Carcere, nessuna rivoluzione. Il Pnrr va nella direzione sbagliata di Luca Rondi altreconomia.it, 17 novembre 2021 I 132,9 milioni di euro previsti dal Piano nazionale di ripresa per il sistema carcerario si concentrano sull’ammodernamento e la costruzione delle strutture. Una ricetta vecchia e superata. Servono interventi organici per riavvicinare la pena al suo contenuto rieducativo. Gli investimenti previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sul tema del carcere vanno verso la direzione sbagliata: i fondi europei destinati al sistema penitenziario sono in totale 132,9 milioni di euro, utilizzabili dal 2022 al 2026 per la “costruzione e il miglioramento di padiglioni e spazi per le strutture”. Nel luglio 2020 le immagini delle violenze subite dai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere avevano mostrato la brutalità di un sistema al collasso. “Dopo aver toccato il fondo in estate, anche a detta di chi nei penitenziari ci lavora, servivano risposte radicali e rivoluzionarie - spiega Michele Miravalle, ricercatore all’Università di Torino e membro del direttivo di Antigone. Se con i fondi del Pnrr tutto quello che si riuscirà a fare sarà un ammodernamento delle strutture, allora il Paese avrà perso un’occasione”. Il ministero della Giustizia guidato da Marta Cartabia ha definito linee programmatiche che fanno intuire una nuova visione del carcere come misura residuale per l’esecuzione della pena. È stata prevista all’interno della riforma del processo penale -approvata il 23 settembre 2021- la possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione anche prima che la sentenza diventi definitiva; mentre sul fronte della vita detentiva, l’istituzione di una Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario presso il ministero dimostra attenzione verso il tema. Ma gli investimenti del Piano di resilienza seguono una via diversa. “La mia impressione è quella della mancanza di una visione organica: non condivido la strada dell’investimento sulla costruzione di nuove carceri che invece dovrebbero essere ripensate diversamente sia nella ristrutturazione, laddove fatiscenti, che nella gestione. Ma anche a proposito dell’investimento unico sulle misure alternative ‘anticipate’ ho delle perplessità” spiega Marcello Bortolato, magistrato e presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze. In risposta a un’interrogazione presentata a fine ottobre 2021 dai deputati del Partito democratico Walter Verini e Alfredo Bazoli, Cartabia ha chiarito che è necessario un ampliamento del personale per l’attuazione delle misure alternative. A fronte di circa 69mila misure in corso, l’organico prevede che il comparto delle funzioni centrali sia dotato di quasi 3.500 unità di cui solamente 1.700 operatori del servizio sociale. Ma l’errore di fondo secondo Bortolato è legato al mancato investimento sulla magistratura di sorveglianza che ha il compito di rendere esecutiva la pena. “Come magistrati, noi non ci occupiamo solo dei detenuti ma anche dei cosiddetti ‘liberi sospesi’ che sono l’80% delle condanne in Italia -spiega-. Parliamo di persone condannate definitivamente con una pena residua inferiore ai quattro anni che non vanno subito in carcere. Una volta che la sentenza è definitiva, il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena e l’interessato ha trenta giorni di tempo per fare domanda al tribunale di sorveglianza per l’applicazione di una misura alternativa”. Le carenze strutturali del processo di esecuzione che vede in pianta stabile poco più di 200 magistrati a fronte degli oltre 5mila nel processo di cognizione, fanno sì che la decisione del tribunale arrivi dopo anni dalla sentenza definitiva. “Un paradosso. Il tribunale deciderà quattro, cinque, dieci anni dopo la fine del procedimento. Un fatto grave perché poi si rischia che quando la pena andrà eseguita quella persona è molto cambiata: ha un lavoro, una famiglia, si è costruita una nuova vita e magari si ritrova a fare i conti con una detenzione domiciliare che rimischia le carte”. Secondo il magistrato uno dei grandi limiti della riforma del processo penale sta nell’assenza di un investimento specifico sulla fase dell’esecuzione della pena. “Siamo esclusi dagli investimenti del Pnrr destinati agli uffici giudiziari perché i fondi erano vincolati al processo civile e penale. Nella maggior parte degli altri Paesi europei non esiste un processo di esecuzione; da noi sì e per questo motivo non sono stati destinati dei fondi agli uffici di sorveglianza. Ma è un errore. Siamo al collasso e non reggeremo il colpo: se il processo di cognizione sarà più rapido ed efficiente grazie alla riforma, arriveranno molte più condanne e questo amplificherà le nostre difficoltà”. In altri termini, con i processi che diventeranno più veloci si creerà un imbuto: ci saranno più persone a cui applicare la pena ma lo stesso numero di giudici che decidono. Un problema anche con riferimento all’auspicata inversione di tendenza sulla maggior applicazione delle misure alternative per ridurre il sovraffollamento carcerario. Non solo. Anche sotto il profilo della possibilità di applicazione di tali misure ci sono alcune problematiche. Al 31 ottobre 2021 i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 54.307 mentre le persone in misura alternativa alla detenzione erano 30.585. “Abbiamo circa 7mila persone che hanno da scontare pene entro un anno, 7mila entro i due e altre 5mila con pena residua sino a tre anni. Venti detenuti definitivi su un totale di 37mila in esecuzione penale. Persone che potrebbero ottenere delle misure alternative al carcere, detenzione domiciliare, semilibertà, affidamento in prova ma che non possono uscire -spiega Luigi Pagano, ex direttore del carcere di San Vittore a Milano e già provveditore per l’amministrazione penitenziaria della Lombardia-. Non perché siano state dichiarate così pericolose da giustificare il protrarsi dello stato detentivo, bensì perché, per la maggior parte, non hanno riferimenti sociali, un lavoro, una famiglia. Lo stato di bisogno, non altro, sembra essere il discrimine perché si rimanga o meno in carcere”. Un problema strutturale legato all’intervento “sociale” dello Stato. “In questo caso il problema non è neanche l’articolo 27 della Costituzione, sulla rieducazione del condannato, quanto più l’articolo tre che stabilisce che sia compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Chi non può accedere alla misura alternativa oltre che rimanere in carcere ne determina e subisce il sovraffollamento: quella condizione ancora presente che fa scadere la qualità di vita detentiva e che, con la sentenza Torreggiani, comportò nel 2013 la condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo per trattamento disumano e degradante” sottolinea Pagano. Condizioni disumane che nascono da problemi strutturali: non solo quelli architettonici dovuti a strutture detentive pensate e costruite tra gli anni Ottanta e Novanta ma soprattutto quelli legati alla gestione dell’ambiente carcerario. “È servita una pandemia per ricordarsi del sovraffollamento, dopo i 14 morti di Modena bisognava mettere un punto e ricominciare. Invece non si è fatto nulla e poi sono uscite le immagini di Santa Maria Capua Vetere che ci hanno dimostrato che la situazione è al collasso e che le tensioni dopo un po’ esplodono -spiega l’ex direttore di San Vittore-. È facile scaricare tutte le colpe sulla polizia penitenziaria ma la verità è che dopo la Torregiani non si è riusciti a continuare nella diminuzione dei detenuti”. Proprio a seguito della condanna dell’Italia, alla fine del 2014 la popolazione carceraria era diminuita di più di 10mila unità. “Invece di puntellare quello che era stato fatto e andare avanti per permettersi nel frattempo di sognare un carcere diverso, tutto è tornato come prima. Questo è un problema politico e amministrativo: dal 1983 ad oggi sono cambiati 14 capi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Come è possibile amministrare se non si ha neanche il tempo di capire come funziona il sistema?”. La conseguenza è l’esplosione delle tensioni: “Chi gestisce il sovraffollamento poi è l’agente in sezione. Non voglio giustificare, sia chiaro. Ma è evidente che quella figura è chiamata ad affrontare una situazione che non nasce da sue responsabilità”. Oltre all’intervento sul numero degli ingressi e sulla possibilità di accesso a misure alternative alla detenzione, la situazione emergenziale all’interno delle strutture carcerarie ha portato l’associazione Antigone -che monitora il rispetto dei diritti dei detenuti nelle carceri italiane- a formulare una proposta di modifica del regolamento penitenziario. Le “regole” che disciplinano la vita quotidiana dei detenuti sono le stesse dal 20 settembre 2000. “Di certo non ci illudiamo che questo da solo possa cambiare il sistema. Resta però uno strumento importante che può incidere su alcune criticità presenti nel sistema -spiega Miravalle-. Volevamo dare un segnale di concretezza: ai proclami devono seguire i fatti. Dall’estate purtroppo se ne sono visti molto pochi”. La proposta contiene interventi trasversali: dal diritto alla salute, al diritto ai contatti con i propri affetti, ai diritti lavorativi, educativi, religiosi. Secondo Miravalle sono necessari interventi immediati su due profili in particolare: l’attenzione verso la salute mentale e l’utilizzo della tecnologia nelle carceri. “Non c’è visita di Antigone in cui non ci dicono che ci sono problematiche con i detenuti psichiatrici: le articolazioni per la salute mentale sono luoghi orrendi e di sistematica violazione dei diritti umani. Quegli spazi devono essere meglio definiti in un quadro nazionale. Oggi troviamo situazioni troppo diverse da regione a regione”. Sull’utilizzo della tecnologia all’interno delle strutture è necessario “sfruttare le innovazioni portate dalla pandemia: l’utilizzo delle videochiamate è fondamentale, così come la maggior possibilità di avere colloqui con i famigliari” conclude il ricercatore. Un ritocco della normativa che non rimandi all’infinito, però, gli interventi necessari e urgenti: “Vorrei che non si parlasse solo di futuro. C’è un oggi, un presente che va affrontato -conclude Pagano-. Se parliamo di disumanità del carcere e ogni giorno che passa non interveniamo allora ha poco senso. Le illegittimità vanno eliminate: se non riesci a garantire un posto letto per ogni detenuto bisogna partire da lì. E certamente non basta costruire nuovi padiglioni”. Abolire il carcere non è un’utopia di Cecco Bellosi* e Andrea Di Stefano** altreconomia.it, 17 novembre 2021 Il sistema penitenziario non appartiene alla categoria della giustizia ma a quella della vendetta. Per questo motivo va superato. Nel frattempo è necessario “bonificare” il sistema attraverso interventi mirati. L’editoriale di Cecco Bellosi e Andrea Di Stefano della comunità “Il Gabbiano” che supporta i detenuti in misura alternativa. Non si può cancellare la violenza in carcere: è inscritta nello statuto delle istituzioni totali. Tra le quali il carcere è la più estrema. Santa Maria Capua Vetere è la regola, non è un’eccezione. Diceva Filippo Turati al Parlamento italiano nel 1904: “Noi crediamo di aver abolito la tortura, ma i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, ma la pena di morte che ammanniscono, goccia a goccia, le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice”. Dopo oltre un secolo non è cambiato nulla. Il carcere non appartiene alla categoria della giustizia ma a quella della vendetta. Negli istituti di pena sono sempre esistite le squadrette di picchiatori addestrati a reprimere ogni forma di protesta, individuale o collettiva, dei detenuti. La quotidianità delle prigioni. Ma periodicamente appare un’altra versione: la banalità del male di Hannah Arendt. A Santa Maria Capua a Vetere non sono entrate in azione le squadrette, come ricorda Adriano Sofri, ma gli agenti comuni. I vicini di casa. I torturatori argentini di Miguel Benasayag. O il grigio funzionario Adolf Eichmann, che rivendicava di aver soltanto obbedito agli ordini. Ad Auschwitz. Sopra loro, a legittimarli, c’erano i gerarchi nazisti e i generali argentini. O, nella versione tragica del ridicolo, l’incorreggibile collezionista di divise Matteo Salvini e Alfonso Buonafede, il peggior ministro della Giustizia del dopoguerra, che pure non ne ha annoverati pochi in classifica. O, se vogliamo, il miglior ministro dell’ingiustizia. Ricordiamo ancora l’oscena esibizione del duo con grottesco medagliere a mostrare tronfi il corpo di Cesare Battisti. La banalità del male è sempre uguale e immutabile: per rimanere a tempi vicini, a Pianosa e all’Asinara nel 1992, a Sassari nel 2000, a Bolzaneto nel 2001, a San Gimignano nel 2018, per non finire nel 2020 a Santa Maria Capua Vetere. Perché prima o poi ce ne sarà un’altra e un’altra ancora. Senza dimenticare che, accanto a episodi diventati pubblici, ne esistono molti altri rimasti nascosti alle telecamere, che ogni volta in cui possono essere utili magicamente non funzionano. O non funzioneranno. Come per i quattordici morti nelle carceri a marzo 2020. Si può obiettare che abolire il carcere è un’utopia. O una follia. Sì, lo sembrava anche la chiusura dei manicomi. Dove il problema non era abolire le catene o gli elettroshock, che erano solo degli strumenti. Per Franco Basaglia l’obiettivo non era neanche mantenere il manicomio come extrema ratio. Ma proprio abolire il manicomio. Non la mela marcia, non il cestino di mele marce, ma il frutteto avvelenato del carcere. Certo, non è un obiettivo di breve periodo, ma se non ce lo si pone non lo si otterrà mai. Nel frattempo è importante bonificarlo, quel frutteto malefico. Con interventi mirati. Il primo è eliminare per davvero l’aberrazione dell’ergastolo ostativo, una variante cinica e martellante della pena di morte. Condannato come pena disumana dalla Corte di Strasburgo e riconosciuto finalmente come incostituzionale. Ma per ora rimasto lì per intero. Va tolta però anche la pena dell’ergastolo, quel fine pena fissato in maniera surreale al 31 dicembre 9999; non è vero che dopo trent’anni, comunque una vita, si può uscire: negli anni Novanta cinquecento persone condannate all’ergastolo trascorrevano la loro esistenza in carcere, oggi sono oltre millecinquecento: un’enormità. Il secondo riguarda l’articolo 41bis, un trattamento insistentemente disumano e degradante. Una forma di tortura. La Guantánamo italiana. Ma anche un totem intoccabile per una buona parte della magistratura e per tutto, o quasi, un ceto politico giustizialista o ignavo. Ma anche, purtroppo, per alcune associazioni antimafia. In carcere non ci sono i mafiosi, ci sono persone condannate per reati di mafia. E le persone, tutte, non possono essere sottoposte a una forma di tortura quotidiana. Il terzo coinvolge gli abitanti abusivi del carcere: uomini e donne con problemi di tossicodipendenza o cittadini stranieri senza documenti riconosciuti come validi in Italia. Costretti alla clandestinità. Gli uni e gli altri rappresentano oltre la metà dei detenuti. Entrano con grande facilità in prigione e non riescono a uscirne in nessuna forma di misura alternativa, perché non hanno né un reddito né un’abitazione: due diritti essenziali. Nel nostro piccolo, come altri, ci stiamo provando. La comunità “Il Gabbiano” ogni anno ospita oltre cento detenuti in misura alternativa, cercando di accompagnarli alla ricerca di un lavoro e di una casa. Spesso, soprattutto nei confronti dei cittadini stranieri, è una fatica di Sisifo, perché alla fine della pena vengono sottoposti al decreto di espulsione. Anche quando hanno un lavoro. Il quarto è l’ampliamento delle pene sostitutive: la messa alla prova e i lavori di pubblica utilità. Erroneamente vengono scambiate per misure di giustizia riparativa, quando sono invece attività risarcitorie: in ogni caso possono servire, se possono evitare la pena in carcere. Il quinto è la giustizia riparativa. Ci troviamo di fronte a un termine sbagliato e fuorviante nella lingua italiana: non siamo anglofili, ma in questo caso restorative justice rende molto di più l’idea. Non è il quarto grado di giudizio, o una pena suppletiva, come alcuni la intendono. La giustizia, o meglio, la comunità riparativa non è una novità nella storia dell’uomo: appartiene, o è appartenuta, come realtà concreta a molte società capaci di essere comunità. La comunità governa i conflitti, avvicinando le parti e cercando le soluzioni. Non lascia solo nessuno, nel proprio rancore o nella propria sete di vendetta. Il contatto è fondamentale: Nelson Mandela e Constand Viljoen, il leader degli afrikaner bianchi, convinto assertore fino al giorno prima dell’apartheid. Un muro che si è sgretolato. La comunità riparativa è una medicina, il carcere è una malattia letale. Per questo va abolito. *Cecco Bellosi è da oltre vent’anni coordinatore e direttore educativo dell’Associazione Comunità Il Gabbiano per persone con problemi di dipendenza e per minori in difficoltà, attiva in Lombardia dal 1983. *Andrea Di Stefano è vicepresidente dell’Associazione Comunità Il Gabbiano. Personale penitenziario: ecco chi deve garantire i diritti umani in carcere di Marianna Marzano osservatoriodiritti.it, 17 novembre 2021 Cosa prevedono gli standard internazionali in merito al personale penitenziario e qual è la situazione in Italia. A partire dalla formazione, un elemento essenziale ai fini del trattamento e del reinserimento dei detenuti. “La pietra angolare di un sistema carcerario umano sarà sempre un personale carcerario opportunamente arruolato e formato, che sappia come adottare gli appropriati atteggiamenti nei propri rapporti con i detenuti e vedere il proprio lavoro più come una vocazione che come un mero lavoro”. È così che il Comitato europeo per la Prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) descrive la sua visione del personale carcerario in un estratto dall’undicesimo rapporto generale. Il Comitato è stato istituito nell’ambito del Consiglio d’Europa in virtù della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, entrata in vigore nel 1989, e svolge la sua funzione attraverso visite periodiche e ad hoc negli Stati membri. In un estratto dal suo secondo rapporto generale, il Cpt evidenzia l’importanza attribuita alla formazione del personale penitenziario, che dovrebbe includere l’educazione sui temi dei diritti umani, sottolineando che “non esiste forse miglior garanzia contro i maltrattamenti verso una persona privata della propria libertà di una polizia adeguatamente preparata”. Tuttavia, come recentemente accaduto in più occasioni nel nostro Paese, la polizia penitenziaria è spesso protagonista di atteggiamenti autoritari e violenti sui carcerati (leggi anche Violenze in carcere: tutte le denunce da Torino a Santa Maria Capua Vetere). Personale penitenziario: standard minimi sulla formazione - I punti di riferimento in termini di standard minimi di tutela in ambito penitenziario sono le Nelson Mandela Rules e le Regole penitenziarie europee. Le Nelson Mandela Rules, adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre del 2015, sono 122 regole e costituiscono il risultato di un lunghissimo percorso di negoziati iniziati nel 2010. Le Regole penitenziarie europee sono state approvate dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nel 2006 e aggiornate nel luglio 2020. Nella