Carcere malato: il 70% dei detenuti ha delle patologie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 novembre 2021 Il 70% dei detenuti ha almeno una malattia Il 70% fuma, quasi il 45% è obeso o sovrappeso, oltre il 40% è affetto da una patologia psichiatrica, il 14,5% da malattie dell’apparato gastrointestinale, l’11,5% da malattie infettive e parassitarie, circa il 53% dei nuovi detenuti è stato valutato a rischio suicidio. Sono i dati allarmanti denunciati da Alessio Scandurra, Osservatorio diritti e garanzie associazione Antigone, durante il corso dell’evento “L’ecosistema integrato della digital health nei diversi istituti”. “Il carcere è un luogo malsano e le persone detenute hanno spesso bisogno, anche a causa dei contesti di provenienza, di interventi di cura rilevanti e urgenti. Ma ancora oggi ci sono troppi ostacoli per un dignitoso diritto alla cura”, spiega di Alessio Scandurra, nel suo intervento in occasione dell’evento phigital sul tema: “L’ecosistema integrato della Digital Health nei diversi istituti” - La telemedicina e il teleconsulto come miglioramento dell’accesso alle cure in regime di restrizione”, che si è svolto giovedì nella sala Capranichetta dell’Hotel Nazionale di Roma. Scandurra di Antigone ha evidenziato che: “nelle strutture penitenziarie manca il personale e le risorse adeguate a garantire all’interno tutti i servizi necessari e non è facile organizzare scorte e traduzioni per portare fuori i detenuti. Inoltre non tutte le carceri sono vicine a un ospedale e molti grandi istituti, come Gorgona, sono piuttosto isolati. In un quadro simile la telemedicina, e in generale un rafforzamento di tutti i servizi digitali, dovrebbe essere scontato, ma nella realtà il carcere vive ancora una anacronistica arretratezza informatica”. La convention - con la partecipazione, tra gli altri, di Giuseppe Emanuele Cangemi (Vicepresidente Consiglio Regionale Lazio), Sergio Pillon (coordinatore della trasformazione digitale Asl di Frosinone) e la senatrice Maria Rizzotti - ha avuto l’obiettivo di avviare un dibattito su un tema importante come quello della telemedicina e del teleconsulto all’interno delle carceri italiane, ma anche nelle Rsa, e sul contributo che questi nuovi strumenti possono apportare per migliorare la qualità di cura e della salute dei detenuti e degli anziani. Ad oggi lo Stato spende oltre 8 miliardi per l’amministrazione della giustizia e il 35% di queste risorse sono destinate al carcere che, attualmente, ospita circa 53.000 persone, un anno fa erano oltre 61.000. Tra il 2017 e il 2021, il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) è cresciuto del 18,2% passando da 2,6 a 3,1 miliardi, una cifra che batte ogni record negli ultimi 14 anni e rappresenta il 35% del bilancio del ministero della Giustizia. Alcune delle criticità più evidenti del Sistema sanitario penitenziario sono la disomogeneità delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura, riabilitazione; la farraginosità, obsolescenza e lentezza delle procedure per l’erogazione delle prestazioni sanitarie; l’inefficiente programmazione della spesa sanitaria e assenza di dati statistici sul “fabbisogno di salute”. Dal confronto è emerso che l’uso della telemedicina e del teleconsulto può contribuire in maniera determinante ad abbattere le barriere geografiche e temporali, facilitare la comunicazione e l’interazione tra il medico e il paziente, e più in generale per raggiungere un maggior numero di persone, comprese quelle che vivono in zone non dotate di adeguate strutture sanitarie, assistere i malati cronici o anziani direttamente a casa, eliminare le lunghe liste di attesa riducendo l’accesso a strutture già affollate e risparmiando quindi sui costi. L’iniziativa è stata Patrocinata, inoltre, dalla Sifeit, Aims, (Accademia Italiana Medici specializzandi), dalla School of Management Lum, e realizzata con il contributo di Merck. Antigone: il 70% dei detenuti ha una malattia, manca un dignitoso diritto alla cura dire.it, 20 novembre 2021 Quasi il 45% dei detenuti è obeso o sovrappeso; oltre il 40% è affetto da almeno una patologia psichiatrica. La denuncia di Alessio Scandurra, Osservatorio diritti e garanzie associazione Antigone, lanciata nel corso dell’evento “L’ecosistema integrato della digital health nei diversi istituti”. “Il carcere è un luogo malsano e le persone detenute hanno spesso bisogno, anche a causa dei contesti di provenienza, di interventi di cura rilevanti ed urgenti. Ma ancora oggi ci sono troppi ostacoli per un dignitoso diritto alla cura”. E’ la denuncia di Alessio Scandurra, Osservatorio diritti e garanzie associazione Antigone, lanciata nel corso del suo intervento in occasione dell’evento ‘L’ecosistema integrato della digital health nei diversi istituti - La telemedicina e il teleconsulto come miglioramento dell’accesso alle cure in regime di restrizione’, che si è svolto oggi presso l’hotel Nazionale di Roma. Dato allarmante di partenza è che il 70% dei detenuti ha almeno una malattia; il 70% fuma; quasi il 45% è obeso o sovrappeso; oltre il 40% è affetto da almeno una patologia psichiatrica; il 14,5% da malattie dell’apparato gastrointestinale; l’11,5% da malattie infettive e parassitarie; circa il 53% dei nuovi detenuti è stato valutato a rischio suicidio (Fonte Dap concessi da Antigone). Ad oggi lo Stato spende oltre 8 miliardi per l’amministrazione della giustizia e il 35% di queste risorse sono destinate al carcere che, attualmente, ospita circa 53mila persone, un anno fa erano oltre 61mila. “Nelle strutture penitenziarie manca il personale e le risorse adeguate per garantire all’interno tutti i servizi necessari e non è facile organizzare scorte e traduzioni per portare fuori i detenuti- evidenzia Scandurra- Inoltre non tutte le carceri sono vicine a un ospedale e molti grandi istituti, come Gorgona, sono piuttosto isolati. In un quadro simile la telemedicina, ed in generale un rafforzamento di tutti i servizi digitali, dovrebbe essere scontato, ma nella realtà il carcere vive ancora una anacronistica arretratezza informatica”. Tra il 2017 e il 2021, il bilancio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) è cresciuto del 18,2% passando da 2,6 a 3,1 miliardi, una cifra che batte ogni record negli ultimi 14 anni e rappresenta il 35% del bilancio del ministero della Giustizia. Entrando nel dettaglio di alcune voci si nota che, rispetto al 2020, aumentano i fondi, tra gli altri, per il funzionamento del servizio sanitario e farmaceutico, il mantenimento detenuti tossicodipendenti presso comunità terapeutiche (da 152 a 168 milioni), 4,5 milioni sono destinati a professionisti psicologi per le attività di osservazione e trattamento dei detenuti (fonte XVII rapporto sulle condizioni di detenzione Ass. Antigone). Alcune delle criticità più evidenti sono la disomogeneità delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura, riabilitazione; la farraginosità, obsolescenza e lentezza delle procedure per l’erogazione delle prestazioni sanitarie; l’inefficiente programmazione della spesa sanitaria e assenza di dati statistici sul “fabbisogno di salute”. Dal confronto è emerso che l’uso telemedicina e del teleconsulto può contribuire in maniera determinante ad abbattere le barriere geografiche e temporali, facilitare la comunicazione e l’interazione tra il medico e il paziente, e più in generale per raggiungere un maggior numero di persone, comprese quelle che vivono in zone non dotate di adeguate strutture sanitarie, assistere i malati cronici o anziani direttamente a casa, eliminare le lunghe liste di attesa riducendo l’accesso a strutture già affollate e risparmiando quindi sui costi. “I sanitari non si sentono ancora sicuri nell’utilizzo delle tecnologie digitali per erogare prestazioni sanitarie, inoltre il sistema sanitario è in grave ritardo nella definizione dei processi organizzativi necessari, anche per la lentezza nella formulazione di norme specifiche di settore”, ha evidenziato il Giuseppe Assogna, presidente della Società italiana per studi di economia ed etica sul farmaco e sugli interventi terapeutici, in riferimento alle barriere di accesso alla telemedicina. Giuseppe Emanuele Cangemi, vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, ha poi ricordato di essere stato “il primo rappresentante istituzionale in veste di assessore regionale a promuovere e portare nelle carceri del Lazio, insieme al Garante dei detenuti, un progetto pilota di telemedicina, in quella occasione i detenuti dell’istituto Regina Coeli affetti da problemi cardiaci hanno potuto contare su un nuovo servizio di telemonitoraggio e teleconsulto specialistico gestito dal Dea cardiologico dell’ospedale San Giovanni di Roma- ha poi evidenziato che- occorre creare un fascicolo sanitario elettronico e una cartella clinica digitale e mettere in funzione una piattaforma informatica a livello nazionale che consenta ad Asl e istituti di detenzione di dialogare e avviare un servizio di teleassistenza in ambito carcerario, sia adulto che minorile”. Nel corso dell’evento Sergio Pillon, coordinatore della trasformazione digitale Asl di Frosinone, ha spiegato che “la telemedicina ha un ruolo importantissimo per gli aspetti psichiatrici- ha sottolineato- Stiamo sviluppando un progetto pilota per le residenze per esecuzione in misure di sicurezza che, tramite un sistema di teleconsulto, consente di avere uno psichiatra presente anche dal suo smartphone h24 che interagisce con il paziente e con gli infermieri presenti nella struttura. Parallelamente stiamo avviando un percorso di teleconsulto psichiatrico e cardiologico per gli istituti penitenziari della nostra Asl”. Infine la senatrice Maria Rizzotti, in rappresentanza dell’associazione di iniziativa parlamentare e legislativa per la Salute e la Prevenzione, che ha patrocinato l’incontro, ha riconosciuto che “nel privato sono stati fatti passi più veloci nella digitalizzazione” e che “il Pnrr con il contributo di 7 miliardi di euro apporterà sicuramente numerosi benefici allo sviluppo delle reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale”. Carceri, tra sovraffollamento e diritto al sussidio di disoccupazione di Angela Bruno malpensa24.it, 20 novembre 2021 In un mondo carcerario terribile - in base ai dati dell’associazione Antigone al 28 febbraio 2021 i detenuti in Italia sono 53.697 e le strutture insufficienti, degradate e la condizione complessiva di chi vi vive non lontano da una forma di tortura - una buona notizia per chi vive dietro le sbarre. Anche i detenuti che hanno lavorato all’interno del carcere, per l’amministrazione penitenziaria, hanno diritto a ricevere la Naspi, cioè il sussidio di disoccupazione, quando restano senza impiego. E’ il principio sancito dal Tribunale del lavoro di Milano, che ha condannato l’Inps a versare l’indennità di disoccupazione a un carcerato assistito dalla Cgil. Ne ha dato notizia, nei giorni scorsi, il giornalista Andrea Gianni sul quotidiano Il Giorno. Il detenuto aveva lavorato in carcere per quasi due anni come addetto alla consegna e alla gestione della spesa e come cuoco. “Va osservato che la peculiarità del lavoro penitenziario non può consentire l’introduzione di un trattamento differenziato tra i detenuti e gli altri cittadini in materia di assicurazione contro la disoccupazione”, si legge, tra l’altro, nella sentenza. Il Tribunale, inoltre, evidenzia che “il lavoro penitenziario alle dipendenze del ministero della Giustizia e quello libero subordinato sono assimilabili: pertanto non possono sussistere ragioni per escludere il diritto alla Naspi qualora ricorrano i presupposti previsti dalla normativa specifica”. Una sentenza che, per la Cgil, scrive “una pagina importante per la dignità del lavoro e per il riconoscimento di una funzione realmente rieducativa della pena”. Certamente è un pronunciamento importante anche se nel nostro Paese non esiste il cosiddetto ‘diritto delle corti’, cioè le decisioni della magistratura non sono assimilabili alle leggi. Di sicuro però è fondamentale che un carcerato si veda riconosciuto un diritto eguale a un normale dipendente sia dal punto di vista economico, quindi materiale, ma anche da quello psicologico. Ma qual è la condizione generale dell’universo carcerario? Il rapporto Antigone dice che negli ultimi 12 mesi i detenuti sono 7.500 in meno, anche per tutte le pene alternative applicate in maniera più ampia per il Covid che in ambienti ristretti avrebbe potuto provocare una strage nella strage, ma il sovraffollamento è ancora inaccettabile e i numeri sono ritornati a salire. “Si tratta di un anno tragico che ha rivoluzionato il modo di essere delle persone libere e di quelle detenute - è scritto nell’ampio studio -. Il sovraffollamento da condizione oggettiva di trattamento degradante è diventato anche questione di salute pubblica”. Si è comunque molto al di sotto delle cifre pre-pandemia: i carcerati erano 61.230 il 29 febbraio del 2020, a pochi giorni dalla scoperta del paziente zero di Codogno (Lodi). L’Italia non era ancora in lockdown. Dunque in un anno il calo è stato pari al 12,3% del totale. Il numero delle carceri è rimasto lo stesso, 189. Il tasso di sovraffollamento è oggi pari al 106,2%. Posto però che la stessa amministrazione penitenziaria riconosce formalmente che “il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato” e che presumibilmente i reparti chiusi potrebbero riguardare circa 4 mila posti ulteriori il tasso effettivo, seppur non ufficiale di affollamento, raggiunge il 115%. Dunque - viene sottolineato nel focus - per poter scendere fino al 98% della