Più politiche sociali e riforma del carcere, per un Paese con meno eroi ma migliore di Riccardo Polidoro Il Riformista, 18 novembre 2021 L’onorificenza al Merito della Repubblica Italiana conferita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Giuseppe Lavalle “per la sua preziosa e generosa opera di assistenza e supporto ai ragazzi dell’istituto penale per i minorenni di Nisida” è un ulteriore segnale dell’attenzione - che si potrebbe definire virtuale - dello Stato verso le problematiche della detenzione. “Zio Peppe”, come affettuosamente viene chiamato dai ragazzi dell’”isola che non c’è”, è stato ritenuto, dalla più alta carica dello Stato, un “eroe”, con altre 32 persone che si sono distinte per l’impegno nella solidarietà, nel volontariato, per l’attività in favore dell’inclusione sociale, nella cooperazione internazionale, nella promozione della cultura, della legalità, del diritto alla salute e dei diritti dell’infanzia. Lavalle è, dunque, un “esempio civile” perché da circa 40 anni svolge il suo servizio di cuoco ed è considerato un punto di riferimento per tutti, ospiti e personale dell’istituto. Con la sua famiglia, inoltre, in numerose occasioni ha offerto ospitalità a giovani bisognosi di aiuto ed è promotore di iniziative di solidarietà per coloro che sono privi di dimora. Un eroe che compie straordinari e generosi atti di coraggio per proteggere il bene altrui, che dovrebbe trovare primaria tutela nell’azione dello Stato. La più che meritata onorificenza a Giuseppe Lavalle, infatti, evidenzia, ancora una volta, l’assenza di politiche volte a garantire l’assistenza e il benessere dei cittadini. Nella quotidiana guerra per la sopravvivenza, figure come quella di “Zio Peppe” diventano essenziali ed accendono una speranza nel buio pressoché totale in cui molte persone vengono lanciate. E di Nisida si tornerà a parlare stasera in televisione. Inizia, infatti, la seconda stagione di “Mare fuori”, dodici episodi divisi in sei puntate, che racconteranno il disagio minorile dentro e fuori le mura, malessere che ha radici spesso nella famiglia di origine dei detenuti i cui errori - come la fiction vuole evidenziare - sono sempre dovuti ad adulti colpevoli di averli lasciati soli o di averli condotti su una cattiva strada. Ancora un chiaro riferimento all’assenza dello Stato nelle politiche sociali e giovanili. È indicativo, tra gli altri, il dato della dispersione scolastica: il 13,1% dei giovani italiani tra i 18 e i 24 anni ha abbandonato precocemente la scuola e la Campania è seconda solo dopo la Sicilia. Uno Stato, dunque, conscio delle sue colpe che premia gli eroi e racconta in televisione il male a cui non vuole trovare rimedio, che va a Santa Maria Capua Vetere a chiedere scusa per l’assurda e inqualificabile mattanza compiuta da suoi dipendenti in danno dei detenuti, ma che non è in grado d’invertire immediatamente la rotta con concrete azioni finalmente degne di un Paese civile. Occorrono subito politiche sociali innovative volte all’accoglienza dei più deboli, una corretta applicazione del diritto-dovere allo studio, l’entrata in vigore della riforma penitenziaria. Su quest’ultimo tema, l’Unione Camere Penali Italiane, con il suo Osservatorio Carcere, ha organizzato un convegno nazionale a Roma il 3 e 4 dicembre prossimi, affinché il lavoro svolto sino ad ora, dal 2015 ad oggi, non venga disperso e la riforma trovi immediata applicazione. Parlamento, Governo, Enti locali, vanno sollecitati ad agire e messi di fronte alle loro evidenti responsabilità. Un domani così, probabilmente, vi saranno meno eroi, ma un Paese migliore. Carceri e pubblica amministrazione, l’incapacità di correggersi di Guido Rampoldi Il Domani, 18 novembre 2021 Durante il pestaggio di Santa Maria Capua Vetere un agente ha urlato ai detenuti: “Lo Stato siamo noi!”. Non è solo un’intimidazione. L’agente rivendicava il diritto suo e dei suoi compagni ad auto normarsi al di fuori della legalità. Se esiste un “carattere nazionale del giornalismo”, ipotesi di lavoro che da tempo ispira ricerche universitarie statunitensi, un tratto del giornalismo italiano è certamente una certa indulgenza verso le forze di polizia, esito tanto degli anni di piombo quanto del desiderio degli editori di evitare attriti con quel mondo. Si potrebbe spiegare così il silenzio distratto di quasi tutti i nostri media su una vicenda in cui si mostrano aspetti rilevanti della crisi italiana: il pestaggio di 176 detenuti avvenuto il 6 aprile 2020 in un braccio del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Proviamo a riassumere quanto scoperto da Nello Trocchia: per quattro ore circa 150 agenti della polizia penitenziaria hanno preso a pugni e calci indistintamente tutti gli ospiti di un braccio, colpevoli di aver richiesto mascherine anti Covid con una protesta chiassosa. Uno dei pestati, un giovane algerino che le cronache descrivono come schizofrenico (ma era quello il luogo idoneo per detenere uno schizofrenico?) è morto tre giorni dopo, presumibilmente a causa delle botte ricevute e non curate. Possiamo dare per scontato che dopo pochi giorni una violenza così massiva e plateale fosse nota alle famiglie e ai legali dei picchiati, nessuno dei quali tuttavia l’ha denunciata, neppure ai giornali, quasi si desse per scontato che una denuncia non avrebbe sortito altro effetto che esporre i detenuti alle rappresaglie delle guardie carcerarie: e qui già scopriamo una zona molto opaca del nostro stato di diritto. Inoltre inquieta il fatto che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non abbia avviato alcuna inchiesta interna: non sapeva cosa faceva il proprio braccio armato? O preferiva non sapere, ritenendo una certa quota di violenza necessaria per tenere a bada carceri sovrappopolate? L’inchiesta interna è scattata, inevitabilmente, dopo lo scoop di Domani, di pari passo all’inchiesta della magistratura. Seguito per così dire tradizionale: la ministra della Giustizia ha manifestato indignazione; 52 agenti, indagati, sono stati sospesi (ma non licenziati per “violazioni dei codici di comportamento” propri del loro ruolo, come forse sarebbe stato possibile). Assisteremo a un processo complicato, come spesso accade quando gli imputati di violenze vestono un’uniforme. Stando ai precedenti pagherà la bassa forza, gli alti funzionari non subiranno condanne, tantomeno il licenziamento per “mancato esercizio dell’attività disciplinare”. Il Dipartimento correrà ai ripari e, in parte, già lo ha fatto: non ci saranno più spedizioni punitive nelle carceri italiane, o almeno non così plateali. Ma a quanto si è visto in passato, l’insieme di questi interventi sarà il prodotto di compromessi e non avrà la radicalità necessaria a ristabilire un rigoroso canone di correttezza. In altri contesti e in altre forme, le violenze “di stato” riprenderanno. L’incapacità di correggersi delle amministrazioni pubbliche ha come premessa e risultato la frase che un agente ha urlato ai detenuti durante il pestaggio di Santa Maria Capua Vetere: “Lo stato siamo noi!”. Non è soltanto un’intimidazione per scoraggiare le vittime: in sostanza l’agente rivendicava il diritto suo e dei suoi compagni ad auto normarsi al di fuori della legalità. È come se avesse detto: la mia tribù ha occupato un segmento dello stato e in quel territorio, quando noi lo decidiamo, non c’è legge che possa opporsi alla nostra volontà. “Lo stato siamo noi!” avrebbero potuto gridare vent’anni fa le varie tribù poliziesche e militari che durante il G8 di Genova avevano deciso in piena autonomia, e senza input dall’alto, di “dare una lezione” ai dimostranti rifugiati nella scuola Diaz, e poi di seviziarne parecchi nella caserma di Bolzaneto. Ovviamente il pestaggio di Santa Maria Capua Vetere e quelli della scuola Diaz hanno contesti e magnitudo assai diversi. Ma in entrambi i casi segmenti tribalizzati dello stato hanno affermato il loro diritto di comminare una punizione “esemplare” a chi li aveva sfidati e apparteneva a categorie umane impopolari (detenuti, no global). È verosimile che gli agenti in azione a Santa Maria Capua Vetere si sarebbero frenati se le violenze al G8 non fossero rimaste grossomodo impunite, vuoi perché il processo è stato di fatto sabotato dalle tattiche omertose messe in atto dalle tribù coinvolte, vuoi perché così hanno voluto il ministero dell’Interno e una politica al solito tremebonda quando si rischiano reazioni delle forze dell’ordine. Ma la questione è più generale: quel grido di battaglia - “lo stato siamo noi!” - non risuona unicamente in caserme e penitenziari, e anzi pare il motto scritto in calce al patto ottomano che governa parte rilevante del settore pubblico. Come nel declino la Sublime porta di fatto autorizzava i propri malpagati funzionari a prendersi notevoli libertà nell’esercizio delle loro funzioni, così in Italia varie amministrazioni rinunciano tacitamente a esercitare un controllo sulla condotta dei malpagati dipendenti, i quali a loro volta rinunceranno a contestare i comportamenti dei vertici burocratici e politici e non saboteranno i servizi pubblici al di là della loro tradizionale inefficienza. Nessuno pagherà, né chi dovrebbe organizzare decentemente né chi dovrebbe eseguire correttamente. La rinuncia a punire - Anche in virtù di questo scambio ogni qualvolta un servizio pubblico si dimostra inadeguato la risposta della politica e dei media è sempre “aumentiamo le risorse” e mai “estromettiamo gli inetti”, cominciando dai vertici ma senza fermarsi a quelli. Per esempio, a tutti è chiaro che abbiamo una giustizia civile sgangherata, difetto che tra l’altro comporta un danno alla nostra economia: e quando se ne discute in genere si conclude appunto che occorre aumentare i cancellieri, i giudici, le corti. Eppure uno studio commissionato dal ministero e guidato da Roger Abravanel anni fa ha svelato che il problema non stava tanto nell’esiguità delle risorse quanto nell’inefficienza della maggior parte dei tribunali civili (97 su 140), ascrivibile innanzitutto ai presidenti: non erano capaci di razionalizzare l’organizzazione del lavoro. Senza sottovalutare i vizi strutturali, dalla farraginosità delle norme con conseguente produzione di “burocrazia difensiva” all’incertezza e alla sovrapposizione delle competenze, è evidente che alle inadeguatezze concorrono colpe individuali. In genere assolte, o trattate con benevolenza, anche per ragioni ideologiche. A sinistra perché “i lavoratori” vanno sempre e comunque tutelati, a destra perché nel suo immaginario il dipendente pubblico tuttora corrisponde allo stigma diffuso dal berlusconismo: un travet inevitabilmente inetto, fannullone, incapace di iniziativa, tendente all’intrallazzo. La rinuncia a punire consolida un sistema nel quale chi non ha le dovute “conoscenze”, una qualche rete di protezione, o la disponibilità economica per ricorrere a servizi privati, non riesce a mitigare il danno. In altre parole gli svantaggiati sono le fasce deboli della popolazione. A fronte di tutto questo, abnorme non è il pestaggio di Santa Maria Capua Vetere ma il fatto che, incredibilmente, tante guardie carcerarie svolgano il loro lavoro con una passione civile e una qualità quasi commoventi (e chi non lo crede consulti le associazioni del volontariato che operano nei penitenziari), in cambio di uno stipendio e di una considerazione sociale del tutto inadeguati. In fondo, perché non dovrebbero tirare a campare come tanti colleghi? La stessa domanda potremmo porla a migliaia di straordinari dipendenti pubblici: maestre le cui tecniche sono studiate all’estero, poliziotti e militari che rischiano la pelle, infermieri coscienziosi ben oltre l’orario di lavoro, funzionari, magistrati, medici, insomma chi ancora assicura alla cosa pubblica una dignità e un onore. E probabilmente la risposta sarebbe: “Crediamo nello Stato, e lo Stato siamo noi”. Ecco dunque due modi opposti di intendere quel “lo stato siamo noi”. Le due antropologie convivono - stesso stipendio, spesso stessa carriera, nessun incentivo, nessuna sanzione - all’interno di amministrazioni votate all’inefficienza (quale organizzazione umana può funzionare se non dispone di un sistema adeguato di premi e di punizioni?). Ma ora saremmo alla vigilia di un sommovimento storico: il governo sta procedendo a una riforma della Pubblica amministrazione, finanziata con il Piano nazionale di ripresa e di resilienza, che promette “un’enorme scommessa sul capitale umano pubblico”. Staremmo per salvare il soldato Ryan: presto la riforma raggiungerà la moltitudine dispersa di straordinari dipendenti pubblici e con norme e rinforzi li metterà nelle condizioni di operare in ambienti finalmente professionali, trasparenti. E gli “ottomani”? Tenteranno di adattarsi oppure di svuotare quella che il ministro Renato Brunetta definisce “la rivoluzione gentile”? Anche questo è in gioco nella vicenda di Santa Maria Capua Vetere. Dove, a quanto si è visto finora, la rivoluzione è un po’ troppo “gentile” per essere davvero una rivoluzione. Ripensare il carcere è possibile: il modello Udine di Simona Olleni agi.it, 18 novembre 2021 Intervista al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia: “Per la prima volta abbiamo deciso di stanziare per il trattamento dei detenuti oltre 20 milioni di euro”. Puntare sulle strutture penitenziarie, ripensate e riorganizzate ponendo al centro il trattamento dei detenuti, per realizzare appieno il dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena e il successivo reinserimento in società. Un “compito titanico ma non impossibile”, lo definisce il capo dell’Amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia: “tutti i nostri sforzi - sottolinea in un’intervista all’AGI - sono concentrati su questo obiettivo”. Un esempio a cui guardare è il progetto che riguarda il carcere di via Spalato a Udine: una struttura edificata nel 1924, all’interno della città, che si appresta a diventare un modello grazie a un piano triennale di ristrutturazione e recupero di spazi. A breve sarà avviata la procedura per lavori che porteranno a realizzare nuove aree trattamentali: la sezione femminile, abbandonata da oltre 20 anni, sarà recuperata per creare un polo didattico e di formazione per chi vive nel penitenziario, mentre alcuni ex alloggi demaniali, collocati nell’area più attigua alla città, saranno predisposti per ospitare esclusivamente i detenuti in semilibertà, che di giorno lavorano all’esterno e di notte rientrano in carcere, come una sorta di ‘ponte’ tra restrizione e libertà per chi è ammesso a tale beneficio. Inoltre, lavori di recupero riguarderanno anche un cortile, oggi poco utilizzato, per farne uno spazio di ritrovo per i detenuti, forse anche con un teatro. Il progetto Udine - che, secondo le previsioni, verrà completato nel 2024 - sarà realizzato con fondi di bilancio del Dap: “rientra tra i programmi che saranno finanziati con nostri fondi - spiega Petralia - per la prima volta abbiamo deciso di stanziare per il trattamento dei detenuti oltre 20 milioni di euro. Allargheremo ancora lo sguardo per verificare, assieme ai provveditorati regionali, ciò che si potrà fare in altre strutture ora non utilizzate”. Allo stato, interventi in questo senso sono stati avviati anche a Lecce - dove a breve sarà consegnato un padiglione ristrutturato per dedicarlo interamente alle attività di trattamento - a Padova e a Firenze Sollicciano. Per 8 padiglioni in ristrutturazione - a Santa Maria Capua Vetere, Reggio Calabria, Viterbo, Rovigo, Ferrara, per citare alcuni - saranno invece utilizzati i fondi Pnrr, ed eseguiti lavori in linea con i principi indicati dalla commissione ministeriale sull’architettura penitenziaria che ha di recente concluso i suoi lavori. “Ogni nostro sforzo viene fatto tenendo al centro della nostra attenzione l’articolo 27 della Costituzione che parla di pena come rieducazione del condannato - afferma il capo del Dap - e io giro quanto più possibile le carceri per rendermi conto delle condizioni