consapevolezza delle differenze di ciascun ordinamento nazionale, l’obiettivo è fissare una serie di standard minimi per uniformare il trattamento penitenziario. In entrambi i testi si trovano disposizioni dedicate alla formazione del personale: nelle Mandela Rules sono le regole dalla 74 alla 82, mentre nel sistema europeo è la parte V, dalla regola 71 alla regola 91. Il primo aspetto su cui è posto l’accento in entrambi i corpi normativi è la funzione sociale attribuita al personale penitenziario. Nel Principio fondamentale 8 delle Regole penitenziarie europee viene stabilito che “il personale penitenziario svolge una missione importante di servizio pubblico e il suo reclutamento, la formazione e le condizioni di lavoro devono permettergli di fornire un elevato livello di presa in carico dei detenuti”. Viene inoltre stabilito che i doveri del personale vanno oltre quelli di semplice sorveglianza, ma sono volti alla facilitazione del reinserimento sociale dei detenuti. Alla regola 75 delle Mandela Rules viene stabilito che il personale deve essere formato sulla normativa nazionale e sugli strumenti internazionali e regionali sulla tutela dei diritti dell’uomo, le cui disposizioni devono guidare le interazioni del personale del carcere con i detenuti. Centrale è la formazione rispetto al tema della salute e della sicurezza, in particolare sulla sorveglianza dinamica. Disposizioni dettagliate sono dedicate all’uso della forza: nelle Regole penitenziarie è descritto dalla regola 64 alla 67 ed è previsto solo in quantità minima necessaria e come ultima risorsa, per il tempo strettamente necessario, regolandone le modalità. Formazione particolare viene richiesta al personale chiamato a lavorare con gruppi specifici di detenuti - stranieri, donne, minorenni, malati psichici. Il rapporto tra personale e detenuti nel report del Cpt sulle carceri italiani - Una delle recenti analisi sul personale carcerario in Italia è costituita dal report pubblicato dal Cpt circa un’indagine condotta tra il 12 e il 22 marzo 2019 presso alcune carceri italiane. Il Comitato ha rilevato l’inadeguatezza del personale penitenziario nel relazionarsi in maniera pacifica con i detenuti, in particolare se provenienti da culture differenti. Il Cpt raccomanda che l’amministrazione penitenziaria proceda, oltre che all’uso di telecamere posizionate in “punti ciechi”, ad una formazione del personale penitenziario sulla gestione di situazioni di conflitto senza l’uso della forza fisica. Nel rapporto una persona denuncia di essere stata colpita alla schiena da otto agenti che l’avrebbero ripetutamente colpita con calci e pugni per poi, ricondotta nella sua cella, intimargli di “comportarsi come un uomo”. Andrebbe inoltre rafforzato il concetto di sorveglianza dinamica, che per l’United Nation Office on Drugs and Crime (Unodc) si basa sullo sviluppo di relazioni positive tra il personale e i detenuti e sulla conoscenza, da parte del personale carcerario, delle situazioni personale dei singoli detenuti, compresi i potenziali rischi dal punto di vista della sicurezza. In Italia la circolare del 13 luglio 2013 “Linee guida sulla sorveglianza dinamica” ha previsto l’apertura delle celle durante il giorno, affermando il primo passo verso l’attuazione di questo modello, che però richiede un investimento maggiore sull’aspetto relazionale. Secondo il Comitato, porre enfasi sulle abilità di comunicazione interpersonale ridurrà il rischio di maltrattamenti, aumenterà la sicurezza e contribuirà al miglioramento della qualità della vita negli istituti carcerari. Figure professionali nelle carceri: il personale della polizia penitenziaria in Italia - Il personale penitenziario è composto da una moltitudine di attori: la polizia penitenziaria, i funzionari amministrativi, i funzionari giuridico-pedagogici (educatori), i direttori e vice-direttori, i mediatori culturali, i volontari. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, Associazione italiana che si occupa di diritti umani e garanzie nel sistema penale, i poliziotti penitenziari sono le figure professionali maggiormente presenti all’interno delle carceri italiane: la percentuale dei poliziotti rispetto al totale dei dipendenti è dell’83,6%, rispetto ad una media europea che si colloca al 69,3 per cento. Nonostante la polizia penitenziaria presenti una carenza di organico del 12,3% (non omogeneamente distribuita lungo il territorio nazionale), il numero di detenuti per ogni agente è a 1,9, vale a dire quasi un agente ogni 2 detenuti, dato più alto della media europea, che si ferma a 2,6. Con la legge n. 395 del 1990, la Polizia Penitenziaria è stata istituita corpo civile, sotto la direzione del ministero di Giustizia, presso il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Oltre la smilitarizzazione, la legge attribuisce a tale personale un ruolo più dinamico, come si legge all’art. 5, secondo cui il corpo di polizia penitenziaria “partecipa, anche nell’ambito di gruppi di lavoro, alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati…”. Ma la realtà appare ben diversa: anche la polizia si è resa responsabile in alcune occasione delle violenze perpetrate dalle forze dell’ordine in Italia. Il ruolo del personale penitenziario nel trattamento dei detenuti - Alla mancata incisività del ruolo della polizia penitenziaria nel trattamento dei detenuti si aggiunge la carenza organica del personale educativo. Gli educatori sono 774, mentre l’organico previsto è di 895 persone (ovvero -13,5%), cioè 1 educatore ogni 79 detenuti. Con un numero così scarso di educatori, le attività trattamentali vengono private di quel ruolo centrale attribuito loro dagli standard minimi internazionali e verrebbero quasi totalmente trascurate se non fosse per i volontari. Secondo gli standard minimi internazionali e le posizioni del Comitato europeo per la Prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, il personale penitenziario occupa un ruolo chiave nel percorso di trattamento dei detenuti in carcere. In tal senso, appare necessario rafforzare tali figure attraverso una formazione orientata alla tutela dei diritti umani nonché potenziare il concetto di sorveglianza dinamica. Come proposto da Antigone, l’amministrazione penitenziaria potrebbe approvare un codice etico in linea con la Raccomandazione 2012/5 del Consiglio d’Europa e la Risoluzione 34/169 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1979, per restituire al personale penitenziario, attraverso un modello condiviso, quella funzione fondamentale nel “facilitare il raggiungimento dello scopo della pena detentiva, ovvero il reinserimento sociale dei detenuti e degli internati, da attuarsi tramite un programma individualizzato di attività costruttive”. Diritto all’affettività, per un carcere della Costituzione di Sarah Grieco Il Manifesto, 17 novembre 2021 Il carcere di Udine si appresta ad affrontare non una semplice ristrutturazione, ma la riconversione di un’istituzione con l’ambizione di diventare un modello di vita e di relazioni, per il reinserimento sociale. Un modello che ci auguriamo possa essere esportato e riprodotto nelle tantissime realtà carcerarie italiane dove, ad eccezione di sporadici casi, edifici insensibili accolgono persone inanimate, o quanto meno considerate tali, visto che non sono previsti ambienti e strutture per i bisogni umani. Infatti l’ambiente in carcere diventa essenziale per la dignità stessa della pena: luoghi e spazi inadeguati sono destinati a tramutarsi in pochi diritti. È quello che accade con l’affettività dei reclusi, solo per citare un esempio di diritto mortificato. Stanze-colloquio piccole e affollate, tali da non consentire neppure l’intimità di una conversazione (figurarsi di altro!); spazi verdi inesistenti o scarsamente attrezzati, che impediscono ai bambini di esprimersi; telefoni collocati nel bel mezzo del chiasso delle sezioni. Sono tutte condizioni che chi ha varcato l’ingresso di un carcere conosce bene ma che, al di fuori, non si conoscono. Forse perché intorno alla galassia carcere ruotano troppi pregiudizi, stereotipi e preoccupazioni legati a una realtà per sua definizione chiusa, oltre che ad un approccio culturale dove il binomio “più carcere-più sicurezza” continua ad avere la meglio. Da una mia recente ricerca - condotta con l’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, in alcune strutture carcerarie del Lazio e volta a fotografare la qualità delle relazioni affettive e familiari dei detenuti, prima e durante l’emergenza sanitaria - emerge un quadro di diritti violati. Una condizione dove le relazioni affettive si rivelano in bilico, connotate come sono da bisogni insoddisfatti e gesti privi di intimità. Un riflesso non solo legato all’annosa questione del sovraffollamento - che oramai più che un’emergenza sembra diventata una connotazione strutturale del nostro sistema carcerario - ma anche dalla mancanza di spazi, luoghi e tempi adeguati. Una violazione sistematica di diritti costituzionali che genera un profondo senso di insicurezza sul rientro in società, che deresponsabilizza il detenuto verso i propri figli, che rende sempre più lontano quel processo di risocializzazione della pena che l’art 27 della Costituzione ci indica e che qualcuno propone impudicamente di modificare. Nel convegno tenutosi proprio ad Udine lo scorso 12 e 13 novembre per presentare il progetto del nuovo volto della Casa circondariale Santoro - a cura della Società della Ragione, del Garante di Udine e dell’associazione Icaro - tutti i presenti hanno convenuto su un punto. Giuristi e architetti, terzo settore e garanti, istituzioni territoriali e amministrazione penitenziaria hanno concordato sull’improcrastinabilità di un impegno concreto per migliorare la condizione detentiva dei reclusi. L’istituzione della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, voluta dalla Ministra Cartabia, rappresenta indubbiamente un nuovo impulso per realizzare elementi di innovazione. Una priorità è rappresentata dal disegno di legge n. 1876, a tutela delle relazioni affettive e intime delle persone detenute, su iniziativa del Consiglio Regionale della Toscana, che ha iniziato un difficile iter con relatrice Monica Cirinnà. Eppure fino a quando non si uscirà dalla logica distorta della premialità per entrare in quella dei diritti costituzionalmente garantiti e coessenziali alla persona umana, nessuna riforma strutturale potrà trovare spazio nel nostro Paese. Perché, prendendo a prestito le parole del prof. Ruotolo in un suo recente scritto, limitare la libertà personale non può e non deve tradursi nella limitazione della libertà della persona, che resta tale fuori e dentro le mura del carcere. “Fine pena mai”, oggi la Camera decide. Ma il testo ignora i principi della Consulta di Michele Passione e Maria Brucale Il Dubbio, 17 novembre 2021 La legge con cui la Camera pensa di recepire lo stop della corte al “fine pena mai” contiene paletti ispirati a un’idea di irredimibilità. A sei mesi dall’ordinanza n. 97 del 2021 con cui la Corte Costituzionale aveva chiesto al Parlamento di intervenire in materia di concessione di misure alternative alle persone condannate per i reati di cui all’art. 4 bis O. p., constatata l’incostituzionalità della disciplina vigente, la commissione Giustizia della Camera si accinge ad adottare un testo base che fa strame del Diritto alla speranza, stravolgendo i propositi di modifica normativa, prospettati dapprima dalla Cedu e, successivamente, dalla Consulta, delle norme di ordinamento penitenziario che prevedono preclusioni assolute all’accesso ai benefici premiali e alle misure alternative al carcere per i detenuti per determinati reati che non collaborino con la giustizia. I Giudici d’oltralpe avevano ritenuto l’ergastolo ostativo in violazione dell’articolo 3 della Convenzione Edu, giudicando lesiva della dignità della persona, al cuore del sistema, una pena che nega all’individuo la possibilità di perseguire in concreto la libertà. Al contempo, la Consulta aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 4 bis O. p. nella parte in cui preclude ai detenuti non collaboranti per i reati dalla norma contemplati l’accesso ai permessi premio, primo passo fuori dalle mura per testare la tenuta dei progressi raggiunti in un percorso graduale di ritorno in società. Da tali arresti muove la Corte costituzionale nell’affermare, pur non ancora statuendola, l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. La pena è legittima solo se idonea a restituire qualunque detenuto alla vita libera ove non costituisca più un pericolo per gli altri e non ci siano più giustificazioni penologiche alla sua diuturna restrizione. Il senso della nuova normativa invocata dalla Consulta appare chiaro: ferma la massima attenzione a fenomeni criminali di massima pervasività, rimuovere gli ostacoli normativi all’accesso per ogni recluso a un percorso fattivo di recupero; sconfessare la suggestione che ci siano rei irredimibili e reati inemendabili; aprire a tutti la speranza che, aderendo appieno a modelli comportamentali socialmente accettati, si possa tornare a essere liberi, a essere utili, a essere vivi. La proposta di modifica sembra invece scaturita da un impulso di segno opposto, un tentativo maldestro di neutralizzare le spinte riformatrici delle Giurisdizioni superiori annientandone di fatto la portata. Elimina l’istituto della collaborazione inesigibile cui aveva dato vita la Consulta, constatate situazioni nelle quali il detenuto, in ragione di una partecipazione minima al reato, o del compiuto disvelamento dei fatti e delle responsabilità, non fosse in grado di offrire una collaborazione utile con la giustizia e, dunque, fosse ingiustamente escluso dall’accesso ai benefici. Una previsione che rafforza la sua utilità in ragione delle modifiche proposte. Il nuovo testo disegna infatti ulteriori, più stringenti paletti nel pretendere che il recluso dimostri l’integrale adempimento delle obbligazioni civili o l’assoluta impossibilità di esso, e fornisca specifiche allegazioni, diverse e ulteriori rispetto ad una dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di originaria appartenenza, idonee ad escludere con certezza l’attualità di collegamenti e il pericolo di ripristino. Accomuna i reati di matrice associativa e quelli contro la pubblica amministrazione tradendo il richiamo della Consulta ad una differenziazione tra le fattispecie inalveate nel 4 bis, assai diverse quanto ad offensività, nell’accesso alle opportunità trattamentali. Uniforma l’onere probatorio per accedere al permesso premio e a tutte le misure ordinamentali connotate, invece, da differenze di sostanza connaturate al raggiungimento da parte del ristretto di obiettivi progressivi che lo rendano via via meritevole di accedere a più ampi spazi di libertà e di responsabilità. Rende necessitata una dichiarazione di dissociazione con ciò lasciando fuori le aspirazioni di ritorno in società di quanti abbiano esercitato il diritto al silenzio o non abbiano mai cessato di gridare la propria professione di innocenza. Stabilisce una soglia di certezza della prova, anche negativa, che, oltre ad essere diabolica e inarrivabile per il recluso, appare in chiaro conflitto con il senso delle misure premiali ancorate ad un giudizio prognostico supportato, certo, da elementi concreti ma impossibile da santificare a verità assoluta. Amplia la rete dei destinatari richiamando l’art. 51 comma 3 bis e quater del codice di procedura penale che contempla fattispecie ad oggi non racchiuse nel 4 bis. Disegna una rete di pareri e di istanze istruttorie da parte delle procure ed enfatizza gli oneri di motivazione dei giudici che volessero concedere un beneficio superando opposizioni, così limitandone l’indipendenza e la libertà di giudizio a fronte di un impeto che è comunque di parte. Stabilisce la pedissequa applicazione a chi ottenga un beneficio qualsiasi di prescrizioni di cautela previste dal codice antimafia finalizzate a prevenire il ripristino di collegamenti con la criminalità. Raddoppia il tempo minimo della pena espiata ai fini della ammissibilità della richiesta di un permesso premio o di una misura alternativa al carcere e porta a trent’anni quello per la liberazione condizionale aumentando indiscriminatamente il tempo di soggezione alla libertà vigilata, così pervenendo a risultati paradossali, quali parificare il tempo minimo del carcere patito per richiedere la semilibertà o la liberazione condizionale dimostrando anche in ciò la cieca indifferenza alla previsione della gradualità del reinserimento che tutela anche la sicurezza sociale. Tende, insomma, al di là delle marcate confusioni concettuali, a cristallizzare il crisma della irredimibilità, contro i moniti della Corte, contro la stessa natura umana che offre ad ognuno il tempo di una vita per scegliere se essere angeli o demoni. Ergastolo ostativo, pronto il testo base. Linea dura dai Cinquestelle di Angela Stella Il Riformista, 17 novembre 2021 Oggi il voto in Commissione giustizia alla Camera. Critica la dem Bruno Bossio: “Per i benefici requisiti di fatto impraticabili. Si va contro la Consulta?”. Sarà votato oggi in Commissione Giustizia della Camera il testo base della legge richiesta dalla Corte Costituzionale per superare l’ergastolo ostativo. Da quanto abbiamo appurato, la proposta, elaborata da un Comitato ristretto all’interno della Commissione, dovrebbe essere approvata da tutta la maggioranza. Ma si tratterebbe solo di un primo passo in quanto il presidente della Commissione, l’onorevole 5S Mario Perantoni, ha chiesto ieri ai gruppi di far pervenire entro giovedì delle proposte di nomi per ulteriori audizioni da tenere a partire dal testo base. Seguirà il lavoro emendativo su cui i partiti contano per perfezionare il testo. Come ci ha detto il deputato dem Walter Verini “il testo base è un buon punto di partenza a cui ha lavorato per noi nel Comitato l’onorevole Miceli. Grazie alle audizioni e agli emendamenti lo miglioreremo. I principi da tenere in considerazione e da rispettare sono due: sentenza della Corte Costituzionale e garanzia che siano le direzioni distrettuali e la direzione nazionale antimafia a dare dei pareri che escludano la possibilità che il detenuto torni a delinquere”. Anche per l’onorevole di Italia Viva Lucia Annibali “resta fermo il fatto che faremo successivi emendamenti al testo perché vogliamo essere certi che si legiferi nella direzione indicata dalla Corte Costituzionale e non come reazione ad essa”. Infatti il nodo della questione è proprio questo: evitare che alla fine si arrivi ad una legge che, come vuole il M5s, riproponga un nuovo ergastolo ostativo togliendo ogni speranza di libertà ai detenuti ostativi non collaboranti né usufruenti della collaborazione impossibile o inesigibile. Abbiamo avuto modo di leggere in anteprima la bozza del testo oggi in votazione, che in teoria dovrebbe essere un puzzle delle tre attuali proposte in discussione a firma della dem Bruno Bossio, del grillino Ferraresi e dell’onorevole di Fd’I Delmastro delle Vedove. All’art. 