Tre detenuti suicidi in 7 giorni: nessuno ne ha parlato Ristretti Orizzonti, 1 novembre 2021 Abbiamo appreso da fonti certe che il 25 ottobre scorso un detenuto italiano di 36 anni si è tolto la vita nella Casa Circondariale di Pavia. Il 30 ottobre si è suicidato un internato nella Casa di Reclusione di Isili e il 31 ottobre un detenuto nella Casa Circondariale di Monza. Ad oggi, da quanto ci risulta, nessun organo di stampa ha dato notizia di queste morti. Da inizio anno sale a 47 il numero dei detenuti suicidi (età media 40 anni) e a 109 il totale delle persone recluse decedute per suicidio, malattia o “cause da accertare” (età media 46 anni). Ristretti Orizzonti ha iniziato nell’anno 2000 a costruire il dossier “Morire di carcere” e, nell’arco di 21, ha “registrato” 3.288 morti (età media delle vittime 45 anni), delle quali 1.215 sono ascrivibili a suicidio (età media delle vittime 41 anni). I decessi causati dal virus Covid-19 sono stati 21 (età media 65 anni), mentre i morti durante le rivolte scoppiate tra il 9 e 10 marzo 2020 sono stati 13 (età media 40 anni). Il dossier completo è disponibile a questo indirizzo: http://ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/index.htm La Redazione Ergastolo ostativo, la Fondazione Falcone: ecco come “liberare” pure chi non collabora di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 1 novembre 2021 La proposta di legge si inserisce nel dibattito sull’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario dopo che la consulta ha invitato il parlamento a intervenire. Faceva scalpore la pronuncia della Consulta del 15 aprile u.s. laddove riteneva, in contrasto con l’art. 27 Cost., l’art. 4 bis ordinamento penitenziario, nella parte in cui vieta ai condannati che rifiutino di collaborare con la Giustizia, pur avendo interrotto ogni legame con la criminalità organizzata, di accedere alle misure premiali. La pronuncia giunge sotto spinta della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale ravvisava una violazione dell’articolo in commento con l’art. 3 Cedu, ritenendo il trattamento sanzionatorio inumano e degradante. Su questi presupposti è intervenuta la proposta di legge della Fondazione Falcone, la quale auspica di apportare una rapida e costituzionalmente orientata risoluzione al dibattito. La Fondazione propone infatti di estendere la possibilità di accedere alle misure premiali anche per quei condannati che decidano di non collaborare con la Giustizia, previo accertamento di una serie di ulteriori requisiti, quale la rescissione dei legami con i gruppi mafiosi di passata appartenenza. Allora: si può parlare di ravvedimento senza che vi sia stata la collaborazione con la Giustizia? Un cerbero bifronte o due rette parallele? Il ravvedimento, nell’ambito della Legge 26 luglio 1975, n. 354, passa anche tramite una concreta collaborazione con la Giustizia, quale volontà manifesta da parte del condannato in ordine alla collaborazione. A ciò si aggiunga che la contropartita, data dall’impossibilità di accesso a misure premiali in assenza di collaborazione, è stato ed è tutt’ora uno strumento di fondamentale importanza nella lotta alle mafie. Ma non solo. La stessa Corte di Cassazione in una recentissima pronuncia, la n. 38101 del 28 settembre 2021 ha ribadito come, ai fini della concessione delle misure premiali, la sola collaborazione non possa ritenersi elemento di per sé solo sufficiente. Nell’ambito dei reati oggetto di discussione, pertanto, la concessione deve seguire ad una duplice verifica che attesti sia la presenza della collaborazione (anche se impossibile o inefficace, purché sincera e voluta), sia il perseguimento, da parte del condannato, di un percorso di risocializzazione e rieducazione continuativo, concreto e voluto dallo stesso. Ad ogni modo, è evidente per chi scrive che una simile struttura normativa non sia pienamente compatibile con le finalità costituzionali di rieducazione del reo ex art. 27 Cost. Di qualunque reo! Allo stesso tempo, però, non può evidenziarsi come la tutela dell’Ordine Pubblico dinanzi a fatti di una tale gravità - che hanno scritto una storia di sangue nel nostro Paese - sia un interesse altrettanto meritevole di tutela. Pertanto, come spesso accade, ci si ritrova a dover disquisire sul bilanciamento di due contrapposti interessi costituzionali ed entrambi meritevoli di tutela: (i) da una parte le garanzie del detenuto, (ii) dall’altra l’interesse per la Pubblica Sicurezza. La proposta della Fondazione Falcone appare consapevole delle summenzionate criticità di bilanciamento, anzi, lo afferma la stessa sorella del Procuratore Falcone, Maria Falcone, laddove esprime l’esigenza di recepire quanto osservato dalla Suprema Corte, senza che la lotta alla mafia venga meno. La concessione che viene offerta ai detenuti in regime ex art. 4 bis appare, giustamente, razionata dalla proposta di legge. La modifica maggiormente qualificante, infatti, intende introdurre l’accesso ai benefici anche per quei condannati che non abbiano collaborato con la Giustizia, attesa un’attenta verifica sull’assenza del pericolo di ripristino dei reati per cui sono stati condannati e atteso l’accertamento, da parte del Magistrato di Sorveglianza, di un attuale ravvedimento del detenuto, tramite forme risarcitorie nei confronti delle vittime, e del suo contributo al perseguimento della verità, quale diritto spettante alle vittime. Da una prima lettura, la norma così eventualmente introdotta appare di difficile interpretazione ed applicazione. Tuttavia non è chiaro come possa parlarsi di ravvedimento del condannato che non voglia collaborare con la Giustizia. Si usa volontariamente il termine “voglia”, dal momento che lo status di collaboratore viene riconosciuto anche a quei soggetti che per fatti oggettivi non abbiano “potuto” collaborare, ovvero qualora i frutti della sua collaborazione risultino inefficaci. In secondo luogo, non si comprende come sia possibile conciliare l’assenza della collaborazione al requisito del cd. “contributo” che il condannato dovrebbe offrire al fine di realizzare il diritto alla verità spettante “alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali”. Soluzione accettabile potrebbe essere quella di prevedere la possibilità di accedere alle misure premiali anche per quei soggetti irriducibili, che pur non avendo collaborato con la Giustizia, abbiano scontato almeno 26 anni di carcere, come attualmente accade per gli ergastolani che si sono “fregiati” della collaborazione, in ordine alla concessione della liberazione condizionale. Dopo tale lasso di tempo, infatti, non solo è ampiamente più probabile che i vecchi legami con le cosche siano venuti meno e la ricerca forzata del do ut des - collabori, pertanto godi delle misure - risulta assai meno utile ed efficace, dal momento che la collaborazione interverrebbe su fatti assai risalenti nel tempo. La questione appare di delicata risoluzione. Il rischio è quello di adottare soluzioni troppo rapide e poco meditate che “andrebbero ad inserirsi in modo non adeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata” come rileva la Corte stessa nella recente pronuncia del 15 aprile 2021, laddove non ha voluto inserirsi nella questione con la veste del Legislatore, ma ha giustamente ritenuto di rimettere la questione al Parlamento. *Direttore Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici L’allarme del Garante: “In cella con pene brevi, detenuti in aumento” di Angela Stella Il Riformista, 1 novembre 2021 “Aumenta, ormai con costanza, il numero dei detenuti. Oggi (ieri, ndr) sono 54.240, con un aumento di 310 presenze soltanto negli ultimi 28 giorni. Un ritmo che suscita preoccupazione”: è questo l’allarme lanciato ieri con una nota dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. La capienza regolamentare è invece di 50 mila 857 posti. Ma non sappiamo al momento quante siano le celle inagibili, quindi lo scarto tra posti disponibili e popolazione detenuta potrebbe essere maggiore. Tale scenario rappresenta per il Garante “un segnale in controtendenza rispetto alla riduzione che si era avuta nel 2020, anche a seguito dell’emergenza sanitaria. Allora i detenuti erano scesi da oltre 61mila di marzo 2020 a 53.387 alla fine di maggio”. L’aumento riguarda anche “le persone ristrette per pene inflitte (non residue) molto brevi, inferiori a 3 anni: oggi sono detenute in carcere per scontare una pena inferiore a un anno ben 1211 persone, altre 5967 per una pena da uno a tre anni. Un dato numerico che da solo risponde a coloro che affermano che in Italia nessuno è in carcere per pene così brevi”, critica fortemente il Garante. Com’è noto, con il Decreto “Cura Italia” si erano adottate alcune prime misure deflattive come le licenze straordinarie per i semiliberi e la concessione dei domiciliari per pene residue inferiori a 18 mesi, pur con l’esclusione dei detenuti per reati ostativi ex art. 4-bis. Purtroppo la mancata e pronta disponibilità di braccialetti elettronici aveva depotenziato molto la misura. Poi ci fu la famosa circolare del Dap del 21 marzo 2020 che sollecitava alle strutture penitenziarie la segnalazione all’autorità giudiziaria di ultra 70enni o di portatori di gravi patologie per il differimento dell’esecuzione della pena. “L’effetto combinato di queste misure - si legge nel rapporto sullo Stato dei diritti elaborato da A buon Diritto - ha determinato una riduzione non irrilevante della popolazione detenuta, che a fine aprile 2020 raggiungeva la quota di 53.904, scesa poi a luglio a 53.619, con un tasso di affollamento del 106,1%”. Tale situazione, conclude l’ufficio del Garante, “chiama a una riflessione attori diversi: da quelli territoriali alla magistratura sia di cognizione che di sorveglianza nonché chi ha responsabilità politica e amministrativa affinché vi siano volontà, rapidità nelle procedure e risorse che permettano di affrontare con modalità alternative - e certamente socialmente più utili - pene di così lieve entità”. Infatti pochi giorni fa pure la Ministra Cartabia in un convegno a Padova era intervenuta mostrando preoccupazioni simili: “Ci sono ancora tanti troppi problemi come l’uso della custodia cautelare in carcere già oggetto di una riflessione molto attenta nell’ultimo Consiglio dei ministri d’Europa. Quante detenzioni in carcere ci sono per pene brevi in cui di fatto le persone vengono esposte a una criminalità per cui si rischia di ottenere effetti contrari a quello della rieducazione?”. E allora concretamente che fare? Presso il Ministero della Giustizia è stata istituita la commissione per “l’innovazione del sistema penitenziario” che però è concentrata ad individuare possibili interventi per migliorare la qualità della vita della comunità penitenziaria. Poi ieri lo stesso Ministero ha reso noto di aver costituito cinque gruppi di lavoro per l’attuazione della legge delega di riforma della giustizia penale. Tra questi uno dedicato alla riforma del sistema sanzionatorio, che potrebbe almeno evitare nuovi ingressi in carcere, ma i tempi non sono brevi. Le circostanze attuali invece necessitano di risposte urgenti come ci dice Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino: “Il carcere continua ad essere una discarica sociale. Un luogo immondo che con il passare del tempo peggiora. Abbandonato, nascosto agli occhi dei più. Illegale, anti-costituzionale. Bisogna fare subito qualcosa per ripristinare lo Stato di Diritto. Quello che noi proponiamo da tanto è la concessione della liberazione anticipata speciale di 75 giorni ogni semestre (anziché 45) di sconto di pena per chi in carcere ha avuto un buon comportamento”. È polemica anche sulla legge di bilancio: Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa, ha criticato il fatto “che nel disegno di legge di bilancio approvato dal Consiglio dei Ministri le carceri e il Corpo di polizia penitenziaria vengono totalmente ignorati. In particolare, niente è previsto per i detenuti affetti da patologie psichiatriche, nessuna risorsa viene stanziata per le infrastrutture e il lavoro carcerario, nulla di nulla viene appostato per l’ordinamento, gli organici e gli equipaggiamenti della Polizia penitenziaria. Tutto questo è inaccettabile”. Il silenzioso interventismo di Cartabia di Lodovica Bulian Il Giornale, 1 novembre 2021 Dall’estradizione degli ex terroristi alle riforme, la Guardasigilli accelera sui temi. Ma resta una figura “non divisiva” per il Colle. L’accelerazione sulle procedure di estradizione degli ex brigatisti fermati in Francia. Quella sulla riforma del processo penale legata a doppio filo ai fondi del Pnrr, con la nomina pochi giorni fa di cinque commissioni che dovranno scrivere nel dettaglio le norme già approvate dal Parlamento. E poi il cantiere più difficile, quello della riforma del Csm, dopo gli scandali che hanno macchiato la magistratura, con i tempi che stringono e lo scontro aperto tra i partiti. Sullo sfondo la partita del Quirinale, dove il suo nome è rimasto sempre tra i papabili. Poche e misurate dichiarazioni, così come le apparizioni pubbliche, scandiscono il mandato del ministro della Giustizia Marta Cartabia, che ha già incassato l’ok definitivo alla riforma del processo