in cui vivono i detenuti e quelle in cui lavora il personale di Polizia penitenziaria: se le strutture funzionano, se funziona il percorso trattamentale, è un bene per l’intera comunità. Tutto va rivisto e riorganizzato non solo nell’ottica di avere più posti letto, quindi dal punto di vista della quantità, ma, soprattutto, in funzione qualitativa, per consentire spazi maggiori e un benessere maggiore. Un ‘nuovo volto’ del carcere - conclude Petralia - che per il Dap è la priorità”. Ergastolo ostativo: ok al testo in Commissione giustizia, ora si spera negli emendamenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 novembre 2021 Tutti i componenti della Commissione giustizia della Camera, tranne Fratelli d’Italia, hanno votato a favore della norma per modificare l’ergastolo ostativo. Approvato il testo base sull’ ergastolo ostativo dalla commissione Giustizia della Camera. Tutti i componenti, tranne Fratelli d’Italia, hanno votato a favore il testo che sostituisce le tre proposte di legge depositati dal Movimento 5 stelle, Fratelli d’Italia e quello della dem Enza Bruno Bossio. Un testo base che appare un mosaico costituito da pezzi delle proposte di legge con qualche aggiunta estrapolata dalla proposta elaborata dalla Fondazione Falcone. Si attende ora la fissazione del termine per gli emendamenti. Il presidente della commissione Giustizia Perantoni: “Trovata una mediazione” - A dare notizie dell’avvenuta approvazione è stato il presidente della commissione Giustizia e relatore del provvedimento Mario Perantoni, deputato del Movimento 5 Stelle, il quale ha aggiunto: “Abbiamo trovato una mediazione tra i valori espressi dalla Consulta e la necessità di mantenere il rigore nei confronti della detenzione dei boss mafiosi, un obiettivo per noi irrinunciabile. Renderò presto noto il termine per la presentazione degli emendamenti”. Ergastolo ostativo, entro maggio prossimo la scadenza fissata dalla Consulta - E proprio agli emendamenti rimanda Walter Verini, membro delle commissioni Giustizia: “Il nuovo ciclo di audizioni, tra le quali quella con la Fondazione Falcone, e la fase emendativa potranno consentire di rafforzare il provvedimento”. Saranno proprio gli emendamenti a migliorare, o peggiorare a seconda dei punti di vista, il testo base per poi “trasformarlo” in proposta di legge che sarà sottoposto alla votazione parlamentare. Una legge che andrà fatta entro maggio prossimo, scadenza fissata dalla Consulta pronta a rendere incostituzionale l’attuale 4 bis, nella parte in cui prevede il divieto assoluto dei benefici per chi sceglie di non collaborare con la giustizia. La Corte Costituzionale si dovrà pronunciare per la liberazione condizionale - Ricordiamo che l’ostatività è già caduta per la concessione del permesso premio. In questo caso la Corte Costituzionale si dovrà pronunciare per la liberazione condizionale. Per la Consulta, l’esclusione del beneficio penitenziario ai condannati all’ergastolo per reati di mafia, che non abbiano collaborato con la giustizia, è contraria all’art. 27 della Costituzione e all’art. 3 della Cedu. L’ergastolo ostativo ha suscitato critiche a più riprese, per il pericolo di vanificare la finalità rieducativa della pena. La questione di costituzionalità, portata all’attenzione della Consulta nell’anno 2003, venne respinta, sostenendo che gli ergastolani che rifiutavano di collaborare con la giustizia, esercitavano una propria “scelta” e non erano dunque esclusi definitivamente dai benefici. Analoga affermazione si ritrova, dopo dieci anni, nella sentenza n. 135 del 2013. Eppure il ragionamento della Corte non pareva convincente, soprattutto perché lasciava inalterato quel binomio, a base dell’esclusione dei benefici, tra il rifiuto della collaborazione e la prova della persistenza dei legami con l’associazione criminale. Emergono invece casi in cui, alla base del rifiuto di collaborare con la giustizia, si trovano ben altre motivazioni: il timore di ritorsioni sulla propria famiglia, quello di dover accusare amici e parenti, o di peggiorare il proprio quadro processuale. E viceversa si sono verificati casi in cui il condannato, pur avendo collaborato con la Giustizia, ha dimostrato con la propria condotta di conservare inalterati i rapporti con la cosca mafiosa. Una questione che ha sviscerato molto bene la sentenza Viola contro Italia della Corte di Strasburgo, dimostrando di conoscere molto bene la condizione del nostro Paese. Il testo approvato in commissione Giustizia contiene diversi punti critici - Ritornando alla commissione Giustizia, il testo base approvato contiene diversi punti critici - molti sono del Movimento 5Stelle - che farebbero rischiare altre future condanne da parte della Cedu. Tra quelli più discutibili c’è l’obbligo da parte del richiedente dei benefici, di dimostrare “congrui e specifici elementi concreti, (…) che consentano di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali”. In sostanza, parliamo di un punto che trova contrari tutti i magistrati di sorveglianza auditi in commissione, compreso il presidente dell’Anm. Si spera, quindi, negli emendamenti migliorativi. Ergastolo ostativo, ok al testo M5S: Forza Italia e renziani brontolano di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 18 novembre 2021 Approvato in Commissione Giustizia della Camera il testo base che modifica l’ergastolo ostativo, non più assoluto per i detenuti mafiosi e terroristi, ma relativo, dopo le sentenze della Corte costituzionale. La prima, del 2019, che ha già sdoganato i permessi premio, sia pure con dei paletti; la seconda, dell’aprile scorso, che ha dichiarato incostituzionale l’ostativo pure per la libertà condizionata, ma ha dato al Parlamento un anno di tempo per modificare sul punto l’ordinamento penitenziario. Il testo votato ieri riguarda tutti i benefici ed è a firma del presidente della Commissione, Mario Perantoni, M5S. Frutto di settimane di contrattazioni con tutta la maggioranza, nella sostanza è il testo di Vittorio Ferraresi, esponente dei 5 Stelle, che il mese scorso l’ala centrodestra della maggioranza, renziani compresi, non ha voluto votare anche per non regalare al M5S una vittoria politica. La proposta prevede dei paletti rigidi, ma che, se in fase di emendamenti o in aula fossero allentati, renderebbero ancora più che concreto il rischio che boss stragisti accedano ai benefici. Un rischio del quale, peraltro, non dovremmo parlare se la Consulta non avesse fatto quelle pronunce. “Questo testo - hanno commentato i componenti M5S in Commissione Giustizia - rappresenta un ulteriore e decisivo passo per scongiurare il rischio, nei prossimi mesi, di veder tornare in libertà boss ancora pericolosi”. Dichiarazione non casuale, perché dalle parti di Forza Italia e Italia Viva c’è aria di emendamenti per allentare le maglie usando il paravento della Costituzione. Il testo votato ieri da tutti, a eccezione di Fdi, prevede che per accedere alla libertà condizionata l’ergastolano mafioso e non pentito debba aver scontato non 26 anni di carcere ma 30. Per avere ogni beneficio, inoltre, non può semplicemente dissociarsi dalla mafia, ma deve dimostrare che sia estinto il pericolo che riallacci rapporti mafiosi, deve risarcire le parti civili: “I benefici possono essere concessi purché oltre alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo” i detenuti “dimostrino l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o l’assoluta impossibilità di tale adempimento nonché a seguito di specifica allegazione da parte del condannato, si accertino congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali”. Queste disposizioni valgono anche, in determinate condizioni, per detenuti e internati non ergastolani “ai fini della concessione dei permessi premio”. Il giudice di Sorveglianza quando riceve una istanza deve chiedere il parere, tra gli altri, al pm competente e alla procura nazionale antimafia. Il parere deve pervenire entro 30 giorni, prorogabili altri 30 se il caso è complesso. Scaduti quei termini, anche senza parere dell’accusa, il giudice decide. Se lo fa in contrasto con il pm, deve motivare “gli specifici motivi” per i quali si è discostato. Rispetto al testo Ferraresi, manca la motivazione richiesta all’ergastolano sul perché non abbia collaborato e un tribunale collegiale, a Roma, come unico organo a decidere in merito. Una soluzione, secondo i magistrati antimafia, per evitare un pericoloso isolamento del singolo giudice chiamato a decidere. Ergastolo ostativo, la proposta di riforma è peggio dell’originale di Ignazio Patrone* Il Riformista, 18 novembre 2021 Il testo base adottato ieri dalla commissione giustizia della Camera riscrive in senso peggiorativo la disciplina vigente. Se non cambierà, si rischia un conflitto istituzionale tra Consulta e legislatore. Ieri la Commissione giustizia della Camera dei deputati ha votato ed adottato il testo base, predisposto dal Presidente Perantoni (M5S), di riforma dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, il cosiddetto ergastolo ostativo: una legge resa necessaria e urgente dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Viola contro Italia, del 13 giugno 2019 e dopo l’ordinanza n. 97 del 2021 della Corte costituzionale che, dopo aver accertato l’incostituzionalità della disciplina vigente per violazione degli artt. 3, 27 e 117 della Costituzione, ha dato al legislatore il termine de110 maggio 2022 per approvare nuove norme che recepiscano le precise indicazioni delle due Corti. Il testo approvato riunisce i tre disegni di legge depositati nei mesi scorsi, quello della dem Bruno Bossio, quello del M5S Ferraresi e quello di Delmastro Delle Vedove di Fd’I, gruppo che peraltro in Commissione ha votato contro il testo Perantoni, ritenuto troppo accondiscendente verso “mafiosi e terroristi”. Diremo subito che le indicazioni che emergono dai lavori parlamentari e dal testo preliminare approvato non appaiono in linea con quanto prescritto dall’ordinanza della Corte costituzionale e, al contrario, rischiano di avere il paradossale effetto di rendere più difficile di quanto già non sia oggi l’accesso ai benefici penitenziari. La Corte ha infatti stabilito a chiare lettere che “spetta in primo luogo al legislatore ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata, equilibrio tra argomenti in campo che, senza essere qui troppo analitici, discendono dalle disarmonie create dopo la sentenza della Corte n. 253 del 2019, che ha dichiarato incostituzionale il divieto di concedere per i delitti di cui all’art. 4-bis i permessi premio, dal perdurante divieto di ammetterli al lavoro all’esterno ed alla semilibertà, oltre al fatto che l’art. 4-bis è diventato ormai un contenitore privo di qualsiasi coerenza, che comprende reati di criminalità organizzata e terrorismo insieme a reati contro la pubblica amministrazione, reati contro la libertà sessuale ed altri ancora. Il testo approvato ieri contiene una riscrittura peggiorativa della disciplina vigente: esso alza il numero di anni di pena da scontare prima di poter accedere alla liberazione condizionale da 26 a 30, prevede per il detenuto un onere di allegazione delle circostanze atte a dimostrare la mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata che assomiglia molto ad un (inammissibile) onere della prova a suo carico, non riscrive in senso garantista l’intera disciplina dell’art. 9-bis dell’Ordinamento penitenziario. In attesa di un esame più approfondito del testo, se esso dovesse rimanere quello approvato ieri potrebbe insorgere un inedito conflitto istituzionale tra la Corte ed il legislatore relativamente a scelte legislative ritenute non conformi alla Carta fondamentale. *Comitato scientifico di Antigone Giustizia: le inequivocabili parole di Marta Cartabia di Valter Vecellio lindro.it, 18 novembre 2021 “La malattia che affligge la giustizia italiana è grave. Il paziente è grave. E mi riferisco solo ad uno dei problemi: quello dei tempi”. In questi giorni il Ministro della Giustizia, Marta Cartabia è impegnata in una trasferta negli Stati Uniti. Ha avuto colloqui con il suo omologo Merrick Garland, con il Presidente della Corte Suprema, John Roberts, e una conferenza alla New York University sui temi della giustizia. Lì, negli Stati Uniti, Cartabia ha detto e dice cose su cui soprattutto noi italiani dovremmo riflettere. Un viaggio, sostengono alcuni osservatori, anche per accreditare una sua eventuale candidatura alla presidenza della Repubblica. Pare che l’amministrazione Biden nutra una certa curiosità nei confronti di questa personalità che certamente è anomala, rispetto al tradizionale ceto politico italiano. Di sicuro Cartabia ha esibito un ottimo biglietto da visita. I suoi interventi sono inequivocabili: “La giustizia è la spina dorsale del sistema istituzionale e della vita sociale ed economica. Avere questa spina dorsale ben retta e solida è indispensabile perché poi tutte le altre attività della vita di un Paese, e i rapporti reciproci con i singoli partner, possano funzionare meglio”. E ancora: “Sono venuta a promuovere l’idea di una giustizia che esce dalle stanze segrete dei suoi addetti ai lavori, e si mette al servizio di una rinascita della vita economica e sociale, dopo la pandemia”. Questi interventi vanno collegati a quelli del settembre scorso nell’ambito dei tradizionali incontri di Cernobbio. Una analisi e una diagnosi di sapore radicale, se così si può dire: “La malattia che affligge la giustizia italiana è grave. Il paziente è grave. E mi riferisco solo ad uno dei problemi: quello dei tempi”. Tra i 47 Paesi su cui si estende la giurisdizione della Corte europea dei diritti dell’uomo, l’Italia ha il primato delle condanne per i processi troppo lunghi: 1.202 dal 1959, data di avvio di attività della Corte di Strasburgo, ad oggi. Una crisi che ha anche pesanti ripercussioni economiche. Secondo i dati riportati da Cartabia, negli ultimi cinque anni lo Stato ha pagato 574 milioni di indennizzi. Esorbitante il numero di casi coinvolti: sono stati emessi 95.412 decreti; 95mila 412 persone sono rimaste in attesa di giustizia oltre una ragionevole durata. Nel solo 2020 sono sopravvenuti 14.429 procedimenti di irragionevole durata; per un importo complessivo di 105.798.778 euro. La conferma, ennesima, che le questioni relative alla giustizia sono le vere, grandi emergenze di questo Paese. Sempre a proposito di cifre e numeri: secondo i dati forniti dal Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria al 31 ottobre 2021, i detenuti negli istituti di pena risultavano complessivamente 54.307. Stabile, sempre secondo i dati ufficiali forniti dal DAP anche la capienza regolamentare: 50.851 posti. In lieve aumento la presenza di stranieri: 17.315. Le detenute donne sono 2.283. Di carcere si può morire: lo confermano i dati dei suicidi negli istituti di pena italiani. Al 31 dicembre 2020 secondo il DAP sono 61 i detenuti che si sono tolti la vita. Un dato che, con quello del 2018, rappresenta il dato più alto dal 2002 ad oggi. Dal 2009 al 2017 cresce in maniera costante la presenza dei volontari in carcere. Nel 2017 sono oltre 16mila i volontari impegnati in diverse attività. Nel 2009 erano circa 8mila. Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio dell’associazione Antigone, negli istituti visitati il rapporto detenuti/volontari è pari un volontario ogni 7 detenuti. L’ultimo rapporto del Comitato di Giustizia del Parlamento, rileva come i detenuti di età più adulta siano cresciuti del 243 per cento, tra il 2002 e il 2020, passando da 1.500 a oltre 5.000. Il 90 per cento di loro presenta almeno un problema di salute, fisico o mentale, o una disabilità. Più del 50 per cento ha tre o più patologie. Il 70 per cento dei detenuti con più di 60 anni ha ricevuto un trattamento medico nei dodici mesi precedenti all’arresto. Contro il 45 per cento dei soggetti al di sotto dei cinquant’anni. Un recente studio dell’università Bocconi mette in evidenza che ogni detenuto costa alla comunità 154 euro al giorno: solo sei per il mantenimento del detenuto, appena 35 centesimi per la sua rieducazione, peraltro precetto sancito dalla Costituzione. Il denaro che lo Stato spende non mira dunque all’attuazione di uno principio costituzionale. Non rieducare di fatto incrementa la recidiva che, sottolinea lo stesso studio, è del 68 per cento; percentuale che scende al 19 per cento quando si applicano misure alternative come la semilibertà e le forme di inserimento lavorativo. Infine, il problema del disagio mentale. L’indagine è relativa alla situazione nella sola regione Lombardia, ma è da credere che non si tratti di una situazione isolata. In Lombardia soffrono di disturbi mentali 880 detenuti su 7.800, ma i posti per loro sono solo trenta. Nella relazione di Francesco Maisto, Garante milanese delle persone private della libertà, si denuncia che “la maggiore criticità attuale in tutte le nostre carceri è rappresentata dalla grave carenza di assistenza psichiatrica”. Una realtà peggiorata negli ultimi anni. Da gennaio 2015 a fine aprile 2021 “si è assistito ad un crescendo di tale fenomeno”. L’anno peggiore è stato il 2020: “É evidente”, osserva Maisto, “come l’impatto dei disturbi psichiatrici e del comportamento sia decisamente importante rispetto alla difficile gestione dei detenuti che viene, da più parti, rappresentata”. A livello regionale, si legge nella relazione, sono ben 880 le persone con problemi di patologie psichiatriche (672) o con disturbi del comportamento (208). Eppure in Regione sono solo due i reparti all’interno delle carceri destinati a reclusi con questi problemi: a Monza e a Pavia. “In tutto, appena una trentina di posti letto”, osserva Valeria Verdolini di Antigone Lombardia. Il flop del referendum sulla giustizia di Alberto Cisterna Il Riformista, 18 novembre 2021 La sorte dei referendum sulla giustizia è appesa a un filo. Inutile far finta di nulla. L’aver trasformato la campagna per la raccolta delle firme in un vaniloquio sulla democrazia diretta e sulla partecipazione popolare non può essere e non sarà forse dimenticato facilmente dalla pubblica opinione. La scelta di non procedere al deposito delle sottoscrizioni in Cassazione e l’aver affidato la celebrazione dei referendum alla richiesta di cinque Consigli regionali di centro-destra è un colpo, non da poco, alle chance di raggiungere il quorum di partecipazione al voto primaverile del 2022 del 50% degli aventi diritto. Se per dirne una a Roma, per l’elezione del sindaco, ha preso parte alle votazioni meno della metà degli elettori romani (48,54%), non si vede perché ci sarebbero da attendere clamorose mobilitazioni per accorrere al voto su complicati quesiti referendari percepiti ormai come a sola trazione leghista. Punto e capo, forse. Difficile dire se sia un bene o un male. Certo le speranze di quanti contavano in un’accesa campagna referendaria per poter sviluppare un dibattito più ampio sulle questioni della giustizia da canalizzare, poi, nelle aule parlamentari a prescindere dalla sorte dei quesiti, rischiano una grande delusione. Se si affievoliscono i margini di vittoria del fronte del sì, è chiaro che la scelta di tanti sarà l’inabissamento, una coltre di silenzio su tutto. Eppure la stessa Associazione nazionale magistrati si era detta disponibile al confronto, anticipando l’intenzione di rendere il proprio punto di vista ai cittadini in una campagna informativa capillare. Sarebbe stata un’occasione di confronto importante per testare in corpore vivo i sentimenti e le opinioni della gente e farsi un’idea meno vittimistica o meno ottimistica del consenso popolare. L’idea di un flop alle urne potrebbe smorzare ogni entusiasmo da una parte come dall’altra e far mancare al Parlamento l’occasione per riprendere in mano il fil rouge delle riforme sulla giustizia, al momento paralizzato dalle esigenze del Pnrr e dall’iniziativa governativa per darvi sfogo. L’unica vera battaglia che si profila all’orizzonte è quella per la riforma del sistema elettorale del Csm. Le frizioni tra le correnti dei magistrati sono già emerse e non sarebbe male ricordare ai protagonisti del dibattito la lezione fondamentale impartita da John Rawls, anche in tema di legge elettorali, il quale ammoniva che il decisore dovrebbe poter decidere sotto un velo di ignoranza, in quanto non dovrebbe conoscere quale sia la sua posizione nella società. E ciò gli permetterebbe di avvicinarsi al criterio del maximin, cioè quello che conduce alla decisione che produce il maggior risultato utile dalla peggiore situazione possibile. Al momento si dispone di una sorta di nebuloso obiettivo politico secondo cui la riforma dovrebbe puntare ad attenuare o addirittura cancellare il peso delle correnti nella scelta e nell’elezione dei componenti del Csm. Su questo, a parole, sono tutti disponibili, ma ciascuno immagina un percorso che possa tornargli vantaggioso o, comunque, penalizzarlo al minimo. Insomma tutti vogliono sapere, all’incirca, come andrà a finire nel luglio 2022 quando si voterà per Palazzo dei Marescialli. Comprensibile. Solo che occorre tener conto di una variabile a oggi del tutto fuori controllo: l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Un secondo mandato a Mattarella non è detto che garantirebbe lo status quo e darebbe continuità al sistema attuale. Il Quirinale si è mosso in una condizione di estrema difficoltà in questi anni e ha visto fischiare le pallottole dello scandalo Hotel Champagne fino a un passo dal colle più alto. Non è detto che gradisca una legge elettorale conservativa o continuista. Proprio perché ha assistito alla dissoluzione di un pezzo del Sistema, non è detto che si senta rassicurato dalla montagna di polvere messa sotto lo zerbino per altre questioni. Il contatto diretto con Draghi e, soprattutto, con la Cartabia potrebbe spingerlo a chiedere un intervento molto più radicale di quello assemblato dalla Commissione Luciani. Se, invece, avremo un presidente diverso allora lo scenario non è in alcun modo prevedibile. Banale dirlo, ma dipende da chi sarà il prossimo inquilino del Colle che, si ricordi, è anche il capo del Csm. Insomma se il presidente dovesse parlare e intervenire sulla legge elettorale del Csm lo farebbe non a sproposito, ma nella precisa consapevolezza che si starebbero fissando le regole di un consesso che egli presiede e del cui regolare e trasparente funzionamento è direttamente responsabile. Difficile già in altri campi sottrarsi alla sua moral suasion figuriamoci qualora interloquisca dallo scranno della più alta magistratura della Repubblica. Ecco sarebbe indispensabile e doveroso fornire al prossimo presidente un quadro serio e il più possibile sincero della condizione della giustizia nel Paese; di ogni giustizia, si badi bene, non solo di quella penale più direttamente presa di mira dai referendum. Una volta si chiamavano Stati generali. Non un convegno, né un dibattito, ma la chiamata a raccolta delle posizioni di ciascuno per dare al decisore politico il più fedele quadro della situazione. Insomma tutto tranne che propaganda. “Riforma penale, appello a rischio: evitiamo la beffa nei decreti attuativi” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 novembre 2021 Non abbassare la guardia: è questo il monito che Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali, lancia in questa intervista sul tema delle impugnazioni. Se ne sta discutendo nella commissione presieduta da Giovanni Canzio, per il quale anche l’appello penale deve beneficiare di un regime di inammissibilità per manifesta infondatezza dei motivi di gravame simile a quello del ricorso per Cassazione. Posizione tradizionalmente contraria a quella dei penalisti. Presidente Caiazza, in questi ultimi giorni si discute molto di riforma del Csm ma non dobbiamo scordare che sono al lavoro anche le Commissioni per i decreti attuativi della riforma del processo penale... Sì, in effetti si sta parlando molto di Csm. Noi siamo preoccupati perché la discussione si è incentrata molto sul sistema di voto del prossimo Consiglio, come se bastasse questo a risolvere tutti i problemi di credibilità della magistratura. Si stanno purtroppo tralasciando aspetti per noi fondamentali come le valutazioni professionali dei magistrati, i Consigli giudiziari e il distacco dei magistrati al ministero della Giustizia. Si tratta di temi al centro di nostre prossime proposte di legge di iniziativa popolare. Naturalmente la nostra attenzione è concentrata ora anche sulla fase più delicata della riforma penale di Cartabia, ossia sull’elaborazione dei decreti attuativi nelle Commissioni ministeriali. Più che mai in materia processual-penalistica occorre operare con grande attenzione, perché bastano un avverbio o un aggettivo per modificare in un senso o in un altro l’attuazione di una delega. Una partita decisiva si gioca sul tema delle impugnazioni. C’è sempre il pericolo che qualcuno voglia far rientrare dalla finestra quei limiti all’appello rimessi alla porta nel testo finale del ddl... Fin dal testo licenziato dalla Commissione Lattanzi, abbiamo fatto notare come il tema che ci allarmava di più era proprio questo. Se per tanti versi rimpiangiamo quel lavoro, sensibilmente ridimensionato nel gioco degli equilibri politici, bisogna dire però che la relazione di Lattanzi prevedeva una radicale modifica delle impugnazioni in appello, nella forma della critica vincolata. Questa previsione avrebbe trasformato il giudizio d’appello da secondo giudizio sul fatto a giudizio sull’atto: una equiparazione, dal punto di vista tecnico, al ricorso in Cassazione, dove oltre il 70 per cento delle impugnazioni sono dichiarate inammissibili. Prevedere il vaglio di inammissibilità anche per l’appello è uno dei maggiori desiderata della magistratura italiana. Ma grazie alla nostra opposizione e alla nostra interlocuzione politica con la ministra Cartabia e la Commissione, la critica vincolata è stata abbandonata. Si è dovuto pagare però un prezzo: con essa è sparito anche il divieto per il pm di appellare le sentenze di proscioglimento. Quindi qual è la vostra preoccupazione? La legge delega prevede “l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato”. Ci allarmano due espressioni: “specificità dei motivi” e “puntuale enunciazione”. Questo perché la prima è già stata inserita nella norma dalla riforma Orlando, quindi non se ne comprende la reiterazione. Mentre la seconda locuzione può significare tutto ed il suo contrario. Su questo si giocherà la partita. Per i non addetti ai lavori, possono sembrare questioni da legulei, ma stiamo invece parlando, ancora una volta, delle sorti del diritto di appello dell’imputato. Non vorremmo che attraverso un sostantivo o un aggettivo transitasse nuovamente un recupero di fatto della critica vincolata. Dunque in questa fase delicata sarà molto importante la qualità tecnica della Commissione, e noi siamo confortati dalla presenza dell’avvocato Francesco Petrelli, direttore della nostra rivista ‘Diritto di Difesa’ e importante pezzo di storia della nostra associazione. Siamo certi che il suo contributo consentirà di esprimere con chiarezza il punto di vista dei penalisti italiani. Ne approfitto quindi, come presidente dell’Ucpi, per augurare buon lavoro a lui, a Vittorio Manes, a Michele Passione, e a tutta la componente dell’avvocatura presente nelle altre commissioni al lavoro per i decreti attuativi. A proposito di presenza dell’avvocatura nelle Commissioni ministeriali: ci sono state alcune polemiche per la preponderanza assoluta della componente magistratuale. Il deputato di Azione Enrico Costa ha fatto i conti: “Trentadue magistrati o ex magistrati, undici professori, cinque prof. avv., quattro avvocati”. Lei cosa pensa? Non voglio usare la logica del bilancino. A noi interessano le idee concrete che si giocheranno sul tavolo. Certamente proprio la Commissione sulle impugnazioni è presieduta da un autorevole ex- magistrato come Giovanni Canzio, primo presidente emerito della Corte di Cassazione, che proprio su questo tema negli anni, e già dai tempi della precedente commissione da lui presieduta, ha espresso con chiarezza una idea dell’appello e del ricorso in Cassazione che non condividiamo. Siamo certi però che con l’onestà intellettuale che lo ha sempre contraddistinto prenderà pienamente atto del dibattito in commissione. In generale lei avverte il pericolo che in nome dell’efficienza si possano compromettere i diritti della difesa? Certamente. Io mi auguro e sono certo che la presenza dell’avvocatura servirà proprio a difendere questo principio, ossia che l’efficienza e la riduzione dei tempi non possono mai tradursi in una diminuzione delle garanzie difensive. L’allungamento dei tempi nel giudizio penale è del tutto indipendente dall’esercizio del diritto di difesa: se un fascicolo impiega due anni per passare dal gip al dibattimento cosa c’entra l’attività difensiva? Quindi mi auguro che l’Accademia e l’Avvocatura presenti nelle commissioni, e spero anche una parte della magistratura, sappiano difendere questo principio fondamentale. Presidente, si discute molto anche di questa novità dell’Ufficio per il processo. Qual è la vostra posizione? È uno degli aspetti che ci piace meno della riforma. Questi fondi li avremmo investiti molto più volentieri nell’aumento dell’organico dei magistrati. Vedremo come funzionerà, non abbiamo pregiudizi: sarebbe un problema se si traducesse nell’aumento di sentenze scritte non dai giudici ma da neolaureati in giurisprudenza. Inoltre questo personale precario e mediamente qualificato cosa potrà fare, quando scrive una motivazione? Andrà a ripercorrere i precedenti giurisprudenziali: noi non condividiamo questa prospettiva della “signoria del precedente”. Attraverso i dibattiti delle nostre 131 Camere penali sul territorio, abbiamo registrato in più occasioni anche perplessità da parte di alcuni magistrati. Ultima domanda: la maggioranza si è spaccata alla Camera sulla questione del trojan. Occasione persa? Assolutamente. Sono anche abbastanza sorpreso dall’astensione di alcune forze politiche che hanno da sempre fatto di questi temi un punto centrale delle loro battaglie in tema di giustizia. Il trojan è uno strumento drammaticamente invasivo, peraltro tutt’altro che utile investigativamente, che spesso restituisce, dalle conversazioni di assoluta intimità, del materiale avvelenato da millanterie, dalla mancanza di vincoli di dire la verità, dal desiderio di compiacere. Whistleblowers, Italia in ritardo sulla direttiva Ue di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 18 novembre 2021 Trasparency e The Good Lobby: “Draghi e Cartabia in silenzio, non c’è traccia del testo”. A dicembre scade il termine per recepire le regole europee per tutelare chi segnala violazioni e reati. “Un brutto segnale mentre arrivano i miliardi del Pnrr e aumenta il rischio di corruzione e frodi”, denunciano Transparency International e The Good Lobby, che hanno scritto una lettera al presidente del Consiglio per avere notizie e chiedere il coinvolgimento della società civile. Che fine ha fatto la direttiva europea sui whistleblower che l’Italia deve recepire entro metà dicembre? È quanto hanno chiesto Transparency International e The Good Lobby in una lettera al capo del governo Mario Draghi e alla titolare della Giustizia, Marta Cartabia. Perché dopo la delega all’esecutivo, scaduta ormai da quattro mesi, dell’iter legislativo si sono perse le tracce. E questo anche perché, denunciano le due organizzazioni, “a differenza degli altri paesi europei, l’Italia non ha voluto coinvolgere nel processo la società civile, da sempre elemento propulsivo della normativa in materia di segnalatori di illeciti o ‘whistleblower’”. Mentre i miliardi del Pnrr stanno per arrivare, le innovazioni legislative per tutelare e incentivare chi decide di esporsi e segnalare potenziali frodi o casi di corruzione all’interno di un ente pubblico o dell’azienda in cui lavora, con tutta