Ho visitato la sezione psichiatrica del carcere di Torino… di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2021 Spero che ciò che ho visto non si ripeta mai più. Nelle scorse ore ho visitato insieme a un mio collega il carcere per adulti di Torino. Di carceri ne ho viste tante in vita mia, in Italia e anche all’estero, ma raramente mi era capitato di assistere a quanto ho avuto modo di vedere nel capoluogo piemontese. Vi è una sezione, chiamata Sestante, che funge da articolazione psichiatrica dell’istituto. Mi auguro che qualche giornalista legga quello che sto per raccontare e che in tanti decidano di andare là dentro a vedere. Che pretendano di portare con sé le videocamere per mostrare a tutti cosa accade in quelle quattro mura. Mi auguro che tutti noi ci indigniamo in massa e pretendiamo che queste cose non succedano mai più, che quel reparto venga chiuso immediatamente: non domani, non tra una settimana, non tra mese. Ci hanno detto che stanno per fare dei lavori di ristrutturazione. Non basta. Sono anni che Antigone, anche attraverso i suoi Rapporti annuali, denuncia le condizioni di vita interne, ma nulla è cambiato. Al Sestante si trovano circa venti celle, dieci su ogni lato del corridoio. In ciascuna è reclusa una singola persona detenuta. La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con i chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno, ma non tutti, ha un piccolo cuscino di gommapiuma. Non vi è una sedia né un tavolino. Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere in posizione scomodissima. L’intera giornata viene trascorsa chiusi là dentro, senza nulla da fare e nessuno con cui parlare. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio. Noi ci siamo passati. Abbiamo dovuto insistere un po’ affinché ci aprissero il cancello della sezione. Ci siamo passati, per quel corridoio, e abbiamo guardato dentro ciascuna di quelle stanze detentive. Ognuna teneva dentro un essere umano. Ma certamente trattato in maniera contraria a quel senso di umanità che la nostra Costituzione chiede alle pene legittime. Alcuni erano solo dei mucchietti di stracci buttati immobili sulla branda. In una cella vi era un uomo sdraiato al buio sul pavimento. Nessuno lo tirava su di là. In un’altra vi era un ragazzo che stava in piedi con la faccia a pochi centimetri dal muro. Non si è girato al nostro passaggio. Teneva i palmi delle mani rivolti verso l’altro, all’altezza delle spalle. Parlava verso quella parete, ogni tanto si girava verso il letto, poi tornava a rivolgere la faccia al muro e parole a chissà che cosa. Barcollava e aveva gli occhi a mezz’asta. Nessuno ci faceva caso. Qualcuno si è avvicinato alle sbarre al nostro passaggio. Un uomo mi ha chiesto se potevo fare in modo che la turca della sua cella venisse aggiustata. Erano quattro giorni che non scaricava le sue feci, mi ha spiegato. L’ho detto al poliziotto del reparto. Un altro uomo era al buio. Si è sporto dalle sbarre e mi ha detto che avrebbe voluto un po’ di luce. Il poliziotto che era con me, un po’ imbarazzato, gli ha detto di accenderla con l’interruttore interno, che sicuramente avrebbe funzionato. Ma lui ha detto di no, mancava proprio la lampadina. Mi sono fermata per capire chi avesse ragione. Effettivamente la luce non si accendeva. Non so da quanti giorni quel signore fosse al buio dalle quattro e mezza di pomeriggio fino all’alba del giorno dopo. Un giovane uomo si teneva a stento in piedi sulle gambe. Aveva un filo di bava che gli colava sulla blusa. Gli occhi semichiusi, come se stesse per addormentarsi in piedi da un momento all’altro. Ha tentato di pronunciare qualche parola rivolto a me che mi ero fermata lì davanti. Faceva fatica ad articolare i suoni. Ha balbettato la parola ‘avvocato’. Gli ho chiesto se avesse avuto modo di parlare con il suo legale. Si è chinato e da un mucchietto di carte per terra ha preso un foglietto con un numero di telefono. L’ho copiato sul mio quaderno e gli ho detto che l’avrei avvisato che si trovava lì. Mi è stato spiegato che l’uomo era a Torino per un periodo di 30 giorni di osservazione psichiatrica, mandato lì da un altro istituto. Non so cosa si possa osservare e diagnosticare in un uomo imbottito di farmaci fino al punto da non riuscire a parlare e a reggersi in piedi. Nell’ultima cella prima dell’uscita c’era un ragazzino. Avrà avuto 25 anni. Gli ho chiesto come andasse. Le lacrime hanno cominciato a scendergli dagli occhi. Mi ha detto che non capiva perché fosse lì, che gli mancava sua madre e che aveva tanta paura tutte le notti. Mi ha pregato di farlo trasferire. Gli ho spiegato che non avevo alcun potere in questo senso, ma mi sono fatta dare il numero di telefono della mamma, che lui sapeva a memoria. Gli operatori mi hanno spiegato che erano in attesa che si liberasse un posto in una Rems, le residenze a vocazione sanitaria per l’esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche. Il ragazzo non avrebbe dovuto trovarsi lì, non c’era titolo per la sua detenzione. Sono uscita e ho chiamato la madre. Era contenta che almeno qualcuno avesse visto suo figlio. Lei non ci era riuscita, nessuno le aveva detto dove lo avessero portato. Adesso si apprestava a recarsi a Torino. Mi vergogno a pensare che trattiamo le persone in questo modo. Non so di chi sia la colpa. La direttrice del carcere ci ha detto che lei ha la coscienza a posto perché ha scritto varie lettere al proposito e attende interventi. Certo, da sola non può fare molto. Ma qualcosa forse sì. Come qualcosa può fare la gestione sanitaria della sezione. Come qualcosa possiamo fare noi: far conoscere l’indecenza di questi posti, dove gli esseri umani sono privati di ogni dignità, trattati come corpi ammassati. Dove si rinuncia a vite umane come se fossero niente. Mi rivolgo alle autorità centrali che non sempre conoscono la periferia penitenziaria, mi rivolgo ai tanti dirigenti attenti e democratici che fanno con passione il proprio lavoro. Mi rivolgo agli operatori dell’informazione, che possono chiedere all’ufficio stampa del Ministero della Giustizia di essere autorizzati a entrare al reparto Sestante del carcere di Torino per raccontare fuori quel che troveranno dentro. Mi rivolgo a tutti loro: non credetemi, andate a vedere. *Coordinatrice associazione Antigone La pena in bianco. Nel limbo degli internati nelle Case di lavoro di Federica Olivo huffingtonpost.it, 21 novembre 2021 Circa 340 persone ritenute socialmente pericolose dopo il carcere sono finite in una terra di mezzo con più problemi che soluzioni. Il racconto di chi conosce queste realtà e chiede siano eliminate. Antonio era uscito dal carcere da quattro anni. Alle spalle aveva una serie di reati, non gravissimi, ma che sommati uno all’altro facevano di lui quello che categorie vecchie, “lombrosiane, borboniche” - per citare l’avvocato Michele Passione, che conosce bene la materia - definiscono delinquente abituale. Le cose, però, per lui stavano cambiando. Aperte le sbarre della prigione, ricominciava la vita. Antonio aveva un lavoro, era innamorato. Con la sua compagna aspettavano un bambino. Di punto in bianco tutto si stravolge. Invece di guardare al futuro, Antonio ripiomba nel passato. E non perché viene accusato di reati nuovi. Ma quel marchio, “delinquente abituale”, diventa per lui un macigno quando si vede notificare un provvedimento: “Resti un delinquente, sarai rinchiuso per due anni in una casa di lavoro”. Non era questo il virgolettato del documento, ma questo il senso. E pazienza se c’era un figlio in arrivo, se Antonio stava cercando di lasciarsi alle spalle quel passato di errori. Se un lavoro lo aveva trovato. La procura chiede, il magistrato di sorveglianza in questo caso risponde sì, e a pesare sul suo presente non è la vita nuova che provava a costruirsi ma la sua fedina penale, indubbiamente già macchiata. Antonio - nome di fantasia - oggi è uno dei 54 internati della casa di lavoro di Aversa, una delle strutture in cui possono essere mandate le persone che hanno già scontato una pena, ma che vengono considerate socialmente pericolose e quindi viene data loro una misura di sicurezza. Dovrebbero essere luoghi di rieducazione e risocializzazione ma, nei fatti non lo sono. “Gli internati sono detenuti veri e propri, per lo più invisibili. Non hanno relazioni con l’esterno, nessun diritto all’affettività”, accusa il garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello Si può rimanere prigionieri oltre la pena? Si può, per legge. Per una norma - l’articolo 216 del codice penale - che qualcuno considera obsoleta, altri addirittura incostituzionale, eppure e lì, un po’ dimenticata nelle pieghe di un sistema che fatica a rincorrere tutte le sue falle. E riguarda circa 340 persone, gli internati nelle case di lavoro. Sono pochi, spesso soli, senza famiglia, senza nessuno che possa accoglierli durante i possibili permessi giornalieri. E per questo dimenticati. Arrivano sostanzialmente sempre dagli stessi posti, perché ci sono magistrati di sorveglianza che nella pratica non danno più questa misura, perché non la considerano utile, e altri che invece la usano sistematicamente. Quelli sottoposti a misura di sicurezza sono soggetti che, pur avendo già scontato una pena e non avendo commesso altri reati, sono considerati ancora un pericolo per la società. Non solo ex detenuti al 41 bis, mafiosi o terroristi, ma anche, per la maggior parte, gente che ha alle spalle vari reati e viene ritenuta non adatta a vivere in società. Il più delle volte sono soggetti con un passato di delinquenza, certo, ma che per motivi di salute mentale o di provenienza sono sempre stati ai margini della società. A guardarle bene, insomma, le case di lavoro più che luoghi con cui accompagnare un ex detenuto verso il ritorno alla quotidianità diventano un limbo dove si raccoglie la marginalità. Tra l’indifferenza, e la superficialità, del resto del mondo. Le strutture di questo genere sono poche in Italia. Tra istituti indipendenti e sezioni all’interno delle carceri le troviamo ad Aversa, Vasto, Castelfranco Emilia, Biella. Trentacinque internati sono poi in Sicilia. In Sardegna c’è qualcosa di simile: la colonia agricola di Isili. Risponde alla stessa logica, ha gli stessi problemi. A dispetto del nome, nella pratica sono in pochi gli internati a cui viene dato un lavoro vero. In molti casi, anche chi è in qualche modo occupato svolge solo lavori all’interno delle mura in cui vive. Che poco servono alla risocializzazione. E allontanano la prospettiva di uscire. Di lasciarsi alle spalle le sbarre. Perché sì, anche se non dovrebbe essere un carcere, le sbarre spesso ci sono anche in queste strutture. “Non sono né case, né offrono lavoro”, accusa ancora Ciambriello. In passato si correva il rischio di rimanere internati anche per un tempo indefinito. Le cose sono cambiate nel 2014: è stato stabilito che la permanenza in una casa di lavoro non può essere superiore al periodo massimo di pena previsto per il reato che il soggetto aveva commesso. Se non altro almeno ora c’è un limite, ma il rischio paradosso è dietro l’angolo: “Poniamo il caso che una persona abbia commesso un reato che, secondo il codice penale, può essere punito con un massimo di otto anni - ci spiega l’avvocato Passione - ma a lei venga assegnata una pena di tre anni. Dopo i tre anni passati in carcere potrà essere mandato in una casa di lavoro per un periodo massimo di otto anni. Più del doppio della pena effettiva che aveva ricevuto”. Di recente anche la corte Costituzionale si è occupata delle case di lavoro: ha stabilito che agli internati può essere applicato il 41 bis, anche se, nel rispetto “dei principi di ragionevolezza e di finalità educativa”, deve essere loro consentito di lavorare. “In sostanza la corte dice che siccome per gli internati i divieti e le prescrizioni del 41 bis non sono così necessarie, il regime può essere applicato anche a loro, ma un po’ meno”, spiega Passione. Il che è costituzionale, dice il giudice - e la sua decisione ha lasciato molte perplessità - ma come si traduce nella pratica? “Viene stabilito che per le case di lavoro il magistrato di sorveglianza può revocare il 41 bis stabilito per decreto dal ministro, ma da quali elementi il magistrato trae la fine della pericolosità? A me sembra che con questa sentenza si siano voluti chiudere gli occhi davanti alla realtà. E rimettere tutto alla discrezionalità del direttore della struttura e del magistrato di sorveglianza”, continua l’avvocato. Spesso il lavoro manca, qualche volta lo si crea. È il caso di Aversa, dove è stato siglato un protocollo per occupare 20 dei 54 internati. “Sette di loro - ci spiega Ciambriello, che si è occupato in prima persona di questo progetto e ha anche donato alcuni strumenti utili al lavoro - per sei mesi si occuperanno della catalogazione del materiale dell’ex Opg di Napoli, in collaborazione con l’archivio di stato. Altri cinque faranno lavori di pulizia e giardinaggio, altri ancora, con la Caritas, si occuperanno degli orti sociali”. Non è solo un modo per trascorrere il tempo e avere un minimo di entrate a fine mese. È anche il primo passo per portare queste persone verso l’uscita. Perché il giudice quando valuta la revoca della misura di sicurezza deve avere degli elementi da analizzare. E se queste persone sono costrette a trascorrere le loro giornate senza fare nulla difficilmente riusciranno a dimostrare di essere cambiate, di non costituire un pericolo per la società. Il lavoro non è tutto e non può essere considerato unico strumento di rieducazione. Ma almeno può essere uno degli strumenti per tirare queste persone fuori dal limbo e allontanarle da un passato di errori. “Ne ho visti tanti entrare e uscire”: il racconto di Don Silvio, cappellano della casa di lavoro di Vasto - “Ogni anno ne ospitiamo dieci, nel momento più delicato, quello della libertà vigilata, propedeutico alla revoca della misura di sicurezza. Ma quotidianamente passano nella nostra Fattoria tanti internati che altrimenti, non avendo un posto dove andare, non riceverebbero permessi giornalieri. Ne ho visti così tanti entrare e uscire”. Don Silvio Santovito ha perso il conto di quanti internati ha accolto nella sua Vita Felice, una fattoria sociale messa in piedi a Casalbordino, a pochi chilometri da Vasto. Ma di una cosa va fiero: “Tutti quelli che, a partire da sei anni fa, abbiamo tenuto con noi per dodici mesi, hanno ottenuto la revoca della misura di sicurezza. Alcuni hanno trovato un’occupazione, ciascuno di loro è finalmente lontano dalla casa di lavoro”. Cappellanno a Vasto - la casa di lavoro più popolosa d’Italia, prima del Covid ospitava 150 persone, ora un’ottantina - tutti i giorni prova a rendere la vita degli internati meno dura. A dare loro - se stranieri, senza famiglia o impossibilitati a tornare nel contesto da cui provengono - un tetto durante i permessi. Ad avviarli verso una nuova prospettiva: “Sa, a volte viene vissuto meglio il carcere della casa di lavoro”, ci racconta poco dopo essere uscito dalla struttura. La voce calma, tanta voglia di spiegare: “Perché il detenuto sa che sta scontando una pena per un reato commesso. L’internato invece è lì senza processo. Loro lo chiamano ‘ergastolo in bianco’, perché non sanno quante volte la misura di sicurezza sarà prorogata. Per questo motivo il loro cammino non è sereno”. Cosa può fare un parroco con la sua fattoria? Piccoli grandi gesti, che significano tantissimo: “Proviamo ad aiutare i più fragili, quelli che non hanno famiglia, e i più deboli, anche da un punto di vista psichiatrico. Diamo loro il nostro tetto, il cibo, proviamo ad aiutarli ad ottenere un sussidio se ne hanno diritto”. Storie ne ha viste e sentite tante Don Silvio, ce ne racconta una che le racchiude tutte: “Con noi ora c’è un signore di 60 anni, entrato in carcere per la prima volta da minorenne ha trascorso in galera quasi 40 anni di vita. Chiaramente ha perso i contatti con la sua famiglia, non ha legami, né introiti, non c’è nulla che si muovo intorno alla sua vita. Quello che possiamo fare noi è garantirgli