penale e il via libera del Senato a quella del processo civile. E il suo profilo di “caratura tecnica, e mai politica”, da giurista, è quello a cui guardano i molti che sperano di evitare il passaggio di Draghi al Colle e la connessa fine della legislatura con voto anticipato. Una figura vista come “non divisiva” nel caso in cui Mattarella ribadisca il suo no a un mandato bis, anzi un “elemento di stabilità” per il governo. Cartabia potrebbe contare sul sostegno di chi ha appoggiato la riforma della giustizia, osteggiata invece dai Cinque stelle. Del resto la spaccatura sulle modifiche al processo penale che hanno superato l’abolizione della prescrizione dell’ex ministro grillino Alfonso Bonafede si è ricomposta sotto la mediazione imposta da Draghi ai partiti. E davanti alle critiche anche dure arrivate dal mondo della magistratura sul nodo dell’improcedibilità, Cartabia oggi ribadisce che “il nostro obiettivo è che tutti i processi finiscano e che finiscano nei tempi: l’improcedibilità è come se fosse extrema ratio. Speriamo che non si arrivi mai a doverla attivare”. Intanto il ministro ha appena firmato il decreto che costituisce cinque gruppi di lavoro per l’attuazione della legge delega: 48 membri tra professori universitari, magistrati e avvocati. Le proposte finiranno sul tavolo del Consiglio dei ministri. Tre gruppi dedicati alla riforma del processo penale, uno al sistema sanzionatorio e uno alla giustizia riparativa. Tema su cui il ministro, ancora da presidente della Corte costituzionale, ha sempre manifestato sensibilità. E su cui propone oggi “sanzioni sostitutive alle pene detentive brevi, per evitare inutili passaggi in carcere che sono dirompenti, per il carcere e le persone”, senza nascondere critiche “all’abuso del diritto penale”. Ma la sfida di queste settimane sarà trovare una nuova mediazione tra le forze politiche, questa volta sulla riforma del Csm. La Guardasigilli vuole garantire una nuova legge elettorale per il prossimo Consiglio superiore, quello attuale scade a luglio: “Abbiamo davanti a noi una grande occasione di rinnovamento della fiducia nel fondamentale compito affidato alla magistratura”. Si apre però una fase complicata per riuscire a presentare la riforma entro fine anno. Nulla di fatto nell’ultimo confronto, pochi giorni fa, con i capigruppo di maggioranza, con cui individuare anche i nuovi criteri per gli incarichi direttivi e semi-direttivi, oltre che nuovi paletti alle cosiddette porte girevoli tra magistratura e politica: “È stato un incontro interlocutorio, molti temi non sono stati toccati, come ad esempio quello delle porte girevoli tra magistratura e politica, e credo che dovremo riaggiornarci”, spiega Pierantonio Zanettin, capogruppo di Fi in Commissione giustizia. Ma il tempo stringe. Riforma penale. Si allarga la non punibilità dei reati per tenuità del fatto di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2021 Chance ai reati con pena minima fino a due anni, come chiede la Consulta. Nella valutazione entrerà anche il comportamento successivo all’illecito. L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto si prepara ad allargare il campo. La riforma penale (legge 134/2021) delega infatti il Governo a rivedere (con decreti legislativi da emanare entro un anno) i limiti di pena per la concessione del beneficio previsto dall’articolo 131-bis del Codice penale e introdotto dal decreto legislativo 28/2015. Si tratta di una modifica che, da un lato, recepisce le indicazioni date dalla Corte costituzionale e, dall’altro, si inserisce nel disegno generale della riforma di deflazionare il processo penale. Le potenzialità sono notevoli: sia in termini di adeguatezza del trattamento di reati in concreto privi di offensività, sia di efficacia deflattiva, visto che la non punibilità può essere riconosciuta anche durante le indagini preliminari. Ma andiamo con ordine. Il beneficio e la sua applicazione Se il fatto è di particolare tenuità, il reato non si estingue, ma viene esclusa la sanzione: per tale motivo, la Cassazione ha spiegato che, pur essendo una disciplina di favore, non può estendersi ai fatti coperti da giudicato (sentenza 46567/2016). Il proscioglimento non elimina le sanzioni amministrative accessorie e compare per dieci anni nel casellario giudiziale. Le iscrizioni non risultano nei certificati, generale e penale, richiesti dai privati. La misura riguarda oggi i reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero con pena pecuniaria, sola o congiunta alla prima. Non si tiene conto delle circostanze, tranne quelle a effetto o efficacia speciale, cioè che determinano un aumento superiore a quello comune o per cui è prevista una pena di specie diversa dall’ordinaria. La Corte costituzionale, con la sentenza 156/2020, ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 131-bis nella parte in cui non consente il riconoscimento del beneficio ai reati privi di un minimo edittale di pena detentiva: di conseguenza, la non punibilità è stata riconosciuta al reato di ricettazione attenuata, previsto dall’articolo 648 comma 2 del Codice penale, che ha un tetto massimo superiore a cinque anni, ma non fissa un minimo edittale. In questo contesto la legge delega interviene in due direzioni. La prima incide sui limiti di pena per la concessione del beneficio: la non punibilità per particolare tenuità del fatto potrà essere riconosciuta ai reati puniti con pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, sola o congiunta a pena pecuniaria. Scompare invece il tetto massimo, che oggi è il criterio previsto dall’articolo 131-bis. Viene così recepita la sentenza 156/2020 della Corte costituzionale. Saranno esclusi dall’ampliamento i reati in materia di violenza domestica e contro le donne, di cui alla Convenzione di Istanbul, ratificata in Italia dalla legge 77/2013: perciò stalking e revenge porn (articoli 612 - bis e 612 -ter del Codice penale) non potranno beneficiare della non punibilità, anche se la pena minima in astratto lo consentirebbe. Il legislatore delegato dovrà inoltre estendere il novero delle ipotesi oggi previste dall’articolo 131-bis comma 2, in cui l’offesa non potrà mai essere ritenuta di lieve entità. La seconda direzione in cui la delega si muove è strettamente collegata alla contestuale introduzione della giustizia riparativa, che - in sintesi - consiste in percorsi di mediazione tra autore e vittima del reato gestiti da professionisti a tale scopo formati. La legge 134, infatti, prevede che i decreti legislativi dovranno “dare rilievo alla condotta susseguente al reato ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell’offesa”. Oggi non è così, visto che, per la Cassazione, sono irrilevanti i comportamenti tenuti dal reo dopo il delitto (sentenza 660/2020). L’ampliamento si applicherà ai procedimenti in corso, con il solo limite del giudicato (sentenza 23174/2018). Le aspettative, in termini deflattivi, sono perciò comprensibili. Basta pensare che, astrattamente, potrà rientrare nel beneficio un ampio catalogo di delitti, tra cui alcuni reati tributari, bancarotta preferenziale, falso materiale del pubblico ufficiale in atto pubblico, calunnia e falsa testimonianza. Nino Di Matteo: “La legge Cartabia vìola la Costituzione. È buio per noi toghe” di Marco Lillo Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2021 “I nemici sono tanti: non solo mafiosi, ma anche nelle istituzioni”. Consigliere Antonino Di Matteo il titolo del suo nuovo libro è “I nemici della giustizia”. Chi sono? Sono tanti. Non solo mafiosi corrotti e criminali. Si annidano nelle pieghe delle istituzioni e della politica e anche della magistratura. Non possiamo far finta che questo momento non sia uno dei più bui della storia della magistratura. I mali diffusi come metastasi nel corpo della giustizia sono il correntismo, la corsa sfrenata alla carriera, la gerarchizzazione degli uffici di procura e il collateralismo con la politica. Perché ha scritto con Saverio Lodato questo libro in questo momento così poco felice della magistratura? Non possiamo far finta di stupirci. Dobbiamo indignarci e non nascondere la verità. Sono tanti quelli che vogliono approfittare di questo momento difficile per regolare i conti con i magistrati che hanno saputo esercitare il controllo di legalità anche sul potere finanziario e politico. C’è una logica di rappresaglia ma anche di prevenzione per il futuro. Vogliono vendicarsi ed evitare che la magistratura possa essere troppo incisiva. Ecco perché ho ritenuto di far sentire la mia voce. Non mi piace questo andazzo. La magistratura sembra rassegnata a subire l’attacco frontale di chi vuole trasformare le procure in organi collaterali e serventi rispetto al potere esecutivo. C’è un intero capitolo nel libro dedicato alla riforma Cartabia. Quali sono i rischi maggiori? La ritengo una delle peggiori riforme degli ultimi 30 anni. L’Europa chiedeva di accelerare i processi ma se fosse stata in vigore la riforma Cartabia, processi importanti come quello per il crack Parmalat, la strage di Viareggio o per le violenze nella scuola Diaz di Genova nel 2001, si sarebbero conclusi nel nulla. Questa normativa presenta per me aspetti di evidente incostituzionalità. Va nella stessa direzione del processo breve voluto dal premier Berlusconi e dal ministro Alfano nel 2009. Allora però ci fu una forte reazione. Gli organismi rappresentativi della magistratura, i movimenti e partiti che allora insorsero oggi sono silenti o addirittura favorevoli alla riforma Cartabia. Poi c’è il tema dei criteri di priorità stabiliti dal legislatore. Quali sono i pericoli? Questo punto mi preoccupa ancor più dell’improcedibilità. Le maggioranze parlamentari del momento dovranno individuare le priorità dell’azione penale. La maggioranza di turno potrà ad esempio in futuro stabilire che bisogna perseguire prima la criminalità da strada e poi, solo se resta tempo, i reati di corruzione o tipici dell’abuso di autorità. Così si mina l’obbligatorietà dell’azione penale e l’autonomia e indipendenza della magistratura. Non è solo un problema della casta della magistratura. Intravedo un grave pericolo per i cittadini e le minoranze che si oppongono alla maggioranza di turno. Nel libro dedica un capitolo intero ai referendum sulla giustizia. Ci spiega perché è contrario? Premetto che la Costituzione prevede lo strumento referendario anche per cambiare le norme della giustizia. Nulla da dire quindi sul metodo. Nel merito invece sono contrario a cinque dei sei quesiti. Il sesto, quello sulle firme necessarie per presentare le candidature al CSM, per me è inutile perché non serve a evitare lo strapotere delle correnti. Lei è contrario soprattutto alla separazione delle carriere. Perché? Il primo piano in tal senso era quello di Rinascita Democratica di gelliana memoria. Poi è diventata una bandiera di Forza Italia e del centrodestra nella seconda repubblica. L’appiattimento dei giudici sui pm è un falso storico. Basta vedere le statistiche: i giudici disattendono spesso le richieste dei pm. Inoltre sul passaggio da una funzione all’altra i paletti sono già alti. Negli ultimi 15 anni poco più del 2 per cento dei pm è diventato poi giudice e meno dello 0,5 dei giudici ha compiuto il passaggio inverso. La separazione delle carriere porterebbe, se non immediatamente in maniera inevitabile, alla sottoposizione del pm all’esecutivo e comunque consacrerebbe una figura del pm estranea alla cultura della giurisdizione. Perché non sarebbe giusta la riforma della responsabilità civile? Si dice che i magistrati che sbagliano devono pagare. Messaggio suggestivo ma che si basa su presupposti sbagliati. Esiste già la responsabilità penale con decine di magistrati sotto processo. Poi c’è la responsabilità disciplinare che viene fatta valere più frequentemente per noi magistrati che per altre categorie. Anche la responsabilità civile già c’è. Anche se solo per dolo e colpa grave. La normativa attuale prevede l’azione del cittadino che si ritiene leso contro il Governo per chiedere i danni. In caso di accertamento del dolo o della colpa grave, è il Governo a potersi rivalere sul magistrato. Con il sì al referendum si consentirebbe al cittadino l’azione diretta contro il magistrato. Vedo alcuni rischi: innanzitutto si determinerebbe un’incompatibilità in capo al magistrato chiamato in causa. Inoltre i magistrati che devono giudicare una controversia, civile o penale potrebbero essere indotti a favorire la parte più forte, che ha i mezzi per rivalersi sul magistrato. Tra una multinazionale e un lavoratore il giudice sarà sereno nel giudizio? Nel libro c’è un riferimento alla sentenza Trattativa. L’appello ha ribaltato il primo grado assolvendo Marcello Dell’Utri e i Carabinieri. Cosa ha pensato? Bisognerà attendere le motivazioni. Però alcune cose si possono già dire. Intanto non siamo stati solo noi pm a valutare certe condotte. Il giudice dell’udienza preliminare ha ritenuto giuridicamente corretta l’impostazione accusatoria. E poi la Corte di Assise - dopo 5 anni di processo e centinaia di udienze - ha scritto 5.500 pagine per motivare la condanna. Non voglio scendere nel merito delle responsabilità penali degli imputati. Però una cosa