probabilità mancheranno l’appuntamento. L’Italia non rispetterà la scadenza del 17 dicembre prossimo, data entro la quale l’Unione europea ha previsto per tutti i paesi membri il recepimento della direttiva 2019/1937, che amplia la normativa per tutelare chi denuncia violazioni o reati all’interno del proprio ambiente di lavoro, compresa una stretta sulle sanzioni per punire con maggiore efficacia le ritorsioni nei confronti dei whistleblower. Ma a un mese dal termine fissato, non c’è modo di sapere che fine abbia fatto l’iter. “Più volte abbiamo chiesto un’interlocuzione formale in merito, senza mai ricevere risposta”, ha raccontato Federico Anghelé, direttore dell’organizzazione non profit The Good Lobby. Scaduta ai primi di agosto la delega con la quale il Parlamento chiedeva al governo di predisporre la bozza per la trasposizione della direttiva nel nostro ordinamento, andrà trovato un altro veicolo legislativo nel quale inserire il recepimento. A quel punto andrà portato a termine il lavoro dei ministeri sul testo che infine dovrà passare in contemporanea dalle commissioni di Camera e Senato per il loro parere. Con tutta probabilità, niente di fatto fino ai primi mesi del 2022. “Non rischiamo un’immediata procedura d’infrazione ed è già previsto un periodo di proroga, ma è un brutto inizio di fronte ai miliardi che il Piano nazionale di rinascita e resilienza è pronto a immettere nell’economia nazionale, con i conseguenti rischi legati a corruzione e infiltrazioni criminali e la necessità di contare su persone che di fronte a un illecito non si voltano dall’altra parte, ma segnalano alle autorità”, commenta Giorgio Fraschini, responsabile per l’attività di whistleblowing di Transparency International Italia, ong che si occupa di corruzione e che aiuta e sostiene chi intende fare una segnalazione. Ma non si tratta solo del ritardo e l’Italia non è l’unica a non aver ancora completato il recepimento. Quello che maggiormente preoccupa “è il mancato coinvolgimento degli stakeholder, dalle organizzazioni ai sindacati, dalle associazioni delle imprese agli stessi whistleblower”, spiega il direttore di The Good Lobby, organizzazione non profit impegnata perché anche la società civile sia in grado di influenzare i processi decisionali e legislativi. E qui il confronto con il resto d’Europa è più evidente: “Sono ben 13 i paesi dove sono state avviate consultazioni, compresi Danimarca e Svezia dove il recepimento è già stato completato”. Eppure quando nel 2017 venne introdotta la normativa che estendeva anche al settore privato le tutele per i whistleblower, il Parlamento italiano fu protagonista di un’ampia attività di consultazione della società civile. “Oggi ce n’è altrettanto bisogno, proprio perché la direttiva aggiorna una legge già presente e la estende anche ad aziende di medie dimensioni, molte delle quali potrebbero sentirsi travolte da un uragano normativo e per questo andrebbero sentite le loro rappresentanze, tra gli altri”, continua Fraschini. Non una questione di semplice apertura al dialogo, ma sostanziale anche sul fronte delle “autorità di regolamentazione” che andranno individuate all’interno di ogni paese Ue e che dovranno occuparsi delle linee guida in materia, ma anche di ricevere e indagare le eventuali segnalazioni dei lavoratori. “Del settore pubblico fino ad oggi in Italia se ne è occupata l’Autorità anticorruzione (Anac), ma quale dovrà essere l’autorità in ambito privato è un mistero”. Tra i passaggi più delicati della nuova normativa, alcune novità che fanno la differenza rispetto a quanto previsto fino ad oggi dall’ordinamento nazionale. “Innanzitutto si allargano i soggetti segnalanti, coinvolgendo anche volontari, consulenti e più in generale chi assiste o sostiene il segnalante principale, per il quale si prevedono misure di sostegno da parte delle autorità, compreso quello finanziario e di supporto psicologico”, spiega Transparency International. La direttiva prevede inoltre la presenza e l’implementazione di specifici canali di segnalazione. E poi c’è la questione delle ritorsioni, che l’Europa descrive in uno specifico elenco, e delle sanzioni. “Qui la direttiva pretende che siano efficaci, mentre fino ad oggi il nostro ordinamento ne prevede in numero limitato e sono per lo più inefficaci”, spiega Fraschini. “Come dimostra il fatto che su oltre mille segnalazioni arrivate lo scorso anno all’Anac, sono state solo tre le ritorsioni sanzionate. Peggio, si è trattato di sanzioni amministrative da 5mila euro alle quali si è accompagnato il totale oscuramento dei soggetti responsabili delle ritorsioni, mentre chi segnala è esposto a procedimenti disciplinari, alle spese per difendersi, e tutto sotto gli occhi dei colleghi”. Ultima e non ultima, la possibilità, in determinate situazioni, di divulgare pubblicamente la segnalazione attraverso i media o le ong, quando i canali preposti non abbiano funzionato o ci sia il rischio di inquinamento di prove. Che tutto questo infastidisca qualcuno? “È normale che sia così”, rispondono Transparency International e The Good Lobby. “Ma si tratta di una direttiva europea e non c’è modo di non recepirla, va fatto e basta. Semmai c’è il rischio di recepirla male e questo ritardo come il silenzio assordante di fronte agli appelli della società civile non fanno ben sperare”. Italygate, giallo sugli americani fantasma. Cartabia: “Capire cosa accadde in carcere” di Paolo Mastrolilli e Conchita Sannino La Repubblica, 18 novembre 2021 Una spirale di sospetti e pressioni sull’Italia, da parte degli organismi della Sicurezza guidati da Trump, anticiparono l’anomala missione degli americani nel carcere di Salerno, dieci mesi fa. Anche l’ambasciatore a Roma Lewis Eisenberg, non amato dal presidente tycoon, fu tenuto all’oscuro delle indagini su Italygate: l’alto diplomatico lascia il 16 gennaio; tre giorni dopo, il 19, gli addetti Usa entrano nel penitenziario del Sud Italia al seguito della deputata ex 5S Sara Cunial e con un avvocato a lei vicino. Con lo scopo - come ha ricostruito Repubblica - di interrogare clandestinamente l’hacker Arturo D’Elia, sospettato dalla Difesa statunitense di avere un ruolo nel presunto dirottamento di una parte dei voti degli americani all’estero. Si allarga il versante del cosiddetto Italygate su cui interviene ieri, da New York, la ministra della Giustizia Marta Cartabia, a margine della sua missione istituzionale. “Dopo le indiscrezioni, ci siamo immediatamente attivati”, premette la titolare della Giustizia, dopo il colloquio con l’omologo Merrick Garkland (ma l’argomento non è stato toccato a quel tavolo). “Ho chiesto al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - continua la ministra - di prendere informazioni e di approfondire con la direzione del carcere esattamente cosa è successo”. Non saranno consentite ombre, è il messaggio. Il capo del Dap, Dino Petralia, ha chiesto una “relazione immediata” alla dirigente Rita Romano. Quella delegazione aveva un obiettivo che viola le norme: porre domande specifiche al detenuto D’Elia, il 39enne accusato dai pm di Napoli di aver estratto 10 gigabyte di dati dai pci Leonardo Spa, colosso della Difesa italiana. Ma a Washington, nelle ore disordinate e rabbiose della Casa Bianca retta dalla vecchia presidenza, D’Elia è considerato, con il complice Antonio Rossi, un uomo del complotto anti-Trump. Una visita con più anomalie. La prima: alle ore 11 di quel 19 gennaio, fu registrata la sola presenza di Cunial. La deputata arrivò, stando alle testimonianze di D’Elia e del suo avvocato, con altre persone. Invece: nessuna trascrizione, sul foglio d’ingresso, né del suo accompagnatore, l’avvocato del foro di Brescia, Nino Moriggia, né degli americani. Moriggia, in particolare, in altri casi si era interessato direttamente del detenuto D’Elia, oltre a collaborare con la deputata (nella crociata contro i vaccini). Quanto agli altri due, D’Elia testimonia: “Erano americani, mi spaventarono con domande sul voto presidenziale, ma non sapevo nulla”. Tutto avviene nel periodo in cui anche il numero uno dell’ambasciata a Roma, Eisenberg, sembra assistere a un film grottesco. A metà dicembre, è un collega a mostrargli il tweet con cui in America si denuncia l’Italygate. Il 24, vigilia di Natale, Maria Strollo Zack, collaboratrice di Michelle Ballarin (che aveva denunciato per prima le presunte responsabilità di “attivisti” italiani) avvicina il presidente a Mar a Lago e informa Trump della traccia da seguire: i due arrestati in Campania. Il 2 gennaio, è Mark Meadows, capo di gabinetto della Casa Bianca, a chiamare il segretario alla Difesa Chris Miller perché indaghi. E Miller investe il vertice dell’agenzia Usa, la Dia, Berrier, perché ordini all’addetto militare di Via Veneto di andare in carcere da D’Elia. È il 16 gennaio: Eisenberg lascia Roma, sede scoperta. Il 19, ecco la missione in carcere, Salerno nell’ultimo tempo utile. L’indomani è il grande giorno dell’Inauguration. Si insedia Biden. Ma sul territorio italiano restano veleni e intrighi: ancora da sciogliere. Vigevano (Pv). Detenuti e lavori di utilità sociale: il progetto riparte con 3 volontari di Ilaria Dainesi informatorevigevanese.it, 18 novembre 2021 Il protocollo sottoscritto da assessorato all’ambiente del Comune, carcere e Ministero. Impiegare i detenuti in attività di pulizia di aree degradate, dove sono stati abbandonati illegalmente i rifiuti. Il progetto, “Mi riscatto per il futuro”, è stato promosso dall’assessorato all’ambiente del comune di Vigevano, che ha sottoscritto un accordo con la casa di reclusione e con il Ministero della giustizia, con l’obiettivo promuovere interventi “socialmente utili”, accompagnati da azioni finalizzate all’inserimento lavorativo delle persone che stanno per terminare il periodo di reclusione. “È un progetto - ha sottolineato l’assessore all’ambiente Daniele Semplici - con una doppia valenza: umana e sociale. Oltre al recupero dei rifiuti, i detenuti affiancheranno anche i nostri dipendenti comunali per la cura e l’irrigazione di piante e fiori”. Per il momento, saranno impiegati tre detenuti, che parteciperanno alle attività a titolo di volontariato, ma l’idea è di estendere il numero delle persone coinvolte. “Riprendiamo un’attività che era stata già negli scorsi anni - riferisce il direttore della casa di reclusione di Vigevano, il dottor Davide Pisapia - e che avevamo dovuto sospendere in parte per problemi burocratici, legati all’assicurazione. E poi per la situazione determinata dal Covid. Il progetto si basa su un presupposto: la presenza del carcere può rappresentare una risorsa per il territorio, e non un “peso”. Il reato commesso è percepito come una ferita, una rottura di quel patto sociale che tutti noi sottoscriviamo. Attività come queste permettono di iniziare a ricucire quel che era stato spezzato nel momento in cui era stato commesso il reato. E di tracciare dei nuovi percorsi utili per il reinserimento in società. La scelta di avviare il progetto con un numero limitato di partecipanti è dovuta anche a ragioni di sicurezza sanitaria - ha specificato il dottor Pisapia - I tre detenuti coinvolti sono tutti appartenenti alla stessa sezione, sono diciamo in una sorta di “bolla”. Il costo dell’assicurazione, grazie a un protocollo d’intesa, sarà a carico del Ministero della Giustizia, senza quindi alcun onere per l’ente locale. Sul progetto, il sindaco di Vigevano Andrea Ceffa sottolinea: “Non solo queste attività sono importanti nella prospettiva di un inserimento in società al termine del periodo di detenzione, ma anche per il contributo offerto alla collettività - ha specificato il primo cittadino - Mi spiego meglio: nei tre anni in cui il progetto è stato realizzato, il lavoro eseguito dai detenuti ha avuto un riscontro importante in termini di efficacia. C’è un ritorno che non è solo legato a un aspetto etico e inclusivo, ma è tangibile. I risultati del loro lavoro, il contributo fornito per migliorare la cosa pubblica erano sotto gli occhi di tutti”. Prato. Da detenuto a imprenditore, la nuova vita di Menci che oggi dà lavoro a nove persone di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 18 novembre 2021 Albanese, 33 anni, è stato condannato per vari reati. Uscito dal carcere ha iniziato un’attività edile mettendosi in proprio grazie alla Caritas di Prato e alla Casa Jacques Fesch. Se qualcuno pensa che le persone non possano cambiare, adesso dovrà ricredersi. La storia è quella di Menci Gezim, albanese di 33 anni, residente a Prato, dieci anni in carcere per svariati reati. Oggi, uscito di galera, è diventato imprenditore edile, con tanto di nove dipendenti, tre dei quali detenuti. Se oggi Menci è una persona diversa, parte del merito è anche della Caritas di Prato e della Casa Jacques Fesch, dove lui ha vissuto per un periodo, struttura di accoglienza che ospita gratuitamente detenuti in permesso e familiari di detenuti non abbienti che provengono da località distanti da Prato, così da offrire per quanto possibile un ambiente accogliente e decoroso. Menci Gezim arriva a Casa Jacques Fesch - così chiamata in memoria dell’omonimo criminale francese convertito in carcere - nel 2017 quando la casa è in ristrutturazione. Il 33enne sta finendo di scontare dieci anni di carcere, una volta fuori deve ricominciare da capo, non ha documenti, non ha una famiglia, non ha un lavoro, non ha un posto dove andare. Per quelli come lui il rischio recidiva è altissimo: quasi due detenuti su tre che non hanno opportunità, quando sono liberi tornano a delinquere. Gezim viene coinvolto dalla ditta Saccenti nei lavori alla Casa Jacques Fesch e impara il lavoro di muratore, per sei mesi vive nella struttura e qui viene aiutato da Elisabetta Nincheri, una volontaria dell’associazione Don Renato Chiodaroli. Il giovane capisce che si stanno aprendo possibilità importanti per lui. Ricambia la fiducia data e inizia a costruire la propria vita. Conosce quella che diventerà sua moglie, il lavoro va così bene che decide di mettersi in proprio e aprire una impresa edile dove adesso lavorano nove dipendenti. “Di questi, tre sono ex detenuti - sottolinea Gezim - come hanno aiutato me, anche io voglio fare altrettanto”. Oggi Menci, oltre ad essere imprenditore, è anche marito e padre di una bambina di diciotto mesi. Genova. Crolla soffitto nel panificio del carcere di Marassi, detenuti e cooperativa senza lavoro di Silvia Isola primocanale.it, 18 novembre 2021 L’appello di Italforno: “Vogliamo sapere quando potremo riprendere la nostra attività”. Un controsoffitto è crollato lo scorso 2 novembre all’interno della casa circondariale di Genova Marassi e da più di 15 giorni sono state interrotte tutte le attività della cooperativa sociale Italforno. Per il sindacato della polizia penitenziaria si è trattato di una ‘strage sfiorata’, in quanto nei locali al momento del crollo non si trovavano persone sul posto. “Come cooperativa noi da 15 anni oramai produciamo pane, focaccia e pizza per la nostra distribuzione. In questa attività sono coinvolte più di 13 persone, tra cui quattro detenuti”, spiega Pietro Civello, presidente della cooperativa sociale Italforno. “Ora il tetto è pericolante e locale sono sostanzialmente inagibili, anche perché non possiamo proseguire l’attività finché non verranno fatti i lavori. Questo significa mancati incassi e mancata possibilità di lavorare anche per le 9 persone esterne tra autisti, panettiere, due impiegate”. L’attività al momento è ferma e le tempistiche per la ripartenza non sono ancora state definite. I dipendenti hanno richiesto la cassa integrazione, ma i disagi più gravi li subiranno i detenuti, al momento non più occupati, e le aziende che ogni giorno ricevevano tra i 400 e i 600 kg di pane al giorno. Già nelle settimane precedenti, però, c’erano state delle avvisaglie. Dei pezzi di intonaco si erano iniziati a distaccare, ma la direttrice non aveva dato l’okay all’intervento della Mof, l’unità destinata alla manutenzione dei