Una proposta equilibrata sull’ergastolo ostativo. Nel rispetto della Consulta di Fabio Fiorentin* Il Dubbio, 13 novembre 2021 Approfitto volentieri dell’ospitalità offerta sulle colonne de Il Dubbio, per cercare di offrire alcune brevi notazioni sulla proposta di modifica della disciplina dell’ergastolo “ostativo”, alla luce delle sentenze della Consulta n. 253/2019 e della Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Viola c. Italia, da cui la proposta stessa trae diretta ispirazione. La motivazione che sta alla base del testo che, con il collega Antonio Balsamo, abbiamo elaborato e messo a disposizione della Fondazione Falcone nasce principalmente dall’esigenza di superare la sostanziale impasse che vede attualmente il Parlamento fortemente diviso tra proposte di riforma che, per ragioni speculari (alcune sono ritenute troppo favorevoli agli ergastolani non collaboranti, altre - all’opposto - sono tacciate di voler aggirare le prescrizioni delle Corti), non riescono a coagulare il necessario consenso politico, mentre la scadenza termine concesso al legislatore dalla Consulta per provvedere sta rapidamente avvicinandosi. Crediamo importante - da magistrati - che, a differenza di quanto è spesso accaduto in precedenti occasioni, non sia un giudice (per quanto autorevole come il Giudice costituzionale) ma il Parlamento a dettare le coordinate normative in una materia così delicata come quella del superamento del “fine pena mai”, anche per la necessità di una ponderazione e di un bilanciamento degli interessi e dei valori in gioco, spesso evidentemente (e drammaticamente) contrapposti, che solo la sintesi parlamentare può adeguatamente esprimere. Ecco, allora, che si è inteso offrire agli interlocutori istituzionali un testo che possa rappresentare una possibile base di convergenza e incontro tra le diverse sensibilità presenti in Parlamento, una traduzione normativa per quanto possibile equilibrata del principio espresso dalla Consulta: evitando - per un verso - soluzioni che ammettano alla concessione dei benefici penitenziari anche soggetti per i quali non sia possibile accertare (sulla base di elementi diversi dalla positiva collaborazione con la giustizia) l’effettivo abbandono dell’ideologia criminale e, per l’altro verso, scongiurare una riforma che di fatto “sterilizzi” la pronuncia costituzionale, mantenendo l’ergastolo nella sua versione assolutamente ostativa. L’idea fondamentale è stata quella di elaborare nella prospettiva indicata dalle Corti - una disciplina normativa che consenta al giudice di accertare, nei casi in cui non sia stata prestata una positiva collaborazione con la giustizia, se il condannato abbia comunque dimostrato in altro modo il proprio effettivo percorso di rieducazione, distaccandosi non solo a parole dalla propria appartenenza mafiosa, ripudiandone integralmente l’ideologia e rendendosi meritevole dell’accesso ai benefici penitenziari esterni al carcere. In secondo luogo, si è inteso riconoscere il giusto spazio alle ragioni delle vittime, sia per la peculiare natura dei reati di cui si discute, connotati da modalità particolarmente gravi di odiosa sopraffazione, sia per raccogliere l’indicazione promanante da molte fonti internazionali e dalla stessa delega in materia di riforma organica della giustizia riparativa fortemente voluta dalla Ministra Cartabia, che vuole restituire dignità e tutela alla figura dell’offeso dal reato. Entrando ora nel merito, il cuore della proposta è l’introduzione di un nuovo comma 1-sexies dell’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario. Vi si prevede che tutti i principali benefici (dal permesso premio, al lavoro all’esterno, alle misure alternative alla detenzione) possano essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti “ostativi”, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, “purché sia fornita la prova dell’assenza di collegamenti attuali del condannato o dell’internato con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e dell’assenza del pericolo di ripristino dei medesimi e sempre che il giudice di sorveglianza accerti, altresì, l’effettivo ravvedimento dell’interessato, desunto dalla valutazione critica della sua precedente condotta, dalle sue iniziative a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa, e dal suo contributo alla realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali”. I punti salienti della nuova disciplina possono così riassumersi: a) La proposta si muove nel senso della continuità rispetto al precedente assetto normativo, nel senso che non introduce una disciplina differenziata per i benefici minori (quali i permessi premio o il lavoro all’esterno) e le misure alternative, prevedendo per tutte il requisito “alto” del ravvedimento del soggetto. Tale opzione intende tenere conto, in un’ottica di bilanciamento, della valenza anche simbolica della premialità connessa alla concessione del permesso concesso ad un condannato per mafia non collaborante e della particolare gravità dei reati di che trattasi, ciò che impone e giustifica - anche rispetto ai criteri di proporzione e adeguatezza delle scelte legislative - presupposti di concessione più stringenti rispetto alla disciplina ordinaria valevole per i reati comuni, poiché occorre accertare il concreto distacco del soggetto dal clan mafioso di pregressa appartenenza; b) L’indicazione normativa di criteri specifici che il giudice dovrà adottare per accertare il requisito dell’”effettivo ravvedimento” dell’interessato, così da limitare la discrezionalità ancorare tale accertamento a elementi per quanto possibile oggettivi: l’approfondito esame della condotta del soggetto e le sue manifestazioni di interessamento a favore delle vittime (in forma sia risarcitoria che di giustizia riparativa); c) La necessità di fornire elementi la prova dell’assenza di attuali collegamenti del soggetto con la criminalità organizzata e del pericolo di ripristino dei medesimi; d) La richiesta, all’interessato, di contribuire alla realizzazione del “diritto alla verità” spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali. Quest’ultima formulazione si ricollega a uno dei più significativi sviluppi giuridici affermatisi negli ultimi anni nell’ambito delle Nazioni Unite: ogni anno, il 24 marzo, si celebra presso l’Onu la Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime. Del resto, l’impegno di contribuire alla realizzazione del diritto alla verità è una componente indispensabile del “diritto alla speranza”, inteso nella sua dimensione profonda ed autentica di possibilità di “riscattarsi per gli errori commessi”, come evidenziato in occasione della sentenza emessa dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo il 9 luglio 2013 nel caso Vinter c. Regno Unito, che rimane il leading case in questa materia. Sotto l’aspetto procedurale, la proposta valorizza l’apporto conoscitivo che possono fornire le Procure antimafia e il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica del luogo dove il detenuto risiede nonché, nel caso di detenuti sottoposti allo speciale regime del “41 - bis”, anche dal Procuratore nazionale antimafia. Si è inteso, tuttavia, escludere che le Procure esprimano “pareri” o “indicazioni” vincolanti, salvaguardando il libero convincimento del giudice di sorveglianza, che dovrà sì decidere sulla base (anche) delle informative delle Procure ma non avrà alcun vincolo decisionale in rapporto al contenuto delle informative medesime, che non sono, infatti, qualificate come “pareri”. Tenuto conto della complessità dell’istruttoria richiesta alle Procure antimafia e nell’ottica di assicurare al giudice un contributo conoscitivo di elevata qualità, si è soppresso il termine di 30 giorni, oggi vigente, assegnato per la trasmissione delle informative al giudice. Tra le fonti conoscitive, non si è ritenuto di coinvolgere direttamente la figura del direttore dell’istituto penitenziario per evitarne la sovraesposizione (e considerando che comunque tale organo può interloquire nel suo ruolo di coordinamento del gruppo di osservazione e trattamento del carcere e del consiglio di disciplina). Il terzo punto fondamentale è l’introduzione nell’art. 4-bis della l. 354/ 75 di un nuovo comma 2-ter, seguendo anche qui le indicazioni della Corte costituzionale (in questo caso, contenute nell’ordinanza n. 97/21). La nuova disposizione consente al giudice di disporre, con il provvedimento di concessione dei benefici, alcune misure tassativamente indicate, quali l’obbligo o il divieto di permanenza dell’interessato in uno o più comuni o in un determinato territorio; il divieto di svolgere determinate attività o di avere rapporti personali che possono occasionare il compimento di altri reati o ripristinare rapporti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e può, altresì prescrivere - in un’ottica proattiva di risocializzazione - che il condannato o l’internato si adoperi in iniziative di contrasto alla criminalità organizzata (da intendersi, queste ultime, in una prospettiva di risocializzazione, quali partecipazioni a incontri o manifestazioni in cui si discuta delle problematiche inerenti alla criminalità di stampo mafioso). *Magistrato ed estensore proposta di legge della Fondazione Falcone Quelli che vogliono il carcere duro non danno valore alla libertà di Iuri Maria Prado Il Riformista, 13 novembre 2021 Ma qual è il motivo profondo per cui è così difficile richiedere e ottenere che i detenuti siano trattati decentemente? Qual è la ragione connaturata per cui non ci si preoccupa, e anzi spesso ci si compiace, del fatto che i detenuti “soffrano”? Da decenni penso alle cose della giustizia e in decenni ho cambiato molte convinzioni in proposito, ma una ho avuto da sempre e ho ancora. E cioè che coloro ai quali ripugna l’idea che il detenuto possa ambire a qualche modestissimo miglioramento di vita non comprendono la preziosità del bene supremo di cui il detenuto, pur trattato meglio, è in ogni caso privato, e che loro invece, per quanto possano essere maltrattati dalla vita, hanno in ogni caso a disposizione: la libertà. Chi giudica superfluo, o magari offensivo, che al detenuto sia assicurato di vivere in una cella non affollata, di avere cibo accettabile e buone cure mediche, di disporre di spazi e strumenti di studio e svago, e momenti di intimità con parenti e persone care, e risente di tutto questo come se si trattasse dell’oltraggiosa concessione di privilegi ingiustificati, a tanto risentimento giunge perché non avverte “differenza di stato” tra sé e il detenuto. Se il recluso “sta bene”, allora non c’è più nessuna differenza rispetto a chi è libero, perché a far differente la condizione dell’uno da quella dell’altro non c’è, perché non ha nessun valore, la libertà disprezzata di chi sta fuori e quella soppressa di chi sta dentro. Se la libertà non vale nulla per chi guarda il detenuto, allora questi, perdendo la libertà, non ha perso nulla. Se la libertà di cui può disporre chi guarda il detenuto non è abbastanza a determinare la sensazione di una differenza di stato incommensurabile, allora occorre che quelle due esistenze siano divise, distinte, riconoscibili, a causa di afflizioni supplementari e di altro tipo a carico di chi sta in prigione. Per questo si vuole che il detenuto “soffra”. Perché, se non soffre, condivide in modo solo diverso ma ugualmente trascurabile una stessa mancanza, la mancanza di libertà: la libertà senza valore di cui uno è privato, e quella altrettanto svilita di cui l’altro non sa godere. Il “fine pena mai” proposto dalla Meloni è una vendetta che rende la società più insicura di Salvatore Curreri Il Riformista, 13 novembre 2021 Le due proposte di legge (l’una costituzionale, l’altra ordinaria) presentate da Fratelli d’Italia per scongiurare, a loro dire, lo “smantellamento” del carcere ostativo per i boss mafiosi dimostra una volta ancora, ed in modo tristemente inequivocabile, quanto ancora lunga sia la strada che separa una certa cultura politica che pur si candida alla guida del Paese dai principi della nostra Costituzione sulla pena e la sua funzione, nonostante ci separino quasi 75 anni dalla sua approvazione e più di 250 dal Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Difatti, tra le tre possibili finalità della pena - intimidatoria, afflittiva ed emendativa - i costituenti (alcuni dei quali il carcere l’avevano vissuto di persona) decisero di privilegiare quest’ultima. Da qui, l’art. 27.3 Cost. secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Non è dunque vero che le finalità della pena sono equivalenti (c.d. concezione polifunzionale), come reiteratamente si afferma nella relazione della proposta di legge costituzionale a prima firma Giorgia Meloni, perché, come recentemente affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 149/2018 (non a caso mai citata in tale relazione) la rieducazione del condannato è la finalità principale e ineludibile della pena e non può mai essere sacrificata “sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena”. Del resto, è proprio per smorzare e, in fin dei conti, contraddire la prevalente finalità rieducativa che Fratelli d’Italia propone d’aggiungere al citato art. 27.3 Cost. l’inciso per cui “la legge garantisce che l’esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”, perché - Meloni dixit - “a me che tu hai avuto una buona condotta in carcere o che hai partecipato a programmi di rieducazione non frega niente se sei stato un mafioso che hai ammazzato”. Una modifica che finirebbe per sfregiare il “volto costituzionale” della pena, che deve sempre essere proporzionale anziché eccessiva, individuale anziché fissa, flessibile in corso dell’esecuzione anziché immodificabile. Ciò nella convinzione, sottesa alla nostra Costituzione e sideralmente distante dalle parole della Presidente di Fratelli d’Italia, che “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento” che chiama in causa sia la sua responsabilità