voglio dirla: sono a posto con la coscienza e sono orgoglioso di aver contribuito con i miei colleghi, pm e giudici, a far emergere fatti oggi incontestabili che solo la nostra tenacia ha fatto riemergere da archivi nascosti e polverosi. L’opinione pubblica aveva il diritto e forse anche il dovere di sapere che nel periodo delle stragi Cosa Nostra ha agito nell’ottica di un dialogo a suon di bombe con lo Stato. Nessuna sentenza potrà mai cancellare i fatti storici emersi in quel processo. Formidabile la riforma Vassalli. Poi arrivò tangentopoli… di Beniamino Migliucci* Il Dubbio, 1 novembre 2021 Il 24 ottobre 1989 entrò in vigore il nuovo codice e accese una speranza: che il rito di stampo autoritario fosse definitivamente andato in archivio. Nel 1989, con l’entrata in vigore del codice di procedura penale ispirato a un modello tendenzialmente accusatorio, si sperava che la cultura che aveva generato e sostenuto il rito inquisitorio di stampo autoritario fosse definitivamente abbandonata. Le nuove regole processuali erano, infatti, frutto di una stagione in cui ideali liberali e democratici in materia di giustizia avevano trovato fecondo terreno nella società, nella cultura, nell’accademia e nella politica. Si riteneva superato e dannoso per l’accertamento della verità processuale un sistema che affidava al P.M. o, nella migliore delle ipotesi, al Giudice Istruttore il monopolio della prova che, poi, transitava a dibattimento sostanzialmente immodificabile, senza che la difesa potesse effettivamente incidere su di un prodotto preconfezionato. Il nuovo modello alterava tutto questo: le indagini svolte dal P.M. dovevano essere limitate nel tempo e funzionali alla mera raccolta di elementi - e non prove - per verificare la sostenibilità dell’accusa in un eventuale dibattimento, dove le parti, nel contraddittorio, avrebbero effettivamente partecipato alla formazione della prova. Il contraddittorio, dunque, veniva eletto, a ragione, come il metodo scientifico più affidabile per evitare errori e rendere giustizia. Il sistema portava ad una evidente perdita di potere complessivo della Magistratura che, tra l’altro, non apprezzava intrusioni della difesa nella formazione della prova. Sia chiaro: il codice del 1989 non corrisponde ad un modello accusatorio puro, tanto che, ad esempio, vi sono norme come l’art. 506 che, attribuendo al Giudice la possibilità di indicare alle parti ulteriori temi di prova e porre domande ai testimoni, sottrae alle parti l’esclusiva dell’iniziativa e dell’esame e del controesame, o come l’art. 507 che consente al Giudice di integrare i mezzi di prova delle parti. Nonostante il nuovo codice conservasse tracce inquisitorie era risultato, da subito, indigesto a gran parte della magistratura che aveva iniziato ad avversarlo, evidenziando rischi catastrofici, quanto inesistenti, circa la impossibilità di celebrare alcuni processi, in particolare quelli di criminalità organizzata, pericolo, poi, smentito dai fatti. La totale e continua ostilità della Magistratura, oltre che nella perdita di potere, trovava e trova fondamento anche nella circostanza che, l’adesione ad un modello processuale accusatorio, dovrebbe portare, come inevitabile conseguenza, strutturali riforme ordinamentali, coerenti al nuovo sistema. A sottolineare l’esigenza di un radicale cambiamento, erano stati anche alcuni autorevoli, quanto isolati Magistrati, come Giovanni Falcone che, in un congegno organizzato nel 1988 dalla Camera Penale Veneziana, dal Titolo “Un nuovo codice per una nuova giustizia” rilevò la necessità di confrontarsi con alcuni temi ormai ineludibili come quello della terzietà del Giudice e della obbligatorietà dell’azione penale: “Altri interventi, però, sono necessari sul piano legislativo e di ciò le forze politiche e sociali cominciano ad acquisire piena consapevolezza. Un primo passo è stato mosso con la riforma dell’ordinamento giudiziario nei punti direttamente collegati all’introduzione del nuovo codice, ma altri e più incisivi interventi, prima o poi, occorrerà effettuare e le stesse necessità della prassi le renderanno indispensabili. In primo luogo, bisognerà valutare se e in quali limiti istituti come l’obbligatorietà dell’azione penale, l’unicità delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti e la stessa appartenenza del P.M. all’ordine giudiziario siano compatibili con un nuovo sistema. Mi rendo conto di accennare a tempi di grave portata e sui cui ancora l’analisi è appena agli inizi, ma trattasi di questioni aperte che non verranno risolte semplicemente esorcizzandole o, peggio, muovendo da posizioni preconcette o corporative”. La minaccia di sgradite quanto ineludibili riforme ordinamentali è risultata intollerabile per una parte consistente della Magistratura che ha, in ogni modo, manifestato il proprio dissenso rispetto al nuovo codice di rito. La politica, all’epoca, pur sempre attratta dall’idea di essere succube della Magistratura, non era stata ancora toccata dal ciclone di mani pulite e sembrò opporre una certa resistenza alla opposizione della Magistratura, resistenza che venne a cessare, per l’appunto, con la crisi della prima repubblica, travolta dagli scandali e dai processi. L’inizio del periodo di mani pulite coincise anche con le sanguinose e dolorose stragi criminali mafiose del 1992 che offrirono spunto per la controriforma e per le note sentenze demolitrici della Corte Costituzionale, con la contestuale introduzione di norme che consacravano il cd. doppio binario per alcuni reati, regole che poi hanno trovato applicazione per ogni tipo di processo. La politica, solo nel 1999 e grazie soprattutto all’UCPI, modificò l’art. 111 della Costituzione, introducendo i principi del giusto processo, finalmente aderendo alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo che già prevedeva all’art. 6 il diritto ad un processo equo. Da allora, sul codice di rito, interventi altalenanti quanto disomogenei, frutto, non di una visione organica di una politica giudiziaria, ma di contingenze, paure e convenienze elettorali, senza che l’art. 111 della Costituzione abbia trovato piena applicazione. Anzi: negli ultimi anni si è registrato un attacco senza precedenti a principi e valori costituzionali quali presunzione di innocenza, diritto di difesa, funzione risocializzante della pena. Il periodo più buio sembra alle spalle. La scellerata, quanto scriteriata riforma Bonafede della prescrizione è stata superata, così come neutralizzate altre norme che avrebbero mortificato non solo il codice di rito, ma anche principi costituzionali. Certo quella che ha preso il nome dell’attuale Ministra della Giustizia, dovuta anche alla inderogabile necessità di presentare in Europa un pacchetto di investimenti e riforme, poteva essere migliore, ma è stata determinata dal compromesso politico tra forze ideologicamente contrapposte, il che, in materia di giustizia, difficilmente produce risultati totalmente soddisfacenti. Quello che si deve evitare è: lo svilimento del contraddittorio dibattimentale; difendere il principio di oralità che è regola del processo penale; evitare che il processo diventi una punizione per chi ritiene di affrontarlo. Il sistema accusatorio, o quel che resta di esso, deve essere difeso, ed anzi occorre rilanciare, sostenendo con forza i principi costituzionali del giusto processo, ribadendo, come l’UCPI sta facendo, l’ineludibilità della riforma della separazione delle carriere, perché un processo penale governato dalla cultura inquisitoria, il cui scopo improprio sia quello di combattere fenomeni criminali e di creare consenso attorno all’attività di questo o quel Magistrato e di governare, in questo modo, i mutamenti sociali determina, tra l’altro, inevitabilmente, uno squilibrio tra i poteri dello Stato. *Past president Ucpi Ferrua e Spangher: “La Vassalli fu stravolta dalla cultura inquisitoria” di Valentina Stella Il Dubbio, 1 novembre 2021 Intervista doppia ai professori Paolo Ferrua e Giorgio Spangher. “La Vassalli? Qualcuno vide nel contradditorio un rischio per l’accertamento della verità”. Il 24 ottobre 1989 entrava in vigore il nuovo codice di procedura penale, detto anche codice “Vassalli”, per ricordare il nome del ministro di Grazia e Giustizia dell’epoca, Giuliano Vassalli. Tuttavia il codice che abbiamo oggi non è quello originario di impostazione accusatoria e garantista. A causa, secondo i professori Paolo Ferrua e Giorgio Spangher, emeriti di diritto processuale penale rispettivamente all’Università di Torino e di Roma La Sapienza, di un “Movimento, guidato da autorevoli magistrati, per la revisione in senso inquisitorio del codice di rito” e per “i processi per le stragi di Capaci e Via D’Amelio che hanno creato un doppio binario di cui non riusciamo a liberarci”. Professor Ferrua che bilancio si può fare? Il codice, fondato sul modello accusatorio, purtroppo non è riuscito gradito alla maggioranza dei magistrati; e l’esperienza insegna che, quando una legge incontra l’ostilità della magistratura chiamata ad applicarla ha buone possibilità di risolversi in un fallimento. L’inchiostro delle pagine del nuovo codice non era ancora asciutto che già nasceva un Movimento, guidato da autorevoli magistrati, per la revisione in senso inquisitorio del codice di rito. La Corte costituzionale, accogliendo quelle istanze, demoliva nel 1992 i pilastri del processo accusatorio. L’aspetto più desolante della svolta inquisitoria sta nell’avere ritenuto che il metodo del contraddittorio fosse di ostacolo all’accertamento della verità, quando, invece, è il suo più prezioso alleato. Con il senno di poi cosa è mancato al buon esito del codice? Senza dubbio un grave errore è stato di non avere contestualmente provveduto alla revisione dell’ordinamento giudiziario, data la stretta connessione che lo lega al modello di processo. Ma, soprattutto, occorreva che la riforma fosse accompagnata da un sistema di educazione, anzi di rieducazione degli operatori chiamati ad applicarla, da una paideia, per usare una parola pesante, ma efficace. Bisognava convincere i magistrati che la legittimazione del loro terribile potere punitivo regge su due principi fondamentali, che sono condizioni di accettazione sociale della pena: la soggezione del giudice alla legge, a partire da quella costituzionale; lo scrupoloso rispetto del contraddittorio, che non è soltanto un diritto individuale, ma una garanzia epistemica, funzionale alla migliore ricostruzione dei fatti. Professor Spangher le emergenze come hanno stravolto il modello processuale? Dobbiamo dire la verità guardando la situazione attuale: certamente il codice che noi oggi abbiamo è lontano da quello del 1930, nato in un’epoca particolare. Ma non è neanche quello del 1988, quello che avevamo sognato, il primo codice di garanzia. Non lo è perché purtroppo i codici sono permeabili ai cambiamenti culturali del Paese. Il codice del 1988 ha dovuto scontrarsi con i fenomeni della criminalità organizzata domestica e di quella internazionale, con le emergenze sociali legate alla sicurezza. E purtroppo non ha resistito all’urto di questi fenomeni che sono stati utilizzati, dalla politica e dalla magistratura, per introdurre un modello contrario a quello accusatorio e garantista. Basti pensare al fatto che le dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari potevano acquisire valore probatorio anche senza il vaglio dibattimentale. Se la stagione di Mani Pulite è stata caratterizzata dall’abuso e dallo stravolgimento dell’istituto della custodia cautelare, a stravolgere letteralmente l’impianto accusatorio sono stati i processi per le stragi di Capaci e Via D’Amelio che hanno creato un doppio binario di cui non riusciamo a liberarci. Tutte queste emergenze hanno provocato la progressiva erosione delle connotazioni accusatorie del nuovo modello processuale, con il progressivo trasferimento della centralità del procedimento dalla fase del dibattimento a quella delle indagini preliminari. In generale sono soprattutto i pubblici ministeri ad essere impermeabili alle logiche di garanzia perché credono di doversi fare carico degli obiettivi e dei risultati del processo. E questo capita talvolta anche ai giudici mossi da istanze etiche invece che da una visione laica del giudizio. Nella delega del 1988 non figurava la parola contraddittorio, ma oralità. Con l’introduzione dei principi del giusto processo in Costituzione, riforma con la quale il legislatore ha voluto in qualche modo riequilibrare l’impatto degli effetti distorsivi delle sentenze della Corte costituzionale del biennio 1992-1994, il discorso si è spostato sul contraddittorio. In questa differenziazione tra oralità e contraddittorio sta forse lo iato tra un modello che si poteva sperare e un modello che ci troviamo a gestire. Oggi possiamo dire che oggettivamente il processo penale accusatorio non c’è più, ha vissuto una stagione abbastanza breve prima che le varie emergenze ne stravolgessero i tratti distintivi; successivamente si è cercato di ricostruire alcuni profili di garanzia sull’impianto che ne è derivato, ma l’obiettivo non è stato ancora raggiunto. Professor Ferrua grazie alla riforma costituzionale (1999-2000) accogliamo