Al via il progetto “A scuola di libertà” e il 13 dicembre partecipa Fiammetta Borsellino di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 novembre 2021 Inizia “A scuola di libertà”, un progetto a cura di Ristretti Orizzonti e della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. A Padova intere generazioni conoscono il progetto che è nato in collaborazione con il comune di Padova e la Casa di reclusione, ma oggi il progetto di Ristretti verrà riproposto, con la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, anche in molte altre città, e ci sono scuole nelle quali tutte le penultime classi partecipano. La pandemia di Covid ha costretto a rimodulare il progetto, ma non si sono fermati, perché - sottolinea la redazione di Ristretti - “pensare di “bruciare” questo patrimonio ci sembrava davvero un enorme spreco”. Un progetto complesso, che da anni viene proposto alle scuole, ed è particolarmente impegnativo in un momento in cui tutto quello che riguarda il carcere “è materia di una informazione spesso superficiale e poco rispettosa della realtà”, sottolinea la redazione. “Ero in quarta superiore e frequentavo il liceo scientifico Curiel a Padova, quando la nostra prof. entrò in classe e ci parlò del “progetto carcere”. Sono passati 10 anni dalla mia quarta superiore, e da allora non ho mai smesso di raccontare a tutti i miei conoscenti dell’opportunità che ho avuto. Ora che sono dall’altra parte della cattedra, (sono una prof!), ho deciso che questa mia “esperienza di vita” deve arrivare anche ai miei alunni, perché è stato un momento di profonda riflessione, che mi ha fatto maturare, che a tutt’oggi conservo dentro di me e a cui continuerò a dar voce”. Questo è un passaggio della lettera di Giulia, giovane insegnante, ritenuta da Ristretti Orizzonti, la miglior spiegazione del perché è davvero importante il progetto con le scuole. Tra le prime videoconferenze che Ristretti propone, c’è anche quella del prossimo 13 dicembre con il dialogo tra Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso a Via D’Amelio, e la figlia di un detenuto e persone che hanno finito di scontare una lunga pena. Sistema carcerario italiano, tutti i numeri di una realtà da ripensare di Alfonso Lo Sardo leurispes.it, 16 novembre 2021 Le criticità del sistema carcerario italiano sono oggi così complesse che tentare di ragionarci in termini “squisitamente filosofici”, ripensando alla funzione della pena e della restrizione della libertà finirebbe per concludersi in mere disquisizioni accademiche. I numeri, particolarmente drammatici, devono riportarci con i piedi per terra e alla conclusione che, per quanto si possano sognare riforme figlie di progresso e di civiltà, le emergenze pretendono soluzioni pragmatiche. “È come se i carcerati, a un certo punto, smettessero di essere persone” - Faro illuminante sul fenomeno è senza dubbio rappresentato dall’Associazione Antigone che, con le sue visite annuali e il suo rapporto di ricerca, riesce a fotografare con estrema lucidità evidenziando ogni distorsione. Mai come in questo caso i numeri sono determinanti nella rappresentazione e nella comprensione della realtà. E, allora, vediamo quali sono questi numeri così preoccupanti, mettendoli chiaramente a fuoco con i nostri occhi. Nel sistema carcerario italiano il sovraffollamento è pari al 113,1%. Le misure alternative aiuterebbero a superare questo problema. Calano gli stranieri: negli ultimi 12 mesi, l’Associazione Antigone ha svolto 67 visite in 14 Regioni italiane; le carceri visitate ospitavano in tutto 24.418 detenuti, quasi la metà (il 46%) della popolazione detenuta italiana. In generale, il sovraffollamento nazionale già citato è molto preoccupante. Sono 11 le carceri con sovraffollamento di oltre il 150%: i cinque istituti di pena con maggiori criticità si trovano a Brescia (378 detenuti, 200%), Grosseto (27 detenuti, 180%), Brindisi (194, 170,2%), Crotone (148, 168,2%), Bergamo (529, 168%). Sono 19mila i detenuti che devono scontare meno di tre anni. Questi - con l’eccezione di quelli condannati per reati ostativi -, avrebbero potenzialmente accesso alle misure alternative: se solo la metà vi accedesse, il problema del sovraffollamento penitenziario sarebbe risolto. Al 30 giugno 2021 la percentuale di detenuti stranieri ristretti negli Istituti penitenziari in Italia era del 32,4% (17.019 persone). Una presenza in flessione dal 31 dicembre del 2018. Nel sistema carcerario italiano il sovraffollamento è pari al 113% - Celle schermate, celle prive di docce, alcune del tutto prive di acqua. Nel 42% degli Istituti sono state trovate celle con schermature alle finestre che impediscono passaggio di aria e luce naturale. Nel 36% delle carceri vi erano celle senza doccia (il regolamento penitenziario del 2000 prevedeva che, entro il 20 settembre 2005, tutti gli Istituti installassero le docce in ogni camera di pernottamento). Nel 31% degli Istituti visitati da Antigone vi erano addirittura celle prive di acqua calda. In 3 carceri sono state trovate celle con toilette a vista. Nel carcere di Frosinone, ad esempio, sono stati segnalati frequenti episodi di mancanza di acqua corrente. Santa Maria Capua Vetere presenta un problema strutturale di mancato allaccio idrico e l’acqua erogata non è potabile. La gara d’appalto per provvedere all’allaccio idrico c’è stata, ma i lavori non sono iniziati e l’acqua potabile viene data a ciascun detenuto con due bottiglie da due litri al giorno. Si è passati da celle aperte, a celle chiuse nel 24% dei casi. Il regime a celle aperte, seppure accompagnato da restrizioni di movimento, è rimasto prevalente: nel 65% degli Istituti visitati sono state trovate celle aperte almeno 8 ore al giorno, ma nel 24% dei casi c’erano sezioni in cui si è passati, con la pandemia, da un regime di celle aperte, a chiuse. Tossicodipendenti in carcere e la piaga dei suicidi - Circa un detenuto su quattro è tossicodipendente. Questo dato restituisce una realtà preoccupante, in quanto al 31 dicembre 2020 i detenuti presenti con problemi di tossicodipendenza erano il 26,5% ovvero 14.148. Molti, se si pensa quanto i detenuti tossicodipendenti siano maggiormente soggetti a contrarre malattie infettive. Diciotto i suicidi a metà 2021 e nei soli primi 3 mesi dell’anno 2.461 gli atti di autolesionismo. Nel 2021 (fino al 15 luglio) secondo il dossier Morire di carcere di Ristretti, i suicidi sono stati 18, di cui 4 commessi da stranieri e i restanti da italiani. Il più giovane aveva 24 anni e il più anziano 56. Nel 2020 i suicidi sono stati 62 e il numero di suicidi ogni 10.000 detenuti è stato il più alto degli ultimi anni, raggiungendo le undici unità. Per quanto riguarda i casi di autolesionismo, per il primo trimestre del 2021 la Relazione al Parlamento del Garante Nazionale ne riporta 2.461. A Firenze Sollicciano si sono verificati 105 casi di autolesionismo ogni 100 detenuti. Il costo del sistema carcerario: 3 miliardi all’anno - La detenzione costa allo Stato 3 miliardi, di cui il 68% è impiegato per la Polizia penitenziaria. Necessario assumere personale civile. Ogni anno vengono spesi circa 3 miliardi nelle carceri per adulti e 280 milioni per il sistema di giustizia minorile e le misure alternative alla detenzione. Dei 3 miliardi che sono stati destinati al carcere per il 2021, il 68% è impiegato per la Polizia penitenziaria, la figura professionale numericamente più presente con oltre 32.500 agenti. Il divario con l’organico previsto dalla legge (37.181 unità) si attesta a circa il 12,5%. Diversa la situazione dei funzionari giuridico-pedagogici che, con un organico previsto di 896, sono oggi poco più di 730 (-18,4%). Il rapporto medio rilevato dall’Osservatorio di Antigone è di 90 detenuti per ogni educatore, ma in 24 Istituti sui 73 visitati fra il 2020 e 2021 questo numero sale a ben oltre 100. Solo nel 65% degli istituti visitati, meno di 2/3, c’era un direttore assegnato in via esclusiva. Negli altri, il direttore era responsabile di più di una struttura, con le difficoltà e le limitazioni che ciò comporta sia per il personale sia per i detenuti. Fortissimo lo squilibrio tra personale di custodia e personale dell’area trattamentale preposto alla reintegrazione sociale delle persone detenute: il rapporto medio negli Istituti visitati era di un poliziotto penitenziario ogni 1,6 detenuti e di un educatore ogni 91,8 detenuti. Solo un terzo dei detenuti lavora - La formazione professionale è in calo: uno studente detenuto su 3 ha abbandonato la scuola. Secondo gli ultimi dati diffusi dal Dap, al 31 dicembre 2020 erano 17.937 le persone detenute che lavoravano. Di queste, quasi l’88% (15.746) alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e il restante 12% circa (2.191) per datori di lavoro esterni. I corsi professionali attivati all’interno degli Istituti di pena nel secondo semestre del 2020 sono stati 117, di cui 92 portati a termine. Sebbene si registri un aumento rispetto al primo semestre del 2020, si è ancora lontani dai numeri pre-pandemia, quando i corsi attivati superavano i 200 (dicembre 2019). Nel 20% degli istituti carcerari monitorati 1 studente su 3 ha abbandonato la scuola - Durante la pandemia la scuola in presenza ha conosciuto interruzioni in quasi tutti gli Istituti (nel 94% del totale). Nel 60% delle carceri le attività in presenza sono state interrotte per almeno 3 mesi, cioè per almeno 1/3 dell’anno scolastico. Sono pochi i casi in cui è stata garantita la Didattica a distanza (Dad), a differenza di quanto avvenuto all’esterno. All’andamento irregolare della attività scolastiche, ha corrisposto un alto tasso di abbandono scolastico. Nel 20% degli istituti monitorati almeno 1 studente su 3 ha abbandonato la scuola. Un altro tema interessante quando si parla di carceri in Italia sta nel rapporto tra detenuti e personale di polizia penitenziaria. A giugno 2021 erano in servizio 36.939 agenti, a fronte di 52.453 detenuti: un rapporto di circa un agente ogni 1,4 detenuti. Se comparata con i principali Paesi europei, da questo punto di vista l’Italia se la cava piuttosto bene. Per effettuare la comparazione possiamo guardare ai dati raccolti nell’Annuario Statistico Penale 2020 per la popolazione delle prigioni, supervisionato dal Consiglio d’Europa (che, ricordiamo, è un’organizzazione internazionale che non fa parte dell’Unione europea e che si occupa di diritti umani, stato di diritto e democrazia). Tra i principali Paesi Ue - esclusa la Germania, per cui mancano i dati - notiamo che al 31 gennaio 2020 l’Italia riportava il miglior rapporto tra detenuti e personale carcerario “dedito esclusivamente alla custodia”, pari a 1,8. Il dato francese era di 2,7 e quello spagnolo di 3,7. Nel Regno Unito, le regioni dell’Inghilterra e del Galles arrivavano a 4,1, la Scozia a 2,7 e solo l’Irlanda del Nord faceva meglio dell’Italia, con un rapporto di 1,5 detenuti per ogni agente. La media europea era pari a 3,1. Pochi servizi educativi ma il rapporto tra detenuti e personale penitenziario è tra i migliori in Europa - Le nostre carceri però rimangono indietro per quanto riguarda l’offerta di servizi educativi ai detenuti, fondamentali per dare attuazione concreta al principio costituzionale secondo cui le pene hanno una finalità rieducativa. In Italia, infatti, l’84% dello staff carcerario si occupa esclusivamente della custodia dei detenuti, contro una media europea del 61%. Gli addetti alle attività educative rappresentano l’1,9% del totale, a fronte di una media del 3,3%. Al momento sono in servizio nelle carceri 733 educatori, mentre il numero previsto è di 896: ne mancherebbero, quindi, circa un quinto. Gli agenti di Polizia penitenziaria attualmente impiegati sono invece 36.939, circa 240 in meno rispetto alle 37.181 indicate dal Ministero della Giustizia come “dotazione organica” per il settore nel 2017: ne mancherebbero, insomma, meno dell’1%. Detenuti stranieri e donne nelle carceri italiane - In costante calo è la popolazione detenuta straniera: al 31 dicembre 2020 i detenuti stranieri sono circa 17,3mila, contro i 19,9mila di fine 2019 e i 20,2mila del 31 dicembre 2018. Un dato, quello di fine 2020, che rispecchia il trend nazionale e segna un ritorno al 2015. La percentuale di popolazione straniera in carcere, rispetto al totale dei detenuti, passa dal 34% del 2017 al 32,5% di fine 2020. Rispetto al totale dei detenuti, le percentuali del 2020 confermano il trend degli ultimi 10 anni: la percentuale di stranieri in carcere rispetto al totale, infatti, è diminuita circa 4 punti percentuali rispetto al 2010. Anche la presenza di donne in carcere segue l’andamento generale della popolazione penitenziaria: al 31 dicembre 2020 sono 2.255 le donne in carcere contro le 2.663 dell’anno precedente e le 2.576 presenze del 31 dicembre 2018. Un volontario ogni 3,5 detenuti è inserito nel sistema carcerario italiano - Dal 2009 al 2017 cresce in maniera costante la presenza dei volontari in carcere. Nel 2017 sono 16,8 mila i volontari impegnati in diverse attività. Nel 2009 erano circa 8,5 mila. Nel 2018, invece, il dato è pressoché stabile rispetto all’anno precedente. Secondo i dati del Dap, quindi, ci sarebbe un volontario ogni 3,5 detenuti, ma i dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone nel corso delle visite agli Istituti di pena italiani mostrano un impegno maggiore da parte del volontariato. Secondo Antigone, negli Istituti visitati il rapporto detenuti/volontari è pari a 7, ovvero un volontario ogni 7 detenuti. Nel 2020 si sono tolte la vita in carcere 61 persone. Erano quasi 20 anni che non si aveva un tasso di suicidi così elevato. Nella maggior parte dei casi si è trattato di persone giovani: l’età media è stata infatti di 39,6 anni. Carceri, un sistema che va ripensato - L’attuale regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario è in vigore dal 20 settembre 2000. Oggi è necessario ripensare disposizioni che risalgono a un modello di carcere diverso da quello che le esperienze del nuovo millennio permettono di configurare. Il regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario è uno strumento potenzialmente capace di disegnare la vita degli Istituti di pena selezionando i valori cui improntarla. La legge ha bisogno di indicazioni concrete che sappiano leggerne le potenzialità dirette a un’esecuzione penale in linea con il dettato costituzionale. A sollevare il problema è stata Amnesty International Italia che esprime la sua profonda preoccupazione per la situazione nelle carceri italiane nel contesto del Covid-19, in cui ad una diffusione dilagante dei contagi tra persone detenute e personale penitenziario non corrisponde una riduzione consistente della presenza numerica negli Istituti. In base ai dati del Ministero della Giustizia, nel 2020 erano 53.723 le persone effettivamente presenti in carcere, a fronte di una capienza regolamentare di 50.553 posti, ai quali vanno sottratti più di 3.000 posti non disponibili. La percentuale di affollamento è, quindi, ancora oggi superiore al 110% su scala nazionale, con picchi in alcuni Istituti italiani di più del 170%. La percentuale di affollamento nelle carceri è superiore al 110% - Allo scoppio della pandemia, a fine febbraio, il numero di persone detenute era ben superiore, con 61.230 posti occupati. Da fine febbraio, però, si era avviata un’apprezzabile e doverosa tendenza al decongestionamento, con una diminuzione di 1.800 posti già alle soglie delle prime disposizioni adottate dal Governo il 17 marzo, contenute nel decreto “Cura Italia”, che aveva introdotto una serie di misure alternative al carcere che avevano permesso la riduzione di circa 4.500 presenze nel periodo dal 19 marzo al 16 aprile, in base ai dati raccolti dal rapporto di Antigone. Dal mese di luglio, invece, la popolazione carceraria è tornata a crescere, riducendo anche gli spazi per l’isolamento delle persone positive, a fronte di un aumento esponenziale dei contagi. Al 30 ottobre 2020 le presenze in carcere ammontavano a 54.868 persone, 1.249 in più di fine luglio. Carceri, 10 mila i detenuti in Alta sicurezza: 749 al 41-bis di Marco Belli gnewsonline.it, 16 novembre 2021 Sono quasi 10 mila in Italia, su una popolazione detenuta di circa 54 mila unità, i reclusi appartenenti al circuito dell’alta sicurezza. Di questi, 749 sono sottoposti al regime speciale previsto dall’art. 41-bis dell’Ordinamento Penitenziario: sono ristretti in 12 istituti penitenziari e fra loro si contano 13 donne. Gli altri 9.212 in alta sicurezza si suddividono fra appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso, per i quali è venuta meno l’applicazione del 41-bis (AS1), detenuti per reati di terrorismo, anche internazionale (AS2), ed esponenti legati alla criminalità mafiosa e alle organizzazioni dedite al traffico di stupefacenti (AS3). Per la partecipazione alle udienze che li riguardano, la legge prevede un apposito servizio di multi-videoconferenza, per il quale sono state appositamente allestite ed attrezzate 434 stanze in 80 istituti penitenziari. Nel 2021 si sono svolte ad oggi 23.307 videoconferenze; erano state 11.331 nel 2019. I dati sono stati resi noti questa mattina nel corso della visita al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di una delegazione del Regno dei Paesi Bassi