fabbricati. “Tutte le comunicazioni sono state fatte via mail, il 28 ottobre scorso il capo Dap Petralia aveva visitato il panificio. A seguito della caduta di alcuni grossi calcinacci, di cui si era accorto un detenuto, avevamo fatto richiesta alla direttrice De Gennaro per un intervento ma la sua risposta era stata negativa, asserendo senza visionare i locali - cosa molto grave - che si trattasse di manutenzioni a nostro carico per cui avremmo dovuto chiamare una ditta esterna”. Ma il solaio appartiene al carcere e i tempi per far accedere gli esterni tra autorizzazioni e permessi sono più lunghi rispetto ad altri luoghi di lavoro. Così, pochi giorni dopo, è avvenuto il crollo. “L’ennesimo, disperato, invito destinato al politico e alla politica ad attenzionare il sistema carcere e ai problemi che seppelliscono le donne e gli uomini che ci vivono e ci lavorano, perché il lavoro, quello sicuro o meglio in sicurezza oltre a dover essere una priorità a garanzia di tutti è sicuramente un invito al reinserimento per la popolazione detenuta”, questo il commento di Fabio Pagani, segretario Regionale della Uil polizia penitenziaria. Oltre a questo, la cooperativa adesso resta in attesa di risposte da parte della direzione, col rischio di mandare in crisi un’attività che all’interno del carcere perdura da 15 anni. Prato. Le parole dei detenuti “evadono” dal carcere della Dogaia Il Tirreno, 18 novembre 2021 Sessanta manifesti sono apparsi in questi giorni nella zona intorno al carcere della Dogaia. Sono le parole dei detenuti, “evase” dalle mura della casa circondariale per far sentire all’esterno la voce di chi sta dentro. Si tratta di un progetto di Livia Gionfrida e del suo collettivo artistico Metropopolare. I manifesti sono stati affissi negli spazi pubblicitari e alle pensiline del bus, con messaggi poetici realizzati all’interno del laboratorio che la compagnia pratese porta avanti da 13 anni. Un modo, spiega il collettivo Metropopolare, per “riflettere sulle reclusioni che ognuno di noi vive, creando un ponte tra chi risiede all’interno di un carcere e la cittadinanza che viene invitata a riflettere attraverso queste suggestioni poetiche anche in formato audio, scannerizzando il QR code presente su ogni manifesto”. “Dopo il successo di quelli affissi lo scorso Natale con le frasi dei bambini raccolte durante il lockdown - racconta la direttrice artistica del progetto e regista Livia Gionfrida - continua il dialogo con la città attraverso questa nuova serie di manifesti. La nostra è una ricerca di nuovi linguaggi espressivi attraverso i quali cercare di comunicare con l’altro, con il pubblico, incontrarlo per mettersi in discussione come comunità”. Il progetto dei manifesti fa parte della rassegna “Anche i poeti hanno una loro legge”, organizzata da Metropopolare. Da ottobre a dicembre laboratori, spettacoli e incontri con alcuni dei più importanti poeti e poetesse italiane, con appuntamenti sia all’interno che fuori dal carcere. La rassegna proseguirà con lo spettacolo “It’s Just a Game”, regia Livia Gionfrida, al teatro Magnolfi sabato 27 novembre alle ore 21 e domenica 28 alle ore 17: in scena Robert da Ponte, attore ex detenuto che inviterà il pubblico ad una tragicomica riflessione sul tempo presente. Info e prenotazioni a teatro@metropopolare.it. Concluderà questo percorso durato tre mesi, un incontro in musica all’interno della casa circondariale con il cantautore Giovanni Truppi. “Anche i poeti hanno una loro legge” è un progetto realizzato da Teatro Metropopolare, con il contributo di Ministero della Cultura, Fondazione Cassa di Risparmio di Prato (all’interno del progetto “Letture oltre le mura”), Regione Toscana, Comune di Prato, Creazioni Urbane e con il patrocinio del Ministero della Giustizia. Il collettivo Metropopolare ringrazia la casa circondariale della Dogaia. Roma. L’esperienza del teatro in carcere al festival “Destini Incrociati” redazionecultura.it, 18 novembre 2021 La sensibilità dell’arte può avere effetti determinanti all’interno della società, ma cosa accade quando il teatro incontra la realtà carceraria? La Compagnia Teatrale Petra risponde a tale quesito con inTime, documentario sul progetto Teatro oltre i limiti, la rassegna di promozione del teatro in carcere organizzata nelle città di Potenza e Matera. Un prodotto audiovisivo che contiene due anni di lavoro, un programma culturale che coinvolge i detenuti nelle attività teatrali e che intende superare il concetto di “limite” attraverso laboratori, workshop e incontri di formazione con artisti di fama nazionale e internazionale. InTime racchiude immagini e parole che si susseguono con naturalezza e le intime riflessioni dei protagonisti evidenziano gli obiettivi di un’operazione articolata alla ricerca dell’oltre. I detenuti-attori raccontano la propria esperienza, gli operatori del mondo del sociale, gli agenti di polizia penitenziaria e gli artisti coinvolti (fra i quali Simona Bertozzi e Silvia Gribaudi) mostrano il loro entusiasmo e il mondo del carcere apre le porte alla città. Un racconto autentico che ribalta dunque la concezione detentiva dell’immaginario collettivo, favorendone una nuova visione: da luogo di vergogna a luogo di cultura. Il progetto sarà presentato all’interno della Rassegna Nazionale di Teatro in Carcere Destini Incrociati che avrà luogo dal 17 al 20 novembre all’Università degli studi Roma Tre. La manifestazione, promossa dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, propone un cartellone di eventi, conferenze e una rassegna video per raccontare il significativo lavoro condotto in decine di istituti penitenziari italiani. Esperienze in grado di restituire la ricchezza e la diffusione ormai capillare di questo importante settore del teatro italiano che ha evidenti ricadute sulla funzione di riabilitazione e di risocializzazione. Il documentario inTime verrà proiettato sabato 20 novembre, durante la seconda sessione della Rassegna Video Destini Incrociati, in programma dalle 9:00 alle 13.00. All’interno dell’evento verrà inoltre illustrato il progetto Extra Moenia - Spazio di connessione territoriale, grazie al quale la compagnia rientra tra i 37 vincitori della terza edizione del premio Creative Living Lab, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Extra Moenia è il frutto di una intensa attività di co-progettazione con la Direzione della Casa Circondariale Antonio Santoro di Potenza dove Petra è presente attivamente da circa 8 anni con laboratori teatrali, e vede la collaborazione dell’APS Associazione di Promozione Sociale Officine Officinali oltre al sostegno del Comune di Potenza. Il programma risponde a tutti gli obiettivi strategici previsti dall’avviso pubblico Creative Living Lab: la realizzazione di spazi attrezzati attraverso la creatività contemporanea, il coinvolgimento delle comunità locali nei processi di rigenerazione urbana e la diffusione di alcune metodologie inclusive e aggregative, capaci di sviluppare il senso di identità e di appartenenza ai luoghi. L’intervento di riqualificazione interesserà uno spazio verde non utilizzato di circa 800 mq, presente all’interno del perimetro della Casa Circondariale e a ridosso del quartiere limitrofo di Rione Betlemme, delimitato su tre lati da una recinzione e sul lato restante dalle mura del carcere. L’idea di agire su questo luogo è nata nell’ottobre 2020 nell’ambito della rassegna di promozione del teatro in carcere Teatro oltre i limiti quando, a causa delle norme sanitarie in vigore, si è pensato insieme alla Direzione della Casa Circondariale di Potenza di proiettare sulle mura esterne del carcere in “extramoenia”, in diretta streaming, l’esito finale del laboratorio teatrale svolto dai detenuti all’interno. Un evento, fruito con una modalità inedita a causa delle norme sanitarie in vigore, che ha permesso la partecipazione anche di cittadini del quartiere che mai prima di allora si erano avvicinati agli eventi culturali organizzati all’interno della Casa Circondariale. Extra Moenia sarà sviluppato come progetto di comunità sotto la supervisione di progettisti e mediatori, attraverso un processo partecipato di “autocostruzione” per offrire servizi all’intera comunità: un teatro all’aperto, un luogo di attesa dei familiari dei detenuti, un parco giochi, un mercato di quartiere e un punto vendita delle produzioni della Casa Circondariale - oli essenziali, ortaggi, funghi, miele e olio - nell’ambito della Rete Lucana per l’Economia Carceraria denominata Prison Farm, di cui la Casa Circondariale di Potenza è capofila. La Compagnia Teatrale Petra si occupa da anni di produzione, formazione e teatro sociale. È attiva dal 2013 all’interno della sezione maschile e femminile della Casa Circondariale di Potenza e Matera con rassegne di promozione teatrale e percorsi pedagogici rivolti ai detenuti, sperimentando un nuovo modo di relazionarsi per includere, promuovere e valorizzare le differenze. Nel 2017 entra a far parte del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, una rete nata per offrire progettazione, luoghi di confronto e qualificazione del movimento teatrale sorto all’interno delle carceri italiane a partire dagli anni 80. La rassegna Teatro oltre i limiti intende sviluppare in modo sempre più stabile l’attività di teatro in carcere in Basilicata, forte anche delle altre e note esperienze italiane. Nel 2018 la compagnia stipula con la Casa Circondariale di Potenza un accordo operativo finalizzato alla gestione dello spazio teatrale presente nella struttura, per la realizzazione delle attività culturali del capoluogo lucano e la creazione di un “ponte” tra dentro e fuori le mura, non solo fisiche, del contesto carcerario. Sono molteplici le modalità attraverso le quali il teatro diviene strumento d’inclusione: laboratori sulle tecniche teatrali per permettere ai detenuti di aprire una finestra sull’esterno; laboratori intensivi integrati guidati da artisti di fama nazionale e internazionale per attori-detenuti e allievi delle scuole secondarie di II grado; programmazione di rassegne all’interno dello spazio Teatro della Casa Circondariale di Potenza; formazione di operatori sociali per fornire ai soggetti coinvolti le competenze utili da impiegare nelle diverse attività dei progetti realizzati; incontri e percorsi per un pubblico esterno, studenti delle scuole secondarie di II grado e per l’amministrazione penitenziaria, volti a sensibilizzare ed educare sul tema del carcere e del teatro sociale; monitoraggio per valutare il reale impatto che l’attività teatrale può avere, in positivo o in negativo, sulla vita dei detenuti. Compagnia Teatrale Petra nasce nel dicembre 2011 a Satriano di Lucania (Pz). Antonella Iallorenzi (direttrice artistica, attrice e formatrice teatrale) e Angelo Piccinni (direttore tecnico), cuore pulsante della compagnia, decidono, forti della lunga esperienza in ambito teatrale maturata nel corso degli anni in Italia e all’estero, di dare vita ad un progetto tutto loro che pur conservando un profilo di respiro nazionale si radica profondamente nel territorio lucano. La compagnia ha infatti scelto di avere le basi in un paese di provincia di 2.400 abitanti, in Basilicata, e nel suo teatro avvia progetti in espansione in ambito nazionale e internazionale, facendo interagire la propria visione artistica con le diverse comunità di riferimento. Diversi i settori di intervento: formazione per bambini/ragazzi, nelle scuole e in luoghi non deputati al teatro, produzione di spettacoli tout public, teatro sociale con rassegne di promozione del teatro in carcere, residenze artistiche e cooperazione internazionale. Petra è uno dei soggetti attivatori del processo di co-creazione di Matera Capitale Europea della Cultura 2019, inserita nel programma ufficiale con il progetto La Poetica della Vergogna co-prodotto da #reteteatro41 e Fondazione Matera-Basilicata 2019 e la produzione originale Humana vergogna, diretta da Silvia Gribaudi e Matteo Maffesanti. Bergamo. “Leggere un libro è libertà” di Manuela Bergamonti bergamonews.it, 18 novembre 2021 Inaugurata la biblioteca alla sezione femminile del carcere. Madrina d’eccezione la giornalista tv Cristina Parodi. A disposizione delle detenute 2.384 volumi e 46 dvd. “I libri mi fanno viaggiare anche se sono ferma”; “I libri mi distraggono dalla quotidianità che qui dentro sono costretta a vivere”; “Leggo per mantenere attiva la mente, per arricchire il mio bagaglio culturale”; “Leggere mi permettere di allontanare la solitudine, mi riallaccia alla realtà, è un’ancora di salvezza in un momento in cui la mia vita si è fermata, senza collegamenti con la vita vera”. Queste sono le frasi lette da alcune detenute durante il video di presentazione della nuova biblioteca della sezione femminile del carcere Don Resmini di Bergamo, frutto di una convenzione tra il Sistema bibliotecario urbano del Comune di Bergamo e la direzione carceraria. A loro disposizione ci sono ora 2.384 libri dei quali 1.742 di narrativa e 642 di saggistica, 46 dvd e verranno presto attivati abbonamenti a diverse riviste. Dall’inizio di maggio, data della sua apertura, sono 337 i prestiti effettuati. Materialmente si sono adoperate quattro dipendenti del sistema bibliotecario urbano, alcune volontarie e diverse detenute che hanno sgomberato e dato nuova vita alle due stanze che ospitano i volumi. “In origine erano utilizzate come magazzini - spiega la bibliotecaria Cristina Rota -, colme di scatoloni, libri gettati alla rinfusa, sedie, tavoli rotti. Nel 2019 abbiamo iniziato a ripulire tutto, a fare una cernita di cosa tenere e cosa eliminare, abbiamo ricostruito pian piano la biblioteca, sistemato i libri, realizzato un catalogo. È stato un lavoro lungo e faticoso ma estremamente stimolante per tutti coloro che hanno dato una mano”. Mercoledì 17 c’è stata l’inaugurazione ufficiale alla presenza delle autorità, dei rappresentanti delle diverse realtà che hanno partecipato alla sua realizzazione, delle associazioni che gravitano attorno al carcere, dell’università, di alcuni detenuti e detenute. Dopo il saluto iniziale della direttrice Teresa Mazzotta, che ha fortemente sostenuto il progetto biblioteca, la garante dei diritti dei detenuti Valentina Lanfranchi ha dato la parola alla madrina dell’iniziativa, Cristina Parodi. “Non ero mai stata all’interno del carcere ed è un onore per me essere qui oggi - ha dichiarato -. Quella dell’istituzione di una biblioteca all’interno di una casa circondariale è una bellissima notizia, una testimonianza di come il carcere, del quale spesso si parla come luogo di sofferenza e disagio, possa in realtà essere un luogo di riabilitazione. E i libri possono aiutare molto in questo processo, possono migliorare noi stessi e le nostre vite. I libri danno libertà e credo che in carcere questo concetto sia ancora più importante e sentito”. La giornalista televisiva e moglie del sindaco di Bergamo Giorgio Gori confessa di essere una grande lettrice: “Mi definisco un’onnivora di libri, mi piacciono diversi generi e se un libro mi prende particolarmente, le ultime pagine le leggo piano piano per non farlo finire. Attraverso i libri si può viaggiare, ci si può immedesimare nei personaggi, si possono vivere storie appassionanti e si impara sempre qualcosa. Leggere ci dà la libertà di scegliere un titolo, di abbandonarlo se non ci piace, di consigliarlo, ci permette di dialogare, di condividere opinioni, di socializzare, cosa importantissima in un luogo come il carcere, dove si incontrano donne provenienti da Paesi e culture differenti. Non siamo mai soli con un libro in mano”. In realtà mercoledì l’inaugurazione è stata doppia perché, in seguito ad un intervento di riqualificazione, da meno di un mese è attiva anche la palestra circondariale. Pierguido Piazzini, presidente dell’Opera Pia Calepio, che si è occupata della ristrutturazione, ha ricordato don Fausto Resmini: “Lui organizzava sempre delle giornate di festa, soprattutto sotto Natale, per le