in Costituzione i principi del giusto processo. Nonostante questo, in diversi vostri interventi ho sentito dirvi: il processo accusatorio è morto. Perché? Il giusto processo è la risposta tardiva, ma inevitabile, alla svolta inquisitoria. La Corte costituzionale persisteva nel ritenere il contraddittorio nella formazione della prova incompatibile con i precetti costituzionali; è stato, quindi, necessario scrivere a chiare lettere nella Costituzione ciò che, a torto, la Corte si rifiutava di leggere nel testo originario. Con la riforma dell’art. 111 Cost. il modello accusatorio risuscita; ma, se cessa l’attacco frontale ai suoi principi, ne inizia uno più subdolo, connotato dal loro svilimento nella prassi e nella giurisprudenza. Questo svilimento si manifesta in tre forme. La prima è quella delle interpretazioni “creative”, ossia delle sentenze che praticano una lettura fortemente riduttiva delle garanzie; alludo, ad esempio, alla sentenza ‘Bajrami’ delle Sezioni unite che ha subordinato la rinnovazione della prova, in caso di mutamento del collegio giudicante, a condizioni di cui non v’è traccia nella legge; o alla sentenza costituzionale che ha suggerito al legislatore di introdurre deroghe alla oralità, sotto l’alibi della lentezza del processo (n. 132 del 2019).La seconda è rappresentata dalla sostanziale inerzia del legislatore che, anziché ristabilire la legalità, asseconda le interpretazioni riduttive delle garanzie, traducendole in legge. Il diritto “vivente” di origine giurisprudenziale, che idealmente dovrebbe essere lo specchio fedele del diritto “vigente”, prodotto dal legislatore, si è progressivamente reso autonomo, al punto che oggi è il diritto “vigente” ad inseguire e ad uniformarsi al diritto “vivente”. Il terzo fattore è l’intollerabile lentezza del processo che mortifica l’effettività delle regole del processo accusatorio; una lentezza che non ha nulla di naturale né di inevitabile, ma che, anzi, si direbbe funzionale proprio al fallimento di quel modello. Professori la riforma Cartabia migliora o peggiora il sistema delle garanzie del processo... Spangher: Ormai da tempo c’è la sensazione che il codice di procedura penale abbia bisogno di un restyling complessivo. Ma non ci sono né la forza né la determinazione né tantomeno una visione strutturale di come possa essere un nuovo processo penale. Si è proceduto, e lo si continua a fare, per aggiustamenti settoriali: prima la Commissione Canzio, poi la riforma Orlando, ora quella Cartabia. Appena si riesce a trovare una aggregazione politica per modificare determinati profili, lo si fa. Ma manca sempre una visione di sistema allargata. Ora con la riforma Cartabia, ma anche prima con la Bonafede, si è cominciato a discutere della durata delle indagini, dei criteri di priorità, della ragionevole durata, di strumenti deflattivi dell’attività investigativa: insomma si è cercato di mettere in atto dei correttivi contro alcune patologie, ma sempre senza un intervento organico di ampio respiro e con la solita stortura del doppio binario per i reati di criminalità organizzata. Ferrua: Più che migliorare o peggiorare, altera gravemente le linee di un processo fondato sul contraddittorio dibattimentale. Il punto di forza del modello accusatorio è di rendere giustizia alla luce del giorno. Questo rimane il suo eterno titolo di gloria, ma è anche ciò che lo condanna agli occhi di quanti amano gli accordi sotterranei, gli intrugli tra le parti, i dialoghi confidenziali tra inquirenti e inquisiti, le prove raccolte nell’occulto. Con la riforma Cartabia, l’asse del processo si sposta ulteriormente verso la fase delle indagini; il contraddittorio dibattimentale è visto con sospetto, come evento da evitare per quanto possibile; l’improcedibilità, che tronca il processo lasciando in vita l’ipotesi di reato, costituisce un tipico esempio di giustizia denegata, in tensione con l’obbligatorietà dell’azione penale. Chiunque dovrebbe capire che l’impegno della legge ad assicurare la ragionevole durata del processo esige interventi acceleratori volti a favorire, nel pieno rispetto delle garanzie, una tempestiva risposta nel merito alla domanda aperta dall’accusa; non certo la nichilistica fine del processo all’insegna della “improcedibilità”. Cosa sarebbe stato utile? Una coraggiosa attività di depenalizzazione, l’aumento dell’organico dei magistrati, una maggiore fluidità delle indagini preliminari, la soppressione dell’udienza preliminare o la sua previsione solo a richiesta dell’imputato, l’abolizione dell’appello del pubblico ministero, la forte riduzione della custodia cautelare. Professor Spangher i pubblici ministeri posseggono un potere improprio in termini di equilibri costituzionali? Non c’è dubbio che nell’evoluzione del modello processuale i poteri dei pubblici ministeri si siano significativamente rafforzati. Il modello originario prevedeva che il pm raccogliesse elementi di prova destinati a rifluire nel dibattimento per una verifica del fondamento dell’azione. Come contrappasso, gli si contrapponeva un giudice per le indagini preliminari debole chiamato semplicemente a verificare che non ci fossero lesioni dei diritti costituzionali dell’indagato. Questa debolezza del giudice è cresciuta nel tempo parallelamente al rafforzamento dei poteri del pm. Il problema attuale del nostro sistema, quindi, non è rappresentato solo dal gigantismo dei pm, quanto anche dal nanismo dei giudici. Tutta la filosofia processuale ne è risultata alterata, tanto da determinare dei contraccolpi. Prima si è rafforzato il ruolo dell’udienza preliminare, poi si è dato maggior vigore all’istituto dell’incidente probatorio, e in quest’ultima fase si cerca di riequilibrare o di contenere questo potere attraverso un rafforzamento del ruolo del giudice affinché lo stesso possa incidere, anche con effettivi provvedimenti di controllo, sul rispetto delle garanzie da parte del pm. Ma tutto questo non basta per depotenziare l’azione del pm, dal momento che il centro del processo dovrebbe essere comunque il giudizio, la fase dibattimentale, l’esame incrociato (e purtroppo la cross-examination non è ancora percepita dai giudici in una logica di garanzia). E anche nella riforma Cartabia la parte più carente dal punto di vista delle novità è proprio la fase del giudizio. All’Italia serve una strategia di deradicalizzazione di Francesco Marone Il Domani, 1 novembre 2021 Sono 144 i foreign fighters legati al nostro paese partiti per aree di conflitto all’estero e 313 i detenuti sottoposti a monitoraggio per il rischio di radicalizzazione. Questa settimana il Copasir, il comitato parlamentare che sorveglia l’intelligence nazionale, ha approvato all’unanimità una relazione che sottolinea l’esigenza “urgente e non dilazionabile” di avere una legge per il contrasto alla radicalizzazione jihadista. La sollecitazione è senz’altro benvenuta. Per quanto la minaccia dello jihadismo globale appaia oggi meno drammatica, specialmente rispetto ai tempi d’oro del “califfato” in Iraq e Siria (2014-2017), i pericoli non sono affatto venuti meno. Lo può ricordare, da ultimo, il clamoroso assassinio del parlamentare britannico David Amess il 15 ottobre; il responsabile della violenza è un simpatizzante jihadista di origine somala, che in piena solitudine pianificava un attacco già da due anni. In generale, un problema cruciale per le democrazie liberali, orgogliose dello stato di diritto, consiste nella difficoltà a intervenire in modo tempestivo ed efficace nei confronti di soggetti che possono attivarsi all’improvviso in qualsiasi momento prima che essi commettano un reato. La minaccia senza confini dello jihadismo tocca naturalmente anche l’Italia. In questo senso, la stessa relazione del Copasir ha ricordato alcuni dati importanti, come i 144 foreign fighters legati al nostro paese partiti per aree di conflitto all’estero e i 313 detenuti sottoposti a monitoraggio per il rischio di radicalizzazione. In generale, oggi il carcere e internet costituiscono ambienti di particolare importanza per i processi di radicalizzazione che conducono all’estremismo violento. Oltretutto, la recente (ri)conquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani pone nuovi rischi. In questo contesto, anche l’Italia deve farsi trovare costantemente preparata di fronte a una sfida insidiosa, cangiante e di lunga durata. A ben vedere, la posizione del nostro paese appare per alcuni versi anomala nel panorama europeo. Da un lato, nel corso del tempo le autorità nazionali hanno sviluppato e affinato una politica antiterrorismo incisiva e aggressiva, adattando ripetutamente i propri strumenti al mutare della minaccia. Un pilastro di questa politica è diventato l’ampio uso di espulsioni di cittadini stranieri ritenuti pericolosi per la sicurezza nazionale: dal 1° gennaio 2015 a oggi sono state rimpatriate oltre 560 persone - un numero che non ha eguali in nessun altro paese europeo. L’efficacia complessiva del sistema antiterrorismo italiano è presumibilmente una delle ragioni principali per cui l’Italia è, a oggi, l’unico grande paese occidentale a non aver mai subito un attacco terroristico letale sul proprio territorio. Un’anomalia cui guardare certamente con favore. Anche su questo fronte, è possibile immaginare ulteriori progressi. Il Copasir ha raccomandato l’introduzione di una norma che punisca il semplice possesso di materiale di propaganda jihadista (e non soltanto la sua diffusione), in modo simile a quanto già avviene per la detenzione di materiale pedopornografico. Questa esigenza è avvertita anche in altri paesi occidentali; in particolare, una stringente misura di questo tipo, non priva di aspetti delicati e potenzialmente controversi, è già stata proposta nel 2020 dal ministero dell’Interno britannico. L’avanzamento più significativo per l’Italia riguarderebbe tuttavia un altro settore, quello dei programmi di contro-radicalizzazione e di de-radicalizzazione. Infatti, in decine di stati in occidente e altrove ormai da parecchi lustri le tradizionali politiche antiterrorismo di carattere repressivo sono affiancate, in modo complementare, da programmi di carattere culturale e sociale volti a prevenire e a contrastare i percorsi di radicalizzazione. In sintesi, questi programmi possono perseguire due finalità distinte: da un lato, possono mirare a far sì che individui a rischio non entrino in percorsi di radicalizzazione che conducono all’estremismo violento (la cosiddetta contro-radicalizzazione); a titolo di esempio, si vuole evitare che giovani vulnerabili aderiscano effettivamente alla causa jihadista. Dall’altro lato, l’obiettivo, ancora più impegnativo e delicato, è quello di fare in modo che individui che sono già entrati in percorsi di radicalizzazione vi escano volontariamente e possano reintegrarsi nella società, rinunciando del tutto all’ideologia estremistica (la de-radicalizzazione in senso stretto) o quantomeno abbandonando la militanza attiva (il cosiddetto disimpegno): si pensi, per esempio, al caso di individui condannati alla reclusione per reati legati all’estremismo violento, durante il periodo della detenzione e, ancor più, dopo la scarcerazione. Questi programmi dovrebbero consentire di intercettare e contrastare segni di radicalizzazione nei vari ambiti della società in cui l’estremismo violento può attecchire: la scuola, il mondo del lavoro, il carcere e così via. Significativamente, se le politiche tradizionali di antiterrorismo sono principalmente prerogativa degli apparati statali di sicurezza (in particolare, magistratura, forze dell’ordine, agenzie di intelligence), i programmi di contro-radicalizzazione e di de-radicalizzazione/disimpegno tipicamente affidano un ruolo importante e attivo ad altre autorità e istituzioni (amministrazioni locali, sistema dell’istruzione pubblica) e, non ultimo, ad attori della società civile (organizzazioni non governative, comunità islamiche, organi di stampa e altri ancora). Le iniziative di maggior successo non di rado riflettono le peculiarità locali del contesto in cui la radicalizzazione potrebbe presentarsi o si è già presentata: non a caso il modello forse più noto in Europa, quello di Aarhus, è stato costruito a partire dal 2007 sulla base delle esigenze specifiche di quella città danese. In questo campo, non si può non ricordare anche l’operosa e proficua esperienza della Ran (Radicalisation awareness network), una rete, istituita dalla Commissione europea esattamente dieci anni fa, che consente a migliaia di professionisti in prima linea (operatori sociali e così via), studiosi e rappresentanti di autorità pubbliche di condividere conoscenze, esperienze di prima mano e approcci per contrastare e prevenire concretamente la radicalizzazione. Nella pratica, questo genere di interventi di natura culturale e sociale fa i conti con limiti e anche con fallimenti, attentamente esaminati e valutati dagli esperti, ma di certo ha il merito di ampliare notevolmente la capacità di risposta proattiva alla minaccia dell’estremismo violento e del terrorismo, favorendo anche un modello di sicurezza partecipata. In Italia al dinamismo della politica antiterrorismo, certamente all’avanguardia nel panorama europeo, fa