Carcere, tutti i numeri vita.it, 15 novembre 2021 Secondo i dati forniti dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria al 31 ottobre 2021, i detenuti negli istituti di pena italiani sono complessivamente 54.307. Aumentano i suicidi e la popolazione detenuta anziana. La popolazione penitenziaria torna a salire nel mese di ottobre 2021. Secondo i dati forniti dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria al 31 ottobre 2021, i detenuti negli istituti di pena italiani sono complessivamente 54.307. Un dato ormai stabilmente distante da quello di febbraio 2020, quando nelle carceri italiane c’erano oltre 61 mila persone detenute. Stabile, secondo i dati ufficiali forniti dall’Amministrazione penitenziaria, anche la capienza regolamentare con 50.851 posti. In lieve aumento la presenza di stranieri: al 31 agosto 2021 sono 17.315. Le detenute donne, invece, sono 2.283. Il sovraffollamento, tuttavia, è ancora critico in alcune regioni e in alcuni istituti di pena nonostante il dato nazionale più favorevole. Detenuti stranieri - In costante calo è la popolazione detenuta straniera: al 31 dicembre 2020 i detenuti stranieri sono circa 17,3 mila, contro i 19,9 mila di fine 2019 e i 20,2 mila del 31 dicembre 2018. Un dato, quello di fine 2020, che rispecchia il trend nazionale e segna un ritorno al 2015. La percentuale di popolazione straniera in carcere rispetto al totale dei detenuti invece passa dal 34 per cento del 2017 al 32,5 per cento di fine 2020. Di carcere si può morire - Lo confermano i dati dei suicidi negli istituti di pena italiani. Al 31 dicembre 2020 sono 61 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere secondo il Dap. Un dato che torna a salire nonostante il forte e repentino calo della popolazione detenuta e che, con quello del 2018, rappresenta il dato più alto dal 2002 ad oggi, anche se non il più alto in assoluto. Nel 2001, infatti, ci sono stati ben 69 suicidi negli istituti di pena italiani e nel 1993 si registrarono ancora una volta 61 suicidi. Fine pena mai. Per la prima volta - in base ai dati raccolti il 31 dicembre di ogni anno - il numero dei detenuti condannati all’ergastolo diminuisce. I volontari - Dal 2009 al 2017 cresce in maniera costante la presenza dei volontari in carcere. Nel 2017 sono 16,8 mila i volontari impegnati in diverse attività. Nel 2009 erano circa 8,5 mila. Nel 2018, invece, il dato è pressoché stabile rispetto all’anno precedente. Secondo i dati del Dap, quindi, ci sarebbe un volontario ogni 3,5 detenuti, ma i dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone nel corso delle visite agli istituti di pena italiani mostrano un impegno maggiore da parte del volontariato. Secondo Antigone, negli istituti visitati il rapporto detenuti/volontari è pari un volontario ogni 7 detenuti. Detenuti anziani - L’ultimo rapporto del Comitato di Giustizia del Parlamento, rileva come i detenuti di età più adulta siano cresciuti del 243% tra il 2002 e il 2020, passando da 1500 a oltre 5000. Il 90% di loro presenta almeno un problema di salute, fisico o mentale, o una disabilità. Più del 50% ha tre o più patologie. Il 70% dei detenuti con più di 60 anni ha ricevuto un trattamento medico nei dodici mesi precedenti all’arresto. Contro il 45% dei soggetti al di sotto dei cinquant’anni. Quanto costa un detenuto? Un recente studio della Bocconi ha messo in evidenza che ogni detenuto costa alla comunità 154 euro al giorno, di cui solo sei per il mantenimento del detenuto, appena 35 centesimi per la sua rieducazione, prevista dalla Costituzione italiana. I soldi degli italiani che lo Stato spende non mirano all’attuazione di uno principio costituzionale. Non rieducare significa incrementare la recidiva che in Italia, come sottolinea lo stesso studio, è del 68%, dato che scende al 19% quando si applicano misure alternative come la semilibertà e le forme di inserimento lavorativo”. Così il sindaco di Firenze Dario Nardella al Riformista l’altro giorno, commentando la drammatica condizione del carcere di Sollicciano. “L’uso selvaggio dei trojan lede i diritti: lo sanno pure i giustizialisti” di Davide Varì Il Dubbio, 15 novembre 2021 Intercettazioni, per il costituzionalista Francesco Saverio Marini, bisogna limitare l’uso indiscriminato della micro-spia che invece dovrebbe essere “assolutamente eccezionale”. L’uso dei trojan “richiede un ripensamento e un’attenta riflessione, perché per come oggi è disciplinato incide troppo invasivamente sulla vita privata di tutti i cittadini, ledendo la riservatezza delle comunicazioni personali sancita dall’articolo 15 della Carta costituzionale. È assolutamente necessario trovare un nuovo e più equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali che vengono in rilievo, potenziando i limiti giuridici all’uso del trojan; il suo utilizzo deve essere assolutamente eccezionale. Oggi la segretezza delle comunicazioni rischia di essere gravemente compromessa e nessuno, pur non avendo commesso illeciti, può escludere di non essere intercettato. Gli stessi giustizialisti sono i primi ad esserne consapevoli e ne subiscono le conseguenze”. Così il costituzionalista Francesco Saverio Marini, professore di Diritto pubblico all’Università di Roma Tor Vergata, che all’Adnkronos individua i punti essenziali su cui a suo giudizio è necessario intervenire dal punto di vista normativo. Tra gli interventi, Marini indica in primo luogo la necessità che siano rideterminati i reati per i quali è possibile ricorrere alla micro-spia: “Una cosa è intercettare nell’ambito di reati di mafia o terrorismo internazionale, un’altra estendere a quelli contro la Pubblica amministrazione anche a titolo colposo, non doloso, includendo anche i meri incaricati di pubblico servizio”. Con che conseguenza? “Che io semplice cittadino - risponde - potrei incappare senza saperlo nel trojan inserito sul telefono di un dipendente della pubblica amministrazione”. In secondo luogo, secondo il costituzionalista, “va limitata la possibilità d’uso di questi strumenti, che vanno utilizzati solo per il fine per il quale sono stati autorizzati. Non in modo indiscriminato, ma circoscritto a situazioni di luogo e tempo. Vanno, poi, ampliate le garanzie processuali, prevedendo il coinvolgimento di un organo collegiale. Più in generale - prosegue - nella prassi si incorre talvolta in un errore di fondo sullo strumento: il trojan dovrebbe, infatti, essere un mezzo solo di conferma delle indagini, cioè degli indizi che già individuano una colpevolezza, non di ricerca nuovi reati”. In terzo luogo, che accade nell’ipotesi in cui il magistrato autorizzi l’uso del trojan al di fuori di quanto previsto dall’ordinamento, ad esempio nel caso in cui non ci siano indizi sufficienti? “Qui ci ricolleghiamo alla responsabilità dei magistrati - risponde il giurista - Rispetto all’uso del trojan sarebbe necessario un approccio più garantista dato che si incide sui diritti fondamentali della persona. Tra l’altro andrebbero risarciti effettivamente i soggetti oggetto di intercettazioni e che poi vengono assolti. Mentre l’ordinamento oggi non garantisce un risarcimento adeguato, che dovrebbe consistere non solo in un totale ristoro delle spese di giustizia, ma anche di tutti gli effetti dannosi all’immagine e personali che l’uso del trojan ha prodotto”. Tra l’altro, afferma il professore di Tor Vergata, “lo Stato si deve assumere la responsabilità, in termini di costo vivo e diretto, dei danni gravissimi che può provocare a soggetti privati, anche attraverso la diffusione di informazioni riservate a mezzo stampa. Solitamente, non dovrebbe essere il giornalista che deve garantire il risarcimento, perché il suo mestiere è proprio quello di diffondere la notizia e di informare, ma lo Stato che deve assumersi l’onere economico del perseguimento dei reati, nel quale non può non rientrare anche il risarcimento integrale a chi è stato incolpevolmente danneggiato”. “Cordate per condizionare il lavoro della magistratura”: l’accusa di Di Matteo in tv di Liana Milella La Repubblica, 15 novembre 2021 L’ex pm del processo “Trattativa” su La7: “La logica dell’appartenenza simile alle logiche mafiose”. “Io temo che, soprattutto negli ultimi anni, si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l’attività del Consiglio superiore della magistratura e dell’intera magistratura”. Lo ha detto il giudice togato del Csm Nino Di Matteo, ex pm del processo palermitano “Trattativa” intervistato da Andrea Purgatori ad Atlantide, trasmissione in onda stasera su La7. “Con l’appartenenza alle cordate - prosegue Di Matteo - “vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera” e l’avversario “diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare”. E in fondo - aggiunge il togato, “la logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose”, è “il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura”. Secondo Di Matteo, il “sistema” delle correnti del quale Luca Palamara era solo una “pedina”, al quale si affianca quello delle “cordate”, è uno schiaffo al sacrificio dei 28 magistrati uccisi dalla criminalità organizzata e dal terrorismo come Falcone e Borsellino, che gli stessi appartenenti al ‘sistema’ “fingono di onorare” e “utilizzano la loro tragica morte per attaccare i magistrati vivi”. Come la politica, che ha rinunciato alle sue responsabilità per “usare i magistrati come alibi” e - sottolinea Di Matteo - sta discutendo una “pessima riforma” della Giustizia presentata dalla ministra Marta Cartabia, che “rischia di mandare in fumo tanti processi”. Da pochi giorni è uscito il libro “Nemici della giustizia” scritto da Di Matteo con il giornalista Saverio Lodato. Lombardia. Allarme malati psichici in carcere. Una bomba pronta a esplodere di Mario Consani Il Giorno, 15 novembre 2021 In Lombardia soffrono di disturbi mentali 880 detenuti su 7.800, ma i posti per loro sono solo 30. Due celle devastate dal fuoco in poche ore, a Monza. Autore del gesto un detenuto che ha iniziato a protestare per motivi poco chiari, urlando e spaccando tv e sanitari. E poi ha appiccato il fuoco. Sempre lui, il giorno prima, aveva cercato di dare fuoco a un’altra cella. Gesti apparentemente inspiegabili, frutto di cortocircuiti mentali. Ma quanti sono, nelle 18 carceri lombarde, i reclusi con problemi di salute psichica? Quasi 900 sui 7.800 ospiti. La premessa necessaria è che i numeri dell’affollamento delle celle sono tornati a salire. A fine giugno, stando all’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, rispetto all’anno prima la popolazione carceraria era aumentata in 6 regioni italiane, tra cui la Lombardia. E la classifica dei cinque peggiori istituti italiani per presenze extra capienza era guidata da Brescia (378 detenuti, 200% di affollamento, il doppio dei letti regolamentari) seguita al quinto posto da Bergamo (529 detenuti, 168%). È evidente che queste condizioni certo non aiutano chi ha già i suoi problemi. Nella relazione di metà mandato del Garante milanese delle persone private della libertà Francesco Maisto, presentata ad agosto, si denunciava che “la maggiore criticità attuale in tutte le nostre carceri è rappresentata dalla grave carenza di assistenza psichiatrica”. Una realtà, quella dei detenuti con disturbi mentali, che è andata peggiorando negli ultimi anni. Da gennaio 2015 a fine aprile 2021 “si è assistito ad un crescendo di tale fenomeno”. L’anno peggiore è stato il 2020, quello della pandemia. “É evidente - osserva Maisto - come l’impatto dei disturbi psichiatrici e del comportamento sia decisamente importante rispetto alla difficile gestione dei detenuti che viene, da più parti, rappresentata”. A livello regionale, si