famiglie dei detenuti. C’erano volte in cui nella palestra c’erano un centinaio di bambini che potevano così incontrare i loro papà e le loro mamme. È stato proprio don Fausto a chiedermi di realizzare un progetto per dare una sistemata alla palestra ed ora, che lui non c’è più, è ancora più emozionante inaugurare questo luogo”. “Mare Fuori”, ovvero la speranza di un carcere che rieduchi di Mauro Donzelli comingsoon.it, 18 novembre 2021 Intervista con Carolina Crescentini, protagonista della fiction. Dei ragazzi in carcere, minorenni, con storie di violenza e la speranza di un cambiamento che li porti a una vita diversa. Carolina Crescentini ci racconta la sua esperienza nella seconda stagione della fiction di prima serata di Rai2 Mare fuori. Sarà vero che è molto rigorosa, la direttrice Paola Vinci. Ma con i ragazzi del carcere minorile napoletano che dirige, ormai c’è un rapporto speciale. Ce lo conferma Carolina Crescentini, la protagonista della fiction della prima serata del mercoledì di Rai2, Mare Fuori, che abbiamo intervistato. “Ne succedono di tutti i colori, perché sono adolescenti”, ci ha detto. “La vita è prepotente, però ormai fra Paola e i ragazzi detenuti si è instaurato un rapporto particolare. È molto di più della direttrice del carcere minorile, è un’amica più grande. Si è ammorbidita grazie a loro che le hanno permesso di sciogliersi, è diventata empatica, mentre prima era molto rigida. È sempre una donna di carattere, ma ora apre un cuore che aveva tenuto chiuso per sue antiche ferite. Ormai siamo una splendida famiglia. Mare Fuori racconta come sia fondamentale credere nelle persone e nella possibilità di cambiare quando si sbaglia. In un dibattito attuale, anche politico, in cui ci si ferma alle accuse, senza aspettare le sentenze... Siamo nella politica del click facile, del titolo provocatorio, a prescindere che sia la verità o meno. La responsabilità è di chi legge, ma soprattutto di chi scrive come voi giornalisti, che potete condizionare un pensiero. Per come sono fatta io penso sia necessario credere alle persone, altrimenti il carcere dovrebbe essere un luogo dove si butta la chiave, che invece deve esserci eccome. Queste persone dovranno uscire e saper vivere nella società senza muoversi nell’illegalità. Altrimenti c’è l’ergastolo triplo, se non puoi essere assolutamente reinserito. Il carcere deve essere un luogo di trasformazione. Ci sono stata varie volte; ricordo a Regina Coeli una interessantissima gara di retorica fra studenti di Giurisprudenza e detenuti. Avevano mezzo’ora per sostenere una tesi di accusa e difesa, in quel caso legata all’uso delle armi, scambiandosi poi il ruolo. Ovviamente hanno vinto i carcerati, con alcuni che hanno dimostrato una dialettica incredibile. Iniziative come queste portano al confronto, non solo per i neo laureati, ma anche per i detenuti. Quando sono stata a girare a Poggio Reale, un carcere però per adulti, ho parlato con chi ci lavorava e mi hanno detto che la maggior parte delle persone che escono rientra entro sei mesi. Per fare in modo che questo non avvenga, quando è dentro devi lavorare su quella persona, che magari è inserita con la famiglia in un sistema criminale. Devi dargli degli strumenti per riprendersi la libertà e trasformare la sua vita. A maggior ragione la responsabilità di un carcere minorile è quella di non indirizzare in maniera definitiva la vita di un giovane che compie un crimine... Spero che sconti la sua pena, chi viene incarcerato, ma non finisca poi in quello per adulti, che si riprenda anzi tutto quello che ha dovuto interrompere negli anni rinchiuso. Il ruolo degli educatori è fondamentale, non servono solo le persone che garantiscono la sicurezza. Prendo come esempio il film Cesare non deve morire dei fratelli Taviani. Alcuni dei detenuti che hanno recitato in quel film ora sono usciti e fanno gli attori, c’è chi ora scrive libri. Una contaminazione lì dentro rappresenta una grande occasione. È l’unico modo per scommettere sulla possibilità di una nuova vita. A volte, come attrice, attraversi la storia di un personaggio che interpreti e puoi trovare aderenza con la tua storia personale, ma con la maschera del personaggio che ti tutela nell’affrontare emotivamente qualcosa che da solo ti fa troppo male. Mare Fuori è molto radicato nel luogo in cui la storia è raccontata, ancora di più nella seconda stagione, in cerca di autenticità, per esempio con l’uso del dialetto... Assolutamente. All’inizio li fermavo perché parlavano in maniera incomprensibile e dovevano tradurmi. Nella prima serie i sottotitoli non hanno dato fastidio ed è giusto mantenerli, aggiungono molto alla verità. C’è chi viene da alcune realtà in cui il dialetto parlato è a dir poco criptico. Il suo personaggio cerca di insegnare un altro modello di autorità, non quello della violenza e della criminalità organizzata... Devi cambiare completamente la loro mentalità. Se sono cresciuti in famiglie in cui era tutto così, poi è difficile e allora si richiede un gran lavoro. Alcuni non venivano da contesti criminali, e lo mostriamo, ma avevano bisogno di quella dimensione. Allora è necessario un lavoro particolare e fondamentale è sempre il ruolo di chi è dentro, al di fuori dalle celle, oltre a quello delle famiglie, spesso però distratte o portate a sottovalutare il rischio. “Lettere da un carcere”: lo sguardo di speranza di chi vive dietro le sbarre di Annie Francisca redattoresociale.it, 18 novembre 2021 Nel libro di Ida Matrone, le lettere dei detenuti del carcere di Bollate diventano il racconto intimo e sincero di chi sta intraprendendo un percorso di speranza all’interno di una situazione carceraria aggravata dalla pandemia, che spesso non incoraggia scelte di bene. “Vivere nella prospettiva di un passato irreversibile è disperante: nulla può essere cancellato - scrive don Claudio Burgio - Eppure, il senso di quanto avvenuto può essere trasfigurato, risignificato, soprattutto se vivificato dalla potenza di un incontro.” E proprio dall’incontro con le persone detenute si snoda il racconto di Ida Matrone nel libro “Lettere da un carcere - Racconti e volti di un’amicizia” curato per Ares Edizioni (2021), con la prefazione di don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria e fondatore dell’associazione Kayros. L’autrice, volontaria dell’associazione Incontro e Presenza presso il carcere di Bollate, in queste pagine ci porta a varcare la soglia del mondo carcerario e ci fa entrare in contatto con la moltitudine di storie di chi vive dietro le sbarre. “Compito del volontario in carcere è proprio quello di non consegnare la persona detenuta alla passività di giorni sempre uguali e alla disperante ripetizione dell’identico, ma quella di offrire una proposta ricca di stimoli e prospettive che conducano la persona simbolicamente e concretamente oltre l’esperienza stigmatizzante del carcere”, continua don Burgio. “La cura è la cifra dell’essere umano e si attua nell’aiutare l’altro a essere libero; essa è la radice primaria dell’essere umano e il fondamento di ogni esistenza”. Il libro è strutturato in una prima parte in cui si dà conto sinteticamente dell’ispirazione originaria dell’associazione Incontro e Presenza, fondata da Mirella Bocchini 35 anni fa, del metodo e del possibile esito che i volontari perseguono nella loro relazione con i detenuti, delle attività e degli incontri tra “chi sta dentro e chi sta fuori”, al fine di conferire ai detenuti una nuova consapevolezza focalizzata sulla propria persona e non sull’immedesimazione del reato commesso. “Il nostro desiderio - scrive Ida - è sicuramente quello che da queste relazioni possa nascere un mondo migliore e, nello specifico della realtà carceraria, che questi incontri aiutino i detenuti a scoprire, o perlomeno a desiderare di scoprire, in che cosa consista la verità di sé e della realtà, così da sentirsi sollecitati a iniziare un cammino di cambiamento della propria vita”. Nella seconda parte prendono forma le storie di Rocco, Dejan, Filippo, Matteo e altri detenuti, che attraverso uno scambio di lettere con i volontari dell’associazione, raccontano le proprie preoccupazioni, i propri sentimenti e le proprie idee, in relazione soprattutto al lockdown generale che aveva impedito ai volontari di proseguire le attività all’interno del carcere. Gli effetti della pandemia, infatti, hanno ulteriormente amplificato l’esperienza di isolamento che nei penitenziari è la quotidianità, inasprendo le regole di sicurezza e soprattutto sospendendo i colloqui con i famigliari e i volontari, provocando in molte carceri d’Italia vere e proprie rivolte. “Attraverso queste lettere - spiega Ida - la relazione è diventata più personale, intima; anche nel semplice scambio di notizia quello che emerge è una tenerezza nei rapporti o la volontà di condividere la comune fatica nel vivere certe circostanze”. Proprio durante il lockdown l’autrice ha deciso di scrivere questo testo, “quando le lettere dei miei amici detenuti non solo mi hanno fatto compagnia in un periodo di isolamento forzato, ma hanno fatto sorgere in me un sentimento di gratitudine profonda per averli incontrati - racconta Ida. Il carcere infatti, questa realtà nascosta agli sguardi degli altri uomini, “quelli fuori”, non è semplicemente una realtà sociologica, da analizzare con gli strumenti della sociologia, della criminologia, della psichiatria, ma è un luogo abitato da uomini che hanno invece un desiderio estremo di essere guardarti”. Grazia Deledda, la giustizia come filo conduttore di Paolo Merlini La Nuova Sardegna, 18 novembre 2021 Convegno a più voci della Scuola forense: gli operatori del diritto analizzano un tema cardine nell’opera della scrittrice. Un luogo comune, sempre meno diffuso per la verità, associa ai romanzi di Grazia Deledda la vendetta come una delle tematiche più rappresentative della sua opera narrativa. Digitando su Google il cognome della scrittrice e il termine vendetta si ottengono 240mila risultati in meno di un secondo (l’associazione con la parola “perdono” ne genera circa centomila in meno). Ma qual è il senso del diritto e della giustizia in Grazia Deledda? È davvero così arcaico come sembrerebbero suggerire, appunto, luoghi comuni duri a morire e i logaritmi che originano nell’era della comunicazione digitale? La domanda se la sono posta i professionisti del diritto (avvocati e magistrati principalmente) in un convegno promosso dalla Scuola forense dell’ordine degli avvocati di Nuoro che si è svolto all’auditorium del museo etnografico. Un incontro seguito in presenza e in streaming da circa trecento persone. Per il direttore della scuola forense, l’avvocato Antonio Careddu, la prospettiva iniziale va ribaltata: il senso della giustizia in Grazia Deledda è profondo, ha una levatura morale altissima. E lo è ancora oggi, a cent’anni e più di distanza, in una situazione mutata sotto ogni profilo anche nella Sardegna centrale che lei ha raccontato in tutte le sue spesso drammatiche contraddizioni. “In lei è costante la ricerca di giustizia - dice Careddu - e a ben guardare la ponderazione e il tempo necessari alla sua definizione sono gli stessi alla base dei sistemi normativi dei giuristi e degli operatori del diritto. Nella Deledda troviamo sempre il prevalere della coscienza di ciascuno nell’analisi delle proprie azioni, per ricordarci come alla fine l’individuo sia il primo giudice di se stesso. E assistiamo al prevalere del giudizio morale rispetto allo stesso esito di un’azione processuale”. Per l’avvocato Basilio Brodu non si può analizzare il tema della giustizia in Grazia Deledda senza prendere atto del periodo storico, cruciale nella storia del banditismo sardo, in cui lei ambientò i suoi romanzi, per così dire in presa diretta. “I primi anni del ‘900 - dice Brodu - rappresentano in pieno la spaccatura tra lo Stato con i suoi metodi spesso repressivi e la società pastorale con i propri codici. E lei questo racconta”. Dino Manca, filologo dell’università di Sassari, uno degli studiosi più puntuali dell’opera deleddiana, nella sua relazione ha voluto estendere l’analisi del rapporto tra la Deledda e il senso di giustizia a quello degli scrittori sardi nel loro complesso. Per loro, e per la scrittrice nuorese in particolare, la Sardegna non è mai una quinta scenografica sulla quale costruire un racconto, ma è il centro della narrazione, la prima e assoluta protagonista, “al punto da diventare un’ossessione che la psicoanalisi può aiutarci a capire. La Sardegna - dice Manca - non è un luogo, ma è il luogo per definizione. L’isola è insieme un mito e un archetipo della condizione umana, una terra senza tempo”. Mauro Pusceddu, giudice del tribunale di Sassari e autore di romanzi noir, fa notare come l’elemento della giustizia nel suo complesso sia curiosamente più presente in Grazia Deledda che nel giurista-scrittore per eccellenza, Salvatore Satta. A differenze di quest’ultimo, infatti, Deledda fa partire la propria narrazione da vicende in cui il protagonista è chiamato a confrontarsi, a causa delle proprie azioni, con l’universo della giustizia, quella degli uomini e quella dello Stato. In quest’ultimo caso dimostrando quanto Deledda fosse attenta all’evoluzione del diritto nel suo tempo: parla di prescrizione all’epoca in cui questo istituto si affacciava nel dibattito nazionale, anzi vent’anni prima (nel romanzo “Cosima”); di cambiali prima che si legiferasse su di esse (in “Canne al vento”). E parla di divorzio 70 anni prima della sua introduzione in Italia, come nel romanzo “Dopo il divorzio” del 1906 (in realtà proprio in quell’anno il governo Zanardelli lo introdusse con un decreto che poi decadde). “Così per lei la legge e la giustizia diventano strumento narrativo, lo spunto per una trama attraverso la quale ci mostra l’uomo nelle sue contraddizioni. Grazia Deledda parla al presente ma in realtà ci racconta il futuro con incredibile preveggenza”. I rischi del radicalismo verbale di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 18 novembre 2021 Ci troviamo di fronte a comportamenti prodromici rispetto ad altri reati più concreti che quindi non vanno sottovalutati. La Procura di Torino sta indagando 18 persone distribuite tra 16 città italiane accusate di aver “chattato” pesanti minacce e istigazioni a delinquere contro chiunque sia favorevole al green pass. Il caso specifico impone prudenza e cautela: l’inchiesta è all’inizio e logicamente occorre attenderne gli sviluppi. Intervenendo su un piano di carattere generale si può tuttavia dire, innanzitutto, che la storia non si ripete mai uguale ma qualcosina la può sempre insegnare. Alla fine degli anni Sessanta compaiono in varie democrazie industriali (Germania, Giappone, Francia e Italia) movimenti collettivi di contestazione da cui scaturiscono “costole” che estremizzano la protesta individuando obiettivi da colpire. Via via queste “costole” abbandonano l’intervento politico, duro ma ancora nel perimetro della democrazia, per praticare forme di conflitto violento, talora organizzando anche gruppi armati. Nel caso che forma oggetto delle cronache di questi giorni sembra di poter dire che siamo di fronte a comportamenti prodromici rispetto ad altri reati più concreti, ancorché certe espressioni riecheggino tempi assai cupi: come la parola, odiosa e feroce, “gambizzazione”, della quale si direbbe che qualcuno, sebbene nostalgico, abbia dimenticato l’effetto terribile di storpiatura dolorosissima e perpetua della vittima designata come simbolo, non più dalle catacombe della clandestinità ma dai meandri del web. In ogni caso, la fase che abbiamo definito prodromica non deve essere sottovalutata. Le conseguenze della propaganda violenta possono essere nefaste e guai a lasciarsi sorprendere trovandosi spiazzati, come in altre occasioni è già successo nel nostro Paese. Vauro, sul Fatto del 16 novembre, ha pubblicato una vignetta intitolata “No Vax, perquisizioni in tutta Italia”, nella quale due uomini con mascherina, un