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario verrebbe apportata una modifica per cui i benefici ai detenuti ‘ostativi’ potranno essere concessi, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, purché loro “oltre alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo, dimostrino l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o l’assoluta impossibilità di tale adempimento nonché, a seguito di specifica allegazione da parte del condannato, si accertino congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali”. Qui sono due i punti critici, come emerso anche dalle precedenti audizioni: come è possibile escludere con “certezza” non tanto di eventuali collegamenti attuali quanto possibili legami futuri con la criminalità? Inoltre graverà sul detenuto non collaborante l’onere di provare l’assenza dell’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Ma proprio il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia aveva detto in audizione che, per rispettare anche il dettato costituzionale, l’onere della prova non deve gravare mai sul soggetto, semmai sull’autorità pubblica. Manca dai requisiti per accedere ai benefici “il contributo alla realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività”, come teorizzato nella proposta della Fondazione Falcone. Sempre secondo la bozza che abbiamo potuto vedere, i magistrati di sorveglianza per decidere sulla richiesta di benefici dovranno chiedere “il parere del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado” e del Procuratore nazionale antimafia, e acquisire informazioni dalle direzioni degli istituti ove l’istante è detenuto. I pareri sono resi entro trenta giorni dalla richiesta. Il termine può essere prorogato di ulteriori trenta giorni in ragione della complessità degli accertamenti. “Decorso il termine, il giudice decide anche in assenza dei pareri e delle informazioni richiesti”. Dunque, come questa volta previsto dalla Fondazione Falcone, si è escluso che le Procure esprimano pareri vincolanti, salvaguardando il libero convincimento del giudice di sorveglianza. L’onorevole Bruno Bossio si mostra però insoddisfatta del testo base: “infarcisce di requisiti ridondanti e equivoci la possibilità di accedere ai benefici rendendoli di fatto impraticabili. Se il senso è bloccare a priori l’accesso alle misure alternative lo si dica chiaramente nella consapevolezza che si confligge con le indicazioni giurisprudenziali europee e nazionali”. Articolo 27, la norma dimenticata di Astolfo Di Amato Il Riformista, 17 novembre 2021 L’iniziativa di Giorgia Meloni che vuole modificare questo punto della Costituzione ha “il merito” di riaccendere l’attenzione su uno dei principi più importanti ma meno rispettati. Disegna un sistema assai diverso da quello attuato. Giorgia Meloni ha avuto il merito, si fa per dire, di richiamare l’attenzione sull’art. 27 Cost.: ne ha proposto la modifica per impedire che, restando ferma l’attuale formulazione, la Corte costituzionale, alla scadenza del mese di maggio ed in assenza di un intervento legislativo, possa rendere definitivo il divieto del carcere ostativo. Fa specie che si chieda la modifica di uno dei precetti meno rispettati della Carta costituzionale, nel momento stesso in cui vi è il timore che possa finalmente trovare una, seppur parziale, attuazione. L’art. 27 disegna, in effetti, un sistema penale molto diverso da quello che ha, sinora, trovato attuazione in Italia. A parte il divieto della pena di morte, che fortunatamente non è messo in discussione, enuncia tre principi fondamentali: la responsabilità penale è personale, l’imputato è presunto innocente, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Il primo principio implica che il giudizio sulla responsabilità penale sia fortemente individualizzato, sulla base di una valutazione di colpevolezza, che vada a sondare fino in fondo quale sia stato l’atteggiamento psicologico di chi ha violato la legge. Esso rende, perciò, necessario un giudizio sulla colpevolezza centrato sulla specifica persona e che non si muova secondo stereotipi. Su quale sia la situazione effettiva rispetto all’applicazione di questo principio basta una considerazione. Di fronte ad un sistema che registra la presenza di un numero inverosimile di incriminazioni, che secondo alcuni supera le seicentomila, il giudizio di colpevolezza è spesso una mera finzione per l’impossibilità di qualsiasi cittadino di avere effettiva contezza di tutti i divieti sanzionati penalmente esistenti. Ciò tanto più ove si consideri che spesso si tratta di incriminazioni artificiali, nel senso che non corrispondono ad esigenze avvertite nel sentire comune, ma frutto di valutazioni politiche contingenti. Se, poi, a questo si aggiunge che il numero delle incriminazioni di anno in anno sta crescendo ulteriormente, si comprende che il giudizio di colpevolezza non ha sovente alcun effettivo riscontro in una reale volontà di violare la norma. Sulla presunzione di innocenza, la violazione di tale principio è sotto gli occhi di tutti. Pur lasciando da parte il tema di che uso ne facciano le Procure della Repubblica e i media, tema su cui è intervenuto un recente decreto legislativo di attuazione di una direttiva dell’Unione Europea, basta considerare che il primo a disattenderlo è il legislatore. Un esempio emblematico è offerto dalla cd. legge Severino, di cui i referendum sulla giustizia chiedono l’abrogazione. La legge, come noto, ha introdotto un sistema di decadenze e di sospensioni dalle cariche elettive, che, almeno in parte, è applicabile anche nel caso di sentenze non definitive. A questo deve aggiungersi che, nell’ambito sia dei rapporti con la pubblica amministrazione e sia delle società rispetto alle quali è richiesto un requisito di onorabilità a coloro che rivestono cariche amministrative o di controllo, la condanna anche non definitiva per determinati reati ha effetti preclusivi. Con buona pace della presunzione di innocenza, che dovrebbe, viceversa, essere operante sino alla definitività della condanna. Sull’ultimo principio, infine, le violazioni sono, se possibile, ancora più manifeste. Il tema del sovraffollamento delle carceri, tale da non consentire che i detenuti abbiano quel minimo di spazio vitale, affinché non sia del tutto mortificata la loro dignità umana, si è già espressa, con una condanna dell’Italia, la Corte di Strasburgo. Si tratta, peraltro, di una violazione che continua ad essere perpetrata, nonostante le continue denunce di Rita Bernardini e delle associazioni radicali. Sulla palese illegittimità dell’ergastolo ostativo si è pronunciata la Corte costituzionale. Ma vi sono anche altri aspetti del principio, che restano inevasi. Il primo, e più importante, è quello secondo cui le pene dovrebbero tendere alla rieducazione del condannato. Basta, al riguardo, considerare la prospettiva meramente punitiva, che ha guidato il legislatore italiano soprattutto a partire dalla vicenda di Mani Pulite, per essere consapevoli di quanto quel precetto sia disatteso. Del resto, perfettamente coerente con quella prospettiva è la circostanza che uno dei punti più deboli del sistema carcerario è l’attività volta a favorire la risocializzazione ed il reinserimento nel mondo del lavoro per chi sia detenuto. La funzione risocializzatrice è, difatti, oggi delegata esclusivamente alle misure punitive alternative al carcere. Per chi entra in carcere, viceversa, non vi sono, troppo spesso, percorsi di riabilitazione. L’altro aspetto, del principio della necessaria finalità rieducativa della pena, che è completamente pretermesso attiene al tempo tra la commissione dell’illecito e l’applicazione della sanzione. Il tema è completamente trascurato da chi (essenzialmente 5Stelle e Partito Democratico) invoca una punibilità illimitata nel tempo di chi abbia commesso reati. Ma una tale prospettiva presuppone che la persona resti la medesima pur nel trascorrere del tempo. E tutti sanno che non è così. Il fluire del tempo e le esperienze che sì assommano determinano spesso cambiamenti profondi nella personalità. Che, dopo molto tempo, è di regola mutata al punto di essere divenuta significativamente diversa da quella esistente al momento della commissione del reato. In definitiva, l’art. 27 della Costituzione traccia le linee di un sistema repressivo penale radicalmente diverso da quello concretamente attuato. Costituisce un versante particolarmente importante di mancata attuazione della “Costituzione più bella del mondo”. Ed è davvero singolare che chi strenuamente opera affinché la situazione delle carceri non cambi è tra chi con più violenza si oppone a che la Costituzione sia cambiata. Un’ultima notazione. Chiedere di modificare l’art. 27 per impedire che vi sia quella parziale attuazione della norma, che sarebbe costituita dalla dichiarazione di illegittimità dell’ergastolo ostativo, è espressione di una visione rozza e primitiva della società e dello strumento penale. Non deve, allora, stupire se le candidature espresse da questa visione della società siano apparse, nelle recenti elezioni amministrative, del tutto inadeguate. Sorpresa, anche la Cgil vuole l’uso del Taser in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 novembre 2021 “Il personale della Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza, sarà munito di una nuova dotazione individuale con un forte potere di arresto non lesivo”. E poi: “Malgrado il notevole e costante aumento delle aggressioni registrate nelle strutture carcerarie italiane, ancora una volta dobbiamo registrare l’esclusione del personale di Polizia Penitenziaria da provvedimenti che riguardano la generalità delle altre forze di polizia”. Tradotto: si richiede che anche la polizia penitenziaria abbia il Taser come le altre forze dell’ordine. A dirlo, rivolto con una lettera alla ministra della Giustizia, è la Fp Cgil penitenziaria. Quindi non un sindacato di destra, ma progressista come appunto la Cgil. Eppure il sistema penitenziario non si può governare con le armi. L’introduzione della pistola elettrica nelle carceri andrebbe in contrasto con l’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario, in base al quale gli agenti in servizio nell’interno degli istituti non possono portare armi se non nei casi eccezionali in cui ciò venga ordinato dal direttore. Il Taser, secondo la ricerca condotta da Apm Reports negli Stati Uniti nel 2019 sui Dipartimenti di Polizia di dodici grandi città americane - messa in risalto dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale nella sua Relazione al Parlamento del 2020 -, è stato infatti efficace solo circa nel 60% dei casi e, tra il 2015 e il 2017 per 250 volte, al suo impiego non efficace è seguita una sparatoria; in 106 casi, inoltre, il suo utilizzo ha determinato un aumento della reazione violenta della persona che si voleva ridurre all’impotenza. Non solo. Pensiamo al carcere. Il medesimo studio mette fortemente in dubbio che l’arma a impulsi elettrici possa essere considerata quasi totalmente efficace, soprattutto se utilizzata in scenari operativi di un certo tipo (per esempio, in spazi ristretti) o anche nei confronti di persone con disagio psichico che, potrebbero avere una reazione acuta in termini di sproporzione e di aggressività, controllabile invece con altri mezzi, e tale da indurre gli operatori di Polizia all’uso di armi tradizionali con conseguenze anche fatali. Il garante nazionale Mauro Palma, ha quindi ribadito che come già espresso da organi di controllo internazionali, che il Taser non può trovare applicazione in determinati contesti, quali gli ambienti chiusi e in particolare gli Istituti di pena. Covid-19 nelle carceri: ancora in salita i contagi di Marco Belli gnewsonline.it, 17 novembre 2021 Continua il trend al rialzo, seppure in misura contenuta, dei contagi da Covid-19 all’interno degli istituti penitenziari italiani. Rispetto alla scorsa settimana, il monitoraggio effettuato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria registra 103 detenuti positivi (17 in più), a fronte di una popolazione reclusa di 53.777 effettivamente presenti nei 190 istituti. Rimane invariato sia il numero dei sintomatici (3) sia quello dei ricoverati presso strutture ospedaliere (2). Analoga tendenza al rialzo fra gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, che salgono a 133 (+14 rispetto alla scorsa rilevazione), pressoché tutti a casa e nessuno ricoverato in ospedale. Salgono a 11 (+2) anche i contagi fra il personale amministrativo e dirigenziale dell’Amministrazione, tutti presso il proprio domicilio. Sul fronte delle vaccinazioni alla popolazione detenuta, con le 423 dosi di questa settimana, sale a 82.583 il totale delle somministrazioni. Piccoli aggiustamenti invece nei numeri relativi al personale a cui l’Amministrazione ha offerto l’opportunità di sottoporsi al vaccino in postazioni collocate all’esterno degli istituti o in altre sedi concordate con le ASL, che rimane comunque stabile: sono rispettivamente 24.824 gli avviati alla vaccinazione fra gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria e 2.797 quelli del comparto delle Funzioni Centrali. Dati ai quali occorre aggiungere il numero di quanti hanno scelto altre modalità per vaccinarsi. Poche variazioni anche sul fronte dei cosiddetti assenti ingiustificati, previsti dal decreto-legge n. 127 del 21 settembre 2021 sulle ‘Misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l’estensione dell’ambito applicativo della certificazione verde Covid-19 e il rafforzamento del sistema di screening’: alla data di ieri erano 11 fra la Polizia Penitenziaria e 9 fra il personale amministrativo e dirigenziale dell’Amministrazione. Il Csm e le ultime nomine di peso prima della riforma Cartabia di Giulia Merlo Il Domani, 17 novembre 2021 Le nomine delicate di Roma, Milano e della direzione nazionale Antimafia saranno le ultime con le attuali regole, prima delle novità “anti-carrierismo” previste dal ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario. Si tratta di un gioco a incastri, perché i candidati in queste procure sono gli stessi e le tre nomine rischiano di avvenire una a ridosso dell’altra. Questo, però, non sarà più possibile sulla base della riforma. La proposta contenuta nella relazione dei tecnici e che il ministero della Giustizia dovrebbe a breve trasporre in un maxi-emendamento da presentare in commissione, infatti, prevede cambiamenti significativi nelle regole irrigidendo i criteri di nomina. È tempo di nomine al Consiglio superiore della magistratura, e tutte spinose. I posti di chiave da riempire sono tre: sono vacanti la procura di Roma, ancora immersa nei postumi del caso Palamara, e la procura di Milano, orfana di Francesco Greco ed epicentro dello scontro all’ombra del processo Eni; il vertice della procura nazionale Antimafia, invece, sarà lasciato a febbraio 2022 da Federico Cafiero de Raho. Tre nomine di peso, strettamente connesse una con l’altra e che producono conseguenze a seconda di chi verrà nominato, liberando altre caselle delicate come la procura di Napoli, quella di Catanzaro e quella di Palermo. Il gioco a incastri - La nomina del procuratore capo di Roma è la più impellente perché sospesa da molti mesi, dopo che il Consiglio di Stato ha confermato l’annullamento della nomina di Michele Prestipino, attualmente rimasto al vertice della procura come facente funzioni. I due ricorsi accolti sono quelli del procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi e del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola e ora i curriculum dei tre sono di nuovo al vaglio del consiglio. La quinta commissione per gli incarichi direttivi sta rimandando la decisione da settimane: si è riunita sia lunedì che ieri ma si è limitata a un dibattito sulle questioni amministrative. La decisione potrebbe arrivare giovedì 18 novembre ma la questione è delicata. Secondo pronostico, la commissione (che nel frattempo è stata rinnovata nei suoi membri) è così divisa: Viola avrebbe il sostegno dei due togati Antonio D’Amato di Magistratura Indipendente e di Sebastiano Ardita di Autonomia e Indipendenza e del laico di Forza Italia, Alessio Lanzi. Lo Voi, invece, quello dei togati Alessandra Dal Moro di Area e Michele Ciambellini di Unicost. Incerto, invece, il voto del laico Fulvio Gigliotti. Se anche solo un voto andasse a Prestipino, tutti e tre i nomi arriverebbero davanti all’assemblea del plenum, che deciderà definitivamente a chi assegnare la procura più importante d’Italia e potrebbe disattendere il giudizio dei giudici amministrativi. Anche senza un Luca Palamara a gestire le convergenze tra correnti e candidati, le nomine rimangono però un gioco a incastri. I candidati, infatti, hanno presentato candidature multiple in questi ruoli, quindi ogni assegnazione condiziona le altre secondo gli equilibri che sono emersi in chiaroscuro negli ultimi mesi. A Milano, tra gli otto candidati ci sono il procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli e il procuratore di Bologna Giuseppe Amato. In pole position, però, c’è Maurizio Viola, nel caso in cui a Roma venisse alla fine nominato Francesco Lo Voi. A Roma però la corsa è ancora aperta e l’unico candidato che sembra avere meno possibilità è proprio Viola. Per molti togati, nominarlo vorrebbe dire riavvolgere il nastro al maggio 2019 e dar ragione all’accordo dell’hotel Champagne e al metodo Palamara che proprio sul suo nome aveva trovato convergenza. Più semplice quindi sarebbe scegliere Lo Voi, che così libererebbe la procura di Palermo cui potrebbe ambire proprio Michele Prestipino. Quest’ultimo, però, non sembra del tutto fuori dai giochi: Lo Voi, infatti, ambirebbe preferibilmente a prendere il posto di Federico Cafiero De Raho come procuratore nazionale Antimafia. Per questo ruolo, tuttavia, oltre a lui i pretendenti sono molti: tra gli altri si sono candidati sempre Viola, ma anche il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Il candidato con più titoli per ambirvi sarebbe però Giovanni Melillo, attualmente procuratore capo di Napoli. Destreggiarsi è complicato, anche perché questa tornata di nomine è anche probabilmente l’ultima a svolgersi con le attuali regole e chiuderà definitivamente un ciclo che è stato condizionato profondamente dai meccanismi correntizi. Il Csm - funestato dallo scandalo della loggia Ungheria e prima ancora del caso Palamara - verrà rieletto nel luglio del 2022 con una nuova legge elettorale, contenuta del ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario. La riforma del Csm - Sulla legge elettorale si stanno accapigliando le correnti della magistratura, ma nel disegno di legge che - secondo il Pnrr - dovrà essere approvato entro dicembre è contenuto anche un deciso irrigidimento dei criteri delle nomine. La proposta contenuta nella relazione dei tecnici e che il ministero della Giustizia dovrebbe a breve trasporre in un maxi-emendamento da presentare in commissione, infatti, prevede cambiamenti significativi nelle regole. Sul piano formale, i procedimenti di nomina ai posti direttivi dovranno avvenire secondo un preciso criterio cronologico, con eventuali deroghe motivate. In questo modo si eviterà proprio quello che rischia di avvenire in questi mesi: che si accumulino nello stesso momento nomine di peso tutte con gli stessi candidati, che il Csm distribuisce con un gioco di specchi. Sul piano del merito, invece, i criteri di valutazione dei candidati verranno cristallizzati in una legge di rango primario e quindi non più lasciati alle circolari interne del Consiglio. Secondo l’indirizzo, al Csm rimarrà un margine ragionevole di discrezionalità ma nell’alveo di indicatori, generali e specifici, prefissati dal legislatore per legge. Proprio