legge nella relazione Maisto, sono ben 880 le persone con problemi di patologie psichiatriche (672) o con disturbi del comportamento (208). Eppure in Regione sono solo due i reparti all’interno delle carceri destinati a reclusi con questi problemi, a Monza e a Pavia. “In tutto, appena una trentina di posti letto” spiega Valeria Verdolini responsabile di Antigone Lombardia. E quei reparti sarebbero destinati a chi in carcere non deve stare ma attende un posto in una rems, le residenze che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici ma hanno lunghe liste d’attesa. Nel frattempo, c’è anche chi in cella si toglie la vita: in Lombardia 5 detenuti dall’inizio dell’anno. Tre di loro nelle sole ultime due settimane. Santa Maria Capua Vetere. Violenze nel carcere, la Procura chiede il processo per 108 di Conchita Sannino La Repubblica, 15 novembre 2021 E c’è anche un’accusa di omicidio colposo. Il 15 dicembre l’udienza preliminare, torture e abusi i reati ipotizzati per agenti e funzionari. Per dodici di essi anche l’imputazione per la morte di un detenuto algerino, che non sopravvisse alle percosse. È stata l’”l’ignobile mattanza” che ha terremotato l’intera catena di comando del Dap in Campania. Un anno e sette mesi dopo le violenze di massa nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) - avvenute il 6 aprile del 2020 ai danni di decine di inermi detenuti, e in gran parte documentate grazie ai filmati choc che gli inquirenti hanno acquisito con estremo tempismo dal sistema di videosorveglianza interno - rischiano il processo in 108. Gravissime le accuse: tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico, depistaggio. E per 12 pesa anche un’altra imputazione: l’omicidio colposo di Lamine Hakimi, l’algerino di 28 anni lasciato morire, da solo, dopo i lividi e le percosse, perché abbandonato senza alcuna assistenza, in isolamento nel reparto Danubio. L’udienza preliminare è stata fissata dal gip Pasquale D’Angelo per il 15 dicembre nell’aula bunker dello stesso carcere. Tra coloro che potrebbero andare a giudizio, c’è l’ex numero uno del Provveditorato delle carceri in Campania, Antonio Fullone (tuttora interdetto); c’è l’allora comandante del Nucleo operativo del centro penitenziario di Secondigliano e soprattutto vertice del gruppo di “Supporto agli interventi” Pasquale Colucci, tuttora agli arresti domiciliari; c’è la ex comandante del Nucleo operativo di Avellino, Tiziana Perillo, e la ex responsabile del Nucleo di Santa Maria Capua Vetere Nunzia Di Donato, oltre ad Anna Rita Costanzo, la commissario capo responsabile del reparto Nilo (anche lei ai domiciliari), e l’ex capo della penitenziaria a Santa Maria, Gaetano Manganelli (anche lui ristretto in casa). L’inchiesta firmata dal procuratore aggiunto Alessandro Milita, con le pm Daniela Pannone e Alessandra Pinto, con la procuratrice Antonietta Troncone (oggi alla guida di Napoli Nord) ricostruì il clamoroso pestaggio cui aderirono - con, diversi ruoli e responsabilità, circa 300 agenti, molti dei quali non identificabili. Obiettivo: suonarle a quei reclusi, “colpevoli” di aver messo in piedi, il giorno prima, una rumorosa protesta (non l’unica in quei giorni di disordini e ribellioni nelle carceri italiane, dove i saranno 13 i detenuti a perdere la vita e 200 i feriti) per chiedere misure di prevenzione contro l’epidemia di Covid che aveva raggiunto l’istituto. In particolare, lo stesso Fullone, con Perillo, con Colucci e altri tra “graduati” e agenti della penitenziaria, dovranno rispondere anche della morte di Hakimi. Stando infatti all’impianto accusatorio quel decesso non fu il frutto di un suicidio, ma l’esito di condotte “omissive e commissive”: Lamine fu percosso e abbandonato come altri, ma, a dispetto delle sue patologie che richiedevano cura e controllo sanitario, fu lasciato senza assistenza. Quindi, prima le botte, poi una quantità tossica di farmaci - oppiacei, neurolettici e benzodiazepine - assunta “in rapida successione e senza controllo sanitario”. Figure apicali e funzionari dell’amministrazione, comandanti e agenti della polizia penitenziaria compariranno dunque davanti al giudice: è un articolato segmento dello Stato che dovrebbe puntare alla rieducazione e al recupero dei reclusi. E che risponde invece di quelle scene che hanno fatto il giro del mondo. Esponendo l’Italia anche agli occhi degli osservatori europei. La videosorveglianza interna, stando alla ricostruzione, doveva essere disattivata durante la “spedizione punitva”. Invece, le telecamere ripresero tutto. Il 28 giugno scorso il blitz con 52 misure cautelari. Poco dopo, la violenza di quelle scene live, i pestaggi in diretta con manganelli e caschi, fa il giro del mondo. Sberle, calci e pugni. Detenuti costretti a denudarsi, o a mettersi con la faccia al muro, o caduti sotto i colpi inferti da tanti agenti, molti dei quali coperti da caschi integrali e neanche identificabili. E il 14 luglio scorso, ecco il premier Draghi e la ministra Cartabia entrare a Santa Maria Capua Vetere. Quell’intervento fu una rappresaglia, organizzata per rispondere col pugno di ferro ai disordini del giorno prima: come hanno ipotizzato i pm e ha affermato anche il gip? E soprattutto: ai vertici dell’amministrazione penitenziaria della Campania, tutti sapevano di quale natura fosse la spedizione che raccolse oltre trecento agenti nella struttura dell’agro aversano? L’accusa ritiene di sì. E ipotizza, proprio a carico dei capistruttura, una serie di falsi e depistaggi realizzati proprio con l’intento di “travestire” da reazione difensiva l’esecuzione di un progetto che il gip Sergio Enea definì “ignobile mattanza”. Intercettazioni, messaggi, e telefonate confermano ogni sospetto: le misure cautelari hanno retto, finora, anche in Cassazione. E adesso si va verso il processo. Torna il ricordo di quelle chat tra indagati. Messaggi da cui emergevano paura, involontarie confessioni e (tardivo) senso della realtà: “E mo’ so’ c...i. Pagheremo tutti”. Modena. Detenuti per reati sessuali e maltrattamenti, sottoscritto un protocollo di Roberto Di Biase emiliaromagnanews24.it, 15 novembre 2021 È stato sottoscritto tra Azienda USL di Modena e la Casa Circondariale di Modena un Protocollo di Trattamento Psicoterapeutico e Psico-educativo rivolto alle persone detenute: un percorso di recupero psicologico e sociale per gli autori di reati a sfondo sessuale, maltrattamenti di genere e stalking, con l’obiettivo di prevenire in futuro ulteriori comportamenti violenti e, più in generale, una modalità di intervento per favorire un potenziale cambiamento nelle persone, sia uomini che donne. Il documento, frutto di un lavoro approfondito iniziato alcuni anni, fa definisce un progetto di intervento che prevede sia colloqui individuali che di gruppo. Il modello di trattamento applicato fa tesoro e applica in un contesto specifico l’esperienza del Centro LDV (Liberiamoci dalla Violenza) dell’Ausl di Modena che dal 2011, utilizzando l’approccio metodologico adottato dal Centro norvegese ATV di Oslo, il primo del suo genere in Europa che prende in carico autori di violenze. Il progetto permetterà una programmazione di trattamento delle persone detenute rivolto alla loro riabilitazione sociale, alla riduzione del rischio di ricaduta criminale e, in particolare, alla tutela della società. Intervenire ai fini riabilitativi, infatti, può ridurre il rischio che vi siano nuove vittime del medesimo reato e, al contempo, favorire la presa in carico della persona in un momento esistenziale particolare come il periodo carcerario, per avviare un percorso di possibile cambiamento e dare alla pena anche un valore terapeutico. Presa in carico e accesso - Il percorso riabilitativo prevede la presenza e l’intervento di un’equipe di operatori dell’area socio-sanitaria opportunamente formati. Il lavoro di recupero, svolto presso la Casa Circondariale di Modena, inizia con una fase di selezione e valutazione preliminare degli utenti, sia uomini che donne, autori di reati a sfondo sessuale o di maltrattamenti legati al genere, frutto del confronto con gli educatori dell’istituto penitenziario. Le persone individuate dall’equipe di osservazione e trattamento del carcere vengono segnalate allo psicologo Ausl, formato e competente sul tema, per la presa in carico. Nell’individuazione del caso vengono tenuti in considerazione tre fattori: ammissione o parziale ammissione del reato commesso, riconoscimento delle proprie responsabilità e fragilità, disponibilità di partecipare ad un percorso di trattamento psicoterapeutico/psico-educativo. Tra i criteri di inclusione c’è, in particolare, la presenza di una condanna definitiva rispetto ai resti sessuali e/o maltrattamento di genere e la sufficiente conoscenza della lingua italiana parlata e scritta. Percorso terapeutico e metodologia - Dopo la selezione e l’adesione della persona detenuta, segue il trattamento vero e proprio che consiste sia in una psicoterapia individuale con lo psicologo, sia in una psicoterapia di gruppo in co-partecipazione con altre figure sanitarie. Il trattamento psicoterapeutico prevede in media un percorso di un anno con colloqui clinici sia individuali che di gruppo. Negli incontri individuali vi sarà la possibilità di lavorare su aspetti più personali che riguardano il proprio vissuto in riferimento al reato commesso. Il trattamento di gruppo, invece, si pone come obiettivo, attraverso il confronto con altri detenuti, quello di far acquisire maggior consapevolezza sui reati commessi attraverso tematiche specifiche come prevenzione della recidiva, stili di attaccamento, genitorialità, riconoscimento del concetto di violenza, acquisizione di nuove strategie di coping e gestione dello stress, acquisizione di nuove modalità comunicative più funzionali dei propri bisogni. La conclusione del trattamento prevede l’invio della persona, in sinergia con l’equipe del carcere, ove possibile, ai servizi sanitari di residenza, per la continuità del trattamento, o in caso di fruizione di misura alternativa alla pena o una volta scarcerato. “Il Protocollo sottoscritto con l’Azienda USL di Modena si colloca nel solco di una consolidata collaborazione istituzionale volta sinergicamente alla cura e al trattamento delle persone detenute - afferma Anna Albano, Direttore reggente della Casa Circondariale di Modena -. In particolare il trattamento riabilitativo nei confronti di soggetti maltrattanti e autori di reati a sfondo sessuale risponde ad una emergenza sociale che vede un significativo aumento percentuale dei ristretti per tale tipologia di reati. Il progetto ideato ed elaborato nel corso di alcuni anni è l’espressione corale di un gruppo di lavoro di professionisti sanitari e penitenziari che operano all’interno dell’Istituto modenese che ospita un centinaio di detenuti potenzialmente interessati da questo percorso di consapevolezza e potenziale cambiamento. Strategica, ai fini della prevenzione sociale e della tutela delle vittime, la previsione di invio ai servizi sanitari territoriali dell’autore di reati nei casi di dimissione dal carcere”. “La sessualità è la dimensione più intima e privata della persona: la sua violazione implica un’offesa alla dignità e alla libertà umana - dichiara Paolo De Pascalis, psicologo e psicoterapeuta del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell’Azienda USL di Modena -. Personalmente penso che non si possa raggiungere una soluzione efficace se al carcere non viene affiancato un percorso di trattamento, nello specifico psicoterapeutico, che aiuti e sostenga chi non deve mai più offendere il corpo di una donna, di un uomo o di un bambino. Sottolineo, per