singolarmente da contraltare l’assenza di una strategia nazionale di contro-radicalizzazione e de-radicalizzazione/disimpegno. Ecco un’altra anomalia italiana, questa volta di segno negativo. Nel corso degli ultimi anni anche in Italia sono state sviluppate iniziative e interventi promettenti in singoli settori e/o in singoli territori (per esempio, in materia di sensibilizzazione di dirigenti scolastici e insegnanti in Lombardia), ma manca ancora una cornice nazionale, organica, istituzionalizzata e opportunatamente finanziata. In questo contesto, l’invito del Copasir evidenzia effettivamente una lacuna importante. Nella scorsa legislatura, era stata avanzata un’apposita proposta di legge bipartisan, promossa dagli allora deputati Stefano Dambruoso e Andrea Manciulli. Approvato alla Camera nel luglio 2017, il testo non aveva fatto in tempo a raggiungere l’obiettivo del voto finale al Senato prima dello scioglimento anticipato del parlamento, nel dicembre 2017. La proposta di legge prevedeva l’istituzione di appositi strutture e organi (un Centro nazionale con Centri regionali e un Comitato parlamentare per il monitoraggio) e fissava linee guida per interventi in vari settori rilevanti, come la scuola e l’università, il mondo della comunicazione e dell’informazione, il carcere. Indicazioni assai utili vennero anche da una Commissione di studio che era stata istituita dal governo nel 2016. In questa legislatura il Partito democratico ha presentato nel 2018 una nuova proposta di legge, che riprende esplicitamente quella promossa da Dambruoso e Manciulli. Inoltre, esponenti di altre forze politiche hanno offerto contributi su questi temi. L’auspicio è che un nuovo intervento legislativo attento ed equilibrato, basato su una convergenza tra partiti differenti, possa finalmente gettare le fondamenta per una moderna strategia nazionale di contro-radicalizzazione e de-radicalizzazione/disimpegno. Per inciso, puntando ancora più in alto, si potrebbe notare nel merito che l’approvazione di un’idonea legge per la prevenzione della radicalizzazione jihadista, ispirata a pratiche ed esperienze già maturate all’estero, non costituisce necessariamente il punto di arrivo in questo campo. Non si può dimenticare il fatto che lo jihadismo, nonostante la sua continua e indubbia rilevanza, non è affatto l’unica forma di estremismo violento a destare preoccupazione nella nostra epoca. In molti altri stati europei e nell’ambito alla stessa Commissione europea l’impegno in materia di radicalizzazione da numerosi anni abbraccia anche gli estremismi violenti di sinistra e, soprattutto, di destra. Idealmente, al di là delle sensibilità e degli interessi di parte, sarebbe senz’altro auspicabile valutare anche in Italia l’applicazione di queste iniziative all’estremismo violento in generale, quale che sia la sua matrice ideologica. Nel nostro paese, in particolare, viene naturale pensare all’anarco-insurrezionalismo, che rappresenta la componente più dinamica dell’eversione interna; l’Italia costituisce infatti una culla storica di questa causa estremistica e in Europa si segnala come il paese più interessato da atti di violenza con tale provenienza ideologica, insieme alla Grecia. Non ultimo, sarebbe opportuno volgere lo sguardo anche alla radicalizzazione violenta di estrema destra, considerata in crescita in tutto l’occidente e certamente presente anche in Italia, come hanno dimostrato anche episodi di violenza recente. Oltretutto, in questa fase gli sconvolgimenti legati alla pandemia e il proliferare di teorie del complotto forniscono ulteriori elementi di preoccupazione. In ottica realistica, prendendo atto della natura divisiva di questi temi, oggi dal punto di vista politico la priorità assoluta appare una legge sulla radicalizzazione di matrice jihadista. Su questo fronte, riconosciuto che la repressione da sola non è sufficiente, occorre agire senza indugi. In definitiva, anche in questo campo prevenire è meglio che curare. Ricorsi in Cassazione, la Cedu: “Troppo peso ai formalismi” di Simona Musco Il Dubbio, 1 novembre 2021 Per i giudici di Strasburgo in Italia viene penalizzata la sostanza. Bocciati altri due ricorsi. Violazione dell’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo per l’eccessivo formalismo dei criteri di redazione dei ricorsi in Cassazione: è quanto riscontrato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza 55064 del 28 ottobre, nella quale viene evidenziato che i criteri di redazione dei ricorsi in Cassazione attribuiscono un peso sproporzionato alla forma a scapito della sostanza. L’Italia dovrà dunque risarcire con 9.600 euro il ricorrente per danno morale, più qualsiasi imposta che potrebbe essere dovuta su tale somma. A ricorrere alla Cedu il dirigente di un’impresa commerciale di Catania cui era stato notificato un avviso di sfratto. L’uomo ha impugnato per Cassazione, a marzo 2010, la sentenza d’Appello che confermava il decreto ingiuntivo di sgombero, esponendo una sintesi dell’oggetto e dello svolgimento del procedimento. Nel suo ricorso, lungo circa 50 pagine, erano stati evidenziati i motivi di ricorso e le motivazioni della sentenza impugnata, parti del procedimento e degli atti citati sono stati parzialmente trascritti o riassunti con l’indicazione della numerazione degli atti processuali. La Cassazione ha però dichiarato il ricorso inammissibile. Da qui il ricorso alla Cedu, davanti al quale il dirigente ha lamentato un’applicazione eccessivamente formalistica delle norme sulla formazione dei ricorsi. In particolare, il ricorrente ha evidenziato che il principio d’autosufficienza, ovvero l’esigenza che il ricorso contenga in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la Cassazione della sentenza di merito senza la necessità rinviare a fonti esterne, non era sufficientemente prevedibile, chiaro e coerente all’epoca dei fatti. Il governo ha ammesso l’origine giurisprudenziale di questo principio, evidenziando come la Cassazione abbia dovuto chiarirne l’applicazione con sentenze delle Sezioni Unite. Un’esigenza di chiarimento che sta anche alla base di un protocollo datato 2015, la cui sottoscrizione da parte del Cnf “avrebbe cercato di arginare l’approccio eccessivamente formalista della Corte di Cassazione”. Secondo i giudici di Strasburgo, “se il carico di lavoro della Corte di Cassazione descritto dal governo rischia di porre difficoltà all’ordinario funzionamento del trattamento dei ricorsi”, resta il fatto che l’accesso alla giustizia non possa essere limitato “con un’interpretazione eccessivamente formalistica”, al punto “da violare tale diritto nella sua stessa sostanza”. Insomma, questa facoltà deve essere concreta e non solo teorica. E per garantire ciò, le norme che limitano il potere di impugnazione devono essere chiare e prevedibili agli occhi del ricorrente. Secondo la Cedu, invece, la Cassazione ha dimostrato un eccessivo formalismo non giustificabile rispetto alla specifica finalità del principio dell’autonomia e quindi della finalità perseguita, ossia la garanzia della certezza del diritto e della corretta amministrazione della giustizia. Per il Palazzaccio, infatti, il ricorrente non aveva indicato, per ciascun motivo, le ipotesi di ricorso. Ma secondo i giudici di Strasburgo, dalla lettura dello stesso emerge con chiarezza l’oggetto e l’andamento della controversia dinanzi ai giudici di merito, nonché la portata dei mezzi, sia nella loro base giuridica che nel loro contenuto, con l’ausilio di rinvii ai passaggi della sentenza della Corte d’appello e ai relativi atti citati nel secondo grado di giudizio. I criteri previsti dall’articolo 360 del codice di procedura civile, dunque, erano stati sufficientemente rispettati. La sentenza, però, non riguardava il solo caso del dirigente catanese. Strasburgo aveva infatti rilevato che la valutazione della legittimità dello scopo perseguito dall’applicazione del principio di autonomia del ricorso per Cassazione si prestava ad un trattamento unitario per tre diversi ricorsi, per un totale di otto ricorrenti. Lo scopo di tale principio, come evidenziato dal governo, era quello di facilitare la comprensione della causa e delle questioni sollevate in appello e per consentire alla Corte di Cassazione di pronunciarsi senza dover ricorrere ad altri documenti, in modo da preservare il suo ruolo e la sua funzione che consiste nel garantire “l’applicazione uniforme e la corretta interpretazione del diritto interno”. Negli altri due ricorsi, però, i giudici non hanno ravvisato la violazione come nel caso del dirigente catanese: in un caso, infatti, “l’indicazione degli atti del giudizio nel merito era irregolare poiché, per ogni passaggio citato, mancava il rinvio agli atti originari richiesti dalla giurisprudenza interna”, nell’altro l’avvocato dei ricorrenti “si è limitato a trascrivere gran parte dell’esposizione dei fatti della sentenza della Corte d’appello, le conclusioni dei ricorrenti in appello, parte dell’impugnazione”, come motivazione e dispositivo della sentenza della corte d’appello. Palermo. I carcerati… e dopo? Rinasce il Consiglio di aiuto sociale di Francesco Cavallo centrostudilivatino.it, 1 novembre 2021 È importante l’iniziativa del presidente del Tribunale di Palermo Antonio Balsamo di riattivare il Consiglio di aiuto sociale, per dare una prospettiva di vita dignitosa a chi termina l’espiazione della pena. Come previsto dall’ordinamento, andrebbe estesa a ogni circondario. 1. Maria, 58 anni, è originaria di Roma. Ha un fine pena di 7 mesi, ma il volto velato dalla tristezza e dalla paura. Il reparto femminile dell’istituto penitenziario di Lecce, dove, al termine di un incomprensibile girovagare tra istituti penitenziari, sta finendo di scontare la sua pena di 5 anni e 6 mesi, è ormai la sua famiglia: fuori di lì non ha più nessuno, non ha più un lavoro e, soprattutto, non ha una casa. Le chiedo come ha fatto concretamente a beneficiare dei permessi premio e mi racconta dell’ospitalità fornitale talvolta da una nota comunità fondata da un sacerdote e talaltra da istituti vicini alla Comunità Nuovi Orizzonti di Chiara Amirante. In questi anni ha riconosciuto i suoi errori, ha avviato un percorso di conversione alla fede, ha partecipato al massimo delle sue possibilità all’attività trattamentale proposta dall’istituto penitenziario e dagli enti collaterali di supporto…ma quando sarà definitivamente libera, come e dove proseguirà la sua vita? 2. Matteo invece ha 29 anni. Ultimo figlio di un condannato al 41bis è stato coinvolto giovanissimo dai fratelli e dagli zii nella guerra tra batterie rivali della “società”, la mafia foggiana, e nel reparto alta sicurezza del carcere di Lecce sta scontando una lunga pena detentiva entrata nel suo ultimo anno. Con la sola eccezione della mamma, da dieci anni non ha contatto con alcuno dei suoi familiari, vuoi perché gli stessi nel frattempo sono finiti dietro le sbarre o hanno avviato percorsi di collaborazione (come ha fatto una zia), vuoi perché non ha potuto usufruire di benefici carcerari. Da quando, però, due anni fa, la sua mamma è mancata, ed avvicinandosi (relativamente) il suo fine pena, Matteo ha cominciato a mettere in discussione anche i suoi legami familiari; ha cominciato a immaginare il suo futuro in libertà, a chiedersi dove e come provare ad avere una vita diversa. Ma è un percorso tutt’altro che semplice. Il rischio che Matteo tra un anno venga riassorbito dal circuito criminale è elevato, e non si contiene certo solo con la libertà vigilata. Maria e Matteo sono ovviamente nomi di fantasia ma le loro storie sono reali, e sono sovrapponibili a quelle di tanti liberandi. Come spesso accade, nel nostro ordinamento le norme per affrontare queste situazioni ci sono ma nessuno le applica, al punto che gli istituti da esse previsti finiscono per essere del tutto ignoti. 3. Tanto, almeno fino all’insediamento del nuovo Presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo. Tra i primi gesti del magistrato, con importanti esperienze in Cassazione e internazionali, vi è stata l’attivazione e il ripristino della funzionalità del Consiglio di Aiuto sociale presso il Tribunale di Palermo, (ri)entrato in funzione il 4 ottobre scorso, primo e unico in Italia. Si tratta di un istituto completamente inapplicato e dimenticato della legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 (art. 74-77), confermato dall’art. 119 del D.P.R. n. 230/2000, che si occupa del reinserimento sociale dei detenuti e che dovrebbe essere costituito (e operante) nel capoluogo di ciascun circondario. L’art. 74 dispone che “nel capoluogo di ciascun circondario è costituito un consiglio di aiuto sociale” formato da magistrati (sorveglianza e minorenni compresi), rappresentanti delle istituzioni (prefettura, enti locali, ufficio provinciale del lavoro, ASL), direttori degli istituti penitenziari del circondario, un delegato del Vescovo, e sei componenti nominati dal presidente del tribunale fra i designati da enti pubblici e privati che si occupano di volontariato e assistenza sociale. L’art. 75 elenca le attività e i compiti del Consiglio. Esso deve - visitare i liberandi, al fine di favorire, con opportuni consigli e aiuti, il loro reinserimento nella vita sociale; - accertare i loro reali bisogni e studiare il modo di provvedervi secondo attitudini e condizioni familiari; - studiare le possibilità di collocamento lavorativo e svolgere “opera diretta ad assicurare una occupazione ai liberati che abbiano o stabiliscano residenza nel circondario stesso” (art. 75 n. 3) attraverso il “Comitato per l’occupazione degli assistiti dal consiglio di aiuto sociale” di cui all’art. 77, composto anche da rappresentanti dell’industria, del commercio, dell’agricoltura, dell’artigianato locale, delle organizzazioni datoriali e sindacali; - organizzare corsi di formazione professionale e promuovere la frequenza agli stessi dei liberandi; - curare il mantenimento delle relazioni dei detenuti con le loro famiglie; - segnalare alle autorità e agli enti competenti i bisogni delle famiglie dei detenuti che rendono necessari speciali interventi; - svolgere una funzione di raccordo tra tutti i soggetti coinvolti, pubblici e privati, per assicurare il più efficace e appropriato intervento in favore dei liberati e dei familiari dei detenuti. 