Covid in carcere, ricomincia a diffondersi il virus e il sovraffollamento cresce di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 novembre 2021 Nel carcere di Taranto con 32 detenuti contagiati, mentre nei penitenziari italiani cresce il disagio per l’aumento del sovraffollamento. La diffusione del Covid 19 sta ancora mettendo a dura prova l’intero Paese e cominciano a spuntare nuovi focolai nelle carceri. Per ora, nulla da destare allarme. Ma si accende di nuovo l’attenzione per il carcere di Taranto con 32 detenuti infetti. Il dato del focolaio nel carcere tarantino sembra destinato ad aumentare con gli screening successivi e che interesseranno anche il personale. Fra quest’ultimo, infatti, fino a lunedì scorso, vi era un solo appartenente alla Polizia penitenziaria affetto da Covid. L’Osap: si registrano anomalie tra le Asl per la gestione dell’emergenza Covid - L’Osap, il sindacato di polizia penitenziaria, mette in luce “le proteste che quotidianamente si sollevano dai poliziotti penitenziari pugliesi in ordine alla mancata applicazione attuazione delle procedure di prevenzione e degli screening sanitari finalizzati ad accertare eventuali positività al virus, dal quale - affermano Pasquale Montesano e Ruggiero Damato, dell’Osap - si registrano penose anomalie tra le Asl territorialmente competenti per le inottemperanze in tema di relazione tra le parti nella gestione dell’emergenza e gli effetti del Covid 19 presso le strutture penitenziarie, in particolare l’Asl di Taranto”. Sul caso interviene anche Gennarino De Fazio, Segretario Nazionale della Uilpa Polizia Penitenziaria. “Da quanto trapela - spiega il sindacalista - molti dei detenuti cui è stata riscontrata la positività al Covid, per lo più asintomatici o paucisintomatici, avrebbero completato il ciclo vaccinale, ma come sta del resto avvenendo in tutto il Paese, specie quando è passato del tempo dalla vaccinazione, ciò non impedisce il contagio. Soprattutto, non aiuta la prevenzione il persistente sovraffollamento carcerario, che nel penitenziario della città dei due mari è particolarmente pesante con 680 detenuti presenti a fronte di 500 posti. Fra i ristretti, peraltro, più di 100 non sarebbero vaccinati”. La Uilpa: sarebbe opportuno che il Dap indicasse il numero dei ristretti immunizzati ed effettivamente presenti in carcere - Segnala ancora il segretario della Uilpa De Fazio: “A tal proposito sarebbe assolutamente opportuno che il Dap, anziché diffondere il numero delle dosi di siero anti-covid somministrate ai detenuti dall’inizio della campagna vaccinale (ricomprendendo dunque anche quelle iniettate a detenuti poi scarcerati e, di contro, non conteggiando coloro che hanno fatto ingresso in carcere dopo essersi vaccinati), indicasse il numero dei ristretti immunizzati ed effettivamente presenti in carcere. Se si pensa che ogni mese, in periodo pandemico, escono dal carcere circa 2.500 detenuti e ne entrano in maggior numero, tener conto delle dosi somministrate in quasi un anno, senza peraltro sapere se si tratta di vaccini doppia o mono dose, è assai poco significativo”. Ma il sindacalista De Fazio accende ancora l’attenzione sulle misure deflattive finora non varate tramite un eventuale decreto carcere: “Sarebbero necessarie e consone per un Paese civile concrete misure deflattive della densità detentiva la quale, come riconosciuto anche dalla ministra Cartabia, senza che però a questo siano conseguite particolari iniziative tangibili, sta tornando a crescere in maniera molto preoccupante”. Il punto nodale è effettivamente questo. Il sovraffollamento è in costante crescita come ha osservato recentemente il Garante nazionale. La commissione per l’emergenza carcere presieduta dal giurista Marco Ruotolo dovrebbe terminare i lavori per il 31 dicembre. Ma poi le proposte dovranno essere vagliate dal Parlamento e i tempi potrebbero allungarsi. Nel frattempo, però, il disagio cresce. La telemedicina come miglioramento dell’accesso alle cure nelle carceri di Isabella Ferraro mediatime.net, 19 novembre 2021 “Il carcere è un luogo malsano e le persone detenute hanno spesso bisogno, anche a causa dei contesti di provenienza, di interventi di cura rilevanti ed urgenti. Ma ancora oggi ci sono troppi ostacoli per un dignitoso diritto alla cura”. È la denuncia di Alessio Scandurra dell’Osservatorio diritti e garanzie Associazione Antigone, nel suo intervento in occasione dell’evento sul tema “L’ecosistema integrato della Digital Health nei diversi istituti” - La telemedicina e il teleconsulto come miglioramento dell’accesso alle cure in regime di restrizione”, che si è svolto oggi a Roma. Scandurra ha evidenziato che “nelle strutture penitenziarie manca il personale e le risorse adeguate per garantire all’interno tutti i servizi necessari e non è facile organizzare scorte e traduzioni per portare fuori i detenuti. Inoltre non tutte le carceri sono vicine a un ospedale e molti grandi istituti, come Gorgona, sono piuttosto isolati. In un quadro simile la telemedicina, ed in generale un rafforzamento di tutti i servizi digitali, dovrebbe essere scontato, ma nella realtà il carcere vive ancora una anacronistica arretratezza informatica”. La convention ha avuto l’obiettivo di avviare un dibattito su un tema importante come quello della telemedicina e del teleconsulto all’interno delle carceri italiane, ma anche nelle Rsa, e sul contributo che questi nuovi strumenti possono apportare per migliorare la qualità di cura e della salute dei detenuti e degli anziani. Dato allarmante di partenza è che il 70% dei detenuti ha almeno una malattia. Il 70% fuma, quasi il 45% è obeso o sovrappeso, oltre il 40% è affetto da almeno una patologia psichiatrica, il 14,5% da malattie dell’apparato gastrointestinale, l’11,5% da malattie infettive e parassitarie, circa il 53% dei nuovi detenuti è stato valutato a rischio suicidio (Fonte DAP concessi da Antigone). Ad oggi lo Stato spende oltre 8 miliardi per l’amministrazione della giustizia e il 35% di queste risorse sono destinate al carcere che, attualmente, ospita circa 53.000 persone, un anno fa erano oltre 61.000. Tra il 2017 e il 2021, il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (DAP) è cresciuto del 18,2% passando da 2,6 a 3,1 miliardi, una cifra che batte ogni record negli ultimi 14 anni e rappresenta il 35% del bilancio del ministero della Giustizia. Entrando nel dettaglio di alcune voci si nota che, rispetto al 2020, aumentano i fondi, tra gli altri, per il funzionamento del servizio sanitario e farmaceutico, il mantenimento detenuti tossicodipendenti presso comunità terapeutiche (da 152 a 168 milioni), 4,5 milioni sono destinati a professionisti psicologi per le attività di osservazione e trattamento dei detenuti (fonte XVII rapporto sulle condizioni di detenzione Ass. Antigone). Alcune delle criticità più evidenti del Ssn penitenziario sono la disomogeneità delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura, riabilitazione; la farraginosità, obsolescenza e lentezza delle procedure per l’erogazione delle prestazioni sanitarie; l’inefficiente programmazione della spesa sanitaria e assenza di dati statistici sul “fabbisogno di salute”. Dal confronto è emerso che l’uso telemedicina e del teleconsulto può contribuire in maniera determinante ad abbattere le barriere geografiche e temporali, facilitare la comunicazione e l’interazione tra il medico e il paziente, e più in generale per raggiungere un maggior numero di persone, comprese quelle che vivono in zone non dotate di adeguate strutture sanitarie, assistere i malati cronici o anziani direttamente a casa, eliminare le lunghe liste di attesa riducendo l’accesso a strutture già affollate e risparmiando quindi sui costi. Il moderatore Giuseppe Assogna (presidente Società Italiana per Studi di Economia ed Etica sul Farmaco e sugli interventi Terapeutici), ha rilevato che, tra le barriere all’accesso della telemedicina, c’è la questione che “i sanitari non si sentono ancora sicuri nell’utilizzo delle tecnologie digitali per erogare prestazioni sanitarie, inoltre il sistema sanitario è in grave ritardo nella definizione dei processi organizzativi necessari, anche per la lentezza nella formulazione di norme specifiche di settore”. Giuseppe Emanuele Cangemi (vicepresidente Consiglio Regionale Lazio), ha ricordato “fui il primo rappresentante istituzionale in veste di assessore regionale a promuovere e portare nelle carceri del Lazio insieme al Garante dei detenuti un progetto pilota di telemedicina, in quella occasione i detenuti dell’istituto Regina Coeli affetti da problemi cardiaci hanno potuto contare su un nuovo servizio di telemonitoraggio e teleconsulto specialistico gestito da una struttura di eccellenza, il Dea cardiologico dell’ospedale San Giovanni di Roma”, ha poi evidenziato che “occorre creare un fascicolo sanitario elettronico e una cartella clinica digitale e mettere in funzione una piattaforma informatica a livello nazionale che consenta ad Asl e istituti di detenzione di dialogare e avviare un servizio di teleassistenza in ambito carcerario, sia adulto che minorile”. Sergio Pillon (coordinatore della trasformazione digitale ASL di Frosinone), ha spiegato che “la Telemedicina negli istituti penitenziari funziona bene solo se è una costola della Telemedicina dell’azienda sanitaria che eroga i servizi clinici, con gli stessi meccanismi con cui vengono offerti sul territorio” e ha poi sottolineato come la telemedicina “abbia un ruolo importantissimo per gli aspetti psichiatrici. Stiamo sviluppando un progetto pilota per le REMS (Residenze per Esecuzione in Misure di Sicurezza) che, tramite un sistema di Teleconsulto, consente di avere uno psichiatra presente anche dal suo smartphone H24 che interagisce con il paziente e con gli infermieri presenti nella struttura. Parallelamente stiamo avviando un percorso di teleconsulto psichiatrico e cardiologico per gli istituti penitenziari della nostra ASL”. La senatrice Maria Rizzotti, in rappresentanza dell’Associazione di iniziativa Parlamentare e Legislativa per la Salute e la Prevenzione presieduta dal Sen. Antonio Tomassini, che ha patrocinato l’incontro, ha rilevato che si si occupa di questo tema dal 2017 e ha riconosciuto che “nel privato sono stati fatti passi più veloci nella digitalizzazione” e che “la telemedicina deve entrare nel sistema medicina territoriale e tutti i sistemi sanitari dovranno ragionare con lo stesso criterio”. La Rizzotti ha poi sottolineato che: “il PNRR con il contributo di 7 miliardi di euro apporterà sicuramente numerosi benefici allo sviluppo delle reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale”. “Ergastolo ostativo, il testo punta a conservare il fine pena mai” di Valentina Stella Il Dubbio, 19 novembre 2021 La dem Bruno Bossio è critica sulla norma approvata in Commissione anche dal Pd. “Si vuole far credere che dare piena attuazione alla decisione della Consulta voglia dire in pratica liberare i mafiosi. Non è così”. È preoccupata ma allo stesso tempo speranzosa l’onorevole del Partito Democratico, Enza Bruno Bossio, in merito al testo base per il superamento dell’ergastolo ostativo, votato giovedì in Commissione Giustizia della Camera: “Purtroppo richiama in gran parte la proposta dell’onorevole del Movimento Cinque Stelle, Vittorio Ferraresi, che punta a neutralizzare la possibilità di accedere ai benefici, a conservare in una situazione di fine pena mai gli attuali 1250 detenuti ostativi e quelli che verranno. Quindi più che rispondere alle esigenze e alle indicazioni della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con questo testo si vuole intraprendere la strada per neutralizzarle”. La Corte Costituzionale, aggiunge Bruno Bossio, “ci dice che occorre intervenire valutando il singolo detenuto, sottoponendo a un rigoroso vaglio da parte della magistratura di sorveglianza non solo la condotta inframuraria o il percorso trattamentale del detenuto, quanto approfondimenti penetranti personologici e soprattutto di eventuali collegamenti con la criminalità organizzata e il rischio di un pericolo concreto. Senza rinunciare a un procedimento istruttorio che verifichi i possibili collegamenti attuali con l’organizzazione criminale. Invece con il testo base l’onere della prova è tutta a carico del detenuto e questo è sbagliato, soprattutto perché incostituzionale”. Per la dem Bruno Bossio “si sta creando una narrazione sbagliata intorno a coloro che, come me, stanno lavorando per. Si crede che questo voglia dire fare tana libera tutti e quindi in pratica liberare i mafiosi. Non è così. Si vuole semplicemente concedere la possibilità di accedere ad un beneficio, previa accurata istruttoria”. Quello che alla fine conta sono i numeri in Parlamento. Il testo base è stato votato da tutti, tranne Fdi. La linea sembra tracciata: “Io spero di no - dice Bruno Bossio - Ci saranno le audizioni e l’opportunità di presentare gli emendamenti (scadenza 3 dicembre, ndr). Io penso che il Pd abbia sbagliato a votare questo testo, troppo preoccupato della narrazione che ho appena denunciato. Secondo loro legiferare in base a quanto prescritto dalla Consulta significa smantellare, come riferito da qualche procuratore in audizione, la lotta antimafia in Italia. Ribadisco: non è così”. A proposito di magistrati intervenuti in audizione era stato proprio il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, a dire: “Abbiamo letto il disegno di legge proposto dall’onorevole Bruno Bossio: è apprezzabile, si muove esattamente in linea con quelle che sono le indicazioni della Corte Costituzionale, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ossia superare la presunzione assoluta della collaborazione come unico modo per accedere ai benefici”. Eppure il Comitato ristretto all’interno della Commissione ha fatto un’altra scelta nell’adottare il testo base, ignorando, forse per la prima volta, il parere del vertice della magistratura associata che aveva anche criticato in più punti la proposta Ferraresi. “Sto valutando se presentare un’altra proposta di legge che coincide con il lavoro fatto qualche anno fa sul tema dal professor Glauco Giostra - conclude Enza Bruno Bossio. Certo, a questo punto, sarebbe stato meglio se la Corte Costituzionale avesse deciso senza lasciare lo spazio a questo Parlamento che o non deciderà entro un anno, e quindi la palla passerà nuovamente alla Consulta, o emanerà una legge che va contro i dettami della Corte, e quindi verranno sollevate nuove questioni di incostituzionalità. Io comunque presenterò emendamenti migliorativi e spero lo facciano anche i miei colleghi. E ripongo fiducia nella ministra Cartabia affinché possa fornire un parere sulla questione in linea con lo spirito della Corte che lei stessa ha presieduto”. Antigone: “Il testo base approvato ieri è lontano dalle indicazioni della Consulta” “Ieri la commissione Giustizia della Camera dei Deputati ha approvato un testo base di riforma dell’ergastolo ostativo. La prima cosa che salta all’occhio è quanto questo non appaia in linea con quanto prescritto della Corte costituzionale e, al contrario, rischia di rendere, se approvato, più difficile di quanto già non sia oggi l’accesso ai benefici penitenziari. Il testo approvato ieri contiene, infatti, una riscrittura peggiorativa della disciplina vigente: alza il numero di anni di pena da scontare prima di poter accedere alla liberazione condizionale da 26 a 30; con una forma meno diretta, ma prevede comunque un (inammissibile) onere della prova a carico del detenuto rispetto alla recisione del legame con l’organizzazione criminale; non riscrive in senso garantista l’intera disciplina dell’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario. Qualora questo testo fosse approvato, a nostro parere, lascerebbe un evidente conflitto con il contenuto della decisione della Consulta, che aveva già accertato l’incostituzionalità della disciplina vigente. Antigone, di conseguenza, si