo per sovvertire e definitivamente affossare la vulgata ufficiale delle troppe garanzie difensive, che si diceva causassero quei ritardi. I processi durano troppo perché i sistemi di notifica degli atti sono catastrofici; perché non si riesce a citare i testimoni; perché la Polizia giudiziaria molto spesso non risponde alla citazione per impegni dei suoi agenti; perché i fascicoli impiegano mesi o anni per migrare da un ufficio all’altro; e così via discorrendo. Altro che eccesso di garanzie! Ora abbiamo ripetuto quella ricerca, e stiamo per pubblicarla. Ma i dati sulle indagini, sull’effettivo vaglio critico degli uffici GIP rispetto alle richieste dei P.M., sugli esiti delle indagini, quelli non possiamo conoscerli. Provate a chiedervi perché, e datevi una risposta. Sensata, per cortesia. Renzi chiama, l’Anm risponde: “Attacco inaccettabile alla magistratura” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 22 novembre 2021 Dopo il duro attacco sferrato ieri dal palco della Leopolda sul caso Open, il sindacato delle toghe si schiera con i magistrati fiorentini: “Da Renzi accuse gravissime”. “Secondo un ripetuto schema, il senatore Matteo Renzi ha mosso ieri, dal palco della Leopolda, ai magistrati fiorentini che hanno concluso le indagini relative alla fondazione Open, accuse gravissime e inaccettabili, come quella di voler imbastire “un processo politico alla politica”. Sono parole che gettano discredito non solo e non tanto sui magistrati impegnati in quel procedimento ma sull’intero ordine giudiziario e che, provenendo da un autorevole esponente politico, che ha rivestito anche in passato alte cariche istituzionali, sono capaci di ingenerare disorientamento nell’opinione pubblica e di minare la fiducia dei cittadini nell’Istituzione giudiziaria”. Così in una nota la giunta esecutiva centrale dell’Anm, Associazione Nazionale Magistrati, dopo il duro attacco lanciato da Matteo Renzi alla kermesse fiorentina. “Per questa ragione - scrive l’Anm - si avverte forte l’esigenza di ribadire la necessità che, fermo il diritto di critica delle azioni della Magistratura e l’inviolabile diritto di difesa di qualunque imputato, il loro esercizio, specie ad opera di rappresentanti della Politica, sia sempre ispirato al rispetto dell’autonomia e della indipendenza della giurisdizione, capisaldi di democrazia”. Nella seconda giornata della Leopolda, il leader di Iv ha dato la propria versione sulla vicenda Open, un “processo è impressionante”, che ha impiegato “tantissime persone sottratte al loro lavoro di contrasto alla criminalità per dedicarsi al reato di finanziamento illecito alla politica”. “Hanno cercato tra le mie mutande” per un processo “politico alla politica”, ha accusato Renzi, un processo “kafkiano”, dove dovrà discutere con i magistrati - che hanno “fatto pesca a strascico”, sequestrando telefonini, iPad e computer di “gente che non c’entrava niente” - di cosa è politica e cosa non lo è. Quindi l’affondo: forse “i magistrati pensano che le correnti in politica funzionano come nella magistratura. Ma non è così. Se facessimo ciò che fa il Csm prenderemmo avvisi di garanzie per traffico di influenze. La corrente dei renziano semplicemente non esisteva”. Il Pnrr e l’anticorruzione (che non può essere una moda) di Anna Corrado Corriere della Sera, 22 novembre 2021 A dieci anni dall’approvazione della legge, occorre accelerare i provvedimenti di riforma e aggiornamento per non mettere a rischio gli interventi del Piano. Una delle preoccupazioni che accompagnano l’attuazione del Pnrr è quella di evitare che il Piano per la Resilienza possa diventare l’occasione per favorire condotte corruttive all’interno della pubblica amministrazione e che quindi parte delle risorse pubbliche vengano distratte dalle finalità di interesse pubblico cui sono destinate. Nonostante questa preoccupazione, tuttavia, non sembra che la strategia di prevenzione della corruzione abbia quella centralità che merita. Il Pnrr contemplava un disegno di legge delega di modifica della disciplina anticorruzione e della trasparenza da presentare entro giugno 2021, termine poi slittato a settembre, infine, pare finito nel dimenticatoio. Il complesso iter di riforma, pur previsto, non risulta così allineato per realizzare una efficace “sorveglianza” all’interno delle amministrazioni a presidio dei flussi di denaro provenienti dall’Europa. A distanza di circa 10 anni dalla legge 190/2012 (legge anticorruzione) la modifica della disciplina vigente sembra quanto mai necessaria per eliminare le criticità che questo lungo periodo di attuazione ha fatto emergere e che la giurisprudenza amministrativa con i suoi interventi ha comunque contribuito a rendere applicabile (esempio ne è l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sulla trasparenza n. 10/2020); modifica che renderebbe più facile l’applicazione delle varie misure di prevenzione della corruzione varate dalla legge Severino. Qualcuno, un po’ di tempo fa, aveva pronosticato che l’anticorruzione era una sorta di “moda” e, come tale, prima o poi sarebbe passata. Che si sia trattato di una moderna Cassandra? Stiamo assistendo al tramonto di una moda oppure a un fisiologico rallentamento dovuto alle numerose iniziative legislative previste proprio dal Pnrr? Certamente questo non è un Governo che sta con le mani in mano e le proposte di modifiche normative giungono copiose; risalta, quindi, ancora di più che non si sia avviata quella della prevenzione della corruzione e della trasparenza. Varare una riforma del settore significa dare al Paese un segnale importante: che la strategia di prevenzione della corruzione sta a cuore alle istituzioni e alla politica, tacitando così i pronostici più pessimisti. E se la strada individuata negli scorsi anni non fosse più condivisa si può sempre imboccarne un’altra. Una cosa è certa: per evitare la corruzione non basta il sistema penale, ma è necessario approntare e rendere credibile una strategia di prevenzione che coinvolga gli apparati amministrativi. Non è solo il ritardo con cui si sta dando attuazione a questa parte del Pnrr a preoccupare. Il Piano integrato di attività e di organizzazione (Piao) previsto dall’art. 6 del d.l. 80/2021, infatti, rischia di essere letto in questa ottica; se da una parte è certamente apprezzabile lo sforzo di semplificazione che si sta facendo eliminando o accorpando tutta una serie di piani introdotti negli ultimi 15 anni, che non hanno certamente significato una maggiore efficienza delle amministrazioni, dall’altro aver ricondotto il piano triennale di prevenzione della corruzione e della trasparenza a una “sezione” del Piao e ripristinato nei fatti il sistema binario delle competenze, eliminato nel 2014, tra Dipartimento della funzione pubblica e l’Autorità anticorruzione sembra andare nel senso di un ridimensionamento del ruolo di quest’ultima. In molti hanno considerato che il ruolo “ingombrante” dell’Anac andava rivisto. Tuttavia imboccare la strada del ridimensionamento comporta il rischio grave che le amministrazioni perdano un interlocutore istituzionale importante per il consolidamento della cultura dell’etica pubblica. L’Anac può non piacere, ma c’è ed ha compiti da svolgere; sarebbe quindi importante che mantenesse la sua credibilità; la stessa politica, che sicuramente ha contribuito con le sue scelte a ridimensionarla dovrebbe ora lavorare per preservare questa credibilità piuttosto che prenderne le distanze. Anche la mancata adozione, alla data del 30 aprile 2021, del regolamento relativo alla pubblicazione dei redditi di parte dei dirigenti amministrativi di vertice, che nei fatti lascia sospeso sine die il potere sanzionatorio dell’Anac su questo obbligo di pubblicazione, non depone bene, con in più la circostanza che risulta incerto lo stesso perimetro dell’obbligo di trasparenza riferito ai dirigenti. Nessuno soffrirà di insonnia per questo, ed è un bene, ma resta l’amarezza di constatare la scarsa attenzione verso una disciplina importante per la quale si può anche optare per l’abrogazione, che rappresenterebbe comunque - paradossalmente - un segnale di attenzione al tema. E i segnali di una “moda” che sta passando non si fermano qui. Il pensiero va anche alla direttiva sulla protezione delle persone che segnalano illeciti, i cosiddetti whistleblowing (2019/1937) il cui termine di recepimento è previsto per dicembre 2021 per tutti gli stati. Nel nostro Paese la delega per recepirla, tuttavia, è scaduta lo scorso agosto e l’iter non risulta avviato, nonostante il testo approntato tempestivamente da parte degli uffici competenti. Il