4. L’art. 76 disciplina le attività del Consiglio di aiuto sociale per il soccorso e l’assistenza alle vittime del delitto, stabilendo che “il consiglio di aiuto sociale presta soccorso, con la concessione di sussidi in natura o in denaro, alle vittime del delitto e provvede all’assistenza in favore dei minorenni orfani a causa del delitto”. Dunque, il nostro ordinamento prevede una realtà che risponde a bisogni concreti, assiste chi ha sbagliato con un’azione collettiva e con la necessaria logica “di rete” per immaginare alternative rispetto alle forme di occupazione illecita che invece sono facilissime da trovare, soprattutto in quei contesti. È intuitivo come la sicurezza di una comunità passi non solo dalla “rieducazione” del detenuto ma anche dal suo reinserimento, che completa e mette in sicurezza la prima evitando che venga vanificata. Eppure la costruzione e la funzionalità di una rete alternativa alle pericolosissime forme di welfare mafioso all’evidenza non è tra le priorità del Paese. La meritoria iniziativa del Presidente Balsamo, se da una parte mette in luce una gravissima mancanza, dall’altra rappresenta un segno di speranza e un incentivo affinché, come prevede la legge, in tutti i Tribunali si attivino e siano operativi i Consigli di Aiuto Sociale. Rendere la pena anche un fattore di promozione di umana pare un obiettivo allo stato irrealizzabile, ma la traccia indicata dal Tribunale di Palermo va nella direzione di restituire dignità e alimentare la speranza come possibilità per tutti, compresi gli autori dei fatti più terribili, di un autentico riscatto, per il bene di ciascuno di loro e quello della collettività. Cosenza. Laboratorio di scrittura creativa per i detenuti quicosenza.it, 1 novembre 2021 Undici detenuti di alta sicurezza, un foglio di carta e una penna. Sono i protagonisti di “Liberare le storie”, laboratorio di scrittura creativa in carcere promosso a Cosenza dall’associazione di volontariato penitenziario LiberaMente e sostenuto nell’ambito del bando di progettazione sociale “Idee in movimento” del MLAC (Movimento Lavoratori di Azione Cattolica). Il progetto propone ai detenuti della casa circondariale di Cosenza un’azione di formazione non formale con l’obiettivo di arricchirli e migliorare le loro condizioni individuali, facilitando il superamento del senso di isolamento dovuto alla detenzione. Il laboratorio è curato dalla giornalista e scrittrice, Rosalba Baldino. “I partecipanti sono molto motivati - ha dichiarato Baldino - sentono di fare una cosa importante. Tutti partono da situazioni personali e culturali diverse, ma hanno in comune la voglia di scrivere storie, sono curiosi di scoprire a cosa serve la scrittura”. Soddisfatti per la replica di un progetto che ha funzionato già nel 2017 e che ha portato alla pubblicazione del libro “Controluce”, i vertici dirigenziali della casa circondariale che ne hanno riconosciuto l’altissima valenza trattamentale e che hanno registrato una forte volontà di partecipazione da parte dei detenuti. “La scrittura è come una voce che arriva da dentro, come un’elaborazione del pensiero - continua Baldino - è come se parlassimo ad una parte dimenticata della loro esistenza per rieducare alla bellezza, alla positività della vita”. Ogni lunedì, per dieci settimane, i detenuti incontrano Rosalba e insieme a lei lavorano sull’immaginazione e sulle tecniche di scrittura. Un’idea semplice, ma talmente affascinante da aver colpito i finanziatori che hanno deciso di sostenerla. “Vengono selezionate le proposte che hanno un buon impatto sociale e in cui è evidente un lavoro di rete. Nel caso di LiberaMente il progetto è stato valutato interessante dalla commissione e meritevole di essere sostenuto. È una piccola opportunità quella che noi diamo, ma fa in modo che la gente si metta insieme” - queste le parole di Tommaso Marino, segretario nazionale Movimento Lavoratori di Azione Cattolica - l’obiettivo è sostenere le persone che ne hanno necessità attraverso il finanziamento di questi progetti, ma anche valorizzare la capacità dei territori di progettare e creare professionalità proprio nel campo della progettazione”. Il bando Idee in Movimento nasce, infatti, con l’idea di valorizzare l’esperienza dei territori. In 15 anni sono stati 200 i progetti presentati e 60 quelli finanziati, tra cui quello di LiberaMente. La scadenza del prossimo bando, realizzato in collaborazione con Caritas Italiana, Ufficio Nazionale di Pastorale del Lavoro e Progetto Policoro è il 15 novembre. “Stiamo percorrendo da tempo questo filone culturale con progetti dedicati alla scrittura - ha affermato Francesco Cosentini, presidente di LiberaMente - questo progetto sarà replicato anche il prossimo anno per i detenuti della media sicurezza e ne abbiamo un altro in programma sulla scrittura autobiografica con l’esperta Carla Chiappini. I lavori di entrambi i percorsi troveranno spazio in un libro edito da Pellegrini”. Modena. Le detenute che scoprono la pallavolo per vincere la solitudine di Claudio Ianniello nonsprecare.it, 1 novembre 2021 Il progetto è nato nel carcere Sant’Anna, grazie a un accordo tra il Centro sportivo italiano (Csi) e la casa circondariale. Da qui si è esteso anche nelle altre regioni. La sfida con una squadra di mamme ex giocatrici. Quando si aprono le porte del carcere, quasi sempre, si chiudono quelle con il mondo esterno. Dal campo del carcere Sant’Anna di Modena si vede giusto un po’ di cielo. Eppure, dietro le mura di cemento della casa circondariale, colpo dopo colpo, si sente il rumore di un pallone da pallavolo. Con le mani, le detenute fanno muro per la loro squadra, cercando di abbattere i muri dell’isolamento e della monotonia. Grazie al Centro Sportivo Italiano e al Comitato di Modena, la pallavolo regala alle donne qualche ora di socialità aiutandole a scontare la propria pena. Il progetto si chiama “Il mio campo libero” ed è stato avviato dal Csi nelle carceri di tredici regioni italiane. Al Sant’Anna di Modena così come nelle altre case circondariali, lo sport di gruppo aiuta il processo di integrazione tra le donne che stanno scontando una pena. Il gioco di squadra aiuta a conoscersi e ad abbattere i muri dell’individualismo. Gli spazi angusti, la mancanza di privacy e quella degli affetti rendono sono ostacoli non semplici da superare. Tuttavia, “Il mio campo libero” si pone un obiettivo ambizioso: ridurre la recidiva e offrire un percorso di risocializzazione, nonostante la condizione di detenzione. Per spezzare la monotonia del carcere, una squadra di mamme, ex giocatrici, ha accettato di sfidare la squadra delle detenute, uscendone sconfitte. Un risultato inatteso, che ha spinto le ex atlete a chiedere una rivincita. Uno dei momenti più importanti della partita è stato il “terzo tempo”, fatto di chiacchiere e di una merenda comune. Le avversarie hanno preparato delle torte che hanno donato alla squadra di casa, consentendo loro di riassaporare i cibi di casa. Occasioni come queste non capitano tutti i giorni. Eppure, l’appuntamento con il campo di pallavolo diventa un collante che aiuta a vivere meglio una condizione difficile. Nei primi incontri i passaggi tra le giocatrici erano pochi ma con il tempo la situazione è cambiata e insieme ad essa anche i rapporti fuori dal campo. Il progetto ha favorito i momenti di condivisione e scambio tra le detenute preparandole, man mano, al processo di reintegrazione post-pena. “La Costituzione non odia”, piuttosto insegna come curare la febbre degli haters di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 1 novembre 2021 Il volume, che illustra anche le nuove risposte giuridiche alla violenza della rete, promosso da Università Statale di Milano e associazione “Vox”. La Costituzione è contro gli odiatori singoli e in gruppo. Continua ad essere un faro in questa epoca di urlatori e violenti (a parole e con i fatti). È questo il filo conduttore del libro “La Costituzione non odia. Conoscere, prevenire e contrastare l’hate speech on line” (Giappichelli, pp. 256, € 32), pubblicazione del Dipartimento di Diritto pubblico italiano e sovranazionale dell’Università degli Studi di Milano curata da Marilisa D’Amico e Cecilia Siccardi. Il volume nasce dalla collaborazione con l’associazione Vox-Osservatorio Italiano sui Diritti, che ha fatto un lavoro sul campo attraverso il progetto della “Mappa dell’intolleranza” finalizzato a conoscere i fenomeni più diffusi di discriminazione, i mezzi attraverso i quali si consumano e la loro localizzazione. Punto focale l’odio on line, attraverso i social network ed altri strumenti tecnologici. Le curatrici ed il team di ricercatrici che hanno firmato i quindici capitoli del libro si soffermano sugli aspetti giuridici del contrasto al linguaggio dell’odio diffuso attraverso i social network, sull’evoluzione normativa e sul raffronto con le esperienze di altri Paesi, come la Francia, dove il tema della discriminazione è una ferita che si apre in continuazione. Da dove nasce il titolo del libro? A spiegarlo sono proprio Marilisa D’Amico, ordinario di Diritto costituzionale e prorettore con delega alla Legalità nell’Università degli Studi di Milano, e Cecilia Siccardi, assegnista di ricerca in Diritto costituzionale nello stesso ateneo e ricercatrice di Vox-Osservatorio Italiano sui Diritti. “La Costituzione - evidenziano nella premessa del volume - nata proprio con l’intento di reagire ad un drammatico passato di violenza e discriminazione, come dimostra l’attenzione prestata dai costituenti all’elaborazione degli articoli 2 e 3, non può in alcun modo legittimare l’odio. È, quindi, nel principio di uguaglianza e nella tutela dei diritti inviolabili dell’uomo che va rintracciata la ratio delle misure volte a contrastare l’odio e le discriminazioni, nonché il limite alla libertà costituzionale di manifestazione del pensiero, di cui all’articolo 21 della Costituzione”. Gli approfondimenti contenuti nel testo non sono destinati soltanto a un pubblico di accademici. L’ambizione è quella di far conoscere gli studi condotti con Vox-Osservatorio Italiano sui Diritti ad una platea più ampia possibile, a partire dai giovani, dagli studenti e dagli insegnanti. Senza tralasciare le associazioni e gli amministratori, che per primi dovrebbero dare sempre un buon esempio con comportamenti improntati all’equilibrio e alla moderazione. L’odio on line si combatte e neutralizza prima di tutto con un cambiamento culturale. Gli haters sono solo apparentemente dei “forti”. Sono in realtà soggetti senza coraggio, che il più delle volte dietro l’anonimato si sentono protetti, convinti di non essere scoperti e perseguiti. Nel volume si spiega pure come le autorità nazionali si sono attrezzate per monitorare una serie di fenomeni nati nei social network e dai quali si diffondono gli hate speech. Tutto viene affrontato e analizzato con accuratezza, dettaglio normativo e chiarezza espositiva. Secondo Marilisa D’Amico, la Costituzione repubblicana è una valida barriera contro chi diffonde l’odio. E lo sarà ancora di più in futuro. I costituzionalisti partono da essa e la adattano alla quotidianità, caratterizzata dai crescenti fenomeni di odio sui social network. “Nonostante - afferma la professoressa D’Amico - la libertà di manifestazione del pensiero rappresenti certamente “la pietra angolare del nostro ordine democratico”, occorre chiedersi se la Costituzione possa rimanere indifferente di fronte alla crescita esponenziale di espressioni verbali a contenuto discriminatorio. La Costituzione, infatti, pur garantendo la libertà di manifestazione del pensiero non può in alcun modo legittimare l’odio”. Prima, dunque, di legislazioni di emergenza dettate da esigenze precise, la nostra Costituzione è il primo, grande argine contro le degenerazioni dell’intolleranza. È la Costituzione che “impone misure a carattere preventivo e, solo in casi di extrema ratio, cioè quando si dimostri che la parola può trasformarsi in azione di tipo violento, misure di tipo repressivo”. Da qui un concetto molto chiaro che rafforza la coerenza del messaggio e del dettato