evitare fraintendimenti, che il recupero degli autori non deve sostituire la pena ma è assolutamente doveroso che la società civile offra loro la possibilità di tornare ad essere persone inoffensive per sé stessi e per le persone che incroceranno nella loro vita”. Roma. “Mio figlio evaso dal Pertini perché lo avevano abbandonato” di Luca Monaco La Repubblica, 15 novembre 2021 “Mio figlio ha una doppia diagnosi, è stato giudicato incompatibile con il sistema carcerario, sono sette mesi che aspetta un posto in una Residenza sanitaria per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), che non si trova. Così lo state uccidendo”. È la richiesta d’aiuto, disperata, di Marco Brunetti, un imprenditore 56enne e padre di Federico, il 24enne che martedì scorso è scappato per la seconda volta dall’ospedale Pertini dove è detenuto e piantonato da tre agenti della polizia penitenziaria. Brunetti, che ha già perso il primogenito Simone il 17 luglio del 2017 in seguito a un grave episodio di cronaca, chiede giustizia per Federico, che “deve scontare la sua pena - sottolinea - ma ha tutto il diritto di essere curato”. Di cosa soffre suo figlio, perché è detenuto? “Federico è stato arrestato nell’aprile scorso perché aveva bloccato la corsa della metropolitana usando un estintore, è stato immobilizzato con lo spray urticante e portato a Regina Coeli dove è rimasto fino alla fine di settembre. Poi da ottobre, su disposizione del giudice, è stato portato al Pertini. Lui ha una diagnosi psicotica e una dipendenza da cocaina. Non è un pericoloso criminale, ha iniziato a star male da quando il fratello è stato ucciso da un poliziotto fuori servizio che gli ha sparato alle spalle a Guidonia, dopo una tentata rapina, fallita, a un portavalori con un’arma giocattolo. Deve essere curato”. Martedì è stato lei a riconsegnarlo alla Polizia penitenziaria... “Certo, ci mancherebbe. Quando Federico mi ha detto che era uscito lo sono andato a recuperare, l’ho portato casa e ho chiamato io la penitenziaria. Sono il primo a dirgli che deve stare li, tranquillo. È la seconda volta che scappa. Martedì è uscito dalla porta, mica si è calato dalla finestra. È andato via per andare dal barbiere: in ospedale non si trova nessuno che gli tagli i capelli. Aveva la barba così lunga che non riusciva più a mangiare”. Come è possibile? “È un mese e mezzo che lo tengono chiuso in una stanza, senza che possa parlare con nessuno né fare attività fisica. I medici gli dicono che è un ospite sgradito perché toglie un posto ai malati (al Pertini smentiscono). Gli danno solo le medicine e basta. Non ha alcun tipo di assistenza”. Nelle Rems non c’è posto? “Il giudice ha disposto l’ampliamento della ricerca di una Rems (sono strutture del sistema sanitario regionale) in tutta Italia, è 12esimo in graduatoria ma ancora non si vede luce. Lo Stato mi deve dire se Federico ha diritto di essere curato e recuperato o se lo vogliono vedere morto. Perché se è così allora lo chiudessero in una cella e buttassero la chiave”. Federico ha studiato, lavorava? “Si, è un perito tecnico, ma lavorava per un’azienda che assembla coperture da esterni. È un ragazzo buono e intelligente. Sta male. Chiedo aiuto alle istituzioni affinché possa essere curato come si deve, in una struttura dedicata. Ne ha tutto il diritto”. Dal diritto di difesa alla presunzione d’innocenza fino al giusto processo di Francesco D’Errico* Il Dubbio, 15 novembre 2021 Il 29 novembre 2018, a Bologna, prendeva vita Extrema Ratio, una realtà nata con lo scopo di promuovere una concezione di diritto penale liberale, costituzionale e minimo. In questo breve ma intenso triennio, attraverso la realizzazione di decine di incontri e un’incessante attività di informazione online, l’associazione ha diffuso i principi del garantismo con un duplice approccio; tanto da un punto di vista tecnico e culturale, valorizzando la necessità di un solida conoscenza teorica e giuridica, quanto da una prospettiva politica e sociale, non sottraendosi mai al confronto con l’attualità e con la quotidianità del “sistema giustizia”, a sottolineare l’importanza dell’aspetto divulgativo nel proprio impegno. Non è stata casuale, in questo senso, la scelta del titolo del primo congresso dell’associazione, che si terrà questo 28 novembre a Bologna: “Le ragioni del garantismo nell’epoca del populismo penale”. Extrema Ratio, infatti, è ben consapevole di muoversi in una società convinta di poter combattere ogni ingiustizia o male sociale con la sanzione penale. Resiste e troneggia, oggi, un contesto di “perenne emergenza”, in cui l’utilizzo della punizione e del carcere viene presentato alla comunità come l’unica soluzione possibile a priori: il risultato è una dimensione di populismo penale praticato e sostenuto dalla quasi totalità degli schieramenti politici, seppur con specifiche peculiarità e con le dovute, anche se rare, meritevoli eccezioni. Per questo, il cosiddetto “diritto terribile” conosce un’espansione senza precedenti. Il diritto penale, invece, dovrebbe rappresentare l’extrema ratio; non un “rischio sociale”, né un farmaco di facile prescrizione, bensì uno strumento da utilizzare in maniera proporzionale alle esigenze di tutela e da applicare in modo sempre rispettoso dei diritti fondamentali di chi ne è colpito. La Carta Costituzionale, in tal senso, dovrebbe costituire contemporaneamente il fondamento e il limite del diritto penale, presentandosi al tempo stesso come il faro e l’argine dello ius puniendi. Solo così, intendendo il diritto penale come “Magna Charta del reo”, si potrebbe dare piena ed effettiva tutela alle garanzie individuali: coltivandone un utilizzo residuale, nella consapevolezza che si tratta di una “risorsa scarsa”, dalle pessime proprietà ‘terapeutiche’ e dall’alta capacità distruttiva, e sperando che, in un giorno non troppo lontano, si possa dar vita a qualcosa di meglio del diritto penale stesso. Questi saranno i temi centrali del congresso, una giornata da vivere non solo come fondamentale momento di bilancio e di confronto interno sul prossimo triennio, ma anche come un’occasione per poter rilanciare pubblicamente quelle istanze garantiste che troppo spesso vengono sopraffatte dal chiassoso trambusto del populismo penale contemporaneo. Ciò sarà possibile, in particolare, grazie alla partecipazione straordinaria di due ospiti di elevatissimo profilo, quali il giudice costituzionale Nicolò Zanon e il professor Vittorio Manes, che interverranno attraverso un dialogo a due voci che avrà a oggetto alcuni dei pilastri del diritto penale liberale e costituzionale: dal diritto di difesa alla presunzione d’innocenza, passando per il principio di legalità e i suoi corollari, per arrivare al tema del giusto processo. Se è vero, d’altronde, come sostenne Montesquieu, che “è dalla bontà delle leggi penali che dipende principalmente la libertà del cittadino”, allora una seria riflessione sul tema della giustizia, che non sia ostaggio delle strumentalizzazioni e dalle mistificazioni che quotidianamente caratterizzano il dibattito, è il primo necessario passo verso una democrazia più matura. Una democrazia in grado di non affidare più al diritto penale compiti che non gli sono propri e che trovi nuovamente la forza di rimettere al Parlamento, e non ai tribunali, la risoluzione mediata degli interessi, delle contrapposizioni e dei conflitti che si producono in ogni società viva, libera e dinamica. In definitiva, al di là di chi rappresenterà il nuovo Consiglio Direttivo dell’associazione, Extrema Ratio si muoverà sicuramente verso tale orizzonte, conscia dei propri limiti, ma anche certa dell’importanza e dell’irrinunciabilità delle proprie battaglie, con la speranza e l’obiettivo che da minoritarie esse possano presto divenire patrimonio comune di tutta la comunità e di chi la rappresenta. *Presidente Extrema Ratio Quel confine tra diritto e letteratura che Sciascia consacrò al dubbio Il Dubbio, 15 novembre 2021 “La legge sembra aver perduto ogni pretesa di verità, e al giudizio non può essere più ascritta la funzione di disvelamento”. “È stato naturale pensare ad un volume della Biblioteca di cultura giuridica dedicato al rapporto di Sciascia con la giustizia, tema sul quale tutta l’opera dello scrittore di Racalmuto torna in continuazione. Ed è nato così il libro che il lettore ha tra le mani: un libro che interpreta al meglio la filosofia della collana, collocandosi sul confine tra letteratura e diritto, un confine meno definito di quanto si creda, in cui si incrociano riflessioni e sentimenti che segnano le nostre vite”. È quanto scrive il Primo Presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio, direttore della collana, nella sua presentazione al volume “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia” (Cacucci Editore, pp. 158). Nel libro, curato da Luigi Cavallaro e Roberto Conti (che firmano l’introduzione di cui qui riportiamo un estratto), giuristi autorevoli rileggono alcune tra le più celebri opere di Sciascia, cercandone insegnamenti per chi il diritto lo pratica per mestiere. Chiudono il volume una riflessione di Paolo Squillacioti, curatore delle opere di Sciascia per Adelphi, e un testo dello scrittore siciliano. “Che due magistrati curino un libro scritto da giuristi di varia appartenenza - accademica, forense, giudiziaria - è un fatto piuttosto comune nella prassi, e non meriterebbe di per sé nessuna specifica spiegazione che non sia quella indirettamente ricavabile dal tema che è oggetto dell’opera. Ma trattandosi, nella specie, di un libro scritto da giuristi che riflettono sull’opera di uno scrittore che giurista non fu, due parole in più sono forse opportune, se proprio non necessarie. Non si deve alle radici isolane che pure accomunano i curatori allo scrittore. Benché per ragioni diverse la figura di Leonardo Sciascia sia stata per entrambi presente fin dall’infanzia, lo stesso potrebbe dirsi di quella di Pirandello come di Brancati, di Verga come di Tomasi di Lampedusa: e mai essi avrebbero pensato di poter dedicare un omaggio a costoro, come invece hanno inteso fare allo scrittore racalmutese per il centenario della sua nascita. Il fatto è, piuttosto, che i curatori di questo libro hanno vissuto appieno, nella loro esperienza di giudici e cultori del diritto, la crisi della capacità ordinatrice della fattispecie legale di matrice statuale, sotto la cui ombra rassicurante avevano intrapreso i primi passi della loro formazione. (...) Entrambi i curatori di questo libro sono testimoni di un tempo in cui la legge sembra aver perduto ogni pretesa di verità e in cui, di conseguenza, al giudizio non può più essere ascritta quella funzione di disvelamento che era presupposta dalla tranquillizzante immagine del sillogismo. Ed è proprio qui che essi hanno incontrato la figura di Leonardo Sciascia e il suo inquieto confrontarsi con gli schemi di percezione propri del romanzo giallo: anch’esso nato all’insegna della fiducia nelle capacità di discernimento e rivelazione della ragione e nell’opera sciasciana ridotto invece ad espediente formale per raccontare di una società in cui la verità e la giustizia paiono diventate impossibili. Fu Sciascia stesso, in effetti, a confessare a Claude Ambroise che tutto, ai suoi occhi, era “legato al problema della giustizia” (“in cui s’involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo”); ed è facile constatare come, nell’intera sua opera, l’anelito per la giustizia costituisca l’autentico pendant delle innumerevoli “ingiustizie” (alcune reali, altre immaginate, altre spinte volutamente all’eccesso, al paradosso, alla parodia, alla parabola) di cui sono invece popolate le sue pagine. D’altra parte, se è vero che da queste pagine emerge uno spaccato per nulla edificante del “pianeta giustizia” e dei suoi attori - giudici, avvocati o investigatori che siano: quasi tutti intenti a fabbricare le menzogne di cui si alimenta una “verità giudiziaria” fasulla, ancorché “verosimile” - non è meno vero che, per lo scrittore racalmutese, nella scrittura questo problema può ancora trovare “strazio o riscatto”: ossia ritrovare quella “verità” che un’umanità dolente inutilmente attendeva, a fronte delle fallacie e delle pervicaci e ostinate illogicità ammannitele dalla giustizia “ufficiale”. Ciò che Sciascia critica in radice, dunque, non è la possibilità “in sé” della verità, ma piuttosto il concreto modo in cui è amministrata la giustizia, intesa come insieme delle istituzioni preposte all’applicazione della legge, a dicere ius: che è conclusione particolarmente interessante per i giuristi, perché alimenta la speranza - affatto assente, invece, in quell’a1tro “giallista” sui generis che è Friedrich Dürrenmatt - che il tempo difficile che pure stiamo vivendo non sia conseguenza di un’irredimibile “crisi della ragione” e sia ancora possibile (oltreché auspicabile) che il giudizio raggiunga non “una” verità qualunque, ma precisamente quella verità che possa dirsi anche “giusta”. Non è però semplice traguardo. (...) Sovviene qui la battuta di Laudisi al commissario Centuri, nel “Così è (se vi pare)” di Pirandello: “Vogliono una verità, non importa quale; pur che sia di fatto, categorica? E lei la dia!”