guidata dal Ministro della Tutela Giuridica, Sander Dekker. Accolta dal capo del DAP Bernardo Petralia - che ha aperto i lavori portando il saluto della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, in questi giorni all’estero per impegni istituzionali - la delegazione olandese ha partecipato a un seminario appositamente incentrato sui temi della gestione dei detenuti appartenenti al circuito dell’alta sicurezza, con particolare riguardo al regime dell’art. 41-bis dell’Ordinamento Penitenziario, all’organizzazione del sistema delle videoconferenze e ai reclami giurisdizionali dei detenuti. Per il DAP sono intervenuti il Direttore generale dei detenuti e del trattamento, Gianfranco De Gesu, il Direttore dell’ufficio alta sicurezza, Caterina Malagoli, e la Responsabile del servizio reclami giurisdizionali, Iole Moricca. Al termine dell’incontro, la delegazione ha visitato la Sala Situazioni del Dipartimento, dove ha potuto visionare il sistema di monitoraggio in tempo reale di tutta la popolazione detenuta negli istituti penitenziari, nonché la Sala controllo del servizio delle multi-video conferenze. Successivamente, la delegazione è giunta alla Casa circondariale “Raffaele Cinotti” di Roma Rebibbia dove, accompagnati dalla direttrice Rosella Santoro e dal Direttore del Gruppo operativo Mobile, Mauro D’Amico, ha visitato il reparto dove sono ristretti i detenuti sottoposti al regime speciale del 41-bis. 41-bis, Iannazzo era gravemente malato e muore. Ora il regime duro “rischia” di vacillare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 novembre 2021 Vincenzino Iannazzo è morto venerdì scorso, era stato fatto rientrare in carcere al 41 bis, dopo il decreto antiscarcerazioni. Alla fine Vincenzino Iannazzo è morto. Era detenuto al 41 bis nonostante il suo gravissimo stato di salute accertato in diverse sedi. Parliamo di uno dei tre detenuti al carcere duro fatti rientrare in carcere, strappandolo dalla detenzione domiciliare concessa per motivi umanitari ai tempi dell’imperversare della pandemia. Rientrò in carcere dopo il decreto “antiscarcerazioni” - Il suo rientro in carcere è dovuto al cosiddetto decreto “antiscarcerazioni” emanato dall’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a causa delle pressioni dei mass media, come il programma Non è L’Arena di Massimo Giletti e un articolo de L’Espresso a firma di Lirio Abbate, che avevano creato un caso inesistente. Ricordiamo che Iannazzo non è stato l’unico detenuto morto una volta fatto rientrare in carcere. Mentre avvenivano i pestaggi, documentati su questo giornale, i mass media erano concentrati a cavalcare la polemica della concessione della detenzione domiciliare per gravi motivi di salute, tanto che l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, appunto, in fretta e furia con un decreto ha fatto rientrare tutti i detenuti incompatibili con il carcere. Alcuni di loro, al rientro sono morti. Era incompatibile con il regime carcerario, ma è rimasto al 41 bis - Ma Iannazzo è un caso ancor più particolare. Il Dubbio ha seguito la sua via crucis, partendo dalle mosse dei familiari con le continue istanze puntualmente rigettate, l’attivismo dell’associazione Yairaiha Onlus e la relazione del responsabile sanitario del carcere di Parma dove c’è scritto nero su bianco che non riescono ad assisterlo adeguatamente. Il carcere, soprattutto quello duro, è risultato, sulla carta, incompatibile. Ma nonostante ciò vi è rimasto. Non solo aveva gravi patologie che poi si sono rivelate purtroppo fatali, ma al 41 bis è stato lasciato a sé stesso disorientato nel tempo e nello spazio a causa della sua demenza. E pensare che la stessa Corte d’Appello di Catanzaro, a seguito di perizia del Ctu, dichiarò che Iannazzo era compatibile al regime carcerario esclusivamente in una struttura di medicina protetta come il Belcolle di Viterbo e non già con il regime detentivo ordinario. Quindi figuriamoci il 41 bis. Lo stesso perito del giudice che l’ha visitato ha segnalato che l’uomo è “scarsamente curato nella persona e nell’abbigliamento”. Ha annotato che l’attitudine generale è dimessa. La mimica è molto contenuta. La memoria recente appariva deficitaria. Ma il giudice, nonostante ciò, aveva rigettato l’istanza per il differimento pena. Aveva ottenuto la detenzione domiciliare per l’emergenza Covid-19 - Ricordiamo che Vincenzino Iannazzo era andato ai domiciliari nel periodo di aprile/maggio del 2020, causa emergenza Covid-19 perché, in quanto trapiantato renale, per lui il virus sarebbe potuto essere fatale. Già nel breve frangente in cui è rimasto a casa, i familiari si erano accorti che non era più in lui avendo dei comportamenti strani: non riconosceva sua moglie, parlava con la televisione, non riusciva a usare correttamente i sanitari. Poi arrivano le polemiche e viene fatto rientrare al carcere di Viterbo, da lì trasferito a quello di Parma. Gli era stato assegnato unicamente un piantone con assistenza in cella per la pulizia della stessa. Il medico responsabile sanitario del centro clinico all’interno del super carcere parmense aveva lanciato l’allarme: segnalò la criticità che persiste al centro, denunciando la difficoltà oggettiva nell’assistere h24 quei detenuti che richiedono tale assistenza. Il rientro in carcere di Vincenzino Iannazzo è diretta conseguenza del populismo penale - Nell’ennesima segnalazione dell’associazione Yairaiha Onlus al ministero e al Dap, si legge: “Qual è il senso del regime detentivo?”. Venerdì scorso arriva la notizia ufficiale. Una morte, in realtà, annunciata: Iannazzo muore in ospedale, sempre in regime di 41 bis. “La morte di Iannazzo - denuncia l’associazione Yairaiha - era già scritta nella sua patologia. Non era scritto, e non doveva essere scritto, invece, che venisse abbandonato a se stesso in regime di 41 bis, nonostante le gravissime condizioni di salute da più parti certificate e ampiamente documentate. Abbiamo lottato al fianco dei familiari per più di un anno. Un anno di rinvii e rimpalli di competenze da un ufficio all’altro per evitare che Vincenzino Iannazzo venisse trattato da uomo gravemente malato quale era, irreversibilmente terminale”. La battaglia dell’associazione Yairaiha Onlus - Prosegue l’associazione: “Giudici, periti e funzionari hanno fatto a gara per trovare il cavillo che gli permettesse di tenere in carcere un uomo che, evidentemente, non poteva e non doveva più starci. Ma i medici che lo hanno avuto in cura sono stati chiari: “compatibile con il carcere a patto che venga assistito 24 h su 24 e in regime ordinario”, scrivevano a Viterbo; “il SAI di Parma non è in grado di garantire le cure intensive di cui necessita né al sig. Iannazzo né agli oltre 200 detenuti anziani e gravemente ammalati disseminati nelle varie sezioni”, è stato scritto, nero su bianco, dal dirigente sanitario del carcere di Parma”. Aggiunge Yairaiha Onlus: “L’isolamento forzato era uno degli elementi assolutamente negativi e accelerante il processo degenerativo. Le sue condizioni, oltre che documentate, erano evidenti. Una lenta agonia, nell’isolamento del 41 bis, priva di qualsiasi cura e soprattutto senza alcun conforto affettivo. Mesi e mesi senza la possibilità di vedere i familiari a causa del lockdown e quando li ha rivisti non li riconosceva più. Iannazzo è stato “ricoverato” in ospedale lo scorso settembre, dopo la nostra ennesima (la settima) segnalazione alle autorità competenti e a qualche parlamentare (con la speranza che si facessero carico della sua situazione) ma ormai era tardi! Tardi per qualsiasi terapia che gli potesse alleviare le sofferenze e restituire la dignità; tardi per avere riconosciuta la sua condizione irreversibile di uomo ammalato”. Conclude amaramente Yairaiha: “Iannazzo è spirato così: sorvegliato a vista in un’ala isolata dell’ospedale di Parma dove non passa quasi nessuno, nonostante fosse ormai incapace di intendere, di volere e di interagire con chiunque. Gli è stato impedito di ricevere un ultimo abbraccio dalla moglie e dai figli. Giustizia è fatta? È questa la Giustizia? Sarà, ma ha il volto della tortura. Il nostro abbraccio ideale va alla signora Grazia e ai figli, Giovanni e Alessandro che fino all’ultimo hanno creduto nella Giustizia. È la giustizia che non ha creduto in loro”. Il tragico caso, però, potrebbe non finire qui. Ci sono tutti gli estremi per una denuncia, visto le continue segnalazioni del suo stato di salute incompatibile con il 41 bis. È stato legittimo applicargli questo regime concepito per uno scopo ben preciso, ovvero quello di evitare che un boss possa dare ordine all’esterno e al proprio gruppo criminale di appartenenza? Una persona in simili condizioni psico fisiche, con allucinazioni, può davvero essere un pericolo tanto da giustificare il regime duro? Basta un’altra pronuncia della Corte Europea come fu con Provenzano e il 41 bis “rischia” di essere smantellato. La colpa sarà da ricercare in questo ennesimo abuso che ha portato alla morte e da chi reclama ancora più restrizioni. Trasferimento d’urgenza: il Csm “punisce” il magistrato di sorveglianza Riccardo De Vito di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 novembre 2021 L’ex presidente di Md è stato trasferito al tribunale di Nuoro come giudice civile per un’intercettazione. Protagonista della magistratura di sorveglianza, finì nell’occhio del ciclone per i domiciliari a Zagaria. Sul magistrato di sorveglianza Riccardo De Vito, per il solo fatto di essere stato intercettato mentre parlava al telefono con un’avvocata, controllata con un trojan perché indagata, il Consiglio superiore della magistratura ha aperto un procedimento disciplinare e lo ha trasferito d’urgenza al tribunale di Nuoro come giudice civile. Si ritiene che il contenuto della telefonata sia sconveniente. Nessuna rilevanza penale nella conversazione, quindi, ma sembra che questo intervento del Csm sia legato a un discorso morale. Eppure parliamo di un magistrato di sorveglianza, dal 2016 presidente di Magistratura Democratica, riconosciuto dagli addetti ai lavori per la sua serietà e scrupolosità nell’adottare i provvedimenti nel rispetto della legge e soprattutto facendo valere i principi fondamentali della Costituzione italiana. De Vito, classe 1973, è un magistrato che svolge anche un lavoro intellettuale non indifferente. Ha contribuito soprattutto nel dibattito relativo all’ergastolo, il fine pena mai. Tema divisivo soprattutto all’interno della magistratura, ma che trova - tranne casi eccezionali, anche se di peso perché massmediatici - uniti tutti i togati progressisti e liberali. Non solo ergastolo, ma anche il tema del diritto alla salute nelle carceri, la detenzione come extrema ratio e tutte quelle leggi che rendono vana la funzionalità della pena. Temi che il magistrato De Vito affronta nelle riviste specializzate e nei convegni. Lo stesso De Vito, da militante di Md, non ha mai nascosto il suo disagio rispetto alla sinistra italiana che, di fatto, ha snobbato la questione carceraria fino a promuovere tesi che un tempo appartenevano al patrimonio delle destre. Ma pensare che sia un magistrato di sorveglianza che conceda benefici ai detenuti a prescindere si sbaglia di grosso. Molto spesso con i suoi provvedimenti ha respinto le richieste dei difensori, anche - trapela da L’unione Sarda - del legale della telefonata incriminata. Eppure, lui è stato uno dei protagonisti della magistratura di sorveglianza messa sotto accusa per aver concesso detenzioni domiciliari per motivi di salute a diversi detenuti dell’alta sicurezza e tre del 41bis. De Vito finì nell’occhio del ciclone per aver concesso, da giudice del tribunale di sorveglianza di Sassari, la detenzione domiciliare a Pasquale Zagaria, fratello del capoclan Michele. Poiché tutti i penitenziari della Sardegna erano stati trasformati in strutture Covid, De Vito aveva chiesto al Dap di individuare una sede alternativa dove Pasquale Zagaria potesse curare la patologia tumorale di cui era affetto. Zagaria, scrisse De Vito nell’ordinanza, avendo un tumore, avrebbe dovuto sottoporsi al previsto “follow-up diagnostico e terapeutico”. Al carcere di Bancali, però, a causa dell’emergenza sanitaria in atto, tali operazioni non sarebbero state garantite. Ma non solo: la patologia di Zagaria era tra quelle “che lo espone maggiormente al rischio di infezione”. Il giudice nel suo provvedimento aveva sottolineato poi di avere inviato una richiesta al Dap per capire “se fosse possibile individuare un’altra struttura penitenziaria dove effettuare il “follow-up”, ma non è pervenuta nessuna risposta, neppure interlocutoria. Un addetto della cancelleria del Tribunale di Sassari, si scoprì a posteriori, aveva sbagliato l’indirizzo mail del Dap e, pertanto, la comunicazione non era mai arrivata a destinazione. Di conseguenza l’amministrazione penitenziaria non aveva potuto rispondere e De Vito aveva dunque disposto la scarcerazione. Ad aprile del 2020 Zagaria aveva lasciato il carcere di Bancali ed era stato trasferito a Pontevico, vicino Brescia dove era stato programmato il piano terapeutico Per tale detenzione domiciliare era stata individuata l’abitazione di un familiare. Le polemiche per tale scarcerazione - nonostante l’impeccabile ordinanza emessa dal giudice De Vito - furono feroci: oltre ad una accesa campagna mediatica, numerose erano state le interrogazioni parlamentari che avevamo messo in pericolo la poltrona dello stesso Guardasigilli Alfonso Bonafede. A quel punto, venne varato il famoso “decreto antiscarcerazione”. Rientrarono quasi tutti in carcere, compreso Zagaria, e alcuni poi moriranno. Uno dei tre detenuti al 41 bis, rientrati in carcere a seguito del decreto Bonafede, come si legge oggi su Il Dubbio, è morto. Parliamo di Vincenzino Iannazzo. Il magistrato Riccardo De Vito, nel caso di Zagaria (tra l’altro scarcerato per fine pena a marzo scorso), ha agito nel profondo rispetto del suo mandato istituzionale, ovvero tutelare dignità e umanità della pena in un’ottica di bilanciamento con le esigenze di sicurezza pubblica. Ora, per la famigerata telefonata, sta subendo un procedimento disciplinare. Si ha la percezione, si spera errata, che ci sia una attenzione particolare per tutti quei magistrati non allineati a un concetto fortemente reazionario della pena. Trasferito il magistrato De Vito, scarcerò Pasquale Zagaria di Angela Stella Il Riformista, 16 novembre 2021 Il giudice di sorveglianza da Sassari a Nuoro: “incompatibilità ambientale”. La decisione per una telefonata intercettata con un avvocato sotto indagine. Il Csm ha aperto un procedimento disciplinare. Il dottor Riccardo De Vito, magistrato di sorveglianza e ex Presidente di Magistratura Democratica fino a qualche mese fa, è stato trasferito dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari in un altro ufficio del settore civile a Nuoro. A darne notizia è stata l’Unione Sarda: all’origine di tutto una telefonata intercettata tra lui e un avvocato penalista sotto indagine, con un trojan inoculato nel telefono. Non si conoscono i dettagli della conversazione ma appena il Csm è stato informato del contenuto dell’intercettazione ha disposto il trasferimento per “incompatibilità ambientale” e aperto un procedimento disciplinare nei confronti di De Vito. Come è noto il Tribunale di Sorveglianza di Sassari è competente per le richieste di benefici dei reclusi nel carcere di Bancali, che ospita molti detenuti al 41-bis. Secondo l’Unione Sarda, essendo l’avvocato intercettato legale di alcune persone rinchiuse al carcere duro, probabilmente l’oggetto della chiamata potrebbe riguardare una richiesta di differimento pena o di altri benefici. Ma siamo nel campo delle ipotesi. Quello che si è appurato fino ad ora è che è stato lo stesso dottor De Vito a richiedere il trasferimento a Nuoro appena interpellato dal Csm. Ha già dato mandato ad un suo collega che lo assisterà dinanzi alla sezione disciplinare e ha fatto sapere che non ha concesso favoritismi, anzi in passato ha respinto anche delle richieste del legale. Comunque parlerà a tempo debito a Palazzo dei Marescialli. Le persone che lo conoscono si dicono profondamente dispiaciute per lui sul piano umano e professionale e confermano la stima nei suoi riguardi. L’associazione radicale Nessuno tocchi Caino “conosce de Vito e gli manifesta piena fiducia e stima. Ha partecipato al nostro ultimo Congresso nel carcere di Opera a Milano e lo abbiamo invitato anche al prossimo del 17 e 18 dicembre. È un magistrato che rivendica autonomia e indipendenza della magistratura dal potere politico ma non accetta che la giurisdizione si spinga oltre i suoi confini, sconfinando in ambiti non propri. In uno splendido intervento ha spiegato come “solo un magistrato di sorveglianza vicino ai detenuti può essere in grado di agire come vero mediatore tra il potere che punisce e l’essere umano che cerca di rieducarsi”. Insomma un magistrato che se chiamato a decidere la scarcerazione di un boss per motivi di salute non ha dubbi: al cupo e maldicente mormorio delle Erinni preferisce l’ascolto della sua coscienza specchio della legge fondamentale che considera sacro il diritto alla salute di ogni individuo”. Quello che viene da pensare, anche se non lo si può dimostrare, è che il dottor De Vito sia stato in qualche