whistleblowing non salverà il nostro Paese dalla corruzione, nessuno è così ingenuo da crederlo, ma certamente il segnale che sarebbe derivato dal recepimento della direttiva era e resta importante: l’anticorruzione non è una moda che l’Italia sta aspettando che passi. Torino. Il reparto della vergogna di Giuseppe Legato La Stampa, 22 novembre 2021 È un caso il settore Sestante del carcere Lorusso e Cutugno, dove sono reclusi i detenuti con problemi psichiatrici. La Garante: “È un luogo inumano e degradante. Va chiuso subito e per sempre”. Che cosa accade davvero al Sestante, sezione psichiatrica del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, padiglione A, da anni al centro di uno stuolo di denunce, ma sempre lì, funzionante e popolato di ospiti detenuti in condizioni disumane? A leggere le parole di Susanna Marietti, presidente nazionale dell’associazione Antigone, ci si trova in un “luogo vergognoso in cui si rinuncia a vite umane come se valessero niente”. Marietti va giù duro in una lunga lettera in cui elenca il resoconto di una visita di pochi giorni fa: “Celle piccole, sporche, letti in metallo scrostato attaccati al pavimento coi chiodi. Ho visto un uomo - scrive - sdraiato con la faccia per terra, al buio, bagni turchi intasati dalle feci da quattro giorni, detenuti con gli occhi a mezz’asta, incapaci anche di parlare e raccontare il proprio disagio. Luoghi indecenti - chiosa - in cui vengono ammassati corpi”. Il dato sembra ampiamente riscontrato da altri fatti. Due settimane prima della denuncia di Marietti, ci aveva pensato Monica Gallo, garante dei detenuti di Torino a scrivere al Provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Nord Ovest e all’Asl di competenza. In estrema sintesi, era un grido disperato: “Avevo chiesto che il Sestante venisse chiuso una volta per tutte”. La donna lo aveva visitato l’ultima volta 15 giorni fa. “Come posso definirlo? Un luogo inumano e degradante”. Nemmeno questa volta si è chiuso nulla, si dice perché sarebbero pronti dei lavori di ristrutturazione rinviati “enne” volte dalla lenta e quasi mai reattiva macchina burocratica dello Stato. E cosi questo settore del penitenziario torinese diviso in due articolazioni - “Osservazione” e “Trattamento” - è rimasto lì. A ospitare scempi che più voci confermano. Tre legali dell’Osservatorio carceri dell’Unione Camere penali stamattina si presenteranno in procura per depositare un esposto. Di più: “Chiederemo che il Sestante venga sequestrato come luogo in cui si consumano reati a danno dei detenuti” precisa Davide Mosso che sta lavorando alla denuncia insieme ai colleghi Alberto De Sanctis e Antonio Genovese. “La questione fondamentale è che le persone che soffrono di patologie psichiatriche non devono stare in carcere ma in un luogo di cura. Come prevede il codice” dice Mosso. E proprio di un caso del genere riferisce Marietti nella sua lettera: “Nell’ultima cella prima dell’uscita c’era un ragazzino. Avrà avuto 25 anni. Gli ho chiesto come andasse. Le lacrime hanno cominciato a scendergli dagli occhi. Mi ha detto che non capiva perché fosse lì e che aveva tanta paura tutte le notti. Mi ha pregato di farlo trasferire. Gli ho spiegato che non avevo alcun potere in questo senso, ma mi sono fatta dare il numero di telefono della mamma, che lui sapeva a memoria. Gli operatori mi hanno spiegato che erano in attesa che si liberasse un posto in una Rems, le residenze a vocazione sanitaria per l’esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche”. In definitiva: “Il ragazzo non avrebbe dovuto trovarsi lì, non c’era titolo per la sua detenzione. Sono uscita e ho chiamato la madre. Nessuno le aveva detto dove lo avessero portato”. Levata di scudi anche dalla politica. L’assessora torinese Gianna Pentenero, con delega ai Rapporti annuncia una visita in quel reparto. Parla di “situazione inaccettabile, peraltro già denunciata di recente per la quale chiedo alle autorità governative di intervenire con tempestività”. E che questo reparto sia stato - anche in un recente passato - foriero di scandali e inchieste non è un mistero. A giugno in tribunale si aprirà il processo contro tre agenti della penitenziaria accusati di omicidio colpo so per un suicidio avvenuto al Sestante. Un detenuto si tolse la vita strangolandosi con i pantaloni del pigiama. L’agonia durò 12 minuti e nessuno di coloro che avrebbe dovuto controllarlo a vista si alzò per svolgere il proprio dovere. Torino. Celle luride, detenuti al buio: incubo nel reparto psichiatrico del carcere di Federica Cravero La Repubblica, 22 novembre 2021 L’associazione Antigone: “Va chiuso”. La denuncia: nel “Sestante” condizioni invivibili. Si schiera l’assessora comunale Pentenero: “Le cure vanno garantite a tutti”. “Chiusura immediata del reparto Sestante del carcere di Torino, diamo 48 ore di tempo”, è quanto chiederà nelle prossime ore alle autorità competenti l’associazione Antigone, che da anni denuncia le condizioni di reclusione nella sezione della casa circondariale Lorusso e Cutugno in cui sono tenuti i detenuti con problemi psichiatrici. “Sono preoccupata e andrò quanto prima a visitare il reparto Sestante del carcere torinese per vedere di persona quanto denunciato dalla coordinatrice dell’associazione Antigone”, annuncia Gianna Pentenero, neo assessora del Comune di Torino, che tra le sue deleghe ha quella ai Rapporti con il sistema carcerario e che interviene il giorno dopo la lettera che Susanna Marietti ha scritto sul suo blog. “Di carceri ne ho viste tante in vita mia, in Italia e anche all’estero, ma raramente mi era capitato di assistere a quanto ho avuto modo di vedere nel capoluogo piemontese - attacca la coordinatrice di Antigone - Mi vergogno a pensare che trattiamo le persone in questo modo”. “Al Sestante - aggiunge - si trovano circa venti celle, dieci su ogni lato del corridoio. In ciascuna è reclusa una singola persona detenuta. La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con i chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno, ma non tutti, ha un piccolo cuscino di gommapiuma. Non vi è una sedia né un tavolino. Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere in posizione scomodissima. L’intera giornata viene trascorsa chiusi là dentro, senza nulla da fare e nessuno con cui parlare. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio”. Alla luce di quell’intervento, l’assessora ha dichiarato che “si tratta di una situazione inaccettabile, peraltro già denunciata di recente dalla Garante dei diritti delle persone private della libertà Monica Gallo, per la quale chiedo alle autorità governative di intervenire con tempestività e, impegnandomi personalmente, cercherò anche di capire le ragioni per cui interventi di ristrutturazione all’interno del carcere previsti e finanziati non siano stati ancora realizzati. Non si può accettare di far vivere persone in condizioni disumane e tollerare la violazione del diritto ad assistenza e cure adeguate ai malati psichiatrici. Peraltro, il diritto alla cura è sancito a chiare lettere dalla nostra Costituzione e deve essere assicurato a tutti i cittadini, senza alcuna distinzione”. Oltre alla condizione della struttura, per cui sono promessi da tempo interventi di ristrutturazione non ancora realizzati, la situazione drammatica è infatti quella del trattamento dei detenuti: “Qualcuno si è avvicinato alle sbarre al nostro passaggio - ha scritto Mainetti - Un uomo mi ha chiesto se potevo fare in modo che la turca della sua cella venisse aggiustata. Erano quattro giorni che non scaricava le sue feci, mi ha spiegato. Un altro uomo era al buio. Si è sporto dalle sbarre e mi ha detto che avrebbe voluto un po’ di luce. Il poliziotto che era con me, un po’ imbarazzato, gli ha detto di accenderla con l’interruttore interno, che sicuramente avrebbe funzionato. Ma lui ha detto di no, mancava proprio la lampadina. Effettivamente la luce non si accendeva. Non so da quanti giorni quel signore fosse al buio dalle quattro e mezza di pomeriggio fino all’alba del giorno dopo”. Il racconto che l’esponente di Antigone fa, simile a quello che negli anni si è ripetuto senza che nulla cambiasse, è da togliere il fiato. “Un giovane uomo si teneva a stento in piedi sulle gambe. Aveva un filo di bava che gli colava sulla blusa. Gli occhi semichiusi, come se stesse per addormentarsi in piedi da un momento all’altro. Ha tentato di pronunciare qualche parola rivolto a me che mi ero fermata lì davanti. Faceva fatica ad articolare i suoni. Ha balbettato la parola ‘avvocato’. Mi è stato spiegato che l’uomo era a Torino per un