augura che la commissione Giustizia adotti un testo più coerente sia con le decisioni della Corte costituzionale, sia con quelle della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”. Queste le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone. Dare speranza agli ergastolani perché il carcere non sia più “vendetta pubblica” di Tano Grasso L’Espresso, 19 novembre 2021 La costruzione di una società senza criminalità organizzata inizia dietro le sbarre. Ma si deve rispondere al delitto con il diritto e la rieducazione. Come spiega il saggio di Bortolato e Vigna “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”, Laterza, pp.176. euro 14. Un suggerimento per i parlamentari che nei prossimi mesi devono approvare una nuova legge sull’ergastolo ostativo dopo l’ultimatum della Corte Costituzionale: leggere il libro “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia” (Editori Laterza) di Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, e di Edoardo Vigna, giornalista del Corriere della Sera. Gli autori, nelle 148 pagine di un libro di agile lettura anche per chi non sa nulla di ordinamento penitenziario, hanno la capacità di condurci per mano sino a farci vedere dal di dentro la vita carceraria nella sua crudeltà e irragionevolezza; per poi indicare i necessari miglioramenti e, con uno sguardo lungo, proporre, nell’ultimo capitolo, qualche ipotesi per superare i limiti del modello carcero-centrico. Preliminarmente a ciascuno di noi è richiesto lo sforzo di superare quella soglia invisibile, che non è quella dei muri, ma quella della rimozione del problema: non considerare il carcere anche affare nostro, allo stesso modo in cui nella testa di qualcuno la detenzione non è altro che la segregazione sociale dei reietti, allontanati dalla nostra vista e vita. Ma così non è e non può essere perché, in primo luogo, “non esistono destini separati” (p. 16). Farsi carico dei destini di chi è “dentro” è interesse di chi è “fuori” molto più di quanto si possa immaginare. Intanto, a parte gli ergastolani, espiata la pena tutti i detenuti tornano a vivere in mezzo a noi: “Cos’è che vuole, allora, il cittadino? Vuole che una persona quando esce dal carcere sia peggiore o migliore di come è entrata?” (p. 10). Il problema, tutt’altro che semplice, è la recidività, il rischio che una volta fuori si torni a delinquere; e questo non dipende per nulla dalla durezza delle pene. Bortolato e Vigna presentano alcuni dati a partire da quello più drammatico di sette detenuti su dieci che tornano a delinquere, che diventano due su dieci quando “hanno espiato la parte finale della pena in misura alternativa” (p. 15), per crollare all’uno per cento tra chi, in cella o fuori, ha lavorato. Ma “solo a tre detenuti su dieci viene offerta tale possibilità” per effetto della profonda divaricazione tra quella che è la concreta vita carceraria e la finalità rieducativa della pena: il risultato della risocializzazione del detenuto va costruito con il trattamento penitenziario e rieducativo. Ad esempio, i permessi premio servono “a preparare gradualmente, negli anni, il detenuto all’uscita definitiva” (p. 130). Voglio introdurre una personale riflessione autocritica. In trenta anni di militanza antimafia, con molti colleghi delle associazioni antiracket, abbiamo contribuito, a volte anche direttamente, con le denunce, le testimonianze, le costituzioni di parte civile, alla condanna di migliaia di mafiosi. Dopo le sentenze abbiamo considerato chiusa la partita con quegli imputati, del tutto indifferenti al loro destino carcerario, se non per invocare una rigorosa applicazione del carcere duro (art.41 bis dell’ordinamento penitenziario) a tutela della nostra stessa sicurezza. Ma è stato giusto considerare esaurito così il nostro impegno? Credo, al contrario, che proprio per rendere più efficaci le nostre battaglie abbiamo l’obbligo di occuparci anche di ciò che accade in carcere e come si realizzano i percorsi di rieducazione delle persone che abbiamo fatto condannare. Credo si possa, senza attenuare in alcun modo la fermezza contro ogni forma di impunità, interessarsi ai diritti dei detenuti (la pena toglie la libertà personale e di movimento, “non può togliere una serie di diritti che andrebbero comunque garantiti”, p. 77), anche di una parte dei mafiosi, per farsi carico dei percorsi di risocializzazione. La “Costituzione parte dal presupposto che nessuno è irrecuperabile” (p. 9) e indica la finalità rieducativa della pena (più opportunamente definita “risocializzazione” e “reinserimento sociale”, p.20): il detenuto una volta espiata la pena può reinserirsi nella società senza rischi per gli altri. L’idea della pena come “vendetta pubblica” allontana l’obiettivo, essa “di per sé è intrisa di violenza perché risponde alla stessa logica di chi ha commesso il reato” (p. 64). È questo il terreno su cui si gioca una delle partite decisive anche nel contrasto alle mafie: la posta è l’alterità dei valori dello Stato democratico, il porsi su un piano distinto da chi delinque, non usare le stesse modalità di sopraffazione. Il detenuto deve essere considerato come persona con una sua dignità: “Se lo Stato tratta la persona nello stesso modo in cui il condannato ha trattato la sua vittima si rende uguale a lui e perpetua quella sopraffazione che è stata alla base del reato” (p. 13). È la grande lezione di Leonardo Sciascia. In un articolo del 1986, criticando l’antimafia del fascismo ai tempi del prefetto Mori che “aveva soltanto anestetizzato la mafia”, lo scrittore sottolineava il limite di fondo: “Ci voleva altro” per estirpare la mafia, “ci voleva, per dirla semplicisticamente, più diritto: nel senso che bisognava mettere i siciliani nella condizione di scegliere, appunto, tra il diritto e il delitto e non tra il delitto e il delitto”. In una parte del mondo dell’antimafia viene spesso teorizzato il principio dell’irrecuperabilità assoluta dei mafiosi. Anche se la “rieducazione” funziona solo in pochi casi, è indispensabile promuoverla. È uno strumento decisivo nel confronto dei valori, per realizzare una possibile strategia di conquista culturale, di riduzione del consenso sociale delle mafie. E poi i mafiosi non sono tutti uguali. Non c’è dubbio che nei confronti di molti capomafia non funziona per nulla e la pena, giustamente, “si riduce alla sua mera funzione retributiva: una pura afflizione, un contenimento a scopo di difesa sociale” (p. 15). Pena certa, spiegano gli autori, non vuol dire “pena fissa”, ma che “deve essere predeterminata in maniera conoscibile”. La funzione rieducativa significa “contrasto alla neutralizzazione, alla incapacitazione, cioè al tentativo, che ha il carcere come istituzione totale, di passivizzare il suo paziente, di neutralizzarlo, di renderlo incapace” (p. 87). E così veniamo al tema dell’ergastolo ostativo: la presunzione assoluta, il fatto che un soggetto sia ritenuto pericoloso in quanto tale, contraddice la funzione della pena stabilita nell’articolo 27 della Costituzione. Ognuno deve essere valutato individualmente. La Corte europea dei diritti dell’uomo che si è occupata dell’accesso ai benefici carcerari, con la sentenza del 2019, sottolinea che “la personalità del condannato non resta congelata al momento del reato commesso” (§ 125); la presunzione assoluta di pericolosità impedisce al detenuto di potersi riscattare perché “collega la pericolosità dell’interessato al momento in cui i delitti sono stati commessi, invece di tener conto del percorso di reinserimento e degli eventuali progressi compiuti dalla condanna” (§ 128). Da parte sua la Corte Costituzionale, pur riconoscendo che la pena può avere una funzione retributiva e di deterrenza e di difesa sociale, ammonisce che “nessuna di queste funzioni può mai sacrificare quella principale, cioè rieducare” (p. 88). La revisione critica del detenuto non vuol dire necessariamente ammissione di responsabilità e collaborazione con la giustizia: “Significa”, spiegano gli autori, “partire da una riflessione su quanto sta scritto nella sentenza di condanna” (p. 89). È bene precisare che nessuno sarà scarcerato a seguito di questa pronuncia (e della eventuale legge di recepimento). La Corte prevede la scarcerazione, per decisione dei giudici di sorveglianza, solo al termine di un rigoroso procedimento di verifica “sul contesto sociale esterno” e solo dopo aver acquisito i pareri delle DDA e della DNA e del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica (a cui partecipano anche i rappresentanti delle forze di polizia). Non è vero che possa essere sufficiente “una regolare condotta carceraria”, è indispensabile dimostrare l’assenza di collegamenti in atto con l’organizzazione criminale e l’impossibilità di ripristinarli. Una cosa è il detenuto al momento del delitto e della condanna, altro può essere dopo decenni di espiazione in carcere: per esperienza sappiamo che per una parte degli ergastolani mafiosi e per la totalità dei capomafia il problema non si pone; ma per gli altri si ha il dovere, una volta superato l’ostacolo della “presunzione assoluta”, di verificare caso per caso. A partire dalla prima pronuncia della Cedu e poi della Corte Costituzionale si è sviluppato un vivace dibattito all’interno del mondo antimafia, spesso con dure accuse (“Cancellati 150 anni di antimafia, i boss esultano”) oppure bollando “le anime belle” progressiste e garantiste come motivate da “interessi inconfessabili o anche soltanto per seguire la moda”. Se come assai chiaramente ha spiegato Bortolato, a proposito di alcune scarcerazioni nel momento più critico della pandemia, il principio rieducativo “in buona sostanza [..] ci difende dal populismo penale” (p. 87), “tutelare i diritti dei detenuti non significa cedere alla criminalità ma è anzi il miglior antidoto con cui combatterla” (p. 140). Esistono idee discordi, ma tutte meritevoli di considerazioni e rispetto; l’antimafia non può che essere plurale e c’è chi, come me, è d’accordo con Gherardo Colombo: “Credo che il sistema ‘carcere e basta’ non garantisca la sicurezza dei cittadini”. A volte ho l’impressione che si tenda confondere il mezzo con il fine. La detenzione, per quanto possa essere importante nel contrasto alle mafie, è però solo un mezzo, uno dei mezzi. Il fine è la liberazione dalla mafia, la fine della mafia, e per raggiungere questo obiettivo è indispensabile impedirne la riproduzione del fenomeno: con le sentenze si mettono in carcere i mafiosi, non si elimina la mafia. Per riuscirci bisogna saper interloquire anche con quei giovani nati e cresciuti dentro o ai margini del mondo mafioso, offrendo loro la forza della nostra alterità, la forza del diritto. Bortolato ci ricorda che c’è qualcosa che “può più delle sbarre” (p. 40). È l’immedesimazione con la vittima: nel momento dell’atto il colpevole non pensa alla vittima; il percorso rieducativo passa anche attraverso questa consapevolezza al punto da indurre il detenuto ad attivarsi per riparare il danno; l’immedesimazione con la vittima può “essere più efficace della pena detentiva in sé: il carcere ritrova una sua utilità” (p. 40). Ed ecco le domande poste nel suggestivo ultimo capitolo del libro: “Può esserci un modello di giustizia alternativo alla giustizia penale così come la intendiamo? […] Un modello che vada oltre l’antico canone retributivo di partenza ma anche oltre quello rieducativo contemporaneo?” (p. 143). Escludendo alcuni pochi e gravissimi reati, mafia, omicidio, violenza su donne e bambini, si apre lo scenario della giustizia riparativa, la pena che serve a riparare l’offesa. Non è un’utopia, ma il tentativo di rispondere ad una necessità. Basta bimbi in carcere, presentata con Siani una pdl per case famiglia paololattanzio.it, 19 novembre 2021 Una proposta di legge per superare l’istituto degli Icam (istituti di custodia per madri detenute) a favore delle case famiglia, più consone alle esigenze dei bambini. La annuncia in una nota il deputato dem Paolo Siani, vice presidente della commissione bicamerale Infanzia e Adolescenza. “Oggi, con il collega Paolo Lattanzio e la garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni - spiega Siani -, sono stato in visita alla sezione Nido del carcere di Rebibbia. In prossimità della Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che si celebra sabato prossimo, abbiamo scelto di stare dalla parte dei bambini che vivono in un contesto particolare. Sono gli ultimi degli ultimi, perché stanno trascorrendo in un carcere i loro primissimi anni di vita, fondamentali per la loro crescita e per lo sviluppo della loro personalità, come dimostrato da diversi studi scientifici. Proprio per questo, ho presentato una proposta di legge che mira a superare l’istituto degli Icam (istituti di custodia per madri detenute) a favore delle case famiglia, più consone alle esigenze dei bambini”. “A Rebibbia, nella sezione Nido, oggi c’erano una mamma alla 33esima settimana di gravidanza con un bambino di 13 mesi, un’altra alla 37esima settimana di gravidanza e un’altra ancora con il suo bambino piccolo di appena 6 mesi. Il carcere non è certamente il luogo più adatto per far partorire una donna. Mai più bambini in carcere”, conclude Siani. Una giustizia per riparare i torti e chi li ha commessi di Catello Romano* Il Riformista, 19 novembre 2021 Purtroppo, in Italia, la realtà della giustizia riparativa non sembra avere il “mordente” che ha avuto nei paesi dell’Est e del Nord Europa. benché di recente si sia avuta una svolta almeno nell’ambito del penale riguardante i minori, il che fa ben sperare in qualcosa di più generale. È vero pure che vi sono delle piccole realtà già affermate ma che potremmo definire delle “oasi” d’intuizioni felici, ma... pur sempre di “oasi” si tratta. Si può, quindi, si deve fare più. Inoltre, non ci si può sempre aspettare che siano le vittime a fare il primo passo e che, mosse da un profondo malessere e da un’impellente necessità di comprendere ciò che hanno subito, vengano a chiederci: “ma tu perché mi hai fatto questo?”. È proprio sui rei che si sentono abbastanza mature e forti da sostenere la responsabilità di sentirsi “chiamate” (votate) a riparare quelle crepe che con il loro agito i rei hanno arrecato all’edificio sociale, in genere, e alla persona, in particolare, poiché “quando si tratta di riparare un’offesa non si tratta tanto di “riparare qualche cosa”, ma di fare “riparazione a qualcuno”“. Pertanto, che non venga mai in mente l’insana idea di utilizzare la possibilità dell’incontro con la persona offesa per un beneficio di altro ordine che non sia quello prettamente “interiore”, sia perché “vi è più gioia nel dare che nel ricevere” sia perché tale strumentalizzazione della persona e del suo dolore non farebbe altro che reiterare l’offesa nei confronti di chi già non la meritò la prima volta. Se dentro di noi sentiamo un genuino desiderio di metterci a confronto con la persona che abbiamo ferito, allora chiediamoci con M. Bouchard: “possiamo pensare di far riparazione a qualcuno che abbiamo offeso senza riconoscere la nostra propria “mancanza”, cioè il fatto che non solo abbiamo “mancato” verso qualcuno ma che “manca” qualcosa in noi stessi?”