qualche momento al di fuori dalla casa di lavoro”. A questo punto la voce di Don Silvio assume toni amari: “La verità è che queste persone campano nell’indifferenza del mondo. Hanno sbagliato, certo, ma per lo più vengono da un contesto di sofferenza, anche infantile. Ancora oggi, nel 2021, sono internate persone che non sanno né leggere né scrivere”. L’impressione del parroco, che vive questa realtà ogni giorno è che “nessuno abbia interesse a tirare fuori queste persone dalle strutture”. Un sistema da superare - Chiunque si sia mai approcciato al tema concorda sul fatto che questi istituti ad oggi siano del tutto inutili, se non addirittura dannosi. “Più volte è stata proposta l’eliminazione di queste strutture che dovrebbero essere qualcosa di diverso dalla galera, garantire una discontinuità rispetto a prima, ma nei fatti diventano qualcosa di estremamente simile alla detenzione”, racconta ad Huffpost Alessio Scandurra di Antigone. Qualche anno fa, con l’associazione che si occupa di carceri e diritti dei detenuti, ha visitato la casa di lavoro di Vasto. Racconta di aver visto tra gli internati “tanto disagio mentale, non diagnosticato, né certificato”. “Uno immagina - ci spiega - che gli internati siano i ‘peggiori criminali’, quelli che hanno commesso reati più gravi. La verità è che in queste strutture finiscono le persone che potenzialmente hanno più difficoltà a riadattarsi alla società. Non si guarda al pericolo qualitativo, non al boss che ha scontato tanti anni e il giudice ritiene sia ancora pericoloso, ma al pericolo quantitativo. E così nelle case di lavoro spesso si trovano “piccoli delinquenti da strada”, spesso di una certa età, con una storia non solo di criminalità ma anche di sofferenza e disagio”. Quanto alla possibilità di rieducare solo con il lavoro, Scandurra non ha dubbi: “Non è il lavoro, che poi spesso neanche c’è, a curare. Pensare che si risolva tutto così, tenendo poi una persona fuori dai ritmi della quotidianità è un’idea d’altri tempi”. Quali soluzione, allora, per chi viene ritenuto socialmente pericoloso dopo la pena? “Io credo che la casa di lavoro come misura di sicurezza vada abolita - conclude Scandurra - non esiste un’unica ricetta, ma una delle possibilità sarebbe data da una maggiore opportunità formativa ed educativa all’interno delle carceri, prima che la pena finisca. A ciò dovrebbe essere affiancato un percorso psicologico più efficace”. Per il garante Ciambriello “bisogna avere il coraggio di andare oltre queste strutture, pensando per loro luoghi non detentivi”. Delle case di accoglienza dove sia consentito, a chi può, di non tagliare i ponti con la famiglia, né col resto del mondo. La pensa così anche Don Silvio Santovito: “Così com’è concepita, questa misura rischia di essere una partita persa”. La Società della ragione sta lavorando a una proposta di legge per l’abolizione delle case di lavoro. Un altro tentativo di porre fine a un istituto anacronistico che - lo pensa chi ha toccato con mano questa realtà - andrebbe cancellato. Don Luigi Ciotti: “La mia lotta alle mafie passa dal cuore dei ragazzi” di Alessia Candito La Repubblica, 21 novembre 2021 Il fondatore di Libera a Palermo per il via al progetto che porterà nelle scuole 50mila piantine nate dall’Albero Falcone. “Tra coltura e cultura cambia solo una vocale, ma entrambe richiedono costanza e impegno e per trovare nutrimento devono piantare radici. La coltura nella terra, la cultura nelle coscienze”. Settantasei anni, da più di trenta in prima linea nella lotta ai clan, per don Luigi Ciotti, cresciuto a Torino, Palermo è “una città con cui ho un rapporto vivo, viscerale, che fa parte della mia anima, del mio paesaggio emotivo ed esistenziale”. La conosce da quando girava l’Italia e l’Europa con il gruppo Abele per raccogliere i cocci del boom dell’eroina, ne ha fatto la sua trincea negli anni delle stragi, insieme a sopravvissuti e familiari come Rita Borsellino ha insegnato che memoria - quella vera - significa impegno, coscienza, costanza. Forse anche per questo ha scelto di esserci per il battesimo ufficiale del progetto che nei prossimi tre anni porterà nelle scuole italiane oltre 50mila piantine nate dalle talee dell’Albero Falcone. Per le idee dell’antimafia sarà facile diffondersi come le talee? “Le idee non sono “cose” ma sementi che devono trovare terreni e contesti fertili per maturare e generare nuove pratiche e nuove forme di vita. Ecco perché quelle talee non devono essere un semplice simbolo, ma frammenti di memoria viva, incandescente. La lotta contro le mafie è un impegno innanzitutto culturale che parte dalla coscienza di ciascuno di noi, dalla consapevolezza del bene comune e della responsabilità di custodirlo e promuoverlo”. Che ruolo hanno i ragazzi in questa battaglia? “Quando trovano punti di riferimento credibili - insegnanti, associazioni - diventano più consapevoli. La strada l’ha indicata don Pino Puglisi. Noi dobbiamo accompagnarli - non portarli - e i cambiamenti si vedono. Ma lo dobbiamo fare con tutti. Bisogna raggiungere anche quelli che la scuola ha perso per strada. Se vogliamo davvero combattere le mafie, è lì che è necessario intervenire, riempiendo quello spazio di riferimenti, opportunità, progetti, proposte”. Esistono gli strumenti per farlo? “La Costituzione è il vero testo antimafia, perché i clan si combattono difendendo e promuovendo la giustizia sociale, oltre che quella dei tribunali. Le mafie hanno sempre approfittato non solo delle fragilità delle persone ma anche delle mancanze del sistema in termini di servizi, contesto sociale, lavoro, opportunità”. Dopo le stragi, Palermo reagì: vede quella stessa rabbia anche oggi? “La rabbia è una reazione che va trasformata in azione, altrimenti resta indignazione passeggera. Deve diventare consapevolezza e responsabilità, sentimenti che, in tante realtà della Palermo attuale, hanno il volto concreto dell’impegno”. Oggi che città si trova di fronte? “Una città più consapevole, capace anche di guardare nelle proprie ferite e contraddizioni, dunque capace di evolversi anche attraverso la memoria viva di quella stagione di sangue”. La pandemia ha in qualche modo modificato l’allarme sociale sulle mafie? “Ha rischiato di far abbassare l’attenzione. Tanto più che già da molti anni i clan avevano scelto una strategia di basso profilo, contagiando un tessuto economico già caratterizzato da zone grigie o torbide. Per fortuna in questi quasi due anni c’è chi - come il procuratore capo della Dna, Federico Cafiero De Raho, e altri - ha puntualmente richiamato l’attenzione sul rischio che le mafie traessero dalla pandemia occasione di arricchirsi e potenziarsi, come accaduto in altre emergenze e crisi del passato. Tra queste voci, c’era anche Libera”. Quanto il potere delle mafie può incidere nella ripartenza? “Dipende dalle basi su cui si costruisce. Se si procede sulla base di logiche esclusivamente economiche, si ripropone un modello che ha rappresentato un terreno fertile per mafie e malaffare. La ripartenza presuppone un cambiamento di prospettiva culturale e politica, altrimenti sarà un ritorno a vie che hanno già mostrato di non portare a nulla di buono e costruttivo. Come dice papa Francesco, questo è “un sistema ingiusto alla radice”“. Da dove passa oggi il confine della lotta alle mafie? “Come sempre, dalle coscienze. Solo coscienze sveglie, vive, non addomesticate né anestetizzate, possono contrastare efficacemente le mafie e tutte le forme di complicità, inerzia e indifferenza che le favoriscono”. Com’è cambiata negli anni l’esperienza di Libera? Che differenza c’è rispetto agli esordi? “L’esperienza è cambiata come sempre cambia, se quello che fai è a contatto con la vita, se non si limita a essere un sapere teorico e autoreferenziale da cui derivano pratiche schematiche e protocollari. Rispetto agli esordi, esperienza e conoscenza sono ovviamente cresciute, pur nella costante consapevolezza dei nostri limiti e della necessità di migliorare e, se è il caso, correggere il nostro impegno. Sventurato è chi, in ogni ambito, si crede “arrivato” e pensa di non avere più nulla da imparare”. Il don Luigi che l’ha fondata è lo stesso di oggi? “Sono cambiato come e con Libera, essendo Libera un “noi”, uno spazio di condivisione e corresponsabilità”. Libera è stata al fianco della procura di Reggio Calabria nell’avvio del protocollo “Liberi di scegliere”. Quanto è importante quella battaglia? “Non solo importante ma cruciale, perché con “Liberi di scegliere” è possibile colpire le mafie dall’interno, facendo leva su quelle coscienze vive, non allineate, che anche esistono nelle organizzazioni mafiose, soprattutto tra le donne. Un buon numero sono state aiutate a uscire dalle cosche, e la loro ritrovata libertà può essere da stimolo per altre e altri. Bisogna dunque incentivare questa via, anche tramite strumenti giuridici adeguati”. Di recente, uno degli ex ospiti del programma è stato arrestato con l’accusa di essere un boss. Questo inficia la validità del progetto? “Assolutamente no: un esito negativo non può essere un pretesto per arrendersi. Deve anzi essere uno stimolo a esaminare con cura la vicenda per migliorare la prassi e impedire che situazioni del genere si ripetano. Tenuto conto che si tratta di vicende delicatissime, nelle quali entrano in gioco anche fattori non del tutto ponderabili”. Il presidente del tribunale per i minorenni Di Bella sta sperimentando il medesimo protocollo a Catania. A suo parere sarebbe necessario estenderlo all’intera Sicilia? “Non solo all’intera Sicilia, ma a tutte le regioni, a cominciare da quelle dove il controllo delle mafie continua a essere territoriale e a volte asfissiante”. Dopo tanti anni di battaglie antimafia, c’è ancora chi tende a minimizzare il problema. Che effetto fa a chi come voi è da anni in prima linea? “È uno stimolo a incentivare l’impegno. Forme di sottovalutazione, ignoranza, indifferenza o malafede sono da mettere in conto quando l’obbiettivo è un cambiamento vero e a più livelli, come quello necessario per contrastare e sconfiggere le mafie”. Cassese alla Leopolda: “La magistratura è diventata uno Stato nello Stato” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 21 novembre 2021 Renzi applaude all’intervento sulla giustizia di Costa (Azione) e commenta: “Non riesco a capire come alle prossime elezioni potremo andare divisi”. “Il garantismo sta al giustizialismo come la democrazia sta alla dittatura”. È il giorno dedicato alla giustizia alla Leopolda e Matteo Renzi introduce così l’argomento. Sul palco si alternano oratori “tecnici”: Enrico Costa, Annamaria Bernardini de Pace, Gian Domenico Caiazza, Sabino Cassese, Carlo Nordio, Alessandro Barbano. Il primo a prendere il microfono è Enrico Costa, deputato di Azione, che si scaglia contro il processo show che trasforma in sentenza le indagini preliminari. “Provate a pensare alle conferenze stampa, sono inchieste presentate come dei film: abbiamo i protagonisti, che sono i pm, e persino i trailer”. Questo grazie al recepimento della direttiva sulla presunzione d’innocenza “tutto questo non sarà più possibile”, dice. “Oggi la sentenza è quella conferenza stampa, quel titolo di giornale che si diffonde in rete. La sentenza vera arriverà dopo anni, quando non interesserà a nessuno”, dice Costa, convinto che invece il compito dello Stato sia quello di “garantire al cittadino quando esce da innocente da un processo penale di essere la stessa persona” che era prima del processo, dice, guadagnandosi il plauso del padrone di casa, che a fine intervento commenta: “Non riesco a capire come alle prossime elezioni potremo andare divisi”, scandisce Renzi, anticipando il probabile contenitore centrista che potrebbe vedere insieme Italia viva, Azione e parte di Forza Italia insieme. Poi tocca al presidente delle Camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza, prendere il microfono: “La riforma Cartabia non basta. Anzi, vediamo ritardi gravi a affrontare le questioni della giustizia penale. A partire dalla necessità di riequilibrare i poteri dello Stato. Uno dei tre, quello giudiziario, ha esondato dai propri limiti costituzionali, è in grado di determinare la vita politica anche solo con un’iscrizione nel registro degli indagati”, esordisce il leader dei penalisti. “Questo è il punto cruciale”, aggiunge. E per riequilibrare quel potere “bisogna fare una riforma radicale dell’ordinamento giudiziario. Non è il sistema elettorale”, che cambia le cose, “ma la responsabilità professionale. Un magistrato deve rispondere di ciò che compie, un potere così importante irresponsabili squilibra tutto. Devi rispondere dei risultati che hai ottenuto. Devi rispondere di aver condizionato l’esito di un governo senza una ragione. Devi rispondere di questo. E dobbiamo capire insieme come si possa fare. Dobbiamo anche intervenire su un altro dato anomalo: ad ogni governo vengono distaccati più di 200 magistrati. C’è una commistione fisica tra il potere giudiziario e quello esecutivo. Non accade in nessun paese del mondo. Dobbiamo recuperare i principi liberali del diritto penale: un complesso di regole. Chi interviene sulla nostra libertà deve risponderne”. Ma è il costituzionalista Sabino Cassese a scaldare più di ogni altro la platea della Leopolda, che inizia a parlare sciorinando dati: “C’è un arretrato di sei milioni di procedure. la fiducia della popolazione italiana nella giustizia si è quasi dimezzata negli ultimi 10 anni”, dice. “C’è una crescente domanda di giustizia non soddisfatta, ci sono sei milioni che attendono giustizia. È un dato fondamentale per capire la crisi della giustizia”. Una crisi dovuta soprattutto all’iperattivismo di alcuni magistrati, più interessati alla “pubblicità” delle proprie inchieste che all’amministrazione della giustizia in sé. “La Costituzione prevedeva uno scudo per evitare la politicizzazione della giustizia e preservare l’indipendenza dei magistrati. Ma in una lenta azione interpretativa l’indipendenza è diventata autogoverno”. Così le toghe si sono trasformate in una “sorta di Stato nello Stato. Basti pensare al fatto che il Csm non fornisce i dati dei propri dipendenti al Mef perché pensa di essere indipendente. C’è uno Stato nello Stato che si è venuto a creare negli ultimi anni. Si sta verificando un fenomeno opposto a quello pensato dai costituenti: si è sviluppata una politicizzazione endogena, all’interno della magistratura. Quindi i poteri, invece di essere separati sono concentrati all’interno dell’ordine giudiziario”. Ad evidenziare lo strapotere dei magistrati anche Carlo Nordio, già procuratore aggiunto della Procura della Repubblica di Venezia. “Il pubblico ministero italiano è l’unico organismo al mondo che ha un potere immenso senza nessuna responsabilità, in base all’obbligatorietà dell’azione penale che è diventata in realtà un libero arbitrio, lui indaga su chiunque, come vuole e quando vuole, senza rispondere a nessuno perché gode delle stesse guarentigie del giudice. È una cosa demenziale”, ha affermato in collegamento con la Leopolda. “Il pm - ha aggiunto - è arbitro assoluto nel decidere cosa e importante e cosa no nell’indagine anche se questi atti non hanno nessuna rilevanza. Può succedere allora come nel caso Open che si producano, nella piena legalità, 90.000 pagine. Che poi qualcuno abbia indicato a un giornalista le pagine più succulente questo è un altro discorso”. Secondo l’ex magistrato, “i rapporti tra stampa e magistratura avvengono perché nessuno vigila sul mantenimento del segreto istruttorio e guarda caso certi giornali amici vengono a conoscenza di notizie. I magistrati vengono poi ripagati dai giornalisti attraverso una incensazione che spiana una futura carriera politica”. Ad Alessandro Barbano tocca il compito di raccontare il cortocircuito sulla giustizia che riguarda invece l’informazione, “la gogna anticipata, la condanna anticipata”. Ridurre il problema della giustizia al rapporto tra magistratura e politica “non è che la punta dell’iceberg”, dice, “perché la giustizia è la più potente macchina di