questa previsione è stata fortemente avversata nel dibattito dentro al Csm, sostenendo che questo limiti l’autogoverno dell’organo. Infine, per mettere fine al cosiddetto “carrierismo”, il governo dovrebbe proporre una disciplina che renda poco favorevole l’abbandono di un incarico prima della scadenza per candidarsi ad un altro. Questo pacchetto di correttivi, oltre che un Consiglio rinnovato con una nuova legge elettorale che sembra essere orientata a un sistema proporzionale, dovrebbero essere la cura dopo gli scandali degli anni passati. Proprio queste modifiche, tuttavia, caricano più peso strategico l’attuale tornata di nomine, l’ultima guidata dalle logiche esistenti. Nasce il controllo dei prefetti per evitare alle imprese l’interdittiva antimafia di Vanessa Ricciardi Il Domani, 17 novembre 2021 Il governo ha introdotto un’alternativa all’interdittiva, quindi all’impossibilità di ricevere finanziamenti e appalti pubblici, in presenza di “agevolazione occasionale” della criminalità. La nuova norma non a caso si accompagna alle disposizioni per l’erogazione dei contributi milionari e a fondo perduto del Pnrr. L’obiettivo che si pone è ambizioso: “Attirare dalla parte dell’economia sana imprenditori che non sono mafiosi”, spiega il procuratore nazionale Antimafia De Raho. Per Raffaele Cantone, ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, oggi procuratore di Perugia, riguardo all’incisività dell’azione antimafia di questo controllo prefettizio commenta: “Non la rafforza né la indebolisce, ma è una misura intelligente che rende più giuste e più corrette le misure”. Funzionerà? Il nuovo decreto per attuare il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha un’ultima parte che si pone un obiettivo ambizioso: “Attirare dalla parte dell’economia sana imprenditori che non sono mafiosi”. Una “sanificazione mi verrebbe da dire in tempi di pandemia” spiega a Domani Federico Cafiero De Raho, il procuratore nazionale antimafia dopo aver letto il testo. Il decreto, arrivato in gazzetta ufficiale lo scorso 6 novembre, per la prima volta introduce un’alternativa all’interdittiva tradizionale, strumento della prefettura che espelle dai cantieri pubblici le imprese “sospette”, cioè a rischio condizionamento mafioso anche solo in presenza di “agevolazione occasionale” della criminalità. L’annuncio lo ha dato il ministero dell’Interno all’indomani dell’approvazione del decreto, prima che il testo arrivasse in Gazzetta ufficiale: “Apportate importanti modifiche normative al Codice antimafia”, particolarmente significativa è “la disposizione che riconosce al prefetto la possibilità di ricorrere, quando i tentativi di infiltrazione mafiosa siano riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale, a misure amministrative di prevenzione collaborativa, in alternativa all’emanazione di un’interdittiva antimafia”. In altre parole: il prefetto potrà prescrivere all’impresa l’osservanza, per un periodo dai 6 ai 12 mesi, delle misure di “controllo “attivo”, ovvero l’obbligo di comunicazione costante degli investimenti, delle assunzioni e di tutto quanto ruota attorno alla vita dell’impresa, per fare sì che continui a operare. Il prefetto si può avvalere anche di un massimo di tre esperti da scegliere nell’albo nazionale degli amministratori giudiziari. Se dopo il controllo il prefetto accerta l’assenza di tentativi di infiltrazione mafiosa può rilasciare un’informazione antimafia liberatoria. La nuova misura sarà applicabile da subito, anche ai procedimenti di valutazione in corso, iniziati con l’ipotesi di emanare un’interdittiva “tradizionale”. L’altra novità è la previsione del principio del contraddittorio. L’impresa sotto indagine alla notifica dell’interdittiva o della nuova misura di prevenzione collaborativa, potrà richiedere di produrre memorie o farsi sentire. Il contraddittorio dovrà concludersi entro ottanta giorni. Il decreto introduce, poi, un ulteriore passaggio che serve a regolamentare il controllo giudiziario delle imprese colpite da interdittiva. Il tribunale nel disporlo deve sentire il prefetto che ha adottato il provvedimento. L’illegalità - L’agevolazione occasionale è un concetto vago, contenitore dove può starci di tutto. Potrebbe essere l’imprenditore che si è avvalso di una falsa fattura emessa nel circuito illegale di imprese riconducibili a una cosca mafiosa, o quello in cui un’impresa paga il pizzo per ricevere un vantaggio, come partecipare a un subappalto: “Sono situazioni che vanno distinte, anche dal punto di vista penalistico cambia”, dice De Raho, che aggiunge: “Fare oggi un’interpretazione certa delle valutazioni della norma è difficile. Quando la legge troverà applicazione verificheremo i risvolti”. L’interdittiva, sottolinea il procuratore nazionale antimafia, spesso decade dopo il ricorso delle aziende. L’altro rischio è lasciare senza lavoro gli operai di quella ditta interdetta per mafia. Per questo, prosegue De Raho, “il nuovo meccanismo “utilizzato con parsimonia e con la diligenza propria dei prefetti” potrebbe intervenire a salvare questi casi. Non rafforza e non indebolisce - Raffaele Cantone, ex presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, oggi procuratore di Perugia, sul nuovo strumento inserito nel decreto dice: “Non rafforza l’azione antimafia né la indebolisce, ma è una misura intelligente che rende più giuste e più corrette le misure”. Cantone poi aggiunge: “Anche in una situazione meno pericolosa, dà la possibilità al prefetto di intervenire e andare a verificare il livello di infiltrazione. La gradualità è assolutamente opportuna: l’interdittiva ha un effetto devastante sull’impresa, usiamo l’interdittiva per le cose realmente gravi”. In questi casi “non possiamo muoverci con la logica del sospetto”. Il contraddittorio inoltre, secondo Cantone, la rende inattaccabile dal punto di vista del diritto europeo. Sei mesi di controllo basteranno a salvarle? “Piuttosto che pensare alle critiche - replica il procuratore - laddove c’è l’esigenza di intervento, penserei alla possibilità per i soggetti che si trovano in equilibrio instabile di essere recuperati nella legalità. Più strumenti abbiamo per salvare l’economia migliore sarà il risultato. Penso come gli uomini che credono nello stato, cioè che sia capace di esprimere valutazioni appropriate”. E conclude: “Va visto in che misura può essere applicata questa disciplina, ma ben venga un istituto come questo”, soprattutto oggi “che abbiamo un rischio di infiltrazione mafiosa enorme e dobbiamo impedire alla mafia di espandersi”. Se non c’è il contributo di tutti “la ricchezza della mafia rende impossibile lo sviluppo delle imprese sane, che non possono sostenere la concorrenza delle imprese mafiose. Per questo lo stato si sta impegnando tanto per aiutarle”. Magistratura onoraria in sciopero dal 23 al 27 novembre: nel Ddl Bilancio non ci sono i fondi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2021 L’ennesima protesta dopo che nel Ddl Bilancio non sono stati inseriti i fondi annunciati dalla Ministra Cartabia per la “improcrastinabile” tutela di quasi 5mila lavoratori. La Consulta della Magistratura onoraria ha proclamato “l’astensione dalle udienze e dalle attività d’istituto dal 23 al 27 novembre 2021”. La misura, secondo i non togati, si rende necessaria perché nonostante la Ministra Cartabia, rispondendo al question time della Camera il 4 novembre scorso, aveva definito “improcrastinabile” il riconoscimento delle tutele di quasi 5mila lavoratori, aggiungendo che “l’imminente disegno di legge di bilancio debba prevedere le risorse necessarie”, nel testo da oggi all’esame del Senato non c’è un euro stanziato. I non togati ricordano la lettera di messa in mora della Commissione europea per “l’immediato riconoscimento ai magistrati onorari in servizio di tutte le tutele, sociali ed economiche, dovute per la funzione magistratuale espletata”. Tuttavia, proseguono, “il Governo non ha risposto adeguatamente alle aspettative, non ha rispettato le iniziali intenzioni di porre fine ad un intollerabile sfruttamento che si protrae da decenni, di legislatura in legislatura, di tavolo tecnico in tavolo tecnico”. L’Italia, proseguono i magistrati onorari, “disattende le sentenze della Corte di Giustizia ed ignora le indicazioni imposte lo scorso 15 luglio, non conformandosi a quanto chiesto per evitare il prosieguo della procedura d’infrazione, col conseguente pesante carico sanzionatorio, non mettendo immediatamente a disposizione i fondi necessari ad implementare il capitolo di bilancio dedicato, onde adeguare immediatamente lo status di chi in servizio sia alla normativa euro-unitaria che ai principi di tutela del lavoro e del lavoratore sanciti nella nostra Carta Costituzionale”. Per cui gli scenari si fanno “nuovamente foschi”, a meno di due mesi dalla scadenza della ennesima proroga prevista dal Dl reclutamento. “Sa, poi, di ulteriore beffa - attacca la Consulta -, quanto nella relazione tecnica al disegno di legge di bilancio, una elencazione di ipotesi, a finanza invariata per altri due anni, con la prospettazione di un trattamento economico incerto nell’an e nel quantum, comparato a categorie disomogenee e mai contemplate dalla Commissione Eu, previo, peraltro, espletamento di procedure concorsuali per legittimare ciò che, anche da trent’anni, è il quotidiano lavoro nelle aule di giustizia di coloro che sono in servizio a seguito di bando di concorso e appena sottoposti ad ennesima verifica quadriennale”. “Si tenta semplicemente di eludere, ancora una volta, come fu già nel 2017, quanto stigmatizzato dall’Unione, sperando forse nella resa. È tempo, invece, di ricominciare con una nuova stagione di proteste, ancor più serrate”. Ed è in questa chiave che va letta la manifestazione del prossimo 24 novembre, a Roma, dove la magistratura onoraria ha intenzione di ribadire il “profondo sdegno, ancora maggiore rispetto al passato perché preceduto da un affidamento autentico in quella che appariva una stagione nuova e diversa, fatta finalmente di rispetto e considerazione per le nostre legittime richieste”. “Ancora una volta - chiude il comunicato - siamo stati traditi”. Se la vicenda di Mario Tuti alla fine diventa una lezione di garantismo di Luigi Manconi La Repubblica, 17 novembre 2021 Mario Tuti rappresenta, per molti versi, il “nemico assoluto”. O meglio: per una parte rilevante degli italiani, la sua vicenda politica e giudiziaria propone tutti i tratti del perfetto terrorista fascista. Nato e cresciuto a Empoli, nel 1971 aderisce a Ordine Nuovo e, pochi anni dopo, fonda il Fronte Nazionale Rivoluzionario. Nel 1975, alcuni esponenti di quella organizzazione vengono arrestati a seguito di una serie di attentati. Durante una perquisizione nel suo appartamento, Tuti uccide due agenti e ne ferisce gravemente un altro. Fuggirà in Francia ma verrà arrestato nel luglio dello stesso anno, grazie a una operazione congiunta della polizia italiana e di quella francese. Una volta estradato, verrà condannato all’ergastolo per duplice omicidio. Nel 1976, nell’ambito del processo per gli attentati lungo il tratto ferroviario Firenze-Chiusi, subisce un’ulteriore condanna a 20 anni per strage, detenzione illegale di armi da guerra e riorganizzazione del Partito fascista. In carcere, nel 1981, partecipa all’uccisione del neofascista Ermanno Buzzi, considerato un delatore. Nel 1987 è tra gli organizzatori della rivolta nell’istituto penitenziario di Porto Azzurro. In ultimo, nel 1992, verrà definitivamente assolto nel processo per la strage dell’Italicus (4 agosto 1974). Mario Tuti oggi ha 75 anni e ne ha passati in carcere 46. Dal 2004 si trova in regime di semilibertà: durante il giorno lavora in una comunità per tossicomani a Tarquinia; la sera rientra nel carcere di Civitavecchia per trascorrervi le ore notturne. Ad agosto di quest’anno, succede che, durante una licenza, viene ripreso da un servizio di Rainews24 mentre partecipa a un campo estivo del Blocco Studentesco, organizzazione giovanile di estrema destra legata a Casa Pound. Qualche giorno dopo, vengono presentate alla Camera e al Senato alcune interrogazioni sull’episodio da parte di parlamentari del Partito Democratico. In esse, si chiede al ministro della Giustizia e a quello dell’Interno che venga “assolutamente impedito che assassini senza scrupoli possano propagandare gli ideali fascisti nei confronti di giovani generazioni”. Dopodiché, a Tuti viene sospesa la licenza straordinaria, in attesa della decisione sulla revoca o meno della semilibertà. Il 13 ottobre, infine, gli verrà confermato il regime di semilibertà con una serie di limitazioni: “Il detenuto ha l’obbligo di svolgere ogni giorno attività di collaborazione presso una Cooperativa sociale di tipo amministrativo e logistico; viene escluso, quindi, da qualsiasi coinvolgimento diretto con i giovani ospiti della casa-famiglia; al detenuto è fatto divieto di utilizzare i social media in qualsiasi forma; è tenuto a chiedere preventiva autorizzazione ai Magistrati di Sorveglianza in caso di partecipazione a eventi collettivi o manifestazione di esposizione pubblica di qualsiasi natura, anche se in caso di licenza”. Disposizioni severe ma, direi, opportune e, nella sostanza, rispettose dei diritti e delle prerogative del condannato Tuti. Proprio per questo, la vicenda si presta a funzionare come test esemplare: sia del tasso di cultura democratica e liberale diffusa in Italia, sia della corretta applicazione di misure e provvedimenti capaci di rispettare il dettato costituzionale in materia di esecuzione della pena. Insomma, la qualità del garantismo presente nella società e nelle istituzioni si verifica più efficacemente quando la prova è più impervia, quando il soggetto da tutelare appare più estraneo e “incompatibile”, quando i diritti da proteggere sembrano un lusso superfluo e il destinatario sembra proprio non meritarli. È proprio allora che si vede di quale stoffa sia fatto il garantismo. Troppo facile ricorrervi per difendere amici e alleati e ignorarlo quando sotto accusa sono gli avversari. A chi scrive Tuti non è simpatico, e se le sue azioni del passato risultano efferate, una sua attuale irresponsabilità non rivela una innocente spavalderia, quanto piuttosto - posso sbagliarmi - una certa protervia. Ma questo che cosa c’entra con le valutazioni relative al suo stato di detenzione e col suo diritto costituzionale alla “rieducazione”? Nulla, assolutamente nulla. E ancora: chi - sollecitato ad assumere una posizione garantista “anche per Tuti” - si è sottratto a causa della concomitanza con l’assalto neofascista alla sede della Cgil, ha utilizzato, credo, una motivazione davvero pretestuosa. In primo luogo, perché non esiste alcun collegamento, non dico pratico, ma nemmeno lontanamente simbolico, tra i due episodi e i rispettivi attori; e, poi, perché proprio il rispetto più rigoroso delle regole e delle garanzie nei confronti di chiunque e, pertanto, anche di un reperto archeologico degli anni ‘70 potrebbe rendere ancora più intransigente la condanna nei confronti di quanti, nel 2021, credono di poter resuscitare una storia infame Lazio. Dalla Regione mezzo milione per migliorare le condizioni nelle carceri latinaoggi.eu, 17 novembre 2021 Approvata ieri in Giunta la delibera con cui vengono stanziati 550mila euro da destinare a specifici interventi strutturali volti al miglioramento della condizione carceraria del Lazio. A darne la notizia l’Assessore a Turismo, Enti Locali, Sicurezza Urbana, Polizia Locale e Semplificazione Amministrativa, Valentina Corrado proponente della proposta che spiega: “Con la delibera di oggi vengono stanziate risorse utili a migliorare le condizioni dei detenuti. Per sostenere la genitorialità saranno impiegate risorse volte alla riqualificazione di spazi destinati all’area verde, a locali adibiti a ludoteca, agli ambienti destinati all’accoglienza dei familiari. Saranno poi realizzati interventi sulle palestre sportive e, ancora, saranno messe in campo risorse per sostenere forme di espressività e riflessione. Nella Casa Circondariale di Latina sarà realizzata, ad esempio, una sala biblioteca. Non mancheranno interventi di digitalizzazione e di adeguamento tecnologico così da rendere praticabile il percorso di formazione e istruzione di minori e adulti ma anche per facilitare la comunicazione e le relazioni con il mondo esterno. È opportuno che siano poste le condizioni che rendano effettivo il fine della detenzione che non è un percorso punitivo, quanto invece riabilitativo e rieducativo. Interventi simili sono fondamentali per risanare le cicatrici sociali. Bisogna pensare alle condizioni dei detenuti, agevolare il percorso formativo e favorire il mantenimento del legame con la società in cui dovranno reinserirsi”. Tra le voci oggetto di finanziamento figurano interventi ordinari di sostegno alla genitorialità, alla conservazione e miglioramento della vita affettiva e relazionale, al benessere psicofisico, alle forme di espressività, creatività e riflessione, all’istruzione, alla formazione e al lavoro. Previsti poi specifici interventi che mirano a favorire la digitalizzazione, negli istituti penitenziari, utile a incrementare lo svolgimento di attività di istruzione e di formazione professionale, a potenziare la comunicazione per via telematica dei rapporti con i familiari, gli avvocati e la magistratura di sorveglianza, nonché interventi per adeguare e modernizzare le reti e potenziare le dotazioni telematiche. Con la delibera, al fine di rendere attuabile quanto stabilito, è stato approvato il protocollo d’intesa tra Regione Lazio, il Ministero della Giustizia Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Lazio, Abruzzo e Molise e il Centro della giustizia Minorile del Lazio, l’Abruzzo e il Molise, e il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio. Udine. Una vera e propria rivoluzione per la struttura penitenziaria del 1925 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 novembre 2021 Il progetto presentato dal capo del Dap e dal garante cittadino Corleone. Il carcere di Udine, in via Spalato, cambierà volto grazie all’attuazione di un progetto che ha come missione una rivoluzione della struttura. Un rinnovamento che - come ha spiegato Franco Corleone, il garante delle persone private della libertà di Udine porterà il carcere ad essere un “luogo pieno”. Pieno, perché l’ex sezione femminile inagibile da 20 anni, diventerà un polo culturale e del volontariato, sede di laboratori di attività artigianali. Si aprirà una sezione per i detenuti in semilibertà, con più spazi per i colloqui privati con le famiglie. Saranno rifatti gli impianti, le finestre, installati pannelli fotovoltaici, sistemate le strutture per l’ora d’aria, incluse aiuole per il giardinaggio. Sarà soprattutto costruito un teatro da 100 posti, aperto alla città. Il progetto è stato presentato venerdì e sabato scorso a Udine, in Sala Aiace. Si è così avuto un confronto con Bernardo Petralia, il capo dell’amministrazione penitenziaria, e con il professor Marco Ruotolo che ha avuto il compito dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, di coordinare la commissione per l’innovazione della vita nelle carceri. Un incontro organizzato dal garante di Udine Franco Corleone e da due associazioni impegnate da anni sulla giustizia e sul diritto: La Società della Ragione e l’associazione di volontariato