. Questo ragionamento non è scontato solo per i reati più gravi quali l’omicidio o quelli a sfondo sessuale - dove nessuna somma di danaro potrebbe mai porre rimedio - ma anche per quei delitti ritenuti di “minor entità” - si pensi, ad esempio, allo shock e a tutte le ripercussioni psicologiche causate da una “semplice” violazione di domicilio, a come ciò possa minare in modo significativo, a volte per anni, il senso di sicurezza, per sé e per i propri cari, che il simbolo della “casa” naturalmente infonde in ognuno di noi. Concludendo queste note, sento la necessità di ribadire ancora una volta che sia il responsabile del reato a cercare di ripristinare, per quanto gli è possibile, la dignità della vittima, perché (quasi) mai la sentenza di un giudice assolve a questo compito. Secondo le parole di Hanna Arendt, “l’azione umana soffre di due grandi limiti: l’irrimediabilità del passato e l’imprevedibilità del futuro. Per affrontare questi limiti l’uomo ha a disposizione solo due correttivi: contro l’irrimediabilità delle offese di un tempo, l’unico antidoto è il perdono; contro l’imprevedibilità del futuro, l’unico antidoto è rappresentato dalla promessa”. E non possiamo “pretendere” di chiedere il perdono ad altri se prima non abbiamo avuto il coraggio e la forza di perdonare noi stessi, provando a immedesimarci il più possibile col dolore provato (e spesso ancora prova) da chi abbiamo ferito e oltraggiato, nella ricerca di una più profonda consapevolezza dei danni causati. Questa volta siamo noi a trovarci da questa parte delle sbarre, la prossima potremmo stare dall’altra; proprio considerando profondamente ciò è possibile comprendere cosa significhi che il reo è la prima vittima di se stesso. Siamo tutti parte di uno stesso unico tessuto, ognuno di noi un filo, non importa se dell’ordito o della trama - tanto dal punto di vista dell’Assoluto tali differenze non esistono - e concorriamo in egual modo a realizzare il magnifico disegno universale su questa “tela’ che è la creazione. Se, come accade spesso, non ce ne rendiamo conto è perché non guardiamo affatto la tela o la osserviamo troppo da vicino, in modo “locale”. Se ci sforziamo di fare qualche “passo indietro”, però, evitando di star noi in primo piano e dandoci la possibilità di avere una visione più “globale”, allora potremmo apprezzare il disegno nella sua interezza e magnificenza prendendo coscienza, peraltro, del fatto che siamo tutti intrecciati l’uno con l’altro e che già diverse volte ci siamo incrociati nel nostro cammino. Se in questo scritto parlo principalmente da persona detenuta è solo perché anche io sono “ristretto” (non certo di orizzonti, però; quelli si son ampliati da tempo), ciò non toglie, tuttavia, che con le debite trasposizioni il discorso sia valido per tutti: ci sono tanti che scontano le loro “pene” - che s’infliggono da sé - in ben altre prigioni. *Detenuto a Catanzaro Caselli: “Occorre scacciare i mercanti dal tempio della giustizia, bene comune” di Rossella Guadagnini micromega.net, 19 novembre 2021 In occasione dell’uscita del libro “La Giustizia conviene” (appena edito da Piemme), scritto col collega Guido Lo Forte, Gian Carlo Caselli traccia un ampio quadro dell’attuale situazione, dopo gli scandali Palamara e Amara. Dalla crescita smisurata del potere delle correnti nel Csm fino alla loro degenerazione; dal calo di credibilità e fiducia dell’intera magistratura alla riforma prossima ventura, che ne dovrà salvaguardare l’indipendenza, secondo il dettato costituzionale. “Parlare oggi di giustizia e legalità in termini credibili non è facile. I casi tristemente noti del magistrato Palamara e dell’avvocato Amara hanno spinto la magistratura verso una caduta sempre più rovinosa di credibilità e fiducia”. A tirare le somme con MicroMega sullo stato di salute di alcune delle principali istituzioni pubbliche che amministrano il diritto è Gian Carlo Caselli, magistrato per quasi 50 anni, oggi in pensione (ma ancora impegnato con l’Osservatorio delle Agromafie). Le vicende a cui si riferisce hanno coinvolto - sconvolto e quasi travolto - il Consiglio Superiore della Magistratura, l’Associazione Nazionale Magistrati e alcuni loro appartenenti. Tutta colpa delle correnti? Lei stesso si dimise da Magistratura Democratica dopo tanti anni di appartenenza e con un’aspra polemica finale... Le mie dimissioni con questo non c’entravano. Erano legate a un’agenda di Md che aveva pubblicato un intervento di Erri De Luca a mio avviso troppo indulgente verso la violenza terroristica. L’agenda fu poi ritirata. Ma torniamo al punto: le correnti hanno subito una pessima involuzione. Da luogo di confronto trasparente e pubblico sono diventate cordate di potere per il conferimento clientelare di incarichi e la nomina di dirigenti, trasformando il Csm in una specie di suk per trattative e scambi non sempre limpidi”. Mentre il caso Palamara ha squadernato la pratica avvilente di una limacciosa partita tra schieramenti trasversali e singoli magistrati, dentro e fuori il Csm e l’Associazione Nazionale Magistrati. Come valuta quanto accaduto? Un vergognoso groviglio di baratti, di manovre e di scontri, dove l’appartenenza a una corrente o a un gruppo influente è spesso diventata il criterio dominante per la scelta dei capi degli uffici giudiziari. Di qui un crollo verticale di credibilità e affidabilità che è stato senza precedenti e ha investito il Csm e la magistratura, compresa la parte incolpevole, che rimane - in tutti i modi - preponderante. Già in passato, comunque, Csm e magistratura hanno dovuto affrontare situazioni burrascose. Ricordo due esempi per tutti: il primo è costituito dal programma della loggia segreta Propaganda 2 del ‘venerabile’ Licio Gelli, sciolta per legge nel 1982. Dedicava uno spazio apposito a “una forza interna alla magistratura (la corrente di Magistratura Indipendente) che raggruppa oltre il 40 per cento dei magistrati italiani su posizioni moderate” e sosteneva che “un raccordo sul piano morale e programmatico”, insieme a “concreti aiuti materiali”, avrebbe assicurato “un prezioso strumento già operativo all’interno del corpo” [1]. Un caso esplicito di trame… Trame a dir poco indecenti di mestatori, che assoldano magistrati associati in corrente disposti a vendersi. E non si trattò di semplici progetti, perché proprio per l’adesione alla P2 e per i finanziamenti ricevuti, la sezione disciplinare del Csm radiò dall’ordine giudiziario, nel 1983, Domenico Pone, allora segretario della corrente in questione. La vicenda fu risolta in maniera esemplare dal Csm, allora unica fra le amministrazioni pubbliche - a quanto mi risulta - capace di sanzionare la vergognosa appartenenza a una società illecita e segreta come la P2. E il secondo caso? Quello relativo a Giovanni Falcone, la cui impareggiabile professionalità fu sacrificata dal Csm sull’altare della gerontocrazia, a vantaggio di un candidato, Antonino Meli, che non aveva esperienza di processi di mafia, ma “stracciava” Falcone per anzianità. Significava condannare a morte il metodo di lavoro vincente di Falcone. Cosa è cambiato oggi rispetto ad allora? Lo scandalo P2 e l’umiliazione inflitta a Falcone, nonché alla stessa antimafia, per quanto vergognosi e sintomatici di un uso spregiudicato delle correnti, non sono tuttavia assimilabili ai fatti che ruotano intorno al caso Palamara. Fatti gravissimi sia quelli del passato, che quelli del presente, ma soltanto oggi tanto generalizzati e diffusi nella magistratura e nel Csm, dove hanno avuto effetti senza precedenti con le dimissioni di alcuni togati e il conseguente rinnovo parziale dell’organo di autogoverno dei magistrati. Si riferisce a qualcosa in particolare? L’appartenenza a una corrente o a un gruppo influente è diventata negli anni sempre più rilevante, fino a farsi elemento decisivo - molto più di quanto non accadesse prima - per alcune scelte anche importanti del Csm. In un libro intervista del gennaio di quest’anno, col titolo significativo “Il sistema” [2], Palamara declina la “sua” verità, sostenendo che a partire dal 2008, nessuna nomina sarebbe sfuggita alle logiche correntizie. Il che, tuttavia, non ha impedito - anzi ha causato - la radiazione di Palamara dalla magistratura. Come si è arrivati a tanto? Per la combinazione di vari fattori: quello dei giochi di potere all’interno della magistratura era un fuoco che covava sotto la cenere ma, di recente, è esploso con modalità così clamorose, che perfino l’involuzione delle correnti è tracimata in degenerazione. Una delle concause è stata la drastica riduzione dei posti direttivi o semidirettivi a disposizione, per effetto della soppressione di vari uffici (tutte le preture e i vari tribunali). Riduzione che ha messo in competizione molti magistrati per un numero di posti più esiguo, favorendo in alcuni la tentazione di ricorrere a qualche aiutino contro la “concorrenza”. Dunque che fare? Ora si è toccato il fondo. Serve una sincera autocritica e uno scatto d’orgoglio dell’Anm e del Csm per puntare a un robusto recupero di credibilità e fiducia. Altrimenti non è neppure ipotizzabile che nelle prossime, necessarie riforme siano prese in considerazione anche le ragioni della magistratura. Le buone ragioni, quelle che nessuno scandalo Palamara o Amara può cancellare o svilire. Quelle che impongono di scacciare i mercanti dal tempio. Quelle che si intrecciano con le ragioni dei cittadini onesti, perché senza una magistratura indipendente e pulita svanisce la speranza di avere una giustizia giusta. Su questo tema lei e il suo collega, Guido Lo Forte, avete appena scritto un libro, intitolato “La giustizia conviene” [3]: perché converrebbe? Perché è stata e rimane un pilastro portante nella vita di una comunità davvero civile e va difesa e sostenuta in quanto è un bene comune. L’unico strumento a salvaguardia delle libertà e dei diritti di tutti, soprattutto di chi non ha né potere, né privilegi. “Il valore delle regole raccontato ai ragazzi di ogni età” recita il sottotitolo al volume. In conclusione cosa aspettarsi dalla prossima riforma della giustizia? Che non sia una pseudoriforma, magari finalizzata a chiudere i conti con il fastidioso incomodo di una giurisdizione troppo autonoma, ma che incida sulla capacità della magistratura di essere fedele soltanto alla Costituzione. L’unica fedeltà richiesta ai servitori dello Stato - come ha ammonito il presidente Mattarella - a tutela della democrazia. Costa: “Ora verità sui numeri dei flop processuali di pm e giudici” di Valentina Stella Il Dubbio, 19 novembre 2021 Il deputato di Azione presenta un’interrogazione parlamentare alla ministra Cartabia per chiedere maggiore trasparenza sui dati della Giustizia. Trasparenza sui numeri della giustizia: è quello che chiede l’onorevole di Azione Enrico Costa, con una interrogazione alla Guardasigilli Marta Cartabia. In particolare: quali siano i dati sulla modalità di definizione dei procedimenti suddivisi per tipologia di reati, in particolare per quello che riguarda i reati contro la pubblica amministrazione; la percentuale di sentenze di appello in riforma delle sentenze di I grado; il tasso di accoglimento e rigetto delle richieste dei pubblici ministeri ai giudici per le indagini preliminari suddivise per tipologie (richieste di intercettazioni, proroga indagini, applicazione misure cautelari); il numero di istanze di riparazione per ingiusta detenzione rigettate dalle corti di appello; il numero di avvisi di garanzia notificati ogni anno e quanti di questi si traducono in un rinvio a giudizio o in una citazione diretta a giudizio. Come ci dice Costa “la ministra Cartabia resta un faro e un modello che però va supportato attraverso dati scientifici grazie ai quali potrà prendere le decisioni. La disponibilità di dati analitici e aggiornati è il presupposto necessario al fine di comprendere e valutare l’effettivo funzionamento degli istituti giuridici esistenti, l’appropriatezza delle norme vigenti in materia processuale e, più in generale, l’efficacia dell’ordinamento giudiziario, al fine di individuare risposte legislative idonee a risolvere le criticità individuate”. Costa aveva già chiesto queste informazioni con una lettera alla responsabile della direzione generale di statistica di via Arenula ma, non avendo ricevuto risposta, ha presentato l’interrogazione. “Sarebbe alquanto sorprendente - ci dice - se il ministero della Giustizia non disponesse di questi dati fondamentali”. Ma perché proprio questi? “Conoscere il tasso di accoglimento o rigetto delle richieste del pm da parte del gip servirebbe a capire se c’è effettivamente un filtro da parte del giudice o se quest’ultimo fa semplicemente da passacarte del pm”. L’avvocatura stigmatizza da sempre l’abuso di intercettazioni, spesso usate per cercare non la prova del reato ma un reato qualsiasi, le proroghe delle indagini, su cui sta lavorando la Commissione Lattanzi per limitarle, misure cautelari (attualmente in carcere ci sono circa 9000 persone in attesa di primo giudizio). Il disvelamento dei dati dell’andamento della macchina giudiziaria è un’antica battaglia anche delle Camere Penali per cui i dati statistici giudiziari non sono di proprietà della magistratura. Inoltre, sapere quante sentenze di appello riformano quelle di primo grado è fondamentale proprio in questo momento in cui il tema delle impugnazioni è al centro del dibattito della Commissione Canzio, con tutti i rischi delineati da Caiazza in un’intervista al Dubbio. Questo dato, insieme a quello relativo agli avvisi di garanzia che si traducono in un giudizio, si lega anche al tema delle valutazioni professionali dei magistrati, la cui riforma è sponsorizzata non solo dalle Camere Penali ma anche dal Pd. Entrambi chiedono che per esse venga introdotto anche il parametro delle smentite processuali delle ipotesi accusatorie. Conclude dunque Costa: “Com’è possibile che il ministero non abbia questi dati adesso che le commissioni stanno lavorando ai decreti attuativi del processo penale e alla riforma dell’ordinamento giudiziario?”. Intanto ieri la commissione giustizia della Camera ha conferito il mandato alle relatrici Lucia Annibali (Iv) e Mirella Cristina (FI) e ha così completato l’esame del ddl civile che sarà in aula martedì prossimo con una settimana di anticipo rispetto alla data prevista. L’ultimo giro del Csm parte con Lo Voi verso Roma di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 19 novembre 2021 Le nomine dei procuratori capo. La commissione incarichi direttivi del Consiglio superiore indica a maggioranza il procuratore di Palermo per la Capitale. Anticipata la Cassazione per chiudere la stagione di Prestipino. Poi tocca agli uffici inquirenti di Milano, Antimafia e Palermo. Il Consiglio superiore della magistratura fa un primo passo in favore di Francesco Lo Voi e si avvia a mettere un punto alla lunga storia della successione alla procura di Roma. Lo Voi, procuratore di Palermo, può conquistare con oltre due anni di ritardo l’incarico per il quale aveva corso all’inizio della tormentata vicenda. Sarà la prima designazione importante di un quartetto - le altre sono la procura di Milano, la procura di Palermo e la procura nazionale antimafia - che accompagnerà questa Csm segnato dal caso Palamara verso la fine mandato. E, almeno nelle intenzioni della ministra della giustizia, verso un nuovo Consiglio disegnato con nuove regole. Dove eravamo rimasti? Al maggio 2019, quando il Csm pensava di risolvere la pratica di Roma, l’ufficio inquirente più importante di Italia dal quale usciva per limiti di età Giuseppe Pignatone, designando per l’incarico di procuratore il pg di Firenze Marcello Viola. Per lui il voto convergente dei togati della corrente di destra, di Davigo e dei laici di Lega e 5Stelle. Proprio in quei giorni, però, scoppiava lo scandalo Palamara e si scopriva dalle intercettazioni del trojan che il circolo dell’hotel Champagne, luogo dell’incontro tra politici e consiglieri del Csm registi delle nomine, stava lavorando proprio per Viola. Si fermò tutto e dallo stallo emerse il candidato della continuità con Pignatone, Michele Prestipino, al quale il Consiglio assegnò la guida della procura di Roma solo nel 2020. Poco dopo, però, prima il Tar e poi il Consiglio di Stato hanno accolto i ricorsi di due magistrati candidati per lo stesso incarico e sconfitti: oltre a Viola c’era anche il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi. Tutto da rifare, anche se nel frattempo Prestipino aveva guidato la procura di Roma tra reggenza e titolarità effettiva per due anni. E anche se lo stesso Prestipino ha presentato un contro ricorso alle sezioni unite della Cassazione dove chiede che vengano annullate le sentenze