individuale “nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità”, sia “la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino” (C. cost. 149/2018, 7). Sono questi i principi che hanno portato dapprima la Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Viola del 13 giugno 2019 confermata dalla Grande Camera il successivo 8 ottobre) e la Corte costituzionale (sentenze nn. 253 e 263 del 2019 e 97 del 2021) a dichiarare illegittimo il divieto assoluto di accesso a benefici carcerari (permessi premio e liberazione condizionale, peraltro dopo almeno 26 anni di pena scontata) ai condannati per reati associativi di particolare allarme sociale (tra cui mafiosi e terroristi) perché non avevano collaborato con la giustizia. Difatti, come il “collaborare” non implica sempre “un vero pentimento” (come dimostrano i falsi pentiti), analogamente il “non collaborare” non significa sempre “assenza di pentimento”, specie quando ciò è dovuto ad altri fattori, come il timore di ritorsioni contro i propri familiari. Il “fine pena mai” per mafiosi e terroristi dunque contrasta radicalmente con la finalità rieducativa della pena. Ed è solo frutto di una banalizzazione a fini propagandistici affermare che ad un boss mafioso basta aver tenuto una buona condotta in carcere e partecipato ad un programma di rieducazione per essere scarcerato. Spetta, infatti, sempre al giudice di sorveglianza, infatti, valutare attentamente caso per caso la sua effettiva pericolosità sociale, anche qui senza automatismi o presunzioni assolute, sulla base dell’effettiva interruzione dei suoi rapporti con la criminalità organizzata e della sua fattiva partecipazione al percorso rieducativo. Valutazione peraltro compiuta alla luce delle relazioni del carcere nonché dei pareri della Procura antimafia antiterrorismo e del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Del resto i numeri sono lì a dimostrare quanto le maglie siano rimaste strette, anche dopo le sentenze della Corte: sono stati infatti solo otto i permessi accordati agli ergastolani e nessuno di loro era sottoposto al carcere duro del 41-bis. Consapevole comunque della delicatezza della materia, la Corte costituzionale, nell’ultima sentenza, ha affidato al legislatore il compito, entro il prossimo 22 maggio, di ridefinire la materia, bilanciando i diritti dell’ergastolano con le esigenze di contrasto del fenomeno mafioso. In questa prospettiva le proposte di legge presentate da Fratelli d’Italia e tutte quelle che tendono a reintrodurre il c.d. ergastolo ostativo per mafiosi e terroristi che non collaborano con la giustizia si pongono pervicacemente contro l’articolo 27 della Costituzione sulla finalità rieducativa della pena (che non a caso, come detto, si vorrebbe modificare), di fatto ignorando (o facendo finta d’ignorare) che tale preclusione assoluta è stata già dichiarata incostituzionale dalla Corte. Molto più utili in tal senso sono, piuttosto, le proposte di legge che cercano di rispondere positivamente alle esigenze di bilanciamento sollecitate dalla Corte costituzionale. In questo senso merita particolare menzione quella avanzata dalla Fondazione Giovanni Falcone (tanto per capire chi ne interpreta correttamente il pensiero e chi no). Del resto, come opportunamente ricordato su queste colonne da Tiziana Maiolo, proprio Giovanni Falcone aveva subordinato l’accesso ai benefici penitenziari all’accertamento da parte del giudice di sorveglianza dell’inesistenza di collegamenti con la criminalità organizzata e non alla collaborazione con i pubblici ministeri, introdotta piuttosto con il successivo decreto Martelli dell’8 giugno 1992, dopo le stragi di quell’anno. La proposta della Fondazione subordina l’accesso alla libertà vigilata dei mafiosi e terroristi condannati all’ergastolo, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, non solo al loro “contributo per la realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali”, ma anche alle loro iniziative in favore delle vittime ed alla loro effettiva partecipazione alle forme di giustizia riparativa (tema giustamente molto caro all’attuale ministra della Giustizia). Un’ultima considerazione. Agli alfieri del populismo penale che ritengono la finalità rieducativa della pena discorso da “anime belle” che ignorano come il carcere debba essere una “discarica sociale” popolata da condannati che vi devono marcire sino all’ultimo giorno di pena, forse (ma solo forse) vale la pena ricordare che rieducare ogni condannato non è solo un obbligo morale ed un vincolo costituzionale ma costituisce il miglior investimento economico per assicurare la sicurezza sociale. È infatti statisticamente dimostrato che i condannati anche per gravi delitti che abbiano potuto acquisire in carcere una professionalità lavorativa o fruito di permessi, premi e misure alternative alla detenzione non solo non tendono a fuggire ma, una volta scarcerati, in massima parte si reinseriscono più facilmente nella società e tornano meno a delinquere. Il che significa minore tasso di recidività, più sicurezza sociale e, quindi, meno costi per lo Stato. Di contro, il 70% di quanti hanno espiato fino all’ultimo giorno la pena in galera commettono nuovi reati. E purtroppo l’albero fa rumore quando cade, non quando cresce. Sì alla giustizia riparativa, la catena dell’odio va spezzata di Catello Romano* Il Riformista, 13 novembre 2021 “Mai, invero, si placano quaggiù gli odi con l’odiare: con il non odiare si placano, questa è Legge Eterna”. Movendo dal verso posto qui in epigrafe - così squisitamente buddhista nella forma quanto universale nella sostanza - vorremmo parlare di ciò che assai colpevolmente si affaccia nel nostro Paese parecchio tardivamente, una realtà che va sotto la denominazione di “giustizia riparativa” e di cui si è sentita l’eco nella recente riforma del processo penale fortemente voluta da Marta Cartabia. Dalla sola definizione sorgono legittimi alcuni interrogativi, quali: “ma la giustizia, di per sé, non è già riparativa? Non è intrinseco alla nozione stessa di giustizia lo scopo - come si suol dire anche colloquialmente - di “raddrizzare il torto”, “restituire il maltolto”, “pareggiare i conti”, “fare giustizia”, per l’appunto!?”. Perché, dunque, questo apparente pleonasmo? Domande nient’affatto peregrine, e una risposta a esse esiste e tenteremo di darla. Se c’è una cosa nella quale noi esseri umani eccelliamo - oltre che nel trovare giustificazioni per tutto - è certamente quella di dimenticare e di farlo in fretta; abbiamo una memoria sì corta (quando ci conviene) da poter affermare senza esagerazioni che se vi è qualcosa che la Storia insegni è che essa non insegna nulla. Il che, paradossalmente, è comunque qualcosa. Dopo millenni di esecuzioni capitali (che tutt’ora sussistono in numerosi paesi), di lavori forzati, delle più disparate e fantasiose sevizie fisiche e psicologiche, dell’istituzione di veri e propri “cimiteri per vivi” (F. Turati) - ove si lasciano letteralmente languire sino al termine della loro esistenza esseri che smettono di essere umani e che sopravvivranno di vane speranze, ineluttabilmente trasformantisi in disperazione - l’umanità ha imparato ben poco, a voler essere buoni, e certamente il crimine non è diminuito e men che meno scomparso, ovviamente, ammesso che fosse realmente questo l’obiettivo prefissatosi ogni volta con l’utilizzo di tali mezzi “deterrenti” (sic!). Anzi, sotto questo riguardo, si è certamente fallito nella maniera più assoluta. A ben guardare, pare che ormai intorno a noi non ci sia altro che violenza e malvagità delle più gratuite, beote e ripugnanti, come mai viste prima. Si ha l’impressione che il “male” l’abbia avuta vinta e che la barriera che conteneva le famose orde di Gog e Magog sia totalmente crollata e che queste vaghino liberamente su tutta la terra, la quale appare come pervasa e avvolta da un velo d’oscurità dei più asfissianti, quasi a voler soffocare quelle poche realtà ancora spiritualmente vive atte al riscatto e alla salvezza dell’anima umana che ancora vi aspiri. Che non si leggano, però, tali considerazioni come un’abdicazione pessimistica di fronte al mondo “malato” e da rifuggire, tutt’altro! Il nostro non è che un sano e sereno realismo dinanzi ai fatti, anche perché viviamo con la ferma certezza che “porta inferi non prevalebunt”. Tornando alla memoria, questa ci fa così “difetto” che abbiamo sentito il bisogno e la necessità d’istituire le Giornate della Memoria per rammentarci di tutto, anche di quelle cose che dovrebbero essere le più scontate all’animo realmente umano. Così abbiamo quella per ricordare la barbarie della Shoah e contro l’antisemitismo; quella per Hiroshima e Nagasaki; quella per le vittime delle Foibe; per il genocidio degli Armeni… La lista è lunghissima e, ahinoi, non mancherà di accrescersi vista la poca capacità che abbiamo a imparar dai nostri delitti passati. Pertanto ci sentiamo di poter abbozzare una risposta almeno parziale alle domande con cui abbiamo aperto queste considerazioni e dire che era più che logico dover sentire prima o poi la ineludibile necessità di apporre la qualifica di “riparativa” a una forma e un percorso di giustizia che non pretende affatto di sostituirsi - per il momento, almeno - a ciò che ci è familiare sotto questo nome, ma sovrapporvisi semmai per soddisfare l’esigenza di restituire al concetto di giustizia il suo significato primevo e l’originario ruolo, ossia quello di bilanciare nei limiti delle possibilità umane uno squilibrio qualsiasi e dunque restaurarla nella sua propria funzione. Purtroppo, infatti, assai sovente questa funzione riparativa della giustizia è totalmente elusa e disattesa, tradendo de facto la sua stessa essenza, in quanto pressoché sempre - magari pensando di far del “bene” - la concezione che ci ritroviamo applicata in una sentenza è quella meramente punitivo-retributiva, senza avvedersi che proprio in tal modo d’operare si finisce per eccedere nel catalizzare tutta la “cura” sull’autore del delitto, trascurando bellamente la vittima di esso - una vera e propria inversione dei fini. È da questo punto di vista, dunque, che la cosiddetta “giustizia riparativa” (o “riconciliativa”, “rigeneratrice”, restorative justice in inglese) si pone come realmente rivoluzionaria - etimologicamente parlando, da re-volvere -, in quanto si prefigge di riportare al “principio” e al suo senso autentico il concetto di giustizia, senza per questo voler escludere il lato sanzionatorio che con la pena (d’una qualsiasi specie) vada a soddisfare, in un certo qual modo, il desiderio di vendetta di cui tutti, a diversi gradi, siamo normalmente portatori poiché, come ha magistralmente rilevato il Dott. Bouchard - rievocando la ben nota tragedia eschilea - l’istituzione dei tribunali fu voluta dalla Dea Atena “non perché la vendetta [fosse] ingiusta di per sé, perché se proporzionata contiene un’idea di giustizia, di civiltà. Ma […] perché [volle] impedire la ripetizione all’infinito del meccanismo vendicativo, che è una prospettiva profondamente diversa”. *Detenuto nel carcere di Catanzaro Il 40% dei detenuti è tossicodipendente. Libianchi (Co.N.O.S.C.I.): “Dati sottostimati” di Carlotta Di Santo agenziadire.com, 13 novembre 2021 “Di nuovo allarme sovraffollamento, depenalizzare reati droga-correlati”. “Secondo le statistiche più recenti, risalenti all’anno scorso, sono entrati in carcere dalla libertà 14.092 tossicodipendenti con un rilevante calo rispetto agli anni precedenti a causa della pandemia. Per la quasi totalità sono di genere maschile (96%) e per un terzo di nazionalità straniera (33%). I detenuti tossicodipendenti entrati nel corso del 2020 rappresentano il 39,9% sul totale degli ingressi, quindi una percentuale sempre molto alta. In ogni caso, in merito alle presenze effettive di ‘consumatori di sostanze stupefacenti’ in carcere è giustificato ritenere che questi dati siano sottostimati”. A farlo sapere il dottor Sandro Libianchi, già responsabile medico presso il complesso polipenitenziario di Rebibbia, e presidente dell’associazione Co.N.O.S.C.I. (Coordinamento Nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane), nel corso di un’intervista rilasciata all’agenzia Dire in occasione del primo tavolo tecnico dal titolo ‘Giustizia penale, misure alternative e prestazioni sanitarie penitenziarie nell’ambito della dipendenza da sostanze psicoattive’, che si è svolto ad ottobre presso il Teatro della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso. L’evento rientra nella VI Conferenza nazionale sulle Dipendenze ‘Oltre le fragilità’, iniziativa coordinata dall’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR (IFC) e voluta dal ministro per le Politiche Giovanili, Fabiana Dadone, che si svolgerà a Genova il prossimo 27 e 28 novembre. ‘Nella mia esperienza, laddove sia possibile una anamnesi attenta e particolareggiata- prosegue il dottor Libianchi- il pregresso consumo di stupefacenti (soprattutto di cocaina) è frequentissimo, anche se non sempre tale da potersi diagnosticare una vera e propria dipendenza’. Al 10 novembre 2021, intanto, nelle 189 carceri italiane per adulti sono presenti 54.307 persone detenute, di cui 2.283 donne e 17.315 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 50.851 posti. ‘Siamo certamente di fronte ad una ripresa del fenomeno del sovraffollamento- commenta Libianchi- formato da persone che hanno anche posizioni giudiziarie differenti. Basti pensare che ben 16.547 detenuti (il 30,4%) hanno avuto una sentenza non definitiva e di questi 8.758 (il 16,1%) sono addirittura in attesa di primo giudizio, per cui potrebbero essere scarcerati anche domani. Solo 37.440 (il 68,9%) hanno un giudizio definitivo da scontare e possono essere ammessi alle misure alternative, laddove possibile’. Quanto alle misure alternative al carcere, come è noto, sono di diverse tipologie: affidamento al servizio sociale, detenzione domiciliare e semilibertà, per un ‘totale, al