costituzionale. L’odio e la discriminazione possono essere combattuti non solo a colpi di divieti e sanzioni, ma con virtuose politiche di inclusione e integrazione. Nel rispetto della legge per tutti. In una società in cui si realizza la piena affermazione dei diritti umani, il virus dell’intolleranza può essere congelato, e una società democratica può effettivamente basarsi su stabili fondamenta. Il libro è dedicato a Nedo Fiano, testimone dell’Olocausto, e nonno di Nannarel Fiano, autrice del capitolo dedicato al linguaggio dell’odio in Germania con il quale si apre la sezione sui modelli stranieri e le proposte di legge. Ddl Zan, quando i partiti non ascoltano l’opinione dei cittadini di Ilvo Diamanti La Repubblica, 1 novembre 2021 Le differenze di posizione sulla legge contro l’omotransfobia sono più ridotte nella società rispetto a quanto appare in Parlamento: la norma piace al 60% degli italiani con punte del 70-85% tra giovani e under 40. Lo scenario politico italiano appare complicato. E destinato a complicarsi di più, se si pensa che, fra pochi mesi, questo Parlamento sarà chiamato a eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Tuttavia, non è facile governare quando al governo ci sono quasi tutti. Perché viene meno il confronto aperto fra maggioranza e opposizione. Il gioco delle parti alla base di una “democrazia normale”. Ma oggi tutti sono al governo. Salvo i FdI di Giorgia Meloni. E le differenze politiche si trasferiscono nella maggioranza. Talora, dentro gli stessi partiti. Così tutti agiscono guardando alle future elezioni. Che, per ora, nessuno vuole. Perché il Parlamento attuale cambierebbe profondamente. Tanto più dopo la riforma costituzionale approvata un anno fa, che ridurrà il numero dei parlamentari di oltre un terzo. Peraltro, gli orientamenti politici dei cittadini sono cambiati. Nel segno e nel senso dell’equilibrio e dell’in-stabilità. I sondaggi più recenti, infatti, (pre)vedono FdI, Pd e Lega intorno al 20%. Seguiti, a breve distanza, dal M5S. Ma si tratta, come si è detto, di un equilibrio instabile. Che rende rischioso per tutti andare a nuove elezioni. Peraltro, allo stesso tempo, è cresciuto il peso e il ruolo degli altri partiti. Che, secondo le stime elettorali, dispongono di una base elettorale minore, ma determinante, per costruire o smontare alleanze e coalizioni. Ci riferiamo non solo a FI, anche a IV di Renzi. E, visti i risultati delle recenti amministrative, ad Azione di Calenda. Così, ci muoviamo in una “campagna elettorale permanente”, che durerà ancora a lungo. Almeno, fino all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Per questa ragione, ogni tema di “interesse per l’opinione pubblica”, in questa fase, acquisisce maggiore e crescente “interesse politico”. Come il Ddl Zan, che nei giorni scorsi, in Senato, è stato bocciato E, dunque, bloccato. Nonostante, fra gli italiani, disponesse e disponga di un consenso ampio. Infatti, secondo i sondaggi condotti da Demos, nei mesi scorsi, circa il 60% dei cittadini si dice favorevole a questa Legge. Si tratta di un sostegno in calo rispetto allo scorso mese di maggio: 10 punti in meno. Ma rimane, comunque, maggioritario: 60%. Altre fonti autorevoli forniscono, al proposito, indicazioni diverse, ma coerenti. Un sondaggio di Ipsos, ad esempio, sottolinea come, secondo il 49% degli italiani (intervistati), il Ddl Zan sia una legge giusta. Mentre l’opinione contraria è condivisa dal 31%. Non pochi, ma molti meno rispetto a chi la approva. Tuttavia, questo tema divide profondamente i cittadini. Anzitutto, in base alla loro posizione politica. Fra i cittadini che si definiscono di Sinistra e di Centro-Sinistra, infatti, il sostegno al Ddl Zan è del 75-80%. Ma risulta elevato e maggioritario anche tra coloro che si collocano al Centro: 67%. Mentre si abbassa sull’altro versante dello schieramento politico. Soprattutto a Destra, dove scende sotto il 40%. Queste divergenze si confermano e si accentuano quando si valutano le preferenze di “partito”. Il favore per il Ddl Zan, infatti, passa dal 70-80% nella base del Pd, del M5S e di Italia Viva (nonostante la prudenza di Renzi), a misure più limitate — di poco sotto la maggioranza — fra gli elettori di Lega e FdI. Infine, tra chi vota per FI, si avvicina al 60%. Insomma, fra i cittadini le differenze appaiono molto più ridotte rispetto a ciò che emerge in Parlamento. E si allargano, semmai, quando si cambia prospettiva. La generazione, in particolare. Il favore verso il Ddl Zan, infatti, scende sensibilmente al crescere dell’età. Così si passa dall’82%, fra i più giovani (e all’85% fra gli studenti), al 70% fra i trenta-quarantenni, per scendere al 45% fra i più anziani, oltre i 65 anni. Tuttavia, il consenso appare diffuso e il dissenso limitato alle generazioni più anziane. È interessante, invece, osservare, una distinzione più profonda, quasi una frattura, emerga quando si considera l’approccio alla religione. Misurabile attraverso la frequenza alla messa. Allora le distanze appaiono evidenti. Perché i favorevoli, fra i praticanti più assidui, si riducono al 40%, coerentemente con le posizioni della Chiesa. Tuttavia, superano, per ampiezza, i “contrari”, seppur di poco (37%). Le distanze politiche emerse sul Ddl Zan, in altri termini, appaiono più profonde di quanto emerga nella società. Evocano, semmai, il richiamo a “fratture” tradizionali. Per giustificare e, se possibile, allargare le distanze fra i partiti. Inseguendo il passato. Visto che “nel presente” tutti stanno insieme. Uniti dalla difficoltà di guardare avanti. In questo tempo incerto e sospeso. Nel quale l’unico punto di riferimento comune è il Capo (del Governo). Migranti. Il burocrate gioca con le regole e la badante resta clandestina di Isabella De Silvestro Il Domani, 1 novembre 2021 A più di un anno dal varo della sanatoria per stranieri irregolari accettate solo 43mila domande di colf e badanti su 177mila. Secondo Ero straniero, a questo ritmo potrebbero servire 25 anni per esaurire tutte le pratiche. Gloria è una donna peruviana senza documenti che lavora come badante in un piccolo paese della provincia di Brescia. È passato più di un anno da quando ha avviato la procedura di emersione consentita dalla sanatoria varata tra le lacrime dal ministro dell’Agricoltura Teresa Bellanova all’inizio del 2020. La legge del governo Conte giallorosso prometteva di regolarizzare 220mi1a lavoratori stranieri tra badanti, colf e braccianti. Gloria non ha alcuna notizia sulla sua pratica ed è probabile che debba attendere ancora a lungo. Al 29 luglio scorso i regolarizzati nel settore domestico erano circa 43mila su 177mila domande, meno di un quarto. Schiavi dell’attesa La cosa più grave è che durante questa lunga attesa la famiglia che la impiega ha acquisito su di lei un potere assoluto: come molte altre lavoratrici straniere, Gloria è in balia di ricatti, minacce e violenze psicologiche del datore di lavoro che non esita a minacciarla di farle fallire la sanatoria. La donna è costretta in casa da un anno senza vedersi riconosciute ferie, malattie o giornate di riposo. Non può licenziarsi perché ha paura di vedersi negato il permesso di soggiorno. “Tengo duro, ma vivo prigioniera. Non appena avrò i documenti cercherò un altro lavoro”, dice con un tono insieme tenace e rassegnato. Non è un caso isolato. Molti sono i racconti di colf e badanti che dopo aver presentato la domanda di emersione sono state chiuse in casa o si sono viste ridotto preventivamente il salario in vista di un futuro contratto. A molte di loro i datori di lavoro hanno vietato di frequentare un corso di italiano, salvo poi usare la conoscenza stentata della lingua come pretesto per abbassare ulteriormente la paga. Altre raccontano di essersi infortunate sul lavoro e di essere state licenziate su due piedi perché ormai inservibili. Tutte azioni illegittime e sanzionabili, ma legittimate e non sanzionate perché colpiscono una categoria marginalizzata, spesso poco consapevole dei propri diritti e in molti casi priva di una qualsiasi rete di supporto o degli strumenti per far valere le proprie ragioni. “Quello del lavoro di cura è un settore particolare” spiega Giulia Capitani che si occupa di politiche migratorie per la fondazione Oxfam. Nell’ultimo anno si è occupata di monitorare l’andamento della sanatoria per la campagna Ero straniero, promossa dai Radicali italiani. “Quando il dipendente vive in casa del datore di lavoro e condivide gli spazi intimi della famiglia, subentra in alcuni casi una mentalità di stampo ottocentesco, quasi si sentisse di avere un servo a disposizione. La sanatoria ha alimentato questo genere di meccanismi perché ha ulteriormente sbilanciato il rapporto di potere, mentre i ritardi della burocrazia gettano decine di migliaia di persone in un limbo di incertezza e ricattabilità”. Se infatti una badante irregolare può almeno lasciare il posto di lavoro in cui viene maltrattata, chi ha avviato la pratica di emersione grazie alla garanzia del datore di lavoro sente di non potersi licenziare finché non ha ottenuto il permesso di soggiorno, per il quale in molti casi ha pagato il contributo forfettario di cinquecento euro che toccherebbe invece al datore di lavoro. Oltretutto non c’è alcuna garanzia che la pratica vada a buon fine. I ritardi inaccettabili e i rigetti ingiustificati sono imputabili ai malfunzionamenti e agli arbìtri della pubblica amministrazione. Le prefetture, che dovrebbero occuparsi delle 220mila pratiche di emersione, sono da tempo sotto organico. La pandemia non ha fatto che aggravare una situazione già segnata dalle lungaggini burocratiche. Quando a maggio 2020 è stata varata la sanatoria era già ben chiaro al ministero dell’Interno che si sarebbero dovuti assumere in tempi rapidi molti lavoratori interinali da distribuire nelle prefetture. Invece i primi interinali hanno iniziato a lavorare a marzo 2021 con un contratto di sei mesi che per 328 di loro è scaduto il 21 settembre e per gli altri 650 sta per scadere. Secondo le stime di Ero straniero, ai ritmi attuali le prefetture di Roma e Milano finiranno di esaminare le pratiche tra 25 anni. Il viceministro dell’Interno Matteo Mauri ha detto che gli interinali sono arrivati solo nel 2021 per un problema di risorse di bilancia La ministra Luciana Lamorgese, rispondendo a un’interrogazione parlamentare il 22 luglio scorso, ha dato la colpa alla pandemia. Solo che la sanatoria era stata pensata durante il primo lockdown, proprio per garantire a braccianti e badanti irregolari gli stessi diritti sanitari degli altri lavoratori. Secondo Lamorgese una misura pensata come risposta alla pandemia non è stata attuata per colpa della pandemia. I portavoce di Ero straniero sottolineano che peraltro si è scelto di fare didattica a distanza anche per i bambini delle elementari, e dunque si sarebbe potuta evitare la convocazione formale in prefettura per la procedura di emersione: in tempi normali si potevano convocare decine di persone alla volta, oggi non più di cinque o sei. E i ritardi crescono. “Io ci vedo dell’accanimento”, commenta Capitani, “non credo ci sia una volontà politica di far fallire la sanatoria. C’è però un atteggiamento arbitrario e pregiudiziale a livello intermedio, da parte di prefetture, questure, ispettorati territoriali del lavoro e aziende sanitarie. Spesso nei singoli uffici inventano di sana pianta procedure che ostacolano la regolarizzazione andando anche contro le circolari ministeriali. Un atteggiamento della burocrazia italiana uguale da anni nei riguardi delle persone immigrate”. Effettivamente, nella fase di verifica dei requisiti per il permesso di soggiorno, molti sono i casi di richieste illegittime e ostacoli ingiustificati. Uno dei requisiti per l’emersione è la presenza sul territorio italiano prima dell’8 marzo 2020: alcune prefetture accettano come prova un contratto di telefonia, altre non lo ritengono sufficiente; alcune prendono per buono un certificato medico, altre no. Eppure il Viminale ha preparato una lista di prove da ritenersi valide. Un’altra questione problematica riguarda l’idoneità alloggiativi, richiesta insensata e quasi sadica se si considera che le persone a cui è rivolta la sanatoria sono in molti casi braccianti che vivono nei ghetti o colf che condividono stanze affollate con altri lavoratori irregolari. Nonostante sia stato chiarito con una circolare ministeriale del 17 novembre 2020 che questo documento può essere presentato anche in un secondo momento, molte prefetture continuano a rigettare le istanze che non lo includono. Il sadismo burocratico Il punto è che questi assurdi vizi della burocrazia nazionale stavolta non fanno sorridere, perché portano a rigettare la domanda di regolarizzazione di migliaia di lavoratori, condannati così dal capriccio di un funzionario a restare nella clandestinità e nel lavoro nero, con tutto ciò che ne consegue in termini economici, legali, e ancor prima esistenziali. Secondo gli ultimi dati, resi pubblici dal Viminale il 29 luglio 2021, è stato rigettato il 10 per cento delle richieste di permesso di soggiorno nel settore domestico e di assistenza alla persona, 4mila su 42mila. Nel settore agricolo le domande