. E si potrebbe perfino cogliere una contraddizione nel pensiero sciasciano, lì dove sembra attribuire all’incedere della giustizia un passo che è “nella totalità dei casi di impressionante lentezza e di atroce peso per coloro che vi si trovano implicati”, salvo poi stigmatizzare gli esiti “non veritieri” di quelle inchieste che si chiudono “con rapidità impressionante”; e legittimamente chiedersi se, ai suoi occhi, l’opera di bilanciamento tra opposti valori alla quale è spesso chiamato il decisore giudiziario sia da condannare come sintomatica di opaci compromessi al ribasso o testimoni invece di quel !ragionare” che egli esige da ogni decisore pubblico, politico o giudiziario che sia. Né ciò è tutto. Si può agevolmente dimostrare che l’equazione tra diritto e ragione espressamente postulata da Sciascia in più luoghi della sua opera presuppone che il termine “ragione” venga a sua volta declinato come sinonimo di ratio, e dunque come “bilanciamento” tra le istanze intrinsecamente conflittuali della libertà individuale e della giustizia sociale. Ma quando lo scrittore insiste sul “ragionare” che sta dietro alla “giustizia” del caso concreto, a quale “diritto” sta pensando? (...) La “verità” e la “giustizia” del diritto sono per Sciascia suscettibili di “conoscenza”? Dove si colloca la “verità” quando si debbono ricostruire i diritti delle persone, sempre più condizionati da una protezione proteiforme che un sistema integrato qual è quello odierno rende complesso individuare? Fino a che punto i valori immanenti alla coscienza sociale storicamente data possono penetrare nell’astratta formula legislativa per riportarla al caso concreto e alle necessità di tutela che esso reclama? C’è o non c’è del metodo in quel “ragionare” che, riempiendo di senso il testo di una disposizione di legge, produce la sua trasformazione in norma? E se il diritto non è suscettibile di un “ragionare” metodologicamente fondato, dove mai si potrà collocare quella differenza tra “verità” ed “errore” che pure si deve postulare, salvo inconsapevolmente parodiare il cinismo con cui il Presidente Riches proclamava che tutte le sue sentenze erano “giuste”? Queste le domande che i curatori di questo libro si son posti sin dai primi concistori in cui ha preso corpo la scommessa che a queste pagine è consegnata. Che vorrebbe essere, né più e né meno, una riflessione a più voci che provi finalmente a prendere sul serio gli interrogativi sul diritto, sulla verità e sulla giustizia che attraversano l’opera tutta di Leonardo Sciascia”. “Mare fuori”, la seconda stagione dal 17 novembre rai.it, 15 novembre 2021 I primi due episodi in anteprima su RaiPlay. Tornano le storie dei ragazzi rinchiusi nell’Istituto di detenzione minorile, raccontate nella serie “Mare fuori”, la cui seconda stagione andrà in onda in sei serate dal 17 novembre alle 21.20 su Rai2. I primi due episodi sono già disponibili in anteprima su RaiPlay. In queste puntate ogni detenuto si troverà di fronte, come uno specchio, la propria famiglia, e verrà chiamato a compiere una scelta: seguirne le orme o rinnegarle? Nuovi personaggi faranno il loro ingresso nell’Istituto, come Kubra, una ragazza di origini nigeriane colpevole di matricidio; o Sasà, un ragazzino arrestato per violenza carnale, un reato che è convinto di non aver compiuto. Intanto, fuori dalle mura, si indaga per cercare i veri responsabili dei crimini compiuti dai giovani detenuti. Nel cast della serie: Carolina Crescentini, Carmine Recano, Valentina Romani, Nicolas Maupas, Massimiliano Caiazzo, Vincenzo Ferrera, Antonio De Matteo e Anna Ammirati. Nel primo episodio, dal titolo “La famiglia che verrà”, Carmine è sospeso tra la vita e la morte, ma Nina non si arrende, convinta che per avere un futuro sia necessario crearselo. Massimo (Carmine Recano), schiacciato dal senso di colpa, decide di lasciare il suo posto di comandante e Paola, la direttrice dell’Istituto interpretata da Carolina Crescentini, si ritrova sola a fronteggiare i ragazzi dopo la morte di Ciro e vuole trasferire Filippo Ferrari in modo da evitare tragiche conseguenze. A compromettere il fragile equilibrio il ritorno di una vecchia conoscenza. A seguire, nell’episodio “Nella gioia e nel dolore”, Sasà, un ragazzo della Napoli bene, entra in istituto per un reato che non viene rivelato e diventa un nuovo bersaglio. Naditza sta per uscire e Filippo convince i suoi ad ospitarla a Milano. ‘O Chiattillo, però, è nel mirino di Pirucchio che vuole vendicare Ciro. Carmine esce dal coma e sposa Nina sotto protezione, con Filippo come testimone, mentre i Di Salvo non sono invitati. Il destino poi presenterà il conto. La colonna sonora della seconda stagione di “Mare Fuori”, prodotta e distribuita da RaiCom è firmata ancora una volta da Stefano Lentini e vede proseguire la collaborazione con Raiz, nella canzone “Amore che fa male”, e con Matteo Paolillo, autore di “Sangue Nero”, con le voci di due giovani attori e protagonisti della serie: Cardiotrap (Domenico Cuomo) e Gemma (Serena Codato). “Mare fuori - Seconda stagione”, una coproduzione Rai Fiction e Picomedia. Regia: Milena Cocozza e Ivan Silvestrini. Da un’idea originale di Cristiana Farina. Sceneggiatura: Maurizio Careddu, Cristiana Farina, Luca Monesi. Prodotta da Roberto Sessa. L’appello di Papa Francesco: “Non voltiamoci dall’altra parte, diamo voce ai poveri” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 15 novembre 2021 L’omelia del Pontefice nella Basilica Vaticana davanti a 2mila indigenti e ai volontari. L’analisi di Coldiretti-Istat: “Sono 5,6 milioni, non voltiamoci dall’altra parte”. È questo l’appello di Papa Francesco in occasione della quinta Giornata Mondiale dei Poveri. E non “dobbiamo aver paura a guardare da vicino la sofferenza dei più deboli”, ha poi aggiunto il Pontefice in un passaggio dell’omelia della messa celebrata nella Basilica Vaticana davanti a 2mila poveri ed indigenti, assieme ai volontari delle realtà caritative di Roma. Un richiamo forte a un impegno più diretto e costruttivo, rivolto non solo alle istituzioni ma anche a ogni singolo cittadino. Perché la povertà è dietro ogni angolo, anche in ogni condominio, in ogni quartiere, in ogni comunità. È una vera emergenza, aggravata dalla pandemia, proprio come evidenziato dall’analisi della Coldiretti su dati Istat, secondo la quale è cresciuto a 5,6 milioni il numero degli italiani in condizioni di povertà assoluta. È l’onda lunga del Covid-19. “Fra i nuovi fragili - viene indicato nella ricerca - ci sono coloro che hanno perso il lavoro, piccoli commercianti o artigiani che hanno dovuto chiudere, persone impiegate nel sommerso e che non godono di particolari sussidi o aiuti pubblici e non hanno risparmi accantonati, come pure molti lavoratori a tempo determinato o con attività saltuarie che sono state fermate dalle limitazioni rese necessarie dalla diffusione dei contagi per Covid”. Ecco quindi il richiamo politico e sociale del Papa: “A noi, specialmente a noi cristiani, tocca organizzare la speranza, tradurla in vita concreta ogni giorno, nei rapporti umani, nell’impegno sociale e politico - ha detto nell’omelia. Se la nostra speranza non si traduce in scelte e gesti concreti di attenzione, giustizia, solidarietà, cura della casa comune, le sofferenze dei poveri non potranno essere sollevate, l’economia dello scarto che li costringe a vivere ai margini non potrà essere convertita, le loro attese non potranno rifiorire”. E ogni singolo deve fare la sua parte: “Siamo chiamati a scoprire Cristo nei poveri, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro”. Senza voltarsi dall’altra parte. Clima e alimentazione: è la stessa crisi di Maurizio Martina* Corriere della Sera, 15 novembre 2021 L’aumento delle temperature e degli eventi atmosferici radicali sta già impattando sui sistemi agricoli con conseguenze sui prezzi delle materie prime e sull’aggravarsi delle condizioni di fame e malnutrizione. Occorre avere chiaro che la crisi climatica è anche crisi alimentare. L’aumento delle temperature e degli eventi atmosferici radicali sta già impattando sui sistemi agricoli e le conseguenze più evidenti sono legate sia all’aumento dei prezzi delle materie prime che all’aggravarsi delle condizioni di fame e malnutrizione. È stato calcolato che se le agricolture del pianeta non riusciranno ad adattarsi alle nuove condizioni climatiche, nel 2050 la produzione alimentare globale potrebbe ridursi del 10% e addirittura di un quarto entro fine secolo. Ciò a fronte di una popolazione che nella prossima decade si prevede cresca di circa settantacinque milioni di persone all’anno per arrivare nel 2050 a nove miliardi. L’indice mensile Fao dei prezzi agricoli descrive precisamente l’aumento dei costi derivanti anche dal mutamento delle condizioni ambientali e ci indica un picco dei prezzi come non accadeva da luglio 2011. Rischiamo di pagare di più il pane sotto casa anche a causa della crisi climatica. Circa il 75% di tutte le calorie che assumiamo arriva da quattro colture: grano, mais, riso e soia e i principali Paesi produttori di questi beni subiscono direttamente gli effetti di grandi siccità che causano rapidamente cali drastici dei raccolti e un conseguente aumento, altrettanto rapido, dei prezzi. Ed è proprio il caso di dire che nessuno si può sentire al riparo perché dal grano canadese, la cui produzione si è ridotta della metà circa a causa della siccità, passando per il mais carioca diminuito di un terzo, tutto il mondo è coinvolto. Ne sappiamo molto anche noi, se pensiamo a ciò che è accaduto anche recentemente nel nostro Mezzogiorno, ma non va meglio nel Nord Europa dove le precipitazioni sopra la media hanno logorato la qualità delle produzioni. Fatto sta che il bollettino dei prezzi segna aumenti dal grano alla soia passando per riso, mais, colza e altre produzioni. Se poi sovrapponiamo la mappa della fame a quella del cambiamento climatico ci rendiamo conto immediatamente che la stragrande maggioranza dei Paesi più vulnerabili soffre questa doppia emergenza. A ricordarcelo è anche la fotografia tracciata dal rapporto “Climate change, a