capienza ufficiale regolamentare, considerata in alcuni Paesi la percentuale fisiologica di un sistema che deve sempre prevedere la disponibilità di un certo numero di posti liberi per eventuali improvvise ondate di arresti o esecuzioni, sarebbe necessario “deflazionare il sistema di altre 4 mila unità che diverrebbero 8 mila alla luce dei reparti transitoriamente chiusi”. La parziale riduzione della popolazione detenuta intervenuta nell’ultimo anno non ha cambiato le proporzioni tra stranieri e italiani. I primi oramai da alcuni anni si attestano al 32,5% del totale dei detenuti. Ovviamente la qualità della vita in carcere dipende molto dai tassi di sovraffollamento. E’ interessante conoscere i numeri di coloro che scontano misure non detentive. Al 15 febbraio 2021 sono 61.589 le persone, di cui 6.961 donne, che sono in esecuzione di una misura alternativa alla detenzione, sanzione sostitutiva, libertà vigilata, messa alla prova, lavori di pubblica utilità: 16.856 in affidamento in prova ai servizi sociali, 11.788 in detenzione domiciliare, 752 in semilibertà (queste ultime grazie a provvedimenti normativi diretti a limitare i rischi del contagio sono state per lunga parte dell’anno autorizzati a non rientrare in istituto la notte). Da sottolineare le ben 8.828 persone sottoposte a lavori di pubblica utilità, la quasi totalità delle stesse per violazione del codice della strada. Ben 18.936 persone sono invece in stato di messa alla prova. La fotografia di Antigone è importante, la sentenza del Tribunale di Milano pure. È giusto essere puniti se si commettono reati, ma la detenzione deve essere umana e indirizzata al reinserimento. È possibile. È questa la strada. I lavoratori detenuti devono essere uguali agli altri di Chiara Cecchini L’Essenziale, 20 novembre 2021 I detenuti che lavorano hanno diritto a una paga più alta di quella che percepiscono oggi. E nel momento in cui si interrompe il rapporto di lavoro, deve essere riconosciuto loro il sussidio di disoccupazione. Sono i princìpi di due sentenze pronunciate nei giorni scorsi dal tribunale di Roma e dal tribunale del lavoro di Milano, che contribuiranno a migliorare la condizione lavorativa dei carcerati. La legge del 1975 In Italia i detenuti possono lavorare dal 1975, quando venne emanata la legge sull’ordinamento penitenziario, che attua l’articolo 27 della costituzione, secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tra le modalità con cui farlo, venne introdotto il lavoro in carcere. La legge stabilisce che l’impiego non deve avere carattere afflittivo, cioè non deve limitare la libertà personale, deve essere remunerato almeno due terzi di quanto previsto dai contratti collettivi nazionali e può avvenire alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, di terzi (ma sempre all’interno delle carceri) o fuori dagli istituti. Quest’ultima possibilità è accordata solo a chi non è stato condannato per i reati previsti all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario (per esempio il terrorismo), o a condizione che abbia scontato almeno un terzo della pena. Per gli ergastolani, la soglia si alza a dieci anni. Nella realtà dei fatti solo una minoranza dei detenuti lavora: i dati del ministero della giustizia aggiornati al 30 giugno 2021 evidenziano che sono 17.957, a fronte di una popolazione carceraria di circa 53mila detenuti. A lavorare è solo un detenuto su tre e la maggior parte di loro, 15.827 persone, ha un impiego alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Dei 2.130 carcerati che sono impiegati da soggetti terzi, solo poche centinaia lavorano fuori dal carcere. Per un detenuto, lavorare è molto più difficile di quanto possa sembrare e spesso l’impiego si scontra con il fine del reinserimento sociale, perché riguarda attività interne poco “professionalizzanti” e difficilmente replicabili all’esterno una volta scontata la pena. A questo si aggiunge il tema dello sfruttamento. Nel febbraio 2020 il procuratore della repubblica Nicola Gratteri, intervenendo alla trasmissione Mezz’ora in più su Rai 3, ha auspicato che in assenza di risorse si garantisca comunque il lavoro ai detenuti in forma gratuita per preservare il suo fine rieducativo. Un sistema che finirebbe per somigliare al lavoro forzato, come sottolineato anche dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu), ma in vigore in molti istituti, dove i detenuti sono spesso impiegati in lavori di pubblica utilità in forma di volontariato, che di volontario hanno ben poco vista l’assenza di alternative. Ai problemi retributivi si aggiungono le frequenti mancanze che riguardano altri diritti dei lavoratori, come le ferie e i giorni di malattia pagati, la tredicesima, il trattamento di fine rapporto e l’indennità di disoccupazione, che nella maggior parte dei casi restano un’utopia per i detenuti. In questa situazione complicata sono arrivate nei giorni scorsi le sentenze, a loro modo rivoluzionarie, di due tribunali, che sono intervenute sui punti più delicati del lavoro carcerario: la retribuzione e la disoccupazione. Il tribunale di Roma ha condannato lo stato italiano per aver sottopagato un detenuto ergastolano. L’uomo si trova in carcere dal 2004 per un duplice omicidio e una volta raggiunti i requisiti ha cominciato a lavorare, prima a Teramo e poi a Volterra, dove ha svolto tante mansioni, dalle pulizie negli ambienti comuni alla cucina, dal lavoro di muratore e agricoltore alla produzione tessile e alla sartoria. Un esempio di occupazione carceraria come mezzo di rieducazione che funziona, non fosse per la paga esigua corrisposta all’uomo, che ha fatto ricorso presentando tutti i suoi cedolini e mettendoli a confronto con le retribuzioni previste dai contratti collettivi nazionali. Le decisioni dei tribunali - Il giudice ha stabilito che lo stato dovrà pagargli la differenza tra quanto prevedono i contratti per le mansioni svolte e quanto effettivamente ha percepito, cioè 41.770 euro, maggiorati di interessi legali fino a quando la sentenza non sarà rispettata. Non è la prima volta che un tribunale si pronuncia in questo senso: nel 2019 ci fu una sentenza simile su un caso collettivo presentato da decine di detenuti di diverse carceri del paese. Il problema stava nel fatto che i livelli retributivi dei detenuti, che secondo la legge del 1975 sono già inferiori ai contratti collettivi nazionali, non vengono aggiornati dal 1993. Un’altra sentenza importante è quella del tribunale di Milano che ha condannato l’Inps a versare l’indennità di disoccupazione a un carcerato che aveva lavorato per oltre due anni come cuoco e addetto alle consegne. L’Inps nel 2019 si era adeguato a una circolare del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che aveva chiarito che i detenuti dovessero essere esclusi dal sussidio. Ora il giudice ha stabilito che “il lavoro penitenziario non può consentire l’introduzione di un trattamento differenziato tra i detenuti e gli altri cittadini in materia di assicurazione contro la disoccupazione”. Il detenuto non può insomma essere svantaggiato in quanto detenuto, dice il giudice. “Il lavoro è lavoro per tutti”, ha detto Francesco Maisto, garante dei detenuti di Milano, commentando la sentenza. Un precedente importante, che costringe l’Inps a cambiare approccio e che insieme alle pronunce sull’aumento delle retribuzioni aggiunge un altro tassello al percorso verso un trattamento più dignitoso dei lavoratori in carcere”. Torniamo a Opera, da dove il nostro viaggio è iniziato. Il IX congresso di Nessuno tocchi Caino di Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 20 novembre 2021 Immersi come continuiamo a essere in uno “stato di emergenza” in cui a emergere è lo Stato con tutto il suo armamentario di norme e procedure eccezionali, mezzi e poteri speciali, noi vogliamo che ad emergere e affermarsi siano invece gli stati di coscienza e di diritto orientati ai valori umani universali. È proprio in momenti come quello che stiamo vivendo in cui imperano la paura e i divieti che occorre essere speranza contro ogni speranza. Ritorniamo quindi al carcere di Opera dove il nostro “viaggio della speranza” è partito sei anni fa. Dal Congresso del 2015, l’ultimo a cui ha partecipato Marco Pannella, dagli ergastolani senza speranza, gli “irredimibili” protagonisti del docufilm di Ambrogio Crespi e dai “Laboratori Spes contra spem” nei quali si sono redenti, siamo arrivati alla Corte di Strasburgo e alla Corte Costituzionale che hanno affermato contro l’ergastolo ostativo il diritto alla speranza che abbiamo celebrato nel Congresso del 2019, sempre a Opera. Il viaggio della speranza, da libro curato da Sabrina Renna, Antonio Coniglio e Lorenzo Ceva Valla su quello straordinario Congresso del 2019, è diventato un viaggio vero e proprio che ci ha portati ad attraversare la Puglia, la Calabria, la Sicilia. Dalle terre del nostro Paese, che il potere considera l’impero del male dove abitano i cattivi da condannare a pene senza speranza, è emersa invece una storia diversa, una “teoria” alternativa di fatti e di persone. Nel Congresso del 17 e 18 dicembre racconteremo quest’altra storia, il vissuto di persone che oggi costituiscono anche la nostra realtà associativa, molto più forte, diversa e ricca di due anni fa. Parteciperanno imprenditori perseguitati da misure interdittive e di prevenzione antimafia, Sindaci di Comuni sciolti per mafia, detenuti e detenenti, ex detenuti e loro famigliari vittime del sistema mortifero del diritto e dell’esecuzione penale, cittadini cultori dello stato di diritto, avvocati difensori dei diritti umani dentro e fuori le aule dei tribunali. Il IX Congresso sarà incentrato su due sessioni di dibattito. La prima sessione ha il titolo “Quando prevenire è peggio che punire”, perché negli ultimi anni gli stessi processi e castighi penali, troppo garantisti e dagli esiti incerti, sono stati soppiantati da processi e castighi sommari, immediati e più distruttivi, quelli delle misure di prevenzione, dei sequestri e delle confische personali e patrimoniali, delle informazioni interdittive antimafia, dello scioglimento dei Comuni per mafia. Questo è anche il titolo del libro di Nessuno tocchi Caino e de Il Riformista curato da Pietro Cavallotti, Lorenzo Ceva Valla e Miriam Romeo, che finalmente ha visto la luce dopo un anno di lavoro, di conferenze e di incontri con i protagonisti, loro malgrado, di una storia di “guerra alla mafia” che con la terribilità con cui è stata condotta, ha provocato - come spesso accade in ogni guerra senza quartiere - “danni collaterali” e vere e proprie vittime innocenti. La seconda sessione ha il titolo “Non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale” perché una pena retributiva, che è speculare al delitto, è insensata e inutile; perché il carcere non è solo il luogo della privazione della libertà, è diventato, davvero, anche “un luogo di pena” dove la malattia, il dolore, la sofferenza, il patimento sono i tratti dominanti, strutturali, istituzionali. Di questa visione del diritto penale che è stata quella di Gustav Radbruch e Aldo Moro, e di una giustizia che non punisce e separa ma ripara e riconcilia, che fa leva sulla forza della parola e del dialogo, della speranza e dell’amore, abbiamo parlato pochi giorni fa proprio con Marta Cartabia in un cordiale e intenso incontro a Via Arenula. Per partecipare al Congresso occorre registrarsi entro e non oltre il 30 novembre scrivendo a info@nessunotocchicaino.it oppure telefonando o inviando un messaggio al 335 8000577. Se non lo hai ancora fatto, ti chiediamo di iscriverti per partecipare al Congresso anche con la tessera di Nessuno tocchi Caino, la fiaccola della speranza contro ogni speranza. Ti aspettiamo!! Trent’anni dopo Mani Pulite è tempo che la guerra finisca di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 20 novembre 2021 A breve saranno tre decenni dall’arresto di Mario Chiesa, il boiardo socialista dalle cui confessioni promanò la slavina, poi diventata valanga processuale, che travolse la Prima Repubblica: e la questione giudiziaria continua a spaccare il Paese in due segmenti contrapposti. Alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, le piazze italiane erano infiammate da giovani persuasi che fosse ragionevole uccidere i propri coetanei a causa dell’avversa appartenenza politica. Erano passati tre decenni dalla fine della guerra di liberazione. Ma era come se fascismo e antifascismo (l’antifascismo militante, di matrice comunista) non avessero smesso nemmeno per un momento di combattersi. Non pochi genitori di quei ragazzi, del resto, divisi tra la paura del golpe nero e il timore dell’esproprio rosso, ne assecondavano l’aberrazione ottica e ideologica, finendo di fatto per regolare conti in sospeso per interposta persona. Si osserverà che trent’anni sono forse pochi per tramutare in storia i drammi quotidiani. Eppure, potrebbero essere sufficienti almeno a un ripensamento, a una prima analisi critica o, se non altro, a un raffreddamento degli animi. Così non fu, ci dicemmo, perché l’Italia d’allora era debole quanto a condivisione dei valori. Nonostante la successiva, lunga e faticosa ricerca di valori condivisi, così non pare essere neppure ora, con riguardo alla stagione più tumultuosa della nostra Repubblica, quella segnata dallo spartiacque di Mani pulite. Anche questa fase sembra sottomettersi alla ripetitività della guerra dei Trent’anni, del passato che non passa. A breve saranno tre decenni dall’arresto di Mario Chiesa, il boiardo socialista dalle cui confessioni promanò la slavina, poi diventata valanga processuale, che