Icaro, quest’ultima impegnata per il sostegno dentro e fuori dal carcere. I lavori cominceranno nel 2022 e si completeranno in tre anni. Per capire quanto sia davvero innovativo questo progetto, bisogna parte dal fatto che il carcere di Via Spalato è una struttura che risale nel 1925. Viene da sé immaginare che, ad esempio, non ha adeguati spazi trattamentali per la popolazione detenuta. Il piano di interventi è stato redatto tenendo conto che i vari lavori dovranno essere eseguiti senza interrompere le attività dell’Istituto penitenziario e quindi opportunamente previsti secondo un preciso cronoprogramma. In una prima fase pertanto si procederà alla ristrutturazione degli edifici o parti di edifici attualmente inutilizzati, in particolare all’alloggio di servizio posto al primo piano della palazzina portineria, non utilizzato, e l’edificio un tempo adibito a detenzione femminile, in stato di abbandono. Nell’ambito degli interventi da realizzare si procederà altresì all’adeguamento sismico delle strutture e all’efficientamento energetico delle stesse. Il progetto degli impianti sarà redatto con l’obiettivo del contenimento dei consumi energetici, impiegando apparecchiature ad alto rendimento, lampade Led e sistemi di regolazione e controllo. Le esigenze della direzione dell’Istituto si possono elencare in linea di massima nei seguenti punti: necessità di prevedere un settore per i detenuti semiliberi con accesso indipendente dall’esterno in modo da evitare i contatti con i detenuti presenti all’interno della struttura; necessità di avere maggiori spazi per le attività trattamentali, e soprattutto le attività didattiche e formative; necessità di salvaguardare gli spazi adibiti ad attività all’aperto ed eventuale creazione di altri spazi esterni; necessità di rendere gli spazi comuni accessibili ai portatori di handicap; necessità di realizzare l’adeguamento sismico delle strutture, l’adeguamento impiantistico e l’efficientamento energetico; necessità di avere aree per la permanenza all’esterno adeguatamente attrezzate. Interessante la realizzazione di una sala polivalente. L’Istituto non è dotato di spazi di superficie adeguata a svolgere attività comuni e pertanto, nel recepire le esigenze rappresentate dalla Direzione e dagli operatori penitenziari, si propone la realizzazione di un nuovo spazio all’interno del muro di cinta dell’Istituto, compatibilmente con quanto consentito dalle norme urbanistiche vigenti, da destinare a edificio polivalente e da utilizzare come sala conferenze, attività teatrali, cinema, biblioteca. La nuova sala polivalente potrà così assolvere alla funzione di luogo per attività comuni di intrattenimento (proiezioni cinematografiche, laboratori teatrali, ecc.) per i detenuti, per eventi e cerimonie, convegni, feste, rappresentazioni teatrali, giornate celebrative, aperti a persone esterne al carcere (familiari, associazioni, comunità cittadina, autorità ecc.). Contestualmente sarà riqualificato lo spazio esterno del cortile, con la predisposizione di una serie di aiuole che potrebbero essere curate dagli stessi detenuti nell’ambito di attività di giardinaggio. Come ha ricordato il Garante Corleone, tanti sono i problemi aperti, dal potenziamento dei servizi di salute mentale alla presenza adeguata degli educatori ed operatore dell’Uepe, fino all’incremento delle misure alternative. Ma qualcosa si muove. Vogliono fare di via Spalato un nuovo modello di carcere, un vero e proprio presidio di civiltà. Reggio Emilia. Carcere, venti detenuti verso il processo per la rivolta alla Pulce di Jacopo Della Porta Gazzetta di Reggio, 17 novembre 2021 Dopo l’inchiesta la procura pronta a chiedere i rinvii a giudizio. I reati contestati sono danneggiamento, resistenza e lesioni. Venti detenuti indagati per la rivolta del carcere dell’8 marzo 2020. La procura di Reggio Emilia ha chiuso le indagini e ora si appresta a chiedere il rinvio a giudizio. I reati contestati, a vario titolo, sono danneggiamento, in alcuni casi mediante incendio, e resistenza, oltraggio e lesioni a pubblico ufficiale. Tra le aggravanti in molti casi c’è quella di aver commesso il fatto nel corso di una manifestazione di protesta in un luogo aperto al pubblico (perché le celle e il carcere in generale sono considerati tali). Molti degli indagati sono stati trasferiti dopo quegli episodi di violenza. Le persone che andranno a processo sono di varie nazionalità: si tratta di due italiani, sei tunisini, sei albanesi, due nigeriani, un gambiano, un moldavo, un georgiano e un uruguaiano. I disordini erano scoppiati nella IV sezione del carcere di via Settembrini, in un contesto di generale rivolta delle carceri italiane durante le fasi calde della pandemia. I detenuti avevano fatto delle barricate con le brande di ferro e poi avevano incendiato materassi, lenzuoli e stracci. Per sedare le proteste erano intervenuti anche poliziotti e carabinieri, alcuni dei quali rimasero feriti (tra loro anche il vicequestore aggiunto Domenico De Iesu, che rimediò una prognosi di cinque giorni). Ad accendere la miccia della rabbia dei reclusi era stata la decisione, entrata in vigore in tutta Italia, di sospendere le visite dei familiari, e non solo. Un provvedimento temporaneo, preso dal Ministero della Giustizia per motivi prettamente sanitari. A Reggio la protesta era partita con toni pacifici, ma con il passare delle ore era degenerata. Verso le 22 la situazione era diventata decisamente incandescente e gli agenti di polizia penitenziaria, inferiori per numero rispetto ai detenuti, avevano chiesto aiuto a carabinieri e polizia. Alcuni detenuti avevano desistito da ogni violenza, mentre altri avevano posto in atto resistenza. Firenze. “Caro Papa Francesco, passa un po’ di tempo con noi a Sollicciano” Corriere Fiorentino, 17 novembre 2021 Carissimo Papa Francesco, non ricordiamo più se questa è la quarta o la quinta lettera che Le scriviamo. Il numero delle nostre lettere non è importante; importante è invece la risposta che abbiamo ricevuto in occasione del nostro secondo invito a venirci a trovare nel carcere di Sollicciano. In quella risposta, ci veniva comunicato che non era possibile inserire una variante nel programma della Sua visita a Firenze perché già pieno. Ma c’era la promessa (parola di Papa!) che “nella prossima volta” si sarebbe trovato il tempo per stare con noi, magari mangiare con noi, parlare e pregare con noi, semplicemente, come Lei sa fare, da fratello, da pastore, un pastore che sta “in mezzo” al gregge, per ascoltare, per raccogliere e regalare speranza e luce. Abbiamo un bisogno estremo di quella speranza e di quella luce, perché non ci piace l’attenzione che si accende su questo mondo buio e chiuso nelle tragedie, nelle emergenze, per i suicidi, gli omicidi o le rivolte. Chi scrive è un Noi, fluido, mutevole. Arriviamo tutti dallo stesso inferno e andiamo tutti verso lo stesso girone d’inferno, stesse miserie materiali e culturali, stesse difficoltà di vita dignitosa, ovunque ci abbia portato il nostro cammino, perché noi siamo gli “scarti” di tutte le società. Però siamo attenti, e anche questa volta abbiamo colto l’informazione che il nostro cappellano ci ha fornito. Così abbiamo saputo che il 27 febbraio 2022 ci sarà a Firenze l’incontro dei Vescovi del Mediterraneo e, allo stesso tempo, il convenire dei sindaci provenienti da città piccole o grandi delle coste o dell’entroterra del Mare Nostrum, il Mediterraneo. A questo incontro di sicuro Lei non mancherà di partecipare visto che i temi all’ordine del giorno sono gli stessi a cui Lei tiene fortemente: pace, giustizia, uguaglianza, solidarietà tra i popoli, vicinanza tra 2 religioni, rispetto e amore per il creato. Firenze è nell’entroterra, la città non si affaccia sul mare, ma Sollicciano, il carcere è completamente immerso in quel “mare nostrum”, che è uno dei nostri cimiteri, dove tanti nostri fratelli sono annegati e continuano ad annegare. Quel “mare nostrum” è il nostro inferno, in cui siamo quotidianamente immersi, gelido in inverno, bollente in estate, carico di energia che esplode in temporali di violenza e in tempeste di rabbia, riempito con le nostre lacrime e asciugato dai nostri bisogni. Non ci sono attorno cento città ma ci sono rappresentate 44 etnie, praticamente tutti i popoli delle coste del bellissimo e ricco di storia Mediterraneo. Siamo albanesi, calabresi, marocchini, siciliani, tunisini, pugliesi, slavi, napoletani... toscani, siamo interessati a quanto uscirà da questo incontro, se solo parole o anche scelte che possano influire sulle nostre vite. Il cappellano è sempre quel Don Vincenzo che ci fu vicino nel digiuno di preghiera, che ci cammina al fianco ogni giorno, senza fermarsi davanti alle differenze di etnia, di religione o di storia. Raccoglie i nostri dolori e cerca di sciogliere i nodi di amarezza che stringono i nostri cuori. Ci ha detto di questo incontro, ci ha parlato del Sindaco La Pira, personaggio importante per questa città in anni lontani che si è impegnato a fondo per accogliere profughi, par dare casa ai poveri. Ci ha parlato di altre persone che hanno illuminato quegli anni: Don Facibeni, Don Milani, Don Corso, che hanno speso la loro vita e le loro energie nella Carità e per la Carità. Tempi lontani quelli ma attuali: qualche sprazzo di quella luce arriva anche dietro le sbarre, ma “dentro” il tempo è fermo ed immobile: nessun passo avanti, piuttosto passi indietro. Le nostre condizioni e le nostre prospettive peggiorano sempre di più. Riceviamo visite, o meglio arrivano ispettori, direttori, ministri, autorità, sindaci. Arrivano, guardano, capiscono, rilasciano una dichiarazione, e poi tutto ritorna come 3 prima, il silenzio diventa più pesante. È venuto tempo fa anche il Sindaco di Firenze, Dario Nardella, lo stesso che sta organizzando il prossimo incontro di febbraio. Anche lui ha fatto un lungo giro, guardato, parlato con operatori e una volta fuori ha fatto una importante dichiarazione: Sollicciano non è carcere da ristrutturare o riformare, è da chiudere. Aveva ragione, ma sono passati anni, è passata anche una pandemia, morti, feriti, scontri, urla, proteste, richieste e siamo ancora qui, cresciuti di numero: tutto come prima. Cosa ci aspettiamo dalla Sua visita, Santità? Ci aspettiamo un abbraccio da chi non misura le distanze, da chi non costruisce muri di giudizio, ci aspettiamo parole di conforto, quelle parole che Lei pronuncia spesso e che danno dignità agli “scarti invisibili”, di questa, come di tutte le società che si affacciano sul Mediterraneo. Ci aspettiamo un momento di pace e di serenità, un momento di attenzione amorevole. Don Milani diceva “I care”, diceva anche che avrebbe preferito invitare l’ultimo arrivato e non il primo, che gradiva la vicinanza dei perdenti più che dei vincenti, dei potenti insomma. Noi pensiamo che anche Lei sia un po’ così e che dunque quando verrà a Firenze, il 27 febbraio (mancano 4 mesi!), vorrà stare un poco anche con noi. Non camminerà nelle navate della Cattedrale o nelle sale del palazzo della Signoria ma nei corridoi di sbarre e cemento, non avrà da ricordare belle immagini, ma le si scalderà il cuore perché “chi ha attraversato il deserto può diventare profeta”. Lo ha detto Lei e noi le abbiamo creduto. Le crediamo ancora e La aspettiamo. Firmato: Un gruppo di detenuti di Sollicciano, con il cappellano don Vincenzo Russo Monza. Detenuto picchiato in carcere: via al processo di Stefania Totaro Il Giorno, 17 novembre 2021 Si è aperto il procedimento su presunte violenze nella casa circondariale denunciate nel 2019. L’associazione “Antigone” chiede di essere parte civile. Anche l’associazione che ha portato alla luce la vicenda, oltre che la presunta vittima, sono parti civili nei confronti dei 5 agenti di polizia penitenziaria accusati di avere picchiato nell’agosto 2019 un detenuto all’interno del carcere di Monza. Ma la difesa degli imputati si oppone. Si è aperto così ieri al Tribunale di Monza il processo che vede contestate a vario titolo le accuse di lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, abuso d’ufficio e omessa denuncia. Il detenuto è un italiano che stava protestando perché voleva essere trasferito da Monza in un’altra casa circondariale. A presentare un esposto alla Procura di Monza è stata l’associazione “Antigone”, che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, dopo avere avuto notizia del presunto pestaggio da un famigliare del detenuto. Secondo l’accusa il detenuto, che da una settimana stava facendo lo sciopero della fame, stava per essere riportato in cella in barella dall’infermeria del carcere monzese quando è stato colpito a pugni e schiaffi da un agente mentre altri lo tenevano fermo. Per poi farlo cadere dalla barella una volta arrivati in cella. Il detenuto sarebbe stato lasciato lì dolorante, con gli occhi lividi, il volto tumefatto e un dente rotto. E in seguito mandato in cella di isolamento, dopo essere stato costretto a dichiarare che era stato lui ad essere stato aggressivo con gli agenti di polizia penitenziaria. C’è un video dell’accaduto estratto da alcune telecamere nei corridoi del carcere di Monza che mostra l’agente che schiaffeggia il detenuto ma, secondo la difesa degli imputati, le telecamere non hanno ripreso, per un cono d’ombra nella registrazione, il momento precedente in cui il detenuto avrebbe sferrato un calcio al volto di un agente. A dire degli imputati le lesioni non sono state causate da una violenta aggressione da parte degli agenti, che sostengono di avere soltanto “contenuto” il detenuto dopo che ha opposto resistenza, ma dalla caduta dopo il trasferimento in cella e da un’azione di successivo autolesionismo messo in atto dal detenuto. Nell’esposto presentato da “Antigone” veniva ipotizzato anche il reato di tortura a carico degli indagati e la responsabilità di un medico penitenziario per rifiuto di atto di ufficio, ma la posizione del medico è stata archiviata e anche il reato di tortura è stato escluso. All’udienza preliminare già la difesa degli imputati si era opposta alla costituzione di parte civile di Antigone, ma il giudice l’aveva ammessa. Ora la stessa questione è stata riproposta al dibattimento e il Tribunale si è riservato di decidere il 2 marzo. Bolzano. Nuovo carcere, l’appalto resta a Condotte di Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 17 novembre 2021 Nella partita sul nuovo carcere di Bolzano, la Provincia rinuncia all’appello. Il Tar ha decretato l’annullamento del provvedimento di esclusione di Condotte, alla quale restano progetto e gestione. La Provincia rinuncia all’impugnazione della sentenza con la quale, a giugno, il Tribunale amministrativo di giustizia (Tar) aveva accolto il ricorso di Condotte, la società (ora commissariata) vincitrice della gara d’appalto per la realizzazione del nuovo carcere di Bolzano. La costruzione e la gestione per 18 anni (dato che si tratta di un Partenariato pubblico privato) restano quindi in mano a Condotte. La decisione è stata ufficializzata ieri dalla giunta provinciale, che annullerà quindi il provvedimento con il quale, a marzo di quest’anno, aveva revocato l’aggiudicazione provvisoria della concessione didi sposta nel 2015. La scelta dell’amministrazione era stata dettata da alcune irregolarità fiscali emerse dopo la gara. La società, però, aveva impugnato il provvedimento di Provincia e Agenzia per i procedimenti e la vigilanza in materia contratti pubblici di lavori, servizi e forniture: a giugno era arrivata la sentenza del Tar, i cui giudici hanno dato ragione alla società, rilevando, da parte della Provincia, un “difetto di motivazione e di istruttoria”, e annullando il provvedimento di revoca. Il progetto per il nuovo carcere, quindi, resta in mano a Condotte. Milano. Vodafone raccoglie i cellulari usati e li fa smaltire ai detenuti di Bollate di Sara Bennewitz La Repubblica, 17 novembre 2021 Prima di Natale il gruppo anglosassone basato a Milano lancerà una campagna di economia circolare per recuperare gli smartphone, e aiutare i carcerati a reinserirsi. Oltre ai risultati economici, Vodafone Italia si impegna anche per l’ambiente e sui temi dell’impatto ambientale dei servizi telefonici. Così il gruppo guidato da Aldo Bisio starebbe per promuovere una doppia iniziativa benefica: da una parte si preoccupa di smaltire e ritirare i vecchi cellulari- riservandosi anche di pagare e riciclare un buon usato- dall’altra si rivolge ai detenuti del carcere di Bollate per questa operazione, trasmettendo loro il know how del processo per smaltire e recuperare tutto il possibile dando a batterie e componenti una seconda vita. A giorni, e prima della campagna di Natale, dovrebbe infatti partire una campagna del gruppo anglosassone basato a Milano, che permette a chi porta un vecchio smartphone in un Vodafone Store nel Belpaese di dargli una nuova vita: se il telefono è in buono stato, potrà ricevere uno sconto di dargli su un nuovo cellulare, viceversa potrà smaltirlo senza costi. Un cambio intelligente di paradigma - uno Smart Change (questo il nome dell’iniziativa che è un gioco di parole con Smartphone) - che fa bene all’ambiente, ai cellulari e alle persone che si occuperanno di questo processo di recupero, ovvero i detenuti di Bollate, che impareranno un nuovo mestiere volto al reinserimento nel mondo del lavoro, una volta usciti dal carcere. Trento. La giudice costituzionale Daria De Pretis in visita al carcere di Spini di Francesco Macaro rainews.it, 17 novembre 2021 La visita è stata l’occasione per riportare l’attenzione sugli effetti “collaterali” della pandemia su detenuti e personale del carcere. “Il Covid-19 ha pesato naturalmente su tutti e soprattutto su chi si trovava già in condizioni di svantaggio. Sappiamo quanto è pesato sulla situazione carceraria”: così la trentina Daria De Pretis, giudice costituzionale, in visita al carcere di Spini per presentare il video ‘Viaggio della Corte Costituzionale nelle carceri italiane”. Il racconto del tour che dal 2018 gli ermellini svolgono negli istituti di pena italiani per ridurre le distanze con chi vive dietro le grate. Le restrizioni per la pandemia hanno picchiato forte sui 302 detenuti della casa circondariale di Trento, di cui 21 donne. La situazione degli ultimi due anni la delinea la direttrice del carcere, Anna Rita Nuzzaci: “Laddove a persone ristrette si tolgono anche quei pochi momenti di libertà è chiaro che la situazione diventa più tesa”. Le carenze sono di almeno tre tipi: “Medici h-24, diverse decine di poliziotti penitenziari e almeno altri tre educatori”. Per chi ha assistito negli ultimi sei mesi a sette tentati suicidi, 29 atti di autolesionismo e varie aggressioni ai secondini, la visita delle autorità è dunque uno spartiacque. E in attesa che si trovino soluzioni a livello nazionale per i problemi strutturali delle carceri, ecco gli auspici della direttrice di Spini: “Prima di tutto, che non ci fosse più la pandemia; poi più personale e un direttore per ogni istituto: ricordo infatti che sono due anni che faccio la direttrice sia a Trento che a Bolzano. E questa è una difficoltà non solo per me, ma soprattutto per i due istituti”. Novara. “C’è un carcere ma i novaresi non lo sanno. Bisogna abbattere i muri del pregiudizio” di Cecilia Colli lavocedinovara.com, 17 novembre 2021 Don Dino Campiotti, garante comunale dei detenuti, ha lanciato un appello in occasione della presentazione