dolore umano presente in questo paese”. E poi ammonisce anche a non cadere nella retorica dell’antimafia secondo cui sotto “l’ombrello della legalità si nasconde sia solo il bene. Un diritto penale liberale non confisca proprietà a cittadini innocenti o addirittura assolti. Un diritto penale non può contenere nel suo ordinamento l’ergastolo ostativo che concede la liberazione dopo 30 anni solo se hai collaborato attivamente coi pm”. Italia Viva, l’attacco di Renzi ai pm: “Sono loro a violare la legge” di Ernesto Ferrara La Repubblica, 21 novembre 2021 Alla Leopolda di Firenze duro intervento sull’inchiesta Open: “Non decidono i magistrati cosa è politica e cosa no, parlerò in tutte le udienze del processo. Dal Pd nessuna solidarietà, ringrazio solo Tinagli”. “Stanno violando la Costituzione. Per sequestrare i nostri telefonini hanno usato 300 persone all’alba, nell’ultima retata contro Messina Denaro erano in 150. Hanno sbagliato Matteo”. A testa bassa, duro come mai. Assediato dall’indagine Open Matteo Renzi reagisce rilanciando. Sparando a zero. Trasforma la Leopolda nel palco della sua requisitoria su Open, per cui è indagato insieme ad altre 10 persone per reati che vanno dal finanziamento illecito alla corruzione. La tesi dei magistrati è che la cassaforte renziana Open agisse come articolazione di partito. Renzi confuta, “mai stata la Leopolda di partito”, e si scaglia contro tutti: gli “accrocchi del Csm” che “se noi facessimo come loro ci indagherebbero per traffico di influenze”, “l’atteggiamento populista dei pm fiorentini”, che “se vogliono capire la politica si dovrebbero candidare”, i silenzi “vigliacchi e mediocri” del Pd, “renitente alla solidarietà”, soprattutto gli ex renziani dem, “l’unica che ringrazio è Irene Tinagli”, sferza Renzi. Poi ancora contro Bersani “che ha preso 82 mila euro dai Riva dell’Ilva di Taranto”, D’Alema “che ha distrutto il Monte dei Paschi” e “i rapporti col Venezuela del M5S, su cui ho comesso il reato di non averli distrutti politicamente, anche se adesso lo fanno da soli”: “Pronto a confrontarmi con tutti, non accetto lezioni di etica” sfida Renzi preoccupando il Pd. Perché la tensione dentro la maggioranza di governo così torna a crescere. I protagonisti della vicenda Open quest’anno non si fanno vedere granché, nella vecchia stazione ferroviaria fiorentina. In fuga dalla ribalta, niente riflettori. C’è Maria Elena Boschi certo, ma mancano in tanti: “Se passo? Non credo. Ma sarà una bella Leopolda sono vicino a tutti” fa sapere ieri mattina l’avvocato Alberto Bianchi, che di Open era dominus. “Non credo di passare, ho il festival delle religioni”, si giustifica pure Marco Carrai. “Un processo kafkiano e uno sputtanamento mediatico”, per il quale “andrò in sede penale a difendermi” e “chiederò di parlare a tutte le udienze”, perché “chi decide che cos’è politica nei Paesi democratici è il Parlamento” arringa Renzi, metà avvocato di sè stesso metà pm a sua volta, come fosse lui ad avviare dalla Leopolda un procedimento contro la giustizia italiana. E infatti l’ex premier cita Enzo Tortora, evoca il film Le vite degli altri sui metodi Ddr, si sfoga per il fatto che agli atti dell’inchiesta Open siano finiti anche sms con Carrai sulla malattia di un amico e persino quelli in cui gli chiedeva di aprire il cancello di casa, “perché al suo cane non sto simpatico, sarà un cane grillino”. Mostra articoli di giornale, foto e chat, Renzi: “A fronte di 15 miliardi di giro d’affari di mafia, Camorra e Ndrangheta in Toscana negli ultimi due anni la Guardia di Finanza di Firenze si sta concentrando su Open, se era o no corrente. Andassero a cercare i riciclatori. Vogliono fare un processo politico alla politica. Hanno fatto una retata stile mafia non hanno trovato niente nei telefonini e si sono messi a fare pesca a strascico nei dati personali. Non mi sento un perseguitato anche se sono indagato dallo stesso pm che ha arrestato i miei genitori e indagato mia sorella e mia cognata. Non ho paura. Nemmeno di chi vuole mettermi il cordone sanitario” sfida il leader Iv infiammando la platea. Sul palco sfilano magistrati, avvocati e docenti iper critici sul sistema giudiziario, Sabino Cassese e Annamaria Bernardini Pace, Gianluca Caiazza, presidente delle Camere penali italiane ma anche legale di Renzi in Open, convinto che “il potere giudiziario abbia esondato i limiti costituzionali” e Carlo Nordio, che si scaglia contro la “spazza-corrotti”. Se le leggi non bastano. La Giornata internazionale contro la violenza sulle donne di Maria Novella De Luca La Repubblica, 21 novembre 2021 Sarà dura quest’anno celebrare il 25 novembre. Sarà dura ricordare la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, mentre all’obitorio di Modena ci sono i corpi ancora non sepolti di Elisa Mulas, dei suoi due bimbi Sami e Ismael e della loro nonna Simonetta. Un’intera famiglia sterminata con un coltello da cucina dal compagno di Elisa e padre di Sami e Ismael. Sarà dura sentire - come ogni anno - l’annuncio di nuovi disegni di legge, di nuove strategie repressive, nell’onda spesso retorica delle giornate “dedicate”, mentre a Vetralla in centinaia piangono sulla bara di Matias, 10 anni, assassinato dal padre per colpire la moglie, Mariola Rapaj, nell’affetto più sacro: un figlio. Di fronte a tanto orrore, il sentimento più umano è lo sgomento, unito a un senso di disfatta. L’Italia ha il corpus di leggi e provvedimenti contro i maschi violenti, contro gli stalker e i maltrattanti, tra i migliori d’Europa. Eppure soltanto nell’ultima settimana abbiamo dovuto piangere la morte di quattro donne (l’ultima ieri a Reggio Emilia) e di tre bambini. Perché dunque questo 25 novembre non sia unicamente una ricorrenza in cui commuoversi e indignarsi, per poi ricominciare il giorno dopo a contare le vittime, non solo le donne, sempre di più anche i bambini, forse bisognerebbe chiedersi dove abbiamo sbagliato. Tutti e tutte. Non una di meno, non uno di meno. La violenza di genere, la sopraffazione dell’uomo sulla donna, è infatti una cattiva pianta che ha radici nella cultura diffusa, nell’educazione familiare, nell’asimmetria del lavoro e degli stipendi, sono gli occhi di un bambino maschio che vede il padre maltrattare la madre e introietterà, purtroppo, quella violenza come comportamento naturale. Patriarcato si chiama. Ed è qui che l’Italia paga il ritardo di aver definito, ad esempio, lo stupro, un reato contro la persona e non contro la morale, soltanto 25 anni fa, nel 1996. Se quel delitto, lungo tutto il Novecento del femminismo e delle conquiste delle donne, ha continuato a essere punito come reato minore (o quasi), forse oggi non dovremo stupirci di vivere in un Paese maschilista. Dove spesso la giustizia non crede alle donne che denunciano, dove i tribunali tolgono i figli alle madri pur in presenza di padri violenti e condannati. Con uno sforzo titanico, dovuto alla militanza incessante dei centri anti-violenza che non hanno permesso alla politica di girare la testa dall’altra parte, dal 2013 ad oggi l’Italia si è dotata di leggi sempre più efficaci e rigorose. Dalla legge antistalking al Codice Rosso. Dov’è allora l’errore? La mancanza di formazione di forze dell’ordine e magistratura? La sottovalutazione delle denunce? Sì, ma non basta. Il nodo è qui. Di fronte alla strage che abbiamo sotto gli occhi, dovremmo ammettere che la violenza di genere è uno di quei delitti dove la repressione, pur fondamentale, non porta sempre alla dissuasione. Perché la dissuasione nasce dallo sradicamento culturale della sopraffazione maschile sulle donne. La commissione d’inchiesta del Senato ha pubblicato una importante indagine su 200 casi di femminicidio dal 2017 al 2019. Da cui emerge che il 65% delle donne maltrattate e abusate non solo non denuncia, ma non parla del proprio dramma nemmeno con le amiche. Perché pur essendo vittime si sentono colpevolizzate e giudicate. Ancora oggi. Quasi da non credere. Dunque, accanto alla repressione, è di una strategia culturale tenace e capillare che c’è bisogno, a cominciare dalle scuole d’infanzia, sulla parità e l’educazione al sentimento. Quando negli anni Novanta l’Italia capì che per sconfiggere l’Aids era necessario parlare senza tabù di sesso sicuro e di preservativi, le campagne furono battenti, quasi ossessive. Mettiamoci lo stesso impegno nello smascherare tutti quei retaggi patriarcali che armano le mani dei killer di donne e bambini. I Centri antiviolenza: “Solo il 2% dei fondi del 2020 è arrivato a destinazione” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 21 novembre 2021 Il dossier di Action Aid: in ritardo anche le erogazioni per l’emergenza coronavirus. Stanziati 3 milioni, ma per aiutare tutte le donne in difficoltà ne servirebbero 48. La curva sembrava invertita, finalmente. Sembrava più veloce e meno burocratico il percorso di sostegno che dalla politica porta alle donne che subiscono violenza. Ma era un’illusione. Perché i dati di quest’ultimo anno ci riportano indietro e ci ricordano che non è riuscita a migliorare il sistema antiviolenza nemmeno la pandemia, che pure doveva essere il motore potente di un nuovo corso e che a un certo punto aveva imposto l’argomento fra le priorità dell’agenda di governo. Una premessa. La facciamo con le parole del professor Carlo Rimini che all’inizio del 2021, da queste pagine, centrò il punto. Si parlava ovviamente di donne che subiscono violenza e “per proteggerle - scrisse lui - occorrono risorse, competenze e formazione; per far sentire braccati i loro persecutori”. Però, obiettò, “tutto ciò non si fa con i proclami ma con il denaro, tanto denaro”. Si potrebbe discutere a lungo su quanto sia “tanto denaro” per questa causa, ma qui siamo un passo più indietro: parliamo non di quantità (i fondi sono certamente insufficienti) ma dei tempi esasperanti per far arrivare a destinazione gli stanziamenti. Ce lo racconta “Cronache di un’occasione mancata”, l’ultimo dossier di ActionAid, l’ong internazionale che da anni monitora con precisione chirurgica la filiera dei fondi statali antiviolenza su tutto il territorio nazionale (escluse le province di Trento e Bolzano). Al 15 ottobre 2021, per dire, le Regioni hanno erogato alle Case rifugio e ai Centri antiviolenza il 71% dei fondi dell’anno 2017 (che erano 12,4 milioni di euro); il 67% di quelli previsti per il 2018 (19,6 milioni); il 56% dei soldi disponibili nel 2019 (29,4 milioni) e soltanto il 2% dei 27,5 milioni messi a disposizione nel 2020. Cioè: nel 2020 - come sempre in un giorno di novembre vicino al 25, giornata internazionale contro la violenza sulle donne - è stata annunciata la cifra stanziata per l’anno che stava per finire e, da allora ad oggi, un anno dopo, di quella cifra solo un misero 2% è approdato ai Centri e alle Case, tra l’altro di due sole regioni: Liguria e Umbria. In questo accumularsi di ritardi c’è stato un tempo in cui si è osato sperare che tutto cambiasse in meglio : è stato quando, in piena pandemia, nella primavera del 2020, la ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti ha risposto agli appelli che arrivavano dalle strutture del territorio di fronte alle difficoltà legate all’emergenza sanitaria. Lo ha fatto imponendo al secondo governo Conte la procedura accelerata per sbloccare i fondi che erano stati stanziati nel novembre del 2019. Risultato: un’impennata dei soldi arrivati e spesi dai Centri e dalle Case e tempi dimezzati nel passaggio dal Dipartimento Pari Opportunità alle Regioni (da 8 a 4 mesi). Segno evidente che, volendo, esiste il modo di velocizzare tutto. Peccato che la procedura accelerata sia valsa soltanto per il 2020. E infatti nel 2021 siamo tornati indietro: 7 mesi per il passaggio Stato-Regioni. L’emergenza sanitaria aveva stabilito a marzo 2020 uno stanziamento di 3 milioni di euro per le spese straordinarie sostenute dalle Case rifugio per la pandemia. Al momento - svelano i dati ActionAid - ne risulta liquidato l’1%. La ministra Bonetti si era attivata, inoltre, ad aprile 2020, per un fondo da 5,5 milioni di euro sempre a sostegno degli enti che gestiscono Case e Centri. Ma su 342 Centri e 286 Case recensite dalle Regioni come destinatarie dei fondi del Piano nazionale antiviolenza, ne hanno usufruito soltanto in 142. Perché per avere quel sostegno era prevista una fidejussione pari all’80% dell’importo e molte strutture, specie le più piccole, non riescono a ottenerla dalle banche. C’era un’altra misura voluta per fronteggiare la pandemia il “reddito di libertà” per sostenere le donne nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza, con un massimo di 400 euro al mese per 12 mesi. Stanziamento previsto: 3 milioni (dovrebbero essere rifinanziati con altri due milioni) decisi a maggio 2020, però mai distribuiti perché mancava la circolare dell’Inps per modalità e requisiti di accesso. L’Inps ha deciso i dettagli pochi giorni fa e la rete D.i.Re, che tiene assieme 84 organizzazioni di donne (gestiscono più di 100 centri antiviolenza e 50 case rifugio) ha fatto due conti: ne potranno beneficiare 625 donne in tutta Italia ma per farlo arrivare alla platea di tutte le donne che ne avrebbe bisogno servirebbero almeno 48 milioni di euro. Tutto questo aspettando di conoscere la cifra degli stanziamenti 2021 e la parte operativa (cioè il chi fa cosa e in quali tempi) del nuovo Piano nazionale antiviolenza 2021-20123, pubblicato tre giorni fa sul sito del Dipartimento pari opportunità. Bologna. Detenuto trovato morto alla Dozza, il sospetto è un malore nel sonno di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 21 novembre 2021 Il magistrato dispone l’autopsia. Fateh Daas, 42 anni, era al secondo piano del padiglione giudiziario. È stato il compagno di cella, ieri mattina alle 9,30, ad accorgersi che non respirava più e dare l’allarme alla penitenziaria. Fateh Daas aveva 42 anni. Algerino, era detenuto al secondo piano giudiziario dal 10 ottobre scorso per spaccio, in attesa di primo giudizio. E la morte, stando alle prime indiscrezioni, sarebbe avvenuta a causa di un malore che lo ha colto nel sonno. Ma per fugare ogni dubbio verrà comunque effettuata l’autopsia. In un primo momento, infatti, si è sospettato si potesse trattare anche di un suicidio o di un malore legato all’assunzione di qualche tipo di sostanza. Come denunciano da tempo i sindacati di penitenziaria, infatti, nel padiglione dove ha trovato la morte Fateh, oltre alla abitudine di alcuni detenuti di distillare artigianalmente una sorta di grappa, molto pericolosa, gira anche della sostanza stupefacente. Pochi giorni fa è stato trovato dell’hashish all’interno della cinta muraria del carcere. Un po’ di settimane prima, addirittura, una palla di eroina. E poco dopo, un altro detenuto era finito in overdose ed era stato salvato all’ultimo momento dall’intervento tempestivo degli agenti del reparto infermeria. Una situazione difficile, in un reparto dove è altissima la concentrazione di detenuti con dipendenze, sia da droghe che da alcol. L’ultimo allarme, importato dai detenuti sudamericani, è lo sniffing: ma tra le mura della Dozza, in mancanza di colla, ad essere sniffato è il gas dei bomboloni utilizzati in cella per cucinare. Frosinone. Un agente: “Ho portato io nella sezione alta sicurezza del carcere quell’arma” di Clemente Pistilli La Repubblica, 21 novembre 2021 “Avevano in ostaggio mio figlio”. La denuncia del poliziotto della penitenziaria apre nuovi scenari sulla sparatoria dello scorso 19 settembre. Ora è agli atti degli inquirenti che indagano sul regolamento di conti tra clan dietro alle sbarre della sezione di massima sicurezza. “Avevano sequestrato mia moglie e i miei figli. Li tenevano con una pistola puntata alla testa. Sono stato costretto a farlo. Ho portato io nella sezione alta sicurezza del carcere quell’arma”. Un racconto agghiacciante quello fatto da un agente della Polizia penitenziaria di Frosinone, che ha denunciato di aver consegnato lui ad Alessio Peluso la semiautomatica che il 29enne, ritenuto un esponente della camorra, ha utilizzato lo scorso 19 settembre nel