travolse la Prima Repubblica: e la questione giudiziaria continua a spaccare il Paese in due segmenti contrapposti per fede ma assai simili per scarsa o nulla propensione a riconoscere dignità all’avversario. Senza neppure il bisogno di scorrere l’emeroteca delle passate e infelici stagioni, basta uno sguardo alle cronache recenti per avere un’idea del tasso di avvelenamento del discorso pubblico: la battaglia mai sopita attorno al finanziamento della politica, ora incarnata dall’inchiesta sulla fondazione Open col suo strascico di ovvietà miste a rivelazioni più o meno riservate, o l’intemerata televisiva di un procuratore di primo piano contro talune scelte della ministra Guardasigilli sono soltanto le ultime stazioni della via crucis inflitta a giustizia e politica ove vengano incrociate in un chiacchiericcio astioso che disorienta il Paese. Due sono i miti fondanti, ma del tutto infondati, di questo nuovo trentennio tossico: ed entrambi hanno radici nell’inchiesta dei magistrati di Milano tra il 1992, l’anno del principio, e il 1994, quello dell’invito a comparire a Silvio Berlusconi e dell’addio di Antonio Di Pietro alla toga. Il primo è il mito del golpe giudiziario. Nato negli ambienti politici più duramente colpiti dall’inchiesta (segnatamente i socialisti meneghini) e da essi propalato durante gli anni successivi, riconduce il lavoro del pool dei magistrati a un’unica trama, magari eterodiretta, volta a distruggere la nostra democrazia parlamentare. La realtà è ben diversa. Non a un golpe giudiziario assistemmo, quanto piuttosto al dissennato suicidio di partiti che durante gli anni Ottanta avevano scambiato consenso elettorale con debito pubblico e appalti truccati con finanziamenti illeciti: fu il loro prestigio ridotto al rango di barzellette da bar che li consegnò, indifesi, ai magistrati. Il secondo mito è, per converso, quello della Mani pulite mutilata, dell’inchiesta interrotta bruscamente a causa del ricompattamento del sistema, travasato nella cosiddetta Seconda Repubblica. Questo mito (“non ci hanno fatto finire il lavoro!”) promana direttamente dai dipietristi ed è servito a giustificare l’inopinata uscita di scena del pubblico ministero più popolare d’Italia appena prima di dover interrogare Silvio Berlusconi. Anche in questo caso, la realtà è tutt’altra. Innanzitutto, perché, come ha ricordato Paolo Ielo (allora giovane sostituto del pool milanese e oggi procuratore aggiunto a Roma) Mani pulite non finì nel 1994 ma proseguì per anni con altri protagonisti. Certo, aveva perso consenso: ma ciò dipese dalla stanchezza popolare per l’assai discutibile uso della galera e dal timore nato in molti italiani che, scendendo l’indagine di livello, quella galera toccasse a loro stessi. Accade però che questi falsi miti abbiano figliato, nel frattempo. In una parte della destra, generando una aprioristica avversione contro la magistratura fino ad atteggiamenti corrivi con i reati dei colletti bianchi (se la giustizia è ingiusta, del resto, vale il “tana libera tutti”). E, sul fronte opposto, in una certa sinistra a lungo persuasa di poter prevalere sugli avversari per via giudiziaria, e soprattutto nel primo grillismo, che ha immaginato di “completare l’opera” in piazza, magari con un lacerto di intercettazione usato come ghigliottina sui social. La magistratura stessa ha finito per assumere i vizi della cattiva politica anziché perseguirli: a riprova del fatto che non c’è toga abbastanza elastica da coprire lo strappo tra moralità e moralismo. È tempo che la guerra dei Trent’anni finisca. Che i ragazzi di oggi, pur in buona misura ignari di chi fossero i protagonisti di Mani pulite, non subiscano di quella stagione i miasmi politici e il cinismo antistituzionale. La ricerca di valori condivisi è mera retorica se non si superano garantismo peloso e giustizialismo giacobino, se non si esce da uno schema binario (con noi o contro di noi) recuperando il senso delle posizioni dialoganti. È difficile immaginare scorciatoie. Tuttavia, un personaggio pubblico in grado di migliorare di molto il clima sarebbe ancora in campo. Per paradossale che appaia, si tratta proprio di Berlusconi: il quale, senza abiure né confessioni, certo, ma solo dismettendo con un gesto, una frase, un messaggio, i panni da perseguitato della giustizia nei quali si è blindato (anche) per ragioni difensive, potrebbe aprire una nuova stagione smontando i miti fasulli della precedente. Tutto contraddice quest’ipotesi fantapolitica: rancori cristallizzati, diffidenze reciproche, la divisione in due del Paese tra berlusconiani e antiberlusconiani. Tutto, tranne il senso di una missione perfino più appassionante del miraggio del Colle: aiutare gli italiani di domani a entrare nel futuro senza inutili fardelli. Riforma del Csm, Unicost: “No assoluto al sorteggio” di Davide Varì Il Dubbio, 20 novembre 2021 Mariarosaria Savaglio, segretario nazionale del gruppo di Unicost: “Andare di nuovo alle elezioni con l’attuale sistema vorrebbe dire non aver ottenuto alcun risultato rispetto al rinnovamento che la magistratura sta cercando di compiere al suo interno”. La riforma elettorale per il Csm è “assolutamente urgente”, perché “andare di nuovo alle elezioni con l’attuale sistema vorrebbe dire non aver ottenuto alcun risultato rispetto al rinnovamento che la magistratura sta cercando di compiere al suo interno”. A sottolinearlo è Mariarosaria Savaglio, giudice del tribunale di Cosenza, che dalla scorsa estate è uno dei due segretari nazionali del gruppo di Unicost, intervistata dall’AGI. “Assoluta contrarietà al sorteggio” anche temperato, spiega, affermando invece di ritenere migliore, tra i sistemi possibili, “uno fondato sull’idea di proporzionale”, che “sposi il principio di riavvicinare l’eletto al corpo elettorale, rispecchiando la volontà di quest’ultimo”. Per il segretario di Unicost, infatti, “il riconoscimento della pluralità di visioni che esistono in magistratura deve essere garantito: il Csm deve rispecchiare ciò che è la magistratura, preservando le proprie funzioni di tutela dell’autonomia e dell’indipendenza delle toghe”. Certo,aggiunge Savaglio, “non ci illudiamo che un nuovo sistema elettorale possa essere il rimedio a tutti i mali, ma un “cattivo” sistema può, invece di trovare soluzioni contro le degenerazioni, avere l’effetto opposto, ulteriormente aggravandola situazione”. La legge elettorale per il Csm attualmente in vigore “ha creato patologie che invece un buon sistema elettorale potrebbe arginare”, sottolinea il segretario Unicost, accogliendo con favore le “linee di fondo” del lavoro compiuto dalla Commissione Luciani, incaricata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia di studiare soluzioni per la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Secondo l’esponente di Unicost, il lavoro della Commissione Luciani “mira a tutelare il pluralismo e a riavvicinare l’eletto all’elettore, riducendo il peso delle correnti”, osserva Savaglio, la quale, invece, mette in guardia sui rischi di “influenze esterne” che potrebbero sorgere dall’”eliminazione del riconoscimento dei gruppi associativi”. Quanto al sorteggio, il segretario di Unicost rileva, oltre “all’impraticabilità costituzionale”, che potrebbe “determinare un’assoluta deresponsabilizzazione sia di eletti che di elettori”. Savaglio, quindi, tocca anche il tema della rappresentanza di genere, dato che risulta ancora esiguo il numero di togate a fronte di una presenza sempre più alta di donne magistrato in servizio che da tempo supera quella maschile: “Bisogna intervenire quanto meno con un meccanismo che garantisca una parità di chance - sottolinea - e dobbiamo ricordare che questo non è compatibile con tutti i sistemi elettorali: ad esempio, risulterebbe difficile in un sistema con collegi uninominali”. Inoltre, quanto all’esigenza che vi sia un numero adeguato di candidati tra cui l’elettorato possa scegliere, il segretario di Unicost esprime critiche sul meccanismo di integrazione delle liste che era stato delineato dalla proposta di riforma presentata nel 2020 dall’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede: “Quel meccanismo non va bene perché sminuisce il ruolo di elettorato passivo. Eventuali candidature forzose non hanno certo la stessa valenza di una spontanea”. Per Unicost, “il modo migliore per soddisfare le esigenze è un sistema elettorale che stimoli la presentazione di candidatura e di certo - afferma Savaglio - il sistema delineato dalla Commissione Luciani lo fa: trovo infondata la critica che alcuni, come Magistratura Indipendente, rivolgono al “sistema Luciani” sostenendo che può favorire accordi tra gruppi associativi. Non vedo come potrebbe farlo e, in ogni caso, da parte nostra, non c’è intenzione di fare alcun accordo”. Il pg di Trento a Salvi: “Ora basta saccheggiare i dati di cellulari e pc” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 novembre 2021 La circolare di Giovanni Ilarda è finita anche sul tavolo del pg di Cassazione Salvi per “valutare l’opportunità di iniziative dirette a promuovere linee di orientamento e indirizzo uniformi sull’intero territorio nazionale”. Basta col saccheggio indiscriminato e con la diffusione impropria di dati da cellulari e computer: può sintetizzarsi così la circolare che qualche settimana fa il Procuratore Generale della Repubblica di Trento, Giovanni Ilarda, ha inoltrato non solo ai suoi colleghi procuratori del distretto ma addirittura al Procuratore Generale di Cassazione, Giovanni Salvi. In essa il dottor Ilarda chiede alla figura apicale di Piazza Cavour “di voler valutare l’opportunità di iniziative dirette a promuovere linee di orientamento e indirizzo uniformi sull’intero territorio nazionale” in materia di sequestro di telefoni e computer, copia forense dei contenuti, “riversamento agli atti del procedimento della sola messaggistica rilevante ai fini delle indagini”. Quest’ultimo tassello lo avevamo sottolineato qualche giorno fa, parlando dell’affaire Renzi/Open/Fatto Quotidiano: c’è un problema che il legislatore deve risolvere e riguarda appunto l’inserimento nel fascicolo di indagine di materiale irrilevante che però, finendo sui giornali, può ledere la reputazione degli indagati e della loro cerchia relazionale. Se a ciò si aggiunge che tale materiale rimane nei cassetti delle procure e della polizia giudiziaria sine die, ecco che la nostra privacy è a rischio. Ilardi è stato pubblico ministero negli anni di piombo e delle stragi in Sicilia, prima come sostituto procuratore della Repubblica e componente della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, poi come sostituto procuratore generale, occupandosi soprattutto di processi contro la P.A. e di criminalità organizzata. Da un magistrato antimafia ci si aspetterebbe un’altra filosofia di indagine, più incline ad ampliare i confini di operatività dell’azione inquirente. Invece proprio lui ha ritenuto “necessario ed urgente richiamare l’attenzione su quanto di seguito rappresentato”, ossia porre dei limiti all’utilizzo di quanto acquisito, previa selezione accurata e non a strascico del materiale. Vediamo nel dettaglio. Primo: “Il dispositivo di comunicazione mobile (ma analoghe considerazioni valgono nel caso di sequestro di un computer) può essere sequestrato al solo al fine di estrarre i dati nello stesso memorizzati e va immediatamente restituito non appena eseguita la c.d. copia forense”. Lo dice la Cassazione, ricorda Ilarda: “L’autorità giudiziaria, quindi, può disporre un sequestro dai contenuti molto estesi, provvedendo, tuttavia, nel rispetto del principio di proporzionalità ed adeguatezza, alla immediata restituzione delle cose sottoposte a vincolo non appena sia decorso il tempo ragionevolmente necessario per gli accertamenti”. Secondo: “il principio di proporzionalità impone, poi, che il sequestro sia rigorosamente mantenuto sui soli dati della copia forense rilevanti ai fini delle indagini” perché, sottolinea Ilarda, “un riversamento agli atti del procedimento della copia forense nella sua interezza, comprendente anche chat o messaggi con contenuto irrilevante per il processo, implica, invece, un’inammissibile ed illecita diffusione di dati che attengono alla sfera personale, intima ed inviolabile di ogni individuo e non è assolutamente consentito, perché comporta, inevitabilmente, fra l’altro, la possibilità di divulgazione di fatti lesivi dell’onorabilità e della reputazione della persona, di dati penalmente irrilevanti che possono, però, risultare devastanti per la vita dei soggetti coinvolti (anche se estranei al procedimento)”. Ilarda ha centrato perfettamente il punto, sostenuto sempre da una giurisprudenza di legittimità perfettamente coerente con la nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche ma spesso ignorata dai suoi colleghi: “La c.d. copia integrale è una copia servente, una copia “mezzo” e non una copia “fine”. Ne deriva che, restituito il contenitore, il pubblico ministero può trattenere la copia integrale solo per il tempo strettamente necessario per selezionare, tra la molteplicità delle informazioni in essa contenute, quelle che davvero assolvono alla funzione probatoria sottesa al sequestro” (Cass. 2020, n. 13156; Cass. 2020, n. 34265). Terzo: i duplicati della copia forense messi a disposizione della polizia giudiziaria, “di cui non risulta la finalità e la cui formazione appare di dubbia legittimità, vanno in ogni caso immediatamente restituite all’avente diritto o distrutte, unitamente a qualunque duplicato riversato in qualsiasi altro supporto informatico, una volta effettuata la selezione