hunger crisis in the making” promosso da un network di Ong in occasione di Cop26 che segnala inequivocabilmente questo nesso esiziale: dei trentacinque Paesi più vulnerabili al cambio climatico ben ventisette soffrono di insicurezza alimentare acuta. Ad Haiti, ad esempio, dove uragani, tempeste tropicali e terremoti hanno devastato raccolti e bestiame. In Bangladesh dove quasi la metà dei bambini è malnutrito a causa degli effetti di cicloni, alluvioni e siccità. In Madagascar che, secondo l’Onu, è purtroppo il primo Paese colpito dal cambiamento climatico con carestie che stanno devastandolo. È bene dunque avere chiaro che la crisi climatica è anche e soprattutto crisi alimentare. Ne possiamo uscire solo investendo seriamente su un nuovo rapporto tra agricoltura, alimentazione e ambiente con azioni capaci di produrre meglio, consumando meno. Senza omologazioni globali ma riconoscendo le diversità delle nostre agricolture e accompagnando, in ciascuno di questi contesti, innovazioni di massima sostenibilità. Gli esempi pratici non mancano per fortuna. Dall’agricoltura di precisione e digitale, ai sistemi di allerta precoce potenziati, alle tecnologie di remote sensing e approcci climaticamente neutri fino al miglioramento dei processi di utilizzo degli scarti per convertirli in energia pulita e ai cosiddetti carbon sinks per catturare anidride carbonica rimuovendola dall’atmosfera. Ad esempio, una larga diffusione dell’agricoltura di precisione può rendere più efficiente l’uso dell’acqua riducendone il consumo tra l’8% e il 20% e migliorare la gestione dei nutrienti del suolo. Ma servono maggiori risorse per le azioni di adattamento nei Paesi più vulnerabili, in particolare per le esperienze agricole famigliari. Perché questa doverosa transizione ha un costo e occorre che sia sopportabile e disponibile per tutti e non solo per pochi. Perché combattere il cambiamento climatico è la prima azione necessaria per combattere la fame. *Vicedirettore generale Fao Ainis: “Anche la più scellerata delle opinioni va salvaguardata” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 15 novembre 2021 Intervista al professor Ainis: “La circolare del Viminale si inserisce in un contesto di stato di emergenza. Ciò legittima le misure limitative dei diritti in nome dell’interesse alla salute”. “Per non dare forza alla robusta minoranza di sostenitori delle teorie antiscientifiche non dobbiamo far diventare i suoi rappresentanti dei martiri della libertà e lo si può fare soltanto consentendogli di esprimere le loro idee”. La pensa così il costituzionalista Michele Ainis che aggiunge: “Il fatto che la cifra di prime dosi somministrate stia di gran lunga diminuendo significa che la parte di opinione pubblica che non ne vuole sapere si è radicalizzata nel Paese”. Professor Ainis, nella circolare diffusa dal Viminale si tutela il diritto al dissenso ma specificando che “vi sono elevate criticità per l’ordine pubblico”, e per questo si invitano i prefetti a individuare “luoghi interdetti alle manifestazioni” da cui deriva un “potenziale pericolo per l’aumento dei contagi”. Come si concilia diritto al dissenso e tutela della salute? L’esperienza ormai biennale della pandemia ci costringe a camminare su una corda come gli acrobati. Per il green pass si è cercato di mediare tra la libertà di non vaccinarsi e la possibilità di stabilire l’obbligo del vaccino. Anche nel caso della libertà di riunione non c’è un divieto di manifestare, ma vengono posti dei limiti alle manifestazioni per cercare di contemperare a esigenze della salute collettiva. Pensa ci siano dei motivi d’allarme che derivano dal “mettere il bavaglio” ai cortei? Nella Costituzione è già prevista la possibilità che si limiti la libertà di manifestare per motivi di incolumità e sicurezza pubblica, ma in questo caso stiamo dentro a un difficile equilibrio costituzionale e quello che sta diventando motivo di allarme è l’eventualità che queste misure restrittive abbiano un bersaglio con nome e cognome. Questo non può accadere e sarebbe fuori dalla Costituzione vietare le manifestazioni degli ambientalisti piuttosto che dei no vax. Provvedimento che però non è stato preso, visto che la circolare riguarda tutti i tipi di manifestazione... Questo non c’è scritto nella circolare, ma credo che la più scellerata delle opinioni vada salvaguardata nella libertà di esprimersi del soggetto pensante. Proprio dando la possibilità all’opinione esecrabile di essere manifestata si rafforza nei più l’adesione all’opinione avversa. Faccio un esempio: una persona può non sentirsi antifascista, ma se poi vede un corteo fascista che dice frasi deliranti ecco che a quel punto si sente antifascista. C’è insomma una qualità pedagogica nel consentire la manifestazione del pensiero esecrabile. È possibile limitare cortei e manifestazioni in determinate aree, penso ad esempio alla città di Trieste dove c’è un forte aumento dei contagi? È possibile, legittimo ed è già successo. Quando i sindaci hanno chiuso delle aree perché erano zone rosse, magari corrispondenti a un piccolo comune, lì non si potevano tenere cortei. Lo sforzo di non impedire le manifestazioni è del tutto sensato, così come è sensata la possibilità di permetterle in zone meno rischiose per la diffusione del contagio. È preoccupato dalla possibilità che il divieto di manifestare possa appesantire un clima già teso tra le parti? Il clima che sta montando, che è un clima di scarsa tolleranza, di certo mi preoccupa. C’è in generale uno squilibrio nella comunicazione: da un lato è comprensibile e anche condivisibile, perché come ha detto il presidente della Repubblica “dobbiamo combattere la pandemia con gli strumenti che abbiamo, come il vaccino”. E quindi che ci sia una comunicazione orientata nel messaggio “vaccinatevi e scaricate il green pass” è comprensibile; dall’altro si tende a dare meno respiro alle diverse opinioni, con il rischio di ottenere il risultato opposto. Si spieghi meglio... Penso che non sia una buona idea, ad esempio, censurare le parole di monsignor Viganò, secondo il quale in sostanza chi muore per Covid in realtà viene ucciso. Quelle parole sono un assoluto delirio, ma dal mio punto di vista finiscono per far aumentare le persone che vogliono vaccinarsi, perché sono talmente assurde che nessuno gli va dietro. Lo sforzo di permettere nell’arena pubblica l’opinione dissenziente e delirante dovrebbe appartenere soprattutto al servizio pubblico, alla Rai. Bisogna dare maggiore accesso a queste opinioni, ma nella logica, come diceva John Stuart Mill, che “si impara più dalla rappresentazione dell’errore che da un bel sermone che si ascolta da un pulpito”. C’è secondo lei la possibilità che si raggiunga un dialogo tra oppositori delle teorie scientifiche e istituzioni? Il fatto che la cifra di prime dosi somministrate stia di gran lunga diminuendo significa che la parte di opinione pubblica che non ne vuole sapere si è radicalizzata nel Paese. Ma per non dare forza a questa robusta minoranza non dobbiamo far diventare i suoi rappresentanti dei martiri della libertà. E lo si può fare soltanto consentendogli di esprimere le loro idee. Tuttavia ricordo, per concludere, che la circolare del Viminale si inserisce in un contesto di stato di emergenza, che è una condizione giuridica e che legittima delle misure che comprimono i diritti in nome dell’interesse alla salute. La cannabis terapeutica è poca e i malati devono cercare i pusher di Valentina Errante Il Messaggero, 15 novembre 2021 Il paradosso della cannabis: c’è un boom dell’uso terapeutico ma l’Italia non la produce. Il fabbisogno stimato per il 2021 è di circa 3 tonnellate all’anno, la disponibilità si ferma invece al 44%. E così malati cronici che avrebbero diritto a curarsi con la cannabis terapeutica spesso sono costretti a coltivarla in casa o, peggio, a rivolgersi ai pusher. Rischiando anche di finire nei guai (come è già accaduto). Il consumo è stato legalizzato nel 2006. Teoricamente la salute sarebbe un diritto costituzionalmente garantito e invece, per chi necessita di farmaci a base di cannabinoidi, non è così, perché curarsi è quasi impossibile. Parlano i numeri: nel 2020, il fabbisogno stimato di preparazioni a base di cannabis, era di circa 2 tonnellate all’anno e la disponibilità, tra produzione e importazioni, ha lasciato inevaso il 44 per cento delle richieste. E così malati cronici, che avrebbero diritto a terapie specifiche per alleviare le sofferenze, spesso sono costretti a coltivare la cannabis in casa o, peggio, a rivolgersi ai pusher. Rischiando anche di finire dritti in galera (come è già accaduto). Il problema c’è anche se se ne parla poco e sarà affrontato, tra gli altri, il 27 e il 28 novembre a Genova, nei giorni della Conferenza nazionale sulla diffusione delle sostanze stupefacenti e psicotrope. Un appuntamento voluto dalla ministra per le Politiche giovanili con delega sulle droghe, Fabiana Dadone, a dodici anni dall’ultima convocazione. Dal 5 ottobre al 3 novembre, esperti, tecnici e addetti del settore si sono confrontati su vari temi, inclusa la scarsa produzione italiana e la mancanza di disponibilità di farmaci indispensabili per alcune malattie, come sclerosi multipla e sindromi che provocano crisi epilettiche. Oggi soltanto lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze è autorizzato a produrre cannabis medicinale, un’altra quota, tra farmaci e materie prime destinate alle case farmaceutiche, viene importata da Olanda, Svizzera e Canada, ma non basta e non tutte le regioni si sono adeguate. Così i farmaci, spesso irreperibili, non sempre sono rimborsati dal servizio sanitario nazionale. A questo problema se ne aggiungono altri due: il divieto per le farmacie di informare l’utenza sulla vendita di prodotti a base di cannabis terapeutica e quello di spedire preparati e farmaci, anche a malati cronici. Il fabbisogno probabilmente è stimato per difetto. L’Incb, organo internazionale per il controllo degli stupefacenti (Onu), ha valutato per il 2021, in Italia, un consumo di cannabis medica di 3 tonnellate. Nel 2020 era di due tonnellate. Ma, a fronte di queste richieste, la produzione, nello stabilimento di Firenze, lo scorso anno, è stata di 300 chili, cioè il 15 per cento in tutto del fabbisogno. Mentre le importazioni autorizzate alle case farmaceutiche sono state sono state di 215,26 chili. Cifre alle quali vanno aggiunti i quasi 665 chili di farmaci distribuiti alle farmacie dai grossisti autorizzati. La competenza per i permessi spetta all’Ufficio centrale stupefacenti della Direzione generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico, che dipende dal ministero della Salute, e svolge anche le funzioni di Organismo statale per la cannabis, valutando, annualmente, il quantitativo massimo di produzione, stabilito, poi, per decreto. Era il 2017 quando la possibilità di aprire la produzione di cannabis ad aziende private sembrava a un passo, ma poi il provvedimento si è arenato. E oggi il problema sembra lontano dalla soluzione. In Italia dal 2006 i medici possono prescrivere preparazioni contenenti sostanze attive a base di cannabis per uso medico. Le due sostanze attive di origine vegetale, a base di cannabis FM1 ed FM2, prodotte dal 2016 nelle quattro serre dello Stabilimento militare di Firenze, sono distribuite alle farmacie per l’allestimento di preparazioni magistrali su prescrizione medica. Dal 2007, invece, i grossisti, con un’autorizzazione dell’Ufficio centrale stupefacenti possono importare farmaci specifici come Bedrocan, Bediol, Bedrobinol, Bedrolite, Bedica e Sativex, farmaci specifici. Mentre le case farmaceutiche, autorizzate, importano