civile e un poliziotto, si scambiano queste battute: “Trovato niente?”, “Macché, manco un neurone”. La vignetta è divertente e si può leggere in due modi; uno rassicurante (senza neuroni non si combina niente), ma anche con preoccupazione (la mancanza di neuroni può generare malefatte). Comunque sia, è storicamente verificabile che la violenza in democrazia è la risposta di chi, a dispetto delle sue illusioni, è incapace di analisi veramente approfondite ed è insofferente ad ogni valutazione realistica dei dati di fatto. Alla fine si finisce per essere condizionati da una impazienza avventuristica, si rimane travolti da una mescolanza di radicalismo verbale e nullismo pratico che oscura la realtà. Mi sembra il caso anche di coloro che propagandano le proprie convinzioni soggettive “no vax” accampando argomenti (si fa per dire...) come la dittatura, il genocidio della shoah, il nazismo e le SS (come acronimo di “siero sperimentale”: e chissà che il presidente Mattarella cercando di porre un argine all’abuso sconsiderato degli acronimi non pensasse anche a questo...). Infine, almeno un accenno rispettoso - senza infingimenti - a quei personaggi eccellenti che intervenendo nel dibattito non sempre sembrano rendersi contro di giocare col fuoco. Sul versante dei “cattivi maestri” abbiamo già dato. Non dimentichiamolo. Covid, la normalità dell’emergenza di Stefano Massini La Repubblica, 18 novembre 2021 È l’esito di un meccanismo naturale e rischiosissimo, quello per cui la familiarità con il nemico induce a sottovalutarlo. Ci siamo assuefatti. L’emergenza è la nuova normalità. Talvolta mi fermo a pensare: ma quanto tempo è passato dalla proclamazione della prima emergenza? Fra poco due anni. E infatti Alessandro - figlio di amici nato poche ore prima del lockdown 2020 - è un ometto che cammina da solo, ha imparato a parlare e, se glielo chiedi, disegna se stesso con papà e mamma, tutti e tre con la mascherina. Per Alessandro non esiste un mondo senza mascherina (sul viso o in tasca), e mentre lo osservi nella sua inconsapevole infanzia di ostaggio pandemico, ti senti un privilegiato a pensare che per anni, dalla fine della guerra, conoscevamo perlopiù emergenze locali, dettate da terremoti, alluvioni, incendi o da tragedie circoscritte come il crollo del ponte Morandi, senza che mai si desse l’occasione di un’emergenza nazionale così lunga, grave e protratta. Tant’è, dentro questa bolla - adesso ulteriormente prorogata - abbiamo smaltito poco a poco lo sbigottimento iniziale, imparando a convivere con l’anomalia, con l’anormalità, con la spia d’allarme costantemente lampeggiante, cosicché ormai la diamo per scontata, e come il piccolo Alessandro riusciamo a giocare al di là di tutto. Già, al di là di tutto. Questo “al di là” è in fondo l’unico vero meccanismo che l’essere umano conosca per disinnescare la portata altrimenti devastante di un trauma: lo accettiamo, lo inglobiamo, ne smussiamo gli angoli impervi rendendolo per paradosso un rifugio, un utero protettivo in cui rintanarsi perché ormai noto, consueto, familiare. E infatti a rendere memorabile La metamorfosi di Kafka non è tanto lo shock della trasformazione di Gregor in scarafaggio, ma il lento processo con cui egli (e la sorella Grete) imparano a convivere con la mostruosità, tramutandola in un tran-tran domestico. Alla camera del repellente insetto vengono tolti i mobili per consentirgli di scorrazzare sulle pareti, e ogni sera gli vengono serviti gli avanzi del cibo di casa, come si farebbe con un cagnolino, salvo poi rabbrividire ogni volta che lo scarafaggio si torna a guardarlo con gli occhi oggettivi di un terzo. Pensavo a questo lo scorso sabato sera, in un affollato locale di Milano, mentre guardavo attorno a me le decine di persone che assiepate schiena contro schiena, spalla contro spalla, celebravano il loro rito dello spritz con la mascherina calata sul mento, e a colpirmi era lo spettacolo conclamato di un Covid forzatamente regredito a mostro addomesticato, un Cerbero tenuto al guinzaglio, una Chimera nel passeggino. È l’esito di un meccanismo naturale e rischiosissimo, quello per cui la familiarità con il nemico induce a sottovalutarlo, ed è in fondo il motivo per cui comunità intere accettano di vivere sulle pendici dei vulcani attivi. Gradualmente, un passo dopo l’altro, si accetta ogni cataclisma per non morire, e chi avesse dubbi pensi a Mitridate VI, il re del Ponto che per sopravvivere al rischio di avvelenamenti assumeva ogni giorno minuscole dosi di intrugli letali, così guadagnandosi un’invulnerabilità che non gli evitò comunque di infliggersi una morte terribile. Parliamo di una strategia che può essere cosciente (è il caso appunto di Mitridate) o inconsapevole, e in questo caso degenera talora in una pericolosa passività. Primo Levi era solito ricordare che nelle vene del popolo ebraico, da secoli disperso e vessato dai pogrom, scorre una innata abilità esistenziale a curvarsi alle raffiche di vento, come quei giunchi che flettendosi non si spezzano, ma è sorprendente leggere i vibranti scambi in cui Jean Améry respingeva le parole di Levi come foriere di un inaccettabile compromesso: Améry non volle mai piegarsi a normalizzare l’emergenza del lager, non si adagiò nella fatidica ricerca del sole nell’ombra, fosse anche per il mero obiettivo di non farsene inghiottire. Il suo è un monito a restare sempre vigili, combattendo l’assuefazione cui siamo naturalmente portati, quella che in queste ore fa dire a qualcuno “Draghi ha rinnovato lo stato d’emergenza, ma è una formalità”. Purtroppo non lo è affatto. Clima. La speranza contro la paura di Riccardo Luna La Repubblica, 18 novembre 2021 Il primo Open Summit di Green & Blue ci ha detto quanto la questione climatica sia diventata importante, quanto sia entrata nelle nostre vite mentre entrava nelle nostre case. Abbiamo parlato per ore ma non è stato un bla bla bla. Abbiamo messo a confronto le attiviste del clima con gli statisti provando a capire perché le prime considerano la questione climatica così urgente da apparire a volte furiose, e perché per i secondi provare a risolverla è così complesso da salutare piccoli passi avanti come vittorie epocali. Abbiamo ammirato le ragioni che portano un ragazzo a mollare un lavoro sicuro per fare una startup che si occupa di piantare alberi o ridurre la plastica; e abbiamo notato come il profitto del pianeta stia lentamente diventando uno dei valori guida delle strategie delle multinazionali (accanto al profitto degli azionisti). Abbiamo ascoltato spaventati gli scenari degli scienziati, rimanendo impietriti quando il premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi ci ha detto che non è il futuro della Terra ad essere in gioco, ma solo quello della specie umana. Abbiamo scoperto gli influencer del clima, che usano i social per fare cultura della sostenibilità; e gli artisti che lo fanno con le canzoni; e gli scrittori che hanno smesso di fare romanzi per scrivere solo su questo, sull’urgenza di fermare il riscaldamento globale. Non hai paura che la tua arte ci rimetta?, ha chiesto Antonio Monda a Jonathan Safran Foer. E lui: “In questo momento bisogna fare delle scelte, questa è la mia scelta, il mio contributo”. Il primo Open Summit di Green&Blue ci ha detto in maniera lampante quanto la questione climatica sia diventata importante, quanto sia entrata nelle nostre vite mentre entrava nelle nostre case. Dove sono i figli ad averci svegliato dal torpore con cui ci relazionavamo ai rischi del riscaldamento globale: praticamente tutti hanno un figlio da citare, qualcuno per cui hanno deciso finalmente di impegnarsi. Le prime persone a cui rendere conto di quello che facciamo e non facciamo non sono in piazza, sono in famiglia, li incontriamo ogni giorno. E non fanno sconti. La climatologa Paola Mercogliano, che aggiorna ogni mese i dati sugli scenari italici, ha detto una cosa fondamentale: parliamo sempre di cambiamento climatico come di una cosa che avverrà, ma è già avvenuto. Ci siamo dentro. La cosa ci spaventa? Sicuramente alcuni sono spaventati, ma non sarà questo a farci vincere la sfida più grande che questa generazione ha davanti: “Sarà la speranza”, ha detto alla Cop 26 di Glasgow David Attenborough. La speranza di essere in grado di costruire un mondo migliore. E magari, più giusto. Ma la speranza, ha detto qualche giorno fa Greta Thunberg, non si cerca, va creata. Per questo lanciando l’evento avevamo chiamato a raccolta i sognatori. Persone disposte a impegnarsi nella costruzione di un mondo nuovo: non solo perché è giusto ma perché adesso conviene. Ci sono finalmente i capitali, somme così grandi che si fa fatica a scrivere gli zeri. C’è maggiore consapevolezza dei consumatori che con gli acquisti possono premiare i virtuosi e punire i dannosi. E ci sono le nuove tecnologie. A questo proposito il dialogo a distanza che è avvenuto fra diversi relatori sul tema dell’idrogeno è stato una rivelazione: davvero questa molecola può essere il fattore che manca alla transizione energetica? Davvero ci può consentire di sfruttare tutto il potenziale delle energie rinnovabili e arrivare là dove sole e vento non basteranno (industria pesante, trasporti lungo raggio)? Davvero, come ha autorevolmente suggerito il plenipotenziario americano sul clima John Kerry, l’Italia può diventare l’attore principale dell’era dell’idrogeno in Europa? È più di una speranza. Ma di questo abbiamo bisogno adesso: della consapevolezza che la sfida sarà durissima e meravigliosa e che possiamo farcela. Steve McCurry, che ha fotografato le meraviglie e gli orrori del pianeta, sostiene che finché ci saranno esseri umani nel vero senso della parola, “il mondo non scomparirà”. È solo un sogno, ma quando quel sogno lo fanno in tanti, inizia a diventare realtà. Dipendenze, dopo 12 anni torna la Conferenza nazionale. Dadone: “Cambiare la legge” di Viola Giannoli La Repubblica, 18 novembre 2021 Si terrà a Genova il 27 e 28 novembre. Tra gli eventi tavoli tematici con esperti e istituzioni. La ministra: “I numeri e le statistiche degli ultimi anni evidenziano un trend allarmante che necessita di un intervento globale. Lo dobbiamo soprattutto a giovani”. Si sarebbe dovuta tenere ogni 3 anni, ma da 12 è scomparsa dai radar. Il 27 e 28 novembre a Genova si svolgerà la VI Conferenza nazionale sulle dipendenze convocata dalla ministra per le Politiche giovanili con delega alle politiche antidroga Fabiana Dadone, finita ai tempi della sua nomina al centro delle polemiche perché antiproibizionista. “Farò il test antidroga e invito tutti a farlo” aveva risposto allora. “Ora pubblicherò i risultati - dice oggi in conferenza stampa - Attendo invece ancora che gli altri lo facciano...”. Poi sulla Conferenza di Genova spiega: “I numeri e le statistiche degli ultimi anni evidenziano un trend allarmante che necessita di un intervento globale che coinvolga l’intero Sistema Paese: dalla sanità alla scuola, dalla giustizia alla famiglia, dalla società scientifica a quella civile, dal mondo dello sport al lavoro. Lo dobbiamo soprattutto a giovani e giovanissimi che rischiano sempre più di essere inghiottiti dalle dipendenze”. Tra i 15 e i 19 anni, secondo i dati forniti dal Cnr, dal 2014 il consumo di sostanze stupefacenti è sostanzialmente stabile (tranne che per l’anno della pandemia), attorno al 26% come media annua. Nel 2020 sono state sequestrate 29 tonnellate tra hashish e marijuana, nel 2019 quasi 55 e da cinque anni in qua i sequestri di marijuana sono nettamente superiori a quelli di hashish, un’inversione di tendenza nel consumo rispetto al passato. Sempre lo scorso anno c’è stato un sequestro record di cocaina: 13 tonnellate, il più alto dal 2009. Mentre sono stabili, tranne un picco nel 2018, i sequestri di eroina, attorno ai 6 quintali l’anno. “È a partire da questi dati e dagli interventi di 122 esperti del settore che si sono incontrati in presenza o da remoto nella fase preparatoria che nasce la Conferenza di Genova” spiega Dadone. Si chiamerà oltre le fragilità, “umane, del sistema sanitario e delle prese di posizione ideologiche” dice la ministra. “Il dibattito sulle dorghe è polarizzato tra parti politiche, invece serve un approccio differente, un approccio alla persona dipendente, e non alle sostanze o alla dipendenza”. Due gli obiettivi del summit a cui prenderanno parte 18 esperti dalle Regioni, 21 dai ministeri, 24 dal privato sociale, 24 dalla società civile, 20 servizi pubblici oltre a scienziati, medici, membri dell’Aifa, degli enti locali, di ricerca, delle università e assistenti sociali. “Suggerire, anzitutto al Parlamento, i cambiamenti alle leggi attuali visto che il testo di riferimento sulle droghe, seppur con alcune modifiche successive, risale al ‘90” spiega Dadone. L’altro è “raccogliere input per scrivere il nuovo Piano di azionale nazionale sulle droghe”. Sette i tavoli tematici e 45 i sottotemi da cui usciranno le proposte della Conferenza: il primo riguarda la giustizia penale, le misure alternative e le prestazioni sanitarie penitenziarie. Tra i problemi più urgenti c’è l’effetto della legislazione sulle droghe sul sovraffollamento carcerario. Al 10 novembre 2021, nelle 189 carceri italiane per adulti sono presenti 54.307 persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di 50.851 posti. E secondo l’ultimo libro bianco sulle droghe il 30,8% degli ingressi in carcere sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico. Una percentuale da rialzare secondo Sandro Libianchi, già responsabile medico presso il complesso polipenitenziario di Rebibbia, e presidente dell’associazione Co.N.O.S.C.I. (Coordinamento Nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane), se si guarda al numero di tossicodipendenti: “Secondo le statistiche più recenti, risalenti all’anno scorso, sono entrati in carcere dalla libertà 14.092 tossicodipendenti con un rilevante calo rispetto agli anni precedenti a causa della pandemia. I detenuti tossicodipendenti entrati nel corso del 2020 rappresentano il 39,9% sul totale degli ingressi, quindi una percentuale sempre molto alta”. Il secondo tavolo si occupa dell’efficacia dell’azione di prevenzione, a partire dalla scuola e dall’informazione, e della presa in carico precoce delle dipendenze patologiche, compreso l’abuso dell’alcol e del gioco d’azzardo. E ancora il terzo tavolo è dedicato all’evoluzione delle dipendenze e all’innovazione del sistema dei Ser.D. e delle comunità terapeutiche. Il quarto al potenziamento delle modalità di intervento nell’ottica della riduzione del rischio e del danno con un confronto con pratiche europee e l’ipotesi dell’introduzione del “drug checking”, ovvero l’analisi del composto chimico delle sostanze stupefacenti che una persona intende assumere e dunque le informazioni sulle possibili reazioni. Il quinto tavolo si riunirà attorno alle modalità di reinserimento socioriabilitativo e occupazionale come parte del continuum terapeutico con l’ipotesi della istituzionalizzazione del budget di salute per il ritorno alla vita sociale, di comunità dell’ex dipendente. Il sesto tavolo è dedicato alla ricerca e alla formazione nell’ambito delle dipendenze. E infine ci sarà un tavolo sui prodotti di origine vegetale a base di cannabis a uso medico. Proprio ieri la ministra ha pubblicato su Facebook un intervento per chiarire la sua posizione: “La canapa industriale è un valore aggiunto per l’economia italiana e non presenta alcuna criticità. La cannabis a uso medico prodotta in Italia non è sufficiente per i malati”. Fino al 2019 la produzione italiana dello Stabilimento chimico farmaceutico di Firenze non ha mai superato i 150 chilogrammi, nel 2020 ha dichiarato di averne prodotti 250. Il fabbisogno stimato è di 2.500 chili. Droghe. Gli esclusi organizzano la FuoriConferenza di Fabio Scaltritti* Il Manifesto, 18 novembre 2021 Verso Genova. La Rete nazionale antipunizionista (Cgil, Forum Droghe, Cnca, Libera, Antigone, Fuoriluogo, La Società della ragione, Gruppo