dei soli dati rilevanti risultanti dalla copia forense”. Bisogna infatti evitare la formazione di veri e propri archivi di massa paralleli distinti dal Ced istituito presso il ministero dell’Interno. Quarto: Ilarda rileva che “talora la polizia giudiziaria è stata incaricata, genericamente, di una non meglio precisata “analisi” dei dati, senza alcuna definizione del perimetro all’interno del quale effettuare la selezione, con l’attribuzione, quindi, di un vero mandato esplorativo in bianco dell’intera massa dei dati”. Questa prassi deve finire e deve essere “espressamente precisato che debbono essere selezionati esclusivamente i dati probatoriamente rilevanti per l’accertamento del reato per il quale si procede”. Quinto: “Le circostanze fattuali penalmente rilevanti delle quali si sia venuti a conoscenza, se privi di valore probatorio ai fini dell’accertamento del reato per il quale si procede, non possono essere riversati nel relativo procedimento, ma debbono formare oggetto di separata comunicazione di notizia di reato”. Vasto (Ch). Tossicodipendente in carcere per furto si uccide nel giorno del 33° compleanno Il Centro, 20 novembre 2021 Ha deciso di farla finita il giorno del suo compleanno. Si è tolto la vita, nella casa lavoro di Vasto, un 33enne di Montesilvano che all’inizio del mese era stato arrestato dai carabinieri per il furto in un negozio di frutta e verdura che si trova all’incrocio tra viale De Gasperi e via Rieti, a Pescara. Inizialmente era finito agli arresti domiciliari ma poi per lui si sono aperte le porte del carcere, a Vasto, dove era solo in cella, perché in quarantena, racconta l’avvocato Maurizio Russi che lo conosceva da anni e sa bene come la vita del 33enne fosse segnata dalla tossicodipendenza. “Lui e la madre, originari della Romania”, racconta, “sono arrivati qui dalla Puglia nel 2014. Per procurarsi la droga commetteva furti ed è finito in carcere parecchie volte. Fino a quando, l’anno scorso, è entrato in comunità e ci è rimasto sette mesi. Era arrivato quasi alla fine del percorso, si era ripreso. Ma poi è stato espulso dalla struttura perché si è scoperto che aveva fatto uso di sostanze. È finito di nuovo nel giro della droga, e non l’ho più visto fino all’arresto per il furto nel negozio di frutta”. Per fatti legati a quell’episodio era stato portato al carcere di Vasto. “Puntavamo a farlo tornare in comunità. Era un bravo ragazzo, recuperabile, non violento. Avevo già preso appuntamento al Sert per il nuovo ingresso in comunità e, per questo, chiesto la concessione dei domiciliari. Ma non sono arrivati in tempo. Rimasto solo a causa della quarantena, l’ha fatta finita, in cella. Non è possibile che si muoia così”, conclude Russi. Rovigo. Pegoraro (Cgil): “Nominare subito il direttore del carcere” Il Resto del Carlino, 20 novembre 2021 Il coordinatore regionale della Fp-Cgil dopo la visita “Ci sono condizioni, anche igieniche, non tollerabili”. Una delegazione della FpCgil di Rovigo a cui ha partecipato anche il Coordinatore Nazionale FpCgil della polizia penitenziaria Stefano Branchi, ha fatto visita nel carcere di Rovigo. Durante la vista “è emerso la cronica mancanza in pianta stabile di un direttore penitenziario, proprio per la presenza all’interno del suddetto Istituto di detenuti classificati Alta Sicurezza, ragione questa che vi è assolutamente necessità di avere in pianta stabile un direttore”, ha sottolineato il coordinatore regionale Dap, Gianpietro Pegoraro. “Come risulta assolutamente necessaria all’interno del carcere di figure mediche specialistiche, che allo stato attuale mancano e quelle poche che ci sono non fanno ingresso all’interno dell’Istituto rodigino. Basti pensare ad esempio che il dentista viene una volta a settimana e questo crea come la mancanza di medici specialisti non pochi problemi per chi lavora all’interno dell’Istituto, dove le richieste per predetta figura sono sempre in aumento, come sono in aumento le visite specialistiche esterne al carcere per le ragioni suddette”. Problema rifiuti. “Abbiamo notato che ai piedi del reparto detentivo ci sono accatastati mucchi d’immondizie gettate da giorni dalle finestre da parte dei detenuti e che giorno dopo giorno si accumulano sempre di più, situazione che può generare focolai di malattie e portare topi. Infatti mancano personale che facciano pulizie, come mancano i fondi per pagarli e questo ha creato e sta creando immondizie ammucchiate e che aumenteranno giorno dopo giorno se non si interviene a fare pulizia. Se ci fosse un direttore in pianta stabile la suddetta situazione non si sarebbe verificata. Come FpCgil chiediamo alle istituzioni di farsi carico della situazione”. Lucca. Il direttore del carcere non va alla Commissione comunale sulla situazione sanitaria di Paolo Pinori luccaindiretta.it, 20 novembre 2021 Savoca declina l’invito: “Inopportuna una diretta social su questioni tanto delicate da poter mettere in allarme i familiari dei detenuti”. Salta l’incontro in Commissione politiche sociali, con il direttore della casa circondariale di Lucca, Santina Savoca e il dirigente sanitario Perugino, sulla situazione sanitaria del carcere. La Casa circondariale di via san Giorgio è già stata sotto la lente d’ingrandimento della Commissione sociale durante l’incontro avvenuto con la Garante dei detenuti Alessandra Severi. In quell’occasione si sono evidenziati molti problemi, tra cui alcuni con rilievi importanti in ambito sanitario. In particolare, è stata rimarcata l’assenza di un numero sufficiente di defibrillatori Dae all’interno della struttura, tanto che i commissari avevano proposto di fare una raccolta fondi personale per dotare la struttura di altri due. Altra importante questione venuta fuori sul tavolo della Commissione, sono le precarie condizioni di salute mentale di alcuni detenuti che faticano a trovare spazio nelle strutture a loro dedicate dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Ad annunciare la decisione del direttore del carcere e del dirigente sanitario è il presidente della Commissione politiche sociali Pilade Ciardetti che dichiara: “Siamo costretti a cancellare il primo punto della mozione all’ordine del giorno di oggi (19 novembre), perché sono sorti alcuni problemi da parte della dirigenza della casa circondariale, per cui c’è stato un ripensamento sull’incontro”. Le motivazioni dell’assenza sono state spiegate in una lettera. Il direttore Savoca ha infatti voluto sottolineare “l’inopportunità di una diretta social nella quale dovremmo esporre delle criticità di questo istituto penitenziario sul sistema sanitario e fornire inevitabilmente informazioni che creerebbero allarmismo nei familiari dei detenuti”. “Abbiamo avuto dei colloqui con il direttore del carcere - dice il presidente Pilade Ciardetti interrompendo la lettura della missiva -, anche se non presente nell’email, ha aggiunto che un incontro di Commissione equivale formalmente ad un incontro con il Consiglio, organismo comunale, per cui necessita l’assenso del Provveditore regionale alle carceri. Assenso che darà sicuramente, ma che è necessario”. Il presidente prosegue la lettura dell’email: “Rimane ferma la nostra disponibilità ad incontrare la Commissione in presenza, per approfondire l’attuale situazione dell’istituto nella speranza di poter trovare una forma di collaborazione finalizzata a risolvere le criticità e attuare soluzione condivise così come da lei - il presidente Pilade Ciardetti - proposto nell’email del primo novembre scorso. Certi che la signoria vostra comprenderà e condividerà le ragioni della nostra richiesta, si ringrazia e si porgono i distinti saluti”. Avendo recepito da parte della dirigenza del carcere, sia l’impossibilità di poter presenziare la seduta di oggi (10 novembre), sia la disponibilità di un incontro in presenza, onde evitare la pubblicazione su social media di contenuti inadeguati alla divulgazione. La Commissione decide di incontrare il direttore dalla casa circondariale di san Giorgio, Santina Savoca e il dirigente sanitario Perugino, il primo dicembre alle 12. Fino a quel giorno, la situazione delle carceri a Lucca rimane un’incognita, nonostante i numerosi problemi che si sono susseguiti in questi mesi e che la pandemia ha certamente accentuato. Catanzaro. Progetto “Dolce lavoro”, dodici detenuti diventeranno pasticceri ansa.it, 20 novembre 2021 A breve conseguiranno, dopo 600 ore di formazione, il titolo di “Operatore per la lavorazione e la commercializzazione dei prodotti della panificazione/pasticceria”, riconosciuto dalla Regione. Sono dodici detenuti di alta sicurezza dell’Istituto penitenziario Ugo Caridi di Catanzaro coinvolti, da aprile 2021, nel progetto “Dolce lavoro” sostenuto da “Fondazione con il Sud” all’interno del bando “e-vado a lavorare”. L’iniziativa, che ha come partner l’impresa sociale Promidea, le associazioni Amici con il cuore (capofila) e Liberamente, la Casa circondariale Ugo Caridi e l’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna di Catanzaro, è articolata in più step. Insieme alla costituzione della cooperativa sociale, al marchio identificativo per i prodotti e l’avvio di tirocini formativi, il progetto prevede la dotazione di strumenti e attrezzature idonee, al fine di consentire la diversificazione della produzione e l’apertura al mercato esterno. Particolare attenzione è riservata all’animazione territoriale con la realizzazione di stand degustativi in occasione dell’avvio della produzione e nel corso di eventi pubblici. La fase di commercializzazione dei prodotti prevede, inoltre, di utilizzare il canale web attraverso l’iscrizione nei marketplace specializzati e la predisposizione di account della cooperativa sui principali social e sulle app di corrieri on demand. “L’obiettivo, anche con questa iniziativa che nasce da un’esigenza espressa da diversi detenuti che da tempo si dedicano artigianalmente all’elaborazione dolciaria all’interno del penitenziario - afferma la direttrice della Casa circondariale Angela Paravati - tende a favorire, irrobustendo le competenze tecniche dei soci, percorsi di inclusione socio-lavorativa per chi è dietro le sbarre, attraverso la creazione di una cooperativa sociale per la produzione e commercializzazione di prodotti dolciari e da forno”. Avellino. Concluso il progetto di moda alla sezione femminile del carcere ottopagine.it, 20 novembre 2021 Pranzo finale con il garante detenuti Samuele Ciambriello. Si è tenuto ieri nel carcere di Bellizzi Irpino un pranzo organizzato dalle detenute per la chiusura di un progetto di moda promosso dal Garante dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello. L’incontro nella sezione femminile è stato svolto alla presenza del direttore Paolo Pastena e della società Vitrizia di Patrizia Visone che ha curato il corso per la durata di 20 incontri per un totale complessivo di 60 ore, vedendo protagoniste le detenute di Bellizzi. Per l’insegnante Patrizia Visone “E’ possibile notare dalle opere delle detenute, che il corso è servito ad avvicinarle non solo alla bellezza della mano d’opera, quanto alla loro persona, nel prendersi cura di se stesse e imparare a volersi bene”. Il Garante Samuele Ciambriello ha molto gradito la festa che hanno organizzato le 25 detenute della sezione femminile, le quali in occasione del suo compleanno hanno preparato e offerto una torta al Garante. Per il Garante Regionale campano Samuele Ciambriello “Le detenute si trovano in un’istituzione punitiva e di controllo pensata per uomini, e definita dallo stesso DAP in un rapporto del 2019 “maschio-centrica”. Le conquiste in campo sociale (e non solo) delle donne, per il momento, restano fuori dalle carceri. I progetti che vengono promossi in tal senso, promuovono un approccio integrativo, volto al dialogo e allo scambio reciproco. Per valorizzare i loro prodotti, di intesa con la direzione del carcere, farò per la metà di dicembre, ad Avellino, una mostra mercato dei loro prodotti. Occorre porre la giusta attenzione alle esigenze delle donne detenute, alle problematiche che le riguardano in primis in quanto donne, e un approccio alla pena consapevole delle differenze di genere per poter ripensare al nostro sistema penitenziario.” Urbino. L’Università promuove il diritto allo studio dei detenuti di Fossombrone e non solo nonsoloflaminia.it, 20 novembre 2021 Mercoledì 24 novembre alle 10,30 nell’Aula Magna del Rettorato in Via Saffi, 2 Urbino verrà firmato il rinnovo del protocollo d’intesa siglata nel luglio 2015 tra Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria di Emilia-Romagna e Marche, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo e Garante Regionale Dei Diritti Della Persona che ha istituito il Polo Universitario Penitenziario Regionale: la conferma del valore dell’iniziativa ma anche il rilancio e la promozione delle attività didattiche e della loro valenza sociale. “In questi anni il lavoro di coordinamento tra i tre partner del Polo ha permesso di tutelare e promuovere il diritto allo studio dei detenuti della CR di Fossombrone ma anche di detenuti di altre carceri, soprattutto delle Marche - afferma la prof Daniela Pajardi, Coordinatore del Polo Universitario Penitenziario Regionale - e di altre parti d’Italia, interessati alla proposta formativa dell’Ateneo di Urbino e che sono stati trasferiti a Fossombrone per iscriversi”. Il Polo si inserisce in una complessa realtà nazionale, quella dei Poli Universitari Penitenziari, che è stata riconosciuta dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiana (CRUI) con l’attivazione di una Conferenza, la Cnupp, che monitora