capoluogo ciociaro per cercare di uccidere altri detenuti da cui era stato aggredito. Smentita così la tesi che quella Berardinelli semiautomatica sia entrata in una delle celle con un drone, come subito dopo i fatti aveva assicurato anche il Dap. Ma quanto avvenuto è un giallo, su cui sono in corso accertamenti delicati e portati avanti con grande circospezione. Una situazione talmente intricata e inquietante che circa due settimane fa è stato smantellato il reparto alta sicurezza del carcere di Frosinone, trasferendo decine di detenuti, tutti accusati di mafia o di narcotraffico, nei diversi penitenziari italiani, dalle Alpi alla Sicilia. Il sequestro della famiglia dell’agente penitenziario - L’agente della Penitenziaria che ha denunciato il sequestro della sua famiglia e le minacce nei suoi confronti avrebbe specificato di essere stato avvicinato mentre stava entrando in carcere per prendere servizio. “Devi portare dentro questa pistola. Se non lo fai uccidiamo tua moglie e i tuoi figli. Sono in mano nostra”, gli avrebbero detto. A quel punto l’uomo che lo ha fermato gli avrebbe passato il telefonino, facendogli sentire la voce dei suoi familiari, terrorizzati nella loro casa in un paese nei pressi del capoluogo ciociaro. “Avevano le armi puntate alla testa. Non potevo rifiutarmi”, avrebbe precisato. L’agente avrebbe così consegnato la pistola a Peluso e gli avrebbe aperto la cella. Perché però ha presentato la denuncia solo il giorno dopo, 24 ore dopo un episodio che non ha precedenti negli ultimi 50 anni nelle carceri italiane? “Ero minacciato”, avrebbe assicurato. La guerra tra i ras dello spaccio - Le indagini sono in corso, ma proprio chi indaga continua a portare avanti la tesi del drone, con la convinzione che il tentato omicidio non sia scaturito da un litigio banale, ma da contrasti profondi esplosi per affari di grande rilevanza. Il 16 settembre 2021, tre giorni prima che Alessio Peluso, detto ‘O Niro, 29 anni, ras del quartiere nord di Miano, iniziasse a sparare, lo stesso Peluso era stato vittima di un pestaggio. Un’aggressione per cui la Procura di Frosinone si prepara a chiedere il rinvio a giudizio di cinque indagati: Genny Esposito, 32 anni, di Napoli, figlio di Luigi, boss del clan Licciardi, figura emergente tra i narcos romani, nella piazza di spaccio di San Basilio, e legato a Michele Senese, l’albanese Andrea Kercanaj, 44 anni, detto Sandro, da tempo residente a Frosinone, accusato di aver messo in piedi l’organizzazione che gestisce il traffico di droga tra le case popolari del capoluogo ciociaro, Marco Corona, 35 anni, di Napoli, esponente del clan Lo Russo, Mario Avolio, 55 anni, di Napoli, e l’albanese Blerim Sulejmani, di 37 anni, accusati di lesioni personali pluriaggravate e sequestro di persona. ‘O Niro voleva vendicarsi e a quanto pare con grande facilità è riuscito a chiedere all’esterno una pistola e a farsela recapitare direttamente nella sua cella nel giro di tre giorni, uscendo poi con la scusa di una doccia, sparando quattro colpi di 7.65. contro altri tre detenuti e riuscendo solo a ferire lievemente una delle vittime. Tutto per qualche insulto e un’aggressione? Gli investigatori non ci credono. La vendetta per uno sgarro - Corona, che è stato definito pericoloso e spregiudicato persino dal capo del suo clan diventato collaboratore di giustizia, e Peluso erano molto legati quando insieme trafficavano droga in Campania. Per gli inquirenti c’è altro. C’è qualche grosso affare appunto, che ha portato a una resa dei conti feroce e a investire somme indubbiamente ingenti per mettere in piedi un’organizzazione capace persino di far arrivare una pistola in un braccio di alta sicurezza grazie a un drone. Gli investigatori continuano così a essere certi che l’arma sia stata recapitata con un drone. “Il velivolo senza pilota è stato inquadrato dalle telecamere di sorveglianza del carcere”, aveva subito assicurato il provveditore delle carceri del Lazio, Carmelo Cantone, anche se nessuna telecamera avrebbe inquadrato la semiautomatica. “Conto a breve si possa dare una risposta a questa incursione di droni che mi è stato detto essere addirittura settimanale” aveva aggiunto il capo del Dap, Bernardo Petralia, inviato dalla ministra della giustizia Marta Cartabia a Frosinone all’indomani della sparatoria. L’inchiesta dopo la nuova rivelazione - E il racconto dell’agente della polizia penitenziaria? Le indagini sono in corso per chiarire il ruolo nella vicenda dello stesso agente e potrebbero portare anche a scenari diversi. Dopo gli spari la questura è stata avvertita con una certa calma e Peluso ha avuto persino il tempo di usare un telefonino e chiamare il suo avvocato, chiedendo consigli su come comportarsi. Sono tante le domande a cui dare una risposta. Tutto in una struttura dove sono stati in passato arrestati agenti della polizia penitenziaria, si sono verificate evasioni, sono stati sequestrati telefonini e droga, sono state compiute aggressioni e appiccati incendi. Per qualche tempo in quelle celle si sarebbe persino aggirato un serial killer, Daniele Cestra, attualmente imputato davanti alla Corte d’Assise del Tribunale di Frosinone con l’accusa di aver ucciso due compagni di cella e di averne poi simulato il suicidio. Abbastanza per far chiudere un reparto alta sicurezza. Udine. Focolaio Covid nel carcere, contagiati un agente di polizia e sette detenuti Messaggero Veneto, 21 novembre 2021 C’è un focolaio Covid anche nel carcere di Udine. Sette detenuti (dei 141 attualmente presenti) sono risultati positivi al tampone e anche un agente di polizia penitenziaria. Tutti quanti stanno abbastanza bene e, come spiega la direttrice, Tiziana Paoloni, non hanno sintomi importanti, ma all’interno della casa circondariale sono scattate tutta una serie di misure precauzionali in accordo con il Dipartimento di prevenzione dell’Azienda sanitaria. Tutte le attività in presenza, in attesa dell’esito dello screening di controllo sia per la popolazione carceraria sia per il personale, sono state sospese. “I tamponi saranno effettuati in due fasi - sottolinea la direttrice - e dopo la prima decideremo come procedere. E tutto con il costante monitoraggio dell’Azienda sanitaria”. I dati sulla copertura vaccinale a metà settimana erano i seguenti: polizia penitenziaria: vaccinati 86 su 91 (94,5%); detenuti, vaccinati 97 su 141 (69%). Napoli. I canti di Dante contro la camorra. “Coi libri salviamo i ragazzi di Forcella” di Antonio Averaimo Avvenire, 21 novembre 2021 Un modo diverso per commemorare i 700 anni dalla morte di Dante, ma anche ricordare Annalisa Durante, giovanissima vittima innocente della criminalità organizzata. “Altrove, per commemorare i 700 anni dalla morte di Dante, si sono fatti convegni. Noi invece abbiamo deciso di renderlo attuale”. Giuseppe Perna, presidente dell’associazione Annalisa Durante, dedicata all’adolescente ammazzata nel corso di un agguato di camorra nel quartiere napoletano di Forcella, descrive così il progetto messo a punto la scorsa primavera dalla sua associazione. Gli alunni dell’istituto Adelaide Ristori hanno non solo riletto, ma riscritto il primo canto dell’Inferno della Divina Commedia. E hanno sostituito la selva oscura con i vicoli del loro quartiere. A guidare il poeta fiorentino nelle strade di Forcella hanno immaginato che fosse proprio Annalisa, alla quale hanno affidato il doppio ruolo di Virgilio-Beatrice. Dante si smarrisce nei vicoli oscuri del quartiere, divenendo preda delle belve, che qui sono allegoria dei pericoli che corre chi si avvicina al sistema camorristico. Annalisa lo condurrà sulla strada del bene, guidandolo fra le bellezze storiche del quartiere, culminanti nel bivio a “Y” nel quale si dirama il decumano inferiore - simbolo pitagorico del discernimento tra la virtù e il vizio, tra il bene e il male -, da cui Forcella prende il nome. L’atto finale del progetto è stata la rappresentazione del primo canto riscritto dagli studenti di Forcella andata in scena questa settimana, in occasione della Giornata internazionale dello studente, nei vicoli del quartiere. Partiti dal sagrato della chiesa di San Giorgio Maggiore, sono state effettuate cinque soste in luoghi simbolo della resistenza di Forcella al sistema camorristico, tra i quali la Biblioteca Annalisa Durante, la “Y” pitagorica raffigurante il bivio tra vizio e virtù e il Teatro Trianon Viviani. Un trampoliere ha guidato, nei panni di Dante, il corteo di studenti. Durante le diverse tappe, gli alunni del Ristori hanno declamato i versi del ricalco del primo canto della Divina Commedia, scritti nei mesi scorsi nel corso dei laboratori tenutisi nella Biblioteca Annalisa Durante e tra le vie del quartiere, sotto la guida di scrittori, bibliotecari ed esperti del Patto locale per la lettura Reading Forcella (di cui il progetto Dante a Forcella è parte integrante). Il grande lavoro di condivisione è finito nel libro Dante a Forcella, edito da Guida, che sarà distribuito in tutte le scuole della municipalità di Forcella, nelle case del quartiere e in un centinaio di biblioteche italiane, “al fine di divulgare in tutte le Regioni il modo originale con cui il Patto locale per la lettura Reading Forcella è riuscito ad attualizzare e a mantenere vivo il pensiero del Sommo Poeta nei 700 anni dalla sua morte”, spiegano i promotori. Ma c’è molto di più: fin dall’inizio della sua attività, la diffusione della lettura fra i giovani di Forcella è stata il principale obiettivo dell’associazione Annalisa Durante. “Subito dopo la sua morte abbiamo introdotto nel quartiere la lettura 0-6 anni - spiega il presidente Perna -. I ragazzi vanno seguiti fin da quando nascono per evitare che imbocchino la strada della devianza. Quando chiediamo ai nostri bambini: “A cosa vuoi giocare?”, ci sentiamo troppo spesso rispondere: “Voglio giocare a Gomorra”. Per noi, la risposta a tutto questo è il libro”. Proprio per questo, il più grande simbolo della resistenza alla camorra di Forcella è diventata la biblioteca che prende il nome di Annalisa. Che sui libri di scuola trascorreva gran parte delle proprie giornate, sognando fra un compito e l’altro quel futuro rubatole dai camorristi. Genova. Convegno AGI, la senatrice Leone (M5S) riferisce sulle carceri femminili di Gabriella de Filippis* weeklymagazine.it, 21 novembre 2021 Si è tenuto il 18 novembre nella sala convegni del Centro Cultura e Formazione dell’Ordine degli Avvocati di Genova il convegno organizzato dalla sezione genovese dell’AGI (Associazione Giuriste Italiane) dedicato alle problematiche delle detenute madri. Oltre alla Presidente e alla segretaria dell’AGI - sezione Genova, rispettivamente avv. Laura Granata e avv. Gabriella de Filippis hanno preso parte, quali relatrici, la dott.ssa Valeria Fazio, già Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Genova, la dott.ssa Chiara Semenza, magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Genova, la dott.ssa Sandra Vasè, psicologa e la senatrice del Movimento 5 Stelle Cinzia Leone, vicepresidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. La senatrice, che è anche componente della Commissione studio del Senato sulle carceri, ha illustrato la situazione attuale degli istituti di pena, con particolare riferimento agli istituti di pena che ospitano donne. “Ho partecipato con molto piacere al convegno sulla genitorialità delle detenute madri presso il Centro Cultura, Formazione e Attività Forensi di Genova. Ciò che è emerso, ascoltando i relatori, è che la invisibilità delle donne nella nostra società è cosa ben nota, diventa altamente drammatica quando questa pratica viene protratta nelle nostre carceri, luoghi dello Stato, presidi di civiltà che hanno motivo di esistere perché devono assolvere al loro compito precipuo di riabilitare la persona. È quanto mai fondamentale che le istituzioni si prendano carico di questa parte della popolazione carceraria femminile e che la rispettino anche nelle necessità più elementari, l’igiene intima, per esempio, e altre necessità prettamente femminili. Molte donne detenute non sono altro che ragazzine che per incoscienza o idee confuse sono divenute mamme; ecco che a questa leggerezza individuale lo Stato deve aiutare con la sua forza possente a recuperare questa dimensione poetica che è la maternità. Purtroppo le nostre oltre 2000 detenute restano ancora invisibili e trovano un po’ di conforto solo tra le compagne di cella, con un’insopprimibile voglia di solidarietà tutta al femminile e solo umana. Lo Stato non può restare indifferente a tutto ciò, deve attivarsi. Deve creare spazi nuovi e adatti per questa tipologia di detenute, formare personale adatto per loro, inventarsi forme alternative di pena, perché la vita le ha già punite, e non si può infierire ulteriormente. “Nella mattinata di oggi la senatrice Cinzia Leone, accompagnata dall’avv. Gabriella de Filippis si è recata in visita presso la casa circondariale di Genova-Pontedecimo. Qui è stata accolta dalla nuova direttrice dell’istituto, la dott.ssa Paola Penco, e dal Comandante, dirigente della Polizia Penitenziaria dott. Stefano Bruzzone. La senatrice Cinzia Leone e l’avv. Gabriella de Filippis sono state accompagnate nella loro visita anche dal vice comandante e dal coordinatore della sezione femminile. Oltre ad aver visitato le celle che ospitano le detenute sono poi state condotte nella sala adibita a biblioteca, ove hanno potuto incontrare e colloquiare con diverse donne detenute. La direttrice, dott.ssa Penco ha poi illustrato i vari progetti che, coadiuvata da tutto il personale che opera all’interno della detta casa circondariale, sta portando avanti. Tra i vari progetti la senatrice è rimasta colpita in particolare dal progetto “Con Fido in gabbia”, che, con la partecipazione e sotto la super visione della educatrice cinofila Marta Marchini, presidente della associazione What a wonderfull dog, si propone di istruire le detenute in modo che poi possano in seguito potersi proporre per adottare un animale maltrattato o abbandonato. Anche il fatto che all’interno del penitenziario oltre alla presenza di un Polo Universitario vi sia la possibilità di usufruire delle attività di scolarizzazione, a partire dalla scuola primaria sino alle scuole superiori è stato molto apprezzato dalla Senatrice. A tale proposito, piace segnalare che, mentre le due visitatrici ospiti si trovavano nella biblioteca sono state raggiunte da una detenuta, iscritta al corso di laurea in giurisprudenza, che aveva appena brillantemente superato l’esame di diritto romano. Infine, dopo avere appreso che all’interno dell’istituto di pena in questione vi è anche una apposita sezione dedicata ai “sex offender” la senatrice, superate le prime perplessità sulla opportunità di collocazione di tale sezione all’interno di un carcere in cui vi sono anche detenute donne ha comunque apprezzato il lavoro di rieducazione dell’uomo maltrattante portato avanti dalla associazione White Dove, sotto la presidenza del dott. Arturo Sica, coadiuvato dalla dott.ssa Silvia Baudrino. Le detenute hanno comunque tutte manifestato in generale apprezzamento per il personale di polizia penitenziaria che opera all’interno del carcere di Pontedecimo, personale che è presente e molto partecipe alle varie iniziative e che riesce comunque a contemperare le diverse esigenze, a volte contrapposte tra loro, che la loro particolare professione comporta. *Segretaria AGI - sezione Genova Siena. “Comunicare da dentro”: inaugurazione opera Policlinico “Le Scotte” antennaradioesse.it, 21 novembre 2021 Il prossimo lunedì 22 novembre 2021, alle ore 12,00, presso la sala di attesa del centro Emotrasfusionale del Policlinico Universitario “Santa Maria alle Scotte” di Siena, si terrà la cerimonia di consegna del quadro realizzato dai partecipanti al laboratorio di pittura presso la Casa Circondariale di Siena, nell’ambito del progetto “Siena, comunicare da dentro. laboratorio di pittura in carcere” curato da Monica Minucci per l’Associazione Culturing APS, realizzato grazie al contributo di Fondazione Chianti Banca. Saranno