del libro “Carcere - idee, proposte e riflessioni” di Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania. All’incontro sono intervenuti anche i consiglieri regionali Rossi e Perugini. “Novara ospita un carcere, ma ho l’impressione che molti novaresi non se ne siano mai accorti. È quindi importante abbattere i muri del pregiudizio consentendo alle associazioni, ad esempio quelle di volontariato, di poter entrare”. Don Dino Campiotti, garante comunale dei detenuti, ha lanciato un appello in occasione della presentazione del libro, lunedì 15 novembre al Circolo dei lettori, “Carcere - idee, proposte e riflessioni” di Samuele Ciambriello, dal 2017 garante dei detenuti della Regione Campania. “Fino gli anni ‘60 le prigioni erano al castello, un luogo molto aperto - ha continuato don Campiotti -. Io ero studente di teologia e ricordo che la domenica passava il carrettino con la frutta per i detenuti. Poi negli anni ‘70 il carcere è stato trasferito dove è ora e attualmente ospita circa 170 persone: un centinaio al giudiziario, una settantina nella sezione di massima sicurezza, il cosiddetto 41bis. Molte sono le attività che sono state avviate nel corso degli anni: una tipografia, un tentativo di sartoria, corsi scolastici di preparazione alla licenza di quinta elementare e terza media e Sant’Egidio dà un grande contributo. Il carcere di Novara non è molto grande rispetto ad altri, ma c’è vitalità grazie a personale attento e attivo che propone continuamente attività ricreativa”. Secondo don Dino, tre sono gli obiettivi da perseguire: “Reinserimento sociale delle persone che escono; lavoro vero e proprio anche all’interno: alcune cooperative hanno dato la possibilità di tentare concretamente, come Assa che da parecchio tempo dà un forte contributo, ma purtroppo non è sufficiente. Infine abbattere i muri del pregiudizio consentendo alle associazioni, ad esempio quelle di volontariato, di poter entrare perché ho la sensazione che molti novaresi nemmeno sappiano che nella loro città ci sia un carcere. È, dunque, importante parlare il più possibile di questo argomento per fare in modo che il carcere non venga più percepito come un’isola maledetta all’interno della città, ma un’area inclusa nella città stessa”. Don Campiotti ha poi portato l’esempio di una cooperativa nata tra carcerati provenienti dal mondo delle Brigate Rosse: “Sedici anni fa, una ventina di persone che si sono conosciute dietro le sbarre, hanno dato vita a Multidea, di cui io sono stato presidente, allo scopo di accrescere all’esterno la cultura del mondo carcerario e creare professionalità nei detenuti che uscivano per fine pena o buona condotta. Dopo una decina di anni, però, ci siamo accorti che si era generata una sorta di stanchezza e ogni persona rientrata a pieno titolo nel mondo esterno aveva voglia di mettersi in proprio. Così nel 2016 la cooperativa è stata sciolta perché, a parte due casi isolati, tutti gli altri erano pronti per una nuova libertà e oggi sono cittadini puliti e lavoratori con una nuova vita”. “La certezza della pena deve coincidere con la certezza della qualità della pena che passa dal diritto alla dignità, alla salute e all’affettività - ha dichiarato Ciambriello -. Nel corso degli anni, attraverso governi di ogni colore, sono state costruite carceri con celle senza doccia e senza bidet, addirittura senza acqua corrente. Situazioni come queste rappresentano il fallimento di tutti noi. Per non parlare poi della carenza di personale, psicologi, educatori: sono 24 anni che non viene indetto un concorso per direttori di carcere. Per fortuna ci sono realtà come la Chiesa, le associazioni di volontariato e gli entri che cercano di oltrepassare le mura dell’indifferenza. Dico sempre che “carcere” è l’anagramma di “cercare” ed è quello che dovremmo fare noi: cercare di far passare queste persone dalla reclusione all’inclusione”. Prato. I messaggi dei detenuti scritti sui manifesti per riflettere sulle “reclusioni” La Nazione, 17 novembre 2021 Saranno affissi nei quartieri intorno al carcere. È il nuovo progetto della regista Livia Gionfrida e del collettivo artistico Metropopolare. Le frasi dei detenuti del carcere La Dogaia di Prato su 60 manifesti, affissi nei quartieri attorno al penitenziario, per riflettere sulle “reclusioni”. È il nuovo progetto della regista Livia Gionfrida e del collettivo artistico Metropopolare. L’obiettivo, spiega una nota, è riflettere sulle reclusioni che ognuno di noi vive, creando un ponte tra chi risiede all’interno di un carcere e la cittadinanza che viene invitata a riflettere attraverso queste suggestioni poetiche anche in formato audio, scannerizzando il Qr code presente su ogni manifesto. I messaggi poetici sono realizzati dai detenuti della casa circondariale La Dogaia, all’interno del laboratorio che la compagnia pratese porta avanti da 13 anni. “Dopo il successo di quelli affissi lo scorso Natale con le frasi dei bambini raccolte durante il lockdown - racconta Gionfrida - continua il dialogo con la città attraverso questa nuova serie di manifesti. La nostra è una ricerca di nuovi linguaggi espressivi attraverso i quali cercare di comunicare con l’altro, con il pubblico, incontrarlo per mettersi in discussione come comunità”. Il progetto dei manifesti fa parte della rassegna “Anche i poeti hanno una loro legge”, organizzata da Metropopolare. Da ottobre a dicembre sono previsti laboratori, spettacoli e incontri con alcuni dei più importanti poeti e poetesse italiane, con appuntamenti sia all’interno che fuori dal carcere. La rassegna proseguirà con lo spettacolo “It’s Just a game”, regia Livia Gionfrida, al teatro Magnolfi il 27 e 28 novembre: in scena Robert da Ponte, attore ex detenuto che inviterà il pubblico ad una tragicomica riflessione sul tempo presente. Concluderà questo percorso durato tre mesi, un incontro in musica all’interno della casa circondariale con il cantautore Giovanni Truppi. Napoli. Le detenute del carcere di Pozzuoli si raccontano di Enea Venegoni i-d.vice.com, 17 novembre 2021 “Ritratte Libere” è il progetto con cui l’artista Giotto Calendoli unisce moda, sostenibilità e seconde opportunità. Citando il rapporto sulla detenzione femminile redatto dal Ministero della Giustizia nel 2015, la maggior parte delle detenute vive all’interno di istituti progettati e costruiti “da uomini per contenere uomini” - inclusi i soli quattro istituti penitenziari esclusivamente per donne presenti sul suolo italiano - e che dunque non tengono conto dei bisogni specifici di chi li abita. La predominanza maschile all’interno di chi gestisce questo settore, inoltre, si concretizza in una serie di discriminazioni che hanno come conseguenza quella di rendere detenute più fragili. Per esempio, nelle sezioni femminili dei penitenziari non sono presenti aree per lo studio, il lavoro o lo sport, e alle detenute non è permesso l’accesso alle sezioni maschili dove queste strutture sono invece presenti. Questo comporta l’esclusione dai percorsi di rieducazione e formazione che sono alla base del reinserimento in società. Come riportato da uno studio dell’Università Luigi Bocconi, infatti, dei 154 euro al giorno che il popolo italiano spende per il mantenimento di un detenuto, solo 35 centesimi vengono stanziati nei progetti di rieducazione - un dato che contribuisce a al 68% di recidiva, che scende al 19% quando si applicano misure alternative di detenzione come il reinserimento nel mondo del lavoro. “Ho conosciuto donne lucide di mente, consapevoli dei loro sbagli,” ci racconta Giotto Calendoli, creative director e founder di Handle With Freedom, realtà di moda sostenibile in collaborazione con Palingen da cui ha preso forma il progetto Ritratte Libere con l’obiettivo di dare concretamente quella possibilità di reinserimento alle detenute. Quelli di HWF, infatti, sono capi confezionati riutilizzando materiali di scarto provenienti da tutto il mondo, ai quali viene ridata vita evitando così che vengano abbandonati e contribuiscano all’ingente problema dell’inquinamento causato dalla fast-fashion. Al progetto Ritratte Libere, realizzato in collaborazione con il carcere femminile di Pozzuoli al motto di “We believe in second chances”, hanno preso parte sette detenute. “Sono donne che al netto dei loro errori hanno ancora la possibilità di migliorare il loro presente per un futuro dal sapore libertà,” continua Giotto, che ha lavorato con le donne coinvolte per dare loro l’occasione di prepararsi alla reintegrazione in un contesto lavorativo attraverso la realizzazione di borse e bandane. Il punto di partenza del progetto è stato chiedere alle sette detenute di scrivere delle lettere in cui mettere nero su bianco, senza filtri, cosa significa per loro il senso di libertà. Queste parole sono poi state integrate nel design del prodotto finale, realizzato 100% handmade dalle detenute. “Mi hanno toccato la resilienza di queste donne e il rispetto che hanno l’una per l’altra, cosa che faccio fatica a ritrovare nel mondo esterno,” racconta Giotto. “Riuscire a trovare il bene nel quotidiano è servito loro come allenamento mentale nel prepararsi a un futuro migliore”. Il concetto di second chances è proprio il punto di congiunzione che collega i materiali alle donne che li hanno lavorati: una seconda opportunità per il futuro delle detenute, una seconda opportunità per le materie prime, recuperate all’interno del carcere grazie alla collaborazione con Caritas. Il fulcro del progetto è proprio il senso di speranza, essenziale in un paese come l’Italia, dove il tasso di suicidi in carcere è in crescita dal 2018 - 61 solo nel 2020 - e la giustizia è schiacciata tra le maglie del sistema penitenziario. “Questa esperienza è stata una lezione di vita per me, ho imparato tanto. Il mio pensiero sul sistema penitenziario era del tutto astratto,” racconta Giotto. La condizione del carcere, infatti, è spesso deformata dalla narrazione mediatica e politica o altresì del tutto ignorata, nonostante - prendendo a prestito le parole di Nelson Mandela da Lungo cammino verso la libertà - il vero valore di una nazione può essere giudicato solo dopo averne visto le carceri. “Nel nostro mondo frenetico, se sbagli vieni marginalizzato e vieni spinto a non farne più parte. Invece, per diventare una persona migliore, devi costruire la consapevolezza di poter cambiare per te e per chi ti circonda”. “La cosa che mi ha colpito più delle donne che ho conosciuto sono i loro occhi,” dice Giotto, che con le sue foto restituisce il loro spirito di resilienza e di empatia, decostruendo la narrazione disumanizzata che viene costruita dal discorso pubblico per rendere le detenute distanti, spingendole al di fuori della società di cui invece sono parte. “Credo molto nel contatto visivo, specialmente se non conosci chi hai difronte, e da loro emanava un’energia potentissima, quasi da abbassare lo sguardo senza riuscire a reggere il confronto”. Il cuore di ritratte Libere sono proprio loro, le donne che hanno creato quei capi e hanno imparato a trovare dignità, forza e speranza anche in un ambiente che tende a inibire la crescita personale. “La mia idea era chiara sin dal primo giorno: questo progetto doveva parlare di loro, del loro senso di libertà. Grazie al rispetto reciproco, abbiamo lavorato in armonia, diventando giorno dopo giorno sempre più parte di un gruppo affiatato”. Milano. “Clessidre”, il documentario che mostra il lavoro dentro e fuori dalle carceri redattoresociale.it, 17 novembre 2021 Venerdì 19 novembre la proiezione del documentario realizzato dall’associazione al centro di un incontro nell’ambito di Bookcity 2021. Nell’ambito di Bookcity Milano 2021, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano organizza l’evento “Clessidre. Tempo e lavoro dentro e fuori il carcere”, in programma venerdì 19 novembre, alle 17, presso Teatro Puntozero c/o IPM Beccaria (via dei Calchi Taeggi 20, Milano). L’incontro prevede l’anteprima del documentario Clessidre di Francesco Clerici, prodotto da Associazione Centro Orientamento Educativo - Coe in collaborazione con il Comune di Milano - Ufficio Relazioni Internazionali e il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e con il contributo dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) nell’ambito del progetto “Sguardo oltre il carcere”. Clessidre è un documentario che mostra il lavoro dentro e fuori le carceri milanesi. Il film si inserisce nelle attività di scambio formativo realizzate in partenariato con il Comune di Milano e funge da spunto riflessivo sul ponte delicato che collega la vita lavorativa in carcere e quella fuori, indagando la realtà milanese e quella camerunense. “Il documentario Clessidre è andato oltre le aspettative che ci eravamo immaginati - ammette Paolo Caporali, direttore del Coe -. Realizzato in piena pandemia, ha dovuto sopperire all’impossibilità di accogliere una delegazione camerunese per uno scambio con il Comune e il territorio di Milano sui percorsi di formazione professionale e di reinserimento socio-lavorativo di persone ristrette in carcere, con una particolare attenzione ai minori, e persone sottoposte a misure alternative ed ex detenute. Francesco Clerici è riuscito a sottolineare la centralità del lavoro nel processo di riaffermazione della dignità sociale delle persone che provengono da percorsi detentivi, aprendo un ponte di dialogo e incontro tra Milano e il Camerun. Ci auguriamo che questo documentario possa trovare spazi di visibilità, sia in Camerun, sia in Italia, e possa essere visto nelle scuole e in altri contesti educativi per come riesce a informare, a de-costruire stereotipi e parlare con la voce degli interessati su un tema mai sufficientemente dibattuto”. “È difficile per chi vive come libero cittadino rappresentare le carceri milanesi nella loro attuale realtà - aggiunge Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano. Il regista Francesco Clerici ha avuto questa abilità. Il film mostra lavori produttivi e creativi fondamentali, sia per i percorsi di educazione alla responsabilità e alla legalità, sia per la funzione riparativa della pena, sia per la sicurezza della città”. “Il tema dei diritti delle persone detenute, e in particolare dei minori in conflitto con la legge, è da tempo uno degli ambiti di intervento sul quale registriamo un crescente interesse per l’approccio italiano e una conseguente domanda di formazione e supporto tecnico per il miglioramento dei sistemi penali dei nostri Paesi partner - sottolinea Luca Maestripieri, direttore dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics). Aics, infatti, finanzia e realizza direttamente molteplici iniziative che promuovono l’approccio e il modello italiani basati sulla prevenzione e sul reinserimento e che agiscono su due fronti: sia fornendo supporto psico-sociale e per l’inclusione lavorativa dei detenuti, sia sensibilizzando le comunità perché siano aperte a ri-accogliere persone con esperienze penali, contrastando lo stigma e il pregiudizio nei loro confronti. Il progetto “Sguardo oltre il carcere” del Coe riassume l’importanza di guardare, non solo all’interno del carcere, ma anche oltre, di offrire percorsi di vita nuovi per detenuti, ex detenuti e minori a rischio”. L’incontro sarà introdotto e moderato da Francesco Maisto. Saluti istituzionali saranno portati da Cosima Buccoliero (direttrice dell’Istituto Penale Minorile Beccaria), Luca Maestripieri e Paolo Caporali. La proiezione di Clessidre (54 minuti) sarà accompagnata dagli interventi del regista Francesco Clerici e di alcuni protagonisti del film. Seguirà una tavola rotonda con Pietro Buffa (Provveditore Regione Lombardia Amministrazione Penitenziaria), Gemma Tuccillo (Capo Dipartimento per la giustizia minorile e comunità) e Adolfo Ceretti (Professore ordinario di Criminologia Università degli Studi di Milano-Bicocca). Conclusione con un aperitivo: il Comune di Milano e il Coe, in coerenza con il progetto, hanno affidato il servizio a Enaip Lombardia e Buoni Dentro. L’evento è a ingresso libero con prenotazione obbligatoria a questo link: https://www.eventbrite.it/e/biglietti-clessidre-tempo-e-lavoro-dentro-e-fuori-il-carcere-195730173217. Obbligatori Green pass e mascherina. “Mare fuori 2”, Carolina Crescentini: “Nel carcere minorile, per dare un futuro ai ragazzi” di Silvia Fumarola La Repubblica, 17 novembre 2021 L’attrice è protagonista della serie in onda dal 17 novembre su Rai 2 nel ruolo della direttrice dell’Istituto penale. Le storie si intrecciano, tra dolore e speranza. I ragazzi detenuti nel carcere minorile fanno i conti col proprio passato, in cerca di un futuro che possa riscattarli. “Nella seconda stagione di Mare fuori” spiegano Maurizio Careddu e Cristina Farina, che firmano la sceneggiatura della serie con Luca Monesi “ogni detenuto si trova di fronte, come uno specchio, la propria famiglia, e verrà chiamato a compiere una scelta. Seguirne le orme o rinnegarle?”