modo punito per il modo in cui ha gestito il caso di Pasquale Zagaria. Come vi abbiamo raccontato da queste pagine De Vito l’anno scorso, durante i mesi più difficili della pandemia, ha autorizzato la detenzione domiciliare per motivi di salute a Pasquale Zagaria, fratello del capoclan dei casalesi. Ne sono nate polemiche feroci, soprattutto da parte di alcuni magistrati requirenti antimafia che sono andati in televisione a demonizzare questa scelta che invece era rispettosa dei principi costituzionali. Anzi, come ha stabilito un gip nei mesi successivi, Zagaria ha trascorso in carcere più mesi del dovuto, per un errato calcolo della pena. De Vito inoltre, insieme ad altri colleghi, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale nei confronti del decreto Bonafede anti-scarcerazioni. Ma Riccardo De Vito è anche colui che, in una delle numerose interviste su questo giornale, ha detto: “Non vi è dubbio che il paradigma culturale del buttare la chiave costituisca la questione da affrontare. [...] Sarebbe importante raccontare come mettere da parte gli strumenti dell’umanità della pena sia il più grande regalo che si possa fare, in termini di consenso, ai sodalizi criminosi. Ad agire così, poi gli si consegna il carcere in mano. Per questo, devo dire, mi ha fatto una certa impressione sentire autorevoli commentatori dire che “la legge è la legge, ma i mafiosi sono mafiosi”. Lo Stato di Diritto ha una sola parola e una sola legge per tutti, altrimenti si degrada, diventa meno credibile e più aggredibile”. A qualcuno non sono piaciute queste parole? Giustizia, il garantismo senza garanzie di Luigi Labruna La Repubblica, 16 novembre 2021 Cinque anni e cinque governi di svariati colori (Renzi - Gentiloni - Conte I - Conte II - Draghi) si son succeduti prima che l’Italia riuscisse a dare attuazione alla Direttiva europea 2016/243 sul “rafforzamento” di alcuni aspetti della “presunzione d’innocenza” delle “persone fisiche” accusate o imputate di un crimine. La Costituzione, com’è noto, prevede già la “presunzione di non colpevolezza” sino a condanna “definitiva” dell’indagato o imputato, ma quella presunzione si è rivelata più “nominale” che reale. Soprattutto a causa del frequente distorsivo affiancarsi ai processi ordinari (specie a quelli in cui sono coinvolti politici o personaggi famosi) di invasivi processi mediatici, frutto avvelenato, in apparenza, della sacrosanta libertà di stampa ma, in realtà, spesso innescati da impropri comportamenti di magistrati, soprattutto inquirenti. Che, per far carriera, scendere in politica o per insipienza, fanno dichiarazioni o redigono atti (che poi arrivano miracolosamente ai media) in cui esprimono giudizi di disvalore e di colpevolezza sugli indagati o imputati esponendoli, ben prima del definitivo giudizio, alla pubblica gogna. E, del resto, anche la normativa sugli illeciti disciplinari dei magistrati, che attribuisce ai capi delle Procure la responsabilità delle pubbliche comunicazioni, rivela (lo ha ben sottolineato il pm Melillo) “una discreta dose di rassegnata ipocrisia, nulla dicendo sul quomodo”. Le nuove norme estendono i divieti a ogni “autorità pubblica” e introducono, tra l’altro, il diritto a chiedere “la rettifica della dichiarazione” all’autorità in questione che, se la ritiene fondata, deve farlo “non oltre 48 ore” con le stesse modalità dell’indebita asserzione. Se non lo fa, l’interessato può chiedere al tribunale di ordinarlo ex art.700 cpc. Queste e le altre nuove norme non comportano, certo, grandi innovazioni. Cercano tuttavia di incoraggiare un recupero di eticità e responsabilità in coloro che svolgono un’attività giurisdizionale o comunque istituzionale e, insieme, di promuovere una più incisiva tutela dei diritti di libertà. Segnali normativi entrambi positivi in un momento opaco come l’attuale in cui anche i democratici, ingessati sui populisti, esitano e si ritraggono dal sano garantismo. Niente tassa, niente giustizia di Aldo Fabozzi Il Manifesto, 16 novembre 2021 Una norma a sorpresa nella legge di bilancio subordina l’iscrizione a ruolo delle cause al versamento del contributo unificato. Per gli avvocati è un ritorno al medioevo. Ma anche per la maggioranza la novità va corretta. L’articolo 192 della legge di bilancio, finalmente arrivata in senato, contiene una sorpresa: d’ora in poi se non si prova il pagamento per intero e correttamente del contributo unificato (che è la tassa che sui ricorsi civili, amministrativi e tributari) la causa non può essere iscritta a ruolo. Siccome per i ricorsi ci sono quasi sempre dei termini tassativi da rispettare, questo vuol dire che il diritto alla giustizia è subordinato al pagamento. Fino ad ora, anche da quando una ventina d’anni fa è stata introdotta questa tassa spesso molto alta come forma di deterrente e per fare cassa, la causa è stata sempre e comunque iscritta a ruolo. Al ricorrente insolvente viene notificato un invito a mettersi in regola o una cartella esattoriale. Anche perché il calcolo del contributo non è semplicissimo: in alcuni casi è escluso, in altri è dovuto in misura ridotta, qualche volta è dovuto in misura fissa e qualche altra volta è legato al valore della causa (che non sempre è conoscibile in partenza). La novità contenuta nella legge di bilancio ha sollevato immediate proteste degli avvocati. Sulle spalle dei quali probabilmente finirà col pesare, perché per avviare il ricorso saranno obbligati a fornire la prova del versamento, quindi ad anticipare la somma dovendosi poi rivalere sui clienti. “L’accesso alla giurisdizione deve essere assicurato a tutti, senza discriminazioni di censo - ha detto il presidente dell’Organismo congressuale forense, Malinconico - chi ha meno disponibilità economiche potrebbe rinunciare a chiedere giustizia, è il Medioevo”. “Il fine è chiaro: arginare, limitare, inibire l’accesso alla giustizia a scapito dei più deboli e caricare di ulteriori responsabilità l’avvocatura”, ha aggiunto la presidente del Consiglio nazionale forense, Masi. Reagiscono anche le forze politiche. Di opposizione, come Fratelli d’Italia che con il responsabile giustizia Delmastro chiede un’immediata correzione della “peggiore stortura della storia della giustizia italiana”. Ma anche di maggioranza. Contrario il M5S che con i capigruppo in commissione giustizia e bilancio della camera invitano a pensare “a cosa potrebbe accadere se i contributi unificati non potessero essere pagati per un qualsiasi problema con le marche telematiche e il portale per i versamenti”. Chiedono un ripensamento anche i due presidenti delle commissioni giustizia, il deputato Perantoni dei 5 Stelle e il senatore Ostellari della Lega per il quale “la tutela dei cittadini non può essere sottoposta a veti burocratici”. Per la responsabile giustizia del Pd, Rossomando, “vanno valutate modifiche al testo”. Cosa che a questo punto sembra inevitabile. Nello Rossi: “Le intercettazioni irrilevanti andrebbero stralciate” di Davide Varì Il Dubbio, 16 novembre 2021 Il direttore di Questione Giustizia Nello Rossi: “Pericoloso se il Csm lasciasse Davigo in carica anche dopo che sarà entrato in quiescenza”. Parla il direttore di Questione Giustizia: “Le intercettazioni irrilevanti per l’accertamento dei fatti oggetto del processo penale non dovrebbero né circolare né essere divulgate”. “Le intercettazioni irrilevanti per l’accertamento dei fatti oggetto del processo penale non dovrebbero né circolare né essere divulgate. Sulla base della normativa in vigore, in particolare di quanto previsto dall’articolo 268 del Codice di Procedura Penale, le intercettazioni irrilevanti ai fini del processo dovrebbero essere puramente e semplicemente stralciate e riposte poi nell’archivio delle procure”. Ne parla con l’Adnkronos Nello Rossi, magistrato e direttore di Questione Giustizia, rivista promossa da Magistratura democratica che aggiunge: “Lo stralcio avviene all’esito di una procedura regolata dalla legge e svolta dal Gip in contraddittorio tra le parti. Se si tratta di intercettazioni coperte dal segreto si incorre nel reato di violazione del segreto d’ufficio sanzionato severamente dall’articolo 326 del Codice penale”. “Mi limito a ricordare l’abc in una materia molto complessa, oggetto di numerosi interventi anche recenti del legislatore nella ricerca di un difficile equilibrio tra le esigenze proprie del processo e della sua pubblicità e quelle della tutela di tutte le parti coinvolte nella procedura”, prosegue il direttore del periodico di Magistratura democratica, citando, a proposito delle intercettazioni irrilevanti, l’articolo 268, comma 6, del codice di rito: “….il giudice dispone l’acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche indicati dalle parti, che non appaiano irrilevanti, procedendo anche di ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione e di quelli che riguardano categorie particolari di dati personali, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza”. “Dunque sostanzialmente intercettazioni irrilevanti da pubblicare non ce ne dovrebbero più essere - sottolinea Rossi - perché sono state preventivamente stralciate”. Inoltre, nel Codice di procedura (articolo 114 comma 2 bis) è stato aggiunto, nel 2019, un divieto assoluto di pubblicazione, anche parziale, del “contenuto” delle intercettazioni non acquisite in conformità alle regole processuali. E se invece vengono divulgate? “Se si tratta di intercettazioni coperte dal segreto si incorre nel reato di violazione del segreto d’ufficio sanzionato severamente dall’articolo 326 del Codice penale”, risponde il Magistrato. Diverso trattamento invece per quelle rilevanti e non più coperte dal segreto: del loro contenuto “si può dare notizia, ma ad esse si applicano i divieti di pubblicazione in versione integrale di cui all’articolo 114 del codice di procedura penale, che sono calibrati sulle diverse fasi del processo e si esauriscono con il suo progredire. Il punto debole del sistema in quest’ultimo caso - spiega - è che la sanzione per il divieto di pubblicazione è molto modesta. L’articolo 684 del Codice penale prevede una pena minima di arresto ed ammenda suscettibile di oblazione, che fa estinguere il reato con il pagamento di una somma denaro. Non sta a me dire se queste sanzioni debbano essere aumentate - conclude il Magistrato - ma è evidente che la loro deterrenza ed efficacia dissuasiva è assai ridotta”. Di Matteo accusa: bande (paramafiose) si sono impadronite della magistratura di Piero Sansonetti Il Riformista, 16 novembre 2021 L’accusa del membro del Csm: si sono formate delle cordate, anche trasversali rispetto alle correnti, attorno a un procuratore o a un magistrato molto autorevole, composte da ufficiali della polizia giudiziaria e altre persone estranee alla magistratura. Nino Di Matteo, membro del Csm ed ex Pm di grande fama, ha lanciato delle accuse devastanti alla magistratura italiana. Molto, molto più delegittimanti di quelle che in questi anni di Riformista siamo riusciti a lanciare noi. Trascrivo qui le sue dichiarazioni testuali e poi faccio un’osservazione: “Io temo che, soprattutto negli ultimi anni, si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l’attività del Consiglio superiore della magistratura e dell’intera magistratura...Con l’appartenenza alle cordate vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera e l’avversario diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare... La logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose, è il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura”. Bene, pensateci un momento. Dopo le accuse di Palamara, dopo quelle di Storari e dopo questo atto furibondo di accusa, può il parlamento far finta di niente e non aprire un’inchiesta per accertare se ai vertici della magistratura sia rimasto qualcosa di non illegale e sovversivo? Voi sapete chi è Nino Di Matteo. Uno dei magistrati più importanti di Italia, piuttosto amato dai giornali e dalle Tv, temuto, membro autorevolissimo del Consiglio superiore della magistratura, ex davighiano. Questo giornale molto spesso lo ha attaccato frontalmente, specialmente per le vicende palermitane. Qualche volta invece lo ha sostenuto, perché ogni tanto è lui il solo che dice al re: “maestà, sei nudo”. Lo ha fatto per esempio quando in magistratura e in politica si faceva a gara a nascondere il famoso dossier Storari, quello che rivelava l’esistenza della Loggia Ungheria. Fu lui a denunciare l’insabbiamento. L’altra sera Di Matteo si è fatto intervistare da Andrea Purgatori su La7. Trascrivo qui alcune frasi che ha pronunciato e che mi hanno fatto saltare sulla sedia: “Io temo che, soprattutto negli ultimi anni, si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l’attività del Consiglio superiore della magistratura e dell’intera magistratura... Con l’appartenenza alle cordate vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera e l’avversario diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare... La logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose, è il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura”. Vi rendete conto? A me ogni tanto mi accusano di essere uno che attacca la magistratura in modo generico e insolente. Ma io non ho mai osato dire o scrivere cose così drammaticamente pesanti. In confronto a Di Matteo sono un timido chierichetto. Di Matteo dice che la magistratura è governata da bande, organizzate in cordate secondo il metodo mafioso. Francamente è andato molto oltre le accuse sanguinose lanciate da Palamara nel libro famoso scritto con Alessandro Sallusti (Il Sistema). Di Matteo sostiene che esistono delle cordate, o forse Logge (anche se lui non usa questo termine) composte, se capisco bene, da magistrati, alti ufficiali di polizia, alti militari, politici, forse giornalisti, gente di potere, tutti radunati attorno a un magistrato molto potente, e che queste cordate fanno poi il bello e il cattivo tempo ai vertici della magistratura, ne decidono gli assetti, le linee guida, immagino anche la collocazione politica. Di Matteo non fa nomi, però il ritratto di quel Procuratore amico della polizia giudiziaria e di altri, diciamo la verità, è un ritratto abbastanza preciso, e chiunque abbia un po’ seguìto i fatti recenti della magistratura può facilmente identificarlo. Sì, capisco, vorreste che scriva qui il suo nome. Ma voi sapete a quante querele da parte di alti magistrati io sono arrivato da quando dirigo il Riformista? Credo 22, più le cause civili. Meglio non fare i nomi, se non lo fa Di Matteo. Però ragioniamo un po’ sulle cose che lui ha detto. E proviamo a trarre le conseguenze che Di Matteo, per ora, non ha voluto trarre. Anche ponendo delle domande a Di Matteo. La prima domanda è questa: ma le vittime di questo sistema completamente illegale, e che contraddice clamorosamente il principio dell’indipendenza della magistratura, sono solo i magistrati che -restando al di fuori di correnti e cordate e metodi mafiosi- non riescono a fare carriera, oppure sono anche gli imputati? Ogni volta che si parla di Giustizia e di magistratura si pensa ai magistrati e agli equilibri al loro vertice. Ma i magistrati non è che quando lavorano vendono il pesce. Fanno una cosa diversa: decidono chi indagare e poi chi rinviare a giudizio, e poi chi condannare e chi assolvere. I veri protagonisti, i “fruitori” della giustizia, sono gli imputati. Dopo aver letto le parole di Di Matteo, che fiducia possono avere, gli imputati, sulla equanimità della magistratura? A me questo sembra il punto decisivo. Però, ogni volta che lo tocco, discutendo anche con magistrati dissidenti e fuori dai circoli del potere, sento di aver toccato dei fili elettrici che è proibito toccare. Io vi devo dire la verità: in fondo non mi importa molto se il procuratore di Potenza sarà il dottor X o il dottor Y, né voglio sapere chi e perché diventerà aggiunto a Bologna, e nemmeno chi andrà alla procura nazionale antimafia. Mi interessa sapere, invece, se il signor Rossi subirà un giusto processo. E mi chiedo che cosa possa succedere al signor Rossi se il Pm, il Gip e poi il Presidente della Corte che lo giudicherà appartengono alla stessa corrente, o addirittura alla stessa cordata, cucita con metodi mafiosi. Non vi pare una domanda legittima? Non sarebbe giusto se i magistrati che oggi iniziano a denunciare le storture del nostro sistema, e la forza di sopraffazione ai vertici, si ponessero anche questo problema, senza per questo dover essere accusati di eccesso di garantismo? La seconda domanda che vorrei porre a Di Matteo riguarda le riforme. Ho letto che lui è molto arrabbiato con la ministra Cartabia per i piccoli aggiustamenti che sta realizzando, per esempio, sulla prescrizione o sulla presunzione d’innocenza (ma quella sulla presunzione di innocenza è una direttiva europea che non può essere aggirata). Ok, ognuno ha le sue idee. Ma dopo la sua denuncia, e dopo la denuncia di Palamara, e dopo la denuncia di Storari, è giusto o no porsi il problema dell’autogoverno della magistratura? Di Matteo ci fa capire che l’autogoverno della magistratura non esiste: la magistratura - dice - è governata da oscure. Benissimo, ma allora è giusto o no stabilire dei sistemi di controllo democratico, che impediscano a logge e cordate di impadronirsi