periodo di 30 giorni di osservazione psichiatrica, mandato lì da un altro istituto. Non so cosa si possa osservare e diagnosticare in un uomo imbottito di farmaci fino al punto da non riuscire a parlare e a reggersi in piedi”. E ancora: “Nell’ultima cella prima dell’uscita c’era un ragazzino. Avrà avuto 25 anni. Gli ho chiesto come andasse. Le lacrime hanno cominciato a scendergli dagli occhi. Mi ha detto che non capiva perché fosse lì, che gli mancava sua madre e che aveva tanta paura tutte le notti. Mi ha pregato di farlo trasferire. Gli operatori mi hanno spiegato che erano in attesa che si liberasse un posto in una Rems, le residenze a vocazione sanitaria per l’esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche. Il ragazzo non avrebbe dovuto trovarsi lì, non c’era titolo per la sua detenzione. Sono uscita e ho chiamato la madre. Era contenta che almeno qualcuno avesse visto suo figlio. Lei non ci era riuscita, nessuno le aveva detto dove lo avessero portato. Adesso si apprestava a recarsi a Torino”. La direttrice del carcere, prosegue il racconto, “ci ha detto che lei ha la coscienza a posto perché ha scritto varie lettere al proposito e attende interventi. Certo, da sola non può fare molto. Ma qualcosa forse sì. Come qualcosa può fare la gestione sanitaria della sezione. Come qualcosa possiamo fare noi: far conoscere l’indecenza di questi posti, dove gli esseri umani sono privati di ogni dignità, trattati come corpi ammassati. Dove si rinuncia a vite umane come se fossero niente”. E ancora: “Mi rivolgo alle autorità centrali che non sempre conoscono la periferia penitenziaria, mi rivolgo ai tanti dirigenti attenti e democratici che fanno con passione il proprio lavoro. Mi rivolgo agli operatori dell’informazione, che possono chiedere all’ufficio stampa del Ministero della Giustizia di essere autorizzati a entrare al reparto Sestante del carcere di Torino per raccontare fuori quel che troveranno dentro. Mi rivolgo a tutti loro: non credetemi, andate a vedere”. Trieste. Detenuti a quota 200 nel carcere del Coroneo: “Stop a nuovi ingressi” di Laura Tonero Il Piccolo, 22 novembre 2021 I sindacati: la decisione è stata presa per l’impossibilità di garantire le quarantene obbligatorie causa mancanza di spazi. La capienza regolare sarebbe di 138 unità. Il tasso di affollamento del Coroneo ha raggiunto negli ultimi mesi livelli estremamente elevati, con un numero di presenze che a fine settembre ha toccato quota 206 e a fine ottobre 204. Una situazione critica, che complica la gestione delle quarantene obbligatorie per i nuovi ingressi. In questi giorni i detenuti si sono ridotti di alcune unità, ma la situazione resta emergenziale a fronte di una capienza regolare che non dovrebbe superare le 138 presenze. Lo stop agli ingressi - Una soglia, quella dei 200 detenuti, già oltrepassata alla “Ernesto Mari” anche in passato, ma che assume contorni molto più gravi in periodo di pandemia. La direzione del carcere - fanno sapere i sindacati - nei giorni scorsi ha dovuto chiedere di fermare i nuovi ingressi. “Non c’erano più posti per far espletare le quarantene - denuncia il segretario regionale del Sappe, Giovanni Altomare - visto che per ogni nuovo ingresso vanno ricavati spazi diversi dove separare la persona per alcuni giorni dal resto della comunità carceraria”. La situazione - In questo momento alla “Ernesto Mari” non si evidenziano casi di positività al Sars-Cov-2. Ma l’aumento dei contagi in regione e i tanti ingressi fanno alzare il livello di guardia. Tornando ai dati, e ricordando come il Friuli Venezia Giulia risulti a livello nazionale la regione con il più alto tasso di affollamento delle carceri, un anno fa nella casa circondariale triestina si contavano 177 detenuti. Le presenze si sono successivamente ridotte nei mesi, fino a registrare un nuovo incremento lo scorso agosto con 190, salite poi oltre quota 200 nei mesi successivi. Al 31 ottobre scorso, a fronte, come accennato, di 204 detenuti, 24 erano donne e 132 erano di origine straniera. E sono proprio i nuovi ingressi di cittadini stranieri ad aver inciso in maniera determinante nella crescita del numero dei detenuti: un anno fa tra quelle celle gli stranieri erano 91, oggi invece sono appunto 132. I sindacati - “Si sono registrati anche diversi ingressi di persone fermate al confine, che devono scontare mesi o anni di carcere”, specifica la segretaria regionale Sippe Federica D’Amore. Spesso infatti le forze dell’ordine danno notizia di aver rintracciato al confine, mentre probabilmente tentano di fuggire ad Est, cittadini destinatari di un ordine di carcerazione. “Una percentuale di sovraffollamento come quella registrata negli ultimi mesi significa condizioni peggiori per i detenuti e un sovraccarico di lavoro per la polizia penitenziaria”, testimonia D’Amore. “Malgrado alcune ristrutturazioni interne avvenute negli anni - aggiunge - non si è mai provveduto a creare nuovi spazi per la socialità, per il lavoro, e nonostante gli sforzi di chi si occupa della formazione e delle attività di queste persone, la maggior parte dei detenuti ozia tutto il giorno”. “In spazi così contingentati - sottolinea Altomare - con celle anche da 8 persone con un unico servizio igienico, è difficile gestire tensioni, prevenire risse”. Senza contare che il Coroneo, più di altre carceri, è una babele di lingue, un ginepraio di convivenze: serbi con afgani, tunisini con algerini, italiani con romeni, kosovari piuttosto che pakistani. “Inoltre - aggiunge Altomare - con un numero ridotto di figure professionali come gli educatori, c’è un ritardo anche sulle relazioni di sintesi e comportamentali utili alla magistratura di sorveglianza per valutare eventuali misure alternative”. L’auspicio - I sindacati mettono in evidenza l’esigenza “che dopo anni il Coroneo possa avere un direttore stabile, con cui avviare una programmazione a medio termine”. Dal 2012, dalla fine dell’era di Enrico Sbriglia - il direttore che per 22 anni aveva guidato la struttura - la casa circondariale triestina ha assistito ad un costante balletto di direttori costretti a dividersi tra due, tre realtà carcerarie. L’attuale, Paolo Bernardo Ponzetta, ad esempio, si divide tra la “Ernesto Mari” e il carcere di Padova, ma non è escluso che a inizio 2022 venga designato alla casa circondariale triestina un direttore titolare, in pianta stabile. Pisa. Carcere Don Bosco, richiesta audizione urgente del Garante e delle associazioni unacittaincomune.it, 22 novembre 2021 Alberto Marchesi, il Garante dei diritti detenuti presso la Casa Circondariale Don Bosco, è tornato in questi giorni ad evidenziare le critiche condizioni della vita carceraria e l’acuirsi dei problemi storici dell’istituto durante l’emergenza sanitaria Ha parlato del carcere come di un luogo in cui i diritti costituzionali sono “se non sospesi, quantomeno affievoliti” a causa del persistente sovraffollamento, delle condizioni fatiscenti dell’edificio e delle limitazioni al contatto con l’esterno. Il nodo centrale, ha ribadito ancora una volta il Garante, sta nelle criticità di accesso alle misure alternative alla detenzione, e questo avviene perchè non sono sufficientemente garantiti i percorsi di cura, di riabilitazione, di inclusione sociale. Competenze queste, dei servizi sociosanitari territoriali e del Comune, che da tempo ha rinunciato a garantire prestazioni essenziali ed interventi di propria competenza. Il Consiglio comunale sia nel 2014 che nel 2017 aveva approvato mozioni e atti di indirizzo estremamente articolati in cui l’amministrazione Comunale si impegnava ad adottare misure per rendere meno drammatica la detenzione e per facilitare l’uscita e l’inserimento sociale delle persone detenute. Abbiamo ripresentato un nuovo ordine del giorno nell’ottobre del 2020, in cui si chiede che il Comune garantisca l’accesso alle cure dei detenuti stranieri, il potenziamento della presa in carico dei tossicodipendenti, i progetti di inclusione lavorativa, l’accesso all’anagrafe, la mediazione culturale: nulla è stato fatto e nulla sembra essere stato programmato, anche nel corso di questa consiliatura. Ancora una volta assistiamo al totale disinteresse nei confronti della situazione carceraria, carcere che è parte della nostra città e non una struttura avulsa. Questo non è accettabile. Per questo abbiamo depositato la richiesta di una audizione urgente in Seconda Commissione consiliare permanente del Garante dei diritti detenuti e delle associazioni che svolgono attività di volontariato nella Casa Circondariale Don Bosco. Sottoscrivono: Diritti in comune: Una città