presenti alla cerimonia Antonio Davide Barretta, direttore generale dell’Aou Senese, Sergio La Montagna, direttore della Casa Circondariale di Siena, la docente del corso Monica Minucci e la presidente dell’Associazione Culturing APS Carolin Angerbauer. Parteciperà all’evento anche uno degli autori dell’opera. Il laboratorio, a cadenza settimanale, è andato avanti dal 1° febbraio al 30 aprile 2021 grazie all’impegno della docente di pittura Monica Minucci, e ha visto impegnati circa dieci detenuti. Il progetto è nato proprio con l’idea di realizzare un’opera durante il laboratorio da destinare al Policlinico “Santa Maria alle Scotte” di Siena, cui l’opera è stata poi donata e allestita, a cura dell’Aou Senese, nella sala di attesa del centro Emotrasfusionale del Policlinico, luogo altamente simbolico. L’opera (tela di cotone dipinta ad acrilico, misure 1,80 x 2,00 mt) è stata intitolata “Siena. Comunicare da dentro” e rappresenta l’immagine di Siena con in primo piano il profilo stilizzato di Guidoriccio, un messaggero di emozione e libertà. Le attività svolte durante il corso, ritardate per il sopraggiungere dell’emergenza sanitaria da Covid-19, sono state: disegni preparatori su carta, pittura su tela, fotografia come strumento di documentazione dell’attività svolta, raccolta di documenti inerenti al tema oggetto del programma del laboratorio. L’obiettivo principale del progetto è stato quello di favorire la risocializzazione, aiutare i detenuti a sentirsi meno esclusi, a ritrovare il piacere di avere contatti con altre persone. Magari anche a prendere per la prima volta in mano una matita o dei colori per fare un disegno, proprio sotto la guida dei compagni di cella partecipanti al laboratorio. Questo serve molto a migliorare la vita in carcere, a promuovere scambi relazionali, agevolando, poi, il reinserimento nella Società dopo che si è scontata la pena. L’Arteterapia aiuta i detenuti a ritrovare la libertà di esprimersi e a uscire dall’isolamento, ristabilendo rapporti con gli altri e incanalando positivamente e in maniera costruttiva le tensioni in attività legate alla pittura. La presente attività ha voluto portare fuori dal contesto penitenziario quelle che sono le risultanze di un lavoro realizzato dai detenuti e finalizzato a realtà esterne e che ne andranno a beneficiare, in questo caso spazi espositivi ospedalieri, per creare un ponte comunicativo con l’esterno attraverso il lavoro artistico dei partecipanti all’opera. Roma. La potenza dell’ascolto nel racconto della suora e del detenuto di Rebibbia di Roberto Monteforte , 21 novembre 2021 Oltre due ore intense di incontro sulla vita dei detenuti in un carcere romano, quello di Rebibbia, prima e durante il Covid è stato quello tenuto lo scorso 18 novembre presso la sede nazionale dell’Usmi (Unione Superiore Maggiori d’Italia) a via Zanardelli a Roma. Una sferzata di umanità ha arricchito il percorso di formazione delle religiose “novizie” - una quarantina quelle presenti nell’aula magna dell’istituto, tante altre collegate da remoto - grazie alla testimonianza di suor Emma Zordan, della Congregazione delle Adoratrici del sangue di Cristo, che da oltre sette anni presta servizio di volontariato nel carcere romano, animando un laboratorio di scrittura creativa. La religiosa ha raccontato tutto il percorso che l’ha condotta a Rebibbia. Le sue inquietudini, il coraggio e la forza ritrovati dopo aver varcato il cancello del carcere e i tanti che si sono aperti e richiusi prima che arrivasse alla sezione penale, quella dove avrebbe svolto la sua attività di volontaria. Tutto è più forte e intenso “dentro” le mura, dove nulla è scontato. I rapporti tra le persone si fanno profondi, autentici, ma solo quando scatta la fiducia. È stato così per suor Emma. Da alcuni anni vive a Latina dove è responsabile della comunità “san Gaspare” di 29 suore anziane, ma ogni sabato mattina alle otto, immancabilmente, è lì, a Rebibbia, con i pacchi per i suoi amici detenuti. Lo dice apertamente alle consorelle che l’ascoltano attente: “Quella è ora la mia famiglia!”. E In effetti è amica, madre e sorella per tanti detenuti. Anche un piccolo suo gesto, come “portare le caramelle” ha per loro un grande significato. È come una carezza dell’anima. Lo conferma l’altro protagonista dell’incontro all’Usmi: Carmine C., detenuto in regime di semilibertà dopo 16 anni scontati in vari istituti di pena. È stato tra i primi ad incontrare la religiosa “volontaria” a Rebibbia e a collaborare con lei. Proprio il confronto tra i due, a volte intenso, altre volte scherzoso, ha consentito di “far vivere” ai presenti la durezza della vita carceraria e quanto sia importante la presenza di una persona che “da fuori” sappia portare ascolto, affetto, attenzione, speranza. In una condizione come quella carceraria che limita non solo gli spazi fisici, ma anche la dignità della persona, la testimonianza di quella suora - all’apparenza così esile e minuta, aperta e sorridente, ma anche esigente e severa - ha aiutato tanti reclusi a recuperare la propria dignità, insieme alla consapevolezza degli errori commessi e alla speranza di futuro, di perdono, di vita nuova. Lo racconta con emozione Carmine, senza nascondere l’affetto e la riconoscenza per questa donna di Dio, che senza chiedere nulla di loro, della loro vita precedente, né delle colpe di cui si erano macchiati, senza chiedere nulla in cambio, ha offerto la sua umanità. Si è presa cura delle loro ferite testimoniando così, nella carità, la sua fede. Lo strumento di questo percorso è stato il “laboratorio di scrittura creativa”. Nel suo intervento la religiosa ha ripercorso le tappe di questi anni di lavoro, ricordando i titoli dei libri che hanno raccolto le testimonianze dei detenuti. Un video, “Non siamo soli…” realizzato dagli stessi detenuti, ha accompagnato questa riflessione. Sino ad arrivare all’ultima fatica: la presentazione del libro “Non tutti sanno…La voce dei detenuti di Rebibbia” che è stata l’altra ragione dell’incontro. Il volume propone alcune testimonianze dei carcerati sulla speranza, raccolte prima e durante la pandemia. Questa volta il libro è stato pubblicato dalla Lev Libreria Editrice Vaticana e con una prefazione del cardinale Giuseppe Petrocchi arcivescovo de l’Aquila. La ragione di questa scelta la spiega il giornalista Roberto Monteforte che ha collaborato con suor Emma alla realizzazione del libro: “Le testimonianze sono proposte a chi è fuori le sbarre, alle persone comuni che si considerano “libere” e che, invece, troppo spesso sono prigioniere dei loro pregiudizi che le rendono incapaci di accogliere”. Su questo punto interviene anche l’avvocato Antonella Pacifico, coinvolta anche lei da suor Emma nel progetto “laboratorio di scrittura in carcere”. Lo fa ricordando la “paura del dopo” espressa da tanti detenuti. “A preoccupare è la violenza che c’è fuori dal carcere, fatta di pregiudizio e prevenzione. Così la pena che non si finisce mai di scontarla perché - lo sottolinea citando passi di una testimonianza del libro - lo stigma del carcerato è impresso come un marchio a fuoco indelebile sulla pelle”. Perché la pena non deve avere fine? Perché a pagare devono essere anche le famiglie innocenti di chi la sta scontando? Come si affronta il dopo? Una volta fuori, cosa sarà il reinserimento sociale del detenuto? Il tema si presenta in ogni parte del mondo e coinvolge le “novizie” giunte a Roma da tutti i continenti. C’è chi ricorda l’esperienza positive maturata in uno stato del Brasile. Ma il tema più sentito è l’appello lanciato da suor Emma. “Siamo troppo poche. Venite anche voi a dare testimonianza di fede nel servizio ai carcerati”. “Quante corone del Rosario mi chiedono! - aggiunge la religiosa - E io li invito a recitare il Padre Nostro”. Perché si può evangelizzare anche in questo modo: offrendo ascolto e amicizia. La testimonianza di Carmine commuove. Racconta del suo dialogo nelle notti di solitudine in cella con il Crocifisso. “Lo prego, ci parlo, mi confido, ci litigo…”. Suor Rosanna Costantini responsabile dell’area formativa dell’Usmi lo aveva già sottolineato all’apertura dell’incontro: la missione oggi è offrire testimonianza nella vita concreta, nell’amore per gli ultimi, “Come ci ha insegnato papa Francesco che ha celebrato la sua prima Coena Domini non in Vaticano, ma nel carcere minorile di Casal di Marmo lavando i piedi ai ragazzi detenuti. Questa è la Chiesa in uscita al servizio degli scartati!”. È grande l’attenzione nell’aula magna dell’Usmi ed anche per chi era collegato a distanza. Arrivano domande, richieste di chiarimenti, testimonianze e tanta disponibilità. C’è chi ha assicurato che chiederà alla madre generale della propria Congregazione la possibilità di seguire la strada indicata da suor Emma. Ecco quando una testimonianza arriva al cuore! Verrebbe da dire un obiettivo è stato raggiunto. Ma resta quello più difficile: arrivare al cuore di chi è abituato a giudicare senza compassione e aiutarlo a scoprire la fraternità. Anche verso i fratelli delle carceri. È proprio l’obiettivo del volume “Non tutti sanno…”. Aiutare a capire e a sapere per essere tutti più umani. Rovigo. Al cinema Duomo il tema delle carceri con “Ariaferma” polesine24.it, 21 novembre 2021 Prima del film Livio Ferrari ha spiegato le condizioni dei penitenziari in Italia. Il saluto del regista di “Ariaferma”, Leonardo Di Costanzo, ha sorpreso ed emozionato il pubblico del cinema Duomo, dove venerdì sera il film è stato l’occasione per un evento speciale. Interpretato da Silvio Orlando e Toni Servillo, il film racconta con umanità e passione il mondo del carcere e chi vi vive. Un’opera toccante, premiata dall’ottima partecipazione di pubblico allo spettacolo delle 20.30. Prima del film una piccola sorpresa: quindici minuti di chiacchierata tra Francesco Casoni del cinema Duomo e Livio Ferrari, scrittore, giornalista ed esperto di carcere, nonché direttore del Centro francescano di ascolto, storica associazione di volontariato carcerario. Nel suo intervento Ferrari ha tracciato la situazione delle carceri italiane, alle prese con sovraffollamento, condizioni di vita spesso estreme, carenza di personale. Un’emergenza che la pandemia ha reso ancora più drammatica non solo per gli ospiti, ma anche per chi vi lavora. Tra i segnali più allarmanti, il numero elevatissimo di morti in cella, che nel 2021 ha ormai superato da tempo il centinaio. Come uscirne? La proposta di Ferrari è “No prison”: non solo il titolo di una delle sue ultime fatiche letterarie, ma anche il nome di un movimento di cui lo scrittore rodigino si fa promotore. “Dopo molti anni dentro le carceri, ho sentito il bisogno di impegnarmi per fare qualcosa - ha spiegato al pubblico in sala -. Occorre superare il modello punitivo e offrire a chi non è pericoloso delle vere opportunità di riabilitazione e umanità”. “Ariaferma” sarà proiettata anche nel weekend, domenica è in programma alle 20.30. Sciascia fra diritto e grande letteratura Riflessioni sull’importanza della verità di Michele Cozzi Corriere del Mezzogiorno, 21 novembre 2021 I principali temi della giustizia e le considerazioni dello scrittore siciliano in un volume edito da Cacucci. Il caso giudiziario di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, condannato in primo grado a 13 anni e due mesi per una serie di reati riguardanti la gestione del sistema dell’accoglienza dei migranti rappresenta la vicenda che ha maggiormente scaldato gli animi della società italiana, divisa tra innocentisti, a prescindere, e rigorosi gestori della razionalità della legge. Nel dibattito, improvvisandosi frettolosi scienziati del diritto, non sono mancate voci di uomini dello spettacolo, influencer di ogni sorta che hanno espresso il proprio parere, tacciando la sentenza di tecnicismi o peggio ancora, di asimmetria rispetto al sentiment dell’opinione pubblica. Un terreno scivoloso, contro lo stato di diritto, poiché l’accertamento della verità giudiziaria ha canali “propri” che non possono che oltrepassare la concezione della “verità” di cui ogni cittadino è portatore. La casa editrice barese Cacucci, nella collana “Biblioteca di cultura giuridica” diretta Pietro Curzio, primo presidente della Cassazione, ha pubblicato il saggio “Diritto, verità, giustizia”, a cura di Luigi Cavallaro e Roberto Giovanni Conti, (entrambi consiglieri della Corte di Cassazione) che ha una ispirazione originalissima: affrontare i temi centrali della giustizia attraverso gli scritti di Leonardo Sciascia, nel centenario della nascita dello scrittore di Racalmuto. Un approccio inedito che, come scrive Curzio nella presentazione, “interpreta al meglio la filosofia della collana, collocandosi sul confine tra letteratura e diritto, un confine meno definito di quanto si creda”. Lo scopo? Scoprire e analizzare attraverso la grande letteratura di Sciascia i meandri, le luci e le ombre dei percorsi della giustizia e la “solitudine” del magistrato “costretto” a decidere della vita degli altri, districandosi in un sentiero costantemente frantumato - scrivono i curatori per “l’irruzione di fonti sovranazionali dotate di immediata capacità confermativa del nostro ordinamento e, soprattutto, di sollecitazioni dei testi normativi sempre più orientati da giudizi di valore”. L’opera di Sciascia ruota attorno “al problema della giustizia”, che ingloba i valori della libertà, della dignità umana, e del contraltare, i numerosi casi di ingiustizia di cui sono piene le sue pagine. Così magistrati e docenti universitari, del calibro di Natalino Irti, Massimo Donini, Davide Galliani, Mario Serio, Giovanni Mammone, Nicolò Lipari, Gabriella Luccioli, Ernesto Lupo, Paolo Squillacioti, analizzando gli scritti più noti di Sciascia (Il giorno della civetta, Il consiglio d’Egitto, Morte dell’Inquisitore, A ciascuno il suo, Il contesto, Todo modo, La strega e il capitano, Porte aperte) si interrogano su verità, diritto e giustizia, e sull’”immane problema concernente la possibilità, il modo e la misura in cui un ordinamento giuridico può riuscire ad essere garante della verità e della giustizia”. Dal pensiero di Sciascia emergono alcuni delle tematiche di grande attualità: il tema reo-vittima, il rispetto della dignità del reo, presunta o accertata che sia, le inutili manette in tribunale, le gabbie, il diritto che dispensa giustizia e non vendetta. Il testo si avvale di un breve scritto, del 1986 di Sciascia, che sembra profetico: “Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente, è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto”. Lavoro e povertà: il disagio che troppi ignorano (e le parole di Mattarella) di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 21 novembre 2021 Bene la diminuzione degli “inattivi”, meno bene che quasi tutti i nuovi contratti siano a termine (353 mila su 422 mila totali). E a chi sostiene che la flessibilità sia volano di occupazione, la replica del Primo Cittadino è che “precarietà e frammentarietà aumentano le diseguaglianze”. La domanda sbagliata è chiedersi se alla fine, preso atto della delicatezza del momento, Sergio Mattarella si lascerà convincere ad allungare di un altro po’ il suo mandato. In realtà, ogni atto di questo suo periodo conclusivo sembra segnato da due evidenti certezze. La prima è che non concederà, per rispetto della Costituzione e anche per non dare alibi ai partiti, alcuna proroga al proprio settennato, che onorerà fino al 31 gennaio 2022, non oltre. La seconda è che nell’ultimo giro d’onore, tra incontri all’estero e occasioni pubbliche nazionali, il Presidente sta indicando una serie di priorità che sarebbe utile ascoltare, e possibilmente tradurre in atti o almeno intenzioni di governo, piuttosto che sciupare tempo a porsi la domanda sbagliata. E invece i suoi richiami rimbalzano flebili, come se il distacco che in tanti vorrebbero scongiurare fosse di fatto già avvenuto e le indicazioni di rotta che provengono dal Quirinale somigliassero alle raccomandazioni di un professore a fine scuola. Sì, certo, giusto, grazie. Così è stato dopo alcuni