a lui sfavorevoli della giustizia amministrativa. Ma la quinta sezione del Csm, quella che si occupa del conferimento degli incarichi direttivi, ha anticipato di qualche giorno la decisione dei supremi giudici, lanciando un chiaro segnale di voler archiviare la stagione Prestipino. A favore di Lo Voi, che ha trascorsi nello stesso Csm oltre che in Cassazione e a Eurojust, si sono schierati il consigliere laico di Forza Italia e i togati di Area (sinistra), Unicost (centro) e Magistratura indipendente (destra). Per Lo Voi ha votato invece il consigliere togato Ardita, già di Autonomia e indipendenza prima della rumorosa rottura con Davigo. Chiusa che sarà la pratica di Roma, con un voto in plenaria probabilmente entro Natale, il Csm dovrà assegnare gli incarichi a Milano, dove il candidato più accreditato è proprio Viola, alla procura nazionale e alla procura di Palermo. Per l’antimafia i più accreditati sono il procuratore di Napoli Melillo, quello di Catanzaro Gratteri e quello di Messina De Lucia. Che, dopo la promozione di Lo Voi a Roma, può finire anche a Palermo. I numeri della violenza maschile non diminuiscono di Alessandra Pigliaru Il Manifesto, 19 novembre 2021 Ieri Di.Re. ha presentato i dati sul 2020: “oltre 20mila le donne che si sono rivolte ai nostri centri, ma i fondi sono scarsi”. Intanto, nelle ultime ore, salgono a tre i femminicidi. Autori sono partner o ex. Spesso uccidono anche i figli. L’ultimo femminicidio è avvenuto poche ore fa, a Montese, sull’Appennino modenese. Un uomo ha accoltellato la moglie e in seguito ha cercato di togliersi la vita. Poco distante da lì, a Sassuolo, un altro uomo, ex partner di Elisa Mulas, ha ucciso ieri l’altro lei, la ex suocera e i due figli di 2 e 5 anni. Quante donne muoiano per mano maschile ce lo raccontano le cronache, quasi ogni giorno (alcuni dati si trovano nel sito del Ministero dell’Interno che stila un report settimanale). Che l’intensificarsi di questo fenomeno, strutturale e sistemico, coinvolga sempre più spesso i bambini e le bambine lo rammentano le storie, come quella di Vetralla, nel viterbese, quando un uomo, che aveva il divieto di avvicinamento alla sua ex e al figlio, ha ucciso il bambino di 10 anni. C’è un denominatore comune in queste vicende, ovvero la volontà deliberata delle donne di fuoriuscire da una condizione di violenza mettendo dunque fine alla relazione. In più di un caso, gli individui che le hanno uccise, o hanno ucciso i figli, hanno contravvenuto a ordinanze e, senza apparente difficoltà, hanno raggiunto le proprie vittime. Qualcosa non sembra funzionare, ed è un fatto di cui si discute da tempo. Lo fanno anche i centri antiviolenza, come quelli della rete Di.Re. che ieri hanno presentato alcuni dati (relativi al numero di donne che si rivolge ai Centri) insieme alle iniziative in vista del 25 novembre (giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile contro le donne) e della manifestazione organizzata da Non Una Di Meno di sabato 27. La rilevazione presentata ieri, curata da Sigrid Pisanu e Paola Sdao, copre l’intero 2020. Hanno partecipato 81 organizzazioni aderenti a Di.Re per un totale di 106 centri antiviolenza di cui il 60% può contare su almeno una struttura di ospitalità, cioè le case rifugio - strutture essenziali in casi di allontanamento necessario dall’abitazione famigliare, non solo per le donne ma anche per i figli. Che le case rifugio (insieme alle case di semi-autonomia), 64 in totale, siano in numero insufficiente in tutto il territorio nazionale è un dato che colpisce ma non sorprende, non si possono fare miracoli con pochi fondi distribuiti in maniera eterogenea. Il 72% dei centri usufruisce di finanziamenti pubblici di fonte regionale (i fondi più consistenti in Friuli Venezia Giulia, Lombardia e Toscana), oltre la metà beneficia di finanziamenti comunali (l’Emilia Romagna è la più virtuosa) e circa un terzo dal Dipartimento pari opportunità. Ci sono poi i finanziamenti privati che sono una fonte per il 75% dei centri. Il lavoro di Di.Re., che fa accoglienza, offre consulenza legale, psicologica e percorsi di orientamento al lavoro, insieme a consulenze genitoriali, gruppi di auto-aiuto e consulenza alle donne immigrate, è dunque su base largamente volontaristica. Anche nel 2020, con 20mila donne accolte, di cui 13mila al primo contatto (dunque accolte per la prima volta), sono le volontarie a sostenere le attività dei centri, soltanto il 32% delle oltre 3mila viene retribuita. Il dato relativo ai profili delle donne che si rivolgono a un centro antiviolenza è omogeneo rispetto agli anni precedenti, il 54,7% ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni, la maggior parte è di nazionalità italiana e una donna su tre non ha reddito. I tipi di violenza vanno da quella psicologica a quella economica, dalla violenza sessuale allo stalking cui le prime due forme spesso si appaiano. Anche l’autore della violenza è della stessa tipologia: nel 76,4% dei casi è di nazionalità italiana, un’età compresa tra i 30 e i 59 anni, la metà ha un lavoro stabile e nel 60% dei casi sono partner, nel 22,1% sono invece ex. Punto importante della conferenza stampa di ieri è l’Osservatorio sulla vittimizzazione secondaria, ne ha parlato Nadia Somma ponendo l’accento sulle “conseguenze più dolorose dei percorsi giudiziari che le donne affrontano per porre fine alla violenza che subiscono, ovvero l’essere rese nuovamente vittime a causa di procedure e approcci che non riconoscono o minimizzano la violenza subita, mettono in dubbio la loro credibilità, le colpevolizzano per la stessa violenza subita, sottovalutano l’impatto della violenza assistita da figli e figlie e impongono forzatamente forme di bigenitorialità che consentono agli uomini maltrattanti di reiterare comportamenti abusanti nei loro confronti”. Ieri, una nota di Donatella Conzatti, segretaria della commissione d’inchiesta sul femminicidio, fa sapere che è stato approvato in Consiglio dei ministri il Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne per il triennio 2021-2023. L’ultimo era scaduto nel gennaio 2021, lamentano i centri antiviolenza che, pochi giorni fa, in una lettera aperta alla ministra Bonetti dal titolo “Forma e sostanza, i finti percorsi partecipati” specificavano come non vi sia stato ascolto e condivisione nel metodo e in alcuni contenuti, augurandosi di essere smentite quando si conosceranno meglio i dettagli. Il Caso Gambirasio e le “esigenze comunicative” della Procura di Guido Stampanoni Bassi Il Domani, 19 novembre 2021 Il processo mediatico va a colpire non solo la presunzione di non colpevolezza del singolo indagato o imputato, ma anche - e non è cosa da poco - il libero convincimento della magistratura giudicante. Cosa accomuna le indagini su uno dei più noti e recenti casi di cronaca,l’omicidio di Yara Gambirasio, la presunzione di innocenza (su cui proprio qualche giorno fa è stato approvato un decreto legislativo) e le “esigenze comunicative” della Procura? Lo scopriamo leggendo una recentissima ordinanza emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Milano che, accogliendo la richiesta della Procura, ha disposto l’archiviazione per 16 giornalisti indagati per aver criticato, definendolo “taroccato” e “patacca”, un video elaborato dai RIS di Parma nell’ambito delle indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio. Si tratta del famoso video - ampiamente diffuso da svariati programmi televisivi e non solo - che ritraeva un furgone bianco (o meglio, il furgone di Massimo Bossetti) girare nei pressi della palestra di Yara il giorno della sua scomparsa. A conferma della diffusione del video, si pensi ai seguenti titoli di giornali e telegiornali dell’epoca. Il Tg La7: “Yara, il furgone di Bossetti gira un’ora intorno alla palestra. Il nuovo pesante indizio che la Procura aggiunge all’accusa di omicidio per il muratore. Si aggrava la posizione dell’indagato, che aveva negato la sua presenza a quell’ora davanti alla palestra, se non di passaggio” (video paradossalmente ancora online). Repubblica: “Caso Yara, Carabinieri: il furgone ripreso poteva essere solo quello di Bossetti. È quanto precisano in una nota i Carabinieri”. Il video fake - Ebbene, dalla decisione del GIP del Tribunale di Milano si apprende una circostanza che era in realtà già emersa nel corso del procedimento (poi conclusosi con la condanna definitiva di Massimo Bossetti), ma che in pochi forse conoscono: quel video - che, lo si ripete, era stato volontariamente diffuso alla stampa come se fosse effettivamente riconducibile a chi in quel momento era solo un indagato - in realtà non ritraeva affatto il furgone di Bossetti, ma era stato creato ad hoc dopo essere stato “concordato con la Procura per esigenze comunicative”. Anzi, per essere più precisi - questo è quello che è emerso dal dibattimento - “era stato concordato con la procura a fronte di pressanti e numerose richieste di chiarimenti e realizzato per esigenze di comunicazione; e poi è stato dato alla stampa”. A seguito delle critiche ricevute da diversi giornalisti, il capo dei RIS di Parma li aveva querelati e da ciò era scaturito il procedimento penale per diffamazione, poi archiviato dal GIP di Milano. Il giudice, dopo aver ricordato come il video avesse uno scopo “dichiaratamente comunicativo e non probatorio” - non essendo stato depositato agli atti - svolge comunque interessanti considerazioni in merito al rispetto della presunzione di innocenza. Le critiche giornalistiche - che il giudice ha comunque ritenuto essere intervenute su “su un fatto obiettivo, di indubbio interesse pubblicistico e certamente non frutto di invenzione” - sono state ritenute ulteriormente giustificate dal “fondamentale principio della presunzione di innocenza dell’imputato che, anche in base alla direttiva UE oggetto di recente recepimento da parte dell’Italia, deve proteggere le persone indagate o imputate in procedimenti penali da sovraesposizioni mediatiche deliberatamente volte a presentarli all’opinione pubblica come colpevoli prima dell’accertamento processuale definitivo”. Occorre proteggere gli indagati - Ecco, è bene che tali parole rimangano ben scolpite nella mente di chi si occupa di giustizia e comunicazione: “Occorre proteggere le persone indagate o imputate in procedimenti penali da sovraesposizioni mediatiche deliberatamente volte a presentarli all’opinione pubblica come colpevoli prima dell’accertamento processuale definitivo”. Quel video, infatti, era stato dapprima concordato, poi creato e, infine, diffuso alla stampa in un momento in cui Bossetti era un semplice indagato (ma poco sarebbe cambiato se fosse stato anche un imputato) al solo scopo di assecondare le “esigenze comunicative” della Procura; esigenze comunicative che - e i fatti lo dimostrano - sono state ritenute ben più importanti del diritto dell’indagato a non esser presentato come colpevole agli occhi dell’opinione pubblica. Diritto - si aggiunge - che assume una valenza ancora più significativa laddove il reato per cui si procede sia di competenza di una Corte di Assise, composta, come è noto, anche da giudici popolari. Le esigenze comunicative - Quali esigenze comunicative avrebbero mai potuto giustificare la creazione di un video che rappresentava una situazione diversa da quella reale? Perché mai l’opinione pubblica - si presume prima e principale destinataria del video - è stata ritenuta tale da meritare la diffusione di un prodotto “fake” elaborato ad hoc? Quali “pressanti e numerose richieste di chiarimenti” andavano soddisfatte e perché si è ritenuto di farlo in questo modo? Il presentare, agli occhi dell’opinione pubblica, l’indagato come colpevole prima che la sua colpevolezza sia accertata in via definitiva è proprio una delle bad pratices che la direttiva sulla presunzione di innocenza vuole evitare. E forse, grazie al suo recente recepimento, questo rischio per il futuro potrà essere scongiurato (anche se si dovrà capire se le cose cambieranno per davvero oppure no). Nell’attesa di comprendere se e come il modo di comunicare da parte degli organi inquirenti potrà cambiare - saranno, ad esempio, limitate le conferenze stampa nonché, in generale, il rilascio di informazioni agli organi di stampa - è bene che la vicenda del video del furgone bianco di Bossetti rimanga, a futura memoria, come esempio perfetto delle prassi distorte cui può portare il cd. processo mediatico. Processo mediatico che, come si è già scritto più volte, va a colpire non solo la presunzione di non colpevolezza del singolo indagato o imputato, ma anche - e non è cosa da poco - il libero convincimento della magistratura giudicante, la quale, nel momento in cui sarà chiamata ad assumere le proprie determinazioni sulla responsabilità penale dell’indagato, dovrà essere libera di farlo senza il timore di scontentare le aspettative che, nel frattempo, si sono consolidate nell’opinione pubblica. I giudici, Uggetti e la discrezionalità dei sindaci di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 19 novembre 2021 Le motivazioni con le quali la Corte d’Appello di Milano spiega l’assoluzione dell’ex sindaco pd di Lodi vanno anche oltre il caso specifico. “Una interpretazione costituzionalmente orientata e conforme al principio di offensività” di reati come la turbativa d’asta “si deve confrontare con la necessità di non punire indiscriminatamente le mere irregolarità formali della procedura, non essendoci un interesse fine a se stesso a garantire la regolarità e la trasparenza della gara”, le quali “non sono il bene tutelato dalla norma, ma un presidio per la libera concorrenza, strumentale al perseguimento dell’interesse della Pubblica Amministrazione”. Le motivazioni con le quali la Corte d’Appello di Milano spiega ora l’assoluzione dell’ex sindaco pd di Lodi, Simone Uggetti, per insussistenza della turbativa del bando sulle piscine comunali costatogli nel 2016 dieci giorni di carcere e nel 2018 la condanna in Tribunale a 10 mesi, vanno oltre il caso specifico: caso che il leader M5Stelle e ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in una lettera a Il Foglio in luglio aveva colto per personalmente scusarsi con Uggetti e politicamente fare ammenda del carburante dato all’”imbarbarimento del dibattito associato ai temi giudiziari”. Per le giudici Rosa Polizzi, Angela Fasano e Roberta Nunnari, che scrivono di voler analizzare profili penali “scevri da ogni lettura indotta da impostazioni soggettive non immuni da una polemica politica o locale”, la turbativa d’asta “non ricorre in presenza di qualsiasi disordine relativo alla tranquillità della gara”, ma è invece “necessaria una lesione, anche potenziale, agli scopi economici della PA e all’interesse dei privati di poter partecipare alla gara”. Nel caso di Lodi, “da tutte le comunicazioni acquisite emerge una linea che il sindaco, in coerenza con il programma elettorale, persegue dalla preparazione alla pubblicazione del bando: e cioè una sua ricerca di consulenza e confronto con l’avvocato” coimputato, che stava nel consiglio sia della società poi aggiudicataria, sia della municipalizzata di controllo. Ma ciò in “acclarato perseguimento di obiettivi corrispondenti all’interesse pubblico”, “senza un fuorviante interesse economico degli imputati”, e dentro quel “margine di intervento entro il quale l’esercizio di una responsabilità politica è espressione non collusiva, ma legittima, di un bilanciamento fra pluralità di interessi pubblici”. Esercizio che per le giudici “può comportare e dunque tollerare, purché non ne sia fuorviato, consulenza e ascolto dei soggetti della società civile interessati”. Spacciare droga leggera di giorno e vicino a dei ragazzini esclude la non punibilità del fatto di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2021 Sono invece pienamente compatibili le attenuanti comuni con le ipotesi di reato catalogate dal Legislatore come di lieve entità. Negata in radice l’applicabilità della causa di non punibilità al piccolo spacciatore che opera su una piazza diffusamente frequentata da ragazzini. Al contrario non è escluso che la lieve entità dello spaccio possa essere oggetto di riconoscimento dell’attenuante comune della speciale tenuità del fatto legata all’esiguità del lucro conseguito. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 42119/2021, ha parzialmente accolto il ricorso di un piccolo spacciatore trovato in possesso di una piccola quantità di droga “leggera” (26 grammi di marjuana). La Cassazione conferma la decisione di appello dove non aveva ritenuto applicabile la causa di non punibilità del fatto per l’invocata tenuità. Infatti, gli Ermellini aderiscono al ragionamento dei giudici di merito secondo cui la modalità di spaccio - in pieno giorno in un luogo pubblico gremito di bambini - non integra quella condotta di tenue rilevanza nel delinquere. Stessa conferma per il diniego delle attenuanti generiche, che a differenza di quelle comuni prefissate per legge - sono affidate alla valutazione del giudice. Nel caso specifico la Cassazione afferma la legittimità del diniego delle attenuanti generiche a causa della rilevata esistenza di precedenti a carico del ricorrente e per l’assenza di elementi positivi di giudizio che non possono certo identificarsi con l’ammissione dell’“evidente” responsabilità penale. Al contrario, la Cassazione boccia come illegittimo il ragionamento del giudice che riteneva inapplicabile la diminuente della speciale tenuità del fatto con l’ipotesi di lieve entità del reato, espressamente codificata dal comma 5 dell’articolo 73 del Dpr 309/1990. Nel rinviare la decisione sul punto la Cassazione applica quanto già chiarito dalle sezioni Unite penali che hanno appunto affermato in materia di stupefacenti la piena compatibilità tra la forma lieve del reato e le attenuanti comuni. Vasto (Ch). Detenuto 33enne rumeno si toglie la vita nella Casa Lavoro di Federico Cosenza vastoweb.com, 19 novembre 2021 Gli erano stati revocati gli arresti domiciliari da parte dell’Autorità Giudiziaria. Ancora una volta un detenuto si toglie la vita nel carcere di Vasto. L’ultimo caso risaliva alla notte del 4 marzo 2021. Questa volta a farla finita è stato un 33enne rumeno a cui erano stati revocati gli arresti domiciliari da parte dell’Autorità Giudiziaria. Con ogni probabilità la Procura di Vasto aprirà un fascicolo e sarà eseguita l’autopsia sul corpo dell’uomo così come da prassi. Una strage silenziosa quella delle morti suicide in carcere che può essere ridimensionata solo aumentando il personale di Polizia Penitenziaria in servizio nella struttura Vastese. “Siamo abbastanza preoccupati per questi eventi - commenta Nicola Di Felice Segretario Regionale Osapp Abruzzo - che non sono nuovi nel carcere vastese. Quella dei suicidi è una fenomenologia in evoluzione sull’intero panorama nazionale e siamo convinti che bisogna investire sul disagio mentale nelle carceri, oltre a rinforzare gli organici di Polizia Penitenziaria che a Vasto appaiono sempre più ridotti. Non possiamo continuare ad accettare queste spiacevoli condizioni sociali che restano una sconfitta per lo Stato, pur non volendo entrare nel merito del caso di specie - chiosa Giuseppe Merola Coordinatore Regionale Fp Cgil Abruzzo Molise - Funzioni Centrali (Ministeri). Rafforzare l’esecuzione penale esterna con investimenti interessanti sui territori ed avviare serie riflessioni politiche che tendono a migliorare la qualità di vivibilità penitenziaria per lavoratori e detenuti, oltre a rafforzare la presenza di figure professionali trattamentali, sanitarie e sociologiche all’interno degli Istituti Penitenziari, arginando situazioni di sovraffollamento”. Santa Maria Capua Vetere. Torna in carcere e muore dopo 3 giorni, autopsia sulla salma casertace.net, 19 novembre 2021 Angelo Barbaruolo era rientrato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 9 novembre. Il 12 novembre è deceduto: oggi è stata effettuata l’autopsia, domani mattina al Buon Pastore si terranno i funerali. Parla il nipote Antimo Barbaruolo. Angelo Barbaruolo stava finendo di scontare una pena detentiva nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma il 12 novembre scorso è deceduto. La notizia finora non era trapelata, ma a parlarcene è stato il nipote dell’uomo, Antimo Barbaruolo, che a nome della moglie e dei due figli del deceduto, chiede di sapere cosa sia accaduto, anche perché il detenuto Angelo Barbaruolo era rientrato nel penitenziario sammaritano appena tre giorni prima dell’inaspettata morte. “Mio zio - ci spiega Antimo Barbaruolo - aveva trascorso un periodo nella comunità Le Ali di Casolla. Il 9 novembre del 2021, quindi tre giorni prima del decesso, mio zio è stato riportato in carcere dove avrebbe dovuto finire di scontare quattro mesi di reclusione, prima di poter tornare dalla sua famiglia. Mio zio - ribadisce il nipote Antimo - stava bene quando è uscito dalla comunità, per questo non ci spieghiamo come, dopo pochi giorni, possa essere morto. Il 12 novembre, infatti, dal carcere chiamano mia zia e le dicono che Angelo Barbaruolo si era sentito male ed era morto”. Angelo Barbaruolo, residente a Caserta, era nato l’11 luglio del 1961 e stamattina sul suo corpo è stata effettuata l’autopsia, per capire le reali ragioni del suo decesso. Domani mattina, invece, si terranno i funerali nella chiesa del Buon Pastore. La famiglia chiede di conoscere le cause di questa morte. Pare, infatti, che nessuno dei familiari, neppure la moglie, abbia avuto modo di poter vedere il cadavere del congiunto. Né in carcere, né a Medicina legale dove stamattina è stata effettuata l’autopsia. Tra l’altro, dopo l’autopsia, i cadaveri vengono generalmente zincati quindi, per la moglie e per i figli nemmeno la possibilità di rivedere per un attimo e salutare il familiare deceduto. Firenze. Muore detenuto a Sollicciano. Uil-Pa: “Varie criticità. Aprire tavolo permanente” gonews.it, 19 novembre 2021 È notizia di ieri mattina della morte di un detenuto della Casa Circondariale di Firenze Sollicciano di appena 52 anni, di origine Campane, che da alcuni giorni era ricoverato presso il reparto ospedaliero di Prato: lo dichiara Grieco Eleuterio segretario generale regionale Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “Nonostante lo stato precario di salute, la persona era piantonata dalla Polizia Penitenziaria, fino all’ultimo. L’evento apre una riflessione sull’espiazione della pena in carcere, per le persone affette da gravissime patologie sanitarie, comprese quelle psichiatriche, che ad un certo punto non dovrebbero più essere ristrette nei penitenziari”. “Il fatto - aggiunge Grieco - che proprio oggi i detenuti chiedono mediante una lettera aperta la visita del Santo Padre, nella struttura di Sollicciano, deve far ancor più aumentare il livello di attenzione delle autorità tutte, finora silenti. Lo stato di degrado, di abbandono e di disorganizzazione nonché di una insufficiente prestazione sanitaria, in cui versa l’intera struttura penitenziaria, determina anche la garanzia dei bisogni degli individui, che in tutte le occasioni sfociano in aggressioni nei confronti del personale di polizia, come quella avvenuta ieri al reparto femminile”. “È di tutta evidenza - conclude - che gli operatori di Polizia Penitenziaria oggi sono divenuti l’ultimo filtro di una serie di mancanze dell’amministrazione penitenziaria. Il silenzio della stessa non è più sostenibile, per cui ribadiamo la necessità di un’apertura di un tavolo permanente, affinché le parti possano collaborare unitamente e concordare quelle che sono le migliori soluzioni adottabili”. Napoli. Carceri, l’anno nero dei suicidi: “In cella la morte ti perseguita” di Massimo Romano napolitoday.it, 19 novembre 2021 Soltanto nei penitenziari napoletani sono otto i detenuti che si sono tolti la vita. Il garante Pietro Ioia: “Sono chiusi nelle celle, senza far nulla, circondati dal degrado”. “Non puoi prevedere quando un detenuto si toglierà la vita. Magari ci hai parlato poche ore prima e ti sembrava stare bene, poi chiuso nella sua cella può scattare quella molla”. Solo nel 2021, nelle carceri di Napoli, otto detenuti si sono tolti la vita in cella e Pietro Ioia, Garante dei detenuti della Campania, prova a descrivere lo stato di disperazione in cui si trova chi varca la soglia di un penitenziario. “Luoghi come Poggioreale non hanno nulla di umano. Le persone vengono solo rinchiuse in celle affollte. Non ci sono programmi di rieducazione, i detenuti non fano nulla tutto il giorno. Vengono lasciati alla loro solitudine, ai loro pensieri, ai soprusi che i più deboli subiscono dai più forti. Molti di loro pensano ‘...ma chi me lo fa fare’. È una tragedia senza fine”. L’ultimo suicidio si è verificato a Secondigliano, a fine ottobre. Non c’erano segnali che potessero preannunciare un tale gesto. “Ero stato a colloquio con lui pochi giorni prima - racconta Ioia - e non avrei mai pensato che potesse fare un gesto del genere. Ma non potrebbe prevederlo neanche il più grande psicologo del mondo. La verità è che in cella la morte ti perseguita. Vieni a sapere che un detenuto dello stesso piano si è tolto la vita, che quello del piano di sopra è stato salvato dai compagni o dalla polizia penitenziaria. Diventa un tarlo che ti divora durante intere giornate di ozio”. L’Italia è tra i paesi europei messi peggio per vivibilità delle case circondariali. Periodicamente l’Ue multa il nostro Paese per questo motivo. Napoli è tra le città italiane messe peggio: il penitenziario di Poggioreale, che potrebbe ‘ospitare’ 1.600 detenuti, ne conta oltre 2mila. A governare la vita del carcere è la miseria. Anche in questi luoghi c’è una scala sociale e c’è chi sta in fondo e non può permettersi nulla. “Quando parlo con loro mi resta dentro la sofferenza di coloro che non hanno nulla, di chi raccoglie i mozziconi di sigaretta da terra, di chi viene lasciato dalla moglie mentre è ancora dentro, di chi non ha nessuno che lo venga a trovare. Penso che lo Stato non dovrebbe lasciare le persone a marcire, dovrebbe dargli una possibilità di rieducazione, magari attraverso lavori utili. Penso che non dovrebbero essere lasciati chiusi nelle celle, insieme alla loro disperazione”. Napoli. “Sono vecchio, non vedo e non sento più”, l’appello del detenuto di 88 anni di Viviana Lanza Il Riformista, 19 novembre 2021 “Sono vecchio, stanco. Ormai non vedo e non sento più”. Un appello disperato pronunciato di fronte ai giudici del Tribunale di Napoli. Una dichiarazione spontanea fatta in aula, a fine udienza, due giorni fa, come a invocare una pena più umana. Parla Carmine Montescuro, classe 1934, zì Minuccio per quelli della zona di Sant’Erasmo e del centro storico di Napoli, un tempo boss, oggi il detenuto più anziano della Campania, forse d’Italia. Ottantotto anni, diabetico, con gravi problemi alla vista. È in carcere da molti mesi, dopo una violazione delle prescrizioni previste dal regime di detenzione domiciliare che gli era stato concesso proprio a causa delle sue condizioni di salute. I giudici che nel 2019 avevano analizzato la sua cartella clinica lo avevano ritenuto, infatti, incompatibile con il regime detentivo. Immaginate cosa possa voler dire tornare in carcere a 88 anni, con tutta una serie di patologie che rendono la reclusione invivibile per chi la patisce e difficile per chi deve gestirla. Montescuro è recluso nel carcere di Secondigliano. Per la giustizia è un uomo pericoloso al punto da dover stare in una cella nonostante sia ormai un uomo vecchio e malato. Un articolo dell’ordinamento penitenziario, il 47 ter, seppure con determinati paletti dovuti a pericolosità sociale e aggravanti, prevede che la pena detentiva inflitta a una persona che abbia compiuto i settanta anni di età “può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza e accoglienza”. È una sorta di detenzione domiciliare con una finalità umanitaria motivata dal fatto che superata una certa età la reclusione in carcere diventa più invivibile. Anche la Costituzione, all’articolo 27, stabilisce che la condanna non sfoci in tortura e che sia sempre nei limiti dell’umanità. E cosa c’è di umano a tenere in una cella un uomo tanto anziano e malato? Montescuro sta affrontando un processo per associazione finalizzata alle rapine, e per quello si trova in carcere. La sua storia è uno di quei casi in cui il passato criminale del detenuto pesa più di ogni valutazione in termini di umanità, garantismo, principi costituzionali. Un altro caso Cutolo in questo senso. Giustizia o tortura? Dilemma antico. Qualche mese fa a Napoli si registrò la morte di un detenuto 84enne, il vecchio boss Marandino. “Era una persona anziana con precedenti penali - spiegò il garante Ciambriello - ma questo giustifica il fatto che sia stato fatto morire nell’assoluta solitudine?”. Storie che riaprono riflessioni sulla tutela della salute in carcere e sulla pena che non può diventare accanimento o tortura. “La tutela della salute, della vita e dell’età avanzata sono prioritarie rispetto alle misure cautelari? - fu la riflessione del garante - Credo che sia questa la domanda da porci, non solo per una questione di umanità, che negli ultimi tempi pare sia diventata merce rara, ma anche per misurare l’efficienza e l’efficacia di un sistema penale e detentivo che rimuove ogni problema trincerandosi dietro vincoli burocratici in un gioco a rimpiattino sulle diverse competenze di magistratura, sanità penitenziaria e periti”. Del vecchio boss non era rimasta che l’ombra. Ora il caso di Carmine Montescuro è all’attenzione del garante di Napoli Pietro Ioia e del garante campano Samuele Ciambriello. In Campania si contano circa cento detenuti anziani, che gravano sui drammi già normalmente vissuti in carcere, sulle carenze di assistenza e di personale, sulle difficoltà di gestire reclusi con tante criticità. Ad aprile scorso un report del Consiglio d’Europa in Italia tracciò un bilancio allarmante: troppi detenuti e troppo anziani. Un dato sul quale incidono sicuramente anche i tempi lunghi dei processi, quelli delle esecuzioni. Spesso le sentenze vengono eseguite a moltissimi anni dai fatti e accade di finire in cella da anziani per fatti commessi in un passato lontano. Un cortocircuito, uno dei tanti che si innescano quando si parla di giustizia e carcere. Quando scoppiò la pandemia si stimarono circa mille detenuti anziani, furono valutate misure alternative per far fronte all’emergenza sanitaria. Ma gli effetti delle misure emergenziali sono sfumati nel corso di questi mesi. Nelle carceri il numero dei nuovi ingressi è tornato ad aumentare, il ricorso alle manette è più frequente, e nelle carceri il problema del sovraffollamento è tornato a essere un’emergenza. Nel caso di detenuti anziani diventa un’emergenza nell’emergenza. E si perde ogni barlume di umanità, perché la pena smette di avere una funzione rieducativa e diventa solo una misura punitiva, afflittiva. Santa Maria Capua Vetere. Pestaggi verificati anche prima del 6 aprile 2020 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 novembre 2021 Il 15 dicembre si svolgerà l’udienza preliminare per le violenze con 120 indagati, che potrebbero aumentare, e 177 vittime. Tra i soggetti offesi l’associazione Antigone, il Garante nazionale e “Il carcere possibile Onlus”. Il 15 dicembre si svolgerà l’udienza preliminare per i fatti di Santa Maria Capua Vetere. In aula ci sarà anche l’associazione Antigone come parte offesa e chiederà di costituirsi parte civile. Com’è noto, il 9 settembre scorso è arrivata la chiusura delle indagini da parte della Procura della Repubblica, notificata a 120 tra agenti, funzionari di Polizia Penitenziaria e dirigenti dell’Amministrazione Penitenziaria. L’associazione Antigone tra i soggetti offesi per i pestaggi a Santa Maria Capua Vetere - L’atto depositato inserisce l’associazione Antigone tra i soggetti offesi, assieme al Garante nazionale delle