il principio attivo per la produzione di farmaci. Anche i bambini affetti dalle sindromi di Lennox Gastaut, rara e grave encefalopatia epilettica, e di Dravet, una forma di epilessia resistente ai farmaci anticomiziali, dal 2020 possono essere curati con un farmaco a base di cannabinoidi. Le cure a base di cannabis sono ormai diffuse in quasi tutti gli ospedali per limitare le sofferenze e alcuni sintomi di patologie neurologiche e neurodegenerative o per alleviare i dolori patiti dai pazienti oncologici. Migranti. La sanatoria è fallita, ora una legge di iniziativa popolare per cambiare la normativa di Isabella De Silvestro Il Domani, 15 novembre 2021 “Al Viminale, ancora una volta, non ci ha accolti nessuno”, racconta Siddique Nure Alam, detto Bachu, uno dei portavoce della comunità bengalese di Roma e organizzatore del presidio che si è tenuto sabato 6 novembre in piazza dell’Esquilino, a due passi dalla sede del ministero dell’Interno. Tra i manifestanti molti gli esponenti della comunità indiana e bengalese impiegata nei campi di Latina. Le rivendicazioni della piazza riguardano ancora una volta i permessi di soggiorno e le problematiche legate alla sanatoria del governo giallorosso, che dopo un anno e mezzo ha regolarizzato solo il 30 per cento dei richiedenti. “Le prefetture continuano a rigettare le richieste dei 220mila lavoratori senza documenti che l’anno scorso hanno sperato di emergere dall’invisibilità. Per di più, circa 400mila lavoratori senza documenti non hanno nemmeno potuto presentare la richiesta di emersione per via di clausole eccessivamente restrittive”. La problematica è estesa, tiene a sottolineare Bachu, e non può essere risolta da un incontro con i singoli prefetti o altre autorità intermedie che non hanno il potere di risolvere i malfunzionamenti di una misura per molti versi fallimentare. Sanatorie straordinarie - Le procedure di regolarizzazione straordinaria sono uno degli strumenti in cui emerge in modo più clamoroso l’ipocrisia del sistema di gestione del fenomeno migratorio. In Italia, a partire dal 1986, le sanatorie si sono susseguite in maniera costante. La prima fece emergere 116mila persone, e solo quattro anni dopo una seconda ne regolarizzò 215mila. Da allora, con una cadenza quasi regolare, queste procedure presentate come emergenziali ed eccezionali dai governi di tutti i colori sono diventate la normale modalità con cui migliaia di lavoratori impiegati in nero sperano di regolarizzare la loro posizione. Si stima che un terzo degli immigrati irregolari presenti oggi in Italia abbia ottenuto un permesso di soggiorno grazie a questo tipo di misura: dal 1986 sarebbero un milione e mezzo. “La sanatoria è una toppa, non ha una visione politica, anzi, ti racconta proprio che non ce l’ha. Funziona come i condoni edilizi: si costruisce abusivamente e si aspetta un condono. Il fatto è che qui si parla di persone e che la loro clandestinità è causata dal progressivo smantellamento dei canali di accesso regolare per lavorare in Italia”. “Mentre aspettano un permesso di soggiorno la vita degli immigrati irregolari scivola sempre più nel baratro della precarietà quando va bene, in quello della miseria quando va male”, racconta Pietro Fragasso, presidente della cooperativa sociale Pietra di Scarto, che nelle campagne foggiane promuove una filiera agroalimentare equa, impiegando lavoratori immigrati sottratti ai caporali. “L’equazione immigrato-criminale è sempre più consolidata”, aggiunge Fabrizio Coresi, policy advisor sul tema migrazione per l’ong Action Aid, “per questo quando si parla di sanatoria si grida allo scandalo e sembra si tratti di un meccanismo premiale nei confronti di chi arriva senza documenti. In realtà è uno strumento utilizzato dai governi in tutti i paesi europei per tamponare i danni causati da politiche migratorie inadeguate”. Politiche sbagliate - “Parlare di frontiere aperte o rilascio di permessi di soggiorno per attesa occupazione è estremamente sconveniente dal punto di vista elettorale perché l’immigrazione è sempre raccontata come emergenza e invasione. Ma l’immigrato non è un’emergenza, è una presenza. E lo è da molti anni. Anziché pianificarne l’arrivo, il collocamento e la tutela all’interno del tessuto sociale e del mercato del lavoro, si relega alla clandestinità, salvo poi tamponare con misure sporadiche e inefficaci”. La maggior parte dei problemi legati all’immigrazione, tanto reali quanto percepiti, derivano dalla difficoltà di arrivare in Italia in maniera regolare. Ad oggi gli accessi legali sono regolati dal decreto flussi, un provvedimento con il quale il governo stabilisce ogni anno le quote di ingresso dei cittadini stranieri non comunitari che possono entrare in Italia per motivi di lavoro. Ma le cifre sono irrisorie: intorno ai 30mila ingressi autorizzati all’anno, un numero non adeguato ai bisogni produttivi del mercato italiano e alla pressione sulle frontiere da parte di chi tenta di lasciare il proprio paese. Anche le specifiche settoriali lasciano a desiderare: dal 2012 per esempio non ci sono quote di ingresso per la figura delle badanti. Nonostante l’enorme bisogno di questa categoria di lavoratori - che in Italia sono oggi un milione e 655 mila, al 77,3 per cento stranieri, e si stima saranno 500mila in più entro il 2030 secondo gli ultimi dati Censis - non c’è un modo per entrare in Italia regolarmente a svolgere questo mestiere. In uno scenario del genere, il diritto d’asilo rappresenta una delle poche possibilità di accedere legalmente in Italia. Negli ultimi anni però, anche a causa dei decreti Minniti e Salvini che hanno ulteriormente ostacolato la procedura, il numero di persone che accedono in Italia con questa modalità è estremamente limitato. Secondo il report della fondazione Migrantes, nei primi otto mesi del 2020 sono stati riconosciuti circa 5.900 benefici fra status di rifugiato, protezione sussidiaria e protezione speciale: nel complesso, ha ottenuto uno dei tre riconoscimenti appena un richiedente asilo su cinque. Gli effetti sull’economia - I dinieghi delle richieste di protezione speciale sono uno dei fattori che hanno determinato l’aumento degli stranieri in condizione di irregolarità in Italia, che sono costretti ad accettare di lavorare in nero e senza alcuna tutela. Oltre ad essere l’ennesima negazione dei diritti, l’irregolarità si ripercuote sull’economia del paese, che perde così potenziali contribuenti. Già qualche anno fa l’ex presidente dell’Inps Tito Boeri si era espresso sulla necessità di allargare le modalità di accesso regolare per mantenere il nostro sistema di protezione sociale, minato dalla bassa natalità e dal progressivo invecchiamento della popolazione, oltre che dal numero crescente di italiani che decidono di emigrare. Secondo la 31ª edizione del Dossier statistico immigrazione, il rapporto curato dal Centro studi e ricerche Idos, le entrate che gli stranieri regolari hanno assicurato alle casse dello stato sono di 29 miliardi di euro tra tasse, contributi e costi di pratiche varie, mentre le voci in uscita a loro riservate si attestano sui 25 miliardi. Sarebbero quindi quattro miliardi di netto positivo, che aumenterebbero sensibilmente con l’emersione degli irregolari impiegati in nero. Un altro tema è quello che riguarda le aziende. Il bisogno di manodopera non particolarmente specializzata non si avverte solo nelle campagne dove mancano gli stagionali o nelle case degli anziani che hanno bisogno di essere assistiti, ma anche nei settori della logistica e dell’edilizia. Emblematico il caso della Number 1 Logistics. L’azienda italiana leader nel settore della grande distribuzione ha formato e assunto a tempo indeterminato 160 richiedenti asilo ma ne ha persi una buona parte perché la loro pratica, dopo essere rimasta incagliata nelle maglie della burocrazia anche per due o tre anni, è culminata in un diniego e di conseguenza in un avviso di espulsione. Persone quindi del tutto integrate nel sistema produttivo italiano, con un lavoro stabile e legami fissi, scivolano nuovamente nella clandestinità, mentre le aziende sono costrette a ripartire da zero. Sono i paradossi a cui ha portato una politica che se all’inizio poteva essere liquidata come ipocrita, presa ad assecondare umori e malumori utili ai fini elettorali, oggi non può che essere ritenuta colpevole di un sistema che non funziona per nessuno. Il risultato è il bracciante che nelle campagne raccoglie pomodori per tre euro all’ora e vive nei ghetti di lamiera, la badante reclusa in casa dai datori di lavoro, ma anche il facchino che lavora sotto caporale nei capannoni del nord Italia. E il mercato del lavoro nero si regola di conseguenza, adeguando i salari al grado di disperazione di cui può approfittare. È chiaro che provvedimenti straordinari ed emergenziali, come si raccontano essere le sanatorie, non bastano a regolare un fenomeno migratorio che invece è ormai ordinario, anche se sregolato. Ancor meno quando sono pensate male e messe in atto peggio, fra ritardi e arbitri della pubblica amministrazione. Ciò che però le “grandi regolarizzazioni” potrebbero insegnare è che un migrante in regola è un lavoratore che contribuisce alla crescita del paese. La proposta di legge - La rete Ero Straniero, promossa dai Radicali italiani, sindacati e ong, ha presentato alla Camera dei deputati una proposta di legge di iniziativa popolare per introdurre un meccanismo di regolarizzazione a regime (e cioè sempre accessibile) per comprovata integrazione o per attesa occupazione, insieme all’introduzione di nuovi meccanismi di ingresso per lavoro, superando sanatorie e procedendo con un intervento a lungo termine che favorisca legalità e integrazione, oltre che introiti. Perché se è vero che a tenere i conti dell’utilità e dei potenziali incassi si rischia di fare il gioco di chi da decenni costruisce sull’immigrazione una narrazione fatta di grida all’invasione e accuse di parassitismo, è vero anche che queste grida, ignobili sul piano etico e sgradevoli su quello estetico, sono false se si guarda ai dati, ed è quindi urgente smentirle. La verità è che per concedere ai lavoratori stranieri residenti in Italia un permesso di soggiorno basterebbe attenersi ai principi di giustizia ed equità che dovrebbero muovere la coscienza dei cittadini di ogni stato che si dica democratico. Migranti. Dall’Iraq fino al confine polacco: quanto costa e come funziona il viaggio di Marta Serafini Corriere della Sera, 15 novembre 2021 L’inchiesta della Deutsche Welle rivela come il traffico di migranti che premono al confine con la Polonia parta nel Kurdistan iracheno. Per risalire alle origini del flusso di migranti che preme sulla Polonia dal confine bielorusso e comprendere il fondamento delle accuse di “guerra ibrida” nei confronti del regime di Lukashenko, bisogna partire da Erbil, nel Kurdistan iracheno. È in questa città, come rivelato tra gli altri da un’inchiesta pubblicata il mese scorso da Deutsche Welle, che si trova l’ambasciata bielorussa che ha concesso il visto turistico alle decine di migliaia di migranti, per lo più iracheni e siriani ma in alcuni casi persino subsahariani, che stanno cercando di entrare in Polonia dalla Bielorussia, come ha raccontato per il Corriere, l’inviato Andrea Nicastro. Secondo una fonte un tempo coinvolta nel traffico, la concessione dei visti è stata appaltata ad alcune agenzie di viaggi locali. Il pacchetto completo, dal rilascio dei permessi al trasporto fino a Minsk fino all’accompagnamento alla frontiera con l’Unione Europea, costa dai 12 mila ai 15 mila euro. I principali punti di partenza sono la stessa Erbil e altre due città del Kurdistan iracheno, Shiladze e Sulaymaniyah. “La maggior parte degli iracheni si reca in Bielorussia attraverso la Turchia o l’Iran, il Qatar e la Georgia, e in questo caso il visto da solo costa tra i 1.500 e i 2.000 dollari a persona”, spiega Mohammed, nome di fantasia, direttore di un’agenzia turistica di Erbil, alla tv tedesca. Chi può pagare meno si rivolge ad un giovane iracheno, Ahmed, che ha dedicato gli ultimi mesi ad aiutare i migranti dall’Iraq nel loro viaggio verso la Bielorussia. “I contrabbandieri spesso li lasciano soli e vengono sfruttati perché non conoscono la lingua”, ha raccontato alla tv tedesca Ahmed. Finora ha assistito circa 100 persone. “Li aiuto al telefono e sui social media con tutto ciò di cui hanno bisogno, sia attraverso la traduzione che insegnando loro come prenotare hotel, utilizzare mappe o acquistare tutto ciò di cui hanno bisogno”, racconta Ahmed, che parla russo dopo aver studiato in Russia per due anni, e affermare di offrire i suoi servizi gratuitamente. Tale aiuto è spesso necessario, poiché la situazione vicino al confine polacco peggiora di giorno in giorno e dove ieri un migrante siriano di circa 20 anni è stato trovato senza vita in una foresta in territorio polacco. Lo scorso agosto, su pressione dell’Unione Europea, l’Iraq ha sospeso i voli diretti da Bagdad a Minsk. I migranti giungono quindi in Bielorussia in aereo da Dubai, Damasco e Amman, scali dai quali, secondo un portavoce del ministero degli Esteri tedesco, c’è stato un “sensibile incremento” dei voli diretti verso Minsk, tanto che la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha minacciato di sanzionare le compagnie aeree coinvolte. Altre rotte prevedono un transito attraverso l’Ucraina e la Turchia, dove l’ambasciata bielorussa ad Ankara, è generosa nella concessione di visti. Una volta in aeroporto, entra in gioco anche la complicità delle compagnie aeree registrate in Europa che concedono velivoli in leasing alla compagnia di bandiera bielorussa, che offre voli diretti a Minsk da Istanbul, Dubai e altre località mediorientali. A gestire circa metà dei leasing aeroportuali del mondo sono le compagnie irlandesi e numerosi governi europei hanno chiesto una stretta su tale pratica, finora senza successo. Diverse compagnie arabe e turche, come Qatar Airways e Turkish Airlines, effettuano infatti controlli più rigorosi, e non sempre accettano i visti, dai crismi formali spesso disinvolti, rilasciati dalle agenzie che lavorano con la Bielorussia. La maggiore attenzione di queste aziende non è però sempre sufficiente. “Moltissimi iracheni si recano in Turchia e a Dubai ogni giorno”, ha spiegato il trafficante pentito che ha fatto da fonte a Deutsche Welle, “ed è impossibile distinguere quelli che vogliono raggiungere la Bielorussia dagli altri”. Al fianco delle donne che vivono nelle zone di guerra di Tiziana Lo Porto La Stampa, 15 novembre 2021 Women for Women International è un’organizzazione umanitaria che esiste dal 1993 in aiuto delle donne che abitando in zone di guerra e conflitto vedono esasperati i loro problemi quotidiani di violenza domestica, povertà o salute. Tra i paesi attualmente monitorati e aiutati dall’organizzazione ci sono Birmania, Afghanistan, Etiopia e Siria. In particolare, dal 2018 è stato lanciato il Conflict Respond Fund per aiutare nei loro bisogni essenziali le donne sopravvissute alla guerra, sempre in Afghanistan e Siria, ma anche in Nigeria, Yemen e altri paesi dell’Africa e del Medio Oriente. Alle donne costrette ad abbandonare case e famiglie, e rifugiate altrove nel mondo, viene data la possibilità di partecipare a un programma che fornisce loro uno stipendio mensile, l’insegnamento della lingua del paese in cui si trovano e la formazione necessaria per imparare un mestiere che le rende autonome anche economicamente, oltre a una rete di supporto psicologico e sociale. In seguito all’emergenza in Afghanistan, Women for Women ha anche avviato una raccolta fondi per aiutare le donne rimaste lì a trovare luoghi sicuri dove incontrarsi e modi per rimanere in contatto tra loro e con chi potrà aiutarle a lasciare il paese. Per contribuire al lavoro di Women for Women basta andare sul sito womenforwomen.org e donare liberamente, o sponsorizzare una singola donna, aiutandola con 35 dollari al mese. Nel frattempo anche in Italia è nata una rete solidale che si chiama “Le donne per le donne” (ledonnexledonne.org) e che ha avviato un progetto sociale di supporto al piano di accoglienza dei rifugiati provenienti dall’Afghanistan. L’aiuto offerto alle donne afghane attualmente in Italia è economico ma include anche istruzione, sanità, assistenza legale, inserimento nel mondo del lavoro e mediazione linguistica e culturale. Per aderire alla rete bisogna scrivere a info@ledonnexledonne.org indicando oltre al proprio nome e cognome, il comune di residenza, l’indirizzo email e il numero di telefono, e il tipo di supporto che si è in grado di offrire. In alternativa è possibile anche donare liberamente dal sito. “Le donne per le donne” ha collaborato con 3D Produzioni e l’associazione “Chiamale Storie” per la realizzazione del documentario di Sabina Fedeli, Anna Migotto e Didi Gnocchi Noi donne afghane. Malta. Veglia in ricordo dei morti nelle carceri corrieredimalta.com, 15 novembre 2021 Gli attivisti: “Stop ad abusi e torture. Vogliamo trasparenza”. Lo scorso sabato, un gruppo di attivisti si è radunato all’esterno dalle mura del carcere di Corradino per una veglia in ricordo dei prigionieri che hanno perso la vita presso la struttura e reclamando chiarezza sulle circostanze che hanno portato alla serie di decessi registrati in questi ultimi anni. “Il regno del terrore istituito dall’ex direttore del carcere Alex Dalli è un chiaro fattore che ha portato a questa perdita di vite umane. Le sue dimissioni, e ancor meno la sua auto-sospensione, non riporteranno indietro le vittime”, hanno affermato a gran voce le persone presenti alla manifestazione. “Nonostante le diverse inchieste interne avviate, ad oggi restiamo all’oscuro dei fatti che hanno generato queste morti. Nel corso del suo mandato, il colonnello Dalli aveva anche limitato l’accesso a giornalisti e attivisti, trasformando il carcere di Corradino nella sua fortezza personale. Senza accesso alla struttura, è diventato più facile per Dalli gestire le prigioni senza alcuna supervisione”. Gli attivisti chiedono inoltre al nuovo direttore, Robert Brincau, di ripristinare l’accesso alle carceri sia alle ONG che ai giornalisti: “Questo non servirà solo a rendere l’amministrazione della prigione più trasparente, ma segnerebbe un chiaro allontanamento dai metodi orribili di Dalli”. Non solo maggiore trasparenza alla portata di tutti, ma anche un ambiente sicuro e “umano” per i prigionieri. “Vogliamo vedere una prigione che riabiliti veramente le persone, non che le torturi. Soprattutto, vogliamo vedere la fine del sistema di abusi che è stato creato sotto Dalli, e prevenire ulteriori morti” hanno affermato le associazioni. Gli attivisti si aspettano inoltre che il ministro dell’Interno Byron Camilleri si assuma la responsabilità politica dei risultati di questo rapporto. “Oltre all’inchiesta condotta da personale selezionato, il ministro dovrebbe anche considerare i risultati di un’inchiesta indipendente che un difensore civico sta tenendo di sua iniziativa, in seguito a numerose segnalazioni di cattiva amministrazione”. L’evento è stato organizzato da Moviment Graffitti, Releaf, The Department of Inclusion and Access to Learning (Università di Malta), Kopin, Drachma, Studenti Ħarsien Soċjali, Prof. Andrew Azzopardi, Integra Foundation, SOS Malta, Aditus, Alleanza Kontra l-Faqar, Ufficio del Decano della Facoltà di Educazione. I tunisini tornano in piazza contro l’autoritario Saied di Matteo Garavoglia Il Domani, 15 novembre 2021 Dopo settimane di relativa calma in migliaia protestano al Bardo contro il presidente, che a luglio ha esautorato il parlamento. Nel paese si sovrappongono tre crisi: istituzionale, economica e ambientale. Una tipica e tranquilla domenica a Tunisi è stata segnata dalla ripresa di qualcosa che non si vedeva da settimane: una manifestazione contro la stretta imposta dal presidente della Repubblica Kais Saied il 25 luglio scorso. Questa volta a cambiare è stato il luogo. Da avenue Bourguiba, l’epicentro della cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini del 2011 e delle proteste che fino a un mese fa interessavano la capitale, gli oppositori di Saied si sono trasferiti vicino al parlamento, al Bardo. Una scelta densa di significato. Non solo perché l’Assemblea dei rappresentanti del popolo da più di tre mesi ha cessato le sue attività per decisione del presidente, ma anche per la sua vicinanza a uno dei luoghi più sensibili del paese. E non è un caso che gli accessi alla piazza siano stati presidiati da un gran numero di agenti, impegnati a controllare ogni accesso ai lunghi viali che portano al parlamento, cosa che ha ridotto sensibilmente il tasso di partecipazione. Almeno tremila persone sono riuscite a recarsi al Bardo per esprimere la loro indignazione contro quello che viene considerato un colpo di stato. I cori “Non accetteremo un nuovo dittatore, non indietreggeremo” e “Libertà! Libertà! Fine allo stato di polizia” hanno riecheggiato per ore lungo uno dei quartieri più residenziali di Tunisi. Il 25 luglio scorso, giorno della festa della Repubblica, il presidente della Repubblica Kais Saied ha applicato l’articolo 80 della Costituzione imponendo misure eccezionali per salvaguardare il paese da una feroce crisi economica e politica. In sostanza, ha congelato il parlamento e sciolto il governo del premier Hichem Mechichi sostenuto dal partito di ispirazione islamica Ennahda, con cui da mesi era in conflitto aperto. Nel corso delle settimane successive i poteri straordinari di Saied sono diventati più stabili con l’emanazione del decreto presidenziale n° 117 del 22 settembre, che ha assegnato i pieni poteri al responsabile di Cartagine a data da destinarsi. A nulla sono servite le nomine della prima premier donna del mondo arabo Najla Bouden Romdhane e della sua squadra di governo, al momento con pochi poteri per mettere mano ai veri problemi del paese: la crisi economica che va avanti da più di dieci anni e la corruzione, da molti tunisini considerata come il vero cancro del piccolo Stato nordafricano. Tutto questo ha portato la Tunisia a spaccarsi in due: da una parte i sostenitori di Saied, maggioritari e convinti che la classe politica pre 25 luglio fosse da scartare a priori, soprattutto i partiti presenti in parlamento incapaci di portare avanti le riforme strutturali di cui il paese ha bisogno; dall’altra gli oppositori del presidente, a cui viene chiesto a gran voce di ripristinare l’ordine democratico inaugurato dopo la Rivoluzione del 2011 e capitanati dal costituzionalista Jahouar Ben M’barek, a oggi il volto più riconoscibile tra chi si sta opponendo a Kais Saied. Il grado di tensione attorno al reset istituzionale del 25 luglio ha vissuto uno dei momenti più acuti proprio nella giornata di ieri, quando manifestanti e polizia si sono scontrati apertamente per il controllo della piazza. Il ministero dell’Interno ha inoltre rilasciato un comunicato per annunciare l’arresto di diverse persone in possesso di armi bianche. “Io sono un’attivista dei diritti umani, ci siamo battuti contro Ben Ali e adesso siamo pronti a continuare a dire di no a questo colpo di Stato noi vogliamo la democrazia e la libertà di espressione. Fino a quando il presidente metterà da parte la Costituzione continuerò a dire di no. Nel 2019 ho votato Saied, oggi sono pentita. Preferirei avere lasciato la scheda bianca”, dice Myriam, una manifestante che non ha voluto dire il suo cognome. Nella lunga mattinata quasi estiva di Tunisi c’è stato spazio anche per il primo discorso pubblico di Jahouar Ben M’barek, leader del movimento Cittadini contro il colpo di stato e ormai destinato a intraprendere la via della politica. Prima inneggiando la folla con invettive contro il presidente e per il ripristino della democrazia, dopo con alcune dichiarazioni alla stampa per delineare le rivendicazioni del “suo” popolo: “Chiediamo il ritorno del parlamento ed elezioni anticipate, dobbiamo ripristinare la legalità. Abbiamo bisogno di un governo di salute nazionale in grado di impegnarsi a livello internazionale. Quello attuale non può farlo perché è incostituzionale, abbiamo bisogno di aprire un dialogo che possa definire il futuro del paese”. La stampa è stata bersaglio di pesanti contestazioni da parte dei manifestanti. Al canale Al Arabiya, emittente degli Emirati Arabi Uniti, è stato impedito di trasmettere in diretta, mentre diversi slogan di protesta sono stati rivolti contro la Francia e i suoi media. Una tensione evidente, palesata anche dalle parole degli stessi manifestanti: “Gli occidentali, soprattutto da un punto di vista dei media, deformano l’informazione e per questo da semplice cittadino non voglio rilasciare interviste”. Piccoli segni di insofferenza, accompagnati da slogan espliciti come “Francia vattene!”