in comune - Rifondazione Comunista - Pisa Possibile Macerata. Dalla Liberilibri 1.700 volumi per i detenuti delle carceri marchigiane di Chiara Sentimenti centropagina.it, 22 novembre 2021 Il progetto è stato concretizzato dalla casa editrice con il supporto del garante Giancarlo Giulianelli. “È importante per una realtà come la nostra, da sempre in prima linea sui temi della giustizia, portare cultura all’interno delle carceri”. Sono 1.700 i volumi donati dalla casa editrice “Liberilibri” di Macerata alle carceri della regione. Un progetto di crescita e formazione che si è concretizzato grazie all’aiuto del garante regionale dei diritti della persona, l’avvocato Giancarlo Giulianelli, anche lui maceratese, che ha provveduto ad attivare i contatti con le strutture carcerarie. “Si tratta di un progetto venuto fuori da sé, da una semplice chiacchierata - racconta Michele Silenzi, direttore editoriale della casa editrice “Liberilibri” - e che segue quanto avevamo già fatto nel 2018, quando la casa editrice aveva donato oltre 800 volumi alle carceri della Campania, anche grazie al supporto di Radio Radicale. Proprio parlando con Giulianelli di questa idea, ci ha detto se potesse essere replicata nelle Marche e, visto che si tratta di una cosa che avremmo sempre voluto fare, ci siamo immediatamente attivati”. Un percorso che si inserisce perfettamente anche in quello che è il catalogo della casa editrice, in cui circa un 10% delle pubblicazioni è dedicata alla giustizia. La “Liberilibri”, nata a Macerata nel 1986 per iniziativa di Aldo Canovari e Carlo Cingolani, infatti, incentra il suo lavoro su sei collane: “Oche del Campidoglio”, il “Monitore Costituzionale”, il “Circo, narrativa”, “Altrove” e “Hic sunt leones”. Proprio la prima collana raccoglie opere di ogni tempo che rappresentano contributi rilevanti per il faticoso cammino delle libertà dell’individuo e prevede altri tre filoni in corso di coltivazione: il percorso storico delle libertà individuali: il pensiero libertario, dal preilluminismo al liberalismo radicale, all’anarco-capitalismo contemporaneo; gli orizzonti di incontro fra pensiero liberale e pensiero cattolico; i problemi della giustizia (autonomia/autocrazia della magistratura e sua politicizzazione): le inciviltà giuridiche del nostro Paese. “Pensiamo sia importante per una casa editrice come la nostra, da sempre in prima linea sui temi della giustizia, della pena, della carcerazione, portare cultura all’interno delle carceri - conclude Silenzi. Non si tratta solo di libri correlati alla giustizia, ma di ogni tipo, dalla narrativa al teatro, a materie più strettamente giuridiche. Pensiamo sia giusto dare l’opportunità a tutti i detenuti, che sentano l’esigenza e che abbiano la voglia di utilizzare il tempo che debbono trascorrere in prigione, per poter approfondire determinati temi o per fare cultura nel modo che ritengono più opportuno. Inoltre vorremmo attirare l’attenzione sul tema delle carceri in sé”. Messina. I detenuti tornano sui libri, da Gazzi 8 studenti per l’Università di Alessandra Mammoliti normanno.com, 22 novembre 2021 È un dato positivo quello riportato dall’Università di Messina che parla di una voglia degli studenti detenuti a Gazzi di continuare a studiare. Positivo perché il progetto dei Poli Universitari Penitenziari di Messina è partito a marzo 2021 (quindi relativamente da poco) e perché studiare durante una detenzione, ai nostri occhi, appare come una voglia di riabilitarsi nel modo più bello che ci sia: imparare. Attualmente sono 8 i detenuti della Casa Circondariale Messina Gazzi che diventeranno nuovi studenti dell’Università di Messina e “il numero è destinato a salire”. L’Ateneo assicurerà quindi adeguata assistenza didattica (compresi gli esami di profitto), agevolazioni per il recupero degli Obblighi Formativi Aggiuntivi e possibilità di seguire le lezioni a distanza. L’accordo per realizzare i Poli Universitari Penitenziari a Messina nasce tra l’UniMe, il Garante, il Provveditorato e la Regione Siciliana con l’obiettivo di incentivare e accrescere il ventaglio delle opportunità in favorire del diritto allo studio dei detenuti nonché di quello allo sviluppo di programmi didattici all’interno delle carceri. Un’altra importante novità è anche l’esonero dalle tasse universitarie per gli studenti detenuti UniMe. Anche questa iniziativa rientra all’interno dell’Accordo Quadro per consentire ai detenuti delle Case Circondariali e degli Istituti di pena il conseguimento di titoli di studio di livello universitario e per stimolarli ad affrontare un percorso formativo utile alla riabilitazione psico-sociale. Nello specifico, l’esonero delle tasse è stato proposta dalla professoressa Anna Maria Citrigno, ricercatrice di Istituzioni di Diritto Pubblico al Dipartimento di Scienze Politiche e Giuridiche e referente dell’Ateneo peloritano per gli studenti detenuti per ciò che concerne le attività inerenti alla collaborazione fra le Università regionali e gli Istituti penitenziari. In Italia, secondo i dati forniti dalla Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i Poli universitari penitenziari (Cnupp), sono 82 gli istituti penitenziari in cui viene garantita l’istruzione universitaria, con la collaborazione di 37 Atenei (comprese le università siciliane). Nel 2019-20 risultano 920 gli studenti-detenuti iscritti ad un corso universitario. Per il 55,8% per cento si tratta di detenuti in regime di media sicurezza (delinquenza comune), per il 33,6% di alta sicurezza, per l’4,4% di detenuti al 41 bis, per il 5,9% in esecuzione penale esterna. Solo il 4,1% degli studenti universitari detenuti è rappresentato da donne. La strada per l’Europa passa anche dalle aule dei tribunali di Gianluca Varraso* Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2021 Non siamo più solo italiani, siamo cittadini dell’Ue. E anche la procedura penale si adegua al processo di europeizzazione in corso. Un libro spiega come. L’approccio allo studio della materia penale sostanziale e processuale è profondamente mutato negli anni con il mutare delle caratteristiche stesse del fenomeno criminale e degli obblighi che derivano all’Italia dalla sua appartenenza al Consiglio d’Europa e all’Unione europea. La criminalità, soprattutto se “organizzata”, assume sempre di più carattere transnazionale e impone di andare anche all’estero per l’accertamento dei reati. In stretta connessione, diventa indispensabile che la cooperazione giudiziaria e di polizia tra gli Stati diventi più efficace e di comune utilizzo, nel rispetto sempre dei diritti fondamentali sanciti dalle Carte internazionali. Il volume in questione - In questo contesto, il volume curato da Massimo Ceresa Gastaldo e Simone Lonati dal titolo “Profili di procedura penale europea”, edito con la casa editrice Giuffrè, sviluppa un’indagine a più voci, realizzando la premessa anche pratica per uno studio a tutto tondo della materia: contribuire, con una indagine sempre puntuale e concreta, a diffondere non solo tra gli addetti ai lavori i principi del diritto processuale penale europeo. Ampio spazio è così dedicato agli arresti della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di Giustizia dell’Unione europea, con il raffronto costante delle garanzie del modello europeo con le garanzie interne, nell’ottica di un adeguamento di quest’ultimo, nel rispetto parimenti importante dei principi costituzionali. Si tratta di una prospettiva di rinnovato interesse a fronte della prossima attuazione delle deleghe per la riforma del processo penale contenute nella c.d. riforma Cartabia (l. 27 settembre 2021, n. 134), con la quale si tenta (per l’ennesima volta) di favorire la ragionevole durata del processo in un’ottica auspicabile di rispetto delle garanzie individuali. L’analisi contenuta nel libro prende le mosse proprio da tale ultima ispirazione di fondo con l’approfondimento sulle fonti della materia affrontata e del sistema di protezione giurisdizionale dei diritti fondamentali dell’uomo, sia davanti alla Corte europea di Strasburgo che dinanzi alla Corte del Lussemburgo. Il diritto a un equo processo - Ampio risalto è così dato al diritto all’equo processo, in tutte le sue componenti: in particolare, l’indipendenza e l’imparzialità del giudice penale, la presunzione di innocenza dell’imputato, il diritto di difesa e il confronto con l’accusatore. Sono così identificati gli argini imposti dall’Europa alle tentazioni - ricorrenti nel dibattito interno - di compressione delle garanzie processuali della persona accusata di un reato in nome di esigenze efficientistiche, spesso