persone private della libertà e a “Il carcere possibile Onlus”. Era stata proprio Antigone a presentare il 20 aprile, a pochi giorni dagli eventi, un esposto in Procura nel quale denunciava quanto svariati famigliari di persone ristrette a Santa Maria Capua Vetere avevano raccontato agli avvocati dell’associazione, con ricostruzioni tutte coerenti tra di loro e dalle quali emergeva la drammatica portata dell’operazione punitiva. Contestualmente, Antigone aveva avvisato gli allora vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Lo scorso giugno ben 52 persone, tra le quali il provveditore all’Amministrazione Penitenziaria della Campania, erano stati raggiunti da misure cautelari. L’atto di chiusura delle indagini è ingente per mole e contenuti. Sono 176 pagine, nelle quali si trovano gli elenchi delle persone indagate e delle vittime. Le prime sono 120, cui devono aggiungersi tutti coloro che ancora non sono stati identificati a causa delle protezioni facciali che si possono vedere nel video diffuso nei mesi scorsi dalla stampa. Le seconde sono 177. Numeri che sono il segno dell’enormità dell’operazione, fatta passare come un ripristino dell’ordine ma in realtà avvenuta quando la pacifica rivolta del giorno precedente, nella quale i detenuti chiedevano mascherine per proteggersi dal Covid, era già del tutto rientrata. L’associazione Antigone ha scoperto che episodi violenti si sono verificati anche 10/15 giorni prima - L’associazione Antigone, scorrendo le pagine dell’atto, scopre che comportamenti violenti si erano verificati in quel carcere già “circa 15/10 giorni prima del 6 aprile”, quando “a seguito di una lite avvenuta tra due detenuti ristretti presso la sesta sezione del Reparto Nilo, 50 agenti circa della polizia penitenziaria, muniti di scudi e manganelli (…), sopravvenivano e picchiavano indistintamente i detenuti”, e in particolare un uomo “mentre questi cercava di proteggere un detenuto più anziano”. Le accuse: dall’abuso di autorità, al falso, al depistaggio, alla cooperazione in omicidio colposo, alle lesioni, alla tortura - Il documento si divide in 85 capi, ciascuno dei quali riguarda - in maniera intrecciata e sovrapposta - alcune delle persone indagate e si riferisce a specifiche fattispecie di reato, dall’abuso di autorità, al falso, al depistaggio, alla cooperazione in omicidio colposo, alle lesioni, alla tortura. Un capo di imputazione, quest’ultimo, già più volte utilizzato dai magistrati dal 2017, anno di entrata in vigore della legge che lo ha introdotto nel codice penale italiano, a oggi. Si legge nel documento: “…con una pluralità di violenze, minacce gravi ed azioni crudeli, contrarie alla dignità e al pudore delle persone recluse, degradanti ed inumane, prolungatesi per circa quattro ore del giorno 6 aprile 2020, consistite in percosse, pestaggi, lesioni - attuate con colpi di manganello, calci schiaffi, pugni e ginocchiate, costrizioni ad inginocchiamento e prostrazione, induzione a rimanere in piedi per un tempo prolungato, faccia al muro, ovvero inginocchiati al muro - e connotate da imposizione di condotte umilianti (quali, ad esempio, l’obbligo della rasatura di barba e capelli)”. Napoli. Carceri a pezzi, tra detenuti che si danno fuoco e agenti indagati: è emergenza di Viviana Lanza Il Riformista, 19 novembre 2021 Un dramma sfiorato in una cella della casa circondariale di Poggioreale e un’indagine della Procura che scatena un nuovo temporale giudiziario sulla polizia penitenziaria. Il tema carcere torna sotto i riflettori a Napoli. Si parte da Poggioreale, reparto Salerno. Il dramma è sfiorato questa volta, sventato in extremis da alcuni agenti della polizia penitenziaria. Un detenuto arrivato dalla Calabria ha rischiato di morire nell’incendio che aveva appiccato nella camera di pernottamento. Lo hanno salvato gli agenti attirati dal fumo e dall’odore acre che le fiamme avevano sprigionato. Questione di attimi e si sarebbe contato in carcere un nuovo morto, un atto di autolesionismo in più da aggiungere alla triste lista dei gesti estremi commessi in cella, nel mondo di chi vive dietro le sbarre. Un mondo, purtroppo, ancora troppo lontano da quello fuori che lo circonda. Al punto che anche gli agenti della polizia penitenziaria arrivano a invocare attenzione e aiuti. Il vice segretario regionale dell’Osapp Campania, Luigi Castaldo, ha commentato l’episodio sottolineando la “pericolosità del lavoro svolto dai poliziotti penitenziari” e la “complessità del carcere di Poggioreale che conta oltre 2200 detenuti a fronte di una capienza massima di 1600”. E giù con le criticità di sempre, dalle questioni strutturali (“Ci sono vari reparti inagibili, in attesa di ristrutturazione, e questo - sottolinea Castaldo - non fa altro che creare ulteriori disagi”) alle mai risolte carenze di personale (mancano più di 200 unità non solo tra gli addetti alla sicurezza e al controllo ma anche e soprattutto tra gli educatori, gli psicologi e altre professionalità essenziali per garantire un carcere più civile ed umano). E proprio il nodo “personale” è finito al centro di un’inchiesta della Procura su una presunta corruzione che conta 14 indagati per episodi avvenuti tra gennaio e giugno scorsi. Due agenti della polizia penitenziaria (uno dei quali già in stato di custodia cautelare in carcere da luglio scorso per accuse analoghe) sono sospettati di essere stati il perno del meccanismo con cui si promettevano e assicurano (dietro compenso, anche 8mila euro) aiuti per superare le prove psico-attitudinali per entrare a far parte di corpi delle forze armate, tra esercito, carabinieri e aeronautica militare, nonché nella polizia penitenziaria. I provvedimenti cautelari riguardano anche pubblici ufficiali, tra cui un assistente capo della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Santa Maria Capua Vetere, un vigile urbano del Comune di Caivano, un caporal maggiore dell’esercito in servizio presso la caserma Maddaloni, tutti sospettati di aver fatto da intermediari tra gli aspiranti militari e i colleghi ritenuti in grado di oleare i meccanismi delle prove ai concorsi. Tra gli indagati ci sono anche due agenti della penitenziaria che avevano un ruolo nelle sigle sindacali della categoria e tra le ipotesi su cui si dovrà lavorare c’è anche quella di un presunto scambio proposto a una collega: la possibilità di conseguire un’aspettativa sindacale non retribuita in cambio di 60/70 tessere sindacali o il loro equivalente in euro, cioè tra 5 e 6mila euro. Il quadro accusatorio per gli inquirenti è di “estrema gravità” ma ovviamente si è in una fase in cui si è in attesa di conferme a tutte le ricostruzioni accusatorie, l’inchiesta è ancora in corso. Ora la parola passa alla difesa. Intanto dalle carte spuntano anche nomi anche di persone non indagate ed episodi o stralci di conversazioni intercettate che spingono a sbattere il mostro in prima pagina. Bisogna attendere che l’inchiesta faccia il suo corso, che le ricostruzioni investigative superino il vaglio dei giudici nel contraddittorio con le tesi difensive. Resta una considerazione finale da fare: lavorare nel corpo delle forze armate richiede attitudini che non possono essere un dettaglio irrilevante o da considerare merce di scambio. La cronaca ce lo ha ricordato, i drammi che si consumano nel mondo del carcere lo dimostrano. Pisa. “All’interno del carcere il dentista non può lavorare” La Nazione, 19 novembre 2021 Un macchinario ha bisogno di essere riparato da mesi ma nonostante i solleciti l’intervento non arriva. Non è la prima volta che il problema viene segnalato e, così come accadde qualche anno fa, quando la situazione trovò poi uno sbocco in seguito alla segnalazione su La Nazione, hanno deciso di percorre la stessa strada. Il problema è (di nuovo) quello del blocco delle prestazioni sanitarie di solito fornite dal gabinetto odontoiatrico all’interno dell’ambulatorio medico del carcere di Volterra. Così come accadde nel 2009, il guasto ad uno dei macchinari utilizzato dal personale medico che presta servizio all’interno della struttura due giorni alla settimana (secondo quello che dovrebbe essere il calendario abituale, insomma) sta impedendo il regolare funzionamento del servizio. A farsi portavoce del problema è Francesco Innocenti che evidenzia il disagio - e anche le preoccupazioni - vissuto da tutti coloro che stanno scontando la loro pena. “Una delle apparecchiature - racconta Innocenti - non è funzionante ormai da alcuni mesi e questo comporta l’impossibilità di accedere alle cure odontoiatriche. Non possono essere previsti nuovi interventi da parte del personale medico e quelli fissati in precedenza, fra i quali il mio, sono ripetutamente rimandati a data che ancora non è possibile fissare, perché non è chiaro quando lo strumento sarà riparato”. E questa situazione di stallo, sottolinea ancora Innocenti, “resta tale nonostante la segnalazione iniziale e poi i ripetuti solleciti effettuati dalla Direzione del carcere. Purtroppo, alla resa dei fatti tutto quanto è rimasto al momento inascoltato”. L’appello, quindi, è rivolto a chi deve predisporre l’intervento dei tecnici in modo tale che il servizio medico possa riprendere. Milano. Riparte BookCity 2021, anche nelle carceri di Antonella Barone gnewsonline.it, 19 novembre 2021 Dopo l’edizione dello scorso anno tenutasi solo online, BookCity - iniziativa creata nel 2012 dall’omonima associazione e dal Comune di Milano - è tornata da ieri a proporre una grande varietà di eventi con al centro libri, lettura e lettori su tutto lo spazio urbano. Un territorio a cui appartengono anche le carceri che quindi ospiteranno, come nelle precedenti edizioni, incontri, proiezioni, spettacoli e altre iniziative. La casa di reclusione di Milano Opera, proprio grazie a una delle iniziative programmate da Bookcity21, riapre i cancelli alla città, dopo il lungo periodo in cui le misure anti Covid hanno costretto a limitare le relazioni esterne. Il 19 novembre, alle ore 18.00, nel teatro dell’istituto, la compagnia Opera Liquida guidata da Ivana Trettel, sarà la protagonista di “Sconfinando tra carcere e città, Opera liquida con la Feltrinelli.it”. Nel corso dell’evento, introdotto dall’assessore al Welfare e Salute del Comune di Milano Lamberto Bertolé e presentato dal direttore Silvio De Gregorio e dal comandante Amerigo Fusco, la compagnia presenterà brevi estratti di “Noi Guerra! Le meraviglie del nulla”, interpretati da detenuti attori ed ex reclusi. Il debutto dello spettacolo, atteso da marzo 2020, avrà luogo nel teatro del carcere il 16 dicembre. Nell’ambito della collaborazione con Feltrinelli.it rientra anche la partecipazione di alcuni membri di Opera Liquida all’incontro “Stai all’occhio!” progetto di prevenzione dei comportamenti a rischio nei giovani, rivolto agli studenti di scuole superiori, tenutosi stamane nella libreria di piazza Duomo. Prende spunto dall’autobiografia professionale di Giacinto Siciliano, “Di cuore e di coraggio - Storia di una vita normale ma non tanto. Ricordi di un direttore di carcere “ (Rizzoli), la tavola rotonda che ha fatto seguito alla presentazione del libro tenutasi al Palazzo di Giustizia. All’incontro, organizzato dal garante comunale dei diritti dei detenuti, Francesco Maisto, hanno partecipato il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia, avvocati, magistrati e lo stesso autore del libro. Il programma della kermesse milanese, che si concluderà il 21 novembre, prevede altre due iniziative sul carcere, organizzate in collaborazione con l’Ufficio del garante comunale: domani, 19 novembre, nel teatro dell’Istituto per Minori Beccaria, la proiezione del docufilm “Clessidre”, alla presenza del regista Francesco Clerici, e il 20 novembre a San Vittore, la presentazione del libro “Lo spazio di relazione nel carcere. Una riflessione progettuale a partire dai casi milanesi” di Andrea Di Franco e Paolo Bozzuto. Messina. Stabilito l’esonero dalle tasse universitarie per gli studenti detenuti imgpress.it, 19 novembre 2021 Nell’ambito dell’Accordo Quadro per l’istituzione dei Poli Universitari Penitenziari (Pup), siglato lo scorso mese di marzo dagli Atenei dell’Isola, dal Garante dei Detenuti della Regione Siciliana e dal Provveditorato preposto, continuano le iniziative concrete poste in atto per consentire ai detenuti delle Case Circondariali e degli Istituti di pena il conseguimento di titoli di studio di livello universitario e per stimolarli ad affrontare un percorso formativo utile alla riabilitazione psico-sociale. Per tali motivi, su proposta della prof.ssa Anna Maria Citrigno (ricercatrice di Istituzioni di Diritto Pubblico presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Giuridiche e referente Cnupp dell’Ateneo peloritano per ciò che concerne le attività inerenti alla collaborazione fra le Università regionali e gli Istituti penitenziari) sono state previste misure agevolative ed è stato decretato l’esonero dal pagamento delle tasse universitarie - Contributo Onnicomprensivo Annuale, COA - per tutti gli studenti detenuti che vorranno intraprendere un cammino di studi, presso UniMe, nell’a.a. 2021/22. L’Ateneo assicurerà adeguata assistenza didattica (compresi gli esami di profitto), agevolazioni per il recupero degli Obblighi Formativi Aggiuntivi e possibilità di seguire le lezioni a distanza. Attualmente, 8 detenuti della Casa Circondariale Messina Gazzi hanno già manifestato la propria volontà per procedere all’immatricolazione e il numero è destinato a salire. Milano. Studenti, architettura, impatto sociale: il Poli porta lo sport in carcere alumni.polimi.it, 19 novembre 2021 Gli studenti del Poli hanno progettato una palestra per la sezione femminile del carcere di Bollate. L’Advanced School of Architecture (Asa) è un percorso formativo “aggiuntivo”, che gli studenti più meritevoli possono seguire parallelamente ai Corsi di Laurea Magistrale in Architettura. È un programma di eccellenza dedicato a soli 20 studenti, italiani e internazionali, selezionati in base al loro talento progettuale. Il suo obiettivo è quello di potenziare e sviluppare la figura dell’architetto-progettista, attraverso attività che mettano lo studente a diretto contatto con la realtà professionale e con la complessità dei processi oggi in atto nelle diverse realtà europee ed extra europee. Nella prima Master Class dell’edizione 2021-2022, sotto la direzione di Paolo Cascone e Maddalena Laddaga (Codesignlab e University of Westminster) e grazie alla collaborazione con il progetto Acts (A Chance Through Sport) diretto dal prof. Andrea Di Franco (Dastu), gli studenti hanno progettato e realizzato il prototipo di una piccola palestra modulare, concepita per essere montata in una delle aree all’aperto del penitenziario di Bollate. “Può fare veramente la differenza, qui”, ha dichiarato una delle rappresentanti delle detenute. “Se non hai nulla da perseguire resti bloccato nella routine e non riesci ad andare avanti. È importante sia per la nostra salute mentale sia per il percorso di crescita individuale. È una sorta di trampolino”. Si tratta del primo progetto di questo genere che coinvolge una comunità di detenute in Italia. Dal disegno alla costruzione vera e propria, gli studenti hanno lavorato fianco a fianco gli architetti Cascone e Laddaga, esperti nel campo della progettazione parametrica, collegando l’approccio sociale a quello di costruzione ecologica e produzione digitale. Ogni modulo della struttura è progettato per creare uno spazio sia per l’esercizio individuale che in connessione con gli altri, a corpo libero o con l’uso di attrezzi. L’uso di simulazioni ambientali digitali ha guidato la scelta dei materiali. Gli studenti, infatti, hanno potuto sperimentare in prima persona le potenzialità di fabbricazione digitale avanzata dei Laboratori Labora e MaBa. Saperlab del Politecnico di Milano. “Si tratta di un’esperienza didattica del tutto eccezionale”, commenta il prof. Pierre-Alain