e coordina le attività dei Poli sul piano della didattica, della ricerca e della Terza Missione. Il Polo dell’Università di Urbino si colloca in questa realtà nazionale e il Presidente della Cnupp interverrà in questa giornata. Al Polo sono attualmente iscritti 19 studenti a 10 diversi corsi di laurea. In questi anni, 4 detenuti si sono laureati e molti sono alla fine del loro percorso. Nel corso dell’incontro verranno presentati sia i dati sull’attività svolta da studenti, docenti e struttura organizzativa, ma anche il significato che questa iniziativa ha per gli studenti detenuti nel percorso personale e trattamentale, ma anche per i docenti, coinvolti non solo negli esami ma anche in seminari e lezioni svolti direttamente in carcere, e gli studenti, che quantomeno prima della pandemia, hanno potuto fare diversi incontri di discussione e confronto, chiamati “Studenti dentro - studenti fuori” e partecipare la laboratori congiunti. Viaggio in mondo invisibile, un libro sulla questione psichiatrica in cella di Francesco D’errico Il Dubbio, 20 novembre 2021 “Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario” di Luca Sterchele. Il carcere è un luogo chiuso, buio, serrato, inaccessibile e sconosciuto ai più, spinto ai margini delle città, situato lontano dal circuito della cosiddetta normalità, isolato e tenuto a debita distanza dalla comunità. Tra le sue mura si può misurare l’irriducibile distanza tra la previsione formale delle garanzie individuali tutelate dalla Costituzione e la materialità dei corpi quotidianamente incisi dalla reclusione, uno iato che emerge chiaramente ne “Il carcere invisibile. “Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario” (Meltemi, 2021) di Luca Sterchele, ricercatore di Sociologia all’Università degli Studi di Padova. Con questa poderosa pubblicazione, servendosi di un metodo di ricerca spiccatamente etnografico, arricchito da una solida analisi teorica, Sterchele ha infatti affrontato il complesso tema della “questione psichiatrica” in carcere, provando anche ad evidenziare l’infondatezza di alcune radicate convinzioni che la riguardano. Il carcere è davvero diventato un “nuovo manicomio” a seguito della chiusura degli Opg? C’è un nesso causale tra la loro abolizione e la diffusione del malessere psichico tra la popolazione detenuta? Secondo l’autore tale retorica è fragile: “appare scivolosa e problematica” e “miope nelle sue articolazioni a prima vista lineari”, oltre ad essere in definitiva dannosa per diverse ragioni. Non consente, innanzitutto, di interrogarsi sul “ruolo del progressivo indebolimento dei servizi di salute mentale e di welfare nell’ostacolare la completa attuazione dei principi contenuti nelle riforme”, individuando, al contrario, nei movimenti abolizionisti il bersaglio da colpire. Vedendo nello svuotamento degli Opg la principale causa del disagio psichico nel penitenziario, inoltre, non si riesce “a dar conto degli effetti disabilizzanti dell’istituzione carceraria stessa, che resta un dispositivo che agisce in via prioritaria sul corpo recluso producendo continuamente sofferenza e incapacitazione”. D’altronde la correlazione non implica la causalità, soprattutto in un’area come quella che interessa la salute mentale e il carcere, così complessa e intricata, rappresentabile come un crocevia di discipline e intersezione di opposte esigenze e relazioni. In tal senso dalla ricerca emerge chiaro un aspetto: nonostante il trasferimento, nel 2008, delle competenze sanitarie della medicina generale e specialistica penitenziaria dal Ministero della Giustizia al SSN, si registra ancora uno sbilanciamento a favore della logica del controllo rispetto a quella sanitaria, in un contesto che “pur essendo spesso orientato in un’ottica di collaborazione, comporta il mantenimento di una certa attenzione da parte del gruppo dotato di minor potere - appunto l’area sanitaria che potrebbe vedersi ostacolato nell’espletamento della sua mission istituzionale”. Sullo sfondo si staglia nitida la carenza strutturale di risorse da cui ha origine, tra le altre cose, una “mancanza di attività lavorative - o anche solo ludiche che determina uno stato di noia costante”, il quale a sua volta favorisce l’emersione di stati ansiosi nella popolazione detenuta. È anche per questo che gli psicofarmaci dilagano: “il carrello dei farmaci ha poche cose sopra, quelle che si usano più di frequente: una scatola di guanti usa e getta, due o tre disinfettanti, un termometro auricolare e una boccetta di valium”. Nelle conclusioni il sociologo non tentenna: il carcere andrebbe abolito. Pur riconoscendo le nobili intenzioni dell’approccio riformista, sia in chiave di umanizzazione che in termini sanitari, Sterchele ricorda che il penitenziario negli anni ha riprodotto e conservato i suoi mali, facendo prevalere su tutto la propria natura repressiva, patologica e marginalizzante. Nella ricerca di alternative future, per non incorrere in pie illusioni, è bene tenere a mente il vero obiettivo: mettere in discussione la carceralità come dispositivo e non disfarsi soltanto del carcere come istituzione. *Presidente Associazione Extrema Ratio La giustizia climatica: assente ingiustificata nell’Accordo per il clima di Glasgow di Vittorio Cogliati Dezza Il Domani, 20 novembre 2021 Nonostante il grande impatto delle mobilitazioni che hanno accompagnato la Cop26, che chiedevano a gran voce “giustizia climatica”, nel testo finale dell’Accordo di Glasgow non ve n’è traccia, se non un’unica citazione nella premessa. In questi anni il tema è diventato sempre più cogente, tanto da sollecitare approfondimenti e ricerche, che hanno rilevato correlazioni tra crescita economica e crisi climatica. Insomma, a Glasgow hanno pesato gli interessi dei grandi player dell’economia mondiale ma non i miliardi di persone, che in tutti i paesi del mondo vivono tra paura, rabbia e sofferenza la propria condizione sociale e ambientale. Nonostante il grande impatto delle mobilitazioni che hanno accompagnato la Cop26 (300 manifestazioni dalle Filippine agli USA, e solo a Glasgow 200.000 persone, sotto una pioggia battente), che chiedevano a gran voce “giustizia climatica”, nel testo finale dell’Accordo di Glasgow non ve n’è traccia, se non un’unica citazione nella premessa, insieme al riconoscimento di altri onorevoli diritti e valori. Eppure in questi anni il tema è diventato sempre più cogente, tanto da sollecitare approfondimenti e ricerche, che hanno rilevato correlazioni tra crescita economica e crisi climatica. In uno studio della Stanford University, ad esempio, pubblicato nel 2019, sono stati intrecciati i dati sulla crescita economica con l’andamento delle temperature nel mondo tra il 1961 ed il 2010. Ed è emerso che per effetto del riscaldamento globale il PIL pro capite nei paesi più poveri si è ridotto tra il 17 per cento ed il 31 per cento. Dividendo poi tutti i paesi in dieci gruppi in base alla ricchezza, si è rilevato che tra il primo e l’ultimo gruppo il divario economico oggi è del 25 per cento maggiore di quello che ci sarebbe stato in assenza del riscaldamento globale. Quello che a Glasgow le mobilitazioni hanno aggiunto alla coscienza collettiva è che la giustizia climatica è parte ineludibile della soluzione. Nonostante alcuni risultati importanti (la definizione dell’obiettivo di mantenere l’aumento delle temperature medie al di sotto di 1,5°C a fine secolo, la rimodulazione degli obiettivi al 2022, la citazione “ufficiale” delle fonti fossili come causa principale della crisi climatica, ed alcuni Accordi settoriali), la componente fallimentare di Glasgow si annida nella parte finanziaria, dove non si è andati al di là di affermazioni di principio, dichiarazioni d’intenti ed inviti ai paesi ricchi a spendere da 5 a 10 volte di più. Non ci sono nuovi e più stringenti impegni sia per quanto riguarda la costituzione di un fondo per riparare i danni della crisi climatica nei paesi poveri più esposti (loss and damage), sia in merito a quanto deliberato già a Copenaghen nel 2009: 100 miliardi anno di prestiti e sovvenzioni dei paesi ricchi per finanziare l’adattamento ai cambiamenti climatici nei paesi poveri, che ad oggi non hanno superato gli 80 miliardi, che, al netto di restituzioni, interessi pagati e costi finanziari, secondo Oxfam, si riducono a 19-22,5 miliardi reali trasferiti ai Paesi poveri. Un pessimo risultato, se si considera che secondo il Global Goal on Adaptation, in assenza di politiche concrete e rapide ci saranno almeno 100 milioni di nuovi poveri che non vivono solo nei Paesi poveri. Ed è questa la vera novità con cui bisogna misurarsi, anche se nel Patto non c’è alcun impegno concreto a investire soprattutto verso chi, nei paesi poveri e nei paesi ricchi, è più esposto agli effetti della crisi climatica (fatta eccezione per un rapido accenno alla “giusta transizione”, citata a proposito della riconversione dei lavoratori del settore fossile). L’attenzione invece è tutta rivolta alle tecnologie, nell’indifferenza per le contraddizioni sociali, meglio conosciute come disuguaglianze, che segnano la nostra epoca nei paesi poveri e nei paesi ricchi. Eppure la giustizia climatica è il cuore della transizione ecologica, perché questa non è solo una scelta tecnologica, ma investe tutta l’organizzazione della società, e su di essa le disuguaglianze pesano come macigni. Come dimostra l’estendersi, ad esempio, della povertà energetica, che è diventata oggi un fattore costitutivo delle diverse forme di povertà che hanno colpito l’Occidente, o il più grave grado di esposizione ai rischi ambientali e alle disuguaglianze territoriali dei ceti meno abbienti. Parliamo di disuguaglianze multidimensionali, non solo di reddito, ma anche di genere, di generazioni, di luoghi, di cultura. A Glasgow si è definitivamente delineata non solo una nuova geografia che divide il mondo in due, tra chi ha come problema principale la mitigazione, con investimenti per sostenere la transizione energetica, e quei paesi che già oggi subiscono i danni dell’impatto climatico e hanno come urgenza prioritaria quella dell’adattamento. Ma anche che gli effetti della crisi climatica si sono insinuati ed insediati in tutte le società, anche le più opulente, e se la transizione non coinvolgerà anche e soprattutto gli ultimi e i vulnerabili, se le politiche ambientali e climatiche non seguiranno il principio della discriminazione positiva, partendo quindi dai bisogni degli ultimi e dei vulnerabili, se in una parola la transizione ecologica non sarà prima di tutto giusta, non avrà alcuna speranza di successo. Se poi si pretenderà di far pagare i costi della transizione a tutti in parti uguali, succederà quanto già 60 anni fa stigmatizzava Don Milani: “Se dividiamo in parti uguali tra disuguali, aumenteremo le disuguaglianze”. Uno scenario che ci pone anche una questione di democrazia politica e sociale, per il ruolo determinante di governi autoritari e negazionisti, per la presenza di 503 lobbisti dei combustibili fossili, che hanno rappresentato la delegazione più numerosa di tutta la Conferenza, ed un interrogativo: a Glasgow le mobilitazioni sociali e di giovani hanno svolto un ruolo decisivo nel segnalare all’opinione pubblica l’importanza di quella discussione, ora cosa succederà alla prossima COP che si terrà in Egitto, che come sappiamo non brilla certo per democraticità e spazi lasciati alla libera espressione della società civile? Eppure qualcosa sta cambiando, anche se molte sono le incertezze nella definizione dei passi concreti e della loro tempistica, e ancora troppo squilibrati i rapporti di forza nella distribuzione del potere decisionale. Se uno dei fatti più significativi della COP26 è stato l’accordo tra Cina e Usa con l’istituzione di un Comitato bilaterale per arrivare ai 1,5°C, possiamo dedurne che con la COP26 la questione climatica non solo è stata definitivamente ed inequivocabilmente promossa tra le due o tre grandi emergenze globali del nostro tempo, ma soprattutto che è quella attraverso cui è necessario guardare alle altre grandi emergenze, con il coraggio, la forza e la lungimiranza per tenere insieme tecnologia, scienza, democrazia e giustizia sociale. E oggi si apre una nuova tappa che si deve misurare concretamente con le scelte che in ogni paese vanno fatte a partire da domani. Un messaggio che riguarda anche l’Europa e l’Italia. Un’Europa deludente che non ha svolto alcun ruolo, irretita dalle sue dinamiche interne che stanno portando ad inserire nella Tassonomia degli investimenti sostenibili anche nucleare e metano. E un’Italia, che rischia di perdere l’occasione del Pnrr perché troppo vincolato al metano ed al vecchio modello di sviluppo e troppo indifferente alle dinamiche sociali. Un’Italia che deve invertire le tendenze degli ultimi anni nel rallentamento dello sviluppo delle energie rinnovabili, ed in cui perfino il Superbonus del 110 per cento non riesce a coinvolgere i ceti meno abbienti. Insomma, a Glasgow hanno pesato gli interessi dei grandi player dell’economia mondiale ma non i miliardi di persone, che in tutti i paesi del mondo vivono tra paura, rabbia e sofferenza la propria condizione sociale e ambientale. Ora si tratta di accendere i riflettori di una doppia preoccupazione: che i nuovi impegni da prendere siano buoni per il clima del nostro pianeta e per la vita ed i diritti delle persone che lo abitano, sapendo che non sono tutte uguali. Referendum eutanasia, Cappato: “Serve una norma molto chiara per legalizzarla” di Giovanna Casadio La Repubblica, 20 novembre 2021 Il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni: “Il tema non è di morte ma è di vita: bisogna abrogare l’articolo 579 del codice che si occupa dell’omicidio del consenziente”. “Mi auguro che nessuno debba subire lunghe trafile giudiziarie per aiutare un malato terminale e senza speranza a morire. Spero ci sia presto una legge chiara sull’eutanasia”. Marco Cappato conta sull’approvazione della legge in Parlamento, ma più sul referendum che l’Associazione Coscioni, di cui è tesoriere, ha promosso e che ha raccolto 1 milione e 240 mila firme. Cappato, lei è stato assolto per l’aiuto al suicidio di Dj. Fabo e, con Mina Welby, per quello di Davide Trentini. Pensa di ritrovarsi ancora in queste situazioni? “È possibile. Noi forniamo informazioni e anche aiuti concreti. È un atto di disobbedienza civile. Il Parlamento deve fare una legge adeguata. Confido nel referendum, che riguarda la legalizzazione dell’eutanasia”. La Corte costituzionale ha chiesto due volte una legge sulla morte assistita, ora teme un nuovo stallo? “La prima richiesta della Consulta alle Camere è arrivata tre anni fa, quando la Corte si è espressa sul caso dell’aiuto al suicidio per Dj. Fabo. Lo fece con una ordinanza. Fu di fatto l’anticipazione del giudizio di incostituzionalità per l’applicazione delle pene, fino a 12 anni di carcere, per l’aiuto al suicidio in una condizione come quella. Si rimise nella mani del Parlamento, anche con un ultimatum: la legge”. E poi? “La Consulta si è riconvocata ed è andata a sentenza, ribadendo quanto sostenuto nella precedente ordinanza. Ha ripetuto: ci vuole una legge. Perché l’aiuto al suicidio non rientri nella fattispecie del reato,ci vogliono quattro condizioni: la volontà libera e consapevole della persona; l’irreversibilità della malattia; la sofferenza insopportabile; essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale”. Ma il Parlamento non si è mosso, lo farà adesso? C’è un nuovo rinvio e veti incrociati. “Il referendum ha un ruolo decisivo come spinta a procedere alle Camere. Ma se il Parlamento approvasse un testo base che non affronta il nodo della legalizzazione dell’eutanasia, il referendum si terrebbe lo stesso”. Perché? “La norma di cui sono relatori per il centrosinistra il dem Alfredo Bazoli e il grillino Provenza se fosse approvata così com’è si limita a recepire le indicazioni della Consulta, ne definirebbe le procedure. Il caso di Mario, tetraplegico per un incidente da 10 anni e che ha chiesto il suicidio assistito, è emblematico: nel vuoto normativo, la Asl non è intervenuta. Regole chiare sono necessarie”. Però non una legge purché sia, secondo voi dell’Associazione Coscioni? “Il referendum da noi proposto abroga parzialmente il reato di omicidio del consenziente, ovvero chiede la legalizzazione dell’eutanasia come c’è in Olanda, in Belgio, in Lussemburgo, in Spagna e ora in Portogallo”. Non è tuttavia meglio un passo che nessun passo? “L’obiettivo è vincere il referendum che abroga l’articolo 579 del codice che si occupa dell’omicidio del consenziente e non solo dell’aiuto al suicidio”. Teme che la questione eutanasia faccia la fine del ddl Zan contro l’omotransfobia, affossato al Senato? “Se non ci fosse il referendum sarebbe una certezza”. L’eutanasia sdogana una cultura di morte? “Il tema è quella della libertà e della responsabilità individuali. Penso che sia un tema di vita”. Migranti. La strumentalità della fortezza Europa di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 20 novembre 2021 Crisi dei profughi. La Ue si fa spaventare da poche migliaia di persone perché è incapace di pensare il proprio ruolo in un mondo sempre più piccolo e integrato Migranti nel centro di Kuznitsa, dal lato bielorusso della frontiera con la Polonia. Il piccolo dittatore Lukashenko, tirapiedi di Putin, e il torvo e potente Erdogan ricattano i propri cittadini in nome della sicurezza, della patria o dei valori religiosi tradizionali. Ma anche le pseudo-democrazie autoritarie apprezzano e usano l’arma del ricatto. È il caso di Polonia e Ungheria, troppo deboli per imporre una prospettiva strategica all’Europa, ma abbastanza forti per condizionare le scelte politiche ed economiche dell’Ue. Oggi, lo strumento del ricatto è costituito da poche migliaia di profughi - afghani, iracheni ecc. - ammassati nella no man’s land tra Bielorussia, Polonia e Lituania. Lukashenko ha spinto i profughi alla frontiera polacca perché vuole che l’Ue ritiri le sanzioni contro la Bielorussia, proprio come anni fa Erdogan ha chiesto e ottenuto una montagna di quattrini per non lasciare che i profughi siriani sciamassero in Grecia. D’altra parte, Varsavia urla all’invasione per impedire che l’Ue, da sempre paranoica sui migranti, blocchi il Pnrr e punisca l’erosione delle libertà civili in Polonia. Persino Draghi, cautissimo in queste faccende, ha dichiarato che i “migranti sono diventati strumenti di politica estera”. Ma che vuol dire “strumenti”? Semplicemente, che poche migliaia di esseri umani, privi di cibo, vestiti e riparo nel gelo dell’inverno incipiente sono sballottati tra due frontiere, con i mitra bielorussi alle spalle e i tank polacchi al di là del filo spinato. Il presidente polacco Duda ha avuto la faccia tosta di dire che la Polonia è “sotto attacco” da parte dei migranti. Uomini disarmati, donne e bambini sarebbero in grado di attaccare la Polonia? La retorica della patria in pericolo è così sfacciata - appunto, ricattatoria - che dovrebbe ripugnare a chiunque in grado di ragionare con la propria testa. Ma non è così. Le risposte di Von der Leyen e Angela Merkel - i poteri europei che contano - sono in linea con lo stile bottegaio prevalente dell’Ue. Alla Polonia sono offerti un po’ di quattrini per gestire la questione alla frontiera, cioè per costruire un bel muro, anche se ufficialmente non autorizzato da Bruxelles. Alla Bielorussia si finanzia il rimpatrio dei profughi nei paesi d’origine, anche se a parole si mantengono le sanzioni (ma nei fatti con cautela e magari no…). Ora, nello scenario di desolazione causato dalla pandemia e dalle conseguenze delle guerre fallite dall’occidente (Afghanistan, Iraq, Siria, Libia ecc.), la sorte di poche migliaia di profughi, che reagiscono con il lancio di qualche pietra ai cannoni ad acqua polacchi, sembrerà a molti poca cosa. E può anche essere che la crisi lentamente, e soprattutto silenziosamente, rientri. Ma si tratta di un esempio orribile, esattamente come gli annegamenti nel canale di Sicilia o la gente lasciata da Salvini a disidratarsi per giorni e giorni sotto il sole estivo a bordo delle navi delle Ong. Un esempio che si ripete ogni volta che, in gruppi piccoli o grandi, profughi e migranti si presentano nel nostro mondo, impaurito dalle piaghe cosmiche, dall’ansia diffusa per il futuro, da una crisi economica sempre alle porte e da rivolte insensate. Ecco una circolarità di cause ed effetti del tutto evidente, anche se minimizzata dagli esperti di relazioni internazionali. Dove potevano scappare gli afghani scampati alla conquista talebana se non nei paesi che volevano imporre loro la democrazia all’occidentale? E dove potevano o potrebbero tentare di rifugiarsi iracheni, curdi, siriani, dopo essere stati illusi per trent’anni che con la fine delle dittature baathiste libertà e prosperità sarebbero state a portata di mano? Le immagini della catastrofica fuga da Kabul di americani e alleati vari avrebbero dovuto allertare l’immaginazione e le coscienze. L’evacuazione dei collaboratori stretti degli occupanti e di chiunque voleva sottrarsi ai talebani si sarebbe lasciata alle spalle un Paese lacerato, affamato e oppresso dal fanatismo, su cui oggi è calato il silenzio. Ma parliamo di migliaia o decine di migliaia di esseri umani in fuga, non di milioni. L’Europa avrebbe tutte le risorse per accoglierli, assisterli e integrarli. Se questo non avviene non è solo per la paura della destra xenofoba che soffoca le cancellerie europee. E nemmeno per la reazione di parte della popolazione a un’eventuale presenza di stranieri. È soprattutto per l’incapacità ormai storica di pensare il proprio ruolo in un mondo sempre più piccolo e integrato. E di rispondere alle crisi umanitarie e alla sofferenza se non con piccoli baratti, compromessi e accordi con i dittatori che, loro sì, premono e ricattano alle frontiere marine e terrestri. In questo senso, Merkel, chiusa nella fortezza Ue, non è meno responsabile di Lukascenko o Erdogan. In fondo, parafrasando Metternich, l’Europa non è oggi che un’espressione fiscale e commerciale. Jihadismo, la legge che manca di Lorenzo Vidino La Repubblica, 20 novembre 2021 In Parlamento è in discussione una proposta di legge per coinvolgere scuola, comunità islamiche e società civile in attività che prevengano la radicalizzazione. L’attentato di Liverpool, fallito grazie alla prontezza del tassista che ha chiuso l’aspirante kamikaze nel taxi così evitando che la deflagrazione facesse vittime, ha riportato l’attenzione sul terrorismo di matrice jihadista. In realtà, negli ultimi mesi di attacchi se ne sono registrati parecchi in tutta Europa: l’uccisione del parlamentare inglese David Ames, l’accoltellamento di due poliziotti a Cannes e di sei passeggeri su un treno in Baviera, solo per citarne alcuni. Incidenti diversi da alcuni dei grandi attacchi degli anni precedenti (tipo quello del Bataclan, di cui si celebra in questi giorni il maxi processo a Parigi) per numero di vittime e livello organizzativo, ma comunque prove, insieme agli arresti di aspiranti terroristi che settimanalmente avvengono in tutta Europa, che la minaccia persiste anche dopo la fine del califfato. E l’Italia non ne è immune. L’arresto a Milano di una 19enne italo-kosovara che reclutava ragazze su piattaforme jihadiste online è solo l’ultimo di una scia di operazioni antiterrorismo che dimostrano che il nostro Paese, pur avendo la fortuna di non essere mai stato direttamente colpito, ospita una scena jihadista eterogenea e sempre più autoctona, che ormai produce una propaganda in lingua italiana. Constatazioni che hanno portato il capo della polizia Franco Gabrielli a dichiarare qualche settimana fa che un attacco in futuro è pressoché inevitabile. Gli ha fatto eco di recente il Copasir, che ha anche sottolineato quella che è la maggior pecca del nostro sistema di contrasto al terrorismo: la mancanza di una strategia di prevenzione. Se infatti il nostro sistema, grazie anche a esperienze con altre forme di terrorismo e a un sistema legislativo adeguato, si è dimostrato un’eccellenza a livello europeo nel compiere quelle che sono le attività classiche dell’antiterrorismo (intercettazioni, arresti, espulsioni), manca del tutto una strategia che, nelle parole del Copasir, “in analogia a quanto accaduto in altri ordinamenti europei, doti il nostro Paese di una disciplina idonea a contrastare in modo più incisivo il crescente fenomeno della radicalizzazione di matrice jihadista”. In sostanza attività di prevenzione, in particolare in ambienti sensibili come carceri, web e periferie disagiate, volte a contrastare l’appeal dell’ideologia jihadista prima che faccia presa su soggetti condizionabili e attività di de-radicalizzazione. L’importanza dell’introduzione di questo tipo di misure, che si andrebbero ad affiancare a quelle repressive, è sentita in primis dal nostro apparato antiterrorismo, che da anni segnala come la creazione di una strategia preventiva che, come avviene in tutta Europa, crei partnership con la società civile, la scuola, e le comunità islamiche, sia necessaria per avere una risposta adeguata alla complessa sfida della radicalizzazione. Ad esempio, cosa si può fare per le ragazzine perlopiù minorenni che la 19enne arrestata a Milano aveva circuito e radicalizzato? Non si può certo agire solo e sempre di codice penale, ma servono interventi mirati che coinvolgano servizi sociali, imam moderati, educatori e le famiglie - e i primi a dirlo sono gli addetti ai lavori. Il percorso per dotare il nostro Paese di tale strategia era iniziato nella precedente legislatura con la proposta di legge Manciulli-Dambruoso e con il lavoro di supporto accademico della Commissione sulla Radicalizzazione (che ho avuto l’onore di presiedere) creata da Palazzo Chigi sotto l’allora sottosegretario Minniti. E già allora si era denotata la volontà della società civile e delle comunità islamiche a partecipare in attività preventive e l’esigenza di interventi in spazi critici, in primis il web. Il percorso legislativo allora si arenò, ma in questi giorni una nuova proposta di legge, che ricalca la precedente ma include altre forme di radicalizzazione, come è giusto, è in discussione in Parlamento. Pare avere un supporto che trascende il colore politico, ed è solo auspicabile che una legge tecnica che ci allinea col resto d’Europa e migliora la sicurezza nazionale possa essere approvata con larga maggioranza. Stati Uniti. La pandemia silenziosa, oltre 100mila morti di overdose in un anno di Roberto Festa Il Fatto Quotidiano, 20 novembre 2021 Dall’aprile 2020 allo stesso mese di quest’anno, l’aumento dei decessi dovuti all’abuso di stupefacenti è del 28,5%. La maggioranza è causata soprattutto dall’abuso di fentanyl, una droga cento volte più potente della morfina, ma sono aumentate anche le overdose da anfetamine, metanfetamine, cocaina e altri oppioidi. Un fenomeno che un tempo era concentrato soprattutto negli Stati della vecchia cintura industriale, ora è diventato una tragedia nazionale. Se si passa per Elm Street, l’arteria principale che taglia Manchester, New Hampshire, non si possono non notare le decine di uomini e donne - spesso ragazzi, talvolta