. La composizione della piazza era eterogenea: manifestanti indipendenti hanno affiancato la massiccia presenza di militanti ed elettori di Ennahda, il partito più colpito dalle decisioni di Saied, e di Al Karama, il partito radicale islamico. Chiusa la manifestazione di ieri che promette di assumere altre forme in futuro, le prossime settimane rimangono delicate per l’agenda del presidente della Repubblica. Oltre a una crisi istituzionale e politica da risolvere, altri due dossier stanno scaldando la società civile. Il primo e più recente è ambientale e riguarda la crisi dei rifiuti nel distretto di Agareb alle porte di Sfax, seconda città del paese e uno dei polmoni economici della Tunisia. Dopo la chiusura della discarica locale dopo una sentenza giudiziaria del 2020 e per raggiunto limite di capacità, da inizio ottobre Sfax è stata letteralmente invasa di rifiuti. L’8 novembre, in uno stato di crisi assoluta, la decisione di riaprire il bacino di Agareb ha acceso l’ira della popolazione locale con assalti ai posti di polizia e proteste massicce. Il bilancio è stato di un morto negli scontri con la polizia e uno sciopero generale indetto dall’Ugtt, il sindacato più importante del paese. L’altro dossier è economico. Le finanze dello stato sono quasi esaurite, il debito pubblico rappresenta ormai il 100 per cento del Pil. C’è un buco di 3 miliardi di dinari (quasi 1 miliardo di euro) nel budget dello stato e la legge di bilancio per il 2022 non è stata abbozzata. Al momento i colloqui per un prestito da 4 miliardi di dollari da parte del Fondo monetario internazionale sono stati interrotti dal colpo di mano del 25 luglio e solo ora, in cambio di ingenti tagli alla spesa pubblica, potrebbero essere ripresi dal governo Romdhane. In Tunisia oggi ci sono tre crisi: istituzionale, economica e ambientale. Tre elementi che promettono di presentare il conto nei prossimi mesi, specialmente a gennaio quando le rivendicazioni socio-economiche dei tunisini toccano abitualmente il loro apice. “Oggi siamo riusciti a mettere giù un piano per uscire dalla crisi, adesso vogliamo riunire tutti gli attori della società civile tunisina, non contiamo sull’aiuto da parte del presidente. Saied non parla con nessuno nonostante le domande di negoziazione che gli sono state poste in queste settimane”, queste le parole conclusive di Ben M’barek. Un silenzio presidenziale che ha attirato l’attenzione anche di Amnesty International, la quale ha emesso un comunicato per denunciare il ruolo dei tribunali militari nei processi contro diversi civili, rei di avere criticato gli avvenimenti del 25 luglio scorso. Medio Oriente. Gaza, ottava “spia israeliana” condannata a morte in un mese di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 novembre 2021 Nella Striscia di Gaza, Hamas continua la caccia alle spie. Martedì 9 novembre un tribunale militare ha condannato all’impiccagione due palestinesi di 57 e 46 anni, giudicati colpevoli di collaborare con le forze israeliane. Già che c’era, il giudice ha anche condannato a morte una persona per traffico di droga. È salito così a otto il numero delle condanne alla pena capitale emesse nel giro di un mese nei confronti di palestinesi ritenuti spie di Israele. Il totale dall’inizio del 2021 è di 15. Le condanne a morte troverebbero giustificazione, secondo Hamas, nell’articolo 131 del codice penale adottato nel 1979 dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Quarant’anni dopo, tuttavia, la Palestina ha ratificato il Secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili, che stabilisce l’obiettivo dell’abolizione della pena capitale. Secondo le organizzazioni per i diritti umani palestinesi e israeliane che si battono contro la pena di morte, da quando nel 2007 amministra la Striscia di Gaza Hamas ha emesso 130 condanne a morte, 25 delle quali eseguite. Myanmar. Un americano nelle carceri dei generali: 11 anni a Danny Fenster di Raimondo Bultrini La Repubblica, 15 novembre 2021 In Myanmar è stato condannato a 11 anni di carcere Danny Fenster, il giornalista americano detenuto da mesi dalla giunta birmana. Lo ha reso noto Frontier Myanmar, il quotidiano dove lavorava come redattore capo. Fenster è stato riconosciuto colpevole di violazione della legge sull’immigrazione, associazione illegale e incoraggiamento al dissenso contro i militari. Nei giorni scorsi era stato accusato anche di terrorismo e sedizione, reati per cui rischia l’ergastolo. Il giornalista, che ha 37 anni, era stato arrestato mentre cercava di lasciare il Paese lo scorso maggio, una delle decine di reporter imprigionati dai militari dopo il colpo di Stato che ha defenestrato la premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi. Se Fenster dovesse essere giudicato colpevole anche di sedizione e terrorismo, la sua situazione si potrebbe fare gravissima. Secondo Frontier, le accuse si basano sul fatto che l’uomo ha lavorato per il quotidiano Myanmar Now, messo al bando dalla giunta militare dopo il colpo di Stato del primo febbraio; ma in realtà il giornalista aveva lasciato il giornale nel luglio 2020 per unirsi appunto a Frontier. Il processo si è svolto a porte chiuse in un tribunale allestito all’interno della prigione di Insein, proprio a Yangon, capitale economica del Paese, dove il giornalista americano è detenuto. A Frontier si dicono tutti “molto delusi” dalla sentenza: “Non ci sono prove per condannare Danny per queste accuse: il suo avvocato ha chiaramente dimostrato alla corte che si era dimesso dal suo lavoro per Myanmar Now e lavorava per Frontier dalla metà dello scorso anno”, ha spiegato Thomas Kean, editore del giornale. “Vogliamo solo vedere Danny rilasciato il prima possibile in modo che possa tornare a casa dalla sua famiglia”. Altri tre giornalisti stranieri, lo statunitense Nathan Maung, il polacco Robert Bociaga e il giapponese Yuki Kitazumi, erano stati arrestati dalla giunta militare, ma sono già stati tutti espulsi nei rispettivi Paesi. Drammatica la situazione dei giornalisti locali: dopo il golpe, secondo i dati dell’ong Reporters sans frontieres, ne sono stati gettati in carcere più di un centinaio; non è chiaro quanti ne siano stati liberati con l’amnistia decretata dalla giunta a ottobre. Il golpe guidato dal generale Min Aung Hlaing ha fatto precipitare il Paese in una crisi politica, sociale ed economica, oltreché in una sanguinosa spirale di violenza. Secondo dati di attivisti locali, sono morte nei disordini oltre 1.200 persone, tra le quali anche molti bambini, e almeno 10mila sono state arrestate. Tra loro la leader de facto del Paese, Aung San Suu Kyi. Non solo: nel clima di crescente tensione, sono nate nuove milizie civili che si confrontano militarmente con l’esercito in un crescendo che apre la stada la guerra civile. L’insurrezione delle milizie etniche va sempre più saldandosi all’oppisizione ai militari che ha lasciato la strada del confronto non violento di fronte alla sanguinosa repressione del dissenso ordinata dai generali. E’ dei giorni scorsi, e non è un caso isolato, la notizia di razzi e proiettili di armi pesanti sparati dai soldati che hanno colpito una chiesa, la Cattedrale cattolica del Sacro Cuore, nella diocesi di Pekhon, situata nella parte meridionale dello Stato Shan, nel Myanmar orientale. L’esercito ha anche bruciato 134 case nella città di Thang Tlang, nello Stato Chin, dando alle fiamme altre due chiese cristiane, una presbiteriana e una battista, per rappresaglia contro i ribelli locali. Giovedì il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha espresso “profonda preoccupazione” per i disordini e ha lanciato un appello per un “immediata cessazione delle violenze”. La cittadinanza italiana alla magistrata Bashir è un riconoscimento a tutte le donne afghane di Marjana Sadat* La Repubblica, 15 novembre 2021 L’Italia ha concesso la cittadinanza al primo pubblico ministero donna dell’Afghanistan. Mareya Bashir, 51 anni, aveva lasciato l’Afghanistan dopo il ritiro delle forze americane. Procuratrice generale della provincia di Herat dal 2006, Mareya Bashir ha combattuto contro la corruzione, la violenza contro le donne e i matrimoni precoci. Dopo presa del potere da parte dei talebani, le magistrate e le avvocate afghane vivono in clandestinità. Aamaj News ha pubblicato i risultati di un’inchiesta da cui risulta che 220 magistrate vivono in clandestinità perché hanno paura dei talebani. Nel 2011 il dipartimento di Stato americano conferì a Bashir un premio per il coraggio dimostrato di fronte alle minacce talebane, e la rivista Time, nello stesso anno, la inserì nella lista delle 100 persone più influenti. La ministra della Giustizia italiana, Marta Cartabia, nel concederle la cittadinanza italiana, vuole anche dimostrare il suo sostegno a tutte le altre donne afghane, che stanno lottando per la loro libertà e i loro diritti a caro prezzo. Mareya Bashir aveva lasciato l’Afghanistan nello scorso agosto. Al suo arrivo in Italia, il 9 settembre, era stata accolta dalla ministra Marta Cartabia. La decisione è stata approvata mercoledì sera. Mareya Bashir, ha detto la ministra, ha lavorato a stretto contatto con le autorità italiane in Afghanistan, contribuendo a rafforzare le istituzioni e, più in generale, lo stato di diritto. In un’intervista all’agenzia Ansa, Bashir si è detta “onorata” e ha aggiunto che spera di poter continuare a lavorare per le donne afghane “con l’aiuto dei nostri amici italiani”. Mareya Bashir ha vissuto sotto il dominio dei talebani negli anni Novanta, e nel 2010 descrisse quell’epoca all’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine come un’epoca buia e tetra soprattutto per le donne. “Tutti avevano paura di andare a lavorare e anch’io dovevo stare a casa. Così organizzai una scuola segreta a casa, per le ragazze del quartiere”, raccontò Bashir all’agenzia delle Nazioni Unite. L’Italia è stato uno dei cinque Paesi più coinvolti nella missione Nato guidata dagli Stati Uniti in Afghanistan insieme a Germania, Gran Bretagna e Turchia. All’inizio di settembre, l’Italia ha annunciato di aver evacuato circa 5000 afghani dopo l’ascesa al potere dei talebani. *Traduzione di Luis E. Moriones