Croset, direttore di Advanced School of Architecture (ASA). “che illustra in modo esemplare la missione dell’ASA di potenziare le competenze progettuali dei futuri architetti grazie ad una forte sinergia tra accademia e realtà professionale. La volontà è quella di offrire agli studenti un’esperienza progettuale molto concreta - direi anche “fisica” e “tattile”: i ragazzi hanno risposto a questa sfida dimostrando un’eccezionale passione e impegno, certamente stimolati anche dalla consapevolezza di vivere qualcosa che va oltre la tradizionale esperienza scolastica, perché potrà concludersi nella prigione di Bollate con uno spazio reale di sicura utilità sociale”. Il prototipo è stato smontato e si trova ora nel deposito del carcere di Bollate, in attesa di essere ricostruito con le detenute in primavera. Per portarla a termine con i giusti materiali di rivestimento e con gli attrezzi necessari all’esercizio fisico, servono circa 15 mila euro: abbiamo bisogno degli Alumni! “Si tratta di un’esperienza didattica del tutto eccezionale”, commenta il prof. Pierre-Alain Croset, direttore di Advanced School of Architecture (Asa). “che illustra in modo esemplare la missione dell’ASA di potenziare le competenze progettuali dei futuri architetti grazie ad una forte sinergia tra accademia e realtà professionale. La volontà è quella di offrire agli studenti un’esperienza progettuale molto concreta - direi anche “fisica” e “tattile”: i ragazzi hanno risposto a questa sfida dimostrando un’eccezionale passione e impegno, certamente stimolati anche dalla consapevolezza di vivere qualcosa che va oltre la tradizionale esperienza scolastica, perché potrà concludersi nella prigione di Bollate con uno spazio reale di sicura utilità sociale”. Prato. Versi galeotti di Giorgio Bernardini Corriere Fiorentino, 19 novembre 2021 I pensieri tradotti in versi dai reclusi nel carcere pratese della Dogaia, durante la pandemia, da qualche giorno sono apparsi su grandi manifesti sparsi per le vie del quartiere Maliseti Un progetto del collettivo artistico Metropopolare che ha coinvolto. “Non penso di stare in prigione, credo piuttosto di esser in un’accademia di lingua italiana”. È l’autoconvincimento di uno spagnolo detenuto nel carcere pratese della Dogaia. Oramai non fa altro che scrivere: il progetto del collettivo artistico Metropopolare gli ha dato un mezzo per guardare la propria esperienza con occhi diversi, di riscatto. Sessanta manifesti - tra affissioni e pensiline degli autobus - sono apparsi nei giorni scorsi nel quartiere di Maliseti, che costeggia il luogo in cui le persone sono private della libertà dopo essere state condannate. I messaggi poetici sono stati realizzati dai detenuti della casa circondariale nel corso del laboratorio che la compagnia pratese porta avanti da 13 anni. “Questa pandemia - spiega Giulia Aiazzi, una delle operatrici del collettivo - ha cambiato tutto: molti detenuti con cui avevamo già lavorato sono usciti, altri avevano chiesto il trasferimento. Abbiamo trovato un gruppo nuovo, persone di ogni nazionalità tra i 20 e i 40 anni. Il lavoro fatto con la poesia è stato rivelatore”. L’esperienza passa per l’elaborazione di testi propri e per il confronto diretto con poeti, come Franco Arminio, che nelle scorse settimane è andato in carcere a Prato per incontrare quanti hanno partecipato al progetto. Lo scopo del lavoro è di riflettere sulle reclusioni che ciascuno vive, creando un ponte tra chi risiede all’interno del carcere e la cittadinanza. Questa viene direttamente invitata a concentrarsi sulla condizione del carcere, non solo attraverso queste suggestioni poetiche, ma anche in formato audio: scannerizzando il QR code presente su ogni manifesto si può sentire la voce dei detenuti. “Invito tutti ad andare a Maliseti - suggerisce Aiazzi - ad ascoltare le voci, i rumori e i suoni di quell’ambiente particolare. Alcuni di loro scrivono della loro quotidianità, sia alle famiglie che per se stessi. Ciò che emerge con forza è la riflessione sulla mancanza di libertà: il testo poetico ha il potere di riconnettere loro a ciò di cui è fatta davvero e noi alle cose che contano”. Dopo il successo dei manifesti affissi lo scorso Natale con le frasi dei bambini raccolte durante il lockdown, continua dunque il dialogo con la città attraverso il lavoro del collettivo guidato da Livia Gionfrida, direttrice artistica del progetto e regista: “La nostra è una ricerca di nuovi linguaggi espressivi attraverso i quali comunicare con l’altro, con il pubblico, incontrarlo - spiega Gionfrida - per mettersi in discussione come comunità”. L’iniziativa fa parte della rassegna “Anche i poeti hanno una loro legge”, che in questi mesi prevede laboratori, spettacoli e incontri con alcuni dei più importanti poeti e poetesse italiane, con appuntamenti all’interno e fuori dal carcere. Concluderà questo percorso un incontro in musica all’interno della casa circondariale con il cantautore Giovanni Truppi. La rassegna proseguirà con lo spettacolo It’s Just a Game al teatro Magnolfi sabato 27 novembre alle 21 e domenica 28 alle 17: in scena Robert da Ponte, attore ex detenuto che inviterà il pubblico ad una tragicomica riflessione sul tempo presente (Info e prenotazioni a teatro@metropopolare.it.). Storia di un ragazzo eritreo che l’Italia credeva un mostro e dell’uomo che l’ha salvato di Roberto Saviano Corriere della Sera, 19 novembre 2021 Medhanie Tesfamariam Berhe, un ragazzo eritreo la cui vita è divenuta un vero inferno a causa di uno scambio di persona. Il giovane eritreo è stato ritenuto per errore dalla Procura di Palermo uno dei più temuti trafficanti di esseri umani, dal nome simile di Medhanie Yehdego Mered. Il giornalista Lorenzo Tondo ha scoperto la sua storia. È lui il protagonista del libro di Lorenzo Tondo, che ci racconta di un agghiacciante errore giudiziario verso il quale l’Italia e i media italiani hanno mostrato indifferenza. E mentre ci parla di Berhe, Lorenzo Tondo chiarisce dinamiche che, quando si tratta di immigrazione, è fondamentale conoscere. La prima riguarda la vera identità dei trafficanti di esseri umani, che non sono le Ong, ma persone e organizzazioni criminali di cui spesso si conoscono nomi e affiliazioni. La seconda è strettamente collegata alla prima: gli inquirenti, in Italia, in seguito al naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa, hanno deciso di contrastare il traffico di esseri umani come si fa con le mafie. Stesse metodologie di indagine e ricorso alle intercettazioni. Ecco perché l’identità dei trafficanti e le loro prassi sono note agli inquirenti italiani. Ciò chiarisce come indagare e criminalizzare le Ong sia l’effetto di politiche razziste e xenofobe che nulla hanno a che vedere con la giustizia. Ma pur avvalendosi delle stesse risorse utilizzate contro la criminalità organizzata, ben presto ci si è resi conto che le nostre carceri si riempivano di migranti, spesso soccorsi da imbarcazioni militari italiane, trovati con in mano bussola e timone. Migranti mai stati trafficanti, ma che per la traversata avevano pagato come tutti e come tutti erano stati rapiti, torturati, abusati. A condannarli una bussola, un timone, qualche testimonianza spesso resa per paura. Prima di leggere Il Generale, avevo ascoltato Lorenzo Tondo raccontare la storia di Medhanie Tesfamariam Berhe, il giovane eritreo ritenuto a lungo ed erroneamente dalla Procura di Palermo essere Medhanie Yehdego Mered, uno dei più temuti trafficanti di esseri umani. Tondo ha deciso coraggiosamente di raccontare la vicenda di Berhe perché non ne ha potuto fare a meno. L’ho sentito elencare le evidenze processuali (conversazioni su Facebook, analisi del Dna) che avrebbero chiarito lo scambio di persona e risparmiato a Berhe anni di carcere e di sofferenze. Ma una kafkiana sete di giustizia ha impedito di poter vedere. Gli ho sentito raccontare di come Michele Calantropo, avvocato di Berhe, si sia recato in Svezia, a sue spese, per sottoporre al test del Dna il figlio del trafficante e provare così a scagionare il suo assistito. Il lavoro di ricerca a Tondo è valso una citazione in giudizio per diffamazione in sede civile da Calogero Ferrara - il magistrato che ha sostenuto l’accusa di Berhe - oggi in servizio presso la neocostituita Procura Europea (Eppo). A noi resta il racconto d’un giovane eritreo con sogni e speranze. Sogni e speranze diventati in Italia il peggiore degli incubi. Il minimo che si può fare è leggere la sua storia e raccontarla. Povertà educativa minorile: per il 90% degli italiani è un’emergenza nazionale Corriere della Sera, 19 novembre 2021 La dura prova della pandemia e la centralità del fenomeno: i dati della ricerca dell’Istituto Demopolis per l’impresa sociale Con i Bambini. Rossi-Doria: “Rafforziamo le alleanze educative”. I giovani e la scuola. Un percorso virtuoso per far emergere, tra i ragazzi, i talenti e indirizzare le loro aspirazioni. Ma, purtroppo, non sempre è così. Se viene a mancare la continuità, questo “viaggio” si interrompe ed emerge un problema. Anzi, un’urgenza. Perché questa è la povertà educativa minorile: un’emergenza che ha bisogno di risposte mirate. Soprattutto dopo la pandemia che ha avuto un impatto con conseguenze pesantissime nel mondo dell’istruzione. Ed è questo quanto emerge anche dall’indagine dell’Istituto Demopolis per l’impresa sociale Con i Bambini. Ovvero, come rimarca il suo presidente Marco Rossi-Doria: “Gli italiani hanno capito che la povertà educativa è una grande questione nazionale”. In che misura? Per il 90% degli italiani la povertà educativa è un fenomeno grave. L’esatta dimensione dell’allarme, dopo la “dura prova del Covid-19”, è evidenziata dai numeri della ricerca “Gli italiani e la povertà educativa minorile - Ascoltiamo le comunità educanti”, promossa nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile e realizzata alla vigilia della Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza fissata per il 20 novembre. Per un italiano su due la didattica a distanza non ha adeguatamente garantito una parità di accesso: lezioni, contatti con gli insegnanti, apprendimento. Per 8 genitori su dieci a bambini e ragazzi in futuro non dovrà mai più mancare la continuità scolastica. Non solo: anche la socialità fra coetanei (69%), le attività sportive e ludiche (63%). E per il 78% degli italiani, il principale problema dei minori - accentuato dal lockdown - è la dipendenza da smartphone e tablet. C’è stato poi un peggioramento nell’organizzazione scolastica (55%) e nel rapporto tra i ragazzi (48%). Oltre alla coscienza degli italiani sul fenomeno, Marco Rossi-Doria pone l’accento su un altro aspetto: “Cresce e si rafforza anche la consapevolezza che il fenomeno si affronta insieme, in un’ottica di comunità educante, rafforzando le alleanze educative. Dopo l’emergenza in senso stretto, in cui le preoccupazioni principali erano giustamente rivolte alla disponibilità di dispositivi e Internet, l’opinione pubblica fa i conti con le esigenze primarie di ogni uomo e bambino: la socialità e i legami con i pari, l’esigenza di imparare bene e, al contempo, di stare bene insieme, tra coetanei”. La pandemia ha evidentemente inciso sul percorso dei ragazzi, anzi “ha ostacolato tutto questo - continua Rossi-Doria -: servono continuità nell’apprendimento per bambini e ragazzi, oltra a più spazi per la socializzazione. Le diseguaglianze sono cresciute, occorre raggiungere tutti e ciascuno. Le priorità indicate dagli italiani per il Pnrr e la spesa pubblica sono eloquenti. Il percorso avviato da Con i Bambini anche verso le particolari fragilità è largamente condiviso dall’opinione pubblica, come dimostrano le reazioni positive all’iniziativa che stiamo avviando a favore di bambini e ragazzi orfani di femminicidio, che risponde a un dovere civile di tutti”. “Il tema della povertà educativa ha finalmente conquistato la centralità che merita - evidenzia Francesco Profumo, presidente Acri, Associazione che riunisce Fondazioni e Casse di Risparmio Spa - e l’indagine lo conferma. L’emergenza Covid ha fatto emergere, e ulteriormente aggravato, le disuguaglianze che lacerano la nostra società e che condannano a un “destino già scritto” molti dei nostri ragazzi”. Alla Camera sull’eutanasia incombe lo spettro della legge Zan di Liana Milella La Repubblica, 19 novembre 2021 Slitta ancora l’approdo in aula. Se ne parlerà forse il 29 novembre. Ma il centrodestra è deciso a ostacolare la legge anche andando molto al di sotto delle quattro condizioni poste dalla Corte costituzionale nel 2019. La legge sull’eutanasia rischia di fare la stessa fine della legge Zan, affondata al Senato dal centrodestra. In queste ore alla Camera un’identica manovra è in atto, protagonisti, ancora una volta, Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Coraggio Italia che stanno facendo la voce grossa, a colpi di emendamenti, nelle due commissioni che si occupano delle future norme, la Giustizia e gli Affari sociali. Il primo obiettivo, ovviamente, è cercare di rinviare sine die la discussione in aula. Era prevista per il 25 ottobre. Era già slittata al 22 novembre. Ma poi la riforma del processo civile, che deve rispettare i tempi del Pnrr, ha preso il suo posto. Nel frattempo dozzine di causidici emendamenti hanno costretto i due relatori, uno per ogni commissione, Alfredo Bazoli del Pd e Nicola Provenza del M5S, a un faticoso lavoro di cernita. Ieri l’ennesimo scontro, nell’ufficio di presidenza, sul calendario. Perché i due presidenti - Mario Perantoni per la Giustizia e Marialucia Lorefice per la Affari costituzionali, per una coincidenza entrambi di M5S - hanno chiesto al presidente della Camera Roberto Fico solo uno spostamento “minimo”, appunto al 29 novembre, mentre il centrodestra ne avrebbe voluto uno molto più congruo. Con l’obiettivo di rinviare il più possibile una discussione che il centrodestra considera quanto mai indigesta. Il centrodestra, con la Lega in testa, fa di tutto per dilazionare la data del passaggio in aula. E il partito di Conte si arrabbia. Ecco cosa dice Eugenio Saitta: “È inaccettabile la pretesa della Lega di dilazionare ancora i tempi per chiudere in commissione il provvedimento sul fine vita. In realtà vogliono impedire che si arrivi fino in fondo su questo provvedimento di civiltà”. Il collega di partito, e relatore, Nicola Provenza, ieri sera si dichiarava “fiducioso” di chiudere il voto sugli emendamenti la prossima settimana. Voto che ha di fronte un bivio politico che Provenza sintetizza così: “Adesso serve una doverosa sintesi. Che abbia maglie non troppo larghe, perché altrimenti si rischia di non portare la legge al voto, ma neppure troppo strette, perché in quel caso la legge sarebbe inutile”. E già. Ma tutto il centrodestra, per evitare una legge “utile”, ha presentato emendamenti per rendere di fatto inattuabili perfino le quattro condizioni poste dalla Consulta sul caso Cappato nel 2019. Dopo aver dato un anno di tempo al Parlamento per decidere, e visto che non decideva, la Corte è andata avanti per la sua strada, tant’è che Marco Cappato, sotto processo a Milano per aver accompagnato in Svizzera Dj Fabo, è stato assolto dal reato di aiuto al suicidio. Condizioni chiarissime quella della Corte costituzionale e che consentirebbero già adesso di risolvere molti casi, che invece vengono bloccati dalla burocrazia sanitaria e ministeriale, come accade per i due tetraplegici che vivono nelle Marche, Mario e Antonio, inutilmente in attesa di poter ottenere il fine vita che hanno chiesto e di cui, in base alla Consulta, hanno diritto. Si batte per loro l’Associazione Luca Coscioni. Ricordiamo le quattro condizioni: l’eutanasia è già possibile se siamo di fronte “a una patologia irreversibile, causa di sofferenze fisiche o psicologiche assolutamente intollerabili, per un malato che può vivere solo attraverso trattamenti di sostegno vitale, ma che però sia capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Ma