ispirate al populismo giudiziario. Con una condivisibile scelta di metodo, il volume si sofferma anche su ambiti di confine con il diritto penale sostanziale o con il diritto amministrativo. L’impostazione è coerente con la nozione autonoma di materia penale elaborata dalle Corti europee, che include istituti formalmente estranei al diritto penale interno, ma che incidono anch’essi in profondità sui diritti della persona, quali le misure di prevenzione. Il senso della pena e la sua esecuzione - Non manca, in un libro che si contraddistingue per la sua completezza, la necessaria attenzione ai profili attinenti alla pena e alla sua esecuzione. Si coglie così come sia ancora lungo in Italia il cammino per la piena realizzazione della finalità rieducativa che la pena stessa deve avere alla luce dell’art. 27 comma 3 della Costituzione, a fronte in particolare di una popolazione carceraria che presenta numeri troppo elevati. La centralità stessa del carcere va superata per dare una svolta in tale direzione, come si ricava ancora troppo timidamente ma con prime aperture importanti sempre dalla “riforma Cartabia”, soprattutto in tema di criteri delega per l’introduzione di una più ampia giustizia riparativa. La vittima del reato e i suoi bisogni - Ultima, ma non per importanza, è la parte del volume dedicata alla vittima del reato e dei suoi bisogni di tutela. La figura - tradizionalmente trascurata dal diritto processuale interno - è infatti al centro di una rinnovata centralità della legislazione e della giurisprudenza europea. Il che ha imposto, negli ultimi anni, un adeguamento del nostro ordinamento, non senza delicati problemi di bilanciamento con le garanzie dell’accusato del reato. È certo che la chiarezza dell’esposizione e l’attenzione al dato giurisprudenziale rendono il libro adatto sia allo studio universitario sia all’aggiornamento professionale, ma soprattutto a diffondere una cultura vera e non di facciata dei diritti fondamentali dell’uomo. *Professore ordinario di procedura penale, Università Cattolica di Milano Il clima e i diritti: difendere le società aperte di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 22 novembre 2021 Nonostante le responsabilità della Cina, i “potenti della Terra” con cui prendersela saranno soprattutto i “potenti” (i governi) occidentali. Quanto più si diffonde la credenza nel disastro incombente, tanto più il capitalismo (occidentale) può essere messo in difficoltà. Spenti i riflettori su Cop26, sull’incontro di Glasgow, nonché sulle manifestazioni guidate da Greta Thunberg che lo hanno accompagnato, forse vale la pena di farsi un paio di domande. Nonostante l’intesa a sorpresa sul clima fra Stati Uniti e Cina (che però sembra essere solo una mossa in una più complicata partita a scacchi fra i due Paesi), resta che la contrarietà del più grande inquinatore attuale del Pianeta, la Cina, ad accordi stringenti sull’energia sporca, è stata determinante. Più ancora di quella dell’India che ha manifestato apertamente la sua ostilità (per ragioni, in verità, comprensibili) a una troppo rapida rinuncia all’uso del carbone. Come mai non si vedono in giro per il mondo attivisti dell’ambiente incatenati di fronte alle ambasciate cinesi? Come mai la Cina non è diventata il loro nemico principale? Un’altra domanda è la seguente: a Glasgow c’erano attivisti arrivati da tante parti del mondo ma c’è da scommettere che quelli con in tasca il passaporto della Repubblica popolare cinese fossero pochini. E forse nessuno. Come mai? La prima domanda obbliga a distinguere fra le genuine preoccupazioni per i cambiamenti climatici e quelle di altra natura. La seconda domanda dovrebbe incoraggiare gli attivisti dell’ambiente a riconoscere che non siamo tutti uguali, che ci sono, fra i vari Paesi coinvolti, differenze politiche radicali e che quelle differenze non saranno ininfluenti sulle future scelte dei governi. Anche in materia di contrasto ai cambiamenti climatici. La risposta alla prima domanda non è difficile. Nel movimento ambientalista convivono, visibilmente, due orientamenti. Il primo è di coloro il cui unico genuino interesse è bloccare il cambiamento climatico. È certamente l’orientamento di molti attivisti. Ed è anche quello che riscuote le simpatie di un più vasto pubblico occidentale che ne condivide le preoccupazioni. Ma c’è anche, altrettanto visibile, un altro orientamento che potremmo ribattezzare “anticapitalismo con tutti i mezzi”. È l’orientamento di coloro che sono interessati soprattutto a combattere il capitalismo identificato con la società occidentale. Un tempo questa corrente animava i movimenti comunisti. Oggi che il comunismo è un’utopia usurata, inservibile, il nuovo veicolo è la lotta al cambiamento climatico. Non è stato forse il capitalismo occidentale, negli ultimi secoli, ad avere violentato l’ambiente? E dunque lottare contro i cambiamenti climatici e contro il capitalismo in versione occidentale non sono forse la stessa cosa? Ecco perché la Cina non può diventare il nemico principale. Sarebbe in conflitto con la narrazione, forse non dominante ma certo molto diffusa nel mondo ambientalista. Sposterebbe l’attenzione dal “vero” nemico. Il quale, oltre a tutto, è molto più influenzabile della Cina. Fin quando i due orientamenti continueranno a convivere, i “potenti della Terra” con cui prendersela saranno soprattutto i “potenti” (i governi) occidentali. Qualunque cosa raccontino le evidenze empiriche (per esempio, quelle che indicano l’avvenuta riduzione, nel corso del tempo, degli effetti inquinanti dell’attività industriale in Europa). Ecco perché il saggio discorso dell’ex Presidente Obama sulla complessità dei problemi e sulla necessaria gradualità della risposta da dare, è stato respinto al mittente. È una delle due ragioni per le quali le previsioni apocalittiche prevalgono necessariamente sulle analisi pacate e prudenti: quanto più si diffonde la credenza nel disastro incombente, tanto più il capitalismo (occidentale) può essere messo in difficoltà. L’altra ragione, più generale, è che le utopie millenariste (l’attesa di un futuro radicalmente diverso dal presente) sono il sale e il motore di tutti i movimenti collettivi. Il secondo aspetto, collegato al primo, è rappresentato dalla sottovalutazione delle differenze che corrono fra le società aperte e democratiche occidentali e le società chiuse e autocratiche. Come ha osservato Federico Rampini (Corriere, 14 novembre) non può esistere una Greta cinese. Per la semplice ragione che se un dissidente (a qualunque titolo) solleva il capo da quelle parti, glielo tagliano immediatamente. Ne discendono due conseguenze. La prima è che i movimenti ambientalisti possono fare sentire la loro voce soprattutto, o solo, in Occidente. La seconda è che, essendo quelle occidentali società aperte e nelle quali i governi devono rispondere dei loro atti alle opinioni pubbliche, saranno esse, nei prossimi anni, causa l’avvenuta diffusione delle preoccupazioni sul clima in queste società, a mettere in atto misure di contrasto al cambiamento climatico. Si noti che queste differenze si manifestano in ogni ambito. È difficile (come ha osservato Franco Venturini sul Corriere del 17 novembre) non attribuire il fatto che in Russia la percentuale di vaccinati sia nettamente inferiore a quelle che si registrano nei Paesi occidentali alla comprensibilissima (e antichissima) diffidenza dei russi nei confronti delle autocrazie al potere. Chi può fidarsi, da quelle parti, di ciò che dice il governo? Come mai queste evidenti differenze fra i Paesi sono così spesso ignorate tanto da certi attivisti dell’ambiente quanto da molti di coloro che, operando nel sistema della comunicazione, tifano apertamente per loro? Questa “dimenticanza”, plausibilmente, è parte di una più generale sindrome da tanto tempo conosciuta e osservata: la tendenza, soprattutto di diversi occidentali che svolgono, a qualunque titolo, lavori intellettuali, a detestare le società aperte e democratiche nelle quali vivono e a preferire le società chiuse e autocratiche. Diceva l’economista Joseph Schumpeter che solo la società occidentale ha allevato un così ampio numero di intellettuali i quali si sono attribuiti il compito di contribuire a distruggerla. Non apprezzare la società aperta di cui fanno parte ed eventualmente anche combatterla (purché con mezzi pacifici e legali) è un diritto dei cittadini occidentali. Va ricordato loro che c’è anche il diritto di difenderla. Giustizia minorile. L’Unicef: reinventarla aduc.it, 22 novembre 2021 Più di 45.000 ragazzi e ragazze sono stati liberati dalla