interventi dove Mattarella ha messo di peso sul tavolo un tema forse non abbastanza centrale nel dibattito politico: lo stato del lavoro. Il Presidente ha detto cose incontestabili e durissime, senza però che il giorno dopo ne restasse una traccia visibile nelle dichiarazioni di qualche leader (partitico o sindacale o confindustriale) né nell’impegno di qualche membro dell’Esecutivo. Vero che la ripartenza ha preso slancio, che il Pil sta toccando punte come mai da mezzo secolo e che la produzione industriale ormai supera stabilmente i livelli pre-Covid. Vero anche che, stando all’Istat, a settembre si sono registrati quasi mezzo milione di lavoratori e lavoratrici in più sull’anno prima, con un recupero che ridurrebbe a meno 300 mila il ritorno al totale di posti del febbraio 2020, inizio della grande depressione da pandemia. Calcoli approssimativi, che non tengono conto per esempio delle 150 mila occupazioni in meno nel segmento del lavoro autonomo, come osservato ieri su questo giornale da Dario Di Vico. Nel complesso, comunque, tutto vero, tutto incoraggiante. Ma. Ecco, i “ma” sollevati dal Presidente sono puntuali e impegnativi. Bene la diminuzione degli “inattivi”, meno bene che quasi tutti i nuovi contratti siano a termine (353 mila su 422 mila totali). E a chi sostiene che la flessibilità sia volano di occupazione, la replica del Primo Cittadino, indiretta naturalmente visto l’incarico che ricopre, è che “precarietà e frammentarietà aumentano le diseguaglianze”, anche perché si assiste “a un allargamento dei poveri da lavoro, con salari bassi, impieghi intermittenti e part-time involontari”, cioè subìti invece che richiesti. Negli ultimi trent’anni, l’Italia è l’unico Paese europeo in cui gli stipendi sono diminuiti invece che adeguarsi all’aumentato costo della vita: -2,9 per cento, con un’ulteriore discesa di altri 6 punti per l’effetto pandemia. Persino il commissario europeo al Lavoro, Nicolas Schmit, ha di recente osservato che i nostri salari annui (27.900 euro medi, ma più di 5 milioni di persone guadagnano meno di 10 mila euro l’anno) sono effettivamente molto bassi, e anche se non si è spinto a suggerire la soluzione del salario minimo (siamo uno dei 6 Paesi dell’Unione che ancora non lo ha adottato), ha apprezzato che almeno si sia cominciato a discuterne. Il punto è trovare un rimedio a quella “povertà da lavoro” che, sommata alla disoccupazione ufficiale (e fermiamoci a quella), rischia di trasformare l’attesa ripartenza in un destino a portata di pochi. E tra i pochi faticano molto a entrare le donne e i giovani, i più penalizzati anche nei programmi post virus. È un’angoscia diffusa, quella di un futuro ad accesso limitato, a cui proprio il presidente Mattarella sta dando contorno e voce: “È un dovere inderogabile delle Istituzioni, a ogni livello, combattere la marginalità dovuta al non lavoro, al lavoro mal retribuito, al lavoro nero, alle forme illegali di reclutamento che sfociano in sfruttamento, quando non addirittura in schiavitù contemporanee inammissibili”. Per concludere con una sollecitazione, e il destinatario è inequivocabilmente il governo, a cogliere la grande opportunità offerta dai fondi europei per il nostro Piano di rilancio: “Il lavoro sarà la misura del successo del Pnrr”. E andrebbe messa nel conto anche la spinta ad affrontare con vigore e da subito una deriva non secondaria di questa enorme emergenza: le due o tre morti al giorno in fabbriche, campi o cantieri, che ci sfilano davanti da inizio anno senza che si sia ancora attivata una massiccia opera di reale protezione e prevenzione. Dopo queste preoccupate denunce di Mattarella, dopo parole così sfidanti per chiunque abbia una parte nella gestione del caso Italia, sarebbe stato lecito aspettarsi almeno reazioni di ricevuto allarme. Non ne risultano di rimarchevoli. Anzi sì, una, coincidente con il rischio paventato dal Capo dello Stato. È del primo banchiere nazionale, Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo: “La priorità assoluta è la lotta alla povertà. Nell’ultimo anno la situazione si è ulteriormente aggravata. Immaginiamo cosa comporta avere 5 milioni di poveri che hanno difficoltà ad arrivare a fine mese, a soddisfare bisogni elementari. È indispensabile accelerare sulla crescita, che porta posti di lavoro e dignità”. Ancora meglio: una crescita che porti posti di lavoro dignitosi. Insieme al contenimento della quarta ondata del virus, è questa la sfida dal cui esito si misurerà non solo la riuscita della missione del governo Draghi ma la bontà delle scelte in opera per uscire dal tunnel un po’ meglio di come ci siamo entrati. Le risorse ora ci sono, molto dipende dalla volontà di utilizzarle per colmare disparità e marginalità sempre più evidenti, almeno per il Presidente ormai a termine di questo Stato. La domanda giusta non è soltanto chi prenderà il suo posto al Colle, ma chi sarà in grado di raccoglierne l’eredità, compresa la capacità di indirizzo e anche, quando serve, di indignazione. Il referendum sulla cannabis per riparare a un torto antico di Marco Perduca* L’Espresso, 21 novembre 2021 La prossima conferenza governativa sulle droghe parlerà solo di temi marginali. Il 28 ottobre scorso la Corte di Cassazione ha ricevuto oltre 630.000 firme a sostegno di un referendum sulla cannabis. I ritagli del Testo Unico sulle droghe del 1990 prevedono la depenalizzazione delle coltivazioni di varie piante (ma non della trasformazione in sostanze), la cancellazione delle sanzioni penali per uso personale della cannabis e l’eliminazione della sospensione della patente per consumo della pianta, ma non per guida in stato alterato. Dopo aver invaso le piazze di tutta Italia con il referendum per legalizzare l’eutanasia e dopo aver raccolto - a ferragosto! - centinaia di migliaia di firme grazie alla possibilità di sottoscrizione con lo Spid, l’Associazione Luca Coscioni si è assunta la responsabilità politica ed economica di una campagna lampo online sulla cannabis. Le 500.000 firme necessarie sono state raccolte in meno di una settimana, un’impresa straordinaria ma non sorprendente. La firma digitale e la popolarità della pianta hanno reso possibile un risultato che è storico. La mobilitazione è stata accompagnata da influencer del mondo dello spettacolo ma l’arrivo delle firme è stato costante per cinque giorni consecutivi con picchi di tre firme al secondo! L’ultimo congresso dell’Associazione Luca Coscioni è stato inaugurato con un dibattito su “Democrazia: ritorno al futuro” incentrato sulla firma digitale su cui molto è stato scritto anche senza diretta cognizione di causa. Come nel film di Zemeckis, “Doc” ha viaggiato nel tempo, visto cosa andava storto, attivandosi per aggiustare le ingiustizie. Lo scienziato pazzo qui è Marco Pannella grazie al quale la “terza scheda” ha consentito al popolo sovrano di farsi legislatore in momenti critici per i diritti civili in Italia. Lotte che hanno sempre messo in mora leggi che limitavano l’esercizio dei diritti individuali prevedendo, tra le altre cose, il rispetto della legalità costituzionale anche grazie alla tecnologia. Il viaggio indietro nel tempo ci ricorda che, se la platea degli autenticatoci è stata ampliata a Consiglieri regionali, Parlamentari e avvocati, e se esiste la firma digitale, è merito di un ricorso vinto all’Onu da Mario Staderini (già segretario di Radicali Italiani) presentato nel 2015 per denunciare gli “irragionevoli ostacoli” frapposti da leggi di 50 anni fa alla raccolta firme. È per porre rimedio a questo mancato rispetto dei suoi obblighi internazionali che la Repubblica italiana ha dovuto garantire il “progresso scientifico e le sue applicazioni”. Il viaggio in avanti nel tempo è stata la raccolta lampo delle firme che ha dimostrato che, abbattuti gli “irragionevoli ostacoli”, le persone partecipano. Pubblicare online un quesito referendario non lo rende necessariamente virale - i referendum su caccia e “giustizia giusta” non hanno avuto sorte simile - ma se si individua un problema sentito e si riesce a far breccia nella comunicazione online la partecipazione c’è. La mobilitazione è costata 1 milione di euro. Per ora ne sono rientrati quasi due terzi - e tutti online - a ulteriore conferma che la partecipazione civica su questioni sentite non è solo quantitativa ma anche qualitativa. In “Ritorno al futuro” si raddrizza una malasorte famigliare, la firma digitale restituisce la possibilità di partecipazione popolare e, nel caso della cannabis, escluderebbe dal circuito penale comportamenti che non creano vittime e che raramente creano consumi problematici promuovendo un uso consapevole della pianta. La riforma proposta dal referendum è anche l’unica modifica radicale del Testo Unico del 1990 e arriva alla vigilia della VI Conferenza Nazionale sulle droghe che il Governo ha convocato il 27 e 28 novembre a Genova. L’organizzazione dell’incontro ha omesso di criticare minimamente l’impianto repressivo della legge inquadrando il dibattito su questioni di contorno e non strutturali. Fortunatamente, grazie all’Associazione Luca Coscioni c’è il referendum. *Associazione Luca Coscioni Renzi: “Una nostra legge anti omofobia”. E c’è l’asse con Salvini dopo il ddl Zan di Maria Teresa Meli Corriere della Sera, 21 novembre 2021 Il leader di Italia viva attacca sulla giustizia. E cerca altri voti centristi per pesare sull’elezione del prossimo capo dello Stato al Quirinale. Settantatré. È il numeretto magico che nella sala della Leopolda viene sussurrato dai fedelissimi di Matteo Renzi. Settantatré come i parlamentari di questo ipotetico centro che forse non vedrà mai la luce, ma che di certo peserà sui giochi per il Quirinale. Non a caso vengono invitati a parlare diversi esponenti di quest’area: Enrico Costa di Azione, Emilio Carelli e il sindaco di Genova Marco Bucci di Coraggio Italia, Benedetto Della Vedova di +Europa. Poi attacca a testa bassa: “Se noi facessimo come il Csm ci prenderemmo gli avvisi di garanzia per traffico di influenze”. I magistrati sono nel mirino: “Hanno impiegato più forze dell’ordine per le perquisizioni di Open che per prendere Matteo Messina Denaro, spendendo i soldi dei contribuenti”. Quindi tocca ai 5 Stelle. Nei loro confronti, come sempre, è irridente: “Non soi se sia un reato volerli distruggere. Il mio vero reato è stato quello di non essere riuscito a farlo. Ma ci stanno pensando loro con lo scontro sotterraneo tra Conte e Di Maio”. Torna ad attaccare Pier Luigi Bersani che “ha ricevuto 98 mila euro dai Riva per la sua campagna elettorale” e da cui non accetta “lezioni di etica”. Lo stesso dicasi per Massimo D’Alema che “è riuscito a distruggere il Monte dei Paschi di Siena, cosa che non erano riuscite a fare la guerra e la peste”. Va avanti, Renzi: “Io non mi fermo”. E infatti fa sapere: “Chiederò di parlare in tutte le udienze”. Per raccontare la storia così come la racconta agli “amici” della Leopolda. Una storia di 92 mila cartelle, “in cui ci sono messaggi privati che non hanno nessuna rilevanza penale”. Messaggi, alcuni, scritti nelle chat quando era parlamentare: “Una palese violazione”. E in questa giornata dei diritti violati o meno, il leader di Iv avanza una proposta: “Con Ivan Scalfarotto abbiamo lanciato un modo per superare il fallimento del ddl Zan. Un semplice articolo per allargare la tutela della legge Mancino ai casi di omofobia, transfobia e abilismo. Chi vuole la legge firma l’emendamento Scalfarotto”. Gli risponde Matteo Salvini, pur non citandolo direttamente: “Aumentare le pene per chi discrimina, offende e aggredisce in base all’orientamento sessuale? Per me si può votare anche domani, tanto che esiste una proposta di legge a mio nome al Senato”. Migranti, 75 muoiono in mare. La Guardia costiera ne salva 420 di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 novembre 2021 Nuova strage al largo della Libia. 193 soccorsi dalla Sea-Watch 4. Due interventi delle motovedette italiane evitano altre centinaia di vittime. 75 migranti morti in un naufragio. 420 salvati dalla Guardia costiera italiana. 193 a bordo della Sea-Watch. Sono i numeri che arrivano dal Mediterraneo centrale. Il caso più drammatico risale a mercoledì scorso, ma è stato confermato ieri dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). In 75 hanno perso la vita al largo delle coste libiche di Zuara, 15 i sopravvissuti salvati da alcuni pescatori. Sono loro ad aver raccontato l’ennesima strage al personale Oim. “Questo è il costo dell’inazione”, ha scritto su Twitter la portavoce a Ginevra Safa Msehli. Dall’inizio dell’anno sono almeno 1.300 le vittime della rotta centrale. “Almeno”, perché ci sono vite inghiottite dall’acqua che non lasciano traccia e dunque non rientrano nelle statistiche ufficiali. Un barcone con 70 persone è stato invece soccorso nel tardo pomeriggio di ieri dalla Guardia costiera, a sud-est di Lampedusa. Tutti i naufraghi sono stati portati al sicuro sulla maggiore delle Pelagie. L’allarme era stato lanciato venerdì alle 16 dal centralino Alarm Phone, che riceve e diffonde le richieste d’aiuto dei migranti. Per molte ore si è temuto il peggio. La notizia del soccorso è stata diffusa intorno alle 20 dal giornalista di Radio Radicale Sergio Scandura. Lo stesso Scandura aveva scoperto venerdì pomeriggio che a est di Portopalo, nello Ionio, c’era un’altra barca in pericolo. Il giornalista traccia gli assetti aerei e navali nel Mediterraneo centrale e seguendo la rotta del Beech 200 di Frontex aveva individuato un probabile evento Sar. Durante la notte ha mostrato con un altro tracciamento la presenza nella stessa aerea di quattro navi commerciali impegnate a cercare qualcosa. Le imbarcazioni si sono allontanate ieri in tarda mattinata. Alle 18.21 Scandura ha reso noto che 350 persone erano state salvate dalla nave Dattilo della Guardia costiera. Il giornalista ha criticato la mancanza di informazioni ufficiali che “da decreto ministeriale dovrebbero essere fornite con tempestività e regolarità”. I dettagli sono arrivati in serata con un comunicato della Guardia costiera che ha confermato il maxi soccorso, andato avanti per diverse ore e realizzato in condizioni marine molto complesse a 70 miglia dalle coste siciliane, nella notte tra venerdì e sabato. Sulla scena anche un aereo del corpo e un velivolo di Frontex. Tra i naufraghi 40 minori. Sbarcheranno tutti a Porto Empedocle. Altri 193 migranti sono invece al sicuro a bordo della Sea-Watch 4. L’ultimo soccorso lo ha realizzato ieri: 73 persone viaggiavano su un gommone in difficoltà. Tra loro 20 bambini e 13 donne, di cui sette incinte. “Abbiamo bisogno al più presto di un porto dove sbarcare”, afferma l’Ong. Nei giorni scorsi la nave umanitaria ha compiuto altri due salvataggi. Al termine di una delle operazioni è stata avvicinata da una motovedetta di Tripoli che ha minacciato l’equipaggio. “Qui la marina libica, spegnete il motore o vi spariamo”, si sente in un video diffuso in rete. E ancora: “Cambiate rotta e andatevene. Vi seguiamo per liberare l’area. Dovete uscire dalle 70 miglia nautiche”. Le acque territoriali, però, terminano a 12 miglia dalla costa e in quel momento la nave umanitaria si trovava in mare libero. L’unità libica ha rifiutato di identificarsi, come previsto dalle norme. Intanto le 186 persone soccorse dalla Geo Barents di Medici senza frontiere sono sbarcate a Messina. La nave è arrivata nel porto siciliano venerdì. A bordo anche le salme di 10 ragazzi uccisi dalle esalazioni di benzina nella stiva del barcone con cui avrebbero voluto raggiungere l’Europa. Sulla pelle dei migranti di Francesca Mannocchi La Stampa, 21 novembre 2021 Tra febbraio e marzo del 2020 ventimila profughi siriani raggiunsero il fiume Evros, confine di terra tra la Turchia e la Grecia. La Turchia aveva aperto i suoi confini occidentali, organizzato decine di pullman per lo più con cittadini siriani diretti verso l’Europa. La Grecia, allarmata da una nuova ondata migratoria, adottò misure drastiche, mise in campo le truppe per respingere le persone ammassate ai confini e chiese aiuto alle istituzioni