Abele, ItaRdd, ItanPud, Lila Nazionale, Ass. Luca Coscioni) si mobilità e sotto l’obiettivo comune della piena depenalizzazione (penale e amministrativa) si organizza la FuoriConferenza: il 26 novembre a Palazzo San Giorgio. Il Dipartimento delle Politiche Antidroga ha finalmente annunciato la convocazione - dopo 12 anni, anziché i tre previsti per legge - della Conferenza nazionale sulle dipendenze, a Genova, per il 27 e 28 novembre. Il fatto che la Ministra Dadone non sia una proibizionista cieca come coloro che l’hanno preceduta ci ha fatto sperare in qualcosa di vero e possibile. In poche settimane sono stati inviati i 7 Temi che avrebbero dovuto diventare argomenti di preparazione per i successivi Tavoli Tecnici, già preconfezionati e a cui sedersi senza indugi o dubbi: 1) Giustizia penale 2) Prevenzione e presa in carico precoce 3) Innovazione sistema SerD e Comunità 4) Potenziamento prevenzione e Riduzione del Danno 5) Reinserimento sociale e riabilitativo 6) Prodotti di origine vegetale a base di Cannabis a uso medico 7) Ricerca scientifica e formazione. La Comunità San Benedetto è inserita nel Tavolo Cannabis ma subito ci siamo chiesti perplessi cosa c’entri la cannabis ad uso medico con le Droghe e la Conferenza. Come inizio è decisamente scoraggiante (con un referendum alle porte, le sentenze penali degli ultimi due anni, l’assoluzione di Walter De Benedetto e il Lussemburgo che ha già ampiamente legalizzato). La legislazione sulla cannabis terapeutica è forse l’unica cosa che funziona in Italia, anche se poi i pazienti rimangono rigorosamente senza terapie. Anche il Cnca (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza) aderisce pienamente alla richiesta di depenalizzazione dell’uso e del consumo ma sulla cannabis non riesce a scegliere, dopo più di 40 anni, la strada della legalizzazione anche per uso ricreativo e l’autoproduzione come strumento di emancipazione. (sic!). La Rete nazionale antipunizionista (Cgil, Forum Droghe, Cnca, Libera, Antigone, Fuoriluogo, La Società della ragione, Gruppo Abele, ItaRdd, ItanPud, Lila Nazionale, Ass. Luca Coscioni) si mobilità e sotto l’obiettivo comune della piena depenalizzazione (penale e amministrativa) si organizza la FuoriConferenza: il 26 Novembre a Palazzo San Giorgio con la Comunità San Benedetto, sulle orme di Don Gallo, accoglierà alcuni esperti da tutta Italia e dal mondo per approfondire e problematizzare ciò che non “entra” nella Conferenza governativa. Che più si avvicina la data di fine novembre e più sembra sfuggire (argomenti, organizzazione, inviti, esclusioni, omissioni) agli obiettivi che un evento di questo tipo dovrebbe perseguire. Anche i consumatori in questa edizione non avranno voce in capitolo, il rappresentante di ItanPud Italia è stato escluso in quanto impedito da provvedimenti amministrativi. I tempi e l’organizzazione dei lavori della Conferenza hanno permesso una limitata e parziale partecipazione, sicuramente superficiale e troppo rapida, dalla quale rischiano di emergere documenti e ipotesi di lavoro non condivisi o compresi dai partecipanti. Anche gli inviti e la definitiva organizzazione dell’evento, con i possibili ospiti, è una sorpresa per tutti. Nessuno è stato coinvolto o ascoltato nella programmazione che sembra essere riservata ad una mano “invisibile”, di cui nessuno si assume direttamente le responsabilità. Noi però ci siamo, e Genova e la sua FuoriConferenza del 26 novembre proverà a problematizzare argomenti e temi che nell’ultimo decennio sono sempre stati soffocati come “temi divisivi o sensibili”, e quindi non appannaggio della politica nazionale. Noi Operatori nel frattempo saremo questa settimana a Lisbona, all’Osservatorio Europeo sulle Droghe e le Tossicodipendenze (Oedt - Emcdda) dove il Centro Europeo sta elaborando i dati sui consumi di droghe in Ue e sulle strategie di innovazione che alcune esperienze ci stanno mostrando. “Il Paese che più proibisce, più si droga”, potrebbe essere lo slogan del Dopoconferenza di Genova. Scommettiamo? *Comunità San Benedetto al Porto Migranti. Doppio ricatto sui diritti umani, il silenzio e la complicità dell’Ue di Filippo Miraglia Il Manifesto, 18 novembre 2021 Crisi migratoria. Da condannare sia l’uso strumentale dei migranti da parte Bielorussa, sia il violento il respingimento polacco vietato dalle leggi internazionali e dalle Direttive europee. Al confine tra Bielorussia e Polonia si confrontano due comportamenti illegali. Da un lato un dittatore che usa migliaia di persone per ottenere un obiettivo favorevole al suo regime: l’azzeramento delle sanzioni; dall’altro il governo polacco, sostenuto dall’Unione europea, che cancella il diritto d’asilo e i diritti umani, in nome della difesa della frontiera.L’attacco all’Europa arriva niente di meno che da poche migliaia di profughi, non armati né pericolosi, ma bisognosi di protezione. Uomini, donne, bambini e bambine, provenienti in gran parte da quell’Afghanistan, la cui sorte disastrosa ci ha tanto commossi ad agosto, e dalla Siria, dove una tregua nella guerra non c’è mai stata e non sono finite le persecuzioni e le violenze. I governi europei, anche quelli che si professano a parole contrari al sovranismo e ai muri, si indignano per il cinismo di Lukashenko, ma sorvolano sulle violenze dei militari polacchi e, anzi, intervengono a sostegno del governo di Varsavia, come se i getti d’acqua fredda o le manganellate europee le prendesse il dittatore bielorusso e non persone inermi alle quali l’Unione europea dovrebbe garantire, per legge, il diritto d’asilo. Tra l’uso strumentale dei profughi, sottoposti a violenze dalla polizia bielorussa, e il respingimento vietato dalle leggi internazionali e dalle Direttive europee, attuato con violenza dall’esercito polacco, non è possibile fare una graduatoria e bisognerebbe condannare entrambi senza se e senza ma. L’Unione europea si trova sotto ricatto, come è già successo peraltro nel recente passato con Erdogan, e rischia di restare schiacciata dalle sue stesse contraddizioni, perché ha scelto l’ideologia dei muri e non i principi del diritto internazionale ed europeo. Il patto europeo immigrazione e asilo, una vergognosa resa alla xenofobia della destra europea, è costruito intorno all’idea che bisogna impedire di arrivare in Europa, finanziando sistemi di controllo e strumenti per respingere le persone. Se Lukashenko accettasse l’aiuto europeo, come ha fatto la Turchia, per bloccare i richiedenti asilo lontano dalla frontiera europea, i governi sarebbero disponibili a dimenticare non solo la sorte dei profughi, ma anche quella dei diritti umani e della democrazia in quel Paese. È bene ricordare che le poche migliaia di persone che oggi sono bloccate alla frontiera bielorussa sono disposte a rischiare la vita per arrivare in Europa e mettersi in salvo, per l’assenza di altre vie di fuga dalla violenza e dalla morte: la loro è una scelta obbligata, determinata dalla ideologia proibizionista degli Stati dell’UE che impediscono a chi vorrebbe cercare protezione di farlo viaggiando in sicurezza e legalità. Il protocollo per i corridoi umanitari per gli afghani e le afghane, che come Arci abbiamo firmato il 4 novembre scorso, insieme a Comunità di S. Egidio, Cei/Caritas Italiana e Fcei, con il nostro governo, è una goccia nel mare della disperazione che oggi ci vede inermi di fronte a chi rischia ogni giorno la vita in quel Paese per mano dei talebani o dell’ISIS, con un progressivo disinteresse della comunità internazionale. Ci siamo impegnati a nostre spese, con il contributo determinante dei circoli rifugio Arci, ad accogliere un primo nucleo di persone, in particolare donne, che oggi vivono nascoste in case protette e rischiano ogni giorno che passa di diventare vittime dell’oscurantismo violento che ha preso il potere in Afghanistan. Non vorremmo farlo, anche se pensiamo che sia giusto fare qualsiasi cosa per salvare degli esseri umani abbandonati dalla comunità internazionale, e vorremmo che queste persone fossero tratte in salvo dai governi e che l’Unione europea mettesse in campo una straordinaria operazione di evacuazione di tutti coloro che rischiano la vita. Ma a mobilitarsi in questi mesi, dopo la crisi di agosto, è stata soprattutto la società civile, le organizzazioni sociali e le reti associative, senza le quali non sarebbe possibile costruire una via di fuga. La responsabilità che i governi non mostrano di volersi assumere deve spingere chi come noi opera nella società a scelte straordinarie, che rappresentino da un lato un esempio, come i corridoi umanitari, mostrando che si può fare, e dall’altro obblighino i decisori politici a confrontarsi con quella parte di società che non intende arrendersi alla violenza dei muri e alla violazione dei diritti umani in Paesi dell’Unione europea. Ma non vogliamo fermarci a questo. La cultura dei diritti nella quale crediamo, va difesa anche con azioni dirette. Nelle prossime settimane l’Europa dei diritti e dell’accoglienza, le associazioni, le reti e i movimenti, si mobiliteranno per prendere la parola e fare arrivare un messaggio da un lato ai governi e dall’altro ai profughi: noi non ci stiamo, non ci arrendiamo alla violazione dei diritti umani e non ci fermeremo finché non verrà ripristinata la legalità anche alle frontiere. I migranti sono armi e non solo ai confini della Bielorussia di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 18 novembre 2021 L’atto è spregiudicato, certo, ma sfrutta persone che si offrono volontarie allo sfruttamento. Chi è al gelo in Bielorussia ha pagato molti soldi per partire e molti sono disposti a morire pur di non tornare indietro. I tentennamenti davanti alla marea umana che vuole vivere e lavorare nell’Ue provocano quasi solo drammi: la morte di migliaia di persone, costi di sorveglianza esorbitanti rispetto a quelli dell’accoglienza, criminalità, perdita di credibilità morale. Il ponte aereo organizzato tra Medio Oriente e Bielorussia dal presidente-dittatore Lukaschenko ha reso chiaro ciò che Draghi definisce la “strumentalizzazione dei migranti in politica estera” e la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen “guerra ibrida”. Sono storici esperti della materia Gheddafi, Erdogan, re Mohamed VI e, ora, anche Lukashenko si aggiunge al club. L’atto è spregiudicato, certo, ma sfrutta persone che si offrono volontarie allo sfruttamento. Chi è al gelo in Bielorussia ha pagato molti soldi per partire e molti sono disposti a morire pur di non tornare indietro. E il problema per la titubante Europa è che la loro non è un’eccezione, al contrario. Solo ieri sulla rotta Sud verso l’Europa c’erano circa 500 persone in navigazione. Duecento sono arrivate in Italia, le altre, su due gommoni e una bagnarola, si stavano ancora giocando la vita nella sera. Alla deriva una carretta su cui lunedì sono morti in dieci. Sempre ieri, a Nord-Est, nella foresta tra Bielorussia e Polonia, c’erano circa 4mila persone. Secondo i dati polacchi, 11 sono morte in 10 giorni, secondo le Ong le vittime sono almeno il doppio. Nella rotta Nord, in uscita dall’Ue, verso la Gran Bretagna, invece, 560 persone sono sbarcate sulle coste del Kent e di Dover. Dall’inizio dell’anno sono 24mila, il triplo di quelli del 2020. Come paragone, nello stesso periodo, ne sono arrivati in Italia poco più del doppio, 59mila, molti dei quali hanno poi proseguito proprio per Londra. Al confine bielorusso le Ong denunciano (sottovoce) il trattamento disumano delle autorità di Minsk e di Varsavia. Sulla Manica altre Ong fanno lo stesso con Parigi. Nel canale di Sicilia lo dicono a Roma. Colpa dell’“effetto deterrenza” che gli Stati perseguono astenendosi da soccorsi efficienti per evitare quello di “chiamata”. Per fortuna, però, c’è una differenza tra Lukashenko e i governi di Francia o Gran Bretagna. Davanti alla tragedia di migranti disposti ad attraversare il Canale in kajak, Parigi è intervenuta, ha spostato i migranti in centri di accoglienza più lontani dal mare. Certo, torneranno, ricostruiranno i loro campi, ma almeno Parigi non li ha sfruttati come “strumenti di politica estera” per punire Londra della Brexit o per esigere banchi di pesca. I migranti sono “armi”, ma solo se qualcuno è disposto a premere il grilletto. Altrimenti restano persone e la (nostra) morale è salva. “In Grecia la detenzione dei migranti è diventata la regola”. La denuncia di Oxfam huffingtonpost.it, 18 novembre 2021 Riguarda quasi 3 mila migranti, in media 7 richiedenti asilo su 10, anche donne incinte e minori non accompagnati. In Grecia la detenzione amministrativa dei migranti richiedenti asilo è diventata la regola e non l’eccezione, in aperta violazione con la normativa europea. Uomini, donne e bambini sono sottoposti a condizioni di detenzione degradanti e che negano i loro diritti fondamentali, come rilevato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. È l’allarme lanciato oggi da Oxfam e Greek Refugees Council con nuovo rapporto che fotografa una situazione a dir poco drammatica: quella che colpisce persone estremamente vulnerabili arrivate in Europa per trovare salvezza da guerre e persecuzioni in paesi come Afghanistan, Siria, Repubblica Democratica del Congo e molti altri. Quasi la metà dei migranti resta in detenzione per oltre sei mesi - Il dossier rileva come: già a giugno i migranti in detenzione amministrativa, quindi senza nessuna accusa penale a carico, erano quasi 3 mila; 7 migranti irregolari su 10 sono posti in detenzione amministrativa e la maggior parte rimane detenuta anche una volta presentata la domanda di asilo; 1 persona su 5 viene detenuta per lunghi periodi in celle anguste concepite per poche ore di fermo; donne incinta, bambini e persone con gravi vulnerabilità vengono detenute senza un’assistenza sanitaria e legale adeguata; quasi la metà (il 46%) dei migranti vi rimane per oltre 6 mesi. “La volontà di usare la detenzione come prassi si riflette nelle recenti politiche adottate dalla Grecia. Nonostante la normativa europea indichi la detenzione amministrativa come ultima risorsa - ha detto Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia - nel 2019 le autorità greche hanno ampliato i motivi che portano alla detenzione anche alla verifica dell’identità della persona; hanno eliminato la possibilità di prendere in considerazione misure alternative, in determinate circostanze; e hanno introdotto la possibilità di estendere la detenzione fino a 3 anni. Un approccio che rappresenta una chiara violazione del diritto europeo e greco”. “La detenzione amministrativa è solo un altro strumento per impedire alle persone di cercare sicurezza e un futuro in Europa - ha aggiunto Vasilis Papastergiou, esperto legale del Greek Refugees Council - Mentre le autorità greche si rifiutano di considerare altre opzioni, i tribunali greci spesso rifiutano i ricorsi e gli appelli contro la detenzione, anche da parte di donne in gravidanza. Uno status quo avvallato anche dall’Unione Europea che sta finanziando i nuovi centri di semi-detenzione in Grecia, luoghi chiusi e controllati dove i migranti vengono abbandonati a sé stessi e dimenticati. Tutto questo, la detenzione assunta come regola e non come eccezione, non è solo contrario alle normative internazionali ed europee sulle migrazioni, ma implica anche un pesante costo morale ed economico”. “È necessario che la Grecia cambi approccio politico e prenda immediati provvedimenti legislativi che la riportino in linea con lo Stato di diritto - continua Pezzati - I principali sono: porre fine alla detenzione prolungata nelle stazioni di polizia, evitare l’uso della detenzione senza che esista una decisione di un giudice e permettere la concreta possibilità di un sostegno legale alle persone straniere. È inoltre inaccettabile che le stazioni di polizia, centri di pre-allontanamento o espulsione e altri luoghi di detenzione amministrativa siano diventati luoghi di detenzione anche per i bambini. Questa pratica deve terminare quanto prima”.