detenzione durante la pandemia di Covid-19, a dimostrazione che soluzioni di giustizia a misura di bambino “sono più che possibili”, secondo i nuovi dati diffusi dal Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). La detenzione di bambini ai tempi del Covid rivela che le autorità di almeno 84 paesi hanno restituito in sicurezza decine di giovani detenuti alle loro famiglie dall’aprile 2020, quando l’Unicef ha lanciato l’allarme su come il confinamento aumenta il rischio di contrarre la malattia per i bambini. Il rapporto è uno dei due studi pubblicati prima del Congresso mondiale sulla giustizia con i bambini, che si è svolto online la settimana appena trascorsa. Henrietta Fore, il direttore esecutivo dell’Unicef, ha elogiato quei paesi che hanno ascoltato la richiesta dell’agenzia. “Sappiamo da tempo che i sistemi giudiziari non sono attrezzati per gestire le esigenze specifiche dei bambini, una situazione ulteriormente esacerbata dalla pandemia di Covid-19”, ha affermato. “Proteggendo i bambini da condizioni che avrebbero potuto esporli a gravi malattie, questi paesi sono stati in grado di superare la resistenza pubblica e stimolare soluzioni di giustizia innovative e adeguate all’età. Questo ha dimostrato qualcosa che già sapevamo: le soluzioni di giustizia a misura di bambino sono più che possibili”. In tutto il mondo, i bambini sono stati detenuti, anche in custodia prima e dopo il processo, o in centri di detenzione per immigrati. Sono stati anche trattenuti in relazione a conflitti armati o sicurezza nazionale, o vivono con genitori in carcere. Impatto del Covid-19 - Le strutture di detenzione sono spesso sovraffollate e i bambini non hanno un accesso adeguato ai servizi di nutrizione, assistenza sanitaria e igiene. Sono anche vulnerabili all’abbandono, all’abuso fisico e psicologico e alla violenza di genere. Inoltre, a molti viene negato l’accesso agli avvocati e all’assistenza familiare. Le prove mostrano che molti bambini, compresi quelli che vivono per strada, sono stati detenuti per aver violato gli ordini del coprifuoco pandemico e le restrizioni di movimento. Giustizia per i bambini - Secondo il secondo rapporto dell’Unicef, in tutto il mondo sono detenuti circa 261.000 bambini. La stima del numero di minori privati ??della libertà nell’amministrazione della giustizia è la prima analisi di questo tipo in più di un decennio e probabilmente evidenzia che la registrazione incompleta, e i sistemi di dati amministrativi non sviluppati in molti paesi, significano che il numero è probabilmente molto più alto. L’Unicef ha chiesto ai governi e alla società civile di reinventare la giustizia per porre fine in modo sicuro alla detenzione di tutti i bambini. “Ogni bambino detenuto è la prova di sistemi falliti, ma tale fallimento è ulteriormente aggravato. I sistemi giudiziari destinati a proteggere e sostenere i bambini spesso aumentano la loro sofferenza”, ha affermato la signora Fore. “Mentre politici, professionisti legali, accademici, società civile e bambini e giovani si riuniscono al Congresso mondiale questa settimana, dobbiamo lavorare insieme per porre fine alla detenzione dei bambini”. Le raccomandazioni includono investire nella consapevolezza dei diritti legali per i bambini nei sistemi di giustizia e welfare, espandere l’assistenza e la rappresentanza legali gratuite e dare priorità alla prevenzione e all’intervento precoce. Per porre fine alla detenzione dei minori, i governi sono incoraggiati ad attuare riforme legali per aumentare l’età della responsabilità penale e per garantire giustizia per i ragazzi e le ragazze che sono sopravvissuti a violenze sessuali, abusi o sfruttamento. L’azione dovrebbe comprendere anche l’investimento in processi giudiziari sensibili ai minori e di genere e l’istituzione di tribunali specializzati a misura di minore, nonché di tribunali virtuali e mobili. Ecco perché vanno riformati gli “avvisi rossi” dell’Interpol di Antonio Stango* La Repubblica, 22 novembre 2021 Un meccanismo abusato dai despoti per perseguitare i dissidenti. L’appello di oltre 60 Ong. Quando ad Istanbul, dal 23 al 25 novembre, i delegati di circa 190 Paesi parteciperanno all’89a Assemblea Generale dell’Interpol, molti di loro potrebbero essere imbarazzati per la proposta di Risoluzione che più di 60 Ong internazionali per i diritti umani, giuristi e altre personalità di primo piano hanno lanciato in questi giorni. La risoluzione, guidata dalla Federazione Italiana Diritti Umani e dalla Arrested Lawyers Initiative, esprime infatti forte preoccupazione per il continuo abuso dei meccanismi dell’Interpol, quali gli “avvisi rossi”, da parte di regimi autoritari e invita fra l’altro a migliorare la trasparenza sulle procedure, rendere più rapidi i ricorsi davanti alla Commissione per il Controllo degli Archivi, istituire un organo di ricorso indipendente contro le sue decisioni, migliorare l’analisi delle richieste presentate da Stati che violano i diritti umani, assicurare un controllo efficace sulla banca dati. Un “avviso rosso” non è un mandato di cattura internazionale, ma è una richiesta da parte di uno Stato alle forze di polizia di tutto il mondo di individuare e arrestare provvisoriamente una persona in attesa che venga decisa la sua eventuale estradizione. Il problema è che, accanto alle legittime richieste di arresti per reati effettivi e gravi, molti governi negli ultimi anni hanno usato sempre più spesso il sistema (soprattutto da quando, nel 2009, è stato reso più rapido) per perseguitare dissidenti politici ovunque, sulla base di accuse che spesso riguardano improbabili reati finanziari o “vandalismo”. Si tratta di centinaia di casi sui circa 66.370 “avvisi rossi” attualmente effettivi (11.094 emessi nel 2020), di cui poco più di un decimo sono pubblici. In molti casi, la persona oggetto di tale richiesta di arresto non ne è al corrente fino a quando, attraversando un confine, non viene fermata dalla polizia: il che è giustificabile per un criminale internazionale, ma certamente non per chi ha l’unica “colpa” di non essere gradito a un regime per attività forense, articoli o semplici dichiarazioni politiche. Io stesso mi sono occupato negli ultimi anni di diversi casi, riguardanti in particolare Russia, Kazakhstan, Cina, Turchia. Fra gli altri, quello di una giovane avvocata russa arrestata in Austria con l’accusa palesemente infondata di una “frode” di poche migliaia di euro, ma per la quale la Procura russa formulava un’ipotesi di reato che prevede fino a dieci anni di carcere: in realtà, per avere collaborato con il movimento “Russia aperta”, organizzando incontri di formazione per aspiranti candidati indipendenti a elezioni comunali. Altri casi tipici riguardano imprenditori di successo, finiti nella rete degli “avvisi rossi” per avere denunciato atti di corruzione o per avere finanziato movimenti di opposizione. Una persona innocente può così essere detenuta per molti mesi, avendone anche rovinata la reputazione, spesso distrutta la vita, non per un errore giudiziario (cosa non rara anche nei Paesi democratici), ma per una precisa volontà di persecuzione da parte di un regime. Sarà necessario un processo, con i suoi tempi e le sue spese legali, per stabilire se la richiesta è politicamente motivata; e se questa sarà la sentenza, una volta liberata quella persona potrà tuttavia essere di nuovo arrestata se entrerà nel territorio di un altro Stato, fino a quando - con un procedimento complesso - l’Interpol non cancelli l’avviso che la riguarda. L’assemblea di Istanbul dovrà anche procedere all’elezione del nuovo presidente: con il rischio, che chiediamo di scongiurare, che a tale mandato di 4 anni sia eletto il candidato Ahmed Naser al-Raisi, ispettore generale del Ministero dell’Interno degli Emirati Arabi Uniti, accusato da molte ONG di essere responsabile di gravissimi abusi. Tra i firmatari della risoluzione ci sono Freedom House, la Open Dialogue Foundation, il Norwegian Helsinki Committee, la Human Rights Foundation, Bill Browder (leader della Global Magnitsky Justice Campaign), Emma Bonino e il premio Sacharov Lorent Saleh. *Presidente della Federazione Italiana Diritti Umani La confessione. I dittatori non sono tutti uguali di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 22 novembre 2021 Gli incontri-verità con Gheddafi padre e suo figlio Saif. La limpida onestà di Sharon. L’orologio che mi donò il figlio di Saddam. L’emozione con Sadat e l’amicizia con Mubarak. Il tradimento di Erdogan e l’orrore di Al Sisi. All’aeroporto di Tel Aviv, una ragazzina della sicurezza mi chiese, alcuni anni fa, quando la tecnologia più avanzata era ancora un sogno: “Signore, ha mai stretto la mano di un dittatore? Di un terrorista? Di un furfante nemico di Israele?”