rigettate si aggirano addirittura sul 30 per cento (1.500 rigetti su 6.500 domande esaminate). Un lavoratore che ritiene gli sia stata ingiustamente respinta la richiesta può fare ricorso al Tar, pagando una quota fissa di 300 euro, oltre alla parcella dell’avvocato. È chiaro che solo pochi potranno permettersi il ricorso: tutti gli altri si rassegneranno alla clandestinità. Giovanni Punzi, presidente dell’Anolf Brescia (Associazione nazionale oltre le frontiere), denuncia un’altra grave conseguenza della discrezionalità: “Per il rilascio della tessera sanitaria l’azienda sanitaria richiede alle persone in emersione di documentare lo stato di avanzamento della loro pratica. È una richiesta illegittima, nessuna circolare ministeriale la prevede. Ma in questo modo si nega il diritto alla salute, alla cura, all’assistenza a persone che ne hanno diritto”. Grazie a queste storture, una percentuale importante dei 220mila lavoratori in emersione è stata per molto tempo esclusa dalla campagna vaccinale, anche se, nel caso delle badanti, hanno lavorato senza vaccino a contatto con soggetti anziani e fragili. La mancata vaccinazione è tra l’altro un ulteriore motivo di abuso: ci sono datori di lavoro che impediscono alle badanti di uscire per incontrare amici e familiari per paura che contraggono il virus e contagino l’anziano assistito. Con una burocrazia che, capace di far impazzire gli italiani, scoraggia decisamente gli stranieri spesso in difficoltà con la lingua, per emergere dall’irregolarità diventa fondamentale imbattersi in uno sportello immigrazione particolarmente combattivo o in un sindacalista disposto a prendersi a cuore il singolo caso. Per chi si muove da solo restano solo l’esasperazione degli anni di attesa, i ricatti e l’esclusione sociale. Non si tratta solo di questioni di principio: “Senza documenti non posso affittare una casa, prendere la patente, trovare un lavoro dignitoso, pensare un giorno di rivedere mia figlia”, protesta Gloria, che ha già pagato più di seicento euro a uno dei tanti avvocati che illudono gli immigrati di poterli aiutare a velocizzare la pratica. Vittime anche gli italiani - Una burocrazia inefficiente e inaffidabile è un male in sé, ma in questo caso il danno che fa è più grave e concreto: relegare gli stranieri ad uno stato di clandestinità e miseria alimenta un bacino di lavoratori deboli e ricattabili, in una gara al ribasso delle paghe e dei diritti che, dopo vent’anni di criminalizzazione dell’immigrazione, avvelena anche l’aria che respirano i lavoratori italiani. La Polonia dà il via libera alla costruzione del muro anti-migranti al confine bielorusso di Monica Perosino La Stampa, 1 novembre 2021 110 chilometri lungo la frontiera orientale dell’Unione europea. Costerà 353 milioni di euro. Il Paese nega da settimane a Bruxelles un sopralluogo e ha approvato una legge che legalizza i respingimenti. Il Parlamento polacco ha approvato la costruzione di un muro al confine con la Bielorussia, per bloccare l’arrivo dei migranti. Il costo della struttura, che si estenderà per 110 chilometri lungo la frontiera orientale dell’Unione europea, è stimato in 353 milioni di euro. Il presidente polacco Andrzej Duda aveva già annunciato che avrebbe firmato la legge non appena fosse stata approvata dal parlamento. Da settimane Bruxelles attende l’ok delle autorità di Varsavia per un sopralluogo proprio lungo quella frontiera, dove dall’estate sono intrappolate alcune decine di migranti, almeno sette dei quali morti di stenti. “Fino ad ora non è stato possibile organizzare una visita alla frontiera. Stiamo ancora aspettando la conferma dalle autorità polacche per l’accesso”, ha spiegato pochi giorni fa un portavoce della Commissione europea. Il governo di Mateusz Morawiecki impedisce anche a organizzazioni non governative e media di avvicinarsi. Inoltre, nel Paese è passata una norma che - in contrasto col diritto internazionale e dell’Ue - legalizza i respingimenti dei migranti. L’emendamento, approvato dal Parlamento polacco il 14 ottobre, prevede che gli stranieri fermati dopo aver attraversato irregolarmente il confine, siano obbligati a lasciare il territorio, col divieto di ingresso nel Paese per un periodo compreso tra “sei mesi e tre anni”. Le autorità polacche possono inoltre “lasciare in sospeso” una domanda di asilo presentata da uno straniero che viene fermato subito dopo essere entrato “irregolarmente” nel Paese. “L’Ue intende proseguire nelle discussioni” con Varsavia “sulla legge sull’asilo polacca delle norme dell’Unione”, ha affermato il portavoce della Commissione europea. I rapporti con l’Ue, già da qualche tempo tesi, hanno visto nei giorni scorsi la Polonia condannata al pagamento di una multa da un milione di euro al giorno per non aver sospeso l’applicazione delle disposizioni nazionali relative alle competenze della Corte Suprema. Libia. Un’inchiesta Onu denuncia crimini contro i diritti umani: servono proposte politiche serie di Giovanni Casciaro Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2021 In Libia continuano con ferocia i crimini nei confronti delle persone migranti: “Atti di omicidio, riduzione in schiavitù, tortura, detenzione, stupro, persecuzione e altri atti disumani”. Tutti abusi praticati ed esibiti in modo da umiliare e sottomettere i prigionieri. Queste sono le violazioni dei diritti umani denunciate nel recente rapporto della missione d’inchiesta indipendente dell’Onu in Libia. E, per protestare contro questa inaccettabile condizione, da settimane migliaia di rifugiati sono accampati davanti alla sede di Tripoli dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Nel rapporto si afferma che i migranti sono detenuti per periodi indefiniti, senza la possibilità di opporsi legalmente alla detenzione, per cui “l’unico mezzo di fuga praticabile è pagare ingenti somme di denaro alle guardie o impegnarsi in lavori forzati o in favori sessuali”. Quindi, condizioni disumane imposte per provocare sofferenza e desiderio di utilizzare qualsiasi mezzo per la fuga. Alcuni migranti hanno ripetuto fino a dieci volte la drammatica esperienza: pagare le guardie, scappare, tentare la traversata, essere intercettati dalla guardia costiera libica, ritornare alla detenzione in condizioni dure e violente. Il tutto sotto il controllo delle autorità libiche, delle milizie e/o delle reti criminali. Su queste vicende, la missione d’inchiesta Onu intravede il verificarsi di crimini contro i diritti umani e la necessità di stabilire non solo le responsabilità libiche, ma anche quelle a carico di Stati terzi e di tutti coloro che ne sono coinvolti, direttamente o indirettamente. Il finanziamento e il supporto italiano alla guardia costiera libica è una palese forma di corresponsabilità. Inoltre, sono molteplici le prove, video e comunicazioni radio, che documentano la complicità dell’Unione Europea, con alla guida l’Italia e Malta, nei respingimenti per riportare i rifugiati verso l’inferno libico. Una vera vergogna per tutti quei cittadini europei che credono veramente nei diritti umani, nel rispetto della vita e della dignità delle persone. Intanto il leader della Lega Matteo Salvini si difende dall’accusa di aver effettuato, da ministro degli Interni, sequestri di persona nei confronti dei migranti, affermando di aver difeso i confini italiani. Non dice però che non fu la difesa da un agguerrito esercito straniero, ma da povere e inoffensive persone scappate dalle prigioni libiche e scampate alla morte nel Mediterraneo. E che dire della leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, anche lei come Salvini strumentalmente convinta devota, che continua a proporre blocchi navali. Chiede queste azioni militari per catturare o per affondare le barche dei migranti? È incredibile come forze che rivendicano le radici cristiane dell’Europa propongano muri, respingimenti, blocchi, azioni di polizia, odio e repulsione verso i poveri migranti. Vi è invece l’urgenza di proposte politiche serie che affrontino il complesso problema delle emigrazioni forzose in modo strutturale, incidendo sulle sue cause: la povertà nei cosiddetti “Paesi poveri”, la crisi ambientale e climatica, le emergenze sanitarie, i conflitti. Tutti problemi correlati a un modello economico mondiale ingiusto e insostenibile. In questo contesto risulta veramente meritevole l’azione delle Ong che continuano a prestare opera di salvataggio in mare, a fare quanto gli Stati europei dovrebbero fare. Mentre in tutta Italia sono numerose le associazioni, laiche e religiose, che, con una rete informale di aiuto ai migranti, attivano la raccolta e distribuzione di cibo e abiti, la possibilità di un rifugio, aiuti per valicare le frontiere limitando il pericolo di morire. Pertanto, anche con il rischio di essere processate e subire condanne, sono tante le persone, come Mimmo Lucano, che si prodigano a portare aiuto e vicinanza umana ai migranti, salvando così anche il nostro senso di umanità. Queste persone meritano tutto il nostro sostegno. Niger. Nel Sahel vige il totalitarismo: della paura, della miseria e del dio denaro di Mauro Armanino* Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2021 Pure noi qui, nel nostro piccolo, ci stiamo organizzando per avvicinarci a totalitarismi ben più importanti e affermati altrove. Come per altre realtà, più volte evidenziate, il nostro totalitarismo è di sabbia. Cosi come la politica, la giustizia, l’educazione formale, l’economia e la vita stessa. È ancora lei, la sabbia, a caratterizzare i matrimoni, gli appuntamenti mancati, molte delle amicizie e la vita sociale in generale. È stato dichiarato lo stato di urgenza in varie regioni del Sahel. Ciò implica, in queste zone, una drastica limitazione all’uso delle motociclette, essendo queste uno dei mezzi più utilizzati dai Gruppi Armati Terroristi per seminare morte e desolazione trai contadini locali. I banditi si sono adattati e, per esempio in uno degli ultimi massacri che ha insanguinato la zona delle ‘tre frontiere’, sembra abbiano utilizzato persino i dromedari. Si è arrivati all’assurdo che, in definitiva, quasi solo i terroristi utilizzavano, impunemente, le motociclette e i contadini si arrangiavano con gli asini o con le carriole per trasportare i malati al dispensario più vicino. Un camion pieno di legna da ardere, raccolta abusivamente dai contadini per uso della cucina della città, è stato bruciato ieri nei campi. I nuovi padroni della zona hanno proibito di farlo. In molti villaggi di questa e di altre aree, la gente vive nel terrore. Uccisioni e rapimenti sono totalitari. Il primo e frontale totalitarismo, dalle nostre parti, è comunque quello della miseria. Provocata, seminata e infine raccolta in tutti questi anni, soprattutto tramite la violenza armata. Nella zona citata, a circa 150 chilometri dalla capitale Niamey, sono oltre 600mila le persone le persone che hanno dovuto fuggire case, campi e bestiame rubato e poi venduto altrove. Cresce in tempo reale l’insicurezza alimentare che tocca milioni di persone nel Niger e molte più nel Sahel. La miseria è a sua volta la figlia privilegiata del dio denaro che, con autorevolezza totalitaria, è il principale e ineguagliato colonizzatore dell’immaginario. Non da oggi infatti, il totalitarismo del denaro si è affermato come un monopolio senza concorrenti di rilievo. Le guerre, le armi, le urgenze umanitarie, i Piani di Aggiustamento Strutturale, l’accaparramento delle risorse, i colpi di Stato e le ideologie religiose non sono altro che l’espressione e la conseguenza dell’assunzione del dio denaro come la totalità della storia. Troppo tardi ci si accorge che questo tipo di dio non è altro che sabbia rubata al vento della spietata indifferenza del sistema verniciato di morte. Da questi due totalitarismi, quello della miseria generata e da quello del denaro ne scaturisce per tragico destino uno peggiore. Si tratta del totalitarismo della banalizzazione di tutto quanto è fragile e inutile, appeso alla sacralità delle parole e dei corpi affidati alla sabbia dei cimiteri senza nome del deserto o del mare. La banalizzazione della sofferenza e della vita di chi non trova abbastanza voce per essere riconosciuto come umano. Il totalitarismo di vite mai vissute eppure uniche. La banalizzazione totalitaria del reale, tradito e manipolato dalla quotidiana menzogna da chi non importano i fatti e i volti. Il totalitarismo dei confinamenti, le distanze sociali e la banalizzazione dell’utopia del poeta e dell’orizzonte incerto dei profeti. Tra i citati, il totalitarismo della banalità è il più mortifero perché svuota dall’interno il soffio di eterno che risale al primo bacio tra l’umano e il divino in ogni creatura. Rimane infine una maschera tenuta assieme da apparenze barattate in cambio di un’impaurita sicurezza. Un totalitarismo che banalizza quanto accade tra uomo e donna quando germoglia, per causalità, un nuovo destino di alleanza. Anche da noi, nel Sahel ci stiamo organizzando per proporre, a chi vorrà intenderlo, l’unico totalitarismo che sentiamo come nostro. Un totalitarismo di sabbia che le lacrime di un bambino trasformeranno in un albero fiorito. *Missionario, dottore in antropologia culturale ed etnologia