in modo illegittimo e sovversivo del terzo potere dello Stato (forse ormai il primo…) e restituiscano al sistema democratico, e dunque non alla corporazione, il potere di controllo e in questo modo assegnino davvero al singolo magistrato la sua indipendenza, che oggi spesso non ha, perché espropriata da correnti e cordate? In sostanza, a me pare che non abbia senso immaginare un nuovo Consiglio superiore della magistratura di nuovo a grande maggioranza di togati. Occorre modificare la Costituzione. La terza domanda riguarda i processi politici. Ce ne sono stati centinaia e centinaia, in questi anni. Hanno coinvolto anche i leader dei partiti, distruggendone qualcuno. Se la magistratura è davvero dominata dalle cordate, è legittimo immaginare (come ha immaginato Palamara) che molti processi politici siano studiati a tavolino per ragioni che c’entrano poco o niente con la giustizia? L’Anm chiede i danni a Palamara: “Leso il prestigio dei magistrati” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 novembre 2021 Via al processo per corruzione contro l’ex pm. Il sindacato delle toghe: noi parte offesa. È la prima volta. Il nodo dell’imparzialità dei giudici. Offesi nella reputazione e nell’immagine, i magistrati italiani chiedono i danni al loro ex collega Luca Palamara in un’aula di giustizia. La “portata lesiva” dei reati contestati al loro ex collega, sostengono, è “destinata a riflettersi sull’immagine e la reputazione della magistratura nel suo complesso, e sull’Associazione che la rappresenta pressoché totalitariamente”; per questo motivo, alla prima udienza del processo a carico dell’ex presidente dell’Anm radiato dall’ordine giudiziario e imputato di corruzione, il sindacato delle toghe chiede di costituirsi parte civile. L’avvocato Francesco Mucciarelli consegna al tribunale l’atto formale in cui ha scritto: “Il comportamento specifico posto in essere e contestato al dottor Palamara, anche in considerazione del ruolo rivestito dallo stesso all’interno della magistratura, si pone in assoluto contrasto con i principi che governano l’agire del magistrato e rappresenta fonte di danno diretto per l’Anm”. E ancora: “La gravità e la numerosità dei fatti penali addebitati al dottor Palamara, inscindibilmente legati al contestato abuso della sua qualità di appartenente alla magistratura, unitamente al ruolo di spicco rivestito sia all’interno dell’Anm sia di componente del Csm, nonché di magistrato in servizio alla Procura di Roma, si riverbera direttamente in modo negativo ed è fonte diretta di danno in relazione ai prestigio, all’indipendenza e al rispetto caratteristici della funzione giudiziaria, oggetto di tutela da parte dell’Anm”. Una sorta di atto d’accusa aggiuntivo che si somma a quello sostenuto dalla Procura di Perugia - schierata in aula con il procuratore Raffaele Cantone e i sostituti Mario Formisano e Gemma Miliani, come avevano già provveduto a fare la presidenza del Consiglio, il ministero della Giustizia e lo stesso Csm, rappresentati dall’Avvocatura dello Stato. Palamara in aula non c’è, è rimasto a Roma in isolamento fiduciario, e della richiesta dell’Anm si discuterà alla prossima udienza fissata al 15 marzo 2022 (un tempo lungo per la necessità di sostituire uno dei tre giudici, destinato ad altro incarico). Ma da casa fa notare quello che considera un accanimento particolare: “Per la prima volta Anm e Csm si sono costituite nei confronti di un magistrato a differenza di quello che accade ad esempio in relazione ad altre vicende, come quelle milanesi sui verbali della loggia Ungheria”. Per quei fatti un processo ancora non c’è, e Palamara è accusato di aver messo a disposizione del lobbista Fabrizio Centofanti (che per questo lo avrebbe ricompensato con viaggi, cene e altre “utilità”) proprio le sue funzioni di leader dell’Anm, oltre che di pm e di consigliere del Csm. Situazioni diverse, quindi, rispetto alla presunta loggia Ungheria o altre storie. Ma la questione rilevante e inedita potrebbe essere un’altra: è legittimo che un tribunale composto da giudici a loro volta rappresentati dall’Anm, processi un imputato contro cui s’è costituita la loro stessa Associazione? Si può essere considerati imparziali e “terzi” se il proprio “sindacato di categoria” è schierato al fianco dell’accusa? Secondo l’Anm sì perché in gioco c’è la difesa di valori generali e la rappresentanza collettiva, non quella dei singoli magistrati (tantomeno quelli chiamati a giudicare), che peraltro non avrebbero da rivendicare interessi o risarcimenti personali. Tuttavia è probabile che i difensori di Palamara porranno la questione, quando se ne parlerà. Un processo destinato a cominciare con qualche scintilla, dunque. E altre ce ne saranno. Da tempo Palamara ripete che “il dibattimento sarà il luogo per chiarire la vicenda”, e ieri ha aggiunto: “Ancor più dopo l’ammissione delle riprese audio e video in aula, per spiegare a magistrati e opinione pubblica come sono andate realmente le cose. A partire dal funzionamento del trojan”. Il virus che trasformò il telefonino dell’ex magistrato in una microspia che ne registrava ogni movimento e ogni discorso, fu inserito per ipotesi di corruzione che poi si sono modificate - e in parte ridimensionate - nel corso delle indagini. Ed è stato scoperchiato lo scandalo che ha travolto il Csm. Alla fine l’accusa riguarda la “capacità e disponibilità” ad acquisire informazioni su processi in corso (quelli di Centofanti, che ha patteggiato una pena di un anno e mezzo, e altri) nonché a “influenzare e/o determinare” decisioni e nomine del Csm. “L’assegno di disoccupazione spetta anche al detenuto che lavora in carcere” di Manuela D’Alessandro agi.it, 16 novembre 2021 “Il lavoro penitenziario non può consentire l’introduzione di un trattamento differenziato tra i detenuti e gli altri cittadini in materia di assicurazione contro la disoccupazione”. La sentenza è firmata da un giudice del lavoro di Milano e viene definita dal Garante dei detenuti “molto importante perché sancisce il principio che il lavoro dei reclusi è equiparato sotto tutti i punti di vista a quello dei cittadini liberi”. La “disoccupazione” spetta anche ai detenuti che lavorano dentro al carcere. Lo ha stabilito una sentenza del Tribunale del Lavoro di Milano che ha condannato l’Inps a corrispondere la Naspi, il sussidio dell’ente previdenziale per chi ha perso un impiego, a un ex carcerato che aveva svolto per quasi due anni la funzione di addetto alla consegna e alla gestione della spesa e come cuoco. Per il Garante “è una sentenza che fa chiarezza” - “È una decisione molto importante – commenta Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Milano - perché tante persone si erano viste negare questo fondamentale sostegno al reddito in seguito a una circolare del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, poi avallata dall’Inps nel marzo 2019. Ora viene fatta finalmente chiarezza su un punto inderogabile: al detenuto deve essere assicurato lo stesso trattamento economico e previdenziale cui hanno diritto i cittadini liberi e non è possibile occultare questo diritto con la ‘finzione’ che il lavoro penitenziario rientri nell’ambito di altre attività ‘ricreative’ che si svolgono all’interno del carcere. Il lavoro è lavoro per tutti”. Il rapporto tra l’uomo e l’amministrazione penitenziaria era cessato solo per il ‘fine pena’ e, in seguito, l’ex recluso aveva presentato domanda per l’indennità dimostrando, buste paga alla mano, che l’attività prestata era stata continuativa. Il riferimento alla Costituzione - Nella sentenza, il giudice Luigi Pazienza si richiama al principio che “il lavoro penitenziario non può consentire l’introduzione di un trattamento differenziato tra i detenuti e gli altri cittadini in materia di assicurazione contro la disoccupazione” citando gli articoli 35 e 3 della Costituzione sulla tutela del lavoro e sulla rieducazione del condannato. In sostanza, è la sintesi del magistrato, “non possono sussistere ragioni per escludere il diritto alla Naspi qualora ricorrano tutti i presupposti previsti dalla normativa specifica e non vi sono differenze tra lavoro penitenziario svolto all’interno alle dipendenze del Ministero e quello reso all’esterno in favore di un soggetto terzo”. “Il detenuto non ha diritto all’assegno di disoccupazione” di Diego Neri Giornale di Vicenza, 16 novembre 2021 “Il recluso che lavora per l’amministrazione non ha le medesime caratteristiche di chi lavora all’esterno, e nemmeno le stesse necessità”. Il detenuto che perde il posto di lavoro all’interno del carcere non ha diritto all’indennità di disoccupazione. Lo ha stabilito, con una sentenza che trova pochissimi precedenti in giurisprudenza, il tribunale del lavoro di Vicenza, che con il giudice Giulia Beltrame ha rigettato il ricorso presentato dagli avv. Capuzzo e Moro, per conto di P. S., immigrato dell’Est Europa, che aveva chiesto all’Inps la Naspi. Fra le ragioni della decisione il fatto che un recluso ha comunque diritto a vitto e alloggio gratuiti, e non ha la necessità stringente di arrivare alla fine del mese. La vicenda del detenuto è invero singolare. Recluso da vari anni, era stato ospite del carcere di Belluno, dove si era dato da fare ed aveva lavorato, dall’ottobre 2017 in avanti, alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria come imbianchino; un’opera per la quale era stato regolarmente retribuito. Nel giugno 2019, non per decisione sua, era stato trasferito alla casa circondariale di San Pio X, dove però non c’era bisogno delle sue prestazioni e dove P. S. non aveva più lavorato. Per questo aveva chiesto all’Inps il sussidio di disoccupazione, ma l’istituto (rappresentato in aula dall’avv. Tomasello) glielo aveva negato. Di qui il ricorso in tribunale. Il giudice ha in primo luogo ricordato, nella sentenza, che è un obbligo per l’amministrazione penitenziaria “favorire in ogni modo la destinazione dei detenuti al lavoro”, anche alla luce della Costituzione. Fra i vari tipi di impiego, quello interno, alle dipendenze dell’amministrazione, non ha molti posti a disposizione, e per questo è soggetto a criteri di avvicendamento, con una durata “fisiologicamente temporanea”. Il recluso, di fatto, è come se fosse stato trasferito da una sede di lavoro ad un’altra, la quale aveva necessità di riorganizzare i servizi dopo il suo arrivo. Non aveva cessato il rapporto di lavoro (uno dei prerequisiti per avere diritto all’assegno di disoccupazione), pur essendo assai particolare la sua condizione. Non solo. Come argomenta il giudice, vanno pesate “la peculiare funzione rieducativa del lavoro del detenuto... l’indifferenza di questo rapporto alle regole del libero mercato e l’assenza in capo al lavoratore detenuto di esigenze di sostentamento tipiche dell’individuo libero, elementi estranei al lavoro nella società libera che pongono in dubbio la necessità, in assenza di una specifica previsione in tal senso, di riconoscimenti della tutela economica contro la disoccupazione”. Di fatto, il recluso che lavora per l’amministrazione non ha le medesime caratteristiche di chi lavora all’esterno, e nemmeno le stesse necessità. Ragion per cui non ha diritto all’assegno negato correttamente dall’Inps. Niente liberazione anticipata se ci sono reati successivi ai semestri posti a base dell’istanza di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2021 La valutazione positiva del periodo di carcerazione subita può essere annullata da quella negativa sui nuovi delitti commessi. I reati commessi successivamente ai semestri in base ai quali si domanda la liberazione anticipata, possono incidere sul giudizio relativo al percorso di rieducazione, determinando il diniego del beneficio. Come spiega la Cassazione, con la sentenza n. 41358/2021, il “giudizio di valore” che può scaturire dai successivi reati - per natura ed entità - può negare rilevanza alla buona condotta e al ripensamento emersi durante i periodi di carcerazione già subita. Nel caso, in esame, il tribunale ha confermato il no alla concessione del beneficio maturato, in quanto il ricorrente aveva commesso tre nuovi reati a distanza di tempo, dimostrando la non reale dissociazione dall’abitudine a una vita criminale che lo aveva condotto in carcere per altri delitti risalenti e per cui aveva subito i periodi di carcerazione posti alla base dell’istanza di liberazione anticipata. Giustamente l’avvocato della difesa fa rilevare che non vi è alcun automatismo tra la commissione di un nuovo reato e il diniego nella concessione della libertà anticipata. Ma ciò non può rendere indifferente l’ordinamento giuridico rispetto a quelli che possono costituire sintomi del persistere di una condotta tendente al crimine. Per rafforzare il proprio orientamento interpretativo la Cassazione cita un proprio precedente in cui è stato affermato che anche il beneficio già concesso può essere negato retroattivamente se la condotta posta in essere dopo la liberazione anticipata dimostra la non effettiva partecipazione al precedente periodo di rieducazione. Detenuto ingiustamente va in depressione: dovrà essere risarcito di Tommaso D’Angelo cronachesalerno.it, 16 novembre 2021 “L’indennizzo del danno morale si somma al danno da ingiusta detenzione” è quanto ha sentenziato la Corte di Appello di Salerno - Sezione Penale - nell’esaminare il caso di A.U. che nel corso del processo penale aveva avanzato istanza di indennizzo oltre che per il danno da ingiusta detenzione (accusato di rapina, lesioni aggravate e sequestro di persona) anche per il danno morale patito in conseguenza del disagio psico/emotivo conseguente all’essersi visto ingiustamente privato della libertà personale; la richiesta danni veniva supportava da una relazione psicologica di parte attestante un serio disturbo depressivo. L’Avvocatura di Stato eccepiva l’infondatezza della pretesa avanzata soprattutto in relazione alla parte ulteriore rispetto alla liquidazione del danno relativo ai giorni di carcerazione. La Corte di Appello di Salerno accogliendo le argomentazioni dall’avvocato Orlando Caponigro del foro di Salerno, e allineandosi all’orientamento della Corte di Giustizia Europea, ha ritenuto corretto valutare l’atteggiamento depresso di A.U. come conseguenza dell’ingiusta detenzione subita e ha valutato la sofferenza psico/emotiva nel contesto del danno morale e biologico. Nel pronunciarsi, i giudici di secondo grado hanno previsto una liquidazione a favore di A.U. di euro 9.000 per l’ingiusta detenzione e ulteriori 25.000 euro per il risarcimento del danno non patrimoniale/morale”. Legge “Spazza-corrotti”: non è retroattiva la stretta sulle pene accessorie di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2021 Nessuna applicazione retroattiva della stretta decisa dalla legge “Spazza-corrotti”, la n. 3 del 2019, per i colpevoli di reati contro la pubblica amministrazione. La possibilità di colpire con le pene accessorie anche i condannati in seguito a patteggiamento, con pena inferiore a due anni, non deve riguardare i fatti commessi prima del 31 gennaio 2019. A stabilirlo la Cassazione, con la sentenza n. 40538 della Sesta sezione penale. Annullata così la sentenza del Gip con la quale un medico, ritenuto colpevole di peculato, era stato sanzionato con due anni di detenzione e l’interdizione per 13 mesi dai pubblici uffici. La Cassazione sposa la linea più favorevole all’imputato ritenendo che l’applicazione delle pene accessorie per iniziativa del giudice, quindi al di fuori dell’accordo tra le parti, nel caso di misura detentiva non superiore a due anni di reclusione, costituisce un trattamento penale sfavorevole, visto che questa possibilità non era prevista (vigeva il limite dei due anni) dalla disciplina in materia di patteggiamento al momento del reato. Dopo avere ripercorso anche i fondamenti internazionali del divieto di retroattività delle norme di diritto penale sostanziale, la Cassazione sottolinea che non può essere dubbio il fatto che la possibilità per il giudice di applicazione discrezionale delle pene accessorie, disposta dalla “Spazza-corrotti”, anche in caso di pena patteggiata nel limite di due anni non ha un valore solamente processuale. Si tratta invece “di norme che esplicano effetti sostanziali incidenti direttamente sull’art. della pena, attraverso l’articolazione del trattamento punitivo e sulla sua portata, e che incidono sulla ragionevole prevedibilità delle conseguenze cui si sarebbe trovato esposto l’agente, trasgredendo il precetto penale in relazione alle conseguenze che ne derivano”. Sono norme processuali, con effetti sostanziali, che appesantiscono il trattamento punitivo, compromettendo la libertà delle scelte di azione già al momento della commissione del fatto. Per la Cassazione, i diversi effetti delle scelte premiali collegate al rito sono costitutivi della pena inflitta. Santa Maria C.V.. Morte detenuto, 15 tra ufficiali e agenti penitenziari rischiano carcere di Chiara Marasca Corriere del Mezzogiorno, 16 novembre 2021 Violenze al carcere di Santa Maria, per la morte successiva del detenuto Lakimi Hamine la Procura torna a chiedere il carcere per 15, per 30 i domiciliari. Si terrà il 26 novembre prossimo, davanti al Tribunale del Riesame di Napoli, l’udienza sul ricorso presentato dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) contro le decisioni adottate dal Gip sammaritano Sergio Enea in relazione all’indagine sulle violenze commesse da agenti della Penitenziaria ai danni di detenuti al carcere sammaritano il 6 aprile del 2020. Il procuratore aggiunto Alessandro Milita e i sostituti procuratori Daniela Pannone e Alessandra Pinto hanno presentato un ricorso per quarantacinque indagati per i quali il Gip aveva escluso alcuni capi di imputazione e aggravanti rigettando la relativa richiesta di misura cautelare o concedendo una misura diversa e meno afflittiva da quella proposta dagli inquirenti, in particolare in relazione alla morte del detenuto algerino Lakimi Hamine, classificata dal giudice come suicidio e che invece ora i pm ora hanno inquadrato nel reato di omicidio colposo (inizialmente si ipotizzò il reato di morte come conseguenza di altro reato, ndr). Per 15 indagati la Procura ha così chiesto il carcere, per 30 i domiciliari. Il Gip il 28 giugno scorso, emise 52 misure cautelari nei confronti di agenti penitenziari e funzionari del Dap su un totale di 120 indagati: otto finirono in carcere, altri 18 indagati ai domiciliari, tre all’obbligo di dimora e 23 furono stati sospesi dal servizio. Il prossimo 15 dicembre il giudice è chiamato a pronunciarsi sulle richieste di rinvio a giudizio formulate nei confronti di 108 indagati, tra agenti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria. Gli accusati - Dunque rischiano il carcere, in relazione alla morte del detenuto algerino, gli indagati tuttora ai domiciliari tra i quali il comandante del gruppo di Supporto agli interventi, un commissario capo responsabile del reparto Nilo, l’ex comandante della Polizia Penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere, il sovrintendente da qualche giorno ai domiciliari e già detenuto. Tra i 30 indagati per i quali la Procura ha invece chiesto i domiciliari vi è l’ex provveditore regionale che a giugno fu colpito dalla misura interdittiva della sospensione dal lavoro per sei mesi per il reato di depistaggio; la Procura ha fatto appello ritenendo che, contrariamente a quanto disposto dal Gip, fosse colpevole anche del reato di maltrattamenti mediante omissione, ovvero per non aver fatto nulla per impedire le violenze. Rischia i domiciliari per lo stesso motivo una funzionaria che il 6 aprile 2020 sostituiva alla direzione del carcere la direttrice che era assente per malattia, mentre per due medici in servizio al carcere il giorno delle violenze, i domiciliari sono stati richiesti per il reato di falso, escluso a giugno dal Gip. In caso che il Riesame accolga l’appello dei pm, la decisione su eventuali arresti non sarà subito esecutiva, ma dovrà passare per la Cassazione. Va detto però che finora, proprio sotto il profilo delle misure cautelari, l’indagine ha retto tanto al Tribunale del Riesame di Napoli che alla Corte di Cassazione, dove la gran parte delle misure emesse dal Gip nel giugno scorso sono state confermate per quanto concerne i gravi indizi di colpevolezza. A reggere è soprattutto il reato di tortura, introdotto solo da qualche anno, e che molti avvocati hanno provato a mettere in discussione. Ma in una fattispecie il ricorso in questo senso è stato dichiarato inammissibile. I sindacati - “La richiesta di rinvio a giudizio di oltre 100 poliziotti penitenziari per i fatti accaduti nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere era scontata: ora bisognerà vedere le singole responsabilità ed è giusto che chi ha sbagliato paghi, anche se le dinamiche che hanno determinato uno sconcertante travalicamento dei limiti operativi di messa in sicurezza del carcere a seguito delle pesanti manifestazioni di protesta nei giorni antecedenti la perquisizione, testimoniano la fragilità del sistema penitenziario sulla gestione delle criticità a causa delle carenze organiche, strumentali e strutturali”, commenta il presidente dell’Unione dei Sindacati di Polizia Penitenziaria (Uspp) Giuseppe Moretti. Per l’Uspp, “all’indomani delle violenze, evasioni e morti in carcere verificatisi nel marzo del 2020 doveva essere dichiarato lo stato d’emergenza”. Santa Maria Capua Vetere. Il Garante: “Giustizia e verità dopo silenzi complici ai vertici” di Silvia Mancinelli Adnkronos, 16 novembre 2021 “Meno male che giustizia e verità per la mattanza di Santa Maria Capua Vetere, coniugate insieme vanno avanti. Perché qui ci sono stati troppi silenzi complici ai vertici alti. Penso alla politica, al Dipartimento, al Ministero Giustizia: come facevano a non sapere?”. Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, commenta così all’Adnkronos la richiesta di rinvio a giudizio per 108 tra agenti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria per il pestaggio avvenuto nell’istituto penitenziario campano il 6 aprile 2020. “Contro di me - incalza - c’è stata una virulenta campagna di delegittimazione perché, già due giorni dopo i fatti, avevo presentato una prima denuncia in Procura e poi una successiva con nomi, cognomi e data di nascita di detenuti che mi hanno parlato di soprusi, torture, addirittura anche atteggiamenti omertosi”. “Di questa mattanza di Stato ci sono due cose che ancora mi indignano - dice Ciambriello - dei 375 entrati lì dentro uno solo si è frapposto tra gli agenti e i detenuti e poi il numero delle richieste di rinvio a giudizio è molto limitato. Noi, che ci diciamo un Paese democratico, perché non ci indigniamo nel vedere scene di agenti di Polizia Penitenziaria che picchiano persone inermi sulle sedie a rotelle e non riusciamo a identificarli perché hanno il volto coperto dal casco? Come in altre circostanze per i carabinieri o i finanzieri in piazza, perché non mettiamo i numeri identificativi sui caschi? Così se si consuma un reato gli inquirenti sanno chi è responsabile. Abbiamo visto consumare un reato, una tortura e non riusciamo a risalire all’autore?”. “La politica per le carceri non fa niente, è sorda, cinica, pavida. Gli agenti sono pochi, costretti a fare il lavoro che dovrebbero fare gli educatori, che sono pochissimi, spesso hanno a che fare con persone con sofferenza psichica. Aumentare il personale - aggiunge - significa diminuire la tensione nelle carceri. L’anno scorso in Campania ci sono stati nove suicidi e 162 tentativi, sventati solo grazie al pronto intervento degli agenti - sottolinea - isolati, spesso da soli a guardare oltre 100 detenuti, gli unici a scongiurare suicidi. In questo ultimo anno e mezzo Dap e Ministero della Giustizia sulle carceri non si sono fatti vedere. Lo Stato per certi versi è stato assente: ora potrebbe, con ristori e il rafforzamento di agenti, educatori, psicologi e psichiatri, dare una risposta concreta”. Modena. Il recupero dei detenuti autori di reati a sfondo sessuale, maltrattamenti e stalking di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 16 novembre 2021 Un accordo sottoscritto dall’Ausl con la Casa Circondariale prevede la presa in carico da parte di un’equipe specializzata. Una seconda possibilità per riuscire a capire i gravi reati commessi ma anche a cambiare, prevenendo così in futuro ulteriori comportamenti violenti. È questo lo scopo del percorso di recupero psicologico e sociale rivolto ai detenuti autori di reati a sfondo sessuale, maltrattamenti di genere e stalking. Per la prima volta Ausl e la casa circondariale Sant’Anna hanno firmato un protocollo di trattamento psicoterapeutico e psico-educativo rivolto ai detenuti. Il modello di trattamento applicato fa tesoro e applica l’esperienza del Centro Ldv (Liberiamoci dalla Violenza) dell’Ausl che dal 2011 - utilizzando l’approccio metodologico adottato dal Centro norvegese Atv di Oslo, il primo del suo genere in Europa - prende in carico autori di violenze. In sostanza attraverso il progetto in questione - l’adesione allo stesso, da parte dei detenuti, è volontaria - sarà programmato il trattamento dei detenuti al fine di una loro riabilitazione sociale, puntando ad una riduzione del rischio di ricaduta criminale e, in particolare, alla tutela della società. Giorgia Pifferi, direttore del servizio di psicologia clinica e di comunità dell’Ausl sottolinea come sia fondamentale aver messo in collaborazione tante figure professionali che operano in carcere. “Il tipo di lavoro che verrà svolto per il recupero dei sex offender è anche un lavoro più generale rispetto all’idea di poter procedere con una formazione e attività specifiche rivolte a tutto il personale, operatori sanitari e polizia penitenziaria”. La formazione prenderà il via a novembre. I detenuti che stanno scontando una pena al Sant’Anna per questo genere di reati e persone in attesa di giudizio sono circa un centinaio. I detenuti che hanno una definizione della pena sono circa settanta. “Il percorso è già attivo - spiega Paolo De Pascalis, psicologo e psicoterapeuta del dipartimento di salute mentale e dipendenze patologiche dell’Ausl - seguiamo anche persone accusate di maltrattamenti di genere o stalking. Si tratta di colloqui individuali per verificare l’assunzione di responsabilità rispetto al reato per il quale stanno scontando la pena. Una possibilità di attivare un processo di cambiamento per far sì che, una volta in libertà - questa è una speranza - non si verificheranno più comportamenti come quelli per i quali stanno scontando una pena”. De Pascalis spiega come la disponibilità dei detenuti sia buona: “È la prima volta forse nella loro vita che viene offerto a queste persone di potersi mettere in discussione rispetto a quanto accaduto”. Il percorso riabilitativo prevede la presenza e l’intervento di un’equipe di operatori dell’area socio-sanitaria opportunamente formati. Il lavoro di recupero inizia con una fase di selezione e valutazione preliminare degli utenti, sia uomini che donne, autori di reati a sfondo sessuale o di maltrattamenti legati al genere, frutto del confronto con gli educatori dell’istituto penitenziario. Nell’individuazione del caso vengono tenuti in considerazione tre fattori: ammissione o parziale ammissione del reato commesso, riconoscimento delle proprie responsabilità e fragilità, disponibilità di partecipare ad un percorso di trattamento psicoterapeutico e psico-educativo. Milano. San Vittore, da carcere a centro di accoglienza di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 novembre 2021 Dopo le rivolte del marzo 2020, il centro clinico è stato trasformato in hub Covid - e oggi vaccinale - per tutti i detenuti della Lombardia, con l’aiuto di Medici senza frontiere. Reportage dalla casa circondariale milanese che per molti è un punto di partenza. Il direttore, Giacinto Siciliano: “Qui arrivano persone alle quali manca tutto: soldi, biancheria intima, cambi, parenti. Su 146 persone con disturbi psichiatrici, almeno 100 sono passate per i campi libici. Oltre il 70% degli 800 reclusi è straniero, molti arrestati per mancanza di documenti o resistenza. Il 20% ha violato la legge sulla droga; 400 dichiarati, i tossicodipendenti”. “Sono orgoglioso di come è stata affrontata l’emergenza Covid, qui da noi. I volontari di Medici senza frontiere sono stati eccezionali: fin dall’inizio si sono trasferiti qui dentro per un mese e mezzo per sensibilizzare il personale e i detenuti, insieme abbiamo informato e gestito la crisi pandemica. Parte della campagna vaccinale l’abbiamo fatta proprio qui, tra le mura di San Vittore”. Giacinto Siciliano è stato per tanti anni direttore di Bollate e di Opera, ma è qui che ha messo un pezzo di cuore, in modo proporzionale al sudore versato, nel carcere più antico di Milano (e non solo) - magnifica struttura inaugurata nel 1879 a due passi dalla Darsena che fa gola al mercato immobiliare privato. Questo istituto, a differenza degli altri due, è una casa circondariale, ossia ospita per la stragrande maggioranza detenuti in attesa di giudizio. Un turn over continuo, difficoltà elevata all’ennesima potenza per chi cerca di intraprendere un qualunque lavoro con e sui detenuti, che sia sanitario, culturale, formativo o riparativo. Il Covid è arrivato come uno tsunami. Volendo vedere il lato positivo, però, ha rallentato ingressi e tempi dei processi, limitando i trasferimenti: prima si contavano 30-40 nuovi ingressi al giorno, oggi solo circa 10-15 di media. Nell’antica struttura a sei raggi (di cui due chiusi, e con un piano del 6° raggio in ristrutturazione) che si dipanano da una rotonda centrale da dove una volta erano visibili tutti e quattro i piani di reclusione contemporaneamente, con 650 posti effettivamente disponibili per gli uomini e 90 per le donne, ci sono oggi 800 detenuti circa e 80 detenute, ma nel 2000 si era arrivati a 2400 persone nei bracci maschili. Durante la rivolta del marzo 2020, all’inizio del primo lockdown, nel penitenziario erano 950 i reclusi e 90 le recluse. “Prima del Covid la permanenza media - spiega il direttore - era 80 giorni; il 90% dei detenuti qui è in attesa di primo giudizio, oltre il 70% è straniero, per la maggior parte, soprattutto negli ultimi anni, arrestati per mancanza di documenti o per resistenza a pubblico ufficiale. Il 20% è ristretto per la legge sulla droga, i tossicodipendenti dichiarati sono attualmente 400. Qui arrivano persone alle quali manca tutto: non hanno biancheria intima, cambi, soldi, parenti. Su 146 persone con disturbi psichiatrici, almeno 100 sono passate per i campi libici e presentano disturbi post traumatici che non si curano con i farmaci ma necessiterebbero di psicoterapie, impossibili in una casa circondariale, e con soli 5 psichiatri e 5 psicologi”. Sono tutti ragazzi, spiega il direttore mentre fa scorrere sotto i nostri occhi la lista delle date di nascita: 2000, 1996, 1994. Dalle statistiche dell’ufficio matricola, il 42,38% dei detenuti presenti proviene dall’Africa, il 2,5% dall’Asia, il 5,6% dall’America latina, il 41,9% dall’Europa Cee, compresa l’Italia, e il 7,6% dal resto dei Paesi europei non Cee. “San Vittore è ormai, più che un carcere, una struttura di accoglienza - sottolinea Siciliano - molti detenuti, soprattutto irregolari, ricevono qui per la prima volta un check up medico. E per la prima volta studiano l’italiano. Paradossalmente è l’unica struttura che si fa carico, senza essere titolata, di persone come stranieri senza fissa dimora, che non vengono intercettate da nessuno. O di persone che avrebbero bisogno di cure psichiatriche ma non trovano posto da nessuna parte. Il carcere è l’unico luogo dove il posto deve esserci sempre”. I fiori all’occhiello di San Vittore sono due: uno è lo storico braccio dedicato al trattamento delle tossicodipendenze, “La Nave”, e l’altro è il centro clinico, trasformato dal marzo 2020 in un hub Covid per tutti i detenuti della Lombardia. “Al primo lockdown, con tutti i negozi chiusi, qui intorno, nel quartiere, c’è chi apriva solo per noi, per fornirci il materiale adatto a costruirci da soli le mascherine, perché non avevamo altro modo”, racconta ancora Siciliano insieme all’infettivologo Ruggero Giuliani, medico di Msf, dirigente sanitario a capo del centro clinico e dell’hub vaccinale. “Il coinvolgimento dei detenuti è stato uno dei punti chiave. E la paura ha unito tutti, personale e reclusi, perfino i problemi psichiatrici sono diminuiti, come passati in secondo piano. Così siamo riusciti a tenere l’epidemia sotto controllo: abbiamo gestito 651 malati Covid, di cui 430 di altri istituti; uno solo è morto, ma era il secondo contagiato in assoluto della struttura. Abbiamo inoculato 1066 dosi, stiamo ora facendo la seconda dose anche a detenuti già liberati. Sono pochissimi quelli che rifiutano la vaccinazione, ultimamente però sta aumentando il numero degli italiani che la chiedono. Gli stranieri no, loro la vogliono sempre”. Ora si stanno preparando per la terza dose. Quello di piazza Filangieri è un carcere centrale, da sempre molto legato alla città, con le porte aperte a tutti per mostre estemporanee che venivano allestite nel 1° raggio (giovani adulti). Con un via vai di volontari di altissima professionalità. “Prima del Covid ogni giorno entravano 300 volontari. Poi si è fermato tutto, ora stiamo riprendendo gradualmente”. Anche gli agenti penitenziari sono quasi tutti vaccinati (505 su 510), riferisce la comandante Michela Morello. “Qui ci sono poliziotti arruolati anche 30 anni fa. Tutti, uomini e donne, in 600 vivono in locali quasi imbarazzanti. Nell’ultimo biennio ci sono stati solo 150 nuovi arruolati ma il ricambio del personale è necessario, perché questo è un lavoro usurante”. Ma non è una scusante per gli 8 agenti che sono imputati in un processo con l’accusa di aver pestato nel 2019 un detenuto straniero. A denunciali è stata la stessa direzione. Durante la rivolta del 9 marzo 2020, scoppiata sull’onda di Modena e Pavia, molta parte degli spazi comuni è andata distrutta. “L’input è partito dagli italiani, ma vi hanno partecipato 600 detenuti, soprattutto immigrati. Ma nessuno si è fatto male. Mi ricordo di un iraniano che inneggiava alla liberazione dei detenuti, come stava avvenendo nel suo Paese”, ricorda Siciliano. “Cinque persone sono finite intossicate in rianimazione, per aver rubato e ingerito medicinali vari, ma li abbiamo salvati tutti”, dice Giuliani, spiegando che tutto il personale ha passato ore a convincere i