Popolazione penitenziaria in crescita, stabile la capienza degli istituti redattoresociale.it, 14 novembre 2021 La popolazione penitenziaria torna a salire nel mese di ottobre 2021. Secondo i dati forniti dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria al 31 ottobre 2021, i detenuti negli istituti di pena italiani sono complessivamente 54.307. Un dato ormai stabilmente distante da quello di febbraio 2020, quando nelle carceri italiane c’erano oltre 61 mila persone detenute. Stabile, secondo i dati ufficiali forniti dall’Amministrazione penitenziaria, anche la capienza regolamentare con 50.851 posti. In lieve aumento la presenza di stranieri: al 31 agosto 2021 sono 17.315. Le detenute donne, invece, sono 2.283. Le regioni che presentano un divario maggiore tra numero di detenuti e capienza regolamentare sono la Lombardia (7.797 detenuti per 6.139 posti) e la Puglia (3.741 detenuti per 2.888 posti). Il 2020 segna una netta controtendenza per quanto riguarda la popolazione carceraria: al 31 dicembre 2020, infatti, nei penitenziari di tutto il paese risultano 53.364 detenuti, un numero ben distante da quello registrato al 31 dicembre del 2019, quando si contavano oltre 60 mila presenze. In un solo anno, quindi, si è tornati alla situazione del 2015 (vedi grafico sotto), con un’inversione di trend netta dovuta alla pandemia da Covid-19. I dati raccolti dal 2015 in poi, infatti, mostrano una crescita costate della popolazione penitenziaria, terminata esattamente nel mese di febbraio 2020, quando negli istituti di pena di tutta Italia c’erano oltre 61 mila detenuti. Nonostante le oscillazioni del dato mensile registrate anche lungo tutto il 2020, per poter fare un confronto con gli anni precedenti, abbiamo scelto di prendere come riferimento unicamente la data del 31 dicembre di ciascun anno. Ferma da qualche anno, invece, è la capienza regolamentare degli istituti dichiarata dal Dap: dai 43 mila posti del 2008 si è arrivati ai 50,5 mila posti disponibili nel 2020, ma se nel 2019 erano 10 mila i posti in meno rispetto al numero dei detenuti presenti negli istituti di pena, nel 2020 questo scarto si è assottigliato. Il sovraffollamento, tuttavia, è ancora critico in alcune regioni e in alcuni istituti di pena nonostante il dato nazionale più favorevole. In costante calo è la popolazione detenuta straniera: al 31 dicembre 2020 i detenuti stranieri sono circa 17,3 mila, contro i 19,9 mila di fine 2019 e i 20,2 mila del 31 dicembre 2018. Un dato, quello di fine 2020, che rispecchia il trend nazionale e segna un ritorno al 2015. La percentuale di popolazione straniera in carcere rispetto al totale dei detenuti invece passa dal 34 per cento del 2017 al 32,5 per cento di fine 2020. Rispetto al totale dei detenuti, le percentuali del 2020 confermano il trend degli ultimi 10 anni: la percentuale di stranieri in carcere rispetto al totale, infatti, è diminuita circa 4 punti percentuali rispetto al 2010. Anche la presenza di donne in carcere segue l’andamento generale della popolazione penitenziaria: al 31 dicembre 2020 sono 2.255 le donne in carcere contro le 2.663 dell’anno precedente e le 2.576 presenze del 31 dicembre 2018. Il trend del 2020 riguarda anche i numeri registrati tra i reati che producono carcere, come la violazione delle leggi sugli stupefacenti. Al 31 dicembre 2020, sono 18.757 i detenuti per aver violato la normativa sulle droghe. Un anno prima erano oltre 21 mila, con un trend in costante crescita dal 2015 al 2019. Dati che occorre maneggiare con cura, visto che, ad esempio, nel 2017 su 19.793 detenuti per droga, sono 13,8 mila quelli ristretti a causa della violazione del solo art. 73 del Testo unico (quindi la produzione o il traffico o la detenzione di sostanze), mentre sono quasi 5 mila quelli detenuti per l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope). Solo 976, inoltre, i detenuti esclusivamente per l’art. 74. Come nel 2015, infine, anche il 2020 fa segnare una battuta d’arresto sui detenuti per il 416 bis del codice penale, ovvero associazione di tipo mafioso: a fine 2020 si contano 7.274 detenuti, in ogni caso sempre 2 mila in più rispetto ai 5.257 del 2008. Di carcere si può morire. Lo confermano i dati dei suicidi negli istituti di pena italiani. Al 31 dicembre 2020 sono 61 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere secondo il Dap. Un dato che torna a salire nonostante il forte e repentino calo della popolazione detenuta e che, con quello del 2018, rappresenta il dato più alto dal 2002 ad oggi, anche se non il più alto in assoluto. Nel 2001, infatti, ci sono stati ben 69 suicidi negli istituti di pena italiani e nel 1993 si registrarono ancora una volta 61 suicidi. Fine pena mai. Per la prima volta - in base ai dati raccolti il 31 dicembre di ogni anno - il numero dei detenuti condannati all’ergastolo diminuisce. Se nel 2019 c’erano 1.802 detenuti all’ergastolo - il dato più alto mai registrato - nel 2020 i detenuti con questa condanna sono 1.784. Negli ultimi 14 anni, il dato ha fatto segnare soltanto una battuta d’arresto tra gli anni 2012 e 2014, con circa 1.580 ergastolani detenuti, ma dal 2016 il dato è tornato a salire fino a superare quota 1.800 durante il 2019. Dal 2009 al 2017 cresce in maniera costante la presenza dei volontari in carcere. Nel 2017 sono 16,8 mila i volontari impegnati in diverse attività. Nel 2009 erano circa 8,5 mila. Nel 2018, invece, il dato è pressoché stabile rispetto all’anno precedente. Secondo i dati del Dap, quindi, ci sarebbe un volontario ogni 3,5 detenuti, ma i dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone nel corso delle visite agli istituti di pena italiani mostrano un impegno maggiore da parte del volontariato. Secondo Antigone, negli istituti visitati il rapporto detenuti/volontari è pari a 7, ovvero un volontario ogni 7 detenuti. Over 60 in carcere: l’Italia è sopra la media europea di Ilaria Romano spazio50.org, 14 novembre 2021 L’ultimo rapporto del Comitato di Giustizia del Parlamento, rileva come i detenuti di età più adulta siano cresciuti del 243% tra il 2002 e il 2020, passando da 1500 a oltre 5000. Il fenomeno del Regno Unito, dove la popolazione carceraria over 60 è in aumento costante dagli inizi del Duemila, e quello dell’Italia. Il 90% di loro presenta almeno un problema di salute, fisico o mentale, o una disabilità. Più del 50% ha tre o più patologie. Il 70% dei detenuti con più di 60 anni ha ricevuto un trattamento medico nei dodici mesi precedenti all’arresto. Contro il 45% dei soggetti al di sotto dei cinquant’anni. Una situazione medica di partenza, dunque, ben diversa da quella del resto dei detenuti più giovani, che il carcere spesso tende ad aggravare se non si rivela in grado di rispondere a nuovi bisogni. È il caso dei penitenziari di epoca vittoriana che ancora oggi rappresentano un terzo del totale. Allora erano pensati per uomini e donne giovani e nel pieno delle condizioni fisiche, ma oggi richiedono interventi di adattamento. In primo luogo per essere accessibili ad un numero crescente di persone con ridotte capacità motorie o sensoriali. L’aumento degli over 60 in carcere - Ma perché i detenuti over 60 aumentano? I fattori sono diversi: l’innalzamento dell’età media della popolazione, l’aumento della durata delle pene detentive negli ultimi dieci anni per reati gravi, la crescita di condanne per reati “storici”, commessi magari molti anni prima e venuti alla luce dopo molto tempo attraverso le nuove tecnologie di indagine forense. Il fenomeno non è solo inglese, perché in Europa il paese con il maggior numero di persone over 50 in carcere è l’Italia. Il 26% dell’intera popolazione detenuta ha più di cinquant’anni, circa 15 mila e 800 persone, a fronte di una media europea del 14,8%. Ogni detenuto costa 154 euro al giorno, per rieducarlo “investiti” 35 centesimi di Viviana Lanza Il Riformista, 14 novembre 2021 “Un recente studio della Bocconi ha messo in evidenza che ogni detenuto costa alla comunità 154 euro al giorno, di cui solo sei per il mantenimento del detenuto, appena 35 centesimi per la sua rieducazione, prevista dalla Costituzione italiana. I soldi degli italiani che lo Stato spende non mirano all’attuazione di uno principio costituzionale. Non rieducare significa incrementare la recidiva che in Italia, come sottolinea lo stesso studio, è del 68%, dato che scende al 19% quando si applicano misure alternative come la semilibertà e le forme di inserimento lavorativo”. Queste sono le dichiarazioni che il sindaco di Firenze Dario Nardella ha rilasciato al Riformista l’altro giorno, commentando la drammatica condizione del carcere di Sollicciano. Abbiamo provato a fare i conti per capire come si traduce questo nella realtà penitenziaria della nostra regione. A Poggioreale, per esempio, dove sono reclusi circa 2mila detenuti, considerando i parametri dello studio della Bocconi, si calcolano 700 euro spesi al giorno per la rieducazione di oltre 2mila detenuti a fronte di un totale di 308mila euro spesi ogni giorno per la popolazione carceraria, 12mila dei quali spesi per il mantenimento dei reclusi e il resto destinato a sostenere tutta la macchina amministrativa e strutturale del sistema carcere. Ma come si può pensare, a conti fatti, di risollevare la pena alla funzione rieducativa che le attribuisce la Costituzione destinando risorse così limitate alla rieducazione? E come viene impiegato il resto dei soldi che lo Stato destina al mondo penitenziario? Non certo per rimodernare le carceri, non certo per adeguare le strutture a standard più umani di reclusione. La rieducazione dovrebbe essere il nervo centrale della reclusione, il faro dei percorsi attivati in carcere per chi deve scontare una condanna. Scoprire che è l’ultima voce su cui investire lascia pensare. Da sempre si discute dell’importanza secondaria che viene riconosciuta al dibattito sul carcere e del ruolo marginale in cui è relegato il mondo penitenziario sul piano politico e sociale. Come se fosse un mondo a parte. Come Nardella ha fatto per Sollicciano, ci aspettiamo che anche il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, trovi il tempo per sollevare una voce sul dramma delle nostre carceri. Del resto Napoli ospita due grandi penitenziari, Secondigliano e Poggioreale, che è il più grande d’Italia e sorge nel cuore della città. Quanti progetti, quante dichiarazioni, quanti futuri sono stati immaginati negli anni. Nel 2018, con la mini-riforma, ci si illuse che qualcosa fosse sul punto di cambiare. Gli Stati gnerali dell’esecuzione penale promossi dal ministro Orlando diedero la sensazione di un cambiamento finalmente possibile per poi piombare nella triste staticità di sempre. Dal 2020 la pandemia ha imposto nuove rotte, nuovi criteri di gestione. “Il sistema penitenziario del futuro non potrà tornare a essere quello del passato come se la pandemia fosse una nuvola passeggera” è stato sottolineato nella recente conferenza dei garanti territoriali per dare un contributo ai lavori della Commissione ministeriale. Sì, perché al Ministero della Giustizia è al lavoro da un paio di mesi la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario che ha il compito di studiare le soluzioni migliori per il carcere del futuro. Ci riuscirà? Come al solito ci si ritrova a parlare della necessità di interventi di sistema. “Tra le priorità di un nuovo sistema penitenziario vi è la necessità di tornare a un’idea di diritto penale minimo, liberale e garantista, e del carcere come extrema ratio - hanno sostenuto i garanti. Questo significa non solo che andranno sostenuti i progetti di misure alternative, ma anche quei progetti di depenalizzazione di condotte con minima o nulla offensività, a partire da quelli in materia di droghe, come previsto dalla proposta di legge Magi e altri attualmente all’esame della Commissione giustizia della Camera”. “L’indennità di disoccupazione anche ai detenuti”: la sentenza fa discutere di Ignazio Riccio Il Giornale, 14 novembre 2021 Il pronunciamento specifica che non ci può essere un trattamento diverso tra i carcerati e gli altri cittadini che hanno perso la loro occupazione. Aveva lavorato per ben due anni come cuoco e come addetto alle consegne all’interno di una casa circondariale, un’occupazione vera, esercitata tutti i giorni, ma una volta ritornato disoccupato l’Inps non gli aveva riconosciuto la Naspi, l’indennità mensile di inattività che ha sostituito l’Aspi e la mini Aspi. Il Tribunale del lavoro di Milano, però, ha dato ragione al detenuto, ribaltando la decisione dell’Istituto di previdenza sociale che adesso dovrà versare l’indennizzo al carcerato, assistito dai legali della Cgil. I giudici non hanno avuto dubbi: non ci può essere un trattamento diverso tra i detenuti e gli altri cittadini che hanno perso la loro occupazione. “Il lavoro penitenziario alle dipendenze del ministero della Giustizia - si legge nella sentenza del tribunale - e quello libero subordinato sono assimilabili: pertanto non possono sussistere ragioni per escludere il diritto alla Naspi qualora ricorrano i presupposti previsti dalla normativa specifica”. Il carcerato ha mostrato piena soddisfazione per la prima battaglia vinta, che lascia ben sperare per l’appello. “Sono molto contento - ha dichiarato al quotidiano Il Giorno - perché questa è una battaglia di civiltà. Spero che possa essere utile anche per tutti gli altri lavoratori detenuti che hanno subito la stessa ingiustizia da parte di Inps”. L’Istituto di previdenza sociale, con una circolare datata marzo 2019, aveva affermato che il lavoro in carcere non può essere paragonato a quello svolto dagli altri cittadini liberi. Essendo un’occupazione esercitata per favorire la riabilitazione sociale del condannato è soggetta a rotazioni e avvicendamenti, quindi i periodi di inattività non sono assimilabili alla disoccupazione di un normale lavoratore. Valutazione diversa, per l’Inps, va fatta per quei detenuti che lavorano alle dipendenze di datori di lavoro diversi dal ministero della Giustizia. In quel caso la Naspi è prevista. La sentenza dei magistrati del Tribunale del lavoro di Milano, invece, ha dato torto all’Inps, considerando discriminatoria la circolare che escludeva il detenuto dal conseguimento dell’indennità di disoccupazione. Adesso si dovrà aspettare l’eventuale ricorso dell’Istituto di previdenza sociale e la decisione dell’Appello. Intanto, però, un punto importante a vantaggio dei reclusi nelle case circondariali è stato assegnato con il giudizio espresso dai giudici del lavoro. Csm. La proposta degli esperti di Cartabia non argina il correntismo, esclude solo alcune correnti di Angelo Piraino Il Domani, 14 novembre 2021 Si sta decidendo la riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, il supremo organo di autogoverno dei magistrati italiani. La proposta attualmente in discussione, battezzata “disegno Luciani”, è stata elaborata dagli esperti del ministro della Giustizia Cartabia. Secondo il presidente di Magistratura indipendente, una delle correnti dei magistrati, è un sistema sbagliato, che invece di ridurre il peso delle correnti, ne esclude alcune favorendone altre. La scadenza dell’attuale Consiglio superiore della magistratura è vicina, ma il fronte delle riforme del sistema elettorale, sebbene registri fibrillazioni tra le correnti della magistratura, ancora attende degli sviluppi. Tutto fa presagire un’improvvisa accelerazione mediante l’uso della fiducia, che non consentirebbe alcun approfondimento e impedirebbe il dibattito parlamentare. La scelta dei sistemi elettorali è materia ostica, intrisa di tecnicismo, in cui il diavolo si nasconde nei dettagli. Ma è una scelta ineludibile, perché è obiettivamente fallita la precedente riforma, varata nel 2002 dal ministro Castelli, che mirava a estromettere le correnti della magistratura dal Csm ma che, invece, gliene ha consegnato definitivamente