momento, di 30.585 soggetti coinvolti - fa sapere il presidente di Co.N.O.S.C.I. - ci sono, inoltre le misure di comunità, come la ‘messa alla prova’, per un totale di 27.784 persone. Infine, ci sono altri 13.335 soggetti in carico agli Uffici per l’esecuzione penale esterna del ministero della giustizia (Uepe) con misure diverse’. Tornando al tema al centro della VI Conferenza nazionale sulle Dipendenze, come si legge sul sito della Presidenza del Consiglio dei ministri, l’evento è nato per offrire al Parlamento tutti gli strumenti e le informazioni necessarie per cambiare la vigente legislazione antidroga (art. 1, D.P.R. 309/1990) e adottare il nuovo piano d’azione italiano sulle dipendenze da sostanze. Per raggiungere questo obiettivo sono stati coinvolti, in sette tavoli tecnici, circa 150 esperti ed esperte di settore. Ma in cosa consiste esattamente la custodia attenuata per persone detenute tossicodipendenti? ‘È una forma di trattamento penitenziario avanzato in cui, a fronte della già prevista applicazione del regolamento penitenziario, si favoriscono interventi sanitari e specialistici per un migliore recupero della persona. In questo senso- spiega il dottor Libianchi alla Dire- l’attenuazione dell’impatto con il carcere consiste nella riduzione delle caratteristiche strutturali, funzionali e relazionali tipiche della privazione delle libertà personali del carcere. La custodia attenuata può essere realizzata in idonei reparti o sezioni di istituti più grandi (SeATT) oppure in istituti a questa dedicati (ICATT)’. Tale formulazione trattamentale deriva direttamente dal Testo Unico sugli Stupefacenti (DPR 309/90), che all’art art. 96 cc. 3 e 4 prevede espressamente che la persona detenuta e tossicodipendente ha diritto a ricevere ‘le cure mediche e l’assistenza necessaria all’interno degli istituti carcerari a scopo di riabilitazione’ in ‘reparti carcerari particolarmente attrezzati’. ‘Nel D.P.R. 309/90 - spiega il presidente del Coordinamento Nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane - è più volte ribadito che la nuova proposta di un carcere non più inteso solo quale struttura repressiva e di contenimento, ma soprattutto di occasione di trattamento della persona tossicodipendente o alcoolista, deve contemplare un modello peculiare e ripetibile, sia pur nei limiti delle differenze strutturali tra carceri. Una detenzione che utilizzi strutture edilizie più vivibili, pur sempre nel rispetto delle norme di sicurezza, ma che possano rispondere maggiormente ai requisiti della territorialità, assolvere in modo più completo alle esigenze terapeutiche, alla formazione scolastica e professionale, alle attività ricreative, culturali, sportive e artistiche. La bassa capienza rappresenta un altro prerequisito e un’ottima risposta al tipico sovraffollamento delle carceri, che da solo determina un rallentamento o addirittura una precondizione fallimentare verso qualsiasi tentativo terapeutico e riabilitativo’. I programmi socio-riabilitativi per detenuti alcol-tossicodipendenti, quindi, secondo l’esperto dovrebbero prevedere ‘sia un’organizzazione disciplinata della vita quotidiana, sia attività che comportino un progressivo investimento delle energie in senso proattivo- sottolinea Libianchi- verso percorsi che impediscano la recidiva tossicomanica e giudiziaria. Per l’avvio verso questo tipo di programmi si ritiene irrinunciabile un’azione di filtro dei pazienti che permetta di differenziare i soggetti che possono accedere subito alla custodia attenuata da quelli che necessitano invece di un ulteriore periodo di preparazione al programma o di altri tipi di programma socio-terapeutico. La stessa struttura edilizia degli istituti (o sezioni) sarà tale da rappresentare un valido supporto alle attività socio-riabilitative del tossicodipendente e una confortevole logistica interna dovrà essere prevista per le attività ludiche, terapeutiche di gruppo e singole, lavorative e con la possibilità di disporre di opportuni spazi verdi’. Trattamentale viene considerata anche la ‘cella’ stessa (o meglio la ‘stanza di pernottamento’), quale spazio personale del detenuto, che dovrà prevedere un ‘migliorato rapporto tra superficie e occupanti’, così come saranno infine valorizzati i momenti di socializzazione ‘come quello del pasto, con una cucina e mensa possibilmente autogestita, e le sale colloquio con i familiari, che contempleranno una sicurezza attenuata’. La custodia attenuata rappresenta quindi la realizzazione dell’ipotesi di una struttura penitenziaria dedicata per persone detenute alcol-tossicodipendenti, dove vi sia un particolare clima trattamentale e la presenza di équipe polispecialistiche strettamente connesse e coordinate nell’ambito delle Unità Operative di Medicina Penitenziaria. ‘L’ammissibilità al programma terapeutico dell’ICATT - prosegue ancora Libianchi - è un prerequisito fondamentale per l’inizio del trattamento e questa richiesta, assieme alla documentazione personale del detenuto (cartella clinica, dati giuridici, relazioni comportamentali, ecc.) sarà valutata per l’ammissione al programma. I detenuti alla prima esperienza carceraria saranno favoriti nella selezione. Soggetti portatori di importanti patologie psichiatriche o fisiche o in trattamento sostitutivo con metadone o farmaci simili, verranno indirizzati verso programmi terapeutici più appropriati al loro stato di salute. Irrinunciabile sarà anche una opportuna opera di formazione specifica del personale penitenziario nei confronti del progetto. A tale proposito basti pensare al ruolo della direzione, della polizia penitenziaria e del personale giuridico-pedagogico che molto raramente ha avviato processi formativi project-oriented’. Ad oggi in Italia le strutture penitenziarie di trattamento attenuato sono distribuite in tutto il territorio nazionale e presentano caratteristiche differenti a seconda della loro finalità trattamentale. Dall’ultima rilevazione ufficiale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria risalente al 2015, risultano 29 le strutture variamente caratterizzate. Per la custodia attenuata dei detenuti tossicodipendenti, a fronte di una capienza di 635 posti, ne risultano occupati poco più della metà: 340. Gli istituti a custodia attenuata (o ICATT, carceri di piccole dimensioni interamente dedicati) sono attualmente tre: Eboli, Terza Casa Circondariale di Roma Rebibbia, Giarre. Le Sezioni di custodia attenuata (o SeATT, annesse a grandi carceri) sono cinque: Milano San Vittore, Torino, Genova Marassi, Padova Due Palazzi. Le custodie attenuate per detenuti comuni sono venti: Laureana di B., Paola, Carinola, Civitavecchia CR, Avezzano, Pescara, Larino, Teramo, Biella, Fossano, Torino (2), Genova, Imperia, Altamura, Firenze, Gorgona, S. Gimignano, Siena, Volterra, Orvieto. Gli istituti a Custodia Attenuata per (detenute) madri (o ICAM) sono cinque: Lauro, Milano S. Vittore, Torino, Senorbì (CA). Le Sezioni a custodia attenuata femminili sono 2: Teramo e Torino. Dal 2008, intanto, la medicina penitenziaria è stata trasferita nelle competenze delle Regioni. Qual è la situazione oggi? ‘Come abbiamo visto per il progetto della custodia attenuata, anche per l’intero ‘pacchetto’ della medicina penitenziaria l’attenzione del sistema sanitario (Regioni, ASL) è senz’altro diminuita- commenta Libianchi- accanto a mancati incrementi nelle dotazioni organiche, nella messa a disposizione di fondi e soprattutto nell’applicazione di modelli operativi efficaci. Oggi siamo di fronte a modelli operativi differenti e non interoperabili tra Regioni e tra le differenti ASL; ciò va a scapito dell’uguaglianza di trattamento delle persone detenute, che tra un carcere e l’altro possono ricevere tipi di trattamenti anche molto differenti. Da alcuni provengono richieste di aumentare i LEA (Livelli essenziali di assistenza) e di crearne di specifici per i cittadini detenuti, ma questa soluzione appare poco congrua, considerando che il transito delle competenze sanitarie è stato realizzato proprio per ottenere un’uguaglianza tra le due popolazioni. Basterebbe che tutti i LEA previsti fossero applicati realmente’. Altre soluzioni, secondo il presidente di Co.N.O.S.C.I., potrebbero essere la ‘depenalizzazione di alcuni reati droga-correlati, un maggior ricorso a pene amministrative e non solo carcerarie, insieme alla semplificazione nell’applicazione delle misure alternative per i tossicodipendenti diagnosticati e indirizzati verso le comunità terapeutiche’. Per il progetto della custodia attenuata, infine, è necessaria una ‘dettagliata revisione delle risorse, sia strutturali sia organizzative, unitamente ad una ‘rifondazione’ attualizzata alla normativa attuale. Una volta avviato il progetto- sottolinea Libianchi- sarà soltanto attraverso un rigoroso monitoraggio e ad una valutazione degli esiti di questo trattamento che ci potranno essere resi disponibili i dati necessari per ottimizzare i percorsi organizzativi. Ovviamente viene richiesta una maggiore dedizione al tema e una maggiore ‘leale collaborazione interistituzionale’, che non sempre è stata presente’. Dal 2019 si muove però proprio in questa direzione, presso l’Istituto superiore di Sanità, il ‘primo nucleo di studio e proposta in tema di medicina penitenziaria’, insieme alle tre maggiori università di Roma (Tor Vergata, Cattolica e Sapienza), di Padova e di Napoli (Federico II) e alla nostra associazione’, conclude infine l’esperto. Parlare di salute con detenute e poliziotte, parte il progetto “Liberalamente” di Giulia Borraccino consumatore.com, 13 novembre 2021 Un progetto dedicato alle donne dentro le carceri italiane. Il 3 novembre è stato sottoscritto il protocollo d’intesa che dà il via al programma di prevenzione delle malattie fisiche e psicologiche che implicano la sfera femminile. Non sono passate inosservate all’opinione pubblica le rivolte in carcere che dall’inizio della pandemia hanno preso piede in alcuni istituti circondariali. E tristemente leggiamo le notizie di violenze ed abusi ai danni dei detenuti, che riescono ad emergere grazie alle testimonianze dei familiari. E queste sono solo fotografie occasionali di ciò che vuol dire “abitare” quotidianamente in istituto penitenziario. La vita in carcere è dura. Quando si parla di detenzione è facile affibbiare l’etichetta dei buoni e dei cattivi, in base alle proprie idee. Ma bisogna tener presente che si tratta sempre di persone, inserite, per propria volontà o meno, in un contesto difficile che spesso viene emarginato e rifiutato dalla società. E lì, partendo dal presupposto delle buone intenzioni, sono tutti sulla stessa barca, detenuti ed operatori. Non si deve dimenticare che chi lavora in carcere non sono solo gli addetti alla sorveglianza armati, ma anche infermieri, operatori socio-sanitari, addetti alla cucina, amministrativi etc. Tutti che girano intorno ad un luogo dove nessuno vorrebbe stare, dove la libertà negata traspira nell’aria, anche se si può entrare ed uscire. Quindi, almeno quando si parla di benessere psichico e fisico, non ci sono troppe barriere tra chi sta da una parte e dall’altra delle sbarre. Di questo se ne sono rese conto anche le istituzioni. A seguito di un protocollo d’intesa tra fra Atena Donna e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, sottoscritto dalla Presidente della onlus, Carla Vittoria Maira, e dal Provveditore regionale di Lazio, Abruzzo, Molise e Campania, Carmelo Cantone, ha preso avvio il progetto #Liberalamente, dedicato a tutte le donne presenti negli istituti penitenziari. Il progetto prevede una serie di incontri con medici e specialisti per parlare ed affrontare il tema delle malattie legate all’essere femminile. Agli incontri parteciperanno detenute, poliziotte ed operatrici, nella stessa aula e nello stesso ruolo di discenti. Carla Vittoria Maira, presidentessa della onlus Atena Donna: “Durante il complesso periodo che abbiamo vissuto con il lockdown, perdendo la nostra quotidianità abbiamo percepito la limitazione dello spazio e della libertà e questo ci ha fatto riflettere su quanto queste sensazioni possano essere esasperate per le donne che vivono quotidianamente questa condizione”. E così per una volta il loro essere donna mette dalla stessa parte della barricata chi è privato della libertà e chi deve assicurarsi che questa libertà venga sottratta. Il ministero della Giustizia annulla tutti i bandi relativi a vitto e sopravvitto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 novembre 2021 “Dopo 90 anni potrebbe finalmente essere modificato (e migliorato) il servizio del vitto e del sopravvitto per la popolazione detenuta”, rivela pubblicamente la garante dei detenuti del comune di Roma Gabriella Stramaccioni che si è attivata durante questi anni per denunciare i bandi di appalto sull’erogazioni di questi servizi per la popolazione detenuta del carcere di Rebibbia. Ed ha ragione. Dopo l’annullamento, come riportato da Il Dubbio, a seguito della sentenza della Corte dei Conti e la promozione del nuovo bando del provveditorato del Lazio, Abruzzo e Molise separando il servizio di vitto (a carico dello Stato) da quello del sopravvitto (a carico dei detenuti), man mano, da come si evince dal sito del ministero della Giustizia, sono stati annullati i bandi di tutti gli altri provveditorati. Come ricorda sempre la garante Stramaccioni, fino ad ora i due servizi venivano affidati alla stessa ditta producendo gravi danni per la salute delle persone detenuta con somministrazione di cibo scadente ed a costi esorbitanti per quanto riguarda il sopravvitto. Un cambiamento significativo che va nella giusta direzione e che la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha accolto e rilanciato, concretizzando ciò che aveva preannunciato in risposta al question time della senatrice Margherita Corrado, riguardante, appunto, l’affidamento del servizio per il vitto dei detenuti e internati. Si dà, così seguito, anche alla raccomandazione urgente