. Se un ragazzo sbaglia, c’è sempre un adulto colpevole: in Mare fuori 2, dal 17 novembre su Rai 2 di Milena Cocozza e Ivan Silvestrini, ritroviamo Carolina Crescentini direttrice del carcere. “Il compito di Paola” spiega l’attrice “è quello di aiutare i ragazzi a comprendere la responsabilità delle loro azioni, e compiere un percorso di elaborazione, e indirizzarli verso il cambiamento. Le carceri sono luoghi di trasformazione. Nella vita sappiamo che esistono il bene e il male. Ma anche i contesti dove nasciamo e cresciamo sono fondamentali. Occorre provarci sempre anche quando una battaglia può sembrare perduta in partenza”. Reduce dal successo della terza stagione de I bastardi di Pizzofalcone, nelle sale con il film Per tutta la vita di Paolo Costella (nel cast Ambra Angiolini, Fabio Volo, Claudia Gerini, Luca Bizzarri, Filippo Nigro), l’attrice è sul set della quarta, attesissima stagione di Boris (“non posso ovviamente anticipare nulla se non confermare che tonerò a indossare i panni della di Corinna”). E’ nel cast di Tutto chiede salvezza di Francesco Bruni, protagonista Federico Cesari, film per Netflix liberamento tratto dal libro autobiografico di Daniele Mencarelli, (Premio Strega Giovani 2020), che racconta cosa significhi vivere l’esperienza del trattamento sanitario obbligatorio. In Mare fuori (coproduzione Rai Fiction-Picomedia), Crescentini è affiancata dal comandante di polizia penitenziaria Massimo Valenti (Carmine Recano), con cui ha un legame speciale. Tornano i giovani Nicolas Maupas (Filippo), Massimiliano Caiazzo (Carmine), che lotta tra la vita e la morte dopo l’agguato subito, e Valentina Romani (Naditza). “Paola è la direttrice dell’Istituto, è di Ancona e non conosce la realtà di Napoli. Ha un passato difficile che le ha lasciato un segno evidente: una leggera zoppia, cammina solo con l’aiuto di un bastone, ma questo invece di renderla insicura al contrario la fa sentire ancora più forte e autorevole” racconta l’attrice. “Nel carcere minorile scopre un nuovo modo di essere donna e madre. Crede molto in quello che fa, era una professionista preparata che conosceva le regole e cercava di imporre la disciplina, ma cambia grazie al lavoro. In questa seconda stagione è meno rigida, è diventata più empatica nei confronti dei ragazzi. Nell’istituto, nel vuoto provocato dallo sradicamento dal loro ambiente familiare e sociale, ci sono giovani che hanno sbagliato. Alcuni hanno commesso crimini importanti, ma hanno il modo di capire chi sono stati, chi sono e chi vorranno essere”. Vita e morte di Armida Miserere, una donna di Stato di Cristina Zagaria La Repubblica, 17 novembre 2021 Diciotto anni dopo la morte di Armida Miserere e quindici anni dopo la pubblicazione della sua biografia romanzata a cura della giornalista Cristina Zagaria, torna in libreria per i tipi della Dario Flaccovio Editore, “Miserere” (296 pagine, 16 euro): diario in pubblico di una servitrice dello Stato, con la fama di dura e il cuore di una donna rimasta sola. Persino davanti alla giustizia, che aveva difeso e rappresentato. Documenti privati, incontri coi familiari e ricostruzioni dei fatti, Zagaria fa la cronista, ma indaga la vita di Armida Miserere, una delle prime donne a dirigere un istituto penitenziario italiano, subito dopo l’approvazione della legge Gozzini, con il sentimento di donna: ne viene fuori un ritratto umano in mezzo alla storia dell’Italia della P2, delle stragi di mafia e dei contesti di detenzione da Parma a Lodi, da Palermo a Sulmona, dove resistere diventa la regola. Armida Miserere si tolse la vita nella sua abitazione, annessa al carcere di Sulmona, il 19 aprile 2003 sparandosi un colpo in testa. Zagaria scava nel dolore mai sopito di Armida, dopo la morte del compagno Umberto Mormile, ripesca dalle memorie familiari episodi e descrizioni inedite, raccolte in anni di studi e ricerche. Di seguito un breve estratto dal libro. Sulmona, venerdì 18 aprile 2003. È venerdì santo e come Cristo anch’io affronto l’ultima mia via crucis. Sono stanca, troppo, e la vita professionale, la stima, non sono sufficienti a riempire il troppo dolore che sempre mi ha accompagnata né questo nuovo dolore pieno di rabbia, di nausea, di disprezzo. Non c’è più posto in me per l’amore, per la comprensione, per la saggezza, per la generosità. Mi resta un ultimo atto di coraggio che peserà come un macigno per chi mi ha tradita, offesa, venduta, rinnegata. Un atto di coraggio contro chi non è stato capace che di sole menzogne e ipocrisie e viltà. A lui, a loro la vergogna del mio sangue e di un dolore che li perseguiterà per sempre. Auguro morte e infamia, dolore e sofferenza a chi mi ha dato morte e dolore e sofferenza. Auguro la stessa angoscia che mi ha uccisa, auguro tutto il male del mondo... e quello che mi è stato dato è la certezza... che nessuno potrà mai dare. Auguro vite distrutte così come con tanta leggerezza è stato distrutto quel che resta della mia. Non mi perdono di aver creduto in un sogno. Non posso perdonare chi quel sogno ha distrutto. Disprezzo la mia vita e coloro che... pensano solo a ciò che loro più aggrada. Maledetta me e maledetto colui che mi ha uccisa. Non chiedo nulla per me. Ad Antonio p. solo pietà e comprensione per i miei... cani: Yuri e Liuba, Venerdì e Alba. Che Yuri e Liuba possano restare con lui, che Venerdì e Alba vivano sereni in istituto. Non desidero funerali né lacrime finte. Preferirei essere cremata e buttata al vento. Perchè vento sono stata. Grazie Armida Miserere Sulmona, 18 aprile 2003. Notte. “No, grazie, alla processione non posso venire, non mi sento bene. Credo di avere la febbre”. “Signor direttore, ma è tutto pronto”. L’agente di polizia penitenziaria è spaesato. Indica la macchina con il motore acceso. “Lei non è mai mancata”. “Questa volta sì. Chiedi scusa al sindaco da parte mia”. Armida non apre completamente la porta. Parla seminascosta dietro l’uscio. Poche parole. Poi richiude. Yuri è sempre al suo fianco, abbaia, quasi a richiamare indietro l’uomo, che si allontana con passo incerto, ma lei sembra non sentirlo. Non lo sente neanche l’uomo che entra in macchina e parte da solo verso il centro di Sulmona. Armida rimane da sola nella sua casa, nel suo carcere. Il vestito, quello nero di velluto, lo sistema sulla sedia di fronte al letto. Le va un po’ grande. Tutto ormai le va troppo grande. Ma non fa niente. Lei che il nero non l’ha mai usato, vuole salutare tutti con quest’abito, perché quest’Armida non è più quella vera. È una che si veste di nero. Posa la lettera sul comodino. Non la rilegge. Sa a memoria quello che c’è scritto, ogni parola. Anche quelle non dette. Soprattutto quelle non dette. Un’ultima sigaretta. No. Un bacio a Yuri. Neanche. Si siede sul letto. Si stende. La sua calibro nove in mano. La compagna. Tante volte è stata pronta a premere quel grilletto per difendersi, ora lo deve premere per salvarsi. Doveva uccidere i suoi nemici, ora lo farà. È notte, tra il 18 e il 19 aprile. Tra il passato e il domani. Armida prepara anche un proiettile di riserva. Pensa a tutto. Non può fallire. Come sempre. Spegne tutte le luci. Poggia il cuscino contro la guancia destra. La tela è ruvida, fresca. È piacevole. Ci sprofonda dentro con l’orecchio, la guancia, l’occhio. I capelli biondi le si appiccicano al viso, le fanno quasi il solletico. Le labbra grandi e sottili si serrano e subito si riaprono, come in un bacio. Spara. Parte il proiettile, sfrega contro le pareti della canna. Si riscalda. Prende velocità e potenza. Rompe la tela bianca. La strappa. Le piume volano in aria come spaventate. Il proiettile continua la sua corsa roteando su se stesso, sempre più caldo, sempre più grande. E arriva. Uccide. Niente botto, niente sangue. Lo succhia tutto il cuscino, avido. Succhia il sangue e la vita. La pistola è troppo pesante, la mano senza vita la lascia cadere a terra, sul tappeto azzurro e il braccio la segue cascando verso terra a mezz’aria. Il cuscino si apre e scopre il suo volto. Armida, Armida Miserere, vuole guardarla in faccia la morte. La strage silenziosa da inquinamento di Luca Fazio Il Manifesto, 17 novembre 2021 Nel 2019 in Europa 364.200 persone sono morte prematuramente a causa del cocktail di veleni nell’aria. L’Italia la più colpita. Agenzia ambiente Ue: 180 mila morti in meno se si fossero rispettate le misure dell’Oms. Come sempre la più grande strage di cittadini nei paesi ricchi, super motorizzati e con le abitazioni ben riscaldate, si consuma ogni anno nel quasi silenzio generale. Lo conferma con lugubre puntualità l’annuale rapporto sulla qualità dell’aria stilato dall’Agenzia europea dell’ambiente (Aea) che riporta dati e statistiche relative all’anno 2019. Non è consolante il fatto che quell’anno la qualità dell’aria sia risultata addirittura migliore rispetto all’anno precedente, perché circa 364.200 persone in Europa sono morte prematuramente a causa dell’esposizione al particolato fine, cocktail di veleni altrimenti detto smog. Scorporando i dati emerge la situazione drammatica del nostro paese, che due anni fa è risultato il primo per numero di morti da biossido di azoto (NO2, 10.640 decessi, più 2% rispetto al rapporto precedente) e il secondo dopo la Germania per morti da Pm 2,5 o polveri sottili (49.900 decessi) e da ozono (3.170 morti). In totale fanno 63.710 italiani che sono morti prematuramente a causa dello smog in 12 mesi, una vera e propria strage che con variazioni statistiche non significative si ripete tutti gli anni (di Covid sono morte 132.775 persone in poco più di 20 mesi). E non si tratta di una “impura” fatalità: secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, se tutti i 27 stati membri avessero raggiunto i nuovi parametri dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) relativi al Pm 2,5 (5 mg/m3) si sarebbe potuto evitare almeno il 58% dei decessi causati dall’esposizione alle polveri sottili. Stiamo parlando di circa 180 mila persone. Con i parametri “suggeriti” dall’Oms l’Italia avrebbe registrato 32.200 decessi in meno. Le nuove linee guida dell’agenzia dell’Onu, se applicate, sarebbero dunque un gigantesco passo avanti. Si basano su una evidenza scientifica che i governi ancora non hanno preso in considerazione: le sostanze inquinanti danneggiano l’organismo umano già a concentrazioni molto ridotte rispetto a quanto precedentemente ritenuto. Si tratta dunque di rivedere le precedenti linee guida del 2005 attivando soglie giornaliere di sostanze inquinanti molto più basse. Considerando le centinaia di migliaia di morti all’anno, dovrebbe essere una priorità assoluta di qualunque amministratore, a livello europeo e locale. Anche se queste morti non spaventano l’opinione pubblica (e le industrie, in particolare quelle automobilistiche), il direttore esecutivo di Aea è stato costretto a ribadire la sua ricetta: “Investire in mobilità, riscaldamento e industrie più pulite vuol dire maggior benessere, più produttività e migliore qualità dell’aria a disposizione di tutti i cittadini europei, soprattutto dei più vulnerabili. Questi investimenti non solo salvano delle vite, ma contribuiscono anche ad accelerare il viaggio verso la neutralità carbonica, a tutela dell’ambiente e della biodiversità”. L’Europa, tra gli altri obiettivi fissati almeno sulla carta, con il programma “Zero Pollution Action Plan” vorrebbe arrivare a ridurre le morti da particolato fine del 55% entro il 2030 - rispetto ai dati registrati nel 2005. Tornando a quei tempi ci si potrebbe perfino spingere a vedere il bicchiere mezzo pieno, perché in 15 anni il numero di decessi dovuto all’inquinamento dell’aria è calato di circa un terzo. Questo rapporto drammaticamente normale servirà da base di discussione per un altro appuntamento europeo - l’Eu Clean Air Forum che si terrà a Madrid il 18 e 19 novembre - che riunirà politici e vari addetti ai lavori per impostare nuove politiche sia comunitarie che locali per migliorare la qualità dell’aria, almeno nel vecchio continente. Eutanasia, se il Parlamento c’è ancora, batta un colpo Ma lo faccia presto... di Nello Rossi* Il Dubbio, 17 novembre 2021 1. I cittadini in fila ai banchetti dei radicali per firmare il referendum sul fine vita hanno manifestato un umanissimo e ragionevole desiderio: che abbiano fine i penosi viaggi all’estero per l’eutanasia e che sia lo Stato italiano a fornire assistenza medica a chi - colpito da una malattia inguaribile e condannato ad una sopravvivenza dolorosa - decide liberamente di porre fine alla propria vita, senza dover subire, per tale scelta, un ulteriore carico di sofferenze. Se è questa la “domanda politica” di una larga parte della società italiana c’è da chiedersi chi sia in grado, oggi, di offrire una risposta adeguata. Il referendum abrogativo? Il Parlamento? La Corte costituzionale? 2. Prendiamo le mosse dal quesito referendario, che propone l’abrogazione della parte dell’art. 579 del codice penale che prevede, per l’omicidio del consenziente, una pena minore rispetto a quella prevista per l’omicidio. Un successo del “si” nella consultazione referendaria comporterebbe la pura e semplice cancellazione di questa figura criminosa “minore”, in ragione del “consenso” della persona cui viene tolta la vita. Una prospettiva, questa, che sollecita laicissime obiezioni. Si può essere convinti della disponibilità della propria vita e desiderare la legittimazione nel nostro ordinamento dell’eutanasia e nel contempo arretrare di fronte ad un esito referendario che non direbbe nulla sulle condizioni in cui deve trovarsi chi consente alla sua soppressione e lascerebbe senza risposta altre spinose domande. Come si presta il consenso? Come si verifica la sua spontaneità e genuinità? Come è possibile revocarlo sino all’ultimo istante? Ciò che resterebbe dopo l’abrogazione - la c. d. normativa di risulta - renderebbe dunque estremamente incerto e drammatico l’accertamento della liceità della condotta dell’autore (medico, familiare, amico?) del gesto che recide la vita del consenziente. 3. Ma il referendum - incalzano i promotori - sarebbe un pungolo efficace che costringerebbe il Parlamento ad intervenire all’indomani di una vittoria dei sì. È una certezza non facile da condividere. Un Parlamento impotente ad intervenire “prima” del referendum potrebbe restare paralizzato da contrapposizioni di principio anche “dopo” il suo svolgimento. È ora, dunque, che il legislatore deve dimostrarsi capace di mettere in campo le sue risorse preziose: conoscenza del fenomeno da regolare, dialogo e mediazione, ricerca di soluzioni ragionevoli. 4. Il testo unificato recante “disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”, in discussione nelle Commissioni riunite Giustizia e Affari sociali della Camera, individua i “requisiti” della richiesta di morte volontaria. Essa deve provenire da una persona maggiorenne, in grado di assumere decisioni libere e consapevoli ed affetta da sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili e può essere presa in considerazione se il richiedente è affetto da patologie irreversibili ed è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. A partire da questi presupposti il testo scandisce fasi e tempi di una rapida “procedura”, che inizia con la richiesta e con un rapporto medico sulle condizioni del richiedente, prosegue con il parere del Comitato etico territorialmente competente e, nei casi di parere favorevole, si conclude con l’intervento del Servizio sanitario tenuto a garantire che la morte avvenga - nel domicilio del paziente o presso una struttura sanitaria pubblica - nel rispetto della dignità della persona malata ed in modo da non provocare ulteriori sofferenze ed evitare abusi. 5. Pienamente apprezzabile nella parte in cui definisce un procedimento certo per la valutazione e l’accoglimento della richiesta di morte volontaria assistita, il testo all’esame del parlamento resta, su due nodi cruciali, troppo prigioniero di una impostazione che la Corte costituzionale ha “dovuto” adottare per rimanere nei limiti di una pur coraggiosa sentenza manipolativa. Avvalendosi della sua libertà il Parlamento può superare la formula “trattamenti di sostegno vitale”, chiarendo che i trattamenti sanitari che giustificano la richiesta di assistenza non sono solo quelli artificiali di collegamento ad una macchina ma anche tutti i trattamenti realizzati con dolorose terapie farmaceutiche (ad es. una severa e permanente chemioterapia) o con altre forme di assistenza medica la cui interruzione determinerebbe la morte del malato in maniera non necessariamente rapida, diventando perciò fonte di ulteriori sofferenze. L’altro punto critico del testo in discussione è la definizione della morte volontaria medicalmente assistita descritta come il decesso cagionato da un “atto autonomo” con il quale, in esito al percorso disciplinato dalla legge, si pone fine alla propria vita con il supporto del Servizio Sanitario Nazionale. Se per atto “autonomo” si dovesse intendere solo un gesto fisico, materiale, e non invece un atto di autonoma volizione, il risultato sarebbe paradossale. L’assistenza pubblica sarebbe negata proprio a chi è così totalmente prigioniero del suo corpo e della malattia invalidante da non essere in grado di attuare una volontà che pure è ferma ed inequivocabile. Per evitare un discrimine così irragionevole e crudele, il legislatore dovrebbe chiarire che ove la volontà di por fine alla vita sia inequivocabile ma sia impossibile un gesto fisico autonomo, il morente possa ricevere l’aiuto materiale necessario per il suo compimento. Un siffatto “aiuto a morire” sarebbe una forma di omicidio del consenziente? Chi scrive non lo crede affatto. E comunque nulla impedirebbe al legislatore di scriminare, nell’ambito dell’omicidio del consenziente, il limitatissimo segmento del sostegno e soccorso prestato - al termine del procedimento prima descritto - a chi non è fisicamente in grado di por termine alla sua vita. Sul terreno di una soluzione ragionevole sono stati sinora compiuti numerosi passi in avanti. Ora si tratta di non smarrire la strada a pochi passi dalla meta. *Direttore di Questione Giustizia Migranti. Drammatico soccorso nel Mediterraneo. Dieci morti sul fondo di un barcone di Alessandra Ziniti La Repubblica, 17 novembre 2021 Sulla nave di Medici senza frontiere 186 persone tra cui molte donne e bambini piccoli tra cui un neonato di 10 mesi. Alla deriva da 13 ore. Dieci morti sul fondo del barcone con altre 99 persone ammassate una sull’altra e costrette a rimanere per 13 ore accanto ai loro compagni probabilmente morti calpestati nella ressa di migranti troppo stretti su una imbarcazione troppo piccola. È l’ultimo drammatico soccorso della nave Geo Barents di Msf che oggi pomeriggio, dopo una richiesta di soccorso di Alarm Phone confermata dall’aereo di avvistamento Sea Bird, ha soccorso un barcone con un centinaio di migranti a 30 miglia dalle coste libiche. Sul fondo della barca sovraffollata che stava imbarcando acqua sono stati trovati dieci cadaveri, probabilmente soffocati e calpestati dai loro compagni, come documentato dalle drammatiche foto di Candida Lobes. A bordo adesso ci sono 186 persone, tra cui molte donne e bambini piccoli, uno di soli dieci mesi traumatizzati da quello che hanno vissuto. La barca sulla quale erano stati ammassati dai trafficanti stava andando alla deriva da questa mattina. Oggi sono state quattro le imbarcazioni avvistate nel Mediterraneo dall’aereo ong Seabird: una grossa imbarcazione in legno con circa 200 persone arrivata a Lampedusa, un gommone con un centinaio di persone e un tubolare che si stava sgonfiando, un altro gommone con una quarantina di persone e il barcone con le 100 persone pericolosamente inclinato, poi raggiunto dalla Geo Barents e a bordo del quale sono stati trovati i dieci corpi senza vita. Unione Europea. 6,4 miliardi per le frontiere, ma la Commissione Ue dice no ai muri di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 17 novembre 2021 Ursula von der Leyen, smentendo una dichiarazione ambigua del presidente del Consiglio Charles Michel, ha espressamente escluso che la Ue assecondi la Polonia. La tensione tra la Ue e la Polonia non si placa. Varsavia forza la mano a Bruxelles sulla costruzione di un muro di 180 km alla frontiera con la Bielorussia, votata dal parlamento polacco il 14 ottobre, per un costo di 353 milioni. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, smentendo una dichiarazione ambigua del presidente del Consiglio Charles Michel, ha espressamente escluso che la Ue finanzi muri. Ma nel fronte anti-muro la breccia si allarga: il 7 ottobre, una dozzina di paesi Ue con una lettera a Bruxelles hanno difeso la costruzione di “barriere fisiche” come “una misura efficace” per contrastare le migrazioni (Polonia, Lituania, Estonia, Lettonia, Austria, Ungheria, Bulgaria, Grecia, Cipro, Slovacchia, Repubblica ceca e Danimarca). La Germania non ha firmato, ma il futuro cancelliere Olaf Scholz ha fatto affermazioni ambigue. In Francia, ieri, il sottosegretario agli Affari europei, Clément Beaune, ha precisato: siamo “a favore di un’Europa che protegge le frontiere, ma non di un’Europa che alza muri”. Nel bilancio pluriannuale Ue 2021-27, ci sono 6,4 miliardi per la “gestione delle frontiere”, che permettono di finanziare sistemi sofisticati di controllo (il primo beneficiario è la Grecia con 402 milioni, seguono l’Italia con 380 milioni e la Spagna con 289). Intanto, sull’indipendenza della giustizia non rispettata da Varsavia, che sta bloccando il versamento dei 24 miliardi del piano di rilancio europeo alla Polonia, ieri c’è stata una nuova decisione della Corte di Giustizia Ue. È giudicata “problematica” la doppia funzione del ministro della Giustizia, il potente Zbigniew Ziobro, che è anche procuratore generale, con il diritto di spostare i giudici “senza spiegazioni”, limitandone l’indipendenza: le nomine e le revoche dei giudici, secondo il diritto europeo, devono essere fatte “sulla base di criteri noti in anticipo e devono contenere motivazioni appropriate” e non essere arbitrarie. La Polonia è stata condannata dalla Corte di Giustizia in ottobre a pagare un milione di euro al giorno fino a quando non smantella il meccanismo disciplinare dei giudici del Tribunale costituzionale. Multa che si aggiunge ai 500mila euro al giorno che la Polonia deve pagare per aver impugnato la decisione della Corte sulla miniera di Turow, che inquina i paesi confinanti. Ieri, dal Parlamento Ue, che ha già considerato “illegale” la decisione polacca a favore della supremazia del diritto nazionale su quello europeo, è arrivata una lettera firmata dai principali gruppi (Ppe, S&D, Renew, Verdi, Gue), per chiedere che la Commissione “si astenga dall’approvare il Recovery per la Polonia, fino a quando non saranno soddisfatte tutte le condizioni previste dal regolamento”. La lettera sottolinea che “un governo che nega il primato del diritto Ue e viola i principi dello stato di diritto non è affidabile”. La Corte di Giustizia ieri si è di nuovo espressa contro l’Ungheria e la “legge Soros”, che punisce il “sostegno a chi richiede protezione internazionale”, criminalizzando l’asilo dei migranti che provengono da Paesi che Budapest considera “sicuri”. Varsavia alza il muro contro i migranti. E l’Europa lascia fare di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 17 novembre 2021 Migliaia di migranti ammassati al confine tra Bielorussia e Polonia. Solo il pontefice e Mattarella fanno sentire la loro voce contro la costruzione del muro. “La storia in questi ultimi decenni ha dato segno di un ritorno al passato, i conflitti si riaccendono in ogni parte del mondo, nazionalismi e populismi si riaffacciano a diverse latitudini, la costruzione di muri e il ritorno dei migranti in luoghi non sicuri appaiono come l’unica soluzione di cui i governi sono capaci per gestire la mobilità umana”. È risuonata forte, dal Centro Astalli di Roma, la voce di Papa Francesco, che ha affrontato la crisi dei migranti al confine tra Bielorussia e Polonia dove da giorni sono ammassate migliaia di persone, provenienti principalmente da Yemen, Iraq e Afghanistan, in condizioni spaventose. Il monito del pontefice non poteva che riferirsi alla decisione polacca di dare il via a dicembre alla costruzione di una barriera, un vero e proprio muro ad alta tecnologia che impedirà alle persone in fuga di fare il loro ingresso in Europa. Una decisione che lo stesso presidente italiano Sergio Mattarella aveva aspramente criticato, utilizzando parole che nessun leader europeo ha finora pronunciato: “È sconcertante quanto avviene ai confini dell’Unione, con degli esseri umani esposti al freddo e alla fame, c’è un grande divario sui principi conclamati, la solidarietà ai profughi e il rifiuto concreto di accoglierli”. Per il momento nelle cancellerie europee regna il silenzio, nonostante il trattamento dei migranti ammassati alle frontiere sia in evidente contrasto con i principi di solidarietà e accoglienza dell’Unione. Da quanto si prevede i lavori dovrebbero terminare nella prima metà del 2022. La conferma di ciò che si va preparando è arrivata ufficialmente dal ministero degli Interni di Varsavia: “L’impegno che dobbiamo portare avanti è un investimento assolutamente strategico e prioritario per la sicurezza della nazione e dei suoi cittadini”. La celerità con cui dovrebbero essere effettuati i lavori di costruzione, 24 ore al giorno con tre turni di 8 ore, hanno già messo in moto la macchina economica e i contratti per le ditte impegnate sarebbero già sul tavolo dei ministeri competenti. Il costo stimato è di 353 milioni di euro. La Polonia dunque ha dato il via libera definito ad un progetto reso noto il mese scorso dal suo Parlamento e accompagnato dalla richiesta dei paesi del gruppo di Visegrad all’Unione europea di usare le proprie risorse proprio per costruire barriere anti migranti. Nel caso polacco il muro si estenderà per circa 180 chilometri, praticamente la metà del confine condiviso con la Bielorussia. Bruxelles è contraria alla politica di respingimento ma la sua appare una posizione in bilico e sembra prevalere la volontà di non inasprire ulteriormente il conflitto con Varsavia: la decisione polacca infatti peserà come un macigno sul prossimo vertice dei premier europei in programma proprio a dicembre. Rimane il fatto che nonostante l’opposizione teorica all’edificazione di muri ai propri confini la Ue non può impedire che i singoli stati si dotino di queste infrastrutture. Le sanzioni comminate alla Bielorussia dunque assumono un carattere puramente politico non incidendo sulle condizioni dei migranti che dalle dichiarazioni dei vertici comunitari sarebbero semplicemente da soccorrere. Intanto al confine la situazione sta diventando sempre più tesa. Oggi centinaia di persone hanno tentato, in parte riuscendovi, di sfondare una recinzione presso Kuznica innescando la dura reazione delle forze dell’ordine. Una fitta sassaiola contro i soldati di Varsavia avrebbe provocato dei feriti tra le forze che presidiano il valico, la risposta è stata quella di un massiccio uso di gas lacrimogeni e cannoni ad acqua da parte delle guardie di confine di Varsavia. Non si riesce a capire se la reazione sia stata giustificata da un effettivo caos anche se da parte polacca si parla di una provocazione studiata a tavolino e orchestrata dai bielorussi. Cartabia al ministro della Giustizia Usa Garland: “Ridateci Chico Forti” di Ferruccio Pinotti Corriere della Sera, 17 novembre 2021 Il ministero di via Arenula ha rinnovato la richiesta di trasferimento in Italia dell’imprenditore trentino sempre proclamatosi innocente e che indagava sul caso Versace. Chico Forti: Cartabia chiede al suo omologo Usa Garland di farlo tornare in Italia. Il caso di Chico Forti è stato uno dei punti al centro dell’incontro che la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha avuto con l’Attorney General Merrick Garland: Cartabia, si legge in una nota diffusa dal ministero di via Arenula, ha rinnovato la richiesta di trasferimento in Italia di Forti, perché possa continuare a scontare nel suo Paese la pena dell’ergastolo cui è stato condannato per omicidio e per cui è recluso in un carcere della Florida. La Guardasigilli ha fornito all’Attorney General, autorità cui spetta la decisione finale sul caso previo assenso della Florida, i chiarimenti richiesti sul rispetto da parte italiana della convenzione di Strasburgo del 1983 inerente il trasferimento delle persone condannate. I tentativi di Di Maio - Quasi un anno fa, il 23 dicembre 2020, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio annunciò con enfasi (in rete ci sono il video e il post) la liberazione di Chico Forti, l’imprenditore italiano rinchiuso da troppi anni in carcere in America. L’allora presidente del consiglio Giuseppe Conte commentò con pari enfasi “l’importante risultato”. Chico Forti, 62 anni, quasi un anno dopo è però ancora rinchiuso in un carcere in Florida e - stando a quanto dice la famiglia - “è allo stremo”. Il Pirellone illuminato per la sua liberazione - Lo scorso luglio dopo 21 anni di buio, rabbia e paura, la vicenda di Chico Forti si era illuminata di uno spiraglio di luce: quello offerto dal Pirellone di Milano, illuminato quella notte con la scritta “Chico in Italia” per ricordare a tutti dell’ingiustizia vissuta dall’ex imprenditore - che sta scontando l’ergastolo negli Usa dal 15 giugno 2000 per il presunto omicidio (mai davvero dimostrato) di Dale Pike avvenuto il 15 febbraio 1998 a Miami - e per chiedere che gli Usa si decidano finalmente a fare quanto stabilito lo scorso dicembre (cioè trasferirlo in Italia), quando il governatore della Florida aveva accolto l’istanza di Chico di avvalersi dei benefici previsti dalla Convenzione di Strasburgo. Una vicenda che sembrava avviarsi verso la soluzione, ma che, ancora una volta, si è improvvisamente arenata perché il dipartimento della giustizia degli Stati Uniti d’America non ha fatto quello che era stato stabilito: mandare un documento al nostro ministero della Giustizia per accordarsi sulla commutazione della pena (l’ergastolo senza condizionale - cioè il detenuto esce solo da morto - cui è stato condannato Chico non esiste nel nostro ordinamento), permettendo così alla pratica di essere trasferita da noi (arrivati nel Paese di espiazione della pena, il destino giudiziario viene deciso dalla magistratura locale sulla base delle leggi del posto). Alle varie manifestazioni a favore di Chico si era così unita anche quella del Pirellone. L’impegno dello zio e della famiglia - Lo zio di Chico, Gianni Forti, non ha mai perso la speranza e non si arrende mai. “Ringrazio la città di Milano, il governatore e la giunta regionale per l’iniziativa ha detto - e ringrazio Libero e Marika Porta per averla promossa. Per Chico questa è una grande iniezione di fiducia, perché vede che una città intera, anzi una regione, condivide il suo sogno e che tutto il mondo riceverà questo segnale forte. Lui è orgoglioso di essere italiano e di dimostrare quanto gli italiani hanno coraggio e dignità”, aveva dichiarato. I collegamenti con il caso Versace - La vicenda di Forti è intrecciata a quella dell’omicidio Versace (15 luglio 1997). Chico Forti, velista e produttore televisivo, allora ricco imprenditore a Miami, non credeva al suicidio di del killer di Versace Andrew Cunanan e aveva commissionato le indagini sul caso Versace ad un investigatore privato in pensione, chiamato Gary Schiaffo. Aveva persino comprato la house boat sui cui fu trovato morto Cunanan e realizzato un documentario - Il sorriso della Medusa, realizzato nel 1997 da Forti in collaborazione con RaiTre - su Cunanan, l’assassino di Gianni Versace. Secondo Chico Forti, quella produzione, in cui criticava l’operato della polizia di Miami, è alla base del presunto accanimento contro di lui. L’appello della Chiesa trentina - Per Chico Forti si è alzata nei mesi scorsi anche la voce della Chiesa trentina per sbloccare l’annosa vicenda giudiziaria del trentino Chico Forti. Aveva auspicato “buon senso e umanità” l’arcivescovo di Trento, Lauro Tisi. “Una vicenda - aveva scritto monsignor Tisi - per la quale si sperava in una svolta repentina, avendo raggiunto una sostanziale intesa istituzionale in tal senso. Auspico venga fatto tutto il possibile per sciogliere definitivamente e con tempi certi i nodi che impediscono a quest’uomo di poter tornare nella terra in cui è nato ed abbracciare i propri cari, in particolare l’anziana madre Maria, ultranovantenne, che non vede il figlio da tredici anni e alla quale va il mio pensiero affettuoso”. “Lo reclama - concludeva don Lauro - il buon senso, prima ancora dell’applicazione della legge. E lo chiede quel sentimento minimo di umanità, da cui anche il doveroso percorso della giustizia non può mai allontanarsi”. “Se anche il vescovo Tisi ci dà una mano, è la cosa più bella che possiamo avere!” aveva commentato al settimanale diocesano “Vita Trentina” Gianni Forti, lo “zio Gianni” che nel giugno scorso aveva incontrato anche la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ottenendo un impegno diretto (il ministero della Giustizia deve istituire una commissione per stabilire la prosecuzione della pena in Italia) anche per sbloccare la burocrazia americana. Fin dal giorno dell’arresto nel 1998, Gianni Forti attende di poter abbracciare a Trento il nipote film-maker e presentatore, che si è sempre dichiarato innocente rispetto alla condanna per omicidio di primo grado a Miami di un cittadino australiano con cui era in affari. Chico era stato condannato all’ergastolo da un tribunale della Florida con sentenza divenuta definitiva nel 2010, a seguito del rigetto di tutti i ricorsi in appello. Con i suoi legali egli ha presentato in questi vent’anni numerosi appelli per la revisione del processo, sempre rifiutata benché siano emersi nel tempo fatti e circostanze in favore di Forti, che confermerebbero gravi violazioni al suo diritto alla difesa durante la vicenda giudiziaria. Nel 2014 anche il Parlamento italiano si era impegnato a un’azione decisa per Chico. Sono la vedova di Jamal Khashoggi. Chiedo giustizia di Hatice Cengiz* Il Manifesto, 17 novembre 2021 La vedova del giornalista ucciso e fatti a pezzi nel consolato saudita a Istanbul dai servizi di Riyad chiede giustizia nei tribunali di mezzo mondo da più di tre anni. Mi chiamo Hatice Cengiz. Sono la vedova di Jamal Khashoggi, editorialista del Washington Post assassinato all’interno del consolato saudita ad Istanbul il 2 ottobre 2018. Da quel giorno, conduco una campagna per la verità e la giustizia riguardo all’uccisione di Jamal, ed affinché la comunità internazionale dichiari la responsabilità di coloro che ne hanno ordinato e pianificato l’uccisione. Ho reso testimonianza presso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, il Parlamento Europeo, il Congresso degli Stati Uniti, e vari altri parlamenti nazionali. Nel 2019, per circa un anno dalla morte di Jamal, ho vissuto a Londra. Mentre vivevo là, mi seguivano. Recentemente, l’inchiesta Pegasus ha mostrato che, nei giorni successivi all’omicidio, il mio telefono era stato hackerato. Ho avuto paura per molto tempo, dopo l’omicidio. Lo choc e la paura non riguardavano solo la mia vita. L’omicidio ha cambiato la mia visione dell’umanità e del mondo e il significato della vita. Jamal ha perso la vita. Non dobbiamo dimenticare ciò che è accaduto. Questo è ciò che mi motiva e che mi dà l’energia per andare avanti. La mia energia viene da dentro di me, poiché credo che dovremmo parlare di questa questione. È una questione umana, la mia vita non ha significato se ci dimentichiamo questo. Come individui, conduciamo una vita sociale, una vita privata, una vita culturale, ma, in quanto esseri umani, abbiamo anche una responsabilità sociale. Io non sto facendo questo come attivista, né per diventare una celebrità. Questo caso riguarda valori importanti. Riguarda la protezione delle altre persone in Arabia Saudita, ad esempio in carcere. In alcuni casi, gli Stati agiscono velocemente nei confronti delle violazioni dei diritti umani da parte di altri Paesi, e si fanno sentire apertamente. Ma al tempo stesso, gli Stati dimenticano questi valori, quando vogliono. Gli Stati non temono di utilizzare il proprio potere, ad esempio tramite gli ambasciatori, quando vogliono mettere pressione su un altro Paese. Perché dunque alcune volte rimangono in silenzio? Perché non trovo un ambasciatore che sia con me? Non mi chiamano, non si schierano dalla mia parte. Quando vogliono, restano in silenzio. Desidero mantenere l’attenzione pubblica sul caso, poiché chiunque altro sta cercando di distoglierla da esso. Le autorità turche si sono comportate molto bene all’inizio e adesso vogliono lasciar perdere. Gli Stati Uniti e la comunità internazionale stanno facendo allo stesso modo. L’atteggiamento attuale è “Di questa faccenda ci siamo già occupati, possiamo andare avanti?”. Questo atteggiamento è impensabile con riferimento ai casi di omicidio che ricadono sotto le giurisdizioni nazionali. In qualche modo la gente accetta che sia così quando questi casi coinvolgono più Paesi. La gente non deve chiudere gli occhi. Questo caso non scompare perché i media non ne parlano più. Devono esserci conseguenze. Gli ostacoli sul cammino della giustizia - Abbiamo instaurato numerosi procedimenti per accertare la responsabilità degli esecutori, ed in particolare del Principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman Al’Saud. Ad Istanbul si sono svolti un’indagine ed un procedimento penale, nel quale io sono la principale parte lesa. Questo procedimento si è protratto per molto tempo, ed è nei confronti di persone rimaste contumaci. È un procedimento importante ed ha il potenziale per portare giustizia e condurre a mandati d’arresto internazionali. Alcune delle persone coinvolte sono state formalmente imputate, alcune ancora devo esserlo - fra cui il Principe ereditario saudita. Le autorità turche hanno consistentemente ritardato il procedimento e fin qui non hanno espresso l’intenzione di imputare formalmente il Principe ereditario. Ci siamo rivolti molte volte alle Nazioni Unite, ai governi nazionali, ai parlamenti nazionali e al Parlamento Europeo. Abbiamo proposto appelli per l’esecuzione delle sanzioni, cosa che gli Stati possono fare sotto la propria giurisdizione nazionale. Anche le Nazioni Unite hanno il potere di farlo. Stiamo anche svolgendo una campagna per fermare il “cultural washing” o lo “sports washing” condotto dal Principe ereditario, ad esempio nella recente acquisizione del club calcistico Newcastle United. Continueremo a far questo nei confronti di qualunque altro impegno sportivo o culturale che egli intraprenderà per ripulire la propria immagine macchiata. Abbiamo inoltre intrapreso una causa civile negli Stati Uniti, notificata anche al Principe ereditario. L’Arabia Saudita ha proposto opposizione basandosi sull’immunità. In tutti questi procedimenti giudiziari, l’ostacolo principale consiste nella riluttanza dei governi ad agire nei confronti del Principe ereditario dell’Arabia Saudita, il quale viene percepito come leader de facto del Paese. Egli non è il capo di Stato. Non dovrebbe essergli garantita l’immunità. Non è questo un crimine per il quale dovrebbe essere riconosciuta l’immunità. Le autorità degli Stati si concentrano esclusivamente su coloro che si collocano ad un livello inferiore, mentre il solo responsabile è il Principe ereditario. Gli Stati devono agire - È necessario che le autorità turche accelerino il procedimento, non possono rallentarlo tanto a lungo. Occorre che abbiano accesso alle informazioni negli Stati Uniti e che le presentino in tribunale, e che emettano un mandato d’arresto, in particolare proprio nei confronti del Principe ereditario. Inoltre, i governi devono attuare sanzioni per far sì che egli non possa viaggiare ed intraprendere iniziative come acquistare club sportivi. Devono fare in modo che egli non possa recarsi nei loro Paesi senza essere arrestato ed interrogato. Non possiamo consentire che qualcuno che persino la Cia ha stabilito essere responsabile di questo omicidio si muova impunemente. Il tribunale statunitense dovrebbe iniziare a considerare questa come una questione urgente e disporre il risarcimento del danno. Dovrebbe essere imposto un indennizzo, cosicché le persone coinvolte non possano farla franca. I governi dovrebbero inoltre mettere a disposizione tutte le informazioni che possiedono sul caso. Il Principe ereditario saudita deve essere ritenuto responsabile. Un uomo capace di questi atti non dovrebbe diventare re. Ci sono regole nel tuo Paese, ci sono regole nel mio Paese, ci sono norme internazionali. Quelli come lui dovrebbero capire che il mondo è cambiato. La gente mi chiama “coraggiosa” o “eroina”, ma io voglio essere una persona normale. Non dovrei fare tutto ciò, per ottenere giustizia. Adesso, la comunità e le istituzioni dovrebbero fare la propria parte. I governi e loro leader, non solo in Turchia o negli Stati Uniti. Ovunque. Confermo che i fatti affermati in questa deposizione testimoniale sono veri. Data e luogo: 31 ottobre 2021, Istanbul. Nome della testimone e firma: Hatice Cengiz *Traduzione a cura di Sara Cocchi, avvocata in Firenze, consulente Ue e Ocse