persone più avanti con gli anni - che giacciono per terra, su cartoni o coperte. Non sono alcolisti, non sono semplici homeless. Sono persone con problemi di droga. Sono a Manchester perché Manchester è la capitale della droga nello Stato. Poco lontano, a Lawrence, c’è il centro di arrivo e distribuzione per il New England di eroina, crack e altri oppioidi. A Manchester si concentrano soprattutto i consumatori. La città ha tassi di overdose tra i più alti d’America: due morti ogni 10mila persone. A “Helping Hands”, un centro cristiano ospitato in una palazzina di mattoni rossi poco lontano dal centro, danno rifugio a quelli che cercano di battere le dipendenze. “È come una guerra. Nessuno l’ha dichiarata ma i morti, qui, sono quelli di un conflitto”, dicono. Gli ultimi dati dalla “guerra” americana sono in effetti impressionanti. Secondi i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), ci sono stati in un anno oltre 100mila morti negli Stati Uniti per overdose. Il periodo considerato è quello che da aprile 2020 arriva ad aprile 2021, con un aumento del 28,5% rispetto all’anno precedente. L’enormità dei numeri ha costretto Joe Biden ha intervenire. “Non possiamo trascurare questa epidemia di perdite che tocca famiglie e comunità in tutto il Paese”, ha detto il presidente. Biden ricorda che nell’American Rescue Plan, il piano di aiuti post-Covid approvato a marzo, ci sono 1.500 milioni di dollari per persone con problemi di dipendenze, e altri stanno per essere stanziati “per rafforzare la prevenzione, promuovere la riduzione del danno e ridurre la fornitura di sostanze dannose”. Si pensa soprattutto ad allargare l’accesso al naloxone, un farmaco di sintesi che può bloccare gli effetti degli oppioidi, in particolare una overdose. “Nessuno dovrebbe morire in America perché non riesce a procurarsi il naloxone”, dice Rahul Gupta, che dirige l’Office of National Drug Control Policy. Mentre il Covid-19 seminava morte, un’altra epidemia, più silenziosa ma altrettanto terribile, uccideva quindi migliaia di persone negli Stati Uniti. I morti per droga, dicono le cifre, sono stati in un anno più numerosi di quelli per incidenti stradali e armi da fuoco combinati. Dal 2015 le vittime sono raddoppiate. La fascia d’età più colpita è quella tra i 25 e i 54 anni, soprattutto maschi (il 70% delle vittime). La maggioranza dei morti, ancora una volta, è causata soprattutto dall’abuso di fentanyl, una droga cento volte più potente della morfina, spesso utilizzata in concomitanza con eroina e cocaina per esaltarne gli effetti. Ma sono aumentate anche le overdose causate da anfetamine, metanfetamine, cocaina e da altri oppioidi semi-sintetitici, spesso prescritti dai medici come antidolorifici. È un universo di sigle - Speed, Crystal, Bennie, Frisco Speed, Meth, Crank, Ice, Rock, Shabu - che ha seminato lutti un po’ ovunque. I morti sono cresciuti del 50% in California, Tennessee, Louisiana, Mississipi, West Virginia, Kentucky. In Vermont, l’aumento è addirittura dell’85%. Più contenuto, ma comunque del 40%, il rialzo delle vittime in Oregon, Nevada, Washington State, Colorado, Minnesota, Alaska, Nebraska, Virginia. Un fenomeno che un tempo appariva concentrato soprattutto negli Stati della vecchia cintura industriale, a est e nel centro, è ora diventato una tragedia nazionale. Non sfugge che il periodo in cui le morti hanno avuto la terribile impennata sia anche quello in cui il Covid ha seminato le sue distruzioni. Gli esperti spiegano che la perdita dei posti di lavoro, la chiusura delle scuole, l’accesso molto più difficile a ospedali e centri di riabilitazione hanno approfondito dipendenze, depressioni, senso di abbandono. Le comunità si sono sfaldate, richiuse in se stesse e a pagarne le conseguenze sono stati i più deboli. Ancora i dati messi a disposizione dai CDC rivelano che la grande maggioranza delle vittime era tossicodipendente da tempo o si trovava in fase di disintossicazione. Il Covid-19, lo stress e l’isolamento che ne sono risultati, hanno quindi funzionato come acceleratore di dinamiche preesistenti. Particolarmente impressionanti sono i dati relativi al fentanyl, un oppiaceo utilizzato per l’anestesia e per il trattamento dei dolori oncologici, la cui diffusione nel mercato delle droghe illegali è diventata capillare (è spesso usato anche per tagliare partite di cocaina e altre droghe, venduto quindi all’insaputa dell’acquirente). Alla Drug Enforcement Administration, l’agenzia federale che combatte il traffico di droga, dicono di aver sequestrato quest’anno quantità tali di fentanyl da fornire ogni cittadino degli Stati Uniti di una dose letale. “E, ogni giorno, continuano i sequestri di nuove partite”, spiegano. A parte i finanziamenti federali, a parte l’opera di repressione (gran parte della droga statunitense arriva dai cartelli messicani, che rielaborano componenti di provenienza soprattutto cinese), ci si chiede a questo punto cosa fare. Una strada possibile è sicuramente la riduzione delle ricette mediche che prescrivono antidolorifici. I medici americani ne hanno negli anni passati ampiamente abusato, tanto che, spiega un esperto dei Cdc, “si prescrivono oppiacei quando ti cresce il dente del giudizio”. L’abuso di anti-dolorifici, fin dalla più tenera età, ha portato a forme di dipendenza dalle droghe che in molti casi si sono rivelate fatali. Un’altra strada è sicuramente quella dell’accesso ai farmaci. I dottori americani hanno bisogno di un permesso delle autorità federali prima di poter prescrivere la buprenorfina, un oppioide con un’efficacia simile a quella del metadone, utilizzato per trattare le dipendenze. La norma ritarda il suo utilizzo in molti centri per la disintossicazione. Un discorso simile va fatto anche per il naloxone. Il farmaco, approvato dalla Federal and Drug Administration nel lontano 1971, può per l’appunto bloccare gli effetti degli oppioidi e quindi, in molti casi, salvare da una overdose. Il problema è che in molti Stati americani può essere somministrato soltanto da medici e personale sanitario e non viene messo a disposizione delle famiglie e di coloro che vivono a contatto con il tossicodipendente. Inutile dire che quando i medici, e il naloxone, arrivano, non c’è spesso più niente da fare. L’overdose si è portata via la persona. Afghanistan. Premio Cutuli, non spegnete le luci su Kabul di Marta Serafini Corriere della Sera, 20 novembre 2021 La ministra Cartabia, il commissario Onu Grandi, i giornalisti del Corriere: ricordando Maria Grazia a 20 anni dalla morte, “torniamo” in Afghanistan. Il premio che porta il suo nome a Patrick Zaki. Tre desideri, tenere stretto il furore di Maria Grazia, riflettere sul destino dell’Afghanistan e sul ritorno dei talebani. E infine difendere, ancora una volta, il diritto alla libera informazione. Con queste parole la vicedirettrice del Corriere della Sera Barbara Stefanelli ha aperto ieri in Sala Buzzati la giornata organizzata dalla Fondazione del Corriere della Sera nell’ambito di BookCity, iniziata al cinema Anteo con la proiezione di “Viaggio a Kandahar” del regista Mohsen Makhmalbaf. Incontri, riflessioni, interviste e reportage dedicata all’inviata del Corriere della Sera Maria Grazia Cutuli, scomparsa in Afghanistan 20 anni fa. A rendere omaggio, tra gli altri, la ministra della Giustizia Marta Cartabia che ha ricordato la storia di Mareya Bashir, prima procuratrice di Herat cui è stata riconosciuta la cittadinanza italiana. “Ho incontrato Bashir ad un convegno nel 2013 sulla presenza femminile nelle Corti costituzionali. Ed è stato un incontro folgorante. Io all’epoca ero magistrata della Corte costituzionale, unica donna. Dal lusso della mia posizione mi lamentavo della disparità di genere mentre lei subiva attentati e minacce. È per lei e per le donne afghane che dobbiamo tenere accese le braci sotto la cenere, per fare sì che non vadano persi i progressi fatti”. La giornata è stata occasione per riflettere sulla necessità, come ha sottolineato l’inviato del Corriere Lorenzo Cremonesi, di aprire un canale di dialogo con i talebani. Con Mario Cutuli, fratello di Maria Grazia, il ritorno ideale nella provincia di Herat, dove la scuola blu costruita nel 2011 in memoria della giornalista ancora accoglie le studentesse e gli studenti della regione, nonostante il divieto dei talebani per le ragazze. “Un luogo - come ha spiegato - che abbiamo voluto costruire per quella parte di popolazione che, pur rappresentando la speranza e il futuro, non ha voce”. Le donne afghane sono rimaste poi al centro del racconto di Eleonora Selmi, ostetrica di Medici Senza Frontiere a Khost, dove “ho visto le donne togliersi il burqa e sorridere, forti dei loro sogni e della volontà di diventare dottoresse”. Da Simonetta Gola di Emergency è arrivato il ricordo del marito Gino Strada scomparso proprio durante il giorni della caduta di Kabul “che per lui rappresentavano solo l’ennesima tappa di una guerra ingiusta e insensata”. E commozione non è mancata nel dialogo tra Barbara Stefanelli e Carlo Verdelli, sulla telefonata con la quale - all’epoca era vicedirettore del Corriere - Verdelli esaudì l’ultimo desiderio di Maria Grazia, ossia di restare in Afghanistan a lavorare. “Le ho detto di sì perché sapevo che per Maria Grazia i talebani erano i tartari raccontati da Buzzati. E perché sapevo che doveva scendere dal muro della fortezza e andare loro incontro”. A chiudere la giornata la consegna del premio Cutuli a Patrick Zaki, ritirato dal compagno dell’Università di Bologna Rafael Garrido e accompagnato da un messaggio della sorella Marise. Un premio che “va a lui e tutti gli eroi della libertà di informazione”. Oppio ed eroina, ecco cosa tiene in piedi il Pil dell’Afghanistan di Alessandro De Pascale Il Manifesto, 20 novembre 2021 L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite: dal Paese centroasiatico arriva l’80% degli oppiacei consumati nel mondo. Calano del 21% gli ettari coltivati a papavero, ma cresce la resa. E anche il prezzo. Il primo dato, ovviamente, è ad effetto: “Otto consumatori su 10”, tra quanti attualmente usano oppio, morfina ed eroina, si ritrovano tra le mani oppiacei afghani. Il dato è contenuto nell’ultimo report sulla droga in Afghanistan appena diffuso dall’Ufficio contro la droga e il crimine (Unodc) delle Nazioni unite. Spiegando così, in maniera dirompente, come anche nel 2020 quel remoto e montuoso Paese dell’Asia centrale senza sbocchi sul mare, ora tornato in mano ai talebani e al loro emirato islamico, abbia rappresentato “l’85% della produzione globale di oppio, rifornendo circa l’80% di tutti i consumatori di oppiacei nel mondo”. Gli oppiacei sono del resto, da decenni, l’unico prodotto con il quale l’Afghanistan partecipa al mercato mondiale. Peraltro da leader incontrastato e fin dall’invasione e occupazione del Paese da parte di anglo-americani e Nato avvenuta nel 2001. Agli afghani coinvolti in questo business, sempre stando alle ultime stime dell’Unodc, gli oppiacei garantiscono “tra 1,8 e 2,7 miliardi di dollari di profitti”. Tra mercato interno ed esportazioni estere, oppio ed eroina generano ormai per l’Onu “tra il 9% e il 14% del prodotto interno lordo” dell’Afghanistan, superando persino il valore delle esportazioni legali di beni e servizi ufficialmente registrate, “stimate nel 2020 al 9% del Pil”. Tornando all’oppio che si raccoglie dalla pianta di papavero, “il raccolto del 2021 completato a luglio”, in concomitanza con la presa del potere dei talebani, “ha visto per il quinto anno consecutivo una produzione ai massimi storici, pari a 6.800 tonnellate, in grado di garantire potenzialmente fino a 320 tonnellate di eroina pura da smerciare nei mercati di tutto il mondo”. Questo grazie a un aumento della resa di oppio per ogni ettaro (+8% rispetto allo scorso anno), che per l’Unodc è riuscita a compensare il calo registrato per la prima volta quest’anno di aree coltivate in Afghanistan a papavero da oppio: 177mila ettari, con una riduzione di 47mila rispetto al 2020 (-21%). Crescono invece i prezzi, secondo l’ufficio Onu, “a causa dell’incertezza” per il futuro data dal ritorno al potere dei talebani. Unico accenno, questo, al loro emirato, visto che come detto i dati del report si fermano al raccolto del luglio scorso. È ancora presto per capire cosa decideranno di fare i talebani (la nuova semina avviene questo mese). Pubblicamente hanno rapidamente dichiarato che il loro Afghanistan non sarà più un narco-Stato, mentre hanno già mostrato al mondo di non voler tollerare il consumo interno. La prima settimana di ottobre l’Ap ha ad esempio seguito un blitz notturno dei talebani sotto un ponte della capitale Kabul (nella zona di Guzargah) dove è presente una ben nota scena di droga all’aperto nella quale ti accoglieva un soffiatore di vetro che produceva sul momento le pipette per fumare la metanfetamina. I consumatori catturati sono poi stati portati in veri e propri campi di “rieducazione” (ovvero di detenzione), sollevando ancora una volta a livello internazionale critiche in merito al rispetto dei diritti umani. In queste strutture, la maggiore delle quali è proprio nella capitale, a Camp Phoenix, dove dal 2003 sorgeva una base militare aperta dagli Usa, l’assistenza sarebbe carente e non esisterebbe trattamento o terapia sostitutiva. A differenza di quanto avveniva nei centri di trattamento o nei drop-in che si erano moltiplicati in tutto il Paese durante l’occupazione straniera, in seguito all’esplosione del consumo interno. Quei vent’anni di guerra, oltre alla raffinazione di eroina direttamente in Afghanistan (prima del 2001 avveniva nei confinanti Iran e Pakistan), hanno portato nelle città afghane e oltre confine anche la metanfetamina, prima del tutto assente e ora prodotta in loco. Il tutto grazie a una nuova innovativa ed economica ricetta a base vegetale: con la pianta di efedra, o oman, che cresce spontaneamente sulle montagne afghane, prima considerata senza valore. Tale nuova produzione, per l’Unodc, “è una minaccia per i Paesi della regione e anche oltre”. Ucraina. Ladro condannato alla lettura come “pena sostitutiva” rainews.it, 20 novembre 2021 Tweet 19 novembre 2021 Nella città di Odessa, un ladro è stato condannato a leggere le opere di Lev Tolstoj e Ivan Franco. Il tribunale distrettuale Malinovsky di Odessa ha condannato l’uomo di 26 anni, accusato di furto, alla sospensione della pena e alla lettura dei racconti dello scrittore russo Lev Tolstoj e delle poesie del poeta ucraino Ivan Franco. Lo riferisce il servizio stampa del tribunale. Secondo il fascicolo della causa giudiziaria, lo scorso luglio il detenuto ha derubato un suo conoscente, prendendogli il cellulare e 50 hrivna (poco meno di 2 euro). Il danno totale causato alla vittima è stato stimato in quasi 903 grivna (circa 30 euro). Da bambino il ladro era un vagabondo e finì in un orfanotrofio. Praticamente non ha frequentato la scuola elementare e dopo aver finito gli studi della scuola media è andato subito al lavoro. La corte ha anche accertato che l’uomo non aveva mai letto libri in tutta la sua vita, e durante l’udienza sul suo caso ha letto un testo per sillabe. Il detenuto, che ha una famiglia e due figli, ha ammesso pienamente la sua colpa. Il tribunale l’ha condannato con la sospensione della pena con un periodo di prova di un anno e una serie di obblighi. In particolare, durante questo periodo deve leggere la trilogia dei racconti di Lev Tolstoj “Infanzia”, ??