le chiavi. Il gruppo di Magistratura indipendente, a differenza di altri, crede che l’associazionismo giudiziario debba recuperare la sua originaria vocazione sindacale, che comporta necessariamente una più efficace separazione tra Anm e Csm, perché l’associazione deve fungere da contraltare all’autogoverno, per stimolarlo e anche criticarlo, all’occorrenza. Il Csm persegue il fine istituzionale di tutelare l’indipendenza della magistratura, ma deve riacquistare la sua funzione originaria di organo di garanzia e non di governo. Ecco perché riteniamo del tutto inadeguato qualsiasi sistema elettorale che divida gli elettori in una maggioranza e una minoranza precostituite, come blocchi contrapposti e stabili, e siamo fortemente contrari a un Csm che agisca e ragioni come un piccolo parlamento. Il sistema elettorale del Csm, dunque, deve essere fatto in modo da rendere impraticabili accordi preventivi fra le correnti. No al disegno Luciani - Queste riflessioni ci hanno condotto a ritenere inadatto allo scopo il disegno elaborato dalla commissione presieduta dal professor Luciani, che, invece di ridurre il peso delle correnti, rischia solo di escluderne alcune, aumentando l’influenza di altre. Il sistema del voto singolo trasferibile prevede che il candidato più votato trasferisca il suo surplus di voti sui candidati che sono indicati nella sua stessa scheda elettorale come seconde e terze preferenze: l’elettore non esprime una scelta secca, ma ordina le preferenze secondo una graduatoria, da utilizzare per assegnare i seggi qualora - come spesso accadrà - non è possibile attribuire tutti i seggi sulla base dei primi voti. Ma il trasferimento dei voti viene operato dall’alto, ossia a partire dai candidati più votati, e questo si presta a favorire accordi preventivi, mediante uno scambio reciproco tra candidati delle seconde e terze preferenze. Se applicato a un piccolo numero di elettori (i magistrati sono circa 9.700, e potrebbero essere suddivisi in collegi più piccoli), questo sistema si presta chiaramente alla elaborazione di “mini liste” che potrebbero essere prima pianificate dalle correnti e poi anche verificate ex post, con buona pace della segretezza del voto. Ecco perché il voto singolo trasferibile, seppur ideato con le migliori intenzioni, agevola patologiche aggregazioni di interessi, consente accordi che potrebbero distorcere il voto ed escludere dal Csm la pluralità di idee, e rischia un disallineamento importante tra la composizione dell’organo di autogoverno e gli effettivi equilibri delle sensibilità culturali interne alla magistratura. Secondo noi la riforma del sistema elettorale del Csm, per non sbagliare mira, deve partire dall’analisi dei difetti di quello attuale, che sono ormai ben conosciuti. L’attuale sistema ha fallito perché chiede ai candidati di proporsi su tutto il territorio nazionale, e ha reso indispensabile l’aiuto di organizzazioni ampie: da qui il monopolio di fatto delle campagne elettorali alle correnti. Correttivi - Il primo, indispensabile, correttivo dovrebbe essere, quindi, accorciare la distanza tra l’elettore e l’eletto, con collegi elettorali che non siano né troppo grandi, per non richiedere un eccessivo sforzo organizzativo, ma nemmeno troppo piccoli, per evitare forme di condizionamento locale, individuati dalla legge in modo oggettivo e predeterminato, per escludere aggregazioni territoriali di comodo. Riteniamo assolutamente da evitare la previsione di collegi binominali, con obbligo di preferenza di genere, che si presterebbero ancora meglio ad accordi tra i maggiori gruppi e taglierebbero del tutto fuori le minoranze dal Csm, nonché il ballottaggio, che è perfetto per accordi di desistenza. Il secondo, fondamentale, correttivo è garantire un numero minimo ampio di candidature, con adeguata rappresentanza di genere. Per stimolare le candidature si potrebbero prevedere specifiche agevolazioni, che consentano agli indipendenti di avere le risorse, personali e materiali, per potersi proporre agli elettori, senza necessariamente doversi avvalere del sostegno di gruppi associativi. Se anche questo non fosse sufficiente a raggiungere il numero minimo, potrebbe anche essere valutata la previsione del sorteggio, come strumento residuale e di ultima istanza. Escludiamo il pericolo di candidati “di paglia”, contrapposti a quelli “forti” delle correnti, perché con una minore distanza tra elettore ed eletto, un effettivo supporto logistico ai candidati indipendenti e una maggiore libertà di espressione del voto senza paura di condizionamenti o controlli, tutti i candidati avrebbero certamente maggiori chances di quante non ne potrebbero avere con un sistema che si presta ad accordi fra correnti. Ecco perché abbiamo proposto un sistema maggioritario a turno singolo, con collegi medi plurinominali, con preferenza unica. Occorre andare oltre la superficie, riflettere in profondità, individuare le cause profonde dei problemi attuali, e i primi a doverlo fare sono proprio le correnti, chiamate a fare un passo indietro, in mancanza del quale si rischia di compromettere la credibilità e l’indipendenza della magistratura italiana, e il conto più salato di questo disastro, purtroppo, lo pagheranno i cittadini, che non potranno più fare affidamento su chi è chiamato a tutelare i loro diritti. Alfonso Sabella: “Io, pm finito alla gogna, dico: basta massacri mediatici” di Simona Musco Il Dubbio, 14 novembre 2021 Intervista ad Alfonso Sabella, il magistrato accusato ingiustamente per il G8: “Ora una riforma per ripulire gli atti d’indagine da quanto serve solo a infangare”. “Ho capito sulla mia pelle quanto sia importante la presunzione d’innocenza. Dobbiamo valutare che dall’altra parte ci sono esseri umani che si vedono “sputtanare” gratis, senza alcun riferimento al procedimento penale”. A parlare della pubblicazione degli atti del caso Open è Alfonso Sabella, ex magistrato del pool antimafia di Palermo che catturò Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Pietro Aglieri, oggi giudice a Napoli. Che chiarisce: il Fatto quotidiano non ha commesso nessun illecito nel rendere note le strategie di Matteo Renzi per contrastare i propri avversari. Ma “c’è anche il diritto dell’indagato alla sua privacy e se necessario vanno introdotti dei limiti”. Gli atti pubblicati dal Fatto Quotidiano su Renzi sono, da un lato, un documento di enorme interesse per l’opinione pubblica, ma dall’altro rimangono comunque privi di rilievo penale. C’è un cortocircuito tra diritto all’informazione e privacy? Quando gli atti sono noti all’indagato viene meno qualunque tipo di divieto di pubblicazione, ma è chiaro che ci muoviamo in un terreno minatissimo, in cui, da un lato, c’è l’interesse all’accertamento della verità da parte della procura e, dall’altro, l’interesse all’informazione in ordine a notizie che possono avere un interesse pubblico. Ma c’è anche il diritto dell’indagato alla sua privacy e credo che, in certi casi, vada rispettata. Le faccio un esempio: quando arrestai Pietro Aglieri, numero due di Cosa Nostra, ci riuscii seguendo un prete che andava a dire messa nel suo covo. Feci settimane di intercettazioni delle telefonate di quel convento e quelle telefonate, che non erano rilevanti, le ho mandate al macero. E nessuno le ha mai conosciute, ancorché ci potessero essere delle cose pruriginose che potevano interessare a varie persone. Occorrerebbe verificare se non ci siano spazi per introdurre, in qualche caso, dei divieti di pubblicazione. Penso, ad esempio, alle notizie che riguardano i conti correnti bancari. Anche questo è avvenuto nel caso che riguarda Renzi. Si sarebbe potuto evitare? Se non è utile ai fini dell’indagine, per quale ragione renderli noti? Dovrebbero esserlo solo i dati che vengono utilizzati nel provvedimento cautelare, ai fini del rinvio a giudizio o ai fini della prova nel procedimento penale. Ammettiamo che in un conto corrente ci sia un addebito per una notte in albergo con l’amante: perché dovrebbe venire a saperlo la moglie? Mi sono confrontato spesso con dati di questo tipo e ho cercato sempre, per quanto consentitomi dalla legge, di mantenerli riservati. Ma è chiaro che non posso fare una valutazione del genere da solo. Come pm posso cercare di omettere cose di questo tipo, ma quello stesso dato potrebbe essere utile alla difesa. E questa, però, a volte diventa la foglia di fico per utilizzare o pubblicare dati riservati. Come si potrebbe fare? Per le intercettazioni telefoniche è prevista, ad esempio, un’udienza stralcio in cui, sostanzialmente, la difesa evidenzia quali sono i file che possono servire e quali, invece, possono essere mandati al macero. Probabilmente, per altri dati sensibili che vengono acquisiti nel corso delle indagini, bisognerebbe pensare a qualcosa di questo tipo. Secondo lei è fattibile? Il problema è che tutto questo va fatto avendo un occhio al funzionamento del processo penale, perché introdurre ancora paletti e limiti significa andare a gravare su un’unica figura processuale: il gip. O si capisce che i gip devono essere tanti quanto i pm oppure faremo un buco nell’acqua, perché il sistema non potrà mai reggere. Se vogliamo delle riforme che tutelino realmente il diritto all’informazione, il diritto alla privacy e l’esercizio dell’azione penale, allora dobbiamo cercare di avere una struttura che sia in grado di gestire tutto questo. Perché tutto va fatto, ovviamente, nel contraddittorio delle parti: tornando all’esempio di prima, magari quella ricevuta che attesta un tradimento viola la privacy, ma può essere l’alibi per una persona accusata di omicidio. E per carità, mi rendo conto che non è bello, ma forse bisognerebbe anche introdurre qualche divieto di pubblicazione. C’è il rischio anche di entrare a gamba tesa nelle strategie politiche di un partito, deprecabili o meno che siano? Faccio un esempio brutale: quando ero assessore alla legalità, l’allora sindaco di Roma Ignazio Marino decise di pubblicare le sue spese, i famosi scontrini, senza consultarmi. Ed è una cosa che non gli perdonerò mai, perché se mi avesse consultato glielo avrei impedito. Per quale ragione? Per la violazione della privacy del commensale. Per quale ragione Marino doveva far sapere all’ambasciatore del Vietnam che aveva pagato la cena a quello della Cambogia e non a lui? Per quale ragione doveva far sapere ai suoi compagni di partito che aveva offerto un pranzo ad un parlamentare dell’opposizione? Erano elementi di grande riserbo e anche di esercizio libero dell’attività politica. Nel caso di Renzi è la stessa cosa? È chiaro che, allo stato attuale delle norme, il Fatto quotidiano ha fatto il suo dovere. Se io fossi stato un giornalista avrei pubblicato quelle notizie. Probabilmente vanno inseriti dei limiti nel sistema, limiti commisurati alla capacità stessa del sistema di reggere. Oppure diventerebbero una farsa, perché il giudice non avrebbe il tempo materiale di valutare quali sono le informazioni che possono essere eliminate. Dobbiamo pensare un sistema penale con un doppio binario serio, con tutte le garanzie del mondo agli illeciti importanti e un grado di giudizio più la Cassazione per gli illeciti bagatellari o tutto ciò che non comporta pene detentive, facendo una depenalizzazione serissima. Anche il rispetto delle garanzie e della privacy passa per una riforma radicale del sistema giustizia, ma non ne siamo in grado. Se oggi introducessero un altro limite o un’altra verifica il risultato sarebbe la paralisi. Ma dobbiamo anche valutare che dall’altra parte ci sono esseri umani che si vedono “sputtanare” gratis, senza riferimenti al procedimento penale. Cosa ne pensa del recepimento della direttiva sulla presunzione d’innocenza? Molti suoi colleghi l’hanno definita un bavaglio... Se io non avessi vissuto la mia storia personale, sarei con i miei colleghi a pensare che tutte queste norme, probabilmente, limitano l’esercizio corretto dell’azione penale. Ma avendo capito quanto sia importante la presunzione d’innocenza sulla mia pelle, sono perfettamente d’accordo sull’introduzione di queste norme e che se ne facciano altre. Senza la mia esperienza avrei ipotizzato il mondo ideale di una giustizia che non sbaglia mai e che dà a tutti la possibilità di difendersi. Ma a me, in 20 anni, non è mai stata data. Su di me si è creata una presunzione di colpevolezza fondata sul nulla. E la maggior parte delle persone che mi ha rovinato la vita ha la toga. L’abuso d’ufficio va abolito, ecco perché di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 14 novembre 2021 La lodevole iniziativa dell’Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia per un drastico intervento del legislatore volto ad eliminare la paralizzante ipoteca del reato di abuso di ufficio sulla quotidiana attività dei sindaci, sembra però alimentare un singolare equivoco, non solo mediatico. A sentire o leggere molti degli interventi sul tema - da ultimo addirittura quello del Presidente della Camera Roberto Fico - sembra quasi che le gravi distorsioni prodotte da questa magmatica fattispecie di reato siano una peculiare esclusiva dei primi cittadini nei comuni italiani. Il tema è ovviamente molto più vasto, sia perché ovviamente non può non riguardare tutti gli amministratori pubblici, sia perché la riflessione, se vuole essere seria e credibile, dovrebbe estendersi anche oltre l’articolo 323 del codice penale. Sicché dire, come fa il Presidente grillino della Camera, che “oggi ha una logica rivedere” il reato di abuso in atti di ufficio perché “i sindaci sono una grande comunità, hanno grandi responsabilità e bisogna ascoltarli” a me pare solo un modo per eludere la questione vera che occorre affrontare, e che è ben più complessa. Il reato di abuso in atti di ufficio è da sempre la norma che il legislatore ha consegnato, insieme ad altre, agli Uffici di Procura per esercitare un indebito controllo general preventivo sull’attività della pubblica amministrazione e dunque sulla politica. Norme che per la loro indeterminata genericità si risolvono in quella che è stata efficacemente definita (Luciano Violante) come una sorta di “mandato a cercare” eventuali irregolarità o illiceità nella amministrazione pubblica, a prescindere da ben definite e chiare notizie di reato. È a tutti noto che la percentuale di condanne definitive per abuso in atti di ufficio è infinitesimale se raffrontata al numero di indagini che in nome di esso sono state aperte dagli Uffici di Procura di tutta Italia; indagini che hanno di per sé prodotto i propri effetti sostanzialmente sanzionatori già in quella fase, gravando di una pesante ipoteca lo svolgimento del mandato dell’amministratore indagato, quando non ponendolo perciò solo nella necessità di rimetterlo. L’abuso, data la sua definizione magmatica e residuale (“salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, così esordisce la norma) permette di tenere in vita e legittimare comunque indagini sommariamente avviate per più gravi ipotesi di reato (corruzione, concussione, peculato) che con il tempo si dimostrino infondate: alla fine, male che vada, un abuso in atti di ufficio non potrà negarsi a nessuno. Questo è a ben vedere la distorsione più grave determinata dal mantenere in vita quella fattispecie di reato, e che riguarda -in forma ormai perfino più grave- anche una seconda fattispecie di reato, lo sciagurato “traffico di influenze”, introdotto da pochi anni a furor di populismo. Nessun giurista serio è ad oggi in grado di spiegare con chiarezza quale possa essere in concreto e con certezza questa misteriosa condotta, un miscuglio indefinito tra una corruzione solo immaginata ed un millantato credito però mica tanto millantato. Un mostriciattolo giuridico senza capo né coda che infatti non produce praticamente mai condanne, ma alimenta invece, come e più dell’abuso in atti di ufficio, un indeterminato numero di