rivoltosi. Attualmente sono 12 i detenuti indagati per sequestro di persona, devastazione, lesioni e rapina. Tutti trasferiti. Oussana, 25enne di Algeri, da 4 anni in Italia e da 2 anni e mezzo in carcere, è stato in coma per dieci giorni dopo aver assunto farmaci durante la rivolta. “Li prendevano tutti, li ho presi anch’io”, racconta. Lo incontriamo al quarto piano del 1° raggio, dove dal 2002 c’è “La Nave”, la sede delle rivolte. Vi lavorano 6 persone con differenti professionalità, compresi i dipendenti SerD dell’ospedale San Paolo. Ci sono anche criminologi e un bel gruppo di professionisti volontari - giornalisti, ex magistrati… - che danno un supporto per la riabilitazione (Gerardo Colombo si occupa di educazione alla legalità). Ci sono 57 posti e una selezione molto rigida dei detenuti che vi possono accedere, in base alla posizione giuridica (devono poter rimanere almeno otto mesi) e alla motivazione (solo chi è pronto per un percorso terapeutico serio). Ora alla Nave sono in cura soprattutto dipendenti da alcol e cocaina, con un’età media alta (35-36 anni). Anche se, spiegano, “è tornata anche l’eroina”. La cannabis, invece, “è una costante nelle storie di tossicodipendenze ma arrivare ad usare solo quella sostanza è considerata quasi una guarigione”. Ed è in questo posto - coinvolgente per la passione degli operatori - che spesso “per la prima volta si rendono conto di essere tossicodipendenti”. Per qualcuno la dipendenza “è un salvavita dalla criminalità, perché non è accettata dalle grandi famiglie criminali”. Per altri è solo una trappola, come per Kashem, 40enne tunisino che nel suo Paese aveva conosciuto l’hashish ma da quando nel 2008 è arrivato in Italia, a Bergamo, si è ritrovato nel buco della cocaina. Sbarcato a Lampedusa dopo tre giorni di mare “su una barca con 291 persone”, ha conosciuto - almeno così racconta, ma con dovizia di particolari - i campi libici. “Ho passato tre mesi in una grande stalla a Trablos (Tripoli, ndr) insieme con uomini donne e bambini. Lì succedeva di tutto, ogni tipo di violenza. Ogni giorno gli sbirri in borghese, armati, scelgono le persone, prendono i soldi- da me 2200 euro - ti tolgono il telefonino e ti imbarcano. Dopo un po’ che ero qui, avrei voluto tornare in Tunisia, ma non mi hanno mai rimpatriato”. San Vittore è il suo sesto carcere in Italia. Bolzano. Giustizia riparativa per il benessere della comunità di Floriana Gavazzi rainews.it, 16 novembre 2021 Convegno a Merano per presentare i risultati di un progetto del Centro di giustizia riparativa della Regione. L’obiettivo è la risoluzione di conflitti attraverso la mediazione sia in ambito penale, sia nella vita sociale. Il Centro di giustizia riparativa della Regione ha avviato l’anno scorso un progetto in diversi territori del Trentino e dell’Alto Adige per il benessere delle comunità. A conclusione del progetto lunedì 15 novembre si è tenuto un convegno a Merano. Che cosa è la giustizia riparativa? Lo ha spiegato, collegato da remoto, Adolfo Ceretti, professore di criminologia all’università di Milano Bicocca e vera autorità in materia. La giustizia riparativa non mette al centro la punizione dell’autore del reato ma l’ascolto reciproco, attraverso un mediatore, tra vittima e colpevole per riparare gli effetti distruttivi dell’offesa e aprire al futuro. A Merano questo metodo è stato usato con buoni risultati per affrontare i conflitti della comunità, ad esempio quello tra inquilini delle case IPES di Sinigo dopo il discusso video rap “La fame” realizzato da giovani del quartiere immigrati di seconda generazione. Gli inquilini si sono ritrovati a discutere in cerchio con l’aiuto di una mediatrice, Sara Bassot, che spiega l’importanza di un ascolto senza giudizio tra persone molto diverse tra loro per età e cultura per superare diffidenze e rigidità. Vicenza. Al via nel carcere il corso “Cittadinanza attiva & responsabile” di Maurizio Ruzzenenti Ristretti Orizzonti, 16 novembre 2021 Lunedì 14 novembre inizia un nuovo corso “Cittadinanza attiva & responsabile” promosso da Progetto Carcere 663 - Acta non Verba OdV con il sostegno dell’Area Giuridico - Pedagogica del carcere vicentino cui la Chiesa Valdese, con i fondi dell’8 per mille, ha nuovamente deciso di finanziare rinnovando la sua fiducia nelle qualità formative dell’OdV e i requisiti dei formatori. Più completo dell’ultimo tenutosi in primavera e rivolto all’Area Comuni del carcere vicentino, si articolerà in 12 incontri su Educazione Civica e Ricerca attiva di un lavoro sostenute da una parte psicologica dedicata a “Comunicazione & Autostima”. Sarà tenuto da professioniste legate all’OdV PC663 (avvocato, criminologa e psicologa) che alterneranno nell’esposizione dei vari argomenti secondo la loro specifica competenza. Si confida, anche questa volta, in un’attiva partecipazione dei detenuti, selezionati dai funzionari dell’Area Giuridico - Pedagogica, poiché, al solito, analoghe iniziative proposte anni scorsi, hanno sempre incontrato un’ottima accoglienza dai partecipanti che han hanno manifestato grande soddisfazione per questo tipo di azione formativa e per le docenti. Roma. Teatro in carcere, al via la rassegna “Destini incrociati” garantedetenutilazio.it, 16 novembre 2021 Un fitto calendario d’incontri, spettacoli, tavole rotonde a Roma e Civitavecchia da mercoledì 17 a sabato 20 novembre. La paroliera, cantautrice e poetessa Giulia Anania alla chitarra con le attrici ex detenute e signore ammesse alle misure alternative alla detenzione della compagnia Le Donne del Muro Alto. Si svolgeranno a Roma da giovedì 18 a sabato 20 novembre, la VII e VIII edizione della Rassegna nazionale di teatro in carcere “Destini incrociati”, con un’anteprima riservata a un pubblico ristretto mercoledì 17 nella Casa di reclusione di Civitavecchia, dove sarà messo in scena “La Svolta”, studio scenico della compagnia AdDentro-Associazione sangue giusto, regia di Ludovica Andò. “Un’edizione speciale - spiegano gli organizzatori - quella di Roma, che unifica due annualità a causa dei mutamenti dovuti alla pandemia, e che si colloca nell’ambito del progetto nazionale di teatro in carcere “Destini incrociati”, realizzato con il contributo del ministero della Cultura, direzione generale spettacolo. La rassegna si svolge in collaborazione con il dipartimento di filosofia, comunicazione e spettacolo dell’Università degli studi Roma Tre, con il ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e Dipartimento giustizia minorile e di comunità, con l’Associazione nazionale critici di teatro, ospitando al proprio interno anche la cerimonia del Premio della critica 2020/2021. Una rassegna che presenta spettacoli, frutto di laboratori produttivi realizzati con detenuti, una sezione dedicata alla proiezione di video, strumento indispensabile per documentare le esperienze di teatro in carcere, laboratori, sia di accompagnamento alla visione degli spettacoli, curati da Agita (associazione nazionale e agenzia formativa), sia di critica teatrale, in collaborazione con l’Anct (Associazione nazionale dei critici di teatro), sezioni di studio, tavole rotonde e presentazioni editoriali. Un progetto articolato - concludono gli organizzatori -, quindi, in grado di restituire un ampio panorama delle nuove esperienze drammaturgiche sperimentate da registi e autori professionisti che, da anni, lavorano sul campo con detenute e detenuti, spesso direttamente coinvolti anche nel processo di scrittura e allestimento”. Il programma prevede diverse rappresentazioni teatrali al teatro Palladium, alle quali si può assistere prenotando all’indirizzo di posta prenotazioni@teatroaenigma.it (biglietto d’ingresso 5 euro, ridotti 2 euro). Invece, per l’ultimo spettacolo della rassegna, “Destinazione non umana”, della compagnia Fort Apache cinema teatro, per la regia di Valentina Esposito, previsto per sabato 20 alle 19 nello Spazio Rossellini, le prenotazioni vanno inviate all’indirizzo info@spaziorossellini.it, il biglietto costa 12 euro (ridotto 10 euro). Il valore della giustizia raccontato ai ragazzi di ogni età di Ilaria Tirelli leurispes.it, 16 novembre 2021 Quanto convenga la giustizia all’intera collettività è uno di quei concetti che un tempo si dava per scontato, ma che oggi, invece, bisogna tornare a spiegare. E chi può assolvere ad un compito così importante meglio di due magistrati come Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte che hanno dedicato la loro intera vita a perseguire giustizia e legalità? “La giustizia conviene - Il valore delle regole raccontato ai ragazzi di ogni età” (edito da Piemme) si configura come un libro dalla duplice natura. Una didascalica, che risponde all’intento di spiegare il complesso universo che costituisce l’ordinamento italiano nelle sue molteplici sfaccettature. L’altra discorsiva che, grazie alla straordinaria capacità esemplificativa degli autori, si traduce in una lettura dall’andamento facile e lineare, anche di fronte ad argomenti complessi o scottanti. Il senso della giustizia e della legalità raccontato ai ragazzi di ogni età - Tale poliedrica inclinazione si riversa inevitabilmente sul destinatario dell’opera, dichiarato apertamente fin dal sottotitolo: quello di Caselli e Lo Forte è un racconto indirizzato “ai ragazzi di ogni età”. Dal sottotitolo, fino ad arrivare al decalogo delle pagine conclusive: il richiamo ai più giovani come ultimi depositari di questo libro chiude il cerchio iniziato dalla copertina e manifesta, fino in fondo, l’importanza che ha per gli autori di trasmettere alle nuove generazioni non solo il senso della giustizia, ma anche una rinnovata fiducia nella legalità, nelle leggi che governano il nostro Paese e nei vari organi attraverso i quali viene esplicato il ruolo dello Stato. Uno stile scorrevole, alla portata dei non addetti ai lavori - Si potrebbe tranquillamente adottare questo testo come supporto all’educazione civica nelle scuole superiori, dal momento che vengono trattati argomenti come il senso stesso di “legalità” e “giustizia”, per arrivare ad introdurre i princìpi della Costituzione, a spiegare il funzionamento del processo, il senso della Corte Costituzionale e del Parlamento, il significato di separazione delle carriere, e così via. Argomenti apparentemente tecnici, che solitamente non riescono a catturare l’attenzione di un giovane lettore e che si trovano quasi sempre relegati in qualche noioso e difficile esame di diritto costituzionale all’Università. Quello che invece sorprende in questo libro è la scelta di uno stile linguistico semplice e scorrevole, alla portata dei più giovani, dei non addetti ai lavori o di chi non si direbbe propriamente appassionato di cronache giudiziarie. E il risultato è evidente fin dalle prime pagine: basti pensare al secondo capitolo, in cui la parabola fascista viene raccontata a partire da un “c’era una volta”, proprio come se si trattasse di una favola indirizzata ai più piccoli. Un manuale di orientamento nell’intricato mondo della giustizia contemporanea - Parallelamente, a questo tipo di lettura “semplice” e “superficiale” se ne affianca un’altra, quella propria di un occhio più esperto, che può riconoscere in un testo così organizzato un ottimo manuale di orientamento nell’intricato mondo della giustizia contemporanea. C’è da dire che, oggi, complici anche gli scandali che hanno costellato il biennio 2020-2021, giustizia e legalità appaiono sempre più in affanno, sembrano faticare ad assolvere quelli che sono i propri compiti fondamentali, con una conseguente perdita di credibilità da parte di chi, invece, dovrebbe difendere e sostenere questi valori: tutti noi, comuni cittadini. Tuttavia, limitarsi allo sdegno, o a denunciare quello che non va, secondo i due autori, non è la soluzione, ed è da qui che nasce l’idea di un libro: dalla volontà di proporre una riflessione sul perché la giustizia è stata ed è uno dei pilastri fondamentali nella vita di una comunità, l’unico strumento a salvaguardia delle libertà e dei diritti di tutti. Seguendo il sentiero lungo il quale ci conducono Caselli e Lo Forte, costellato di esempi di cronaca italiana, ma anche europea, e trattando di argomenti delicati come il terrorismo o la risposta dello Stato al fenomeno mafioso, appare ad ogni pagina più evidente che agire nella legalità non significa soltanto sicurezza, e che non lo facciamo solamente per paura di dover scontare pene o sanzioni pecuniarie, ma che si traduce concretamente in una vita migliore, attuabile fino in fondo grazie ad una giustizia che deve essere uguale per tutti. “L’irresistibile convenienza della legalità” è il titolo di un paragrafo particolarmente evocativo di ciò che significhi, per chi scrive, agire e vivere nel rispetto delle regole: “[…] rispetto della legge equivale a civile convivenza; un quadro in cui prevale l’interesse collettivo, per offrire a tutti noi speranze di vita migliore e di crescita ordinata e comune. […] In sostanza, la legalità è un vantaggio. […] Non è quel “fastidio” che qualcuno pensa, anzi. E non è neppure un “gioco” fra guardie e ladri a cui assistere con sostanziale indifferenza”. Alla fine di questo cammino, tirando le somme, si arriva a dire, insieme con agli autori, che la giustizia (insieme alla legalità) conviene davvero, ed è questo il messaggio che a gran forza viene affidato alle giovani generazioni. In Italia 1 milione e 300 mila minori vivono in povertà assoluta di Giansandro Merli Il Manifesto, 16 novembre 2021 Lo studio. L’“Atlante dell’infanzia a rischio 2021” curato da Save The Children lancia l’allarme. Per i minori crescono le disuguaglianze, mentre l’ascensore sociale è in caduta libera. Lo afferma Save The Children nell’Atlante dell’infanzia a rischio 2021, presentato ieri a Roma. Rispetto a 15 anni fa in Italia gli under 18 sono 600mila in meno, ma 1 milione in più non hanno l’indispensabile per vivere. Nel 2020 in povertà assoluta erano 1 milione e 300 mila. “Buona parte sono permanentemente in questa condizione e ciò significa che il loro destino è segnato”, ha detto Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale Istat. La tendenza di lungo corso ha registrato una lieve frenata solo nel 2019, grazie all’introduzione del reddito di cittadinanza e prima dell’arrivo della pandemia. Su una platea di 3 milioni di beneficiari i minori sono 753mila: uno su quattro. Un dato meno appariscente ma forse più significativo rispetto alle truffe dei “furbetti” regolarmente utilizzate per screditare la misura. Oltre la povertà, lo studio di Save The Children disegna una mappa di disuguaglianze sociali, economiche e geografiche “sempre più marcate”. In Italia solo un bambino su 7 usufruisce di asili nido (14,7%), dato medio tra gli estremi in Calabria (3,1%) e provincia autonoma di Trento (30,4%). Le forti differenze tra Nord e Sud continuano nella scuola primaria: a livello nazionale il 36,3% delle classi ha il tempo pieno, tra il 95,8% a Milano e il 4,5% a Ragusa. “Abbiamo la percentuale di Neet più alta d’Europa”, ha sottolineato il presidente dell’Ong Claudio Tesauro, invitando politica e istituzioni ad ascoltare bambini e ragazzi per metterli al centro del cambiamento. Lo strumento per invertire la rotta potrebbe essere il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Secondo la direttrice dei programmi Italia-Europa di Save The Children Raffaela Milano rappresenta, combinato agli altri programmi europei in arrivo, “un investimento complessivo sull’infanzia che non ha precedenti dal dopoguerra”. Se però quei fondi invece di andare alle aree più deboli e deprivate, in un’ottica riparativa, rafforzeranno i territori più bravi a riceverli il rischio, continua Milano, è “di migliorare gli indicatori nazionali senza ridurre, anzi aggravando, le disuguaglianze”. All’Atlante di quest’anno è associata una ricerca della società specializzata Ipsos sulla “cittadinanza scientifica” dei giovani che vivono in Italia, paese in cui nel 2020 sono stati iscritti all’anagrafe 404.104 nuovi nati e immatricolate 1.437.259 autovetture (oltre un minore su cinque vive in città inquinate). Tra ragazze e ragazzi 8 su 10 hanno fiducia nella scienza. Secondo loro questa deve affrontare soprattutto pandemia, lotta al cancro, smaltimento dei rifiuti e fame nel mondo, mentre nel futuro avrà come priorità invecchiamento della popolazione, energie sostenibili e diseguaglianze economiche. Tra gli intervistati il 35% si sente rappresentato da Ong e volontariato, il 27% da movimenti come Fridays for future o Black lives matter e appena il 10% dai partiti politici tradizionali. Il disegno di legge Zan e la nostra idea di identità di Valeria Solarino La Stampa, 16 novembre 2021 Il dibattito suscitato dal disegno di legge Zan e il suo violento affossamento al Senato mi hanno portato a riflettere sul concetto di identità di genere e, più in generale, su quello di identità. Ho sempre accostato, erroneamente, il concetto di identità a quello di esperienza, immaginando un grande zaino portato sulle spalle che negli anni si riempie e ci determina: l’identità che si costruisce, nel bene e nel male, attraverso quello che viviamo, le persone che incontriamo, i condizionamenti esterni che nel tempo ci modellano o ai quali reagiamo. Oggi penso che questo si possa più propriamente chiamare “carattere” o “personalità” e che l’identità invece sia qualcosa di molto più profondo, silenzioso, intimo, discreto. L’identità come unica parte autentica, come percorso di disintossicazione da tutto quello che ci circonda, dai condizionamenti che la famiglia, l’educazione, il contesto sociale in cui viviamo, ci danno: l’identità quindi starebbe proprio nella libertà di trovarla. È stato Vincenzo, il protagonista di “Gerico Innocenza Rosa”, spettacolo di Luana Rondinelli che sto portando in scena in questi giorni, a suggerirmi questo punto di vista. Vincenzo ha la fortuna di specchiarsi nell’amore della nonna che lo ama senza pretendere nulla in cambio. Lo ama nell’unico modo che la parola amore, troppo spesso abusata e maltrattata, porta con sé: lo accoglie e lo lascia andare. Non c’è possesso, non c’è alcuna aspettativa. La nonna guarda la vita e guarda suo nipote, senza quelle lenti distorte che ci portano ad aspettarci qualcosa dall’altro, che se non rientra negli schemi che la società, l’educazione, la famiglia… ci hanno dato, allora questo ci appare “diverso”, “storto”, “sbagliato”. E noi stessi, offuscati da quelle lenti, sentiamo il bisogno, che crediamo autentico, di uniformarci, di rientrare in quel reticolato, in quello schema che ci hanno insegnato e che è l’unico che conosciamo. Vincenzo percepisce la propria identità ma lui per primo si scontra con il preconcetto e si vergogna di mostrarla. La nasconde finché lo sguardo puro della nonna non lo libera. Al posto di uno zaino che si riempie adesso preferisco l’immagine di un corpo che si spoglia dal condizionamento, da quella “carcassa che ricopre la vera me” come dice Vincenzo. Luana Rondinelli che ha scritto questo testo teatrale per me, mi ha fatto capire profondamente di quante sfumature può essere fatta una persona e quanto rischioso sia incasellarla, etichettarla, o addirittura marchiarla con una definizione, una parola, che se anche si avvicinasse a ciò che in parte siamo, non coglierà mai pienamente la nostra verità. E quella stessa definizione, quella stessa parola, quello stesso marchio, varrà in misura diversa per uno o per l’altro: il fatto è che non siamo tutti uguali… questo è il grande equivoco! Ma tutti meravigliosamente diversi. Uguali devono essere i diritti e l’identità infine, propria e degli altri, è innanzitutto un diritto e come tale va tutelata, difesa e, ancor prima, accolta. Migranti. Nell’Europa del filo spinato i sovranisti hanno già vinto di Giorgia Serughetti Il Domani, 16 novembre 2021 Se una popolazione aliena oggi visitasse i confini d’Europa, difficilmente riuscirebbe a comprendere la fibrillazione causata da alcune migliaia di persone inermi, ammassate al freddo e nel fango. Non lo capirebbe, perché la chiusura dell’Unione Europea nella sua fortezza sempre più impenetrabile ha poco a che vedere con i numeri. La guerra a migranti e rifugiati, combattuta ad intensità crescente, ha una motivazione tutta politica ed è il frutto dell’egemonia discorsiva che i partiti sovranisti sono oggi in grado di esercitare sul tema. Il desiderio delle centinaia di uomini, donne, bambini che si trovano intrappolati al confine tra la Bielorussia e la Polonia è ora ridotto al più elementare dei bisogni: restare vivi in un mondo che li vuole morti. Per i paesi da cui provengono - soprattutto l’Iraq, la Siria, l’Afghanistan - sono persone in eccesso. Per quelli in cui vorrebbero entrare, i paesi alla frontiera orientale dell’Unione europea, sono nemici da combattere. Per i trafficanti che ne organizzano il viaggio, il valore della loro vita si esaurisce con il pagamento della quota di trasbordo. Per gli Stati autocratici oltre i confini, sono armi biologiche nella guerra contro l’Ue. E Bruxelles? Le alte cariche dell’Unione condannano la “strumentalizzazione dei migranti” da parte del regime di Lukashenko, ma sposano la linea di Varsavia e delle repubbliche baltiche: rafforzare le barriere e la loro militarizzazione. Se una popolazione aliena oggi visitasse i confini d’Europa, difficilmente riuscirebbe a comprendere la fibrillazione causata da alcune migliaia di persone inermi, ammassate al freddo e nel fango in Bielorussia, nei boschi lungo la rotta balcanica, su imbarcazioni di fortuna nel Mediterraneo. Non lo capirebbe, perché la chiusura dell’Unione Europea nella sua fortezza sempre più impenetrabile ha poco a che vedere con i numeri. La guerra a migranti e rifugiati, combattuta ad intensità crescente, ha una motivazione tutta politica ed è il frutto dell’egemonia discorsiva che i partiti sovranisti sono oggi in grado di esercitare sul tema, a causa della debolezza dei difensori dei “valori europei” dinnanzi alla sfida migratoria. La paura di una crescita della destra nativista e nazionalista sta inducendo tutte le forze politiche ad adottarne l’agenda. A maggio di quest’anno, in uno discorso tenuto all’Istituto universitario europeo di Firenze, la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ha richiamato don Milani, le sue parole “I care”, come espressione di attenzione e responsabilità per gli altri da trasformare in motto dell’Ue durante e dopo la pandemia: “I care, we care, questa credo che sia la più importante lezione che possiamo imparare da questa crisi”. Però una politica che voglia mettere al centro la “cura”, cioè la risposta ai bisogni vitali delle persone, non può evitare la domanda: la cura per chi? Chi sono le persone verso cui le istituzioni si assumono una responsabilità? Includono i “non nativi” che chiedono protezione da guerre, fame, disastri climatici? Oppure è da seguire la linea della Polonia, che ha reso legali i respingimenti dei richiedenti asilo? Dalla pandemia sembrano essere nate due Europe. L’una che vanta il successo di una risposta comune alla crisi, manifestazione di un’”anima”, una volontà politica che ambisce a una maggiore integrazione. L’altra, la sua ombra, rinserrata nello sciovinismo del benessere, spaventata dalla disperazione che preme ai suoi confini, incapace di tradurre i suoi “valori” in impegno d’accoglienza. In questa Europa del filo spinato i contrari a un’Unione forte, i sovranisti, hanno già vinto. Migranti. Salvare vite è reato, domani in Grecia al via il processo agli attivisti di Dimitri Deliolanes Il Manifesto, 16 novembre 2021 Sul banco degli imputati la nuotatrice siriana Sarah Mardini, il tedesco Sean Binter, il greco Nasos Karakitsos e altri 22. Sei solidale? Allora sei trafficante e vai in galera. Da un po’ di tempo la polizia greca ha adottato questa politica, distribuendo accuse e mandando in tribunale chi cerca di salvare vite nell’Egeo. Domani nell’isola di Lesbo inizierà il primo processo. Sul banco degli imputati la giovane siriana Sarah Mardini, il tedesco Sean Binter e il greco Nasos Karakitsos, tutti esponenti della ong greca Erci. Ci sono anche altri 22 imputati accusati perché i loro numeri si trovavano nel cellulare dei responsabili. L’atto d’accusa risale al 2018 e Karakitsos, parlando con il manifesto, lo attribuisce alla volontà della polizia di Lesbo di guadagnare meriti, sostenendo di aver “bloccato” il flusso migratorio, dopo aver represso con violenza le proteste dei migranti per le inumane condizioni del campo di Moria. I poliziotti hanno anche voluto strafare, accusando la Ong di spionaggio, ma il procuratore ha ritenuto che non ci fossero elementi di prova, quindi i segugi del commissariato di Lesbos stanno ancora cercando le tracce degli 007 nemici. Ma anche le prove del presunto traffico di immigrati sfiorano il ridicolo. I volontari sono accusati di essere entrati abusivamente nelle frequenze Vhf della Guardia Costiera, quando fino al 2020 era obbligatorio per ogni battello avere accesso a tali frequenze. Egualmente inconsistente è l’accusa di aver usato targhe false. Il furgoncino della Erci ha sempre circolato con i contrassegni della ong in evidenza. Ma era un veicolo che apparteneva alle forze armate, comprato usato dall’Erci e nella nuova immatricolazione qualcuno aveva posto la nuova targa sopra la vecchia. Secondo il difensore, l’unica accusa preoccupante è quella di “organizzazione criminale”. “Abbiamo sempre lavorato in collaborazione con la Guardia Costiera e con l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati. La maggior parte degli altri 22 imputati sono proprio funzionari del Unhrc”, ci dice Karakitsos, il quale, insieme con gli altri due, ha già scontato quattro mesi di detenzione dall’agosto del 2018, quando le tv private di destra sparavano in primo piano le immagini dei “trafficanti arrestati”. Campagna denigratoria che si è interrotta di colpo quando si è saputo che Sarah Mardini era a sua volta una rifugiata approdata all’isola nel 2015 insieme con la sorella Yusra Mardini, in seguito due volte campionessa olimpionica di nuoto. In quella occasione Sarah era riuscita ad arrivare alla costa a nuoto, trascinando un barcone semiaffondato con 18 persone a bordo. Nell’isola di Chios si sta svolgendo in questi giorni il processo d’appello contro tre immigrati, condannati in primo grado a durissime pene con l’accusa di essere trafficanti. I tre, il siriano Mohamad Abdi e gli afghani Zahir Amir e Rasuli Aqif, devono la loro condanna alla testimonianza di un unico agente della Guardia Costiera che sostiene di aver visto loro mentre tenevano il timone del barcone. Abdi, del tutto digiuno di cose marinaresche, non ha negato di aver preso in mano il timone quando il barcone stava affondando, riuscendo così a salvare la vita a 34 profughi ma non a tre donne che sono morte cadendo in mare. Ma questo non ha convinto la corte dell’isola che lo ha condannato a ben 142 anni di galera. Al processo di primo grado l’accusa contro Aqif ha usato l’argomento che sul barcone non c’era la sua famiglia e contro Amir l’argomento opposto, visto che due delle vittime erano membri della sua famiglia. I tre imputati hanno visitato in segno di solidarietà 14 eurodeputati del PSE, della Sinistra e dei Verdi. Minori detenuti: per l’Unicef nel mondo sono 261mila, col Covid 45mila liberati onuitalia.com, 16 novembre 2021 In vista del Congresso Mondiale sulla Giustizia Minorile l’Unicef lancia due rapporti sui minorenni detenuti, situazione che vede luci e ombre. Secondo i nuovi dati dell’organismo dell’Onu, oggi oltre 45.000 bambini sono stati rilasciati dalla detenzione e sono ritornati in sicurezza nelle loro famiglie o in alternative adeguate dall’inizio della pandemia da Covid-19. In tutto il mondo invece si stima che 261.000 bambini che si trovano in conflitto con la legge siano tuttora in detenzione. Il rapporto ‘Detention of children in the time of Covid’ rivela che i governi e le autorità detentive in almeno 84 paesi hanno rilasciato migliaia di bambini da aprile 2020, quanto l’Unicef aveva richiamato l’attenzione sul loro maggiore rischi di contrarre il Covid-19 in spazi confinati e sovraffollati, chiedendo il loro rilascio immediato. Lo studio fa parte di una delle due analisi che mostrano la situazione di centinaia di migliaia di bambini privati della loro libertà ogni anno. “Sappiamo da tanto tempo che i sistemi della giustizia non sono bene attrezzati per gestire i bisogni specifici di un bambino - una situazione ulteriormente aggravata dalla pandemia da Covid-19”, ha dichiarato Henrietta Fore, Direttore generale dell’Unicef. “Ci complimentiamo con i paesi che hanno ascoltato il nostro appello e che hanno rilasciato i bambini; proteggendoli da condizioni che avrebbero potuto esporli a gravi malattie, questi paesi sono stati in grado di superare la resistenza pubblica e favorire soluzioni di giustizia innovative e appropriate all’età. Questo ha dimostrato qualcosa che già sapevamo - soluzioni per una giustizia a misura di bambino sono più che possibili”. I bambini in detenzione - compresi quelli in custodia pre e post-processuale, in detenzione per motivi migratori, detenuti per conflitti armati o questioni di sicurezza nazionale o che vivono con genitori detenuti - sono spesso trattenuti in spazi confinati e sovraffollati. Manca un adeguato accesso a servizi di nutrizione, assistenza sanitaria e servizi igienico-sanitari e sono soggetti all’abbandono, agli abusi fisici e psicologici e alla violenza di genere. A molti viene negato l’accesso ad avvocati e all’assistenza familiare e non possono contestare la legalità della loro detenzione. Il Covid-19 ha colpito profondamente la giustizia per i bambini, chiudendo i tribunali e limitando l’accesso ai servizi sociali e di giustizia essenziali. I dati dimostrano che molti bambini, compresi quelli che vivono in strada, sono stati detenuti per aver violato le ordinanze di coprifuoco pandemico e le restrizioni di movimento. In tutto il mondo, si stima che 261.000 bambini che si trovano in conflitto con la legge - quelli di cui si presume, che sono stati accusati o riconosciuti come colpevoli di un reato - vengano tenuti in detenzione, secondo la seconda analisi dell’Unicef. ‘Estimating the number of children deprived of their liberty in the administration of justice’ - la prima analisi di questo tipo dal 2007 - avverte che una registrazione incompleta e sistemi di dati amministrativi non sviluppati in molti paesi fanno presupporre che il numero sia molto più alto. Per reimmaginare la giustizia per i bambini e porre fine in sicurezza alla detenzione di tutti i bambini, l’Unicef chiede ai governi e alla società civile di: • Investire nelle attività per la consapevolezza dei diritti legali per i bambini nei sistemi di giustizia e di welfare, specialmente per i bambini più emarginati. • Espandere l’assistenza legale gratuita, la rappresentanza e i servizi per tutti i bambini. • Dare priorità alla prevenzione e all’intervento precoce nei reati minorili e al dirottamento verso alternative appropriate. • Porre fine alla detenzione dei bambini, anche attraverso riforme legali per aumentare l’età della responsabilità penale. • Garantire la giustizia per i bambini sopravvissuti alla violenza sessuale, all’abuso o allo sfruttamento, anche investendo in processi di giustizia adeguati ai bambini e sensibili alle questioni di genere. • Stabilire tribunali specializzati a misura di bambino, e tribunali virtuali e mobili. “Ogni bambino detenuto è la prova del fallimento dei sistemi, ma questo fallimento è poi ulteriormente aggravato. I sistemi di giustizia destinati a proteggere e sostenere i bambini spesso aumentano la loro sofferenza”, ha dichiarato Fore. “Mentre i politici, gli operatori del diritto, gli accademici, la società civile, i bambini e i giovani si riuniscono nel Congresso mondiale questa settimana, dobbiamo lavorare insieme per porre fine alla reclusione dei bambini”. La sorveglianza cinese passa da una sentenza della Corte americana di Pasquale Annicchino Il Domani, 16 novembre 2021 In Cina la sorveglianza è totale. Ma cosa accade se le politiche di sorveglianza sono realizzate negli Stati Uniti, lo stato che sembrerebbe opporsi al panopticon cinese in nome dei diritti civili? È il quesito a cui sarà chiamata a dare una risposta la Corte suprema degli Stati Uniti. Cosa avverrà quando a essere violati sono i diritti dei fedeli musulmani e non quelli di fedeli di altre confessioni religiose? Il potere di sorveglianza degli apparati pubblici non riguarda solo i regimi autoritari, ma chiama anche le democrazie liberali a interventi volti a porre limiti all’esercizio e all’abuso del potere statale. Gli occhi e le orecchie del potere sono ovunque. Monitorano, ascoltano e lasciano senza scampo i dissidenti e gli irregolari. La cultura del sospetto produce l’anticamera della sorveglianza di stato che spesso porta le maggioranze al potere a discriminare e perseguitare le minoranze fino a rinchiuderle in campi di rieducazione politica. Oggi sappiamo che queste scene non sono solo il frutto della fantasia di qualche autore distopico, ma storie di ordinaria amministrazione nello Xinjiang dominato dal Partito comunista cinese e dalle politiche ispirate alla soppressione ideologica, politica e spirituale degli avversari e delle minoranze. Non c’è spiraglio di libertà individuale o collettiva nel panopticon voluto da Pechino. Come nella costruzione benthamiana, il sorvegliante è in grado di monitorare tutti i carcerati e questi non sono in grado di comprendere se in un determinato momento siano o meno sottoposti a controllo. La sorveglianza è totale. Ma cosa accade se le politiche di sorveglianza sono realizzate negli Stati Uniti, lo stato che, più di tutti, sembrerebbe opporsi al panopticon cinese in nome dei diritti civili, della libertà dell’individuo e delle comunità? Per quanto possa apparire paradossale, è questo il quesito a cui, nei prossimi mesi, sarà chiamata a dare una risposta la Corte suprema degli Stati Uniti con la decisione nel caso Fbi v. Fazaga. Gli anni successivi all’11 settembre 2001 hanno portato alla creazione di un complesso apparato di sicurezza e di sorveglianza in molti paesi occidentali, inclusi gli Stati Uniti. Così Yassir Fazaga, imam della moschea di Orange County in California, accusa in giudizio l’Fbi di aver infiltrato la sua moschea e di aver messo sotto sorveglianza i fedeli solo a causa della loro affiliazione religiosa. Si contesta anche l’uso di informatori, ai quali l’Fbi avrebbe chiesto di concentrarsi sui fedeli che apparivano più