europee. La risposta arrivò dalle più alte cariche europee, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il presidente del Parlamento David Sassoli che - raggiunti i confini della penisola ellenica per sostenere i respingimenti di massa- definirono la Grecia “scudo d’Europa”. Poco importava che il principio di non respingimento (non refoulement), pilastro del diritto internazionale sulla richiesta di protezione umanitaria, non venisse rispettato. La ragione per cui, improvvisamente, ventimila siriani si ritrovarono ammassati lungo il fiume Evron era che la Turchia li stava usando come arma di ricatto verso l’Europa. Poche settimane prima 36 soldati turchi erano stati uccisi a Idlib dove la Tuchia stava cercando di arginare l’avanzata di Assad e di Putin. Erdogan aveva chiesto supporto militare alla Nato, ma invano. Dopo giorni di richieste respinte al mittente, Erdogan decise di aprire i confini e ricordare così all’Europa che in Turchia vivono 3 milioni e mezzo di siriani e che il controllo delle frontiere aveva un prezzo diplomatico e militare. Che avesse un prezzo economico Erdogan l’aveva già capito cinque anni prima, nell’estate del 2015, quando un milione di persone aveva attraversato i Balcani. In Europa tornarono i muri, le barriere e il filo spinato, vennero costruiti tre hotspot sulle isole dell’Egeo per trattenere le persone migranti e rendere più agili i respingimenti in Turchia e si fissò un budget per arginare il flusso migratorio: sei miliardi di euro che l’Europa avrebbe versato ad Ankara. Lo scorso luglio, quando gli accordi economici con la Turchia sono stati rinnovati e rafforzati, Catherine Woollard, direttrice del Consiglio europeo per i rifugiati ed esiliati a Bruxelles, si è detta preoccupata perché “la Turchia è ormai in grado di chiedere tutto ciò che vuole dall’Unione ed è anche in grado di agire come vuole a causa della dipendenza creata dall’accordo Ue-Turchia”. Tradotto significa che è vero che i Paesi come la Turchia vanno supportati economicamente perché ospitano milioni di siriani mentre l’Europa fatica a ospitarne qualche decina di migliaia ma significa anche che continuare a elargire denaro in cambio della gestione dei flussi migratori ha reso l’Europa altamente ricattabile. La rappresentazione di questa ricattabilità è plastica, da settimane, al confine tra la Bielorussia e la Polonia. La cronaca degli eventi è tristemente nota e anche in questo caso parte da lontano, dalle elezioni presidenziali del 2020 in Bielorussia, di cui Lukashenko si è intestato la vittoria nonostante le denunce di brogli. Dopo le proteste degli elettori, il regime di Minsk ha risposto brutalmente, con una drastica repressione del dissenso e un’ondata di arresti di attivisti e oppositori politici. I governi europei hanno rivendicato il rispetto dei diritti civili, non hanno riconosciuto il risultato elettorale imposto da Lukashenko e hanno ospitato la leader dell’opposizione al regime Svetlana Tikhanovskaya che vive in esilio. Atti a cui si sono aggiunti diversi pacchetti di sanzioni economiche. Lukashenko ha risposto provocando. Prima dirottando un volo Ryanair dalla Grecia alla Lituania costringendolo ad atterrare a Minsk e arrestando un passeggero, Roman Protasevich, un giornalista dissidente bielorusso che viveva in esilio. Poi usando la migrazione come arma per esercitare pressioni diplomatiche. È infatti dopo il quarto pacchetto di sanzioni - lo scorso maggio - che Lukashenko ha pianificato una rotta migratoria inedita, viaggi organizzati da agenzie che offrono pacchetti che dal Medio Oriente arrivano ai confini europei via Minsk, al prezzo di 3000 dollari tutto compreso, sia il visto sia la scorta degli uomini di Lukashenko nelle foreste. Poco importa se nel tragitto qualcuno muore di freddo. La settimana scorsa, mentre la Polonia schierava quindicimila soldati al confine con la Bielorussia, legalizzando i respingimenti e costruendo recinzioni di filo spinato, l’Unione Europea ha concordato nuove sanzioni contro Minsk, le quinte, contro “persone, compagnie aeree, agenzie di viaggio” e in generale tutti coloro che risultino coinvolti nella spinta illegale verso i confini europei. Sono i mezzi della diplomazia europea finita nel cul de sac studiato e progettato da Lukashenko. La migrazione come fronte di una guerra ibrida, i corpi dei rifugiati usato come arma da un regime che continua a provocare l’Europa, svelando le sue contraddizioni. Sullo sfondo c’è l’intensificarsi della battaglia di Varsavia con le istituzioni dell’Ue sullo stato di diritto. La Polonia è stato infatti uno dei pochi Paesi europei a rifiutarsi di accogliere i migranti proprio durante l’emergenza migratoria sulla rotta balcanica del 2015 e da allora, sei anni fa, ha sempre rifiutato le quote di ricollocamenti per i rifugiati. Oggi, in piena crisi sul confine bielorusso, la Polonia per uscire dall’emergenza dovrebbe chiedere aiuto a Frontex, l’agenzia di frontiera Ue, ma farlo significherebbe indebolire le posizioni contro l’immigrazione del governo di Varsavia. Un vicolo cieco che Lukashenko è riuscito a costruire a misura delle fragilità dei governi europei che oggi devono decidere quali mezzi usare per gestire un flusso nuovo, non figlio di una crisi contingente ma creato a tavolino per fare pressione diplomatica e ottenere riconoscimento. E perché no? Anche denaro. La tragedia che si sta consumando sui confini orientali dell’Europa ha sì le sue responsabilità nel cinismo di Lukashenko ma affonda le radici nel paradigma creato dall’Europa da sei anni a questa parte per arginare un fenomeno, quello migratorio, che non riesce a gestire. Un paradigma creato sull’attenzione ossessiva alla militarizzazione dei confini, e che ha eroso nel tempo il concetto stesso di asilo e protezione umanitaria: denaro in cambio di sicurezza. Poco importa se i soldi finiscono nelle mani di regimi autoritari. Poco importa se bisogna concedere qualche spazio di manovra diplomatica a regimi trentennali come quello di Minsk. È il prezzo della nuova diplomazia, quella agita sulle vite migranti. Il jihadismo accettabile che non esce dai propri confini di Mario Giro Il Domani, 21 novembre 2021 Le sconfitte delle formazioni islamiste che hanno la loro matrice nell’esperienza dei fratelli musulmani sono il frutto della loro rigidità di approccio. Al contrario le formazioni di matrice salafita invece puntano sulla reislamizzazione della società e accettano quindi di collaborare con qualunque tipo di regime. Per questo sono più inclini durare. Ormai la comunità internazionale sembra aver sdoganato i regimi che si rifanno alla sharia, ma a patto che non escano dai loro confini disgregando il sistema internazionale. Il discorso che il neo segretario del partito della giustizia e dello sviluppo marocchino (Pjd), Abdelilah Benkirane, ha tenuto davanti al congresso straordinario lo scorso 30 ottobre dopo la débâcle elettorale di settembre scorso, ha di che sorprendere. Qual è la diagnosi della sconfitta secondo il leader islamista? Non quella del complotto del deep state o dei nemici dell’islam: lo smacco elettorale dopo 10 anni di governo è soprattutto responsabilità degli islamisti stessi a causa della loro litigiosità intestina e della “rinuncia ai valori fondamentali dell’islam, come il disinteresse e l’abnegazione”. Secondo lo studioso marocchino Mohammed Tozy c’è una difficoltà oggettiva a definire i valori fondamentali islamici anche se Benkirane compone davanti ai suoi un quadro storico più largo, includendo quella del Pjd marocchino in una serie di sconfitte che ha avuto come protagonisti i fratelli musulmani egiziani, tunisini e sudanesi. Se i fratelli musulmani sono spesso riusciti a giungere al potere, non sono stati capaci di mantenerlo allargando l’area del consenso. La matrice salafita - Secondo Tozy vi è un’incapacità a governare da parte dei movimenti islamisti derivanti dalla matrice fratelli musulmani, fondata da Hassan al Banna nel 1928. L’altra matrice, quella salafita proveniente dal wahabismo dell’Arabia Saudita (e in contrasto con quest’ultima), non ha nella sua agenda la conquista del potere e del governo: il suo obiettivo è la conversione della società e la sua reislamizzazione. Per ottenerla i salafiti sono disposti ad allearsi con qualunque tipo di regime che permetta loro di agire liberamente. Non è un caso che in Egitto abbiano sostenuto al Sisi contro i fratelli musulmani dell’ex presidente Morsi, così come in Tunisia sono contro Ennahada. L’islam politico della matrice fratelli musulmani è dunque in crisi? In verità nel mondo del radicalismo islamico tutto è molto articolato e caotico. Le trasformazioni geopolitiche e antropologiche portate dalla globalizzazione hanno un impatto consistente sugli equilibri dell’universo islamista, compresa la sua parte estrema, quella jihadista. Tutti i movimenti dell’islam politico hanno in comune alcune caratteristiche: preferenza per un linguaggio chiaro e semplificato utile al proselitismo, abbandono dei codici teologici tipici degli ulema tradizionali, modalità militanti mutuate dai movimenti della sinistra marxista, abitudine alla clandestinità e segretezza, utilizzo della solidarietà come mezzo di propaganda, impiego dei social media, e dell’innovazione tecnologica in generale, a fini di comunicazione. La narrativa dell’islam politico è semplice e diretta e si potrebbe riassumere nello slogan “l’islam è la soluzione”, un motto che si ritrova dai primi movimenti fino a oggi. Nei confronti della democrazia liberale tutti i movimenti dell’islam politico hanno più o meno il medesimo atteggiamento: gli strumenti della democrazia elettiva sono considerati come il prodotto di un rapporto di forza e come lo strumento per influenzare la società. Rigidi e malleabili - Quest’ultima non possiede una sua autonomia né può ammettere pluralismi ma va guidata secondo un modello patriarcale e tradizionale. Non sorprende dunque che, alle prese con società non omologate e in costante mutazione anche nei paesi arabi (per non parlare della Turchia), la rigidità dell’approccio dei partiti ispirati ai fratelli musulmani e del loro tipo di governance, incontrino difficoltà crescenti. Per i salafiti il rischio è un altro: quello di dissolversi dentro le identità frammentate e molteplici in cui si immergono anche quando non diminuiscono la loro radicalità. È il caso di alcuni fenomeni salafiti e jihadisti nel Sahel. In sintesi: i fratelli musulmani sono troppo rigidi; i salafiti troppo malleabili. I partiti che si ispirano ai fratelli musulmani hanno sempre creduto che la loro alleanza (percepita come naturale) con la parte conservatrice e tradizionalista della società li avrebbe forniti di una confortevole maggioranza. L’unico problema era riuscire ad accedere alle elezioni. Ma la manipolazione del nazionalismo e del conservatorismo arabo non è mai stata un loro esclusivo appannaggio. In alcuni paesi, come l’Algeria o l’Egitto, sono sfidati sul medesimo terreno dal blocco militare: eserciti che rappresentavano e rappresentano tuttora una parte considerevole della società e dell’economia nazionali, abili nell’incarnare la narrazione nazionalista e modernizzatrice della società stessa, anche (strumentalmente) in chiave anti coloniale e anti occidentale. In altri casi sono stati messi in crisi dall’alleanza antagonista dei salafiti con regimi a loro opposti, ad esempio quelli monarchici filo occidentali favorevoli al libero mercato e così via. D’altra parte la corrente salafita ha sempre giocato ambiguamente sui due registri: quello istituzionale e quello eversivo. Troviamo salafiti sia alleati con regimi militari che sponsor dei jihadisti. Anche tra questi ultimi, come sostiene lo studioso francese Olivier Roy, vi sono forti differenze: localisti oppure globalisti, nazionalisti o internazionalisti. Localisti contro globalisti - La globalizzazione provoca cambiamenti che permettono ogni ibridazione possibile anche per il jihad. È utile fare l’esempio più recente, quello dei Talebani, mai coinvolti in atti violenti fuori dal proprio paese: la loro agenda è solo nazionale. Secondo Roy non esiste una continuità automatica tra “radicalizzazione religiosa, proclamazione del jihad e terrorismo internazionale”, come se tra i tre stadi vi fosse un’inevitabile successione o come se, in senso opposto, ogni terrorismo internazionale dovesse produrre un jihad locale. Non tutti coloro che si rifanno alla sharia diventano una minaccia terrorista globale. Spesso sono state montate dalla comunità internazionale coalizioni militari sulla base di tale assunto senza ottenere nessun risultato se non quello di aggravare la situazione. D’altronde medesimo fu il destino delle vecchie politiche contro insurrezionali messe in opera negli anni Sessanta e Settanta contro le ribellioni dell’epoca, in genere di stampo marxista, anticolonialista o antimperialista. Quasi tutte queste crisi hanno avuto bisogno della mediazione delle superpotenze della guerra fredda o di accordi di pace negoziati successivamente (soprattutto in America Latina ma anche in Africa). Il legame tra fenomeni terroristici globali e jihad locali è più complesso di quanto si pensi. Una certa distinzione può essere fatta tra jihad locali (come i Talebani) e mondiali (al Qaeda o Isis). Per tale ragione si negozia con i Talebani mentre ogni trattativa con i movimenti jihadisti del Sahel stenta a decollare. Il discorso riguarda lo Jnim di Iyad Ghali, un leader jihadista tuareg apparentemente disposto ad avviare colloqui con il governo del Mali. Non rientra in tale possibilità lo Stato islamico del grande Sahara che ha per vocazione il jihad globale. Oggi ciò che spaventa di più la comunità internazionale non è il livello di estremismo immesso in una società da parte di un gruppo che si rifà alla sharia ma la sua capacità di mettere in discussione le frontiere internazionali e cioè la stabilità complessiva del sistema. L’idea che insorti armati stabiliscano un emirato islamico è ritenuta accettabile soprattutto se mette una qualche forma di ordine in territori tribali o anarchici. Basta che non si crei un legame oscuro tra entità statale e criminalità internazionale, come nel caso dei trafficanti di migranti. I Talebani ad esempio restano sotto osservazione per la questione oppio; lo Jnim per il tema migratorio o per i rapimenti. In Libia nessuno vuole più saperne delle milizie che si sono dimostrate delle agenzie di traffici criminali e poco più. Nel caos globale dove mancano ormai i grandi regolatori, ogni tensione locale può essere gestita senza creare altri failed states: è precisamente ciò che la comunità internazionale vorrebbe fare dopo decenni di fallimenti. Spezziamo le catene delle spose bambine di Samuele Damilano L’Espresso, 21 novembre 2021 Negli Stati Uniti tra il 2010 e il 2018 quasi 300.000 ragazzi si sono uniti in matrimonio ben prima dei 18 anni. E l’86 per cento è di sesso femminile. La denuncia di Fraidy Reiss, fondatrice di Unchained at last: “Ho iniziato questa lotta per affrontare il trauma vissuto in prima persona”. Fraidy Reiss per la sua famiglia è morta. Quando nel 2007 ha deciso di trasferirsi e iscriversi al college, lasciando un uomo violento e la comunità ebraica ultraortodossa che glielo aveva imposto a 19 anni, madre e sorelle hanno celebrato il suo funerale. All’ennesima minaccia, all’ennesimo disegnino del marito che spiegava nel dettaglio come sarebbe stata uccisa insieme alle due figlie, si è rivolta alla madre, chiedendo di essere accolta in casa. Ma lei è rimasta in silenzio, la faccia sdegnata. È uscita dalla stanza senza dire nulla. Un anno dopo il divorzio, ufficializzato nel 2010, Reiss ha fondato un’organizzazione, Unchained at last, da dieci anni l’unica negli Stati Uniti che si batte contro i matrimoni forzati e/o imposti ai minori. A oggi ha rimesso in piedi la vita di più di 700 persone. All’assistenza legale donata pro bono dagli avvocati dei più importanti studi newyorchesi per separarsi dal marito, o per affrontare le pratiche di regolarizzazione di persone immigrate, altro motivo