indagini. E se per questo reatuncolo non sono consentite - deo gratias - intercettazioni telefoniche, non preoccupatevi: se i protagonisti sono più di tre (e tre cristiani li trovi sempre), sarà sufficiente contestare in fase di indagine una associazione per delinquere finalizzata al traffico di influenze per consentirsele. Dunque, altro che sindaci. Qui il tema è ancora una volta quello di una politica che si è stolidamente consegnata al controllo di legalità preventivo degli uffici di Procura, in nome di un diritto penale sempre più drammaticamente lontano dal suo ancoraggio ai principi costituzionali e liberali di tipicità e tassatività delle norme incriminatrici. Questo il Presidente Fico non lo sa, ma occorre invece che tutti lo comprendano, se vogliamo affrontare con serietà questa ennesima emergenza democratica. Giustizia predittiva, piattaforma online di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2021 Risposte ad almeno due delle canoniche domande che si pone chiunque si trovi a essere parte in una causa: quella sulla fondatezza delle proprie ragioni e sulla possibilità che vengano accolte; e quella sulla durata del giudizio. A Brescia, questo si concretezza in uno di quei progetti pilota che vanno poi a costituire le best practices degli uffici giudiziari, il link www.giustiziapredittiva.unibs.it, messo a punto da Tribunale e Corte d’Appello in stretta collaborazione con l’Università e con la partnership della Camera di Commercio e di Aiga. Un progetto che dà concretezza a un sistema di giustizia predittiva dove a essere anticipato è il risultato potenziale di una causa, la sua durata e, se necessario, l’entità del verosimile risarcimento. Per Claudio Castelli, presidente della Corte d’appello, “la finalità esterna del progetto è quella di fornire a utenti e agenti economici dei dati di certezza e di prevedibilità e nello stesso tempo di contenere la domanda, disincentivando dalle cause temerarie e incoraggiando in modo indiretto le parti a seguire altre strade (conciliative, transattive)”. Ma Castelli sottolinea anche “la formidabile valenza interna: perché ciò impone principi preziosi anche all’interno della giurisdizione: trasparenza delle decisioni, circolarità della giurisprudenza tra I e II grado, consapevolezza delle decisioni e superamento dei contrasti inconsapevoli”. Il progetto si è sviluppato attraverso alcuni passaggi chiave: individuazione delle materie da cui partire. Inizialmente sono state privilegiate le materie più rilevanti per gli agenti economici: tribunale delle imprese (societario, industriale), contratti bancari, licenziamenti, contributivo, infortunistica sul lavoro; creazione dì una banca dati per ogni materia; circolarità della giurisprudenza tra I e II grado, inizialmente tra Tribunale e Corte di Appello di Brescia, con la prospettiva di estenderla a tutti i Tribunali del distretto; creazione di gruppi di lavoro dell’Università con un raccordo con Corte di Appello e Tribunale (e coni già costituiti Uffici per il processo) per ogni branca di materie che prendono in carico i provvedimenti emessi e ne estraggono orientamenti e casistica; estrazione, con l’ausilio dell’Università, dei dati sui tempi medi di durata dei procedimenti materia per materia. Quella che viene elaborata non è una tradizionale massima, ma un abstract con l’enunciazione di un caso accompagnata dal principio giuridico, espressa il più possibile in un lessico comprensibile e lontano dal proverbiale “giuridichese” in modo che la persona interessata possa verificare la concretezza della problematica non solo giuridica esistente e tenerne conto in caso di contenzioso analogo. Il sito propone due grandi aree tematiche, il diritto del lavoro e il diritto dell’impresa. Una volta scelta l’area tematica, si può percorrere, secondo un grado crescente di approfondimento, un itinerario, con l’obiettivo di individuare la vicenda giudiziaria più appropriata, per identità o similitudine, a quella di proprio interesse, “arrivando”, si spiega, alla fine di quell’itinerario, alla soluzione cercata. Parma. Morto in carcere Vincenzino Iannazzo, era al 41bis di Luigina Pileggi Gazzetta del Sud, 14 novembre 2021 È morto Vincenzino Iannazzo, detto il “moretto”, ritenuto capo dell’omonima cosca mafiosa di Lamezia Terme. Il 67enne, malato da tempo era detenuto al Sai (Servizio di assistenza intensificato) del carcere di Parma. Vincenzino Iannazzo era considerato il capo storico del clan, capace di gestire gli affari di famiglia perfino dall’Irlanda. Ma questo oltre un decennio fa. Il 67enne, nonostante le sue condizioni di salute, era al 41 bis, regime a cui è stato di nuovo sottoposto dopo le polemiche che, un anno fa, accompagnarono alcune scarcerazioni motivate dai rischi Covid, tra cui la sua. Nei mesi scorsi, ad occuparsi di Iannazzo è stata l’associazione “Yairaiha Onlus” che, da anni, lotta per i diritti dei detenuti, che lanciò un appello affinché il capoclan di Sambiase fosse messo nelle condizioni di poter essere curato. Iannazzo, spiegarono gli attivisti dell’associazione, “soffriva di una serie di patologie fra le quali spiccava, per gravità e manifestazioni che comportava, la demenza a corpi di Lewy”. La malattia, diagnosticata dal reparto di Medicina protetta dell’ospedale di Belcolle di Viterbo dove è stato ricoverato da giugno a novembre 2020, comporta “gravi deficit di tutte le funzioni cognitive (memoria, attenzione, ragionamento, linguaggio), allucinazioni visive con conseguenti stati di agitazione e difficoltà a svolgere in maniera autonoma le attività del vivere giornaliero”. Un quadro “di assoluta gravità”, nonostante il quale Iannazzo è rimasto detenuto al Servizio di assistenza intensificato del carcere di Parma. Dove ieri è morto. Latina. Carcere, tasso di affollamento record. Capriccioli: situazione inaccettabile di Elena Ganelli Il Messaggero, 14 novembre 2021 “Una struttura decisamente al di sotto del livello minimo accettabile”. Con queste parole il consigliere regionale Alessandro Capriccioli di +Europa con Emma Bonino descrive il carcere di Latina al termine di una visita ispettiva, effettuata venerdì, per verificare le condizioni nelle quali si trovano detenuti e personale. “Si tratta di una struttura risalente al fascismo, costruita con un’idea di carcere decisamente lontana non dico da un concetto moderno di edilizia penitenziaria, ma anche da quello che oggi possiamo considerare il livello minimo accettabile spiega il consigliere - gli spazi sono angusti, cosa che incide sia sulle stanze dei detenuti sia sui locali nei quali sono organizzate le loro attività, e le manutenzioni che sarebbero necessarie sono tali e tante che coi fondi a disposizione non si riesce mai a completarle”. Naturalmente i limiti strutturali dei quali da tempo si discute sono resi ancora più gravi dal sovraffollamento: i numeri raccontano della presenza nella casa circondariale di 120 tra detenuti e detenute queste ultime occupano l’ala di massima sicurezza a fronte di una capienza di sole 77 unità. Secondo l’ultimo rapporto del Ministero della giustizia aggiornato al 31 luglio scorso Latina con i 43 detenuti in eccesso rispetto alla capienza risulta avere il tasso di affollamento più alto d’Italia (170 %), quando la media nazionale si ferma a 105%. “La situazione continua Capriccioli è ulteriormente aggravata dalla ridotta disponibilità di personale della polizia penitenziaria, che rende tutto ancora più difficile. Il punto è che se nelle nostre carceri ci si ritrova a scontare sistematicamente difficoltà di questo tipo e di questa entità la famosa rieducazione prevista dalla nostra Costituzione non può che rimanere una parola scritta su un pezzo di carta, malgrado le migliori intenzioni e la capacità di gettare il cuore oltre l’ostacolo di chi si ritrova a dirigere strutture come questa. Tutto questo conclude l’esponente di +Europa con Emma Bonino - ha delle conseguenze molto negative non soltanto sui diritti delle persone detenute, cosa che già di per sé sarebbe abbondantemente sufficiente, ma anche sulle condizioni spesso difficilissime in cui gli operatori sono costretti a lavorare, e soprattutto sulla possibilità che una volta uscite dal carcere le persone intraprendano una strada diversa da quella che le ha portate fin là. O si capisce questo, e si agisce di conseguenza svuotando le carceri dalle persone che potrebbero scontare la pena attraverso misure alternative, e al contempo rendendole luoghi effettivamente riabilitanti per tutti gli altri, oppure è meglio dirci con sincerità che gli istituti penitenziari sono solo delle discariche nelle quali si accatasta tutto quello che non si è capaci o non si ha voglia di affrontare la questione”. Bari. Parco della giustizia, Sisto rassicura sui tempi: primo lotto entro il 2024 di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 14 novembre 2021 “C’è una novità di rilievo: l’Agenzia del Demanio, per poter mantenere il 2024 come data di completamento del primo lotto del Parco della Giustizia, ha chiesto di realizzare il concorso di idee e non l’appalto integrato”. Lo ha detto ieri a Bari il sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto. “Un concorso di idee e non l’appalto integrato”. È la novità comunicata ieri da Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia, con delega all’edilizia giudiziaria, nell’ambito del progetto sul Parco della Giustizia di Bari, che sarà realizzato nelle ex casermette Milano e Capozzi, in via Alberotanza al quartiere Carrassi. “L’Agenzia del Demanio - ha spiegato Sisto uscendo dal carcere di Bari al termine di una visita che interesserà vari istituti di pena italiani (Bari è stata la prima tappa) per studiare le problematiche e cercare soluzione finalizzate alla rieducazione dei detenuti - ha chiesto di poter mantenere il 2024 come data di completamento del primo lotto del Parco della Giustizia e di poter realizzare il concorso di idee. Il ministero ovviamente ha acconsentito a questa richiesta- ha aggiunto ben venga se serve a dare alla nostra città il primo lotto entro il 2024, con l’assunzione di responsabilità del Demanio di mantenere i tempi. Abbiamo scritto una norma che ci consentiva direttamente l’appalto integrato - ha proseguito Sisto - ma il Demanio con le sue strutture ritiene che invece la strada debba essere diversa per garantire i tempi. Il ministero ne ha preso atto e ha rimesso l’intera responsabilità di questa scelta all’Agenzia del Demanio. Noi ovviamente saremo collaborativi con quelli che saranno gli ulteriori sviluppi di questa situazione, ma le scelte operative fanno eco ad un cronoprogramma che è di stretta competenza del Demanio”. L’accellerata del Governo per la realizzazione del Parco della Giustizia è arrivata a settembre scorso con l’approvazione del decreto legge che ha inserito il polo unico di Bari, un progetto da 90 milioni di euro, nel decreto legge sulle disposizioni urgenti in materia di investimenti, infrastrutture e trasporti. Un progetto atteso da anni dagli operatori della giustizia baresi costretti a muoversi da un capo all’altro della città (compresi anche Modugno e Bitonto) per raggiungere gli uffici della giustizia. È partito dunque dalla Puglia il giro del sottosegretario Sisto nelle carceri d’Italia. “Non sono visite di cortesia ha detto - ma servono a capire la situazione dell’edilizia carceraria, quella del personale che lavora all’interno delle carceri, della polizia penitenziaria e non e il trattamento dei detenuti, ai quali deve essere garantito un percorso di rieducazione. Il carcere, nel processo penale della ministra Cartabia, non è l’unica alternativa alla libertà e questo la dice lunga sul ritorno della parola rieducazione”. Sull’emergenza sovraffollamento che affligge tutti gli istituti penitenziari della Puglia, nel carcere di Bari, Sisto ha rilevato un sovraffollamento “ridotto” con 401 presenze a fronte di una capienza di 288. Ha sottolineato ancora la “grande umanità e la sintonia tra la polizia penitenziaria e i dirigenti. Si fa quello che si può in una struttura che risale al 1922 - ha detto ancora - sono stato con i detenuti quando erano all’aria aperta, ho giocato con loro al calciobalilla perché ho ritenuto che nel gioco si potesse cogliere il vero umore e ho intercettato il senso di umanità. Quello che non va invece è la sanità - ha concluso - ci sono sei medici su 14, macchinari obsoleti, un centro clinico che dovrebbe essere aperto a San Paolo di cui non si sa assolutamente nulla e non c’è un servizio di assistenza psicologica per la polizia penitenziaria. “Alla Regione ho formulato queste lamentele - conclude - e mi è stato assicurato che interverranno. Bisogna evitare che la carenza di risorse diventi carenza di funzionamento delle istituzioni”. Pescara. Il sottosegretario Macina: “Sì ai fondi per il carcere” Il Centro, 14 novembre 2021 “Il carcere di Pescara è destinatario di fondi per lavori di ristrutturazione che riguardano il sistema di anti-scavalcamento, l’allarme termico e la portineria. C’è poi il reparto di telemedicina che va implementato e bisogna far ripartire la calzoleria, attualmente sospesa”. Lo ha detto ieri il sottosegretario alla Giustizia Anna Macina dopo la visita al carcere. A margine del sopralluogo ha parlato dei problemi di sovraffollamento (ci sono anche 170 tossicodipendenti) e della carenza di organico e ha ricordato che è “stato bandito un nuovo concorso per agenti di polizia penitenziaria e che nella scorsa Legge di Bilancio è stato autorizzato un concorso straordinario per coprire ulteriori duemila posti”. La “grande sensibilità e l’interesse per la questione San Donato mostrati dal sottosegretario sono stati sottolineati da Daniela Torto, deputata abruzzese del Movimento 5 Stelle che ricorda le evasioni dei mesi scorsi e sottolinea l’opportunità di “intervenire sulla struttura fatiscente e sull’organico”. Sono polemici, invece i rappresentanti dei sindacati Osapp Abruzzo, Sinappe Abruzzo e Fp Cgil Abruzzo Molise - comparto funzioni centrali, Nicola Di Felice, Alessandro Luciani e Giuseppe Merola perché non c’è stata risposta alla richiesta di incontro istituzionale con il sottosegretario. Annunciano “mobilitazioni a tutela dei lavoratori” tornando a denunciare “la discutibile attività gestionale” del carcere. Soddisfazione per la visita viene espressa dalla segreteria regionale dell’Uspp e da Mauro Nardella, della segreteria confederale Cst Uil Adriatica Gran Sasso che invita il sottosegretario al carcere di Sulmona. Novara. Al Circolo dei lettori si parla di carcere con i garanti e i consiglieri regionali lavocedinovara.com, 14 novembre 2021 Lunedì 15 al Broletto un dibattito a partire dal libro “Carcere - idee, proposte e riflessioni” scritto da Samuele Ciambriello, dal 2017 garante dei detenuti della Regione Campania Al Circolo dei lettori si parla di carcere con i garanti e i consiglieri regionali. Lo spunto è la pubblicazione del libro “Carcere - idee, proposte e riflessioni” scritto da Samuele Ciambriello, dal 2017 garante dei detenuti della Regione Campania, docente di Teoria e tecniche della comunicazione presso l’Università di Salerno e di Teoria e tecniche del linguaggio radio-televisivo presso l’Università di Malta; ha ricoperto significativi incarichi istituzionali, fra i quali consigliere e assessore regionale della Campania. “È importante un ampio e consapevole dibattito pubblico sulle problematiche emergenti del sistema penitenziario italiano, anche alla luce degli interventi emergenziali dettati dalla pandemia e dagli interventi delle supreme corti, nazionali e internazionali, nel campo dell’efficacia e dignità della pena - commentano don Dino Campiotti e Bruno Mellano, garanti cittadino e regionale. La comunità penitenziaria, composta da operatori, agenti e detenuti, rappresenta davvero un’utile cartina di tornasole dei diritti dei cittadini e delle politiche sociali e di