devoti, in quanto questo sarebbe stato un possibile indice di radicalizzazione e pericolosità. Una volta scoperto l’infiltrato è scoppiata la crisi di fiducia nella comunità californiana. Nessuno si fidava più di nessuno. Sono evoluzioni tipiche delle storie sulla sorveglianza, basta leggere le biografie di famiglie separate a causa delle infiltrazioni della Stasi nella Germania dell’Est. Cadute le coperture qualcuno ha reagito e l’Fbi è stata chiamata a rispondere delle sue azioni davanti ai tribunali. Spesso in giudizio ha portato un solo argomento a sua difesa: quello del segreto di stato. Rivelare le informazioni sul programma di sorveglianza avrebbe compromesso la sicurezza nazionale. Tuttavia, per i ricorrenti l’applicazione di una normativa specifica, il Foreign Intelligence Surveillance Act, consentirebbe ai giudici di valutare i fatti senza necessariamente renderli pubblici e quindi di verificare la legalità delle azioni dell’Fbi senza compromettere la sicurezza nazionale. Ma l’Fbi, davanti alla Corte suprema, ha ribadito la sua posizione: non possiamo compromettere la sicurezza nazionale, il caso va dichiarato chiuso. È interessante che l’amministrazione Biden abbia assunto nel caso la stessa posizione dell’amministrazione Trump, condividendo le argomentazioni dell’Fbi: nessuno spazio di manovra, il segreto di stato deve prevalere. Durante le audizioni, avvenute la scorsa settimana, solo il giudice Neil Gorsuch (nominato da Donald Trump) si è spinto fino a sottolineare come “in un mondo in cui le questioni rilevanti per la sicurezza nazionale continuano ad aumentare, siamo davanti a un potere molto rilevante”. La narrazione tradizionale vuole che questa Corte suprema, a maggioranza conservatrice, sia particolarmente incline a tutelare i diritti delle comunità religiose rispetto agli altri diritti o rispetto ad altri interessi dello stato. Ma avverrà lo stesso quando a essere potenzialmente violati sono i diritti dei fedeli musulmani e non quelli di fedeli di altre confessioni religiose? Già nel caso Trump v. Hawaii la Corte suprema aveva giustificato, fondando la decisione su considerazioni relative alla sicurezza nazionale, il travel ban trumpiano che colpiva in maniera discriminatoria gli immigrati da paesi a maggioranza musulmana. Il potere di sorveglianza degli apparati pubblici non riguarda solo regimi autoritari, ma chiama anche le democrazie liberali a interventi decisi volti a tutelare i diritti civili e a porre limiti all’esercizio e all’abuso del potere statale. Mai come nel caso Fb v. Fazaga la Cina è vicina e chiama tutti all’esercizio della vigilanza. La nostra, non quella dello stato. Siria. Il massacro segreto degli Usa a Baghouz di Chiara Cruciati Il Manifesto, 16 novembre 2021 Inchiesta del New York Times: il 18 marzo 2019 tre bombe sull’ultima enclave dell’Isis uccisero 64 civili. Washington: “Atto di difesa”. Fin da subito dentro l’esercito si parlò di possibile crimine di guerra dell’unità di élite Task Force 9. Tre giorni dopo le Sdf avrebbero liberato la città siriana, dove cadde anche Lorenzo Orsetti. Lungo le rive dell’Eufrate il 21 marzo 2019, giorno di Newroz, il capodanno curdo, in Siria si concludeva una delle battaglie più feroci. Un’operazione militare iniziata come offensiva terrestre e diventata un assedio lungo settimane. A condurla erano le Sdf, le Forze democratiche siriane, federazione delle unità di autodifesa di diverse etnie e confessioni (curdi, arabi, assiri, turkmeni e siriaci, musulmani e cristiani) contro l’Isis in quella che era divenuta - dopo anni di resistenza delle comunità e della loro graduale liberazione - l’ultima sua enclave. L’avevano tutti, non a caso, ribattezzata “l’ultima battaglia”, quella che poneva fine dopo cinque anni al progetto statuale di Daesh, cominciato tra il 2013 e il 2014, tra la siriana Raqqa e l’irachena Mosul. A terra c’erano 15mila combattenti organizzati dall’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est. A sostenerli dal cielo c’era la coalizione internazionale, i caccia di Stati uniti, Francia e Regno Unito. Sull’altro lato, migliaia di miliziani islamisti, un numero che si è via via assottigliato: man mano che le Sdf liberavano uno dopo l’altro i quartieri più periferici di Baghouz, con il loro carico di decine di migliaia di sfollati fatti uscire con i corridoi umanitari, gli islamisti rimasti si arroccavano lungo il fiume. Protetti da cecchini, ordigni disseminati per le strade, da kamikaze e da veri e propri scudi umani: civili, moltissimi dei quali loro familiari, che hanno reso l’avanzata un lungo assedio, terribile. Dopo settimane di battaglia trovare cibo era quasi impossibile. Le Sdf aprivano altri corridoi umanitari, mettevano in pausa la battaglia per far scappare chi voleva andarsene, tra loro anche tanti miliziani che preferivano arrendersi. Due giorni prima della liberazione di Baghouz e della bandiera gialla delle Sdf con al centro la mappa della Siria che prendeva finalmente il posto di quella nera dell’Isis, lì cadde Lorenzo Orsetti, combattente italiano, Tekoser il nome di battaglia in curdo. Giorni complessi, lunghissimi. Qualche volta si accendeva anche una speranza: si era diffusa la voce che a Baghouz fossero tenuti ostaggi padre Paolo Dall’Oglio e il giornalista John Cantlie. Non furono trovati. Ora, a tre anni e mezzo di distanza da quei giorni, si aggiunge un non detto: il bombardamento americano che cadde su un gruppo di donne e bambini a Baghouz il 18 marzo 2019. Almeno 64 vittime, colpite vicino al fiume, in quello che è stato chiamato il Fort Alamo dell’Isis. All’epoca l’esercito parlò di 16 miliziani islamisti e quattro civili, ma si disse “non in grado di definire lo status di oltre 60 altre vittime”: “Probabilmente la maggior parte degli uccisi - ha detto domenica il capitano Bill Urban, portavoce militare Usa - erano anche combattenti al momento del bombardamento”. I dettagli sono stati resi noti due giorni fa con un’inchiesta pubblicata sul New York Times, secondo cui funzionari Usa, tra cui membri della Cia e delle forze armate, avevano già messo in dubbio la legittimità di quell’attacco, anche a fronte della denuncia di alcuni soldati che avevano fin da subito parlato di possibili vittime civili: “Chi l’ha lanciata?”, scrisse subito un analista nella chat usata da chi monitorava i droni. “L’abbiamo appena lanciata su 50 donne e bambini”, rispose un altro. “Uno dei più grandi massacri di civili nella guerra all’Isis”, lo definisce il Nyt: “Il bilancio di vittime è stato minimizzato. I rapporti sono stati ritardati, addolciti e classificati. Le forze della coalizione hanno raso al suolo il luogo del bombardamento”. Eppure fin da subito dentro l’esercito si parlò di possibile crimine di guerra. Era stato compiuto da un’unità d’élite, la Task Force 9, nemmeno il comando aereo Usa in Qatar ne era a conoscenza. Il comando Usa, però, aveva nascosto l’evento senza dare spiegazioni e l’unica inchiesta interna era stata realizzata dalla stessa Task Force 9, da molti considerata al di sopra di qualsiasi legge: l’80% dei bombardamenti compiuti sono stati classificati come “auto-difesa”, sebbene - secondo il Nyt - il 20% delle vittime civili in Siria sono state causate proprio da quell’unità. Ovviamente la Task Force 9 aveva concluso che il bombardamento era legittimo. Secondo il quotidiano, all’alba del 18 marzo l’Isis aveva attaccato le Sdf con granate e kamikaze. Alle 10 si erano alzati in volo i jet americani dopo la richiesta di aiuto dei combattenti a terra. Il drone che sorvolava l’area non aveva però più missili né una buona visuale. Non poteva distinguere la presenza di civili tra le tende. Arrivò un F-15E con bombe da 225 e 900 chili. Ne sganciò tre, l’ultima su persone che cercavano riparo. Il giorno dopo l’organizzazione “Raqqa is being slaughtered silently”, nata per raccontare l’occupazione dell’Isis, pubblicò le foto dei corpi di donne e bambini. In ogni caso per il comando centrale Usa si è trattato di un atto di difesa e comunque proporzionale perché a disposizione in quel momento c’erano solo bombe da una tonnellata. E poi, secondo Urban, “è importante notare che alcune donne e alcuni bambini, non importa se per scelta o perché indottrinati, decisero di prendere parte alla battaglia e non possono quindi essere classificati come civili”. “Noi giornaliste afghane di Herat sfuggite ai talebani e accolte in Italia” di Arezoo Yahya Zadeh e Ghazal Yahya Zadeh Corriere della Sera, 16 novembre 2021 Arezoo e Ghazal, due sorelle, sono arrivate nel nostro Paese con la loro famiglia il 26 agosto. Hanno vinto lo European Award Investigative and Judicial Journalism 2021. Ci presentiamo, siamo Arezoo Yahya Zadeh e Ghazal Yahya Zadeh, due giovani sorelle, giornaliste e attiviste per i diritti umani e sociali a Herat, in Afghanistan. Siamo le prime ragazze, pioniere, che si sono avvicinate ai media nella provincia di Herat. Abbiamo lavorato per circa dieci anni in diversi media afghani, collaborando con le principali emittenti televisive e radio del Paese. Negli ultimi 20 anni in Afghanistan, nonostante il dominio della Repubblica e il clima di democrazia, i fenomeni di violenza, discriminazione di genere, disuguaglianza sociale, pregiudizi ambientali, restrizioni sociali, corruzione diffusa, illegalità, coercizione, patriarcato e condizioni di guerra sono sempre stati grandi sfide per i cittadini afghani. In particolare per noi donne. Per noi è sempre stato tutto una sfida: ogni banalità è una sfida per una donna in Afghanistan. Ogni giorno, entrando nel posto di lavoro, abbiamo accettato molte avversità, affrontato difficoltà e lavorato duramente giorno e notte convivendo con apprensioni e paure. Noi siamo donne. La società afghana non aveva ancora uno spirito di armonia, integrazione e di sostegno verso le donne. Una società falsa, con un serio bisogno di conoscenza, di capacity building, che non era in grado di elevare il livello del pensiero e della cultura della popolazione. Le donne afghane hanno combattuto valorosamente negli ultimi 20 anni. Con abnegazione e coraggio sono state in grado di raggiungere la fiducia in se stesse e persino l’autosufficienza in vari campi tra i quali quello economico, sociale, politico, sportivo, commerciale, agricolo e tecnologico. Essere libere. I nostri progetti sociali e lavorativi stavano iniziando a prendere forma, il cambiamento era cominciato. La direzione era quella giusta, la strada era tracciata, noi vedevamo un futuro. Purtroppo il 15 agosto 2021 tutto è cambiato: le nostre grandi speranze, i sogni, i progetti sono andati in frantumi. Loro hanno preso il controllo dell’Afghanistan. Con il loro ingresso nelle città, a Kabul, ogni cosa della vita delle persone è cambiata e improvvisamente il luminoso giorno del popolo afghano si è trasformato in una notte buia. Con l’avvento dei talebani sono ricominciati gli anni bui delle donne, i cancelli dei media sono stati chiusi, le attività di organizzazioni e istituzioni sono state fermate, le strade vuote. È tornata l’atmosfera di paura, rabbia e odio. Tutti i nostri sogni si sono infranti, le conquiste degli ultimi 20 anni sono state distrutte. In questi anni però qualcosa è cambiato nella testa delle persone, delle donne. Questi 20 anni ci hanno insegnato che possiamo essere libere. Ci hanno insegnato che possiamo essere brave ed affermate nel lavoro, che anche noi possiamo andare a scuola, possiamo girare per le strade, possiamo andare in palestra, possiamo fare tutte quelle cose che prima erano impensabili. Con l’avvento dei talebani tutto questo non sarebbe più stato possibile. Il ritorno dei talebani è stato di grande impatto per noi e per le nostre famiglie: uno shock. Eravamo preoccupate per le nostre vite e il futuro incerto. Certe che i talebani si sarebbero vendicati di giornalisti, giornaliste e attiviste della comunità. Dopo che Herat è caduta nelle mani dei talebani, noi, due giovani ed emergenti giornaliste, abbiamo subito gravi traumi psicologici. Siamo state seriamente minacciate, costrette a lasciare le nostre case, abbiamo vagato nascoste per giorni interi in cerca di un posto in cui nasconderci. Ci sentivamo minacciate come mai era accaduto, la morte non ci sembrava poi così lontana. Nessuno ci stava aiutando o sostenendo, non avevamo alcun lume di speranza e tutte le strade e le opportunità di salvezza ci erano chiuse. Non sapevamo cosa fare. Al culmine di questa disperazione e di questa fuga senza fine abbiamo contattato le nostre carissime amiche italiane, Soldati dell’Esercito Italiano. Subito si sono preoccupate per noi e per la nostra famiglia, fin dal primo contatto. Ci siamo affidate completamente a loro, ci sentivamo di poterlo fare. Ci hanno detto di pazientare, di stare al sicuro e che ci avrebbero dato notizie non appena possibile. Attese interminabili, ore che sembravano anni. Hanno promesso di provare a salvarci da quella situazione, ci hanno chiesto di fidarci di loro e noi lo abbiamo fatto. La nostra attesa è durata poco. Pochi giorni dopo, con l’aiuto delle nostre migliori amiche Rosa, Francesca, Mariana e Federica siamo partite per Kabul. 800 km di viaggio in anonimato, nascoste, terrorizzate. Abbiamo impiegato un giorno intero per raggiungere Kabul. Una volta arrivate all’aeroporto è iniziato il caos. La gente si accalcava, le linee telefoniche non funzionavano, il terrore era negli occhi e nelle urla di tutti. Tre giorni, infiniti. Fatti di tentavi, fallimenti, pianti, paura e angoscia. Angoscia di non potercela fare. Quello che i nostri occhi hanno visto non si può raccontare. Fuori dall’aeroporto di Kabul c’era la disperazione di un intero popolo in cerca di salvezza, in cerca di un futuro, della libertà. Nonostante la situazione fosse durissima, non abbiamo mai perso la speranza e le nostre amiche non ci hanno mai abbandonato. Ci sono state accanto ogni giorno, 24 ore su 24. Confrontandoci, calmandoci e rassicurandoci. Il 26 di agosto il nostro incubo è finito, siamo state recuperate con la nostra famiglia. Salve. Per noi è stato un miracolo e siamo infinitamente grate per gli sforzi dei nostri amici e dell’Esercito Italiano che ci hanno aiutato nella versione peggiore dell’Afghanistan. Viviamo in Italia da più di due mesi ormai, siamo entrate in una nuova fase delle nostre vite. Il Governo Italiano, le autorità italiane e il popolo italiano hanno un cuore molto grande e continuiamo a ricevere gentilezza infinita da loro. Grazie. La nostra gioia è esplosa quando abbiamo saputo che l’Associazione Socio-Culturale “Sirio”, presieduta dal Dott. Massimo Scuderi, ci ha individuate come vincitrici del Riconoscimento Speciale al Giornalismo Internazionale dell’European Award Investigative and Judicial Journalism 2021. Per noi è un orgoglio e una gratificazione immensa, indescrivibile. Noi, giornaliste afghane, siamo onorate che i nostri sforzi e la nostra lotta siano stati riconosciuti. Questo riconoscimento renderà le nostre vite grandiose e i nostri obiettivi più ampi affinché possiamo continuare a lavorare in questa direzione. Grazie al Presidente Massimo Scuderi per aver scelto noi. Speriamo che venga il giorno in cui le donne afghane potranno vivere come le donne di altri paesi e godere di tutti i loro diritti, senza guerre né violenze. Ringraziamo ancora una volta l’Esercito Italiano, il Governo Italiano e il popolo italiano tutto. Grazie per la nobiltà d’animo, per il sostegno e per il grande aiuto a noi due sorelle giornaliste e alla nostra famiglia. Myanmar. Scarcerato il giornalista americano Danny Fenster. Ha già lasciato il Paese La Repubblica, 16 novembre 2021 Il giornalista statunitense Danny Fenster è stato rilasciato in Myanmar dopo essere stato condannato la scorsa settimana a 11 anni di carcere. Lo ha annunciato poco fa su Twitter il suo datore di lavoro. “Grandi notizie. Ho sentito che Danny Fenster è uscito (di prigione)”, ha scritto Sonny Swe, editore del magazine “Frontier Myanmar”. A mediare per il rilascio di Fenster - che ha già lasciato il paese - è stato l’ex politico statunitense Bill Richardson, che ha compiuto “una visita umanitaria privata nel Myanmar e negoziato faccia a faccia con il generale Min Aung Hlaing”, comandante in capo delle forze armate del Paese. Fenster, giornalista statunitense 37enne agli arresti a Myanmar dallo scorso maggio, era stato condannato la scorsa settimana a 11 anni di reclusione dopo essere stato ritenuto colpevole di diversi reati tra i quali incitamento all’odio e diffusione di informazioni false. Appena due giorni prima l’avvocato del giornalista, Than Zaw Aung, aveva annunciato che Fenster era stato incriminato anche per i reati di terrorismo e sedizione. Il 37enne statunitense, direttore manageriale di “Frontier Myanmar”, era stato arrestato lo scorso maggio mentre tentava di imbarcarsi in un volo in uscita dal Paese presso l’aeroporto internazionale di Yangon. Non è ancora chiaro quali circostanze abbiano motivato le ultime accuse, che potevano costare al giornalista due condanne a 20 anni di reclusione ciascuna in aggiunta a quella comminatagli precedentemente. Le autorità birmane avevano ignorato Fenster in occasione di una recente amnistia che ha portato al rilascio di centinaia di persone arrestate durante le proteste anti-golpe dei mesi scorsi.