. Risposi: “Non so quanti mia cara! Non li ho mai contati. Se vuole mi lavo le mani, anche perché ne ho incontrati molti anche qui, nel suo Paese che amo da sempre”. La ragazzina fece una smorfia. Poi, quando le proposi di accendere il registratore per farle ascoltare la voce del premier Benjamin Netanyahu, uno dei peggiori personaggi che ho incontrato nella mia vita, mi rispose con un sorrisetto che voleva essere quasi seccato: “Vada pure”. Sissignori, ho stretto la mano a mezzo mondo, senza chiedere garanzie preventive. Mi ha sempre interessato il contatto umano. Ecco perché mi riempie di simpatia il fatto che un Gheddafi, Saif al Islam, figlio di Moammar, potrebbe diventare leader della Libia. Ho avuto modo di conoscere molto bene il padre e il figlio. Moammar Gheddafi non era certo un democratico, ma aveva tre doti: intelligenza, simpatia e sarcasmo. L’ho incontrato non so quante volte, ma una è davvero indimenticabile. Ad Algeri, ad un vertice arabo, si presentò vestito di bianco ma con un solo guanto indossato sulla mano destra. Chiesi “Colonnello, perché un solo guanto?” Mi guardò sorridendo: “Bravo, lei è un grande giornalista”. I miei colleghi sorrisero con me. E lui: “Lei ha centrato il problema. I miei colleghi arabi mi fanno così schifo che non voglio stringere le loro mani nude”. Con lui avevo simpatizzato, perché era sempre sincero, anche se faceva finta di non conoscere l’italiano. Suo figlio Saif, che ho incontrato non so quante volte, anche a pranzo, mi aveva spiegato con grande e onesta chiarezza perché la Libia è davvero, e resterà per sempre, un caso speciale. Troppe tribù, troppi piccoli potentati. Se non si capisce il problema non si risolve nulla. Parole sagge e verissime. La vita di un giornalista ha una ricchezza prevalente: non il denaro, ma le emozioni e gli incontri. Ho conosciuto di tutto: ho incontrato, in Medio Oriente e a Davos (in Svizzera) sette presidenti degli Stati Uniti. Quasi sempre a pranzo o a cena. Ho conosciuto tutti i leader libanesi e siriani. Il premier israeliano Ariel Sharon, che avevo attaccato a testa bassa durante l’occupazione in Libano, mi diede, da capo del governo, non so quante interviste. Diceva: “Lei, Ferrari, mi ha attaccato in buona fede. Ha fatto bene. Era il suo dovere. La stimo”. Ho conosciuto Yasser Arafat e i massimi Leader iraniani. Ho stretto la mano al capo degli Hezbollah. Un figlio di Saddam Hussein mi ha regalato un prezioso orologio con l’immagine del padre. Ho intervistato quattro volte il presidente-dittatore turco Recep Tayyip Erdogan. Lo avevo creduto, da sindaco di Istanbul e da primo ministro. Credevo fosse davvero un riformista. Errore clamoroso. È diventato un furfante, assetato di denaro e pronto a vendere la terra del suo grande Paese. Non ho conosciuto l’egiziano Al Sisi, che ha fatto ammazzare il nostro Giulio Regeni e impone la prigione più dura a Zaki, accusato non si capisce bene di cosa. Povero Egitto. Ho stretto la nobile mano di Anwar Sadat, e poi quella del suo grande successore Hosni Mubarak, che mi ha rivelato molti segreti e che mi onorava della sua stima e amicizia. La vita di incontri, di sguardi negli occhi, di colloqui profondi. Questo è per me il giornalismo vero. Libero e senza alcun limite. Egitto. Regeni, Zaki… non siete nemmeno degni di nominarli di Giulio Cavalli Left, 22 novembre 2021 Sfilata di industrie italiane (con società controllate anche dallo Stato) alla fiera delle armi in Egitto, dove il regime di al-Sisi nega che si faccia giustizia sull’assassinio di Giulio Regeni e continua a tenere ingiustamente in carcere Patrick Zaki. Abbiate almeno la decenza di non fare finta di voler risolvere la questione dell’ergastolo cautelare di Patrick Zaki e di trovare la verità su Giulio Regeni con presunte pressioni politiche sventolate alla stampa. Sarebbe curioso ad esempio sapere dal ministro tiepido Lorenzo Guerini cosa pensi del ruolo dell’Italia come fornitore del governo di Al-Sisi, quello stesso che sta facendo di tutto per ammazzare il già morto Giulio Regeni e per torturare psicologicamente Patrick Zaki sottraendolo a un giusto processo e cosa ne pensa del ruolo dell’Italia nella seconda edizione della Egypt Defense Expo, dove 400 espositori internazionali correranno nell’Egitto assassino per vendere le loro armi di morte a capi di Stato e contractor. Come scrive Antonio Mazzeo (un giornalista che sarebbe curioso invitare in qualche trasmissione in prima serata per vedere l’effetto che fa) “principale sponsor della fiera d’armi egiziana sarà l’holding della cantieristica nazionale Fincantieri S.p.a., controllata per il 71,6% dallo Stato italiano tramite la Cassa Depositi e Prestiti. La società leader nella progettazione e realizzazione di unità navali da trasporto e da crociera, ha indirizzato la propria produzione al settore militare accrescendo contestualmente le esportazioni ai regimi nordafricani e mediorientali più autoritari. Tra i migliori (o più correttamente peggiori) clienti di Fincantieri c’è proprio l’Egitto del dittatore-generale Al-Sisi. Nell’ultimo biennio sono state consegnate alla Marina militare egiziana due fregate multimissione Fremm (classe Bergamini), ammodernate ed equipaggiate nel cantiere navale di Muggiano-La Spezia”. Altro importante gruppo industriale-militare nazionale che sarà presente alla fiera della morte del Cairo è Leonardo S.p.A. (ex Finmeccanica), controllata per il 39% dal Ministero dell’economia e delle finanze. Nell’ultimo quinquennio Leonardo ha esportato al Ministero della difesa egiziano 32 elicotteri AgustaWestland, 24 di tipo AW149 multiruolo e 8 AW189, per un valore complessivo di 871,7 milioni di euro. Anche i manager di Leonardo si presenteranno al Cairo con la speranza di concludere lucrosissimi affari con i militari egiziani: in ballo c’è la commessa per 24 cacciabombardieri Eurofighter “Typhoon” (prodotti dall’omonimo consorzio europeo di cui il gruppo italiano controlla il 21% delle quote sociali) e per 24 caccia da addestramento piloti e da combattimento Alenia Aermacchi M-346 “Master” (questi velivoli sono già in dotazione alle Aeronautiche militari di Italia e Israele). Tra le industrie italiane che saranno presenti alla seconda edizione di Edex compare Elettronica S.p.A., tra le maggiori produttrici al mondo di sistemi di difesa e attacco elettronici, cyber security, tecnologie elettro-ottiche e a infrarossi, apparecchiature di sorveglianza e intelligence, con applicazioni in ambito navale a terrestre. Fondata nel 1951, Elettronica S.p.A. ha esportato i propri prodotti a una trentina di paesi e ha sedi di rappresentanza in Europa, Medio Oriente e Asia. La società è reduce da un’altra importante esposizione di sistemi bellici, il Dubay Air Show tenutosi nella capitale negli Emirati Arabi Uniti a metà novembre. Al Cairo sarà presente anche uno stand di Intermarine S.p.A., società con sede ufficiale a Sarzana (La Spezia) che progetta, costruisce ed equipaggia navi militari con requisiti operativi speciali (cacciamine, imbarcazioni d’assalto, pattugliatori veloci, ecc.) e navi logistiche e da trasporto. Non poteva mancare alla kermesse dei mercanti d’armi Iveco Defence Vehicles S.p.a., società con sede principale a Bolzano e stabilimenti pure a Piacenza, Vittorio Veneto e Sete Lagoas in Brasile, produttrice di carri armati, veicoli blindati, motori, componentistica per automezzi da difesa, automezzi per le forze di sicurezza e la protezione civile. Tra i sistemi bellici più noti ci sono i carri “Ariete” e “Centauro”, i blindati “Puma” e “Lince”, i veicoli da combattimento della fanteria “Dardo” e diverse versioni di camion pesanti per il trasporto truppe e il supporto logistico alle unità. Davvero tutto questo avete il coraggio di chiamarla “pressione” politica? Davvero con questa sorridente partecipazione credete che il dittatore Al-Sisi possa sentirsi oppresso dal nostro Paese? Davvero il governo ha il coraggio di pronunciare anche solo il nome di Regeni e di Zaki senza provare un minimo di vergogna? Facciamo così: mercanteggiate morte là dove è morto Giulio Regeni, continuate pure ad avere le mani sporche di sangue ma almeno abbiate la decenza di non nominarlo mai più. La bomba sociale esplosa in Cile lo ha portato verso la svolta radicale di Rocco Cotroneo Il Domani, 22 novembre 2021 Si sceglie un nuovo presidente: il bipolarismo tradizionale e moderato degli ultimi 30 anni di democrazia verrà spazzato via come effetto