sicurezza di un Paese moderno”. Dopo i saluti dell’amministrazione comunale, all’incontro interverranno anche Domenico Rossi, vice presidente della Commissione Sanità regionale e Federico Perugini, vice presidente della Commissione permanente per la Promozione della cultura della legalità e contrasto ai fenomeni mafiosi in Regione. Nisida (Na). Il cuoco del carcere premiato da Mattarella: vita spesa aiutando i ragazzi fanpage.it, 14 novembre 2021 Si chiama Giuseppe Lavalle, ha 78 anni e per ragazzi e operatori dell’Istituto Penale per minorenni di Nisida è conosciuto come “Zio Peppe”. È da 40 anni cuoco del carcere per ragazzini sull’isolotto affacciato nella zona Occidentale di Napoli, a Bagnoli ed è da oggi commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana (Omri) per decisione motu proprio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Lavalle è stato insignito dell’Ordine al Merito (quelli che oggi vengono definiti “eroi civili”), spiega la motivazione: “Per la sua preziosa e generosa opera di assistenza e supporto ai ragazzi. Ecco cosa dice la nota del Quirinale: Negli ultimi anni è stato anche il promotore di una iniziativa di solidarietà a favore dei senza fissa dimora assistiti dalla Comunità Sant’Egidio: insieme ad alcuni ragazzi di Nisida, autorizzati dalla magistratura, con l’aiuto della moglie e della figlia prepara e distribuisce centinaia di pasti. È un punto di riferimento, rispettato e amato dai giovani di Nisida. In numerose occasioni, insieme alla moglie, ha offerto ospitalità accogliendo nella sua famiglia giovani italiani o stranieri che avessero bisogno di una particolare attenzione. Il progetto “Monelli tra i fornelli” - La Cucineria di Nisida, poi strutturata nella onlus “Monelli tra i fornelli”, ha l’obiettivo di formare i giovani reclusi che una volta usciti avranno un mestiere e dunque maggiori possibilità di sfuggire alla triste e devastante carriera criminale che porta inevitabilmente o a nuovi arresti o all’affiliazione ai clan con tutto ciò che determina: dalle azioni criminali fino alla morte nelle sanguinose faide di camorra. La sede operativa dei ‘Monelli’ è proprio nei laboratori di cucina e pasticceria dell’IPM di Nisida, in cui si svolgono le attività di formazione per i ragazzi, e con i più meritevoli progetti di produzione per finanziare future attività. Anche quest’anno, ad esempio, i ragazzi saranno impegnati nella produzione di Panettoni e dolci natalizi, la cui disponibilità è indicata sulla pagina Facebook della Onlus. Il Covid in carcere tra emergenze e menzogne di Francesca de Carolis ultimavoce.it, 14 novembre 2021 Ne parla “Carcere e Covid, dalle fake news alle leggi emergenziali”, un libro di Sandra Berardi. Tutti, immagino, le abbiamo viste, le terribili immagini della mattanza del carcere di Santa Maria Capua Vetere. “Una delle più gravi violazioni della storia repubblicana del paese”, l’ha definita Antigone. Tutti le abbiamo viste, e infine l’indagine va avanti, mentre finalmente è stata riaperta l’inchiesta, in un primo momento archiviata, sui morti dei giorni della rivolta nel carcere di Modena. Tredici poveri morti, di cui sembra non interessi granché ad alcuno, mentre se ne aggiunge un quattordicesimo, Lamine Hakimi, ventottenne algerino morto a distanza di tempo da quei giorni, per cui si parlò di suicidio, ma morto, secondo un documento degli inquirenti, a causa delle “torture e dei maltrattamenti subiti” e delle “indebite condizioni di isolamento sociale”. Vi risparmio i dettagli, anche questi raccapriccianti, di una storia rimasta in sordina. Ma dopo tanto scandalo, quanto ancora se ne parla? In questo paese dove siamo così bravi ad archiviare tutto quello che pensiamo non tocchi la nostra vita. E non c’è nulla di più sbagliato se il carcere è un pezzo di noi, prodotto della nostra bella società. Per questo ho trovato importante e necessario, il libro di Sandra Berardi, “Carcere e covid, dalle fake news alle leggi emergenziali”. E sono di parte, avendone curato l’editing per Strade Bianche di Stampa Alternativa. Ma quando ho letto la tesi di laurea dalla quale questo libro poi è stato tratto, ho pensato che andasse subito pubblicata, per non dimenticare troppo presto, e per aprire gli occhi su una realtà che, ci piaccia o no, ci coinvolge tutti. Un testo ricco di informazioni e documentazioni su quanto è accaduto nelle carceri italiane al tempo del covid. Su cosa è accaduto dentro, ma anche tutto quello che vi è girato intorno… Scritto da persona, Sandra Berardi, fondatrice di Yairahia, associazione che si occupa dei diritti delle persone private della libertà, che la realtà del carcere conosce benissimo. Anche per averne visitate molte, di carceri, al seguito dell’europarlamentare Eleonora Forenza. Questo suo libro mette in fila fatti e documenti, raccontando intanto come l’emergenza covid abbia fatto esplodere le contraddizioni delle condizioni che vivono i detenuti. Partendo dai giorni delle rivolte del marzo 2020, se ne spiegano i motivi che le hanno prodotte, i timori, le paure, le confuse comunicazioni, l’interruzione delle visite dei parenti (e potete immaginare quando psicologicamente pesi), mentre dalla televisione si apprendono le angoscianti notizie sul terribile virus… Lo sguardo si allarga anche a quello che è accaduto in quei giorni nel mondo e nel confronto l’Italia non brilla per civiltà. Prima confusione, mancanza di riposte tempestive… poi una legislazione d’emergenza che corre sempre su un secondo binario rispetto a quello che riguarda noi “liberi”, o presunti tali. Ma subito il libro mette a confronto quello che accade (e le informazioni sono anche di prima mano, vengono dalle lettere di detenuti e dalle prime denunce dei parenti) con la rappresentazione che ne hanno fatta i media. Già, l’informazione. Che in un primo momento aveva iniziato a raccontare… in fondo i detenuti sui tetti, il fumo, poi i tredici morti, sono cose che fanno notizia. Ma le notizie si bruciano in fretta. Dopo pochi giorni su tutto si stende un velo. Tranne poche eccezioni, di giornalisti ostinati e fuori dal coro, dopo pochi giorni vengono archiviati persino i morti. E, la cosa che più stupisce, è stata mediamente accettata, a proposito delle vittime, la testi dell’”overdose”… che francamente chi appena appena sa qualcosa di carcere non poteva che trovare inaccettabile, quando non tragicamente ridicola. Pensateci un po’… cosa può accadere all’interno delle carceri durante una rivolta, e sappiamo da che parte è la forza… Fra l’altro se fosse stato vero che nel mezzo di una battaglia le persone non trovino di meglio da fare che riempirsi di droga fino a morirne, la notizia sarebbe comunque enorme, da interrogarsi molto… Ma non è solo silenzio. Quello che ben svela il libro è il ruolo che hanno avuto i media nella costruzione deviata dell’opinione pubblica attraverso un’informazione falsata. Cosa che riesce addirittura a condizionare le scelte politiche e legislative. E penso ai provvedimenti che hanno rimandato in cella persone che legittimamente ne erano state allontanate su provvedimento della magistratura di sorveglianza, per motivi di salute. Dopo la campagna stampa, che ha parlato di un presunto allarme per “300 boss” fuori grazie al covid, rimandate in cella giusto il tempo di morire. Con buona pace dello stato di diritto… Lo ripeto sempre, il carcere è area di sospensione del diritto, e questo lo conferma ancora una volta. A proposito di pandemia, in molti si era sperato che, oltre le cose devastanti che ha prodotto, potesse aiutare ad aprire gli occhi, a cambiare qualcosa. Per quanto riguarda il carcere, logica avrebbe voluto che venissero presi provvedimenti non solo sanitari, per contenere la diffusione del virus all’interno degli istituti di pena, ma si pensasse anche a ridurre l’affollamento, limitare e contenere le carcerazioni “inutili”. Più del 30 per cento delle persone recluse, lo ricorda Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, ha da scontare pene inferiori ai tre anni, e quindi potrebbero accedere a misure alternative. Ma niente… E pensare che persino l’Iran, che non certo brilla in democrazia, allo scoppiare della pandemia ha subito adottato misure deflattive. Da noi nulla. E purtroppo l’informazione mainstream, soffiando sulle paure, non aiuta. Noi pensiamo sia cosa che non ci riguardi, e troviamo persino accettabile che ci sia questa sorta di secondo binario su cui viaggia la legislazione anche d’emergenza. Ma questa è cosa che corrode la democrazia. Credo inizieremmo a pensarci se notassimo, come il libro di Sandra Berardi spiega molto bene, che il linguaggio dell’emergenza rivolto a tutti noi fuori ha molte parole d’ordine in comune con il linguaggio carcerario, ed è cosa che non dovrebbe farci stare molto tranquilli. Insomma, un libro che fa ben aprire gli occhi. Fra l’altro liberamente scaricabile in rete dal sito di Strade Bianche di Stampa Alternativa. Perché, come da sempre, il suo fondatore, Marcello Baraghini, è determinato a fare dell’editoria un servizio fruibile per tutti, e non solo fonte di profitti. E ne siamo convinti anche noi. I segreti dei tatuaggi criminali: tigri, serpenti e lacrime tra i detenuti di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 14 novembre 2021 Mastronardi e Passaro hanno raccolto in un libro la ricerca su 80 uomini e donne reclusi a Regina Coeli e Rebibbia. “Oggi assistiamo alla sindrome dell’uomo illustrato”. Quante ne ha viste, nella sua carriera, il criminologo Vincenzo Mastronardi, “una volta - racconta - andai persino a fare un corso agli esorcisti”. Una vita, la sua, passata a studiare il male, spesso barcamenandosi tra grandi demoni e poveri diavoli. L’ultimo degli oltre trenta libri che ha scritto s’intitola I segreti dei tatuaggi criminali ed è il risultato di una ricerca partita nel 2013 quando era direttore del Master in Scienze Criminologiche all’università La Sapienza. Una ricerca sui tatuaggi di 80 detenuti, uomini e donne, reclusi a Regina Coeli e nella sezione femminile di Rebibbia, compiuta insieme a Giovanni Passaro, un ispettore di polizia penitenziaria con oltre 20 anni di duro servizio nelle carceri. “Era un mio vecchio pallino - dice Mastronardi - Già nel 1974, infatti, da universitario mi avventurai in una ricerca sui tatuaggi dei tossicodipendenti e notai subito la differenza a seconda che si facessero di droghe pesanti o leggere. Chi assumeva eroina o cocaina si tatuava addosso perlopiù coltelli, fucili, pistole. Chi fumava la marijuana, invece, sceglieva simboli eterei: uccellini, madonne…”. E oggi? “Oggi assistiamo alla sindrome dell’uomo illustrato - dice Mastronardi - In cella c’era uno tutto tatuato: un serpentello sul pene, una lettera alla madre sulla spalla sinistra, il volto della fidanzata su quella destra. In pratica, una psicobiografia incisa sulla pelle. Perché il tatuaggio è un mezzo di affermazione personologica e nel detenuto avvia un meccanismo di fuga intrapsichica, un’evasione all’interno di sé, per uscire dal rischio dell’autodisistima. È come se grazie al tatuaggio il detenuto dicesse: io non sono il numero della mia cella, io sono la tigre, il serpente che ho su di me. Non sono un corpo ma un uomo con la sua storia”. Ma la “sindrome dell’uomo illustrato”, chiediamo, si può ravvisare anche in chi non è recluso? “I tatuati alla Fedez, per capirci? - risponde il prof - Non conosco Fedez, di sicuro molti di loro hanno bisogno di fare di più per sentirsi normali”. Quelle di 50 anni fa, inoltre, erano scarificazioni piuttosto incerte, ottenute “col vecchio pennino a campanile”, ricorda il criminologo. “Oggi invece - interviene Giovanni Passaro - i detenuti smontano il lettore cd mp3 con cui in cella ascoltano le canzoni. Il motorino del lettore, alimentato con le batterie del telecomando tv, lo collegano poi col fil di ferro al tubicino trasparente di una penna Bic, riempito con l’inchiostro liquido dei pennarelli colorati che comprano allo spaccio. Infine, applicano al tubicino un ago preso dalle siringhe dell’infermeria e avviato il motorino comincia il lavoro. Poiché i tatuaggi in carcere sono vietati, di solito c’è un detenuto a fare da “palo” fuori (di giorno le celle restano aperte) e si alza al massimo il volume della tv per coprire il ronzio”. I tatuaggi in carcere sono vietati perché ci si può infettare, contrarre l’HIV o l’epatite. Ma come si vede, chi lo vuole lo ottiene, magari scambiandolo con due pacchetti di sigarette. La ricerca è stata svolta su un campione di 50 uomini e 30 donne, in prevalenza italiani e dell’est Europa. In copertina, campeggia un’enorme farfalla tatuata sul collo taurino di un detenuto: “Un segno di libertà - dice Passaro - Così come il serpente simboleggia l’odio o la vendetta. Le croci, le madonne, i volti di Cristo servono a confortare, ma c’è anche chi si sente Dio! Una lacrima vicino a un occhio vuol dire che si è commesso un omicidio, due lacrime due omicidi…”. I detenuti di maggior spessore criminale, invece, i tatuaggi li evitano: con le città piene di telecamere, l’icona di un coltello può farti arrestare. “Ma pure le donne - conclude Passaro - portano tatuaggi violenti: una quarantenne italiana, dentro per traffico di droga, sfoggiava all’altezza della coscia il disegno di un reggicalze con la pistola. È tipico poi tra le detenute immortalarsi sui polsi o sulle caviglie i nomi dei genitori, dei figli, del marito. Durante la pandemia, quando i colloqui erano sospesi, i tatuaggi mostrati durante le videochiamate volevano comunicare proprio questo: l’indistruttibilità del loro legame”. Referendum sull’eutanasia, ecco perché la Consulta non lo può bocciare di Massimo Donini Il Riformista, 14 novembre 2021 Il referendum sull’abrogazione dell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) sembra rispondere a un profondo bisogno di compassion, ma anche dei valori classici della pietas (una moralità interiorizzata in pratiche doverose). La malattia non deve essere vissuta come una perdita di dignità. Tuttavia la medicina presenta oggi potenzialità tecniche estreme nell’allungare artificialmente le vite in situazioni che possono risultare intollerabili, anche se alleviate da terapie del dolore, che riducono i corpi ad anime sospese. L’umanesimo che deve ispirare le nostre leggi, e in ogni caso il diritto che ricaviamo da esse o da norme superiori di rango costituzionale, ci ricordano che non è permesso costringere nessuno a forme di vita intollerabili per la persona. La vita artificiale medicalmente coatta non è conforme al modello di dignità costituzionale oggi accettabile. Con tutto quanto consegue sui “pesi insopportabili” che i dottori della legge non devono imporci (Luca, 11,46). Il discorso riguarda potenzialmente tutti, fuori da ideologie e parrocchie, per quanto siano una minoranza di scarso peso elettorale i malati che alla fine decidono di anticipare il congedo. Il tema dei loro diritti fondamentali, anche se sono “diritti infelici”, è ormai al centro del dibattito biogiuridico, e ha già costretto la Corte costituzionale, nella latitanza del Parlamento e della politica, a dichiarare la non punibilità dell’aiuto al suicidio in un numero circoscritto di patologie dove le persone, aiutate da trattamenti di sostegno vitale, nel caso di incoercibili sofferenze possono ottenere l’autorizzazione a morire per mano propria seguendo, in assenza di una legge ad hoc, le procedure della normativa sulle DAT (disposizioni anticipate di trattamento). Al centro di questa decisione (C. cost. n. 242/2019) c’è la non punibilità per chi aiuta, ma anche il diritto del malato: perché se il malato non avesse il diritto non solo al rifiuto delle terapie (da tempo riconosciuto pienamente dopo il caso Welby, addirittura senza dover giustificare il perché), comprese quelle palliative, ma anche a non subire dolori insopportabili dopo questo rifiuto, la decisione della Corte non