“Adolescenza” e “Gioventù”, nonché la poesia di Ivan Franco “Stanzas”. Ecuador. L’inferno delle carceri travolge il governo di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 20 novembre 2021 Il presidente Lasso indice lo stato d’emergenza. Ma per i giudici sta abusando dei suoi poteri. Ecuador, città di Guayaquil, provincia del Guayas. È la notte del 13 novembre, dalla prigione del Litoral si alzano colonne di fumo, i cittadini odono spari in continuazione e urla strazianti. I detenuti stanno bruciando suppellettili ma nell’aria si sparge anche un fumo dall’odore diverso, acre e dolciastro. Cosa sia successo viene scoperto alle prime luci dell’alba quando intervengono almeno novecento agenti per ristabilire l’ordine e le fotoelettriche illuminano una scena dantesca, ad ardere non solo gli oggetti, ma anche corpi umani. Il bilancio della notte di terrore registra la morte di 68 detenuti causata da colpi di armi da fuoco, coltelli e ordigni esplosivi. Un numero grande ma paradossalmente quasi trascurabile se paragonato alle 119 vittime di appena un mese prima nella stessa struttura. Quella del Litoral è stata dunque solo l’ennesima tragedia che avviene all’interno del sistema penitenziario ecuadoriano che appare evidentemente fuori controllo, tra sovraffollamento, condizioni igieniche e sanitarie disumane e le endemiche ondate violenza. Tanto che il presidente del paese latinoamericano in carica da appena sei mesi, il banchiere Guillermo Lasso, all’inizio di ottobre ha dichiarato lo stato di emergenza di sessanta giorni nelle città e nelle carceri. La ricetta del presidente, eletto proprio con una campagna che ha toccato le corde della legalità e dell’ordine, è stata quella di armare ancora di più le guardie carcerarie per poter affrontare membri di bande altamente organizzate che imperversano nelle prigioni. “Non c’è modo che gli agenti che portano solo manganelli combattano le mafie che dispongono persino di droni ed esplosivi” - ha affermato Lasso-. Concretamente lo stato di emergenza significa che possono essere stanziati fondi extra per sedare la violenza all’interno delle prigioni anche con l’impiego di militari che assistono le guardie e la polizia nella messa in sicurezza delle infrastrutture penitenziarie. Nonostante le misure restrittive (controlli sulle armi, ispezioni, pattuglie 24 ore su 24 e perquisizioni) però sono i dati ufficiali a sottolineare la drammaticità del contesto ecuadoriano, il numero di omicidi nei primi otto mesi di quest’anno è stato infatti il doppio di quello dello stesso periodo dell’anno precedente, per la precisione si parla di 290 morti solo tra i detenuti. L’Ecuador conta 40mila internati nel suo sistema carcerario, di cui circa 8.500 solo nel Litoral, la struttura più grande del paese sudamericano. Secondo i dati dei servizi penitenziari, le strutture sono sovraffollate del 55 percento oltre la capienza massima a livello nazionale e del 62 percento nella struttura di Guayaquil. Per far fronte alla congestione dei centri di detenzione è stato annunciato, lo scorso primo ottobre, dai massimi funzionari che fino a 2000 detenuti sarebbero stati graziati, una decisione resa nota da Bolivar Garzon, direttore dell’autorità penitenziaria SNAI, in questo modo dovrebbe essere data la priorità al rilascio delle detenute anziane nonché di quelle con disabilità e malattie terminali. Ma tali misure probabilmente non potranno, se non in parte, ridurre il problema della violenza. Nelle prigioni infatti sono rinchiusi oltre alle migliaia di poveri e piccoli criminali, soprattutto gli appartenenti ai grandi cartelli della droga che continuano a gestire i lorofloridi affari anche da dietro le sbarre. L’Ecuador infatti è un paese di transito per la cocaina contrabbandata dai vicini Perù e Colombia, un terreno fertile per i potenti cartelli messicani come i Jalisco nueva generacion o gli uomini del potentissimo network di Sinaloa. Sono loro che si spartiscono il mercato e si combattono nelle prigioni per ottenere la supremazia nel narcotraffico. Una guerra feroce, senza esclusione di colpi. Lo testimonia proprio il recente massacro del Litoral, un gigantesco e sanguinoso regolamento di conti tra bande. Lo scontro infatti sarebbe stato innescato dal rilascio di un boss che ha dato l’occasione per gli appartenenti a una delle due fazioni presenti in prigione di prendere l’assalto dell’ala a della prigione dove era detenuto un clan rivale. Secondo il governatore della regione di Guyas, Pablo Arose Mena, “dato che una sezione era rimasta senza un capo riconosciuto, altre bande hanno cercato di compiere un massacro totale”. Una tecnica usata proprio nei penitenziari messicani con l’uso a scopo terroristico di uccisioni mediante decapitazione. Per il momento ciò che è avvenuto nella Pentenciaria del Litoral ha provocato le dimissioni, non si sa quanto volontarie, del capo dell’autorità carceraria e delle Forze Armate. A ciò si aggiunge uno scontro tutto politico che vede contrapposto il sistema giudiziario al presidente Lasso, accusato di abusare dei suoi poteri. Quest’ultimo ha attaccato frontalmente i giudici accusandoli di diminuire la capacità dello Stato di combattere la violenza limitando lo stato di emergenza. Ma in questo caso i giudici non hanno fatto altro che applicare la legge e la costituzione per impedire che Lasso istituisse un incontrollato stato di polizia. Secondo il presidente, al contrario, le sue misure sono legittime: “Il dovere fondamentale dello Stato è garantire la vita dei cittadini, senza discriminazioni. Purtroppo oggi quel lavoro è stato reso impossibile da decisioni giudiziarie che impongono restrizioni esagerate al coordinamento tra le forze di sicurezza dello Stato per difendere la vita”. Un’invettiva però che si scontra con una realtà molto più complessa e che emerge dall’analisi compiuta dall’ ex direttore dell’intelligence militare, il colonnello Mario Pazmiño. Il capo dei sevizi segreti ha preferito mettere l’accento sull’alto livello di corruzione degli agenti e dei funzionari delle carceri che permettono ai detenuti più influenti di controllare le strutture intascando “mazzette”, una situazione che - come ha spiegato Pazmiño- è “aggravata da un sistema giudiziario inoperante che ha incarcerato molti prigionieri prima della sentenza, portando al sovraffollamento e alla mescolanza di criminali altamente pericolosi con altri accusati di reati minori come furto o uso di droghe”. Ruanda. “Rusesabagina ha diritto a un giusto processo” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 20 novembre 2021 Il plenum del Cnf incontra Carine Kanimba, figlia dell’uomo che ispirò il film “Hotel Rwanda” e che ora è detenuto illegalmente dal regime. “Ho perso i miei genitori biologici nel genocidio del Ruanda, ora aiutatemi a non perderne un altro”. Carine Kanimba trattiene a fatica la commozione. Ha la voce rotta dal pianto e insieme la determinazione di chi reclama giustizia. Davanti a sé ha una platea di avvocati, i consiglieri del Cnf riuniti in plenum, pronti ad ascoltare la dolorosa vicenda che la riguarda. Una storia che ha per protagonista suo padre adottivo, Paul Rusesabagina, il celebre direttore dell’Hotel Milles collines che nel 1994 strappò oltre mille persone dalla morte dando loro rifugio. A tutti, indistintamente, nella feroce contesa tra Hutu e Tutsi. Da eroe nazionale - celebrato nel film “Hotel Rwuanda” - e simbolo della convivenza pacifica tra le etnie, per il suo paese Rusesabagina si trasformò in breve tempo in nemico politico. Una voce scomoda, da silenziare, per il regime di Paul Kagame, che da oltre 20 anni regna incontrastato in Ruanda. E che ora tiene in ostaggio Rusesabagina nelle prigioni di Stato. “Mio padre è stato rapito, torturato, tenuto in isolamento per 260 giorni in violazione di ogni convenzione internazionale”, raccolta Carine al Cnf. L’arresto risale all’agosto del 2020, quando attraverso l’inganno i servizi segreti ruandesi hanno trascinato Rusesabagina a Kigali su un areo privato. Il governo lo accusa di finanziare gruppi armati in Congo, comincia a fabbricare prove false e formula ben nove capi di imputazione mettendo in piedi un “processo farsa”, celebrato in spregio alle regole dell’equo processo e del diritto di difesa. Quindi, a settembre scorso, la condanna a 25 anni di prigione per “terrorismo”. A raccontare questo incubo giudiziario ai suoi colleghi italiani è Vincent Lurquin, difensore di Rusesabagina, espulso come “persona non gradita” dalle autorità ruandesi nel tentativo di raggiungere il suo assistito dopo l’arresto. Insieme a Carine, Lurquin chiarisce il suo appello alla comunità internazionale: “Non chiedono impunità spiega - ma che Rusesabagina sia giudicato da un tribunale indipendente nel rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo”. Un appello che il Consiglio Nazionale ha recepito come una vera e propria missione, accogliendo a Roma la delegazione che accompagna Carine e adottando al termine dell’incontro di ieri una risoluzione che verrà inviata al CCBE, il Consiglio degli Ordini Forensi Europei, per domandare l’immediato rilascio di Rusesabagina per motivi umanitari. “Vi ringrazio per aver ascoltato questo grido e aver condiviso le angosce e le preoccupazioni di chi conduce questa battaglia”, dice Lurquin. “Questo incontro - chiosa - ci ha permesso di conoscere avvocati che condividono la “follia” di credere che la giustizia sia più di un’istituzione, ma qualcosa di universale, e che se le porte restano chiuse, noi dobbiamo sfondarle”. Una “follia” certamente condivisa dal Cnf, come ha ricordato la presidente Masi, che ha ringraziato a sua volta Carine e il suo avvocato per aver condiviso con l’avvocatura italiana “questo percorso di denuncia che trae origine da una situazione personale ma che diventa di fatto universale”. La vicenda di Rusesabagina, sottolinea Masi, è infatti un “caso emblematico perché rimanda a a questioni che sono care all’avvocatura italiana e in particolare al Cnf, ovvero le regole del giusto processo e il diritto di difesa”. Con riferimento anche alla vicenda personale di Lurquin, al quale è stato impedito di svolgere la propria funzione di avvocato e di entrare in contatto con il suo assistito. Una circostanza denunciata anche dal Parlamento Europeo, che lo scorso 7 ottobre ha approvato una risoluzione nella quale si sottolinea, tra le altre cose, che Paul Rusesabagina non ha potuto scegliere inizialmente gli avvocati per la sua difesa. Ugualmente si è pronunciato il parlamento del Belgio, dove Rusesabagina trovò riparo, e il Congresso degli Stati Uniti. A ricordare tutte le pronunce internazionali e gli atti di denuncia sul caso è il consigliere del Cnf Francesco Caia, coordinatore della commissione diritti umani e presidente dell’Oiad (Osservatorio Internazionale avvocati in pericolo). Dopo aver citato le innumerevoli violazioni dei diritti che hanno caratterizzato questa vicenda negli ultimi venti anni, Caia ha sottolineato come l’impegno del Cnf sul caso prosegua “in assoluta coerenza con l’impegno che la massima istituzione forense porta avanti da ormai diversi anni nel rispetto dei principi dello Stato di diritto”. E coerentemente, aggiunge Caia, “alla funzione sociale dell’avvocato che deve essere protagonista del risveglio delle coscienze della società”. L’ultima tappa dell’attività del Cnf, guidata da Caia, si inserisce proprio nell’ambito della visita in Italia di Carine. Che mercoledì scorso ha incontrato il Comitato permamente sui diritti umani presso la Commissione affari internazionali. E in quell’occasione la presidente del Comitato, Laura Boldrini, si è impegnata affinché anche il parlamento italiano condanni formalmente l’arresto e la detenzione illegale di Paul Rusesabagina.