su ogni parola della Consulta il centrodestra fa dei distinguo, con un solo obiettivo, rendere impossibile ancora una volta la legge sull’eutanasia, proprio come ha bloccato quella sull’omofobia. Tutto questo mentre migliaia di italiani hanno firmato per andare al referendum proposto dalla Coscioni. Migranti, le toghe di Area: “Così il diritto d’asilo muore ai margini della fortezza europea” Il Dubbio, 19 novembre 2021 La denuncia di AreaDG sulla crisi al confine con la Polonia: “La coscienza dei giuristi è terribilmente scossa. L’unica voce politica che si leva è quella di chi chiede di ergere muri”. “Il diritto di asilo nasce e sovente muore al di fuori dei confini nazionali e della Ue, dove i richiedenti, tra cui donne, bambini ed ammalati, sono abbandonati nella terra e nel mare di nessuno. La rotta balcanica, la rotta bielorussa, la rotta turca, la rotta mediterranea, ancora in questi giorni sono costellate da sofferenze, da fame, sete, gelo, malattie e morte. La coscienza dei giuristi è terribilmente scossa dai fatti che avvengono tra Bielorussia e Polonia, tra Croazia e Slovenia, nel Mediterraneo orientale ed in quello occidentale, sulle spiagge libiche”. È quanto sottolinea il coordinamento di Area democratica per la giustizia a seguito all’acuirsi della crisi al confine Tra Polonia e Bielorussia, dove da giorni sono ammassate migliaia di persone, provenienti principalmente da Yemen, Iraq e Afghanistan, in condizioni spaventose. “Non solo come cittadini del mondo e come testimoni del senso di umanità contemporanea, ma anche come studiosi, come professionisti, giudici, avvocati, professori, funzionari amministrativi, membri delle Commissioni territoriali per la protezione internazionale, siamo tenuti a considerare a vario titolo nel nostro lavoro le condizioni disumane in cui versano migliaia di richiedenti asilo, ancor prima che sia consentito loro di presentare formalmente la domanda di protezione in Italia, in Europa - ammonisce il gruppo delle toghe progressiste - Quella domanda di asilo per cui intraprendono un viaggio terribile, quella istanza di protezione che la Costituzione, la Carta Ue, la Convenzione di Ginevra riconoscono esser un diritto inviolabile”. “L’eco delle parole pronunciate pochi giorni fa a Siena dal Presidente Mattarella e da Papa Francesco nelle scorse settimane, non ha trovato risposta da parte delle autorità politiche degli Stati membri della Ue e negli stessi organi dell’Unione - denuncia Area - L’inadeguatezza del Regolamento Dublino III è stata sottoposta all’attenzione della Cgue, ma le istituzioni politiche sono ancora in affanno sulla sua riforma. L’unica voce politica che si leva è quella di chi chiede di ergere muri ad Est, quella di chi chiede di abbandonare i naufraghi in mare, di chi finanzia centri di detenzione inumana ai margini della fortezza europea. La giurisdizione in tutti gli Stati membri è chiamata a svolgere, come sempre, i propri doveri, ma gli ostacoli materiali all’esercizio del diritto di asilo restano il più delle volte insuperabili, in mancanza di misure di ingresso umanitario che, lungo le rotte delle migrazioni, consentano di ricevere le domande di asilo all’inizio e non al termine di questo sentiero di morte. In queste condizioni davanti alle giurisdizioni nazionali arrivano ed arriveranno solo le domande dei superstiti di una vera e propria strage”, conclude il documento. “Mio padre, eroe del Ruanda, rapito e torturato dal regime” di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 19 novembre 2021 Intervista a Carine Kanimba, figlia di Paul Rusesabagina: l’uomo che nel 1994 salvò più di mille persone dal genocidio in Ruanda. E che ora si trova in cella dopo un processo farsa. “Sono sicura che alla fine ci sarà giustizia”. Quel che colpisce nello sguardo e nelle parole di Carine Kanimba è l’ottimismo, che scorre incrollabile, come la tenacia nel combattere da oltre un anno per la liberazione di suo padre, Paul Rusesabagina, il celebre direttore dell’hotel Milles collines che nel 1994 salvò centinaia di persone dal genocidio in Ruanda. Un uomo che, senza retorica, possiamo definire “eroe” e che oggi marcisce nelle prigioni del regime di Paul Kagame, uno degli ultimi satrapi del continente africano che da oltre 20 anni regna incontrastato sul suo paese, facendo a pezzi ogni barlume di opposizione. “Al mio cliente sono negati i diritti elementari, rapito, torturato e privato assistenza legale: quando sono andato in Ruanda dopo il suo arresto mi hanno immediatamente espulso dal territorio”, spiega al Dubbio l’avvocato belga Vincent Lurquin, in Italia assieme a Kanimba per Rusesabagina è stato catturato nell’agosto del 2020 mentre era diretto in Burundi, il suo aereo è stato dirottato verso Kigali dove ad aspettarlo c’era la polizia ruandese. Lo scorso settembre la condanna a 25 anni di prigione per “terrorismo”. La procura aveva chiesto l’ergastolo ed è ricorsa in appello. Kanimba l’arresto di suo padre è avvenuto in circostanze misteriose, ci può raccontare cosa è accaduto? Prima di fare luce sul suo rapimento, perché di questo si è trattato, vorrei fare una piccola premessa. Quando nel 2004 è uscito il film Hotel Rwanda dedicato alla storia di mio padre, il governo reagì positivamente, lo hanno ricevuto e persino offerto di lavorare assieme, ma lui ha rifiutato, perché non voleva fare parte di un sistema di potere che calpesta i diritti umani, in Ruanda e nella regione dei Grandi laghi. Da quel momento sono cominciati le intimidazioni, lo hanno seguito, spiato, denigrato sui media. Ha anche subito dei tentativi di assassinio. Poi nel 2010 il governo ruandese ha chiesto alle autorità degli Stati Uniti e del Belgio, dove mio padre aveva residenza, un procedimento di estradizione. Lo accusavano di finanziare di gruppi armati in Congo, ma avevano falsificato le fatture, che sarebbero state emesse dal Texas mentre in quei giorni lui era in Irlanda, per partecipare a una conferenza sui diritti umani. E anche il suo arresto è avvenuto con l’inganno. Era stato invitato da un prete del Burundi per parlare in alcune chiese, ma quel prete era in realtà un agente dei servizi segreti del Ruanda. Il jet privato dove viaggiava è stato così dirottato su Kigali. Per tre giorni è rimasto in una cella con mani e piedi legati bendato sugli occhi e con un fazzoletto sulla bocca. Hanno dovuto smettere perché ha avuto una crisi respiratoria. Questo per dire quale è stata l’accoglienza. Poi per 260 giorni lo hanno messo in regime di isolamento in una cella senza luce e senza finestre. Per le convenzioni dell’Onu un isolamento superiore ai 15 giorni equivale alla tortura. Come vi state muovendo dal punto di vista giuridico per ottenere la sua liberazione? Abbiamo una squadra internazionale di avvocati, Vincent Lurquin in Belgio, ma anche in Svizzera, Canada, Stati Uniti e due legali in Ruanda. Purtroppo la giustizia ruandese non ha permesso che lo rappresentassero. Il processo però è andato avanti ed stato un vero e proprio show mediatico, nell’aula c’erano più giornalisti che funzionari di giustizia e la difesa non ha neanche avuto acceso alle carte che accusavano mio padre. Dopo due settimane in cui ha denunciato il suo rapimento e l’impossibilità di difendersi si è rifiutato di presentarsi in aula. Aveva capito che il processo era una farsa e che la sentenza era già stata scritta. Temevamo che lo avrebbero portato con la forza davanti ai giudici, ma per fortuna non si sono spinti così lontano per non avere cattica pubblicità. In compenso in prigione lo hanno trattato con ancora più crudeltà, privandolo del cibo per giorni interi. Ma lui ha avuto ancora una volta la forza e il coraggio di raccontare gli abusi. Non ha mai potuto incontrarlo di persona? No, se domani vado in Ruanda mi arrestano all’istante come hanno fatto con mio padre. Abbiamo scoperto che il mio telefono belga era monitorato tramite un software pirata, questo dimostra che i servizi segreti ci spiano in continuazione, me e il pool di avvocati. Lei descrive una giustizia totalmente asservita al potere, la violazione del diritto di difesa è un fatto ordinario in Ruanda? Certamente, questa è la norma, D’altra parte mio padre nelle sue conferenze in giro per il mondo denunciava proprio le violazioni dello Stato di diritto e l’uso politico e violento della macchina giudiziaria, Se avessero avuto delle prove concrete contro di lui avrebbero potuto utilizzare le vie legali e invece lo hanno sequestrato come dei banditi. La settimana scorsa hanno arrestato dei giornalisti che criticavano la sentenza, tanto per fare un esempio. L’unico aspetto positivo del suo rapimento è che ora i riflettori internazionali sono puntati sullo stato pietoso della giustizia in Ruanda. È vero, il caso sta ottenendo visibilità, ma le pressioni della cosiddetta comunità internazionale per ottenere la sua liberazione non sembrano sufficienti... Bisogna capire che il regime dispone di un potente dispositivo di propaganda e disinformazione. Sono arrivati a dire che non aveva salvato nessuno durante il genocidio, il che è assolutamente falso. Chi non ha dimestichezza con questa propaganda potrebbe lasciarsi fuorviare da questo racconto. In realtà credo che contino soprattutto gli interessi economici nella regione degli stati occidentali, ma sono anche convinta che il caso di mio padre, un uomo di 67 anni, malato, con un tumore in remissione, problemi cardiaci e detenuto ingiustamente, non può passare inosservato. In Ruanda vengono commessi crimini contro l’umanità e non si possono più chiudere gli occhi. È per questo che stiamo viaggiando per il mondo portando avanti la nostra battaglia, deve essere liberato prima che sia troppo tardi. La strada delle sanzioni internazionali le sembra efficace? Negli stati Uniti, la fondazione Kennedy ha proposto al Congresso un pacchetto di sanzioni contro il governo del Ruanda, puntando in particolare i responsabili del rapimento, il ministro della giustizia, il procuratore generale, e il segretario generale sei servizi di intelligence (Rib). La stessa proposta è stata inviata al Parlamento europeo e alla Camera dei comuni britannica. Ora ci vuole una presa di responsabilità, chiediamo ai politici di agire, per mio padre e per i tanti che subiscono la repressione e l’ingiustizia. La punizione, esemplare, inflitta a suo padre è anche un monito per gli oppositori del regime? In Ruanda la repressione è feroce e le persone hanno paura, di finire in prigione, di venire uccise. Non osano parlare perché hanno visto cosa accade a chi lo fa, il processo a mio madre, così mediatizzato è anche un messaggio di intimidazione per tutti i democratici. C’è la possibilità di ricorrere in appello? Mio padre è stato arrestato in modo illegale, per il Dipartimento di Stato americano è un ostaggio politico. Su queste basi dovrebbe essere già libero. In ogni caso dopo la sentenza che lo ha condannato a 25 anni, non ha potuto leggere le 250 pagine che la motivavano, i giudici glielo hanno permesso solamente pochi giorni prima che scadessero i termini legali per presentare appello, anche se avesse voluto non avrebbe potuto farlo. Gli unici a chiedere di rivedere la sentenza sono stati i procuratori che vorrebbero farlo condannare all’ergastolo. Anche in questo caso si tratta di in messaggio rivolto agli oppositori del regime. La strada che stiamo tentando con l’avvocato Lurquin è quella di far svolgere il processo in Belgio, non chiediamo l’immunità, ma che sia giudicato da uno Stato democratico che rispetta i diritti degli imputati. Quanta speranza avete che torni un uomo libero? Moltissima. Ogni giorno nuove persone ci raggiungono e sostengono la nostra campagna. Nel 1994, quando il Ruanda era devastato dalle violenze etniche mio padre non ha mai perso la speranza, per 75 giorni si è battuto ed è riuscito a salvare da morte certa centinaia di persone. Come lui credo nella forza e nella bontà degli esseri umani e non perdo la speranza, continuerò a lottare e a parlare con tutte le persone possibili. Ora che siamo qui a Roma abbiamo chiesto un incontro in Vaticano perché la Chiesa prende posizione e metta fine a questa terribile ingiustizia. L’Afghanistan vent’anni dopo ricordando Maria Grazia Cutuli di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 19 novembre 2021 Riflessioni su politica estera e giornalismo nell’anniversario della morte della nostra collega. Guardo la foto nel corridoio di direzione in via Solferino. Maria Grazia davanti allo schermo di un computer di inizio secolo, la scrivania coperta dai giornali di una mazzetta sciolta da poco, il sorriso appena accennato di chi prevede il clic lì accanto. Avrà pensato: di profilo può andare, altrimenti si sarebbe messa di traverso depistando l’obiettivo. Ha i capelli lunghi, forse più del solito, una maglia di cotone e una sciarpa di seta annodata al collo perché per lei faceva sempre freddo, pure nell’estate 2001. Alla mano sinistra l’anello con la pietra piatta arancione che si riconosce anche nelle ultime immagini dal Pakistan, poco prima del viaggio verso Kabul: uno degli “effetti personali” - assieme alla macchina fotografica e agli occhiali da sole comprati in una pausa pranzo insieme - che gli aggressori avrebbero rubato dopo l’esecuzione dei quattro reporter. Maria Grazia Cutuli del Corriere della Sera, la prima ad essere abbattuta nella gola di Sarobi, Julio Fuentes di El Mundo, Azizullah Haidari e Harry Burton dell’agenzia Reuters. Sono trascorsi vent’anni da quella mattina: nostra figlia che porta il tuo nome è quasi maggiorenne, una vita nuova e intera che ha riempito ogni sguardo avanti a noi. Ma niente e nessuno ha spento il furore che ti portavi dentro e hai lasciato qui, intatto. Quell’inquietudine che bucava tutto, la convinzione che non era mai abbastanza, che bisognava presto ripartire e andare: per ascoltare, raccogliere, infine raccontare il possibile. In un saluto via video che ci ha mandato per questo tuo e nostro anniversario, lo scrittore spagnolo Javier Cercas cita le parole semplici del Vangelo di Giovanni: la verità vi farà liberi. E dunque la menzogna ci rende schiavi. E non è per chiudere gli spazi alle menzogne, per chiudere ogni crepa nel sistema e ogni tunnel scavato nella notte, che proviamo a svolgere al meglio questo lavoro, tutti i giorni daccapo e su qualunque piattaforma verrà mai collaudata? Di carta o byte, non cambia la promessa: non mentire, non manipolare, non nascondere. È cambiata, questo sì, la velocità di propagazione delle non verità o post verità o verità alternative - come sono state chiamate per alzare la nebbia e il volume del chiasso. Ed è cresciuta la sensazione di sgomento che a volte ci prende davanti al cumulo dell’informazione spazzatura. Sappiamo tuttavia che non smetteremo, non sapremmo fare altro. Nient’altro se non cercare le notizie, scegliere le storie, tenere il filo di un’analisi o il passo di una battaglia nella quale crediamo. Altrimenti come potremmo passare e ripassare in questo corridoio di legni antichi e di generazioni ritratte alle pareti? Tu arrivi in fondo, dopo lo scalone, davanti alla porta del direttore. Accanto c’è Walter Tobagi, 1947-1980: era persino più giovane di te quando altri terroristi gli spararono in una mattina milanese, anche lui è di profilo, curvo su una macchina per scrivere grigio chiaro. Negli occhi bassi di suo figlio Luca, a ogni commemorazione, ho intercettato il senso di un sacrificio mai finito. Oggi - in sala Buzzati e su Corriere.it - la tua memoria, Merigrace, si scioglierà nella sequenza degli incontri che dedicheremo all’Afghanistan e nella consegna del premio Cutuli ai compagni di università di Patrick Zaki. Proviamo così a tenerci stretto quel tuo furore. Io, dalla tua scrivania disordinata agli Esteri, mi portai via il vecchio drago di gomma a tre teste. Da vent’anni se ne sta sopra un armadio nella mia stanza, lo sguardo triplice puntato fuori dalla finestra. Lontano, vicino, dentro.