avrebbe avuto una base normativa e morale. Essa è circoscritta alla situazione di malattie irreversibili accompagnate da gravi sofferenze ineliminabili col semplice rifiuto di terapie; ma ci sono casi nei quali anche l’aiuto al suicidio è impossibile, per l’incapacità del paziente di attuare la condotta esecutiva. Non resta allora che un aiuto attivo del terzo. Questo tipo di vicende ha ispirato la campagna referendaria dell’Associazione Coscioni che ha promosso l’abrogazione del reato di omicidio del consenziente, in assenza di qualsiasi decisione parlamentare di rivedere la disciplina del fine-vita dopo l’intervento estremo della Corte. Tuttavia questa lettura del referendum non sarebbe completa se ad essa non si aggiungesse una interpretazione molto più liberale-individualistica del quesito, che è altrettanto presente nella mente dei proponenti. L’idea è che l’abrogazione dell’art. 579 c.p. introduca il pieno diritto di disporre della propria vita al di fuori di ogni necessità di giustificare la scelta, purché si tratti di consenso valido (non estorto con inganno o errore, viziato da minore età o malattia mentale). L’invalidità del consenso implica già oggi, e così in futuro, la responsabilità per omicidio doloso (art. 575 c.p.). In caso di disponibilità della vita piena al di fuori di condizioni patologiche non sarebbe più necessario per il malato, o per chiunque, andare in una clinica svizzera - ciò oggi si deve fare se si intende ottenere anche solo ciò che la Corte ha stabilito con la sent. 242/2019, essendo quella disciplina del tutto inapplicata dalle Asl - anziché suicidarsi alle condizioni restrittive della Consulta: basterebbe ricorrere direttamente alla morte eseguita per mano altrui, che non ha bisogno di nessuna “spiega”. È vero allora che il referendum, così inteso, non si limiterebbe a eliminare una fattispecie per ottenere il riconoscimento di diritti oggi criminalizzati. Esso intenderebbe veramente cancellare del tutto l’omicidio del consenziente, senza condizioni. Ma se così è, se si accede a questa diversa lettura, il senso del “sì” cambia profondamente: l’elettore non sarebbe più chiamato a decidere soltanto dei diritti del malato in certe situazioni intollerabili, anche se da estendere in via legislativa. Infatti una abrogazione ‘incondizionata’ avrebbe alcuni effetti che non è chiaro se siano indesiderati per gli stessi proponenti. Cancellare l’omicidio di chi consente alla propria soppressione da parte di terzi, semplicemente perché la propria vita non ha più senso, significa legittimare anche le condotte che potrebbero risultare letali, benché non sia certo questo esito. Acconsentire a rischi gravi è meno che chiedere di morire. Dunque l’organizzazione di sport mortali con scommesse non più clandestine o l’assenso a rischi lavorativi intollerabili diventerebbero leciti? Sarebbe l’abrogazione, previo consenso, dei diritti di sicurezza del lavoro? la reintroduzione dei gladiatori al Colosseo? Certo i divieti di alcune di queste attività potrebbero restare, trattandosi di norme non abrogate e diverse dall’art. 579 c.p., e dunque non ci sarebbe una privazione di tutela di diritti costituzionalmente garantiti tale da vietare la celebrazione del referendum (cfr. C. cost. n. 35/1997). Ma forse non tutte quelle attività sono coperte da altre norme, o non a sufficienza. E comunque la contraddizione rimarrebbe: perché se posso chiedere di essere ucciso, senza neppure motivarlo (se non per opportunità probatorie), non dovrei poter disporre dei rischi per salute e vita, almeno dietro un compenso? È tutta una cultura liberale priva di protezioni (da taluno ritenute) “paternalistiche” che si farebbe strada accanto a, ma anche in dialettica con la banale pietas per il malato. Zarathustra che supera ogni morale vs. Enea che rispetta interiormente un canone etico condiviso. Scelte personali intangibili e non sindacate, al posto di doveri misericordiosi regolati. Un elemento che preserva l’ammissibilità del referendum da lacune di tutela o contraddizioni nella stessa intelligibilità del quesito (v. le condizioni stabilite dalla C. cost. n. 16/1978) è dato dalla oggettiva permanenza nel sistema dell’art. 580 c.p., che non è stato sottoposto a referendum. Tutta l’iniziativa referendaria incentra la sua promozione sui casi di fine-vita, anche se il quesito non poteva inserire il riferimento a tali condizioni nel testo oggetto del voto abrogativo. Il fatto che il referendum resti ancorato a queste ipotesi lo dimostra la sua mancata estensione all’aiuto al suicidio. Che senso ha mantenere un reato che continua a punire l’aiuto al suicidio, salve le limitate aperture della sentenza della Consulta, quando si pensa invece di “liberalizzare” addirittura il reato più grave dell’omicidio del consenziente? Sarebbe una eutanasia davvero contraddittoria. La mancata richiesta di referendum per l’art. 580 c.p. rafforza la leggibilità e la comprensibilità del quesito sull’art. 579 c.p., il quale completa la tutela apprestata dalla prima fattispecie per come rivista dalla Corte. Il voto resta legato a ipotesi di diritti la cui disciplina dovrà necessariamente essere coordinata con quella dell’art. 580 c.p.: un “modello” che non prevede la piena liberalizzazione del suicidio assistito. E dunque si imporrà con una riscrittura dell’art. 580, oggi troppo limitato dal requisito indeterminato dei “trattamenti di sostegno vitale” introdotti dalla Corte, anche, nello stesso tempo, quella dell’art. 579 c.p. Non proporre il referendum per l’art. 580 c.p. significa oggettivamente aprire un varco verso una disciplina comune legata al fine-vita o ad analoghe situazioni, sia per il 579 e sia per il 580, perché questo è il vero tema: riconoscere e normare i diritti, non abolire semplicemente i divieti. La proposta referendaria è dunque “coerente” al sistema attuale se viene letta come input verso una diversa disciplina non di diritti individuali di pretendere un aiuto per uccidersi o farsi uccidere immotivatamente: proprio la conservazione dell’art. 580 delimita il campo successivo al “sì” referendario, e anche in una prospettiva di allargamento delle condizioni di aiuto a morire traccia un recinto di solidarietà, anziché di pura separazione della persona. La democrazia penale, del resto, non si realizza mai con un sì o un no. Questa vicenda già ce ne offre una lezione piuttosto evidente. Io mi auguro che le sottigliezze dei giuristi non si rivelino sopraffattrici del buon senso e della giustizia sostanziale. È una battaglia per i diritti civili non rinviabile, che i partiti hanno dimostrato di subordinare a troppe valutazioni estranee, le stesse che appesantiscono quotidianamente la loro azione e distanziano il consociato da una partecipazione attiva alla polis. Il referendum è la dimostrazione che la partitocrazia può essere un ostacolo, anziché uno strumento democratico per il riconoscimento dei diritti. Valga questa consapevolezza a essere un monito per la Consulta: il referendum è oggi ammissibile (nella lettura proposta) anche se la disciplina che ne risulta non è compiutamente autoapplicativa, tanto più se in vista di un necessario intervento parlamentare sollecitato da tre anni proprio dalla Corte costituzionale. Perché il quesito referendario sull’omicidio del consenziente non è ammissibile di Francesco Paolo Garzone e Iacopo Iacobellis L’Opinione, 14 novembre 2021 Dopo la verifica formale da parte dell’Ufficio per i referendum della Corte di Cassazione, la Corte costituzionale è chiamata a valutare i profili di ammissibilità di un quesito impropriamente denominato “eutanasia legale”, ma che in realtà prescinde da qualsiasi requisito di salute della persona, e punta a rendere la vita un bene assolutamente disponibile, subordinato soltanto alla espressione del consenso da parte della vittima. Gli avvocati Francesco Paolo Garzone e Iacopo Iacobellis illustrano le ragioni di non ammissibilità del quesito, riprendendo il testo della relazione da loro svolta al convegno “Eutanasia legale. Le ragioni del sì e del no a confronto”, tenuto a Palagianello (Taranto) al Teknè-Centro di esperienza socio-culturale il 16 settembre 2021. Il fine vita evoca il contrasto tra la libera sovranità individuale sul corpo e i limiti che il potere statuale può, invece, imporre sul governo di quest’ultimo. La riflessione giuridica, che rimanda ancor prima a questioni di carattere etico, religioso, filosofico ed antropologico, si incentra sul valore dell’esistenza umana e sulla possibilità di ammettere che ciascuna persona si determini secondo la propria identità anche nella fase finale della vita, senza imporle di “esistere” contro le proprie convinzioni individuali.? La proposta di referendum sull’eutanasia legale è una certezza: il Comitato referendario ha annunciato di aver raccolto più di un milione di firme, ben oltre le 500mila richieste dalla Carta costituzionale. Affinché, tuttavia, il popolo italiano sia chiamato a decidere se introdurre nel nostro ordinamento giuridico l’istituto dell’eutanasia legale, saranno necessarie due condizioni: il vaglio di ammissibilità del quesito da parte della Corte costituzionale (che, si badi bene, “non può estendersi alla valutazione preventiva della legittimità costituzionale della normativa conformata dall’eventuale accoglimento del quesito”, sentenza numero 17/2016) e che il Parlamento non decida medio tempore di legiferare in materia. Senza dubbio l’inerzia del Legislatore è censurabile, avendo avuto tutto il tempo per poter discutere e approvare una Legge che tenesse conto delle diverse e sensibili istanze provenienti dalla società. In ciò si sostanzia il primo dubbio di inammissibilità del quesito referendario. Il tema dell’eutanasia, infatti, per la sua delicatezza e complessità, non pare poter essere compendiato in una mera domanda da sottoporre al cittadino elettore nella segretezza della cabina elettorale (Sì o No). La tecnica del referendum impedisce la possibilità per i votanti di esprimere posizioni diverse su un tema complicato, che attiene a situazioni che, per la loro complessità medica, etica, religiosa, non possono trovare un compendio frettoloso in una fredda domanda individuata nella scheda. Esclude, in altri termini, possibili soluzioni intermedie. L’impossibilità di una mediazione comporta l’effetto di un “gioco a somma zero”. Rispetto alla proposta formulata sono possibili solo due esiti: la totalizzazione del massimo risultato ottenibile o una perdita secca. Un’ulteriore perplessità attiene agli esiti giuridici della proposta consultazione. Con il quesito referendario attualmente al vaglio della Suprema Corte si chiede, infatti, di abrogare parzialmente l’articolo 579 del Codice penale, sì da escludere dalla norma incriminatrice la condotta di “chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui”, fatta eccezione “se il fatto è commesso: 1) Contro una persona minore degli anni diciotto; 2) Contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) Contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”. L’accoglimento di tale quesito referendario, sì come formulato, determinerebbe una “lacuna” normativa, uno spazio vuoto che l’interprete potrebbe essere autorizzato a colmare in una duplice - e opposta - maniera (ciò che incide sul giudizio di ammissibilità del quesito, che per la giurisprudenza costituzionale deve essere rispettoso del criterio di chiarezza; confronta Corte costituzionale, 16/1978). Il primo possibile esito interpretativo del testo dell’articolo 579 del Codice penale che residuerebbe dall’effetto abrogativo parziale si porrebbe in antitesi rispetto alle finalità perseguite dal comitato referendario. La vittoria dei “Sì”, in altri termini, comporterebbe l’abrogazione di una fattispecie di omicidio volontario pacificamente ritenuta speciale rispetto alla fattispecie generale di cui all’articolo 575 del Codice penale. In tali casi, per consolidato orientamento giurisprudenziale in applicazione dell’articolo 2 del Codice penale (confronta, ex multis, Cassazione, Sezioni Unite numero 24468/2009), l’abrogazione della fattispecie speciale non realizza una abolitio criminis ma una successione di leggi penali nel tempo, con conseguente ri-espansione della fattispecie generale. Sicché, il primo - possibile e paradossale - effetto interpretativo dell’accoglimento del quesito referendario, lungi dallo scriminare la condotta di omicidio del consenziente, determinerebbe addirittura un’eterogenesi dei fini: la medesima condotta, piuttosto che soggiacere alla più blanda sanzione oggi prevista dall’articolo 579 del Codice penale, verrebbe assoggettata alla più severa pena prevista per l’omicidio volontario dall’articolo 575 del Codice penale. Il secondo - anch’esso astrattamente possibile - esito interpretativo dell’articolo 579 del Codice penale residuale all’accoglimento del quesito referendario consisterebbe invece nell’escludere la punibilità di qualsiasi omicidio del consenziente, al di fuori delle tre ipotesi di minore età, infermità di mente o di vizi del consenso espressamente escluse dal quesito. Finora la funzione sistematica dell’articolo 579 del Codice penale è stata quella di sancire che il diritto alla vita non rientra nel novero dei diritti disponibili da parte del titolare; inoltre, quella di stabilire un trattamento punitivo “privilegiato”, rispetto a quello comune, desumibile dall’articolo 575 del Codice penale, riconoscendo un minore grado di antigiuridicità alla condotta omicida tenuta nei confronti del consenziente. Eliminando le parole che la proposta di referendum si propone di abrogare, invece, l’articolo 579 del Codice penale ruoterebbe agli antipodi e si ritroverebbe a sancire il principio di disponibilità del diritto alla vita. L’asse teleologico dell’articolo 579 del Codice penale, cioè la finalità politico criminale ch’esso è destinato a realizzare, risulterebbe così letteralmente rovesciato: da norma-baluardo dell’indisponibilità del diritto alla vita a norma-riconoscimento della sua disponibilità. Tale esito, perseguito dai referendari, non sarebbe esente da censure di irragionevolezza. La soluzione ermeneutica, infatti, introdurrebbe un’insostenibile disparità di trattamento fra l’omicidio del consenziente, penalmente irrilevante, e l’agevolazione del suicidio che, sebbene espressiva di minore disvalore rispetto alla prima condotta, con la nota sentenza 242/2019, preceduta dall’ordinanza di rinvio-monito 207/2018, la Corte costituzionale ha ritenuto non punibile esclusivamente nei casi in cui l’aspirante suicida si identifichi in una persona “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Le condizioni imposte dalla Corte costituzionale per escludere l’illiceità dell’agevolazione al suicidio, in altri termini, non varrebbero per limitare il perimetro di penale irrilevanza dell’omicidio del consenziente; con la paradossale conseguenza che la condotta di chi uccidesse, con il consenso di questa, altra persona non affetta da patologia irreversibile non sarebbe punibile; mentre invece lo sarebbe la condotta di chi si “limitasse” ad agevolare il suicidio della stessa persona (sic!). Queste ultime irragionevoli conseguenze sarebbero evitabili soltanto nel caso in cui, post referendum, il Legislatore intervenisse per estendere all’omicidio del consenziente le medesime condizioni già imposte dalla Corte costituzionale per escludere la punibilità dell’agevolazione al suicidio. Si tratta, invero, di condizioni che, se valgono per l’aiuto al suicidio, a maggior ragione dovrebbero valere per la più grave condotta di omicidio del consenziente: in quest’ultimo caso, infatti, il soggetto attivo del reato non partecipa semplicemente al fatto del suicidio commesso dalla vittima ma diventa dominus di una morte altrui. Anche siffatta soluzione, tuttavia, non sarebbe esente da dubbi di legittimità costituzionale: l’eliminazione della sanzione