di ricatto, si aggiunge il supporto economico, psicologico e morale. Molte ragazze, una buona percentuale provenienti da comunità religiose, proprio nell’avere qualcuno che si occupi di loro, che voglia il loro bene, trovano un appiglio più forte di qualsiasi altra cosa. Nel sito dell’organizzazione sono raccolte numerose storie di “sopravvissute”. April, nata da un rapporto tra la madre e lo zio, è cresciuta senza genitori, entrambi alcolizzati. All’età di 12 anni ha iniziato a frequentare un ragazzo già ventenne, che viveva in un camper in Arkansas. Nemmeno adolescente, la drogava e la faceva ubriacare. Solo molto più tardi, grazie a una psicoterapia, ha capito che si trattava dei primi segnali di abuso. A 15 anni si sono sposati, e la violenza sessuale, fin dalla notte nella “luna di miele”, rientrava in una più ampia costrizione. April non poteva andare a scuola, non frequentava amici. A 28 anni le sono stati diagnosticati i primi disturbi della personalità e attacchi di panico. Solo a 30 ha deciso di raccontare la sua storia, e di affidarsi ad Unchained at last. Una recente inchiesta svela che tra il 2010 e il 2018 quasi 300.000 ragazzi, l’86 per cento di sesso femminile, si sono sposati prima dei 18 anni. Esclusi pochi Stati che, sotto la pressione di Unchained, solo di recente hanno adottato delle leggi a loro tutela - Delawere e New Jersey nel 2018, Pennsylvania e Minnesota nel 2020, Rhode Island e New York nel 2021 - in America la pratica è legale. Nonostante il Dipartimento di Stato l’abbia certificata come un abuso dei diritti umani. “Ho iniziato questa lotta per affrontare il trauma”, spiega Reiss in un’intervista al New York Times, “una volta stabilizzata nella mia nuova vita, ho sentito l’urgenza di aiutare altre persone che stanno vivendo la mia stessa situazione”. Traumatica a dir poco. Nella sua comunità ebraica ultraortodossa, racconta in numerose testimonianze, gli uomini pregano ogni giorno per ringraziare Dio di non averli fatti nascere non-ebrei, e per non essere nati donne. Se una ragazza vuole lasciare liberi i capelli, indossare pantaloni attillati o, addirittura, studiare, le autorità giudiziarie della comunità hanno il diritto di sequestrarle i figli. Il divorzio non è contemplato. O meglio, lo è solo se l’uomo è d’accordo e firma un atto, chiamato in gergo “get”, che autorizzi la donna a iniziare una nuova vita. Non è stato il caso di Reiss. C’è un termine preciso in ebraico, agunah, che rimanda alla condizione di prigionia delle ragazze. E a cui il nome della fondazione, Unchained, rimanda. “Rimanere nubile a 20 anni era considerata una vergogna. Non avevo realmente la facoltà di rifiutare il pretendente. Né tantomeno, una volta resami conto della sua pericolosità, di lasciarlo”, conferma la fondatrice di Unchained at last. Dopo l’ennesimo episodio di violenza, si è rivolta alla polizia, prima donna a farlo nella sua comunità, per chiedere un ordine restrittivo. Un errore, con il senno di poi. Il rabbino ha mandato un avvocato, che l’ha scortata fin dentro al tribunale per ritirare la richiesta. Quando il giudice ha provato ad accertare la spontaneità della scelta, Reiss non ha avuto il coraggio di denunciarlo. Non solo. Spesso i tribunali civili, nel momento di pronunciare la sentenza di affidamento, tengono conto anche del giudizio dei giudici della comunità religiosa, ritenuta un elemento di stabilità importante per i figli. “È stato un processo agonizzante. Ci sono voluti dodici anni solo per cambiare la serratura della porta. La rabbia mi ha dato l’energia di guardare avanti. Ho imparato a svegliarmi ogni giorno con il pensiero di provare alla mia famiglia che si sono sbagliati. E l’ho fatto”. Stati Uniti. Kenosha, la “normalità” di maneggiare un mitra a 17 anni di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 21 novembre 2021 Fa discutere (anche in Italia) l’assoluzione di Kyle Rittenhouse che uccise due persone durante le manifestazioni di “Black Lives Matter”, innescate dall’omicidio di George Floyd a Minneapolis. L’assoluzione di Kyle Rittenhouse sta dividendo, ancora una volta, la politica e l’opinione pubblica americane. Ma, a giudicare dai commenti sulla rete e anche dalle mail che abbiamo ricevuto da diversi lettori, ha toccato un nervo sensibile anche in Italia. Il ragazzo doveva rispondere dell’omicidio di due manifestanti, Joseph Rosenbaum, 36 anni, Anthony Huber, 26, e del ferimento di un terzo, Galge Grossekreutz, 28 anni. Torniamo alla notte tra il 24 e il 25 agosto del 2020 a Kenosha, nel Wisconsin. In quei giorni l’America è scossa dalle manifestazioni di “Black Lives Matter”, innescate dall’omicidio di George Floyd a Minneapolis. Il 23 agosto, a Kenosha, un agente spara alla schiena di un afroamericano Jacob Blake, 29 anni, che sta cercando di sedare una lite tra due donne. Blake è disarmato e resterà semi paralizzato alle gambe. L’incidente suscita la reazione delle associazioni per la difesa dei diritti civili. Per tre giorni si susseguono cortei, ma nell’oscurità le frange più violente, con caschi, scudi e petardi, si scagliano contro la rete di protezione eretta a difesa del tribunale. E qui entra in scena Kyle Rittenhouse. Si sposta nel centro della città, con a tracolla un fucile mitragliatore semiatomatico Ar-15. Fa parte di una di “una milizia armata”, la “Kenosha Guard”. Appuntamento via Facebook per “proteggere la proprietà”, nel concreto un benzinaio e alcuni negozi. I video mostrano una sequenza drammatica. Un gruppetto di attivisti insegue Kyle, lo raggiunge. Qualcuno lo butta a terra e tenta di disarmarlo. Ma la sua reazione è furibonda. Partono diversi colpi: si vede un corpo sull’asfalto. Rittenhouse ha il tempo di rialzarsi e di fuggire. La mattina dopo viene arrestato ad Antioch, in Illinois e si scopre che ha solo 17 anni. Venerdì scorso la giuria di Kenosha ha stabilito che il giovane ha agito per autodifesa. Era in reale pericolo di morte e quindi ha legittimamente usato ogni mezzo per proteggersi, compreso l’Ar-15. La sentenza, osservano i giuristi americani, è in linea con le leggi penali del Wisconsin che discendono direttamente dal II Emendamento della Costituzione americana. Cioè dalla norma che consente ai cittadini statunitensi di possedere armi da fuoco. Dal punto di vista giuridico il confronto lascia pochi margini: di fatto nessuno nella politica americana, che sia un repubblicano o un democratico, mette in discussione il II emendamento. Ma sul piano politico e sociale, c’è molto da dire. Cominciamo con lo sgomberare il campo da equivoci. Quella notte a Kenosha è stata un disastro per tutti. La leadership del movimento Black Lives Matter dimostrò di non essere in grado di tenere a freno una guerriglia sempre più distruttiva e organizzata. Le autorità istituzionali, il sindaco John Martin Antaramian, e il Governatore del Wisconsin, Tony Evens, entrambi democratici, non riuscirono a far rispettare il coprifuoco. Il Governatore sembra aver imparato da quella esperienza, visto che stavolta ha mobilitato 500 militari della Guardia nazionale per prevenire disordini e violenze. Infine l’elemento più inquietante: le “milizie di patrioti armati”, pericolosamente libere di pattugliare le strade di Kenosha. Uno dei fondamenti dello Stato di diritto è che il monopolio della forza sia appannaggio delle Istituzioni democratiche. Ma quella notte la polizia restò a guardare. C’è poi l’aspetto sociale, personale. Possiamo davvero considerare normale l’idea che una persona esca di casa la sera con il fucile in spalla per “proteggere la comunità”? Kyle, inoltre, lo scorso anno era un minorenne. In America un ragazzo della sua età non può bere una birra al bar. Alcol no e mitragliatore sì? È chiaro che la questione di fondo è la “normalizzazione” di pistole e fucili. Non solo è semplice comprarle o procurarsele, ma è soprattutto facile addestrarsi. In molti empori di armi, dal Texas all’Indiana, basta presentare la patente, compilare un modulo che nessuno controllerà, pagare 50 dollari e ti insegnano a usare un Ar-15 o un Kalashinikov caricato con proiettili veri. Non c’entrano nulla lo sport, il tiro a segno per divertirsi nei luna park o anche la caccia. Lo scopo, dichiarato, è quello dell’autodifesa. E molti, troppi adolescenti, bianchi o afroamericani che siano, stanno crescendo immersi in questa pseudo cultura. Non è una buona idea importarla anche in Italia. Iran. Arrestata attivista per i diritti umani, ora rischia 80 frustate La Repubblica, 21 novembre 2021 Aveva partecipato ad una manifestazione comemorativa di un collega ucciso. Una nota attivista per la difesa dei diritti umani iraniana, Narges Mohammadi, è stata arrestata a Karaj, nella provincia dell’Alborz, mentre partecipava alla commemorazione di Ebrahim Ketabdar, ucciso dalle forze di sicurezza durante le proteste nazionali del novembre 2019. Il giorno dopo ha telefonato ai familiari per informarli che era stata portata al carcere di Evin, nella capitale Teheran, per scontare la condanna a due anni e mezzo, emessa nel maggio 2021 insieme alla pena aggiuntiva di 80 frustate, per “propaganda contro il sistema”. Da anni si batte contro la pena di morte. Narges Mohammadi è la vicepresidente del Centro per i difensori dei diritti umani in Iran e ha collaborato alla Campagna per l’abolizione passo dopo passo della pena di morte. Dopo le proteste del novembre 2019, ha sostenuto pubblicamente le richieste di verità e giustizia delle famiglie delle centinaia di manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza. Era stata già arrestata arbitrariamente nel maggio 2015 e condannata, un anno dopo, a 16 anni di carcere solo per aver esercitato la sua libertà di espressione e di manifestazione. Nell’ottobre 2020, dopo una campagna globale portata avanti anche da Amnesty International, era stata scarcerata ma le autorità iraniane avevano continuato a minacciarla. Le sue attività del tutto pacifiche. “Narges Mohammadi è una prigioniera di coscienza presa di mira solo per aver svolto attività del tutto pacifiche in favore dei diritti umani. Ora che è in carcere rischia addirittura 80 frustate. Chiediamo alle autorità iraniane di rilasciarla immediatamente, di annullare la condanna e di assicurare che sia protetta da ogni forma di tortura, comprese le frustate”, ha dichiarato Heba Morayaf, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. Israele. Vanunu “il traditore”, tradito dall’Italia di Michele Giorgio Il Manifesto, 21 novembre 2021 Per il tecnico che svelò i segreti del programma nucleare israeliano iniziava 35 anni fa un incubo che sembra non avere fine. Ha scontato 18 anni di carcere duro, ma la sua è una condanna a vita “Vanunu M. rapito a Roma Italia il 30 9 86 arrivato a Roma con il volo BA504”. La vicenda di Mordechai Vanunu cominciò così, 35 anni fa, con questa scritta nel palmo della mano appoggiata su un finestrino del piccolo bus che lo riportava dall’aula del tribunale al carcere. E terminò 18 anni dopo, il 21 aprile del 2004, quando il tecnico nucleare israeliano lasciò la prigione di Shikma tra gli applausi dei suoi (pochi) sostenitori, tra i quali l’attrice inglese Susanna York e l’ex vicepresidente dell’Europarlamento Luisa Morgantini, che scandivano “Ghibor, Ghibor” (“Eroe”), e gli insulti dei suoi (tanti) denigratori che gli urlavano contro “Boghed, ben zonà” (“Traditore, figlio di puttana”). In realtà non è mai terminata la prigionia per Vanunu che da quando è uscito dalla cella - in cui rimase in isolamento per 11 dei 18 anni di detenzione - ha provato senza successo a lasciare Israele. L’aver rivelato al mondo i segreti del programma nucleare israeliano, per Vanunu ha significato la condanna a una vita, anche fuori dal penitenziario, libera solo in parte. Ancora oggi è costretto a rispettare restrizioni negli spostamenti, a non incontrare i giornalisti, e ad affrontare procedimenti penali per presunte violazioni dei termini di scarcerazione. Più di tutto non può vivere lontano da Israele, paese di cui sente di non far più parte al punto da rinunciare a parlare in ebraico e a convertirsi al Cristianesimo. Dal 2004 il tecnico nucleare vive a Gerusalemme est, la zona palestinese della città. Fino a qualche tempo fa lo si poteva scorgere nel bel giardino di un piccolo hotel palestinese o in una nota libreria di via Salah Edin a sorseggiare un caffè. Ora è quasi introvabile e comunque per un giornalista straniero intervistarlo vorrebbe dire l’espulsione da Israele. “Non mi pento, rifarei tutto ma i segreti che ho rivelato (nel 1986) sono superati, non rappresento un rischio per la sicurezza del paese come affermano (le autorità)”, ripeteva Vanunu il 21 aprile di 17 anni fa davanti alla prigione Shikma. Poi ha capito che non lo lasceranno mai partire. Perché quei segreti, sì, sono superati ma la sua stessa esistenza resta una denuncia perenne di un programma nucleare segreto - che il mondo finge di non conoscere - e del possesso da parte di Israele, lo dicono gli esperti internazionali, di 100 forse 200 testate atomiche. In realtà la vicenda di Mordechai Vanunu, ebreo di origine marocchina, comincia molto prima del suo rapimento a Roma messo in atto dal Mossad israeliano. Ebbe inizio negli anni 70 quando assieme al fratello Meir, iniziò a frequentare gli ambienti della sinistra radicale allontanandosi dal padre, un rabbino, che avrebbe voluto per lui un’esistenza da religioso ortodosso. Assunto come tecnico nella centrale di Dimona, Vanunu si rese conto che lì non si conducevano ricerche a uso civile. Dimona era la realizzazione, con l’aiuto della Francia, del programma nucleare segreto voluto dal fondatore di Israele David Ben Gurion e completato dal futuro Premio Nobel per la pace e presidente Shimon Peres. Non poteva rimanere in silenzio. Con una Pentax scattò 58 foto nel ?Machon 2, un complesso sotterraneo della centrale dove ?venivano prodotti annualmente una quarantina di kg di plutonio. Poi, a metà degli anni ‘80, decise di dimettersi e di lasciare Israele con uno zaino colmo di segreti. In Australia si confidò con un giornalista, Peter Hounan, che lo convinse ad andare a Londra per raccontare tutto al “Sunday Times” che avrebbe poi pubblicato le sue rivelazioni. Nell’estate del 1986 il Mossad era già sulle sue tracce e un’avvenente spia del servizio segreto israeliano, “Cindy”, lo convinse a seguirla a Roma a fine settembre per una romantica vacanza nella capitale italiana. A Fiumicino Vanunu trovò ad attenderlo un presunto amico della sorella di “Cindy” che lo portò in un appartamento alla periferia di Roma. Qui fu drogato e immobilizzato. Qualche anno fa la stampa israeliana ha rivelato che fu portato su di una nave spia israeliana, la “Ins Noga”. Pochi giorni dopo sarebbe finito sotto processo di Israele e condannato a 18 anni di carcere. Si scelse di rapirlo a Roma e non a Londra perché Israele sapeva che l’Italia sarebbe rimasta in silenzio di fronte alle operazioni degli agenti del Mossad già intense da anni nel territorio italiano, incluse quelle armate. Ed ebbe ragione. Il giornalista Peter Hounan consegnò un fascicolo pieno di notizie alla magistratura italiana che, peraltro, aveva già ricevuto un dossier della Digos, ma senza alcun esito. Le conclusioni del giudice Domenico Sica furono disarmanti: Vanunu, a suo dire, aveva “collaborato” al rapimento e quindi non vi era stato alcun reato sul suolo italiano. “Sica era il maggiore esponente della Procura di Roma che a quel tempo era chiamata ironicamente ‘Il porto delle nebbie’, dove tutto veniva affogato” ci racconta la giornalista e saggista Stefania Limiti, autrice ?del libro “Rapito a Roma” (ed. L’Unità, 2006), “e così fu affogata anche l’indagine su Vanunu. E non fece effetto la foto della mano che rivelava il rapimento avvenuto a Roma. L’Italia non intervenne”. E non è mai intervenuta per 35 anni. Un silenzio totale anche quando il tecnico nucleare, anni fa, rivolse più di un appello al governo italiano affinché fosse riportato a Roma, la città in cui voleva vivere una storia romantica e che invece fu l’inizio di un incubo che, forse, non avrà mai fine.