inviata dal Garante nazionale delle persone private della libertà, volta a fissare negli istituti penitenziari un livello qualitativo del vitto che garantisca il diritto alla salute e a una sana alimentazione delle persone ristrette. La raccomandazione, condivisa con i Garanti regionali interessati e con la Garante dei detenuti di Roma, è stata formulata a partire dalla recente pronuncia della Corte dei Conti, che ha negato l’approvazione dei contratti che prevedevano un unico fornitore per il vitto e il sopravvitto in Istituti del Lazio, Abruzzo e Molise. Il Tribunale del lavoro: “Anche i detenuti hanno diritto alla Naspi” di Andrea Gianni Il Giorno, 13 novembre 2021 Il Tribunale condanna l’Inps: sulla disoccupazione no a trattamenti differenziati rispetto agli altri cittadini. Anche i detenuti che hanno lavorato all’interno del carcere, per l’amministrazione penitenziaria, hanno diritto a ricevere la Naspi quando restano disoccupati. Un principio sancito dal Tribunale del lavoro di Milano, che ha condannato l’Inps a versare l’indennità di disoccupazione a un detenuto che, assistito dalla Cgil, ha vinto il primo round della battaglia legale. “Va osservato che la peculiarità del lavoro penitenziario non può consentire l’introduzione di un trattamento differenziato tra i detenuti e gli altri cittadini in materia di assicurazione contro la disoccupazione”, si legge nella sentenza. Il Tribunale, inoltre, evidenzia che “il lavoro penitenziario alle dipendenze del ministero della Giustizia e quello libero subordinato sono assimilabili: pertanto non possono sussistere ragioni per escludere il diritto alla Naspi qualora ricorrano i presupposti previsti dalla normativa specifica”. Una sentenza che, per la Cgil, scrive “una pagina importante per la dignità del lavoro e per il riconoscimento di una funzione realmente rieducativa della pena”. Il detenuto aveva lavorato in carcere per quasi due anni come addetto alla consegna e alla gestione della spesa e come cuoco. “Sono molto contento perchè questa è una battaglia di civiltà - spiega - spero che questa battaglia possa essere utile anche per tutti gli altri lavoratori detenuti che hanno subito la stessa ingiustizia da parte di Inps”. Al centro del ricorso, seguito dagli avvocati Gariboldi e Marcucci, la circolare dell’Inps del marzo 2019 che ha escluso dall’indennità chi ha lavorato durante la carcerazione. “La Corte di Cassazione ha affermato che questa attività lavorativa, legata alla funzione rieducativa e di reinserimento sociale, prevede una graduatoria per l’ammissione al lavoro - specificava l’Insp nel 2019 - ed è soggetta a turni di rotazione e avvicendamento. Questi non possono però essere assimilati ai periodi di licenziamento che danno diritto all’indennità di disoccupazione”. Ai detenuti che lavorano all’interno e alle dipendenze dell’istituto penitenziario, quindi, “non può essere riconosciuta la prestazione di disoccupazione in occasione dei periodi di inattività. L’indennità di disoccupazione da licenziamento spetta invece nel caso in cui il rapporto di lavoro sia stato svolto con un datore di lavoro diverso dall’amministrazione penitenziaria”. Considerazioni ribaltate dal Tribunale di Milano. “La sentenza - spiega la Cgil - dimostra il carattere discriminatorio della scelta dell’Inps”. I danni del populismo penale. Casellario dei veleni che hanno intossicato la giustizia di Luciano Violante Il Foglio, 13 novembre 2021 Può accadere di passare 1290 giorni chiusa in una cella con l’accusa di due omicidi, essere condannata prima all’ergastolo, a 30 anni, e poi essere assolta con formula piena. È accaduto a Daniela Poggiali, per i giornali l’infermiera killer. Lorenzo Necci precipitato dal vertice delle ferrovie al carcere di La Spezia, fu sottoposto a più di 40 diverse inchieste e venne sempre assolto; l’ultima volta dopo la sua morte. Antonio Bassolino ha trascorso come imputato circa venti anni della sua vita; poi è stato assolto da tutto. Calogero Mannino ha passato nove mesi in carcere e tredici agli arresti domiciliari con l’accusa di aver gestito la trattativa tra lo stato e la mafia. Assolto definitivamente anche lui con formula piena. Giuseppe Gullotta confessò sotto tortura di essere l’assassino di due carabinieri. Ha passato in carcere 22 anni della sua vita. È stato pienamente assolto nel processo per revisione. La giustizia penale non è solo questo, ma è anche questo. Prendeteli, impiccateli e tutto andrà al suo posto. Una strofa di Eustache Des Champes, poeta medioevale francese, suona così: “Larrons a Dieu, qui faignez divers maux / Trainez soyez a queues de chevaux / Et puis apres panduz a un gibet/Advisez Y, baillis et senechuaux/prenez, pandez et ce sera bien fait” (Mascalzoni sacrileghi che commettete svariati delitti / siate trascinati legati alle code dei cavalli / e dopo appesi ad una forca/ siano avvertiti i balivi e i siniscalchi / prendeteli, impiccateli e tutto andrà al suo posto). La nobiltà difendeva ferocemente la struttura sociale che la privilegiava e perseguitava i miserabili che vivevano di espedienti e di piccoli furti. Alcuni letterati dell’epoca, Des Champs era tra loro, si fecero portatori della paura e della emarginazione nella quale vivevano i più poveri. Dopo sette secoli, nelle nostre società, sottoposte a un processo di modernizzazione sempre più impetuoso, tutto ciò permane. Resta dominante un diritto penale di origine arcaica fondato sulla minaccia di sofferenze come reazione al delitto e come strategia per l’ordine nella società. L’invasività del diritto penale nella vita collettiva genera autoritarismo e ribellismo. Tutte le indagini penali, anche quelle meno rilevanti, hanno un carattere totalizzante per la loro gravità simbolica: la superiorità infinita del giudicante rispetto al giudicato, un nucleo etico, risalente all’antica confusione tra reato e peccato, il potere di stabilire il confine tra libertà e prigionia, la sacralizzazione delle vittime, che chiedono, a volte in modo spettacolare, una giustizia modellata sulle proprie aspettative. Questa condizione è favorita da alcuni fattori oggettivi e da alcuni processi politici. Primo fattore oggettivo. Le grandi visioni storiche del mondo, quella marxista e quella liberale, non riescono a leggere la complessità contemporanea e la secolarizzazione ha ridotto il peso delle religioni nella individuazione dei valori guida della società. Il giuridico resta, in base alle sue specificità regolatrici, il criterio dominante per la regolazione nella società e nel giuridico è destinato a prevalere il penale che costituisce da sempre la cintura di sicurezza di ogni branca del diritto. Un secondo fattore oggettivo riguarda la debolezza delle politiche sociali. Nel disegno costituzionale l’ordine nella comunità dovrebbe essere garantito dalle politiche sociali. Le difficoltà di queste politiche, che purtroppo hanno costi immediati e benefici visibili ritardati, fanno crescere il ruolo della minaccia penale nella società. Valga il caso del contrasto alle organizzazioni mafiose. È finito il tempo della impunità per quelle organizzazioni. Esse tuttavia si dimostrano capaci di riprodurre i propri gruppi dirigenti con una rapidità superiore a quella impiegata dalle organizzazioni legali. Evidentemente permangono nella società le condizioni economiche ed educative che permettono il riprodursi di quelle affiliazioni. Il terzo fattore oggettivo sta nell’abdicazione della politica. La politica è allo stesso tempo soggetto regolante e soggetto regolato. Pone i confini dell’azione della magistratura e assoggetta sé stessa all’azione della magistratura. Nelle democrazie contemporanee ordinamento giuridico e ordinamento politico sono confinanti; pertanto a ogni arretramento dell’uno corrisponde un avanzamento dell’altro. È espressione della sovranità della politica la definizione del confine tra i due ordinamenti. Il Parlamento ha il potere di indicare i confini del giuridico attraverso la definizione delle regole per il funzionamento del paese. I magistrati, applicando quelle regole, limitano il potere politico, dal quale sono indipendenti. La determinazione del confine è un esercizio proprio della sovranità della politica. Quando la politica non esercita questa funzione, come accade in Italia, con alterne vicende, a partire dai processi di Mani Pulite, il confine scompare, diritto e politica si confondono, il diritto si scioglie in un contenitore di opzioni sostanzialmente politiche tutte egualmente praticabili. Se la politica non riesce a svolgere le proprie funzioni ordinatrici, la legge penale declina perché perde la capacità di esprimere una regola; spesso sancisce solo la vittoria di una ideologia su quella contrapposta. L’abuso del diritto penale rischia di soffocare la vita sociale e di ingessare la società tra sospetti e minacce di una società iperpenalizzata dove scompare la fiducia e regna il sospetto e tutti sono solo potenziali trasgressori. La minaccia del processo inoltre cerca di guadagnare attraverso l’intimidazione quello che la politica dovrebbe acquisire attraverso la capacità di orientare i comportamenti. L’abuso del penale segna, per esprimersi in termini gramsciani, una crisi di egemonia. Il problema non è solo italiano. La Republique penalisée è il titolo di un libro pubblicato in Francia nel 1996; di abuso della giustizia penale si occupano gli studiosi di lingua tedesca che parlano di Juristenstaat e quelli anglosassoni che ricorrono alla espressione Juristocracy. Ma Italia sono presenti alcune specificità di natura politica. Innanzitutto la quantità delle norme incriminatrici; non siamo in grado di sapere con esattezza quante sono e molte delle quali, comunque approvate con formulazioni vaghe e indeterminate. Sembrano sciatterie ma forse non sempre lo sono. Nei campi più sensibili per l’opinione pubblica, come la corruzione, a esempio, l’ansia di rappresentare le istanze punitive dei cittadini induce le maggioranze parlamentari alla costruzione di ipotesi fortemente indeterminate non per punire, ma per permettere di investigare. Le norme sostanziali indeterminate, intrecciate a quelle processuali, funzionano come “mandati a conoscere”, come autorizzazione a introdursi nella vita dei cittadini e delle imprese, meglio se appartenenti alle élites, che a volte sembrano diventate le nuove “classi pericolose”, come gli oziosi e i vagabondi dei codici dell’Ottocento. I “mandati a conoscere” in un sistema fondato sull’obbligatorietà dell’azione penale diventano strumenti di investigazione illimitata, servono per controllare occhiutamente quelle attività lecite sulle quali grava il permanente sospetto di illecito, dai contratti pubblici alle attività dei partiti. L’intreccio tra procure della Repubblica e mezzi di comunicazione chiude il cerchio perché attiva i professionisti della “pubblica riprovazione sociale”, sulla carta stampata e sui social, sino al dileggio delle persone coinvolte, anche se del tutto estranee. Si ricordi il caso, vergognoso, di una ministra dello Sviluppo economico, del tutto estranea a un’indagine penale in corso, costretta alle dimissioni per effetto di una clamorosa campagna di stampa fondata sulle intercettazioni di conversazioni con il suo compagno assolutamente private ed estranee alle indagini. Il “mandato a conoscere” è frutto dell’ideologia del punizionismo. In un primo tempo, a partire dai primissimi anni Novanta, mentre si svolgevano i processi per corruzione, Tangentopoli, si manifestò un entusiasmo punitivo di massa, sollecitato dagli spiriti animali dell’antipolitica: demagogie, populismi, sfiducia pregiudiziale in tutto ciò che è pubblico, beatificazione delle Procure, il processo e la pena come lavacri per l’intera società. La comunicazione tivù, specie quella delle reti commerciali, attivava l’entusiasmo punitivo mostrando gabbie, manette e cortei plaudenti ai pm e alla giustizia penale. La parte colpita da quelle indagini, successivamente, individuò il malessere, ne intravide le conseguenze per l’equilibrio democratico, ma lo combatté con una pratica della propria impunità e della delegittimazione della magistratura che tolse credibilità ai suoi tentativi. Un blocco mediatico, sociale e politico ha eletto la giurisdizione penale come terreno prioritario per il governo del paese. Si è costituita così una “società punitiva” che si avvale di criteri basati essenzialmente sulla centralità della investigazione penale nella vita della nazione. Della società punitiva fanno parte cittadini comuni, mezzi di comunicazione, forze sociali, settori del mondo politico. La società punitiva adora il vitello d’oro del codice penale e pratica il culto del populismo penale. Il tema è stato affrontato dall’attuale Pontefice in maniera diretta e in diversi incontri con studiosi del diritto penale, in particolare nel 2014 e nel 2019. Parlando della “degenerazione della giustizia penale” nel 2014, il Papa colse il rapporto tra deformazioni della giustizia penale e il populismo. Disse: “La questione è rilevante perché attiene alle radici delle attuali deformazioni della giustizia criminale, tanto nelle aule di giustizia quanto in quelle parlamentari, e riguarda la riflessione sul populismo penale, che investe la società, la politica, i mezzi di comunicazione e l’amministrazione della giustizia”. Il populismo penale è stato favorito dalla sostituzione delle categorie dell’etica pubblica con quelle del diritto penale: ciò che non è penalmente rilevante diventa non rimproverabile. Quando e perché il diritto penale ha soppiantato l’etica pubblica? Nei primi decenni di vita della Repubblica hanno dominato alcune grandi etiche pubbliche collettive, cattolica, comunista, repubblicana, liberale. Si sono scontrate in particolare le prime due: quella comunista, indurita dai principi del centralismo democratico e dalla concezione eroica dell’impegno politico, quella cattolica ammorbidita dalle contingenti esigenze del governo e da una visione tollerante delle