criminale di fatti causativi della morte del malato irreversibile e gravemente sofferente che chiede di essere ucciso “non potrebbe non suonare alle orecchie di tutti e di ciascuno, del malato innanzitutto, come un giudizio per cui la vita del malato in tali condizioni vale meno di quella del sano”; ovvero, una selezione quoad mortem fra vite degne di essere vissute e non, in palese violazione del più elementare principio di eguaglianza. Non può sfuggire, a tale riguardo, la considerazione che la giurisprudenza costituzionale vieta una abrogazione totale (confronta sentenza numero 49/2000, referendum sulle norme a tutela del lavoro a domicilio; numero 45/2005, referendum sulla legge in tema di procreazione medicalmente assistita) ovvero parziale che intacchi il livello minimo di tutela del diritto costituzionalmente garantito dalla norma (confronta sentenza numero 26/1981 e numero 35/1997, entrambe riguardanti referendum in tema di interruzione volontaria della gravidanza). Altra perplessità attiene, infine, alla “tecnica” impiegata per la formulazione del quesito referendario. Entra qui in gioco un criterio di ammissibilità di origine pretoria, introdotto nella sentenza numero 36/1997 (referendum in tema di raccolta pubblicitaria radiotelevisiva) e poi impiegato per la valutazione di molteplici altri quesiti referendari (confronta sentenza numero 38/2000 sulla responsabilità civile dei magistrati, numero 50/2000 sui termini massimi di custodia cautelare, numero 43/2003 sugli inceneritori di rifiuti speciali, numero 46/2003 in materia di sicurezza alimentare, numero 13/2012 sulla legge elettorale di Camera e Senato, numero 5/2015 in materia di organizzazione uffici giudiziari, numero 26/2017 sui licenziamenti individuali). Tale criterio esclude l’ammissibilità di un quesito referendario che adoperi il testo oggetto di abrogazione come un serbatoio lessicale dal quale estrarre eterogenei frammenti sintattici ricomposti in modo giuridicamente significativo, così da produrre una costruzione artificiosa, un’innovazione “assolutamente diversa” e “del tutto estranea al contesto normativo” originario. Il quesito referendario di cui trattasi non sembra esente da tale inconveniente. L’articolo 2 della Costituzione, infatti, nel riconoscere i diritti inviolabili della persona umana, presuppone la vita (recte, una vita dignitosa) di quest’ultima come valore - anche giuridico - sovraordinato rispetto ad ogni altro diritto. L’articolo 3 della Carta, inoltre, nel tutelare e promuovere l’uguaglianza sia in senso formale che in una dimensione sostanziale (come dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di natura economica e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese), consente ed incentiva l’evoluzione storica dallo Stato liberale (ove la tutela era riferita esclusivamente ai cosiddetti diritti di libertà) allo Stato democratico (ove invece lo Stato è chiamato ad intervenire nella vita dei cittadini, anche limitandone la libertà e l’autonomia, in vista della tutela dei cosiddetti diritti sociali: alla salute, all’istruzione scolastica, all’ambiente). L’articolo 32 della Costituzione, infine, tutela la salute non soltanto come diritto “fondamentale” (l’unica volta in cui il Costituente usa questa qualificazione) dell’individuo ma anche come interesse della collettività. Si tratta di una cornice che rende ancora corretta ed attuale la costruzione giuridica del diritto alla vita come diritto indisponibile ed irrinunciabile. L’ordinamento, d’altronde, conosce già diritti indisponibili, irrinunciabili, inalienabili; diritti rispetto ai quali la libertà personale di autodeterminazione è destinata a recedere; ad esempio, il diritto di difesa, che è inviolabile ai sensi dell’articolo 24, comma 2, della Costituzione, ergo irrinunciabile. Orbene: se il diritto di difesa dell’imputato nel processo penale è (giustamente!) indisponibile, inviolabile, irrinunciabile (l’imputato non può rinunciare alla difesa tecnica da parte di un difensore, neanche ove lo volesse), perché mai dovrebbe ritenersi inconcepibile un diritto alla vita che anch’esso sia tale, e dunque prevalente sulla libertà personale di autodeterminarsi alla morte? Forse nella scala di valori il diritto alla difesa vale più del diritto alla vita? Gli orizzonti di questo dibattito sono molto vasti. Ogni norma, invero, non vive come una monade, in una sfera assolutamente impermeabile al contatto con le altre regole che presiedono alla vita civile dei consociati. Sicché, se si aprisse definitivamente alla disponibilità del diritto alla vita le conseguenze sarebbero tante e, forse, imprevedibili: inattuale e superata diventerebbe, ad esempio, la disposizione dell’articolo del Codice civile, che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo dove tali da determinare una permanente diminuzione dell’integrità psico-fisica. Id est, proprio quello stravolgimento giuridico, “del tutto estraneo al contesto normativo”, censurato dalla giurisprudenza costituzionale. *Centro studi Rosario Livatino Il dopo Zan è un vento che cresce: nuovi ddl, referendum e un nome per il Colle di Simone Alliva L’Espresso, 14 novembre 2021 Dopo la bocciatura del disegno di legge contro l’omotransfobia le piazze si sono riempite in nome dei diritti di tutti. Mentre la politica osserva, il Movimento Lgbt è pronto a un’altra battaglia. E punta su uno scranno più alto. “Nessuno ci regalerà niente, bisogna pretendere e farlo adesso”, gli attivisti Lgbt lo ripetono in chat, video conferenze, telefonate, nelle sedi delle associazioni. Il post-Zan è già arrivato. Ha invaso le piazze italiane per giorni dopo la sua bocciatura. Più di 50 sit-in organizzati in pochissime ore e uno slogan comune: “Molto più di Zan”. Dopo venticinque anni di fallimenti la comunità arcobaleno è stanca ma non è più sola. Tra le migliaia di persone ci sono ragazzi e ragazze, studenti, lavoratori, migranti, persone con disabilità, femministe. La battaglia per i diritti di tutti può chiamare a raccolta forze imprevedibili. Così più che una battuta d’arresto lo stop alla legge contro l’omotransfobia, la misoginia e l’abilismo ha segnato l’inizio di un nuovo corso. Venerdì il movimento Lgbt italiano si riunirà, come fa da mesi ogni settimana, sulla piattaforma Zoom: “Cerchiamo di capire dove possiamo andare”, dice Rosario Coco, segretario di GayNet, l’associazione fondata da Franco Grillini. Al vaglio c’è una proposta di legge iniziativa popolare, il successo delle firme sul fine vita e sulla cannabis hanno dimostra che dal basso si può raccogliere un milione di firme facendo clic da casa. Si potrebbe puntare anche su altro. Molto più di Zan, appunto. Una legge sul matrimonio egualitario, contro le terapie di conversione dell’omosessualità ancora presenti in Italia, proposte di riforma per le adozioni e per la legge 164 del 1982, cioè sul cambio di sesso: “Stiamo ragionando su iniziative che possano avere una caduta parlamentare” dice Coco, “non è auspicabile rinunciare del tutto alla battaglia in Aula in questo momento. I contenuti sono tanti. Riflettiamo sull’agenda a 360°. Lo scopo è stimolare tutta l’area progressista della politica per un’attenzione più inclusiva”. È un gran lavorio di fondo che tiene dentro chiunque: “Il futuro dei diritti è già qui, solo che è mal distribuito” spiega Alessia Crocini, presidente di Famiglie Arcobaleno: “La voglia di rilanciare è forte. Lo avevamo sempre detto che avremmo continuato a chiedere ciò che ci spetta. Per noi è vitale discutere di una legge sul riconoscimento dei nostri figli. Basterebbe dare piena uguaglianza a temi che sono di fatto diritti ad appannaggio delle persone etero: matrimonio, riconoscimento di figli alla nascita, l’adozione e per le donne single e in coppia lesbica l’accesso alla PMA. Quattro cose che mia sorella e mio fratello possono fare, io no”. E così in una sinergia che coinvolge altre associazioni, come Avvocatura per i diritti Lgbti - Rete Lenford, si scrivono proposte di legge e referendum. Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay ha ben chiaro il momento storico: “Ci troviamo di fronte a una nuova fase politica per questa legislatura e non ci facciamo illusioni sul presente ma ci poniamo il problema del futuro. Riprendiamo il filo del discorso di tutte le istanze legislative da porre ai partiti. La fine del ddl Zan ha portato a un’unità di intenti per tutte le associazioni”. Piazzoni sulle proposte buttate in campo dal centro-destra è chiaro: “Chi oggi parla di una legge contro l’omotransfobia dopo averla affossata fa una boutade. Anche riproporre la legge Scalfarotto ha poco senso, è già stata bocciata nel 2013 perché dovrebbe avere un finale diverso? Noi chiediamo di più”. La politica resta in ascolto e si muove osservando le piazze e le dichiarazioni di chi le agita. Decretata la fine del ddl Zan era stato Franco Grillini, ex deputato e presidente onorario di Arcigay a rilanciare: “immediatamente un testo brevissimo (uno, massimo due articoli) che estende seccamente la Mancino per ragioni di orientamento sessuale e identità di genere”. Matteo Renzi non ha perso tempo, raccontano, una lunga telefonata tra lui e Grillini dai toni cortesi ma senza lieto fine: “Appoggio la tua proposta ma presentiamo la legge Scalfarotto. Cioè via identità di genere e mettiamo omofobia e transfobia”. Niente di fatto. “Sono termini incostituzionali ma Renzi non ne vuole sentire”. Tra Italia Viva e il movimento Lgbt la distanza è siderale. Va da sé che il Palermo Pride, uno degli eventi più importanti per la comunità arcobaleno, ha deciso organizzare una vera contestazione nei confronti del sottosegretario Ivan Scalfarotto, presente a Palermo per la presentazione di un libro. Dal centro-destra resta sul tavolo la proposta di legge presentata insieme a Matteo Salvini, dalla vicepresidente del gruppo Forza Italia al Senato, Licia Ronzulli: “Se davvero si vuole punire la discriminazione e la violenza e non semplicemente piantare una bandierina” dice Ronzulli “si può partire da questo ddl”. Non usa mezzi termini per commentare il deputato del Pd Alessandro Zan: “Quel disegno di legge è pericoloso perché è un attacco alla legge Mancino, vorrebbero trasformare gli aggravanti per crimini d’odio razziale e religioso in futili motivi. Ci farebbe fare passi indietro sul contrasto al razzismo, all’antisemitismo e all’odio religioso. La verità? Vogliono utilizzare l’omotransfobia per dare un colpo mortale alla legge Mancino”. Dentro il Partito Democratico la sintonia con l’associazionismo Lgbt resta: “Il Pd ha dato prova di lealtà al Movimento” spiega Monica Cirinnà, senatrice e responsabile del dipartimento diritti del Partito Democratico: “Chiedeva nessuna modifica e noi non abbiamo ceduto sulla cosa più importante: l’identità di genere. Perché nessuno deve essere lasciato indietro”. Sul futuro il Pd ha già le carte in mano: “Abbiamo delle proposte già depositate sul matrimonio egualitario (a firma della stessa senatrice n.d.r), altre sull’omotransfobia che non sono state accorpate, la questione sul cognome del madre. Il dipartimento diritti ha un tavolo con la comunità Lgbt e una chat. Sappiamo che il movimento trans scenderà in piazza il 20 e chiede a pieno titolo visibilità dopo questi mesi in cui è stata a lungo ostracizzata. Noi abbiamo dimostrato di essere leali non cedendo sull’identità di genere cioè quello che volevano Renzi e Salvini. Perché voglio ricordare che se non nomini identità di genere non metti tutte le soggettività al loro interno. Chiedo a Renzi come protegge le persone in transizione? È fuffa. Il Ronzulli-Salvini? Aria fritta”. Per il M5s che negli ultimi mesi si è avvicinato alla comunità Lgbt grazie al lavorio della senatrice Alessandra Maiorino le proposte che saranno avanzate sono “una dichiarazione di intenti. Abbiamo capito che con questo Parlamento sarà difficile approvarle ma è un segnale che vogliamo dare al Paese” dichiara Maiorino: “L’Italia ha perso un’occasione. C’è un problema di ordine europeo se pensiamo che la Commissione Ue per i temi dell’uguaglianza sta lavorando a una proposta per estendere l’elenco dei reati europei per includere tutte le forme di reato d’odio e incitamento all’odio. Certamente riproporremo questa legge” insiste con una specifica che sembra una stoccata a Italia Viva: “procedere sul 604bis, l’articolo del codice penale è inevitabile ma servono anche i percorsi di educazione al rispetto, serve un approccio culturale, il penale non basta”. Sulle richieste del movimento non ha dubbi: “Sono scesa nelle piazze della comunità, chiedono molto più di Zan e hanno ragione. Nella nostra carta dei valori è stato inserito il rispetto dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale, chiederò che venga inserito nel nostro programma il matrimonio egualitario perché il nostro paese prevede istituti di serie A e B e posso annunciare che presenterò una proposta di matrimonio egualitario”. Il dopo-Zan è un vento che cresce, le piazze continueranno a riempirsi con appuntamenti previsti anche nelle prossime settimane e intanto i Palazzi osservano, misurano la distanza fisica, emotiva e ideale fra gli eletti e i possibili elettori. Il Movimento Lgbt però è pronto a un’altra battaglia che scavalca quella delle leggi per i diritti che mancano e punta su uno scranno più alto. L’idea è quella di una raccolta firme per proporre un personaggio di peso e dichiaratamente gay al Quirinale. Possibilità di successo: scarse. Ma nella mobilitazione che si gonfia ogni giorno anche solo la sua nomina rappresenta un simbolo dei tempi che cambiano, racconta una storia che basta alzare gli occhi per capirla. La prova di forza di un grande movimento politico e di opinione che dopo cinquant’anni ha ancora la capacità di riempire le piazze, aprire dibattiti e porre problemi impossibili da ignorare. Migranti. Il bluff del governo sull’Italia “abbandonata” dagli altri Paesi europei di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 novembre 2021 I numeri dei movimenti secondari e il confronto tra le richieste d’asilo nei paesi Ue smentiscono Draghi e Lamorgese. Miraglia (Arci): “Anche Draghi ricorre al vittimismo tipico della cultura politica italiana”. Ci sono delle rappresentazioni ricorrenti intorno ai fenomeni migratori che a furia di essere ripetute rischiano di sembrare vere. Una di queste vuole che l’Italia sia stata abbandonata dagli altri paesi membri e debba sopportare il peso maggiore degli arrivi via mare. “È certo che questi sbarchi continui rendono la situazione insostenibile, l’Ue deve trovare un accordo per ri… su questo fronte”, ha detto venerdì sera il primo ministro Mario Draghi, a margine della conferenza parigina sulla Libia. L’esitazione sulla parola interrotta lascia in dubbio se il premier si riferisse a ridistribuire gli arrivi, come induce a pensare il prefisso sfuggito, o a un maggiore impegno al di là del mare per fermare le partenze, come farebbero credere le parole sull’urgenza di spendere più denaro in Libia. In ogni caso che il governo sia ossessionato dalla ridistribuzione dei migranti approdati sulle coste non è un segreto. Né una particolarità di questo esecutivo. Il mantra viene ripetuto da primi ministri e titolari del Viminale da almeno 10 anni. Non fa eccezione la ministra Luciana Lamorgese che la settimana scorsa è tornata a invocare un maggiore coinvolgimento europeo. Lamorgese nel settembre 2019 aveva siglato un accordo a La Valletta per istituire un meccanismo volontario di distribuzione dei naufraghi soccorsi nel Mediterraneo, trasferendone una parte da Italia e Malta verso Francia e Germania, e gli altri paesi che si sarebbero aggiunti. I timidi risultati iniziali sono stati quasi azzerati dall’arrivo del Covid-19. Ieri Alessandra Ziniti ha rivelato su La Repubblica che nel 2021 solo 97 migranti sono stati trasferiti in Europa. L’idea del “tradimento” è stata rilanciata da Matteo Salvini, che ama puntare il dito contro Berlino ma dimentica come i principali ostacoli alla condivisione vengano da Visegrád. Comunque, alcuni dati sono sistematicamente taciuti quando Roma torna sul tema. Il ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) Matteo Villa, tra i principali esperti italiani nel maneggiare i numeri relativi ai flussi migratori, calcola che dal 2011 almeno 397mila migranti sbarcati in Italia siano andati, autonomamente, in altri paesi membri. Delle 867mila persone giunte dal mare, 280mila non hanno chiesto asilo e altre 375mila hanno ricevuto un diniego. Tolti i circa 38mila rimpatri riconducibili per via delle nazionalità ad arrivi dal Mediterraneo, gli irregolari sarebbero dovuti aumentare di almeno 617mila unità (numero al ribasso perché non conta chi è finito in clandestinità arrivando via terra o in aereo). Le stime della Fondazione Ismu, però, sostengono che le persone senza documenti sono 74mila in più. Senza le regolarizzazioni intercorse nel frattempo, calcola Villa, sarebbero cresciute di 220mila. Almeno 397mila migranti, quindi, sono andati altrove. 250mila li hanno rintracciati altri paesi europei, tra cui Germania (32%), Francia (25%) e Svizzera (16%). In virtù del regolamento Dublino sarebbero dovuti tornare in Italia, ma è successo solo in 31mila casi. È anche per questi numeri che nel Consiglio europeo del 22 ottobre scorso Austria, Olanda, Danimarca, Finlandia e Svezia hanno accusato l’Italia di fare poco per ridurre i movimenti secondari, cioè quelli tra paesi Ue. A parlare chiaro sono anche le richieste d’asilo nel 2021. Gli ultimi dati Eurostat disponibili dicono che al 31 agosto erano 82.935 in Germania, 60.415 in Francia e 33.335 in Spagna. In Italia 22.245, poco più delle 17.360 dell’Austria. “Non c’è ragione per cui gli altri paesi dovrebbero aiutarci. Dovremmo essere noi ad aiutare loro. Anche Draghi ricorre al vittimismo tipico della cultura politica italiana”, ha commentato Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci. Cosa è rimasto dell’Isis? Genesi e sviluppo del gruppo terroristico di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 14 novembre 2021 A sei anni di distanza dagli attacchi di Parigi in cui morirono 130 persone la lista dei vertici dello stato islamico è sempre più corta. Dopo l’uccisione di Abu Bakr al Baghdadi e l’attacco della coalizione a guida Usa all’Isis non è rimasto un lembo di terra utile. Ma come ha detto in un comunicato stampa il Segretario di stato americano, Antony Blinken, “la missione è ancora lontana dall’essere compiuta”. Senza un territorio in cui operare i miliziani si sono nascosti nuovamente tra la popolazione e in alcune aree marginali continuano ad attaccare le piccole comunità. Si è tornati alla strategia usata prima del 2014, anno in cui il gruppo ha avuto una drammatica espansione conquistando le più importanti città irachene e siriane prima della proclamazione del califfato. Tuttavia, ciò che preoccupa i servizi d’intelligence internazionali è il nuovo fronte dell’Isis che si è spostato verso l’Asia, in Afghanistan, dove è attivo l’Isis Khorasan. “La morte di un leader non equivale alla morte del jihad” scriveva un utente online come reazione all’uccisione di Abu Musab al-Zarqawi, meglio noto come “il macellaio di Baghdad” e capo di al Qaeda in Iraq. Morto un leader se ne fa un altro e la storia di successione di al Qaeda e dell’Isis lo dimostra. C’è sempre stato un erede pronto a subentrare dopo i vari raid americani. Tuttavia, a sei anni di distanza dagli attacchi di Parigi in cui morirono 130 persone la lista dei vertici dello stato islamico è sempre più corta. Dopo l’uccisione di Abu Bakr al Baghdadi e l’attacco della coalizione a guida Usa all’Isis non è rimasto un lembo di terra utile. Ma come ha detto in un comunicato stampa il Segretario di stato americano, Antony Blinken, “la missione è ancora lontana dall’essere compiuta”. L’Isis oggi - “Lo Stato islamico in Siria è stato sconfitto al 100 per cento” scrisse l’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sul suo profilo Twitter il 23 marzo del 2019 dopo la liberazione di Baghuz, l’ultima roccaforte siriana in mano ai combattetti. Senza un territorio in cui operare i miliziani si sono nascosti nuovamente tra la popolazione e in alcune aree marginali continuano ad attaccare le piccole comunità. Si è tornati alla strategia usata prima del 2014, anno in cui il gruppo ha avuto una drammatica espansione conquistando le più importanti città irachene e siriane prima della proclamazione del califfato. Il successore di al Baghdadi, Ibrahim al Hashemi al Qurayshi oggi gode comunque di una rete di gruppi alleati in Russia, Libia, Egitto, Yemen, Nigeria (Boko Haram), Mozambico e Filippine. Tuttavia, ciò che preoccupa i servizi d’intelligence internazionali è il nuovo fronte dell’Isis che si è spostato verso l’Asia, in Afghanistan. Qui l’Isis Khorasan si è reso protagonista dell’attentato avvenuto a fine agosto all’aeroporto di Kabul in cui morirono 90 persone tra cui 12 soldati americani. “Noi non vi perdoneremo, non dimenticheremo. Vi daremo la caccia e vi faremo pagare per ciò che avete fatto”, disse Joe Biden onorando i caduti. Ma qual è la loro reale minaccia? Secondo il vicesegretario della Difesa americana, Colin Kahl, il gruppo potrebbe essere pronto a colpire anche obiettivi internazionali “in qualunque momento tra sei o dodici mesi”. La capacità di compiere attacchi per mano di Isis-k è cresciuta esponenzialmente, nei primi 4 mesi del 2021 sono stati rivendicati 77 attentati, eseguiti da combattenti provenienti non soltanto dall’Afghanistan ma anche dai paesi vicini come il Pakistan, il Tagikistan e l’Uzbekistan, sempre più a rischio radicalizzazione. E ora il Pentagono punta sui Talebani, acerrimi nemici di Isis-k che a sua volta li considera troppo moderati e vicini agli Usa, per sconfiggere la ramificazione afghana del terrore islamista. Il califfato virtuale - Ma se a livello territoriale il califfato islamico non esiste più, non si può dire della sua presenza online. C’è un califfato virtuale vivo e forte. In rete la propaganda dell’Isis si nutre di ricordi dei grandi “successi” degli anni passati e cresce cercando nuove reclute in grado di commettere attentati terroristici in giro per il mondo. Le parole del capo al Qurayshi viaggiano online e arrivano in stati lontani dal Medioriente dove nascono cellule o gruppi che rivendicano un’affiliazione all’Isis con l’obiettivo di attaccare la popolazione civile anche grazie al supporto di una rete di finanziamenti occulti che gli permette di acquistare armi ed esplosivi. Attraverso applicazioni criptate, linguaggi in codice, e la diffusione di video, riviste e prodotti editoriali pubblicati online la propaganda dell’Isis è arrivata fino in Europa e negli Stati Uniti. In totale sono stati circa 40mila i Foreign fighters andati a combattere in Siria, un dato emblematico della pervasività del fenomeno e del rischio di radicalizzazione, tutt’ora alto, all’interno della popolazione più emarginata nelle società occidentali. Quando nasce l’Isis? - L’Isis non è altro che l’ultima espressione violenta di un fenomeno complesso, articolato e strettamente connesso con lo sviluppo delle società moderne e occidentali. L’organizzazione nasce con la morte di al Zarqawi il 7 giungo del 2006 quando il potere passa nelle mani di Abu Ayub al Masri, il quale ha riunito in Iraq più gruppi terroristici sotto un’unica bandiera. Dopo quattro anni un raid americano uccide al Masri e altri vertici dell’organizzazione ed è da questo momento che inizia l’ascesa politica di Abu Bakr al Baghdadi. Sarà lui a espandere il potere economico e territoriale dell’organizzazione terroristica con l’offensiva in Iraq e in Siria, e a proclamare il califfato islamico nel giugno del 2014. Chi è al Baghdadi? - Abu Bakr al Baghdadi nasce nel 1971 in una città sulla riva est del Tigri, a cento chilometri da Baghdad. La sua formazione professionale raggiunge la maturità nei primi anni 2000 quando, poco più che trentenne, ottiene una laurea in studi islamici. Grazie alle sue conoscenze coraniche diventa uno degli uomini spirituali più importanti del gruppo terroristico Jamaat Jaysh Ahl al-Sunnah wa-l-Jamaah. Nel 2004 viene catturato dai soldati americani a Falluja e detenuto a Camp Bucca, una delle prigioni americane a cielo aperto più grandi presenti in Iraq. È qui che si formano parte dei futuri miliziani dell’Isis. A Camp Bucca al Baghdadi entra in contatto con diversi membri di al Qaeda. È uno dei personaggi più rispettati tra le tende del campo di prigionia e con il passare degli anni, sotto il naso dei soldati americani, getta le basi del suo piano politico. Dopo dieci mesi al Baghdadi torna libero. Continua a dedicarsi all’indottrinamento e i suoi studi lo collocano nei vertici delle figure spirituali dell’Isis iracheno nato nel 2006. Ma il passo decisivo lo compie nel 2010, quando diventa il leader dell’organizzazione. L’offensiva in Siria e Iraq - Nel 2011 l’onda delle primavere arabe ha portato instabilità in tutto il Medio Oriente e in particolare in Siria dove il paese sprofonda in un conflitto civile sanguinario. La crisi umanitaria, l’avanzata dei ribelli e la guerra indeboliscono lo stato di Bashar al Assad e l’Isis dal vicino Iraq ne approfitta della situazione. Nel biennio 2012-2013 il gruppo terroristico è in espansione. Al Baghdadi riesce a reclutare centinaia di nuovi miliziani inglobando anche altri gruppi terroristici. In Iraq il gruppo ha seguito una strategia binaria caratterizzata da attacchi bomba contro la popolazione da una parte e operazioni paramilitari contro l’esercito iracheno dall’altra. Nel 2014 al Qaeda decide di ritirare il suo appoggio ma la macchina del terrore è oramai in moto grazie alle dozzine di migliaia di miliziani arrivati da tutta la regione. Inizia la guerriglia. Dopo aver conquistato Falluja nel gennaio del 2014 l’organizzazione lancia la sua offensiva a Mosul, la seconda città più grande del paese. Secondo l’Oim sono circa mezzo milione le persone che in meno di una settimana hanno lasciato in fretta e furia la città. L’esercito iracheno è impotente di fronte all’avanzata e dimostra la sua impreparazione nel gestire un attacco portato avanti con mortai, kalashnikov e lanciarazzi. Il 29 giugno del 2014 al Baghdadi annuncia la proclamazione del califfato islamico che si espande tra Iraq e Siria. L’euforia è alle stelle e l’espansione continua. I jihadisti provano a conquistare più territorio possibile. Tra le prime aree siriane a cadere sotto il fuoco dell’Isis nel 2014 c’è la regione di Homs, ricca di petrolio e di gas. Le offensive del gruppo sono ben studiate e città dopo città, in una guerra quasi di logoramento, si spingono fino a Raqqa, che sarà la capitale del proclamato califfato islamico fino all’ottobre del 2017. L’organizzazione interna - Sotto il controllo dei miliziani dell’Isis la società era gestita con un’organizzazione estremamente burocratica come emerso nell’inchiesta giornalisti del New York Times chiamata “Isis File”, che ha raccolto migliaia di documenti e carte dello stato islamico lasciati dopo la ritirata da Mosul. “I documenti - si legge nell’inchieste - mostrano che il gruppo, anche se solo per un tempo limitato, ha realizzato il suo sogno: stabilire il proprio stato, una teocrazia che considerano un califfato, gestito secondo la loro stretta interpretazione dell’Islam. Il mondo conosce lo Stato Islamico per la sua brutalità, ma i militanti non governavano solo con la spada. Hanno esercitato il potere attraverso due strumenti complementari: la brutalità e la burocrazia”. I vertici dell’Isis sono stati astuti anche nel capitalizzare al massimo ogni centimetro di terra conquistato differenziando il loro “portafoglio” economico. I soldi venivano dalle tasse, dai riscatti pagati per i rapimenti, dalle donazioni degli aspirati foreign fighters, dal contrabbando commerciale e dalla vendita del petrolio ottenuto grazie alla conquista di città chiave dedite all’estrazione di grezzo e gas in Iraq e Siria. La coalizione internazionale - Dopo la caduta di Mosul nel 2014 gli Stati Uniti inviano un contingente in Iraq per cercare di arrestare l’avanzata dell’Isis e addestrare l’esercito locale. Iniziano i primi bombardamenti eseguiti dall’amministrazione di Barack Obama, seguiti dalle decapitazioni dei giornalisti americani James Foley e Stevens Sotloff. I video delle esecuzioni terrorizzano il mondo intero e i leader internazionali capiscono che è giunto il momento di rintensificare l’intervento. In pochi mesi si crea una coalizione guidata da Barack Obama e composta sia da stati europei (tra cui Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Spagna) sia arabi (tra cui Bahrein, Giordania, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti). Gli attentati all’estero - Nel marzo del 2015 l’Isis allunga i suoi tentacoli anche all’estero. Inizia un’alleanza con Boko Haram, uno dei gruppi terroristici più potenti della Nigeria, protagonista di rapimenti di studenti nelle scuole e di sanguinosi attacchi. Gli attentati raggiungono ogni parte del mondo. Il 27 giugno del 2015 l’organizzazione di al Baghdadi rivendica l’attentato in un resort turistico in Tunisia nella città di Sousa dove sono state uccise 38 persone. In Kuwait un attacco in una moschea provoca decine di morti. Ma la data da segnare in rosso per la Francia e per l’Europa è il 13 novembre del 2015 quando un commando armato esegue una serie di attacchi simultanei in più parti di Parigi. Viene così inaugurato un triennio nero di terrore. Strasburgo, Vienna, Londra, Parigi, Nizza, Bruxelles, Cairo, Istanbul, sono solo alcune delle città in cui la vita quotidiana viene stravolta dagli attentati terroristici rivendicati dall’Isis attraverso video, annunci audio e comunicati pubblicati in rete. Il declino - Tra fine 2016 e inizio 2017 l’Isis inizia a incassare i duri colpi della coalizione che ottiene vittorie su diversi fronti. Le Forze democratiche siriane, guidate dai curdi riconquistano Raqqa, mentre l’esercito siriano di Bashar al Assad con l’aiuto di Vladimir Putin si impossessa di Deir Ezzor, costringendo i jihadisti a una ritirata dopo aver perso il controllo di due città chiave. In Iraq l’esercito grazie al sostegno dell’Iran e degli Stati Uniti riesce a riprendersi Mosul e a riconquistare intere regioni. Nel dicembre del 2017 il primo ministro iracheno Haider al Abadi ha dichiarato vittoria contro lo stato islamico. Si arriva al 2018 con i combattenti dell’Isis che sono sempre di meno, se ne contano un massimo di 10mila, la maggior parte di quali sono in Siria che sarà dichiarata liberata dopo la conquista di Baghuz un anno più tardi. Che ne è rimasto oggi dell’Isis nella regione? Come già accennato i miliziani si sono camuffati tra la popolazione tentando una riorganizzazione interna, ma la comunità internazionale ha ancora diversi dossier aperti da affrontare. Dalla gestione dei foreign fighters, al capitolo delle vedove e degli orfani dei combattenti che si trovano nei campi sparsi per la Siria come quello di al Homs. Tuttavia, la sfida principale è sconfiggere il califfato virtuale e contrastare la radicalizzazione, anche in Europa. Etiopia, retata continua. Arrestato il capo italiano della missione salesiana di Floriana Bulfon La Repubblica, 14 novembre 2021 È il secondo connazionale finito nelle retate della polizia federale: Alberto Livoni, operatore umanitario del Vis, è stato in cella da otto giorni. Non si ferma la repressione del governo etiope contro chiunque venga sospettato di sostenere la popolazione ribelle del Tigray. Ieri è stato arrestato un sacerdote italiano, don Cesare Bullo. È il secondo connazionale finito nelle retate della polizia federale: Alberto Livoni, operatore umanitario del Vis, è stato in cella da otto giorni prima di essere rilasciato. Don Cesare è il direttore del Centro Don Bosco in Etiopia, dove i missionari salesiani da decenni si occupano dell’assistenza e della formazione di bambini e ragazzi. Un’attività condotta anche nella regione del Tigray e per questo finita da tempo nel mirino del governo guidato dal premier Abiy, paradossalmente premiato due anni fa con il Nobel per la Pace. La struttura salesiana di Mekelle, l’antica Macallé dell’occupazione italiana, sarebbe stata colpita due settimane fa durante i bombardamenti degli aerei governativi. Poi il 5 novembre c’è stata l’irruzione nella casa madre del quartiere Gotera di Addis Abeba, in cui decine di religiosi e volontari sono stati arrestati: quasi tutti erano di origine tigrina o eritrea. Anche don Bullo era stato perquisito in quell’occasione, senza altri provvedimenti. Il giorno dopo però gli agenti sono tornati nel centro e vi hanno arrestato Livoni. Infine ieri è stata la volta del sacerdote. Don Bullo, 80 anni e una vaga somiglianza a Bud Spencer che lo rende popolare tra i più piccoli, ha passato la vita in missione: è stato tredici anni in Vietnam prima di arrivare in Etiopia nel lontano 1976. È stato lui a creare l’istituto tecnico di Mekelle: “Si può operare per il bene degli altri, soprattutto i giovani, solo se il tuo cuore non pone limiti alle tue azioni, alla realizzazione dei sogni che hai in mente”. Tre anni fa l’allora premier Giuseppe Conte aveva visitato le realizzazioni dei salesiani ad Addis Abeba. La Farnesina si è attivata per risolvere la situazione. Due giorni fa i nostri diplomatici hanno parlato con Livoni in carcere, trovandolo “in buone condizioni”. Ora cercheranno di incontrare anche il salesiano. Il clima di assedio ad Addis Abeba diventa ogni giorno più teso. Le milizie tigrine, dopo avere subito un anno fa l’offensiva governativa, hanno rovesciato il fronte e marciano sulla capitale. Lo stato di emergenza proclamato dal premier Abiy permette di compiere arresti senza dare spiegazioni e senza limiti di tempo alla detenzione. Vengono prese di mira anche le ong che aiutano la popolazione del Tigray, ridotta alla fame da un anno di combattimenti, e persino i dipendenti dell’Onu. In cella sono finiti pure cittadini britannici e statunitensi, mentre i sostenitori di Abiy protestano nelle piazze contro gli Usa e l’occidente. Ecuador. Ennesimo massacro in carcere tra bande di detenuti: 58 morti adnkronos.com, 14 novembre 2021 Una guerra per bande nel penitenziario El Litoral, la prigione più popolata di Guayaquil, ha provocato 58 morti e 12 feriti. Il bilancio è stato confermato dal governatore della provincia di Guayas, Pablo Arosemena. Secondo il quotidiano Expreso le violenze nel padiglione 2 sono durate ben 14 ore prima che i reparti antisommossa riuscissero a riportare i detenuti dentro le celle. Molte violenze sono state divulgate dai carcerati con video sui social network. Un’altra rivolta nello stesso carcere, avvenuta il 29 settembre, aveva provocato la morte di 120 detenuti in seguito a scontri tra bande di narcos. Nel 2021 nelle carceri dell’Ecuador ci sono state 265 morti violente: 180 a El Litoral. L’ennesimo massacro pone interrogativi sull’efficacia dello stato d’emergenza decretato dal presidente Guillermo Lasso a ottobre per fornire maggiori poteri alle forze di sicurezza. L’Afghanistan è un paese alla fame di Francesca Mannocchi L’Espresso, 14 novembre 2021 A tre mesi dall’addio dell’Occidente, la fine degli aiuti svela il disastro climatico. Dove c’è guerra c’è siccità. Un terzo della popolazione è a corto di cibo. E un milione di bambini rischia di morire. “Quello che vediamo e analizziamo è che ovunque nel mondo c’è più conflitto e più violenza dove le temperature sono più alte della media”, sono parole di Marshall Burke, professore presso il Dipartimento americano di Scienze ambientali del sistema terrestre e membro del Freeman Spogli Institute (FSI), centro studi internazionale su ambiente e insicurezza alimentare. Nel 2013 Burke è stato coautore di uno studio dal titolo “Clima e conflitti”, la tesi delle sue ricerche è che i cambiamenti climatici aumentino vari livelli di conflitto, dalla violenza individuale fino a conflitti collettivi, le guerre civili, gli scontri tra nazioni, scrive Burke: “Il clima non è l’unico o il principale fattore di conflitto, ma sulla base dei nostri studi, la comunità internazionale non dovrebbe ignorare la minaccia rappresentata dal riscaldamento globale”. Al suo studio sono seguiti anni di polemiche, gli si contestava che ci fossero dati troppo scarsi, e una risicata letteratura a suffragio delle sue conclusioni, ma anche anni di ricerche e pubblicazioni di università, centri studi, organizzazioni internazionali. Per tutti la sfida era studiare luoghi in cui il cambiamento climatico stava diventando un moltiplicatore di minaccia, e cioè stava inesorabilmente trasformando i disastri naturali in disastri sociali. Luoghi in cui l’aumento delle temperature, la riduzione delle piogge, la competizione per le risorse d’acqua sta influenzando l’andamento delle guerre e modificando i conflitti e le migrazioni. Oggetto delle ricerche il Corno d’Africa, il Medio Oriente e, naturalmente, l’Afghanistan, Paese in cui l’intersezione tra clima e conflitto sta determinando minacce sempre più elevate alla stabilità interna e esterna. I dati dimostrano anche come il cambiamento climatico sia lo schema di disuguaglianze globali: l’Afghanistan dalla metà del XX secolo ha assistito a un aumento medio della temperatura di 1.8 gradi Celsius (3.24 Fahrenheit), rispetto a una media globale dello 0.82. Cioè più del doppio, pur avendo contribuito al cambiamento climatico globale in maniera ridotta (un afgano medio produce 0,2 tonnellate di emissioni di anidride carbonica all’anno, rispetto alle quasi 16 tonnellate dell’americano medio). Significa che pur avendo inquinato meno, l’Afghanistan è colpito più gravemente di altri dagli effetti del riscaldamento globale, dai disastri lenti provocati dalla siccità, dell’inaridimento del suolo, dell’acqua che scarseggia e dell’assenza di infrastrutture che possano arginare le conseguenze di un fenomeno destinato a peggiorare. Il Paese non ha sbocchi sul mare, e l’80 per cento della popolazione dipende dall’agricoltura per la sussistenza. Le improvvise inondazioni, i terremoti, gli smottamenti provocati dallo scioglimento dei ghiacciai, uniti alle temperature estreme stanno rendendo ormai da anni sempre più difficile il lavoro nei campi, dunque il sostentamento, cioè il cibo, cioè la sopravvivenza quotidiana. Lo scorso agosto mentre tutti i titoli dei mezzi di informazione si concentravano sulla riconquista di Kabul da parte dei talebani e sulle migliaia di persone che tentavano di fuggire dall’aeroporto Hamid Karzai terrorizzati dall’instaurazione del nuovo Emirato Islamico, minore attenzione è stata riservata agli effetti di lunga durata delle crisi precedenti, quelle croniche, come la crisi umanitaria prodotta dalla prolungata siccità che da anni non dà tregua al Paese e che, unita alla grave carenza d’acqua, ha portato 14 milioni di persone, cioè un terzo della popolazione, a vivere in una condizione di insicurezza alimentare acuta. Siccità che, secondo le Nazioni Unite, rischia di trasformarsi da evento episodico a evento annuale entro il 2030. Tre anni fa l’ultima, devastante, aveva prodotto 400 mila nuovi sfollati interni, cioè persone che avevano dovuto abbandonare i loro villaggi ormai non più coltivabili per spostarsi in altre aree del Paese in cerca di lavoro, e quattro milioni di persone in uno stato di bisogno di aiuti alimentari. Oggi, con i talebani al potere, le forze guidate dagli Stati Uniti che hanno lasciato il Paese, gli aiuti economici internazionali congelati e l’inverno alle porte, la situazione si è aggravata e il Paese vive un’emergenza umanitaria senza precedenti: tre milioni di bambini sotto i cinque anni rischiano di soffrire di malnutrizione acuta entro la fine dell’anno e, se non arriveranno i trattamenti salvavita immediati, un milione di bambini rischiano di morire di fame nel giro di poche settimane. Le scorte di cibo continuano a diminuire in Afghanistan anno dopo anno, e solo nel 2021, a causa dei combattimenti, migliaia di agricoltori e coltivatori non sono stati in grado di piantare i raccolti annuali, la metà di quelli coltivati è andato perso, il prezzo del grano è aumentato del 25 per cento. Manca tutto, dunque. Manca il cibo. Manca l’acqua, mancano le infrastrutture che possano tamponare l’emergenza. Soprattutto dove i conflitti armati si intrecciano col riscaldamento globale. L’Afghanistan ha vissuto guerre per quarant’anni e la guerra è l’opposto dello sviluppo: i contraccolpi dell’ultima offensiva militare vanno ad aggiungersi a decenni di conflitto che hanno privato l’Afghanistan della capacità di sviluppare infrastrutture necessarie a provvedere ai bisogni della popolazione come dighe e sistemi di irrigazione. I contadini afgani coltivano ancora la terra con metodi antichi, come nel secolo scorso, lavorano tradizionalmente con i karez, antichi mezzi di irrigazione che trasportano acqua sotterranea dalle montagne evitando l’evaporazione. In alcuni remoti villaggi sono ancora funzionanti, ma la stragrande maggioranza è andata distrutta in 40 anni di guerra. L’acqua vale più dell’oro: nelle principali città l’acqua potabile è di difficile reperimento, fino ai dati allarmanti sulla capitale: oltre il 70 per cento della popolazione di Kabul non ha accesso all’acqua potabile. Allarmanti e destinati a peggiorare: stando ai dati della John Hopkins University, la domanda d’acqua nel bacino di Kabul aumenterà di sei volte entro il 2050, proporzionalmente all’aumentare della popolazione che arriva dalle campagne nella città, sperando di trovare lavoro. L’accesso all’acqua per scopi agricoli e dunque la possibilità di coltivare la terra ha inasprito il conflitto per generazioni ed è stata una delle principali ragioni di disaffezione e mancanza di fiducia verso i governi di Hamid Karzai prima e di Ashraf Ghani poi, ritenuti incapaci di migliorare le condizioni di vita dei cittadini e provvedere ai loro bisogni primari. L’hanno capito i talebani, che negli anni hanno cominciato a usare le risorse naturali come strumento di consenso. Corruzione e negligenza da una parte, conquista delle risorse vitali dall’altra: un pezzo della strategia dei talebani per la conquista del consenso è consistita, infatti, nel mettere le mani sull’acqua. È stato così nel tentativo di conquistare Herat, nella parte occidentale del Paese, dove i talebani avevano ripetutamente attaccato la diga, e lo stesso è avvenuto a sud, conquistare la diga per controllare Kandahar. Una strategia ampia che da una parte garantiva l’accesso delle persone a beni primari come l’acqua, e dall’altro sfruttava la crisi sociale per reclutare nuovi sostenitori, lo schema del cambiamento climatico come moltiplicatore del conflitto, appunto. La povertà, lo stato di bisogno, ha sempre reso più semplice per le organizzazioni fondamentaliste reclutare combattenti nelle comunità rurali, dove le persone non vedono altra prospettiva che impugnare le armi, così per anni i talebani hanno tratto vantaggio dalla crisi: le condizioni sempre più precarie dell’agricoltura affamavano le famiglie, qualcuno decideva di trasferirsi nelle aree urbane in cerca di lavoro, quelli lasciati indietro, soprattutto bambini e ragazzi, restavano esposti all’influenza dei talebani, che hanno reclutato giovani pagandoli una manciata di dollari al giorno, comunque più di quello che avrebbero guadagnato lavorando i campi. Contestualmente i cambiamenti climatici hanno spinto moltissimi agricoltori ad abbandonare le colture alimentari come il grano a favore del papavero d’oppio più resistente alla siccità, in un Paese che è il più grande produttore mondiale dell’industria dell’oppio. Cambiamento climatico, assenza d’acqua e risorse vitali, reclutamento, traffici illeciti e consenso. Anche in questo caso, gli allarmi c’erano stati. Già nel 2016 le Nazioni Unite avevano avvertito la comunità internazionale: “Il cambiamento climatico renderà estremamente difficile mantenere i risultati raggiunti in termini di sviluppo. Siccità e inondazioni sempre più frequenti e gravi e la desertificazione accelerata influenzeranno i mezzi di sussistenza rurali, l’economia nazionale e dunque la stabilità del Paese”. La stabilità, appunto. Tra le righe, il comunicato delle Nazioni Unite di cinque anni fa, cioè cinque anni prima del ritiro delle truppe occidentali, stava mettendo in guardia la comunità internazionale. Il messaggio era: in un Paese in guerra da quarant’anni, basato su un’economia agricola, in cui le infrastrutture sono danneggiate o inesistenti, non predisporre misure strutturali per contenere gli effetti del riscaldamento globale, significa rendere sacche di popolazione vulnerabili all’influenza dei gruppi armati. I gruppi radicali costruivano consenso approfittando della crisi, mentre la comunità internazionale tamponava le emergenze con gli aiuti economici che negli anni hanno raggiunto il 40 per cento del Pil. Praticamente sostenevano l’economia del Paese, pagavano stipendi, cibo, progetti umanitari, sanità. Oggi il flusso di aiuti si è interrotto, e i soldi non arrivano più. In risposta alla conquista del potere da parte degli “studenti di Dio” ad agosto gli Stati Uniti e i donatori internazionali hanno sospeso gli aiuti e congelato beni per miliardi di dollari. Niente più stupendi, niente più supporto per l’agricoltura, niente soldi per pagare le organizzazioni internazionali, niente più denaro contante per gli afghani. Niente che non si potesse prevedere, con anni di anticipo, ripetuti allarmi, report delle Nazioni Unite, pubblicazioni universitarie, e così via. Oggi, mentre i governi europei sembrano giocare a una mosca cieca diplomatica, muovendosi a tentoni tra la necessità di negoziare con gli studenti di Dio e l’inopportunità di riconoscere il loro governo, i pastori e i contadini affamati vendono il bestiame e cedono le figlie in sposa in età sempre più giovane in cambio di denaro per potere provvedere al sostentamento del resto della famiglia. Su questo, i talebani si giocano il consenso. Sono loro, oggi, a dover dimostrare di avere un piano, e saper provvedere al Paese. Trovare soluzioni per sfamarlo. Oggi che sono al governo, sono i talebani a essere indeboliti dalla crisi e dalla fame. Sono i talebani che rischiano di perdere consenso, a favore di gruppi ancora più estremisti come l’Isis (qui chiamato Iskp) che stanno devastando il Paese con costanti attentati kamikaze. In uno scenario di questo tipo, il cambiamento climatico e la povertà che ne deriva, sono stati e restano catalizzatori del conflitto, e l’interazione tra cambiamento climatico e strutture di governo deboli, ha spinto e rischia di spingere in futuro le persone verso l’economia illecita, la radicalizzazione. E costringerà milioni di persone ad abbandonare le loro case. Un paradigma che riguarda l’Afghanistan e molti altri Paesi che vivono in uno stato di guerra: “Se si osserva una mappa dei Paesi più vulnerabili agli impatti del cambiamento climatico, confrontandola con una mappa dei conflitti attivi, sembrano sovrapponibili”, dice Tara Clerkin, coordinatore per l’agricoltura e il clima di Irc, International rescue committee. Cioè dove sono più allarmanti gli effetti della crisi climatica, più allarmanti sono anche gli effetti delle guerre. Continua Tara Clerkin: “Dico spesso che gli agricoltori sono i canarini nella miniera Hanno sperimentato in prima persona gli impatti climatici per anni e ci hanno avvertito delle crescenti minacce ai mezzi di sussistenza umani. Il problema con questa analogia è che il canarino muore. La comunità globale ha la reale responsabilità di assicurarsi che non permettiamo che ciò accada”.