a distanza dell’esplosione sociale di due anni fa. Secondo gli ultimi sondaggi andranno al ballottaggio il conservatore nostalgico Kast e il 35enne Gabriel Boric, appoggiato dai comunisti. Due visioni opposte per far ripartire il Cile. Boric promette che il Cile “culla del neoliberalismo, sarà anche la sua tomba” e vuole lavorare in sintonia con l’assemblea costituente richiesta a gran voce dagli elettori per rompere con il passato. Un conservatore nostalgico della dittatura contro un ex leader della protesta giovanile di sinistra. Nemmeno il Cile - da trent’anni esempio di pragmatismo e moderazione, dentro e fuori l’America Latina - sfugge al karma politico dei nostri tempi: al momento di andare alle urne, o rispondere a un sondaggio, è sempre alta la possibilità che si scelgano profili radicali con tendenza al populismo. Addio vecchia corsa a conquistare il centro moderato, quindi. Il 21 novembre il Cile andrà al voto per scegliere un nuovo presidente, il successore del conservatore Sebastian Piñera, ed è la sfida più incerta degli ultimi 30 anni. L’elezione è a due turni e il ballottaggio sarà poco prima di Natale. Secondo gli ultimi sondaggi dovrebbero passare al secondo turno i due candidati più radicali. Viene accreditato con circa il 30-32 per cento delle preferenze il 55enne José Antonio Kast, avvocato di origine tedesche, cattolico, nove figli, all’estrema destra nello scenario. Lo segue con il 26-27 per cento il suo opposto viscerale. Gabriel Boric ha soltanto 35 anni, occhiali e barbetta, arriva dal sud antartico e ha guidato la federazione degli studenti universitari, che in Cile ha un peso politico rilevante. Tra i partiti storici ha soltanto l’appoggio dei comunisti. Gli altri candidati - Gli altri candidati sono assai distanti, e il loro probabile destino sancisce la fine del bipolarismo moderato che ha retto il paese dal 1989 in poi, quando finì la dittatura di Augusto Pinochet. Soltanto l’11 per cento voterebbe per Yasna Provoste, democristiana scelta nelle primarie del centrosinistra; peggio ancora il conservatore Sebastian Sichel, candidato del governo uscente, che rischia di non arrivare al 10 per cento. E a poco è servito a Sichel, nell’ultimo dibattito tv, accusare il suo concorrente di destra di rimpiangere Pinochet, o mostrare alle telecamere gli elogi del giovane Boric al dittatore venezuelano Maduro. La rabbia dell’elettore grida più forte. Con la probabile finale Kast-Boric insomma, l’intero sistema politico cileno ne uscirebbe terremotato, dopo decenni di pacifiche alternanze. Fino ad oggi la politica cilena è stata facile da capire, soprattutto per gli italiani della Prima repubblica: c’erano il partito socialista, il comunista, la Dc, i liberali e i post-fascisti. Niente strane alchimie come il peronismo argentino o il Pri messicano, per restare in questo continente. Persino la parentesi tragica del regime militare (1973-1989) aveva lasciato intatto lo scacchiere. Per i primi 20 anni di democrazia ha poi governato il centrosinistra, dominio interrotto da Piñera nel 2010. Due mandati ha avuto la socialista Michelle Bachelet. Cosa resterà di questo bipolarismo dopo le elezioni di quest’anno è difficile da prevedere. L’origine della svolta - La svolta ha origine in realtà nell’ottobre del 2019, quando il Cile è stato colto di sorpresa dal cosiddetto “estallido (esplosione) social”. Da una protesta nella capitale Santiago per l’aumento del prezzo dei mezzi pubblici, la rivolta si è estesa ad altre città, dagli studenti al resto della popolazione, e ha provocato una serie di violenze soprattutto per gli eccessi delle forze dell’ordine. Le proteste sono durate settimane, si è arrivati al coprifuoco e il bilancio è stato pesante, con decine di morti e migliaia di feriti. Sotto processo popolare in quei giorni è finito il “modello”, e cioè tutto quello che covava sotto le ceneri in un paese che pure aveva avuto decenni di crescita economica, riduzione della povertà e la piena democrazia. Sono scesi in piazza gli studenti per il costo elevato delle tasse universitarie e i debiti che erano costretti a trascinarsi per tutta la vita; gli adulti per il carovita e le spese sanitarie; i pensionati per l’esiguità delle loro pensioni. Su educazione e previdenza, in particolare, sono venute alla luce gli effetti perversi delle riforme iperliberiste degli anni di Pinochet (quella di privatizzazione integrale delle pensioni è stata lodata in tutto il mondo, ma ha provocato assegni da fame), effetti che nemmeno i governi socialisti successivi sono riusciti a mitigare. La presidenza Piñera è stata sul punto di crollare, poi ha risposto con una serie di misure per mitigare gli squilibri. È stato per esempio consentito ai cittadini di ritirare a rate una parte dei contributi versati ai fondi pensione privati. Adeguarsi ai modelli - I due candidati in testa ai sondaggi sono entrambi figli, per ragioni opposte, dell’esplosione del 2019, così come i politici dei partiti tradizionali di destra e sinistra sono trascinati via dalla stessa corrente di malcontento. Il conservatore Kast, per esempio, ha rotto le titubanze sulla dittatura militare, passando dal vecchio “Pinochet ha fatto anche cose buone” all’esaltazione totale di quel modello economico. Suo fratello Michael era stato ministro del regime, che provocò tra l’altro migliaia di esecuzioni e sparizioni sommarie. Kast ha adeguato il fascismo cileno del Novecento alle parole d’ordine dei suoi modelli Trump e Bolsonaro su temi come l’immigrazione (il Cile ha molti esuli venezuelani), l’aumento della violenza, il narcotraffico, i valori della famiglia tradizionale. Tocca le corde di un paese dove esiste ancora una forte anima conservatrice, l’aborto è una conquista limitata e recente e i diritti civili assai controversi. Per Kast non esiste una questione indigena nel sud del paese (dove i Mapuche esigono le terre ancestrali), ma soltanto terrorismo. E naturalmente tutti i guai derivano dalla violenza delle manifestazioni a partire dal 2019. È stato l’estallido social ad aver bloccato la crescita del Cile, dice. L’estremismo di Kast ha finora funzionato. Come ha detto l’analista politico Cristobal Bellolio, “a ogni episodio di violenza a Santiago o nel sud, Kast guadagna un punto percentuale”. Il Cile ha livelli di criminalità irrisori rispetto ai suo vicini di continente, ma è sempre una questione di percezione. Per la destra è già un’emergenza grave, la violenza è “fuori controllo”. Lotta al neoliberismo - Eppure, anche vincendo il primo turno, il cammino verso la presidenza di Kast non appare semplice. I sondaggi lo danno al ballottaggio in lieve svantaggio rispetto a Gabriel Boric. Segno che presentare come qualcosa di nuovo la nostalgia di Pinochet e dei suoi Chicago Boys potrebbe essere troppo anche per il conservatorismo cileno. I sondaggi sono ufficialmente proibiti due settimane prima del voto, ma circolano tranquillamente anche perché i media stranieri possono pubblicarli. Domani ne è entrato in possesso. Secondo il primo l’ex leader studentesco di sinistra vincerebbe al ballottaggio del 19 dicembre per 41 a 39, una seconda inchiesta vede un ancor più risicato 51 a 49 dei voti validi. Un presidente di 35 anni sarebbe una novità assoluta per l’America Latina e non solo. Per riuscirci, Boric deve convincere la maggioranza dei cileni che la rivolta di due anni era sacrosanta e che il Cile “culla del neoliberalismo, sarà anche la sua tomba”, il suo slogan forte. Il ragazzo venuto dalla Patagonia ha modificato la sua capigliatura ribelle delle manifestazioni per un figurino più da prof che da alunno e ha scalato la leadership della sinistra passo a passo. Se aveva fatto fatica a raccogliere le 35mila firme necessarie alla candidatura, poi la sua sfida è stata scardinare la rigida militanza dei suoi alleati comunisti a favore di una maggiore moderazione. Si è detto aperto al dialogo per formare una maggioranza parlamentare e ha tagliato corto con i suoi compagni di strada che hanno esaltato la recente vittoria frode di Daniel Ortega in Nicaragua (“non ha il mio appoggio”, ha detto). Dalla sua, rispetto a Kast, avrebbe da presidente una maggior sintonia con l’Assemblea costituente che è stata di recente formata per modificare la Carta iperliberista dell’epoca militare, una delle richieste delle proteste del 2019. Accusano Boric di non avere un programma, e in effetti la “lotta al neoliberalismo” è piuttosto generica. Anche considerando che è dal giorno dopo che Pinochet ha lasciato il potere che i socialisti promettono di smantellare la sua eredità, e nessuno vi è ancora riuscito.