umane debolezze. Tuttavia le diverse etiche, pur avverse l’una all’altra, avevano alcuni comuni denominatori: una visione del futuro, la dignità delle istituzioni, la necessità del dialogo tra avversari, l’opportunità del compromesso, il primato del partito e della politica. Ne derivava il primato della Costituzione e il valore delle istituzioni rappresentative. La vitalità dei partiti si proiettava nella sfera dei cittadini e dava sostanza all’etica pubblica. Non mancarono eccezioni, anche rilevanti, a questi principi, ma si trattava appunto di eccezioni, che, proprio per il loro carattere derogatorio, indirettamente confermavano il primato dei principi etici che regolavano la sfera pubblica. Dopo l’assassinio di Aldo Moro comincia la statalizzazione dei partiti; il conseguente allontanamento dai cittadini svuota le comunità politiche che erano il fondamento dei gruppi politici dirigenti. Il partito-comunità, che viveva attraverso la discussione è stato sostituito dal partito-piedistallo che vive di un codice binario. Si dice Sì o si dice No, attraverso una catena caporalizzata di comandi, imitazioni, ripetizioni, obbedienze che partono dall’alto verso il basso. Non è prevista l’analisi. In queste condizioni l’etica non può essere quella della comunità, che si è dissolta, e non può essere quella del leader, perché l’etica di un collettivo non può essere determinata da una sola persona. Nel vuoto delle formazioni produttive di etica pubblica emerge il codice penale come unico depositario dei parametri generali del giusto e dell’ingiusto. La legislazione penale, faticosamente emancipatasi dai condizionamenti etici, diventa paradossalmente essa stessa sostitutiva dei precetti morali, dando un fondamento apparentemente autorevole alla iperpenalizzazione. Alla crescita smodata della giustizia penale ha corrisposto il progressivo spostamento della magistratura dalla periferia al centro del sistema politico costituzionale. La magistratura ordinaria è il potere che più si è più trasformato nei sessant’anni di vita repubblicana. All’interno della magistratura ordinaria, il pubblico ministero è la figura che si è potenziata oltre ogni possibile previsione dell’Assemblea Costituente. Non è stato solo uno spostamento tecnico. I 21 magistrati uccisi da terrorismo e mafia, le conseguenze politiche delle inchieste sulle corruzioni nei primi anni Novanta, l’interesse nel mondo politico a utilizzare le inchieste penali per la lotta politica e del mondo giornalistico a utilizzarle per finalità scandalistiche hanno consegnato a una parte della magistratura il convincimento di potersi costituire come protettrice permanente della Repubblica e di dover conseguentemente svolgere una missione di pulizia morale del paese. Questo convincimento ha fatto ritenere al magistrato che non dovesse limitarsi ad accertare le eventuali responsabilità, ma dovesse essere titolare di un controllo diffuso di legalità, inteso come verifica preventiva che la legalità non sia stata per caso violata. Ma attribuire al magistrato il controllo di legalità significa trasferire al potere giudiziario la sovranità propria del potere politico. Il controllo della legalità è, secondo i casi, compito della politica, della pubblica amministrazione e della polizia; compito del magistrato invece è l’accertamento delle responsabilità. In un saggio di qualche anno fa, Problemi attuali della giustizia penale (Jovene editore) due autorevoli processualisti quali Rigano e Grevi fecero l’esempio di un pm che, passando per una strada avverta odori sgradevoli, scorga fumi densi e ricordi di aver letto che proprio in quella zona c’è una diffusione anomala di rumori disturbanti. In questo caso, sostengono i due studiosi, il pm dovrebbe attivarsi personalmente per la ricerca di “eventuali notizie di reato”. Ma la notizia di reato che consente al pm di avviare indagini preliminari a norma degli artt. 330 ss, cpp può essere eventuale o dev’essere necessariamente certa? Se compito dei magistrati fosse il controllo di legalità, l’ipotesi dei due studiosi sarebbe condivisibile. Ma non è così. L’ordinamento assegna al pm incisivi poteri di intervento nei confronti di diritti fondamentali dei cittadini solo in presenza della notizia non palesemente infondata che un reato è stato commesso. Solo un presupposto ben definito, la effettiva, e non eventuale, notizia di reato, può infatti rendere legittimo l’ampio esercizio di poteri restrittivi delle libertà della persona. La Pa, compresa la polizia di sicurezza, potendo effettuare i propri accertamenti anche casualmente, o in presenza di semplici sospetti, ha poteri di intervento assai limitati nei confronti dei diritti fondamentali. L’art. 330 cpp dovrebbe quindi essere interpretato alla luce del principio costituzionale della separazione dei poteri. Alla Pa spetta indagare se le leggi siano state violate. Al pm spetta, dopo aver acquisito la notizia affidabile che una legge penale è stata violata, compiere le indagini necessarie per accertare se la notizia sia fondata e, in caso di risposta positiva, per individuane i responsabili. Il problema è stato chiarito non per la magistratura ordinaria, ma per la Corte dei Conti dall’art. 17 della legge 102/2009 che con riferimento all’azione per responsabilità esercitabile dalle Procure presso le sezioni regionali della Corte dei Conti, ha precisato che “l’azione è esercitabile dal pubblico ministero contabile, a fronte di una specifica e precisa notizia di danno”. Le caratteristiche richieste alla notizia di danno “specifica e precisa” valgono ad evitare che l’azione di controllo si svolga un modo generico e incontrollato. Se si è sentita l’esigenza di precisare i presupposti per la notitia relativa ai poteri della Procura presso la Corte dei Conti, a maggior ragione questa esigenza dovrebbe essere presente per la magistratura ordinaria. È al complesso della giustizia penale che dobbiamo guardare, e non al diritto penale, perché il cono d’ombra della giustizia penale si proietta su gran parte delle attività nel nostro paese. Ed è la giustizia penale che, in un mondo caratterizzato dal dovere della visibilità, costituisce l’attività pubblica più visibile nel suo svolgimento. L’avviso di garanzia, l’arresto, la conferenza stampa paludata, le foto dei protagonisti, i talk show sul delitto, la pubblicizzazione di documenti e conversazioni private, le lacrime delle vittime, la lettura della sentenza segnano nel loro inesorabile succedersi quotidiano la vittoria della concretezza sull’astrazione, dell’emozione sulla ragione, della stigmatizzazione sul rispetto, di ciò che diventa vicino su ciò che resta irrimediabilmente lontano. La Costituzione tesse la tela dei diritti fondamentali attorno al rispetto della dignità di “tutti” senza eccezioni, non del solo cittadino. Invece questo sistema, per come si è configurato in via di fatto, non rispetta le persone, non rispetta la loro dignità, non le rispetta quando pubblica loro conversazioni private, quando le fa partorire in carcere, quando i processi si prolungano per 5,7,8 anni per giungere poi all’assoluzione, quando chiude nei Cpr persone che non hanno commesso alcun reato. Questa giustizia penale che considera sospetto l’avvisato, colpevole l’imputato, spregevole il condannato travolge i valori propri della nostra Repubblica. Magistratura, politica, mezzi di comunicazione sono responsabili, ciascuno per la propria parte. Ci sono stati da parte di singoli magistrati abusi ed errori, C’è certamente la responsabilità dei gruppi di potere nella magistratura che scambiano carriere contro consenso. La magistratura deve emanciparsi dai nemici evidenti e dagli amici apparenti, dagli avversari esterni e dai pericoli interni ed è necessaria quella rigenerazione morale di cui ha parlato il Capo dello Stato. Ma questa istituzione non può diventare il capro espiatorio. Sarebbe sbagliato e distruttivo per l’intero sistema democratico, che non può vivere senza una magistratura, indipendente, capace, autorevole. La magistratura, autonomamente, senza imposizioni esterne, dovrebbe adeguare i propri comportamenti all’art.54 della Costituzione, troppo spesso dimenticato nelle rituali rivendicazioni di indipendenza: “I cittadini cui siano affidate funzioni pubbliche - quindi anche i magistrati - hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Oltre ai diritti, ci sono i doveri, per tutti. Anche per i magistrati. Anche la demonizzazione della politica può avere effetti distruttivi della democrazia. In assenza della politica resta solo il governo delle armi. Ma chi svolge funzioni politiche diventi consapevole del carattere fondamentale del suo lavoro, che non consiste nel correre per vincere, ma nel correre per governare. Dal 2000 al 2020 abbiamo avuto undici crisi di governo, 25 elezioni, regionali, politiche ed europee, sei referendum abrogativi e quattro referendum costituzionali. Le forze politiche hanno dovuto scontrarsi per ben trentacinque volte, in media ogni cinque mesi. E’ mancato il tempo umano per riflettere e ricostruire per pensare e persino per governare. Il presidente Draghi ha detto il 6 ottobre scorso: “Il governo non segue il calendario elettorale”. E’ vero; il suo governo può farlo. I governi politici invece non possono prescindere dal calendario elettorale. Forse occorre proporsi il tema dell’accorpamento delle scadenze elettorali, perché la politica possa guadagnare il tempo dello studio e della riflessione. Non meno essenziale per la democrazia è la libertà di comunicazione. I punti deboli di politica, magistratura e mezzi di comunicazione sono gli stessi: nessuno dei tre rispetta pienamente la dignità delle persone. Questo è il tema da cui bisogna partire. Il Parlamento e il governo sembrano oggi aprire nuove strade. La legge delega per la riforma del processo penale e il decreto legislativo sulla presunzione di innocenza contengono molti principi ispirati al rispetto delle persone. Non mancano i problemi che potranno porsi nell’applicazione concreta di queste norme, anche per il mutamento professionale che le nuove norme comportano tanto per i magistrati quanto per gli avvocati i giornalisti. Potrebbero poi verificarsi alcun i paradossi: una persona coinvolta in un processo, ma non indagata né imputata, potrebbe avere una tutela minore rispetto a chi sia stato condannato in primo e secondo grado. C’è ancora tutta la possibilità di evitare contraddizioni imbarazzanti. Negli ultimi 3 anni ci sono state ogni anno 125 mila assoluzioni in primo grado e circa 14 mila in secondo grado, su una media di 440 mila processi. Ci aggiriamo intorno al 35 per cento di assoluzioni. Queste cifre indicano da un lato l’esistenza di un sistema fatto di garanzie che permette agli innocenti di essere assolti, dall’altro lato dimostrano anche che troppe volte, in alcuni uffici più di altri, si esercita l’azione penale senza un vaglio critico dell’effettiva possibilità di trovare riscontri nel dibattimento. La riforma spinge a superare il criterio della utilità solo eventuale del dibattimento e a legittimarne l’instaurazione solo quando gli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari consentono una ragionevole previsione di condanna. È prevista, inoltre, la non punibilità per tenuità del fatto e per esito positivo della messa alla prova, istituti questi mutuati dalla giustizia penale minorile. È ampliato l’ambito di applicazione delle sanzioni sostitutive di pene detentive brevi (sino a 4 anni di pena inflitta), irrogate direttamente dal giudice di cognizione, senza la necessità del passaggio in carcere. La riforma include anche disposizioni per il rafforzamento degli istituti di tutela della vittima del reato e per l’introduzione di una disciplina organica sulla giustizia riparativa. Il governo, inoltre, ha presentato uno schema di decreto legislativo per l’adeguamento della normativa nazionale alla direttiva Ue 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza. Tre principi interessano particolarmente in questa sede. È vietato alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non sia stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili. La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico. La persona sottoposta a indagini e l’imputato hanno diritto a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non sia stata definitivamente accertata. Nei comunicati e nelle conferenze stampa è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza. Anche i giuristi devono interrogarsi sulle proprie responsabilità. Sono quelli che, mutuando uno studio di Massimo Donini, possono definirsi “giuristi che non decidono”, diversi dai magistrati o dagli avvocati stretti nel viluppo delle decisioni e delle scadenze. I giuristi che non decidono alimentano la scienza giuridica e svolgono la propria funzione insegnando, spiegando, studiando, ricostruendo. Non possono ridursi a spettatori critici delle acrobazie della legge. E tuttavia non è semplice per la ragion giuridica dialogare con la ragion politica. Dagli anni Ottanta del secolo scorso tutto quanto è accaduto ha contribuito a far sì che il processo di produzione delle regole, nazionale, regionale europeo, parlamentare, costituzionale, giurisprudenziale, diventasse sempre più veloce e sommario all’inseguimento della realtà senza pause di riflessione. Ciò che appariva urgente ha spesso prevalso su ciò che era necessario. Non raramente hanno predominato pensieri privi di idee. Proprio questa aporia deve spingere i “giuristi che non decidono” a svolgere un ruolo. La scienza giuridica non può ridursi a esegesi. Piuttosto deve costruire il sistema, ricomporre i frammenti e uscire dai labirinti. Può farlo solo lei. Il diritto penale della Costituzione prevede il rispetto della persona che entra nel processo, l’attenzione per il principio di ragionevolezza, la garanzia della prevedibilità delle conseguenze giuridiche del proprio operato, la disintossicazione dell’ordinamento dall’eccesso di sanzioni. Sono i cardini di un sistema penale costituzionalmente corretto e fondano la legittimazione dell’ordinamento. La irrinunciabilità di questi principi chiama la cultura giuridica a esercitare un proprio ruolo nel dibattito pubblico, contribuendo al consolidamento dei valori costituzionali come regole di civiltà. Forse oggi uno dei compiti della scienza giuridica è favorire il passaggio dalla giustizia penale del nemico alla giustizia penale del cittadino. È quello che alla fin dei conti ci chiede la Costituzione. “L’uso selvaggio dei trojan lede i diritti: lo sanno pure i giustizialisti” di Davide Varì Il Dubbio, 13 novembre 2021 Intercettazioni, per il costituzionalista Francesco Saverio Marini, bisogna limitare l’uso indiscriminato della micro-spia che invece dovrebbe essere “assolutamente eccezionale”. L’uso dei trojan “richiede un ripensamento e un’attenta riflessione, perché per come oggi è disciplinato incide troppo invasivamente sulla vita privata di tutti i cittadini, ledendo la riservatezza delle comunicazioni personali sancita dall’articolo 15 della Carta costituzionale. È assolutamente necessario trovare un nuovo e più equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali che vengono in rilievo, potenziando i limiti giuridici all’uso del trojan; il suo utilizzo deve essere assolutamente eccezionale. Oggi la segretezza delle comunicazioni rischia di essere gravemente compromessa e nessuno, pur non avendo commesso illeciti, può escludere di non essere intercettato. Gli stessi giustizialisti sono i primi ad esserne consapevoli e ne subiscono le conseguenze”. Così il costituzionalista Francesco Saverio Marini, professore di Diritto pubblico all’Università di Roma Tor Vergata, che all’Adnkronos individua i punti essenziali su cui a suo giudizio è necessario intervenire dal punto di vista normativo. Tra gli interventi, Marini indica in primo luogo la necessità che siano rideterminati i reati per i quali è possibile ricorrere alla micro-spia: “Una cosa è intercettare nell’ambito di reati di mafia o terrorismo internazionale, un’altra estendere a quelli contro la Pubblica amministrazione anche a titolo colposo, non doloso, includendo anche i meri incaricati di pubblico servizio”. Con che conseguenza? “Che io semplice cittadino - risponde - potrei incappare senza saperlo nel trojan inserito sul telefono di un dipendente della pubblica amministrazione”. In secondo luogo, secondo il costituzionalista, “va limitata la possibilità d’uso di questi strumenti, che vanno utilizzati solo per il fine per il quale sono stati autorizzati. Non in modo indiscriminato, ma circoscritto a situazioni di luogo e tempo. Vanno, poi, ampliate le garanzie processuali, prevedendo il coinvolgimento di un organo collegiale. Più in generale - prosegue - nella prassi si incorre talvolta in un errore di fondo sullo strumento: il trojan dovrebbe, infatti, essere un mezzo solo di conferma delle indagini, cioè degli indizi che già individuano una colpevolezza, non di ricerca nuovi reati”. In terzo luogo, che accade nell’ipotesi in cui il magistrato autorizzi l’uso del trojan al di fuori di quanto previsto dall’ordinamento, ad esempio nel caso in cui non ci siano indizi sufficienti? “Qui ci ricolleghiamo alla responsabilità dei magistrati - risponde il giurista - Rispetto all’uso del trojan sarebbe necessario un approccio più garantista dato che si incide sui diritti fondamentali della persona. Tra l’altro andrebbero risarciti effettivamente i soggetti oggetto di intercettazioni e che poi vengono assolti. Mentre l’ordinamento oggi non garantisce un risarcimento adeguato, che dovrebbe consistere non solo in un totale ristoro delle spese di giustizia, ma anche di tutti gli effetti dannosi all’immagine e personali che l’uso del trojan ha prodotto”. Tra l’altro, afferma il professore di Tor Vergata, “l o Stato si deve assumere la responsabilità, in termini di costo vivo e diretto, dei danni gravissimi che può provocare a soggetti privati, anche attraverso la diffusione di informazioni riservate a mezzo stampa. Solitamente, non dovrebbe essere il giornalista che deve garantire il risarcimento, perché il suo mestiere è proprio quello di diffondere la notizia e di informare, ma lo Stato che deve assumersi l’onere economico del perseguimento dei reati, nel quale non può non rientrare anche il risarcimento integrale a chi è stato incolpevolmente danneggiato”. Anarchici: articoli e scritte possono davvero sovvertire l’ordinamento democratico? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 novembre 2021 Il corpo del reato è un giornale anarchico dal nome “Vetriolo”, considerato “clandestino” dagli inquirenti, anche se era reperibile su internet e quindi acquistabile da tutti al costo di due euro. Una rivista che conterrebbe, secondo l’inchiesta coordinata dalla procura di Milano e di Perugia, scritti considerati di grave istigazione al terrorismo e all’eversione dell’ordine democratico. Capi d’accusa gravi che hanno riguardato anche il 34enne spoletino Michele Fabiani. È stato tratto in arresto e sono stati disposti i domiciliari. Sì, perché è finito sotto la lente di ingrandimento dei carabinieri dei Ros il “Circolaccio Anarchico”. Parliamo di un piccolo locale dove si riuniscono i ragazzi anarchici, tra i quali appunto Fabiani. Una sede non “clandestina”, perché fortunatamente siamo in democrazia ed essere anarchici non è, o non dovrebbe, essere reato. Michele Fabiani avrebbe, quindi, istigato al terrorismo all’eversione dell’ordine democratico. Come? Per i suoi articoli sulla rivista “Vetriolo” e le scritte apparse sui muri di Spoleto. I Ros, su mandato della procura di Perugia, hanno perquisito anche la casa di Michele Fabiani. Tra i vari materiali acquisiti, come denuncia il padre al giornale La Nazione, anche la sua tesi su Hegel. Ha ripreso a studiare e sta per laurearsi in filosofia all’università di ‘‘ Roma 3’’. Materiale, probabilmente, considerato scottante per la procura. “Non stiamo parlando di semplici parole - ha voluto precisare il procuratore della Repubblica di Perugia, Raffaele Cantone -, nessuno vuole censurare il diritto di libertà di esprimersi di chiunque. Quando però questo diritto di libertà diventa uno strumento attraverso il quale soprattutto i più giovani vengono in qualche modo coinvolti in attività illecite, ovviamente siamo fuori dal diritto di libertà di parola”. Ma nel contempo, durante la conferenza stampa, ha anche aggiunto: “Agli indagati vengono contestate istigazione molto gravi, all’esito delle quali ci sono stati episodi violenti. Non abbiamo la prova che siano ascrivibili a loro, ma sappiamo che all’interno del mondo anarchico vengono raccolte”. Quindi, per stessa ammissione del procuratore Cantone, non hanno prove che le idee anarchiche pubblicamente professate tramite una rivista, non sono poi state tradotte, dagli autori stessi, in atti violenti. Non è poco. Per ora, di fatto, hanno tratto agli arresti domiciliari un ragazzo per il solo fatto di aver professato idee “sovversive” e dato un contributo alla stampa anarchica. Non è la prima volta che Fabiani e altri ragazzi anarchici spoletini finiscono in un vortice giudiziario, poi finito nel nulla. A condurre l’operazione è la stessa procuratrice di ora. La pm Manuela Comodi, nel 2007, aveva accusato Michele Fabiani e Andrea Di Nucci di aver spedito una lettera di minacce, contenente due proiettili, all’ex presidente della Regione Umbria, Maria Rita Lorenzetti. Agli altri invece a vario titolo, venivano contestati anche alcuni danneggiamenti in alcuni cantieri. A tutti veniva contestato l’articolo 270 bis, ovvero, i ragazzi erano accusati di aver costituito un’associazione terroristica di matrice anarco insurrezionalista la cui sigla sarebbe stata Coop - Fai (Contro ogni ordine politico- Federazione anarchica informale). Al processo d’appello, il teorema giudiziario è stato quasi del tutto smantellato. Per tutti e cinque i ragazzi era decaduta l’accusa di terrorismo. L’inchiesta giudiziaria, dal nome epico “Operazione Brushwood”, era stata condotta dal generale Giampaolo Ganzer dei Ros, sotto la guida della pm Comodi. Tutto finito nel nulla. Non c’erano armi, né un piano eversivo. Del Coop- Fai neanche traccia. I cinque ragazzi non erano più considerati terroristi ma due di loro, tra i quali Fabiani, erano comunque stati giudicati colpevoli di danneggiamenti a una ruspa e imbrattamento dei muri di un cantiere. Tutto qui. Lo Stato ha speso risorse e mezzi per una scritta sui muri. Da ricordare che quelle azioni anarchiche erano finalizzate per evitare la costruzione di un ecomostro (l’edificio è stato descritto così da due diverse commissioni parlamentari) all’interno delle antiche mura di Spoleto. La storia, forse, si sta ripetendo. C’è il rischio, si spera infondato, di creare la percezione che professare idee anarchiche, quindi tesi per il superamento dello Stato, sia reato. Di fatto, l’anarchico è dichiaratamente anti- sistema, non lascia e non accetta spazi per alcun tipo di delega. Non apprezzerà mai, pensiamo a Michele Fabiani stesso, questo articolo di giornale perché è parte della “stampa borghese”. L’anarchico è impermeabile a qualsiasi dialogo o apertura con le istituzioni. È portatore di un’idea di superamento dello Stato che è da considerarsi eversiva di per sé; dunque perseguibile a prescindere. Per questo motivo se a imbrattare le mura o danneggiare una ruspa lo fa un anarchico, quell’azione ha in sé la caratterizzazione eversiva. Quando l’anarchico agisce in gruppo, questo gruppo non potrà che essere un’associazione con finalità eversiva dell’ordine democratico. Se lo fa qualsiasi altro gruppo, difficilmente gli viene addebitato un capo d’accusa così grave. Detto questo, ritorniamo alla rivista incriminata “Vetriolo”. Si apprende direttamente dalla promozione fatta su internet dagli autori stessi, che in quel giornale sono pubblicate analisi e provocazioni, suggestioni e approfondimenti. Sicuramente ci sono testi durissimi contro le forze dell’ordine che si devono stigmatizzare. Ma i linguaggi violenti posso essere tradotti come istigazione al terrorismo e, addirittura, all’eversione dell’ordine democratico? Per tentare una plausibile risposta, ci viene in aiuto la sentenza della Cassazione numero 25452 del 2017: “L’anticipazione della repressione penale finirebbe per sanzionare la semplice adesione a un’astratta ideologia che, pur aberrante per l’esaltazione della indiscriminata violenza e per la diffusione del terrore, non è accompagnata dalla possibilità di attuazione del programma; si finirebbe così per reprimere idee, piuttosto che fatti”. Torino. “Musa Balde in isolamento dentro l’Ospedalettto del Cpr per una dermatite” di Giuseppe Legato La Stampa, 13 novembre 2021 Ecco il motivo dell’accusa di sequestro di persona a due poliziotti. La famiglia del giovane suicida: “Inaccettabile, vogliamo giustizia”. La famiglia di Musa Balde, il giovane ventitreenne originario della Nuova Guinea che si è tolto la vita nel Cpr di corso Brunelleschi nella notte tra il 22 e i123 maggio scorsi, vuole verità. Lo hanno detto la mamma, il papà e i sette (tra fratelli e sorelle) all’avvocato Gin Luca Vitale conferendogli la procura per assisterli. Un mandato pieno: “Chiediamo che venga fatta giustizia per il nostro Musa. Era un ragazzo modello, ci aiutava sempre. Era partito nella speranza di un futuro migliore e non è più tornato. Per noi questo è inaccettabile”. E devono essere stati in parte sollevati dal sapere, ieri, che l’inchiesta della procura sul suicidio del loro caro congiunto abbia registrato un’accelerata. Due poliziotti, un funzionario e un ispettore dell’ufficio immigrazione della Questura, sono indagati per sequestro di persona e omicidio colposo per il caso di Musa. La seconda imputazione si lega alla prima nei termini della contestazione tecnica: morte in conseguenza di altro reato. Ciò vuol dire che l’aver rinchiuso Musa nel reparto ribattezzato “Ospedaletto” ha influito sugli avvenimenti successivi che sono noti: il giovane si è impiccato. Era stato recluso in quella zona del centro per una sospetta affezione sanitaria contagiosa. E per evitare che quella strana dermatite contagiasse gli altri ospiti della struttura sarebbe stato confinato in quell’area. L’operazione sarebbe stata eseguita materialmente dai poliziotti, ma verosimilmente su indicazione di un sanitario. Ulteriori contestazioni sono state mosse ad altri tre agenti, ma per fatti diversi da quelli della morte del ragazzo che pure era arrivato a Torino dopo un brutale pestaggio subito a Ventimiglia ad opera di tre italiani. Dalla procura nulla trapela circa i dettagli dell’inchiesta che comunque è andata in parziale discovery con la notifica degli avvisi a comparire dei due poliziotti i cui interrogatori sono previsti tra pochi giorni. Certo è un’indagine delicata destinata a fare luce anche sui 57 casi di autolesionismo e tentati suicidi che hanno scosso la struttura negli ultimi due mesi e mezzo. Molti di questi “gesti anticonservativi” sarebbero stati messi in atto per un motivo chiaro: i tentativi di suicidio certificano una situazione psichiatrica incompatibile con la permanenza all’interno del centro. Quegli ospiti devono uscire. E subito. Evidentemente più di qualcosa continua a non funzionare anche dopo la morte di Musa. E in questo quadro è certo incoraggiante - ma non percepito all’esterno come sufficiente - la chiusura d’imperio del reparto cosiddetto “Ospedaletto”, quello in cui il giovane guineano si è ucciso. Definito da Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti in una relazione sullo stato dei luoghi subito dopo la tragedia di Musa “luogo non adeguato da un punto di vista dell’apporto di luce naturale e di aria, della salubrità igienica, della presenza di pulsanti di chiamata, di arredo almeno sufficiente a concedere il riposo e la consumazione di pasti”, l’Ospedaletto era un’area a se dentro il Cpr. Dodici cellette di tre metri quadri ciascuno: una struttura del tutto inadeguata e priva dei requisiti essenziali per le esigenze sanitarie. Nel rapporto stilato dal Garante “che l’alloggiamento all’interno di quest’area configuri un trattamento inumano e degradante e che tale valutazione possa essere condivisa dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu), qualora adita, esponendo così il Paese alle relative conseguenze”. Il Ministero dell’Interno ha deciso di interdire l’Ospedaletto rendendo pubblica la chiusura lo scorso 8 settembre. Firenze. Caro Nardella, Sollicciano è un’occasione perduta di Franco Corleone* e Corrado Marcetti** Il Riformista, 13 novembre 2021 Una “vergogna dell’architettura”? Il progetto originario era innovativo, ispirato alla riforma del 1975. Fu snaturato, piegato alla logica della sicurezza. Il Giardino degli incontri però resta un’opera d’arte. Sentiamo l’esigenza di intervenire su un punto preciso dell’intervista rilasciata dal Sindaco di Firenze Dario Nardella al Riformista l’11 novembre scorso. Si afferma apoditticamente che “Il carcere di Sollicciano è una vergogna dell’architettura carceraria del nostro Paese, per tutto il rispetto per chi l’ha disegnata. Quella struttura non è pensata per aiutare il detenuto in un’ottica di rieducazione e di reinserimento”. Sul complesso penitenziario di Sollicciano il discorso sarebbe lungo, a partire dalla localizzazione periferica, dall’ubicazione su terreni inadatti, dalla qualità dei materiali usati per la costruzione, dalle difficoltà di collegamento pubblico, ma non si può dimenticare che il progetto che risultò vincitore di uno degli ultimi concorsi aperti, era ispirato ai contenuti innovatori che furono alla base della riforma del 1975. Fu redatto da un gruppo di architetti che prospettarono un’articolazione degli spazi incentrata sulla giornata detentiva fuori dalla cella, da trascorrere con un impegno pieno in attività di studio e di lavoro. La realizzazione dell’opera, inaugurata nel 1982, incrociò varie emergenze e la sostanziale archiviazione dei contenuti della Riforma. Furono imposte modifiche che snaturarono il progetto. Gli anni dell’emergenza sicurezza nelle carceri calarono il sipario sui programmi e sui progetti innovatori, svuotando completamente i contenuti che avevano ispirato sia il bando che il progetto e costringendo i detenuti nello spazio minimo della cella. Quel progetto concepito con un disegno originale fu l’ultimo. Infatti si impose la stagione delle carceri standardizzate sulla logica della sicurezza e si impose la cosiddetta edilizia penitenziaria. Dopo quindici anni fu realizzato il Giardino degli Incontri progettato da Giovanni Michelucci con i detenuti autori della proposta. Un’opera d’arte unica nelle carceri italiane che costituisce un’alternativa al tradizionale meccanismo dei colloqui, di cui scardina fissità e monotonia, introducendo possibilità di movimento per detenuti e famigliari e di gioco all’aperto e al chiuso con i bambini e che prefigura uno spazio per il diritto alla affettività. La condizione attuale di Sollicciano, nella sua disastrosa fatiscenza della struttura e degli impianti, impone la valutazione sulle responsabilità della mancata manutenzione, ulteriore testimonianza e conferma del carcere inteso come discarica sociale. Immaginare di radere al suolo Sollicciano non solo non è realistico ma impedisce di pretendere un piano di recupero fondato su un serio supporto di analisi delle condizioni della struttura. Soprattutto occorre ricreare un clima di convivenza e di progettualità al fine della risocializzazione rispetto al ruolo assolutamente dominante del modello contenitivo. Ben poco è stato fatto per supportare con spazi adeguati, sia dentro che fuori il recinto, le misure alternative dell’esecuzione penale. C’è da chiedersi che senso abbia mantenere dentro il perimetro carcerario le sezioni di semilibertà, destinate a coloro che lavorano fuori durante il giorno e hanno l’obbligo di rientrare per la notte tra le mura di una prigione. Il sindaco Nardella dovrebbe impegnarsi a trovare una sede nel cuore della città per questa funzione. Abbiamo in passato suggerito una struttura nell’area di San Salvi. Per superare il sovraffollamento occorrerebbe anche premere sull’Amministrazione Penitenziaria per l’utilizzo degli edifici adiacenti al carcere di Sollicciano da destinare a una sezione giudiziaria per i detenuti in attesa del processo. Il Sindaco Nardella due anni fa propose che Sollicciano fosse intitolato a Sandro Margara; ci opponemmo non perché fosse una vergogna dell’architettura carceraria, ma perché era un carcere. Sollicciano ha bisogno di una anima e la può trovare partendo dalla bellezza del Giardino degli Incontri. *Società della Ragione **Archivio Margara Santa Maria Capua Vetere (Ce). Mattanza in carcere: 108 verso il processo di Antonio Tagliacozzi edizionecaserta.net, 13 novembre 2021 Sarà celebrata il 15 dicembre prossimo alle ore 9,30 l’udienza preliminare a carico degli indagati, di cui due detenuti in carcere, quindici agli arresti domiciliari, due con obbligo di dimora e 26 sospesi dai pubblici uffici, per i noti fatti verificatisi nella Casa circondariale “Generale Uccella” sita in zona “Spartimento” del Comune di Santa Maria, nel corso di una perquisizione e di controlli nelle celle dei detenuti. Il fascicolo depositato in cancelleria è titolato Salvatore Mezzarano più 107 indagati che devono rispondere di una lunga serie di reati riscontrati dalla Procura della Repubblica di santa Maria con il Procuratore aggiunto, Alessandro Milita e i sostituti procuratori Maria Alessandra Pinto e Daniela Pannone che hanno coordinato le indagini. L’udienza preliminare si svolgerà nell’aula bunker del carcere di santa Maria con il GIP, Pasquale D’Angelo al quale i pubblici ministeri hanno richiesto il rinvio a giudizio per tutti gli indagati. Oltre un centinaio i capi di imputazione raccolti nella richiesta di rinvio a giudizio composta da ben 156 pagine nelle quali sono fotografati fatti e circostanze della cosiddetta mattanza avvenuta nella casa circondariale di santa Maria. Un centinaio anche gli avvocati difensori che si batteranno per contestare o almeno mitigare le tesi della pubblica accusa che con le immagini della videosorveglianza alla mano hanno contestato i comportamenti e le azioni che sarebbero state commesse dai singoli indagati. È prevista anche la presenza di testate delle tv e della carta stampata nazionale per seguire le prime fasi di questo processo. Pescara. “Casa circondariale, realtà complessa con 170 detenuti tossicodipendenti” ilpescara.it, 13 novembre 2021 Il sottosegretario alla Giustizia, Anna Macina, dopo la visita nella Casa circondariale di Pescara ha incontrato anche i sindacati della Polizia penitenziaria. “È complessa, come quella di altri istituti di pena, la realtà del carcere di San Donato di Pescara e merita attenzione con 170 detenuti tossicodipendenti, per loro presto percorsi di comunità”. A dirlo è il sottosegretario alla Giustizia, Anna Macina in quota M5s, dopo la visita nella casa circondariale, come riferisce l’agenzia Dire. Ad accompagnarla la deputata Daniela Torto che ha organizzato la visita. “Lo scopo della mia visita era quella di vedere e rendermi conto della realtà che si vive”, dice Macina, che ha incontrato i rappresentanti sindacali degli agenti penitenziari per confrontarsi con loro sulle criticità che si trovano ad affrontare ogni giorno. Macina ribadisce che “diversi investimenti sono previsti per ristrutturare il penitenziario, come ad esempio quelli per la realizzazione di un sistema di anti scavalcamento o l’installazione dell’allarme tecnico. Da implementare anche il reparto di telemedicina. Da far ripartire poi il calzaturificio interno all’istituto che al momento non è in attività. Oltre a questo un dato da tenere in considerazione è l’elevato numero di detenuto tossicodipendenti (170) che condiziona la realtà di questo istituto penitenziario, la cui presenza incide fortemente sulla gestione del quotidiano. Il sottosegretario fa quindi sapere che, secondo quanto le è stato riferito, oltre al medico del Serd già presente entro due settimane “arriverà anche uno psicologo che si occuperà dei detenuti che intendono intraprendere un percorso terapeutico in comunità”. Sebbene non tra le sue deleghe, del problema della mancanza di personale ha contezza e per questo Macina vuole ricordare “che pochissimi giorni fa è stato bandito un nuovo concorso per agenti di polizia penitenziaria e che nella scorsa legge di bilancio è stato autorizzato anche un concorso straordinario per coprire, in tre o quattro anni, altri 2 mila posti. Nei prossimi anni questi concorsi verranno banditi oltre a quelli ordinari che servono per il turn-over”. “Gli interventi per risolvere le carenze strutturali e di organico della casa circondariale di Pescara sono urgenti e non più rinviabili. Ecco perché sono davvero contenta del fatto che oggi la sottosegretaria alla Giustizia, Anna Macina, sia venuta a constatare di persona la situazione. Questa mattina è stato effettuato un sopralluogo nel carcere di Pescara e la sottosegretaria ha mostrato come sempre grande sensibilità e interesse per la ‘questione San Donato”, dice la Torto, “come Movimento 5 Stelle siamo sempre attenti al tema delle carceri e, una particolare attenzione è stata posta proprio al carcere di Pescara soprattutto dopo le evasioni avvenute nei mesi di luglio e agosto. Era giusto intervenire sulla struttura fatiscente e sull’organico, che purtroppo non è sufficiente a prestare il servizio necessario a tutela dei cittadini, del personale che opera all’interno e dei detenuti stessi. Con la scorsa legge di bilancio abbiamo bandito un concorso per 2 mila agenti di polizia penitenziaria che potrà rappresentare un’importante boccata d’ossigeno. Sono convinta che, grazie all’impegno preso dalla sottosegretaria, si potranno avviare ulteriori interventi in tal senso, per garantire la sicurezza e i diritti di tutti”. Reggio Calabria. Corsi di formazione per i detenuti. “Per inserirsi nel mondo del lavoro” di Anna Foti lacnews24.it, 13 novembre 2021 È stato sottoscritto un protocollo tra la Casa circondariale Panzera e il Rotary distretto 2102 Calabria. Tramite l’iniziativa si potranno acquisire competenze nell’ottica del reinserimento sociale e lavorativo. “Formare persone detenute affinché possano spendere fuori, in modo positivo e costruttivo, risorse professionali qui acquisite e così cogliere opportunità lavorative e di reinserimento sociale anche in un contesto complesso come quello calabrese”, così Calogero Tessitore, direttore della casa circondariale Giuseppe Panzera di Reggio Calabria ha descritto la finalità del protocollo d’intesa sottoscritto con il neonato distretto 2012 Calabria del Rotary International, nella cornice del più ampio progetto “Informi…amo per formare”. Al centro dell’accordo due corsi di formazione professionale nel settore della Gelateria e della Fotografia, da promuoversi rispettivamente nel plesso di Arghillà con Enzo Pennestrì (in collegamento da Roma) e nel plesso San Pietro con Antonio Sollazzo. Carcere Reggio, i corsi di formazione - Si tratta di alcune tra le prime iniziative che, nel pieno rispetto delle normative imposte dalla pandemia, che inevitabilmente ha inciso anche sull’offerta trattamentale erogata da persone esterne alla comunità carceraria, gradualmente segnano la ripresa dei contatti tra la dimensione detentiva e quella esistente fuori, dove le stesse persone oggi detenute dovranno un domani trovare occasioni di reinserimento sociale e lavorativo, nel solco del principio rieducativo della pena sancito dall’articolo 27 della nostra Costituzione. “L’attività trattamentale ha subito certamente un impatto forte in costanza di pandemia. Quella attuale è senz’altro una fase di ripresa. Mentre si attende che possa tornare agibile il teatro interno al carcere, colpito da un incendio lo scorso Natale, quest’anno è stata abbandonata la didattica a distanza e sono intanto iniziate nuovamente le lezioni scolastiche in presenza. All’orizzonte vi sono anche la riattivazione dei laboratori di lettura ad alta e di teatro che andranno ad arricchire i percorsi trattamentali mai completamente sospesi e supportati dal personale interno, anche e soprattutto in tempo di pandemia, e scanditi da cineforum e attività sportive nei campi e in palestra e religiose”, ha spiegato il referente dell’area pedagogica Domenico Speranza. La collaborazione con il Rotary Calabria - “Per noi resta fondamentale l’ottica della rieducazione e del reinserimento sociale nella nostra attività e siamo particolarmente contenti di avere trovato nel Rotary Calabria un interlocutore sensibile e collaborativo con cui le iniziative non saranno limitate a questo protocollo che oggi abbiamo firmato”, ha commentato ancora il direttore Calogero Tessitore. “Non ho mai dimenticato la grande umanità incontrata dentro il carcere di Augusta, per questo ho ritenuto che fosse doveroso porre in essere delle iniziative concrete a supporto della popolazione detenuta. Sono dunque molto determinato nel voler promuovere percorsi professionalizzanti che concorrano concretamente al reinserimento sociale. Laddove, poi, la direzione carceraria è così ben organizzata come a Reggio, diventa possibile avviare iniziative di valore e di contenuto, con spirito positivo e sensibilità”, ha sottolineato Fernando Amendola, governatore Rotary Distretto 2102 Calabria. La firma è stata apposta nella sala che accoglie la targa donata lo scorso aprile dal Soroptimist club di Reggio Calabria in memoria dell’indimenticato Emilio Campolo, funzionario dell’area pedagogica della casa circondariale Giuseppe Panzera prematuramente scomparso lo scorso marzo, poco dopo il suo pensionamento, a causa del Covid. Presenti alla sottoscrizione del protocollo d’intesa anche il responsabile dell’area pedagogica Domenico Speranza, il funzionario giuridico-pedagogico Lorenzo Federico, il comandante di reparto della Polizia Penitenziaria Stefano La Cava, il segretario Rotary Distretto 2102 Calabria Antonio Enrico Squillace e presidente del Club Reggio Calabria Sud Parallelo 38 Gianfranco Fragomeni. Attivare (finalmente) il laboratorio Michelangelo - Un’occasione anche per altre significative prospettive come quella di attivare finalmente il laboratorio di lavorazione dei marmi denominato Michelangelo, mai decollato e allestito già da oltre un decennio dentro il plesso San Pietro. In virtù dell’interessamento del Rotary Calabria, sarà Giacomo Cascardo, esperto del settore, a visionare il laboratorio, allestito nel 2007 e mai entrato in funzione, per constatarne le condizioni. “Grazie alla collaborazione con il Rotary abbiamo potuto, come Amministrazione penitenziaria, acquisire la disponibilità a ravvivare il proposito di dare corpo a questo laboratorio che, come quello già attivo di sartoria e altri, contribuirà all’acquisizione di abilità e competenze in capo alle persone detenute e alla creazione di manufatti e prodotti di utilità collettiva”, ha concluso il direttore della casa circondariale Giuseppe Panzera di Reggio Calabria, Calogero Tessitore. Carceri, a Reggio nessun sovraffollamento - Resta nella norma il numero di detenuti nei due plessi del carcere reggino dove, sempre nel rispetto delle normative anti-covid, sono ripresi anche gli incontri con i familiari, a lungo sospesi e mantenuti solo tramite frequenti video chiamate. Ad Arghillà le tre sezioni di media sicurezza e un gruppo di sex offender non raggiungono la soglia di trecento detenuti. Il plesso San Pietro, che resta nella sua dimensione giudiziaria ospitando soprattutto detenuti il cui processo è ancora in corso e solo una minoranza di detenuti già condannati e dunque con pena definitiva, ospita due sezioni di alta sicurezza, persone in semilibertà, un piccolo reparto di osservazione psichiatrica e la sezione femminile per un totale di 156 persone (capienza pari a 160). Alessandria. Il negozio dei detenuti apre all’Outlet accanto alle “griffe” di Giulia Di Leo La Stampa, 13 novembre 2021 “Fuga di sapori” per due mesi al centro della moda di Serravalle Scrivia. “Potermi rapportare con il pubblico e fare nuove esperienze positive mi aiuterà sicuramente a socializzare dopo l’esperienza negativa del carcere”. Aldo (nome di fantasia) è uno dei tre commessi del temporary shop “Fuga di sapori”, che sarà aperto da domani 13 novembre al 9 gennaio all’Outlet di Serravalle Scrivia da “Idee in fuga”. La cooperativa sociale è attiva all’interno delle Carceri di Alessandria dal 2015 con progetti di falegnameria sociale, commercio equo solidale e dallo scorso aprile anche di agricoltura sostenibile. La boutique prenderà vita per due mesi per far conoscere i “Buoni Frutti del Carcere”. Dal panettone “Il Maskalzone”, che è “Il dolce per un momento di dolce evasione”, alla birra artigianale “La Sbirra” - “Illegale non berla”, assicurato - fino alla camomilla, al caffè e alla crema spalmabile: i giochi di parole non mancano. “Il lavoro è l’unico e il più potente strumento - spiega il presidente di Associazione Ises (progetti socio-cultarali) Andrea Ferrari- per abbattere la recidiva che in Italia è stimata all’80%. Ciò significa che tre detenuti su quattro, una volta saldato il loro conto con la giustizia, ritornano in carcere. Recuperiamo con il nostro progetto, molto ampio, sia persone sia materiali”. Ogni prodotto disponibile nel temporary shop è frutto di un progetto e i visitatori potranno scoprirli grazie al materiale informativo. A raccontare e raccontarsi ci sarà anche Aldo che è ripartito dal carcere per capire cosa vorrebbe fare quando tornerà in libertà: “Mi piacerebbe fare il commesso in futuro. Prima però provo con questa esperienza, per capire se ne sarò in grado. Sono comunque certo che mi piacerà. Partecipare a tutti i progetti dell’associazione è molto utile: si è sempre in continua evoluzione seppure con semplicità”. Quando avrà finito di scontare la sua pena, ad aprile del prossimo anno cercherà di mettere in pratica tutti gli insegnamenti acquisiti col lavoro in carcere che “richiede impegno - spiega - e mi ha fatto capire di poter fare una vita semplice e onesta, basata sulla serietà”. Da detenuto Aldo ha iniziato a collaborare anche all’interno della falegnameria di “Idee in fuga”. “A 14 anni lavoravo già in quella di mio padre - racconta -. Il reato che ho commesso, sbagliando gravemente, l’ho compiuto proprio per ottenere il denaro necessario per aprire una falegnameria tutta mia”. Ora Aldo sarà pronto anche, perché no, a creare qualcosa di proprio. “Il lavoro in carcere - spiega - non è scontato. Bisogna farsi conoscere con tanta forza di volontà, per dimostrare di aver capito i propri errori. Sono cambiato e voglio condurre una vita onesta per me e per la mia famiglia”. Bolzano. “Giustizia riparativa per superare la logica del castigo” di Arturo Zilli unibz.it, 13 novembre 2021 Intervista con la prof.ssa Kolis Summerer, docente di Diritto penale alla Facoltà di Scienze della Formazione, che co-organizzerà il convegno sulla giustizia riparativa che si terrà a Merano il 15 novembre. Il convegno “La giustizia riparativa come risorsa per il benessere della comunità”, co-organizzato dal Comune di Merano assieme al Centro regionale di giustizia riparativa, le comunità comprensoriali Burgraviato e Valle Isarco, il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della giustizia e il Comune di Merano e le collaborazione delle Università di Trento e di Bolzano (Scienze della Formazione) si svolgerà lunedì 15 novembre, dalle 9.00 alle 12.00, nella sala civica del Comune di Merano (via Otto Huber 8). Prof.ssa Summerer, cos’è la “giustizia riparativa”? Si tratta di un modello alternativo di giustizia che muove dal superamento della logica del castigo per proporre un’interpretazione relazionale del conflitto. Lo scopo è promuovere la riconciliazione tra l’autore del reato e la vittima e riparare le conseguenze negative del reato. Prevede, se vi è la disponibilità in tal senso, il coinvolgimento attivo della vittima, dell’autore di reato e della comunità di riferimento. Quali sono gli strumenti di cui si serve? Lo strumento più utilizzato è la mediazione penale, ma si stanno aprendo le porte, con un successo crescente, a forme di mediazione allargata, come il circle process o il family-group conferencing. Nel corso del convegno si parlerà di alcune esperienze caratterizzate dall’utilizzo di questi strumenti. Su quali aspetti della giustizia riparativa verteranno gli interventi del convegno? Il convegno vedrà la partecipazione di uno dei massimi esperti del tema - Adolfo Ceretti - cui è affidata la relazione introduttiva, in dialogo con Elena Mattevi, docente di diritto penale dell’Università di Trento. A Katja Holzner, mediatrice dell’ufficio di Bolzano del Centro di giustizia riparativa della Regione Trentino-AltoAdige/Südtirol sarà invece affidato il compito di raccontare come si fa giustizia riparativa sul territorio regionale e in particolare in provincia di Bolzano. La proiezione in anteprima del video del progetto permetterà di dare uno sguardo generale sul progetto “Giustizia riparativa nelle comunità: dalle riflessioni all’azione sul territorio”, mentre Paola Santoro, direttrice del Distretto sociale di Merano, rifletterà sui risultati del progetto di mediazione sociale realizzata nella comunità comprensoriale Burgraviato. Nell’ultimo intervento, sul piano del metodo, Sara Bassot, mediatrice, descriverà gli strumenti utilizzati dallo sportello di mediazione, evidenziandone criticità e potenzialità. È prevista anche la testimonianza di una persona che ha partecipato ad una mediazione allargata realizzata nel Comune di Merano. Ci sono attività di ricerca di unibz in questo campo? La partecipazione al convegno rappresenta un passo avanti verso il consolidamento di un network e consentirà di avviare nuovi progetti con i partner dell’iniziativa. Inoltre, nei corsi di laurea di Servizio sociale e per Educatore sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione il tema della giustizia riparativa è oggetto di diverse tesi di laurea condotte in collaborazione con enti e associazioni del territorio. Esistono esperienze interessanti in Alto Adige? La mediazione penale è utilizzata da anni dal Centro di Giustizia Riparativa della Regione e, per quanto riguarda l’ambito minorile, dall’Associazione La Strada-Der Weg. La peculiarità di questo progetto, fortemente voluto dal Centro di Giustizia Riparativa della Regione e dai partner istituzionali come l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Bolzano e l’Ufficio Servizio Sociale Minorenni di Bolzano, è legata al fatto che si è voluto provare ad uscire dai binari più tradizionali della giustizia riparativa, per sperimentarla nella comunità, per aiutare quest’ultima, insomma, a gestire e trasformare i conflitti in modo che essi non diventino distruttivi e disgreganti, ma siano invece occasione di dialogo e di costruzione di legami sociali. Messina. “I risvolti pratici della riforma Cartabia”, come cambia la giustizia Redazione tempostretto.it, 13 novembre 2021 Il convegno del Rotary Club Stretto di Messina e dall’Ordine degli Avvocati per analizzare caratteristiche e criticità. “I risvolti pratici della riforma Cartabia” è stato il tema dell’incontro organizzato dal Rotary Club Stretto di Messina e dall’Ordine degli Avvocati per analizzare caratteristiche e criticità del processo di cambiamento in atto nella giustizia. “Un argomento sensibile, attuale e rilevante anche per la Comunità Europea”, ha affermato il presidente del club-service Pietro Federico, aprendo la serie di interventi introdotti dall’avv. Rocco Vaccarino, “per chiarire gli aspetti di innovazione della riforma”, e moderati dall’avv. Vincenzo Ciraolo, segretario dell’Organismo congressuale forense: “I problemi della giustizia devono uscire dal palazzo perché interessano i cittadini. Le carenze di magistrati, personale e strutture sono note e la politica ha raggiunto la consapevolezza di dover intervenire per raggiungere maggiori criteri di trasparenza dell’ordinamento giudiziario”. Il prof. Giacomo D’Amico, docente di diritto costituzionale all’Università di Messina, si è concentrato su un aspetto della riforma che incide sul sistema elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura e “si propone di ridurre il peso delle varie correnti all’interno del CSM elaborando un testo che si basa sulla logica del voto singolo trasferibile e sulla creazione di piccole circoscrizioni favorendo il rapporto elettore-candidato”. Una proposta valida ma non unica e non deve creare illusioni: “La questione della giustizia - ha concluso - è di cultura costituzionale e di rispetto delle regole”. “È un problema tecnico e sociale e incide negativamente sulla fiducia dei cittadini nello Stato”, ha affermato la presidente del Tribunale di Messina, dott. Marina Moleti, esprimendosi sulla durata dei processi: “Serve tempo per decidere una causa civile o penale. Il problema della durata eccessiva è il rapporto tra il numero dei processi e dei giudici”. La riforma, però, potrebbe rappresentare un segnale importante: “Le linee di intervento sono ragionevoli e aggrediscono il problema su più fronti, anche se - ha specificato - ci sono alcuni punti critici che non rispondono alla finalità di abbreviare i tempi”. Una riforma accolta positivamente anche dall’avv. Enrico Trantino del Foro di Catania: “Era attesa da tempo per rendere il processo penale più efficiente e sono state recepite le sollecitazioni dall’Europa di imprimere un’accelerazione”. Si cerca così di avere un controllo sui protagonisti del processo e ridurre i tempi di azione, mentre la novità principale “è il diritto all’oblio - ha aggiunto l’avv. Trantino. Finalmente è prevista la cancellazione dei dati personali sul web”. “La riforma potrà ringiovanire i meccanismi e da cittadini - ha concluso il presidente Federico - dobbiamo pretendere una giustizia veramente giusta, con la G maiuscola”. Roma. La Croce della misericordia segno di speranza, pace, riconciliazione di Antonio Maria Mira Avvenire, 13 novembre 2021 Nel carcere di Regina Coeli c’era un “visitatore” molto particolare. Un segno di speranza. È la “Croce della misericordia”, realizzata dai detenuti del carcere di massima sicurezza di Paliano e benedetta da papa Francesco il 14 settembre 2019. Da allora ha iniziato un pellegrinaggio in tutti i penitenziari italiani, prima in Sicilia, poi in Campania e ora nel Lazio, iniziando proprio dal carcere romano. Sul legno sono dipinte scene bibliche di liberazione, di riscatto e di redenzione, ma anche le immagini di mamme in carcere con i loro bambini. Ieri la Croce è stata al centro di una celebrazione della Parola nella grande e altissima “rotonda”, il famoso cuore di Regina Coeli. A presiederla l’arcivescovo Lazarus You Heung-sik, prefetto della Congregazione per il clero, assieme al segretario della stessa Congregazione, l’arcivescovo Andrés Gabriel Ferrada, al cappellano di Regina Coeli, don Vittorio Trani, e ad altri sacerdoti. Con loro, fra agenti penitenziari e operatori del carcere, un gruppo di detenuti, “una rappresentanza di tutte le sezioni, perché nessuno si senta escluso”, ci tiene a sottolineare la direttrice di Regina Coeli, Silvana Sergi. “Questa Croce è più significativa perché fatta da voi - aggiunge rivolgendosi ai detenuti - dai vostri compagni. E questo è un momento spirituale e di riflessione che aiuta tutti”. Un momento vissuto anche da altri detenuti che hanno seguito la celebrazione dietro ai grandi finestroni dei quattro ballatoi della “rotonda”. È soprattutto a loro che si rivolgono gli interventi. “La Croce della misericordia è un segno di pace, di speranza, di riconciliazione - dice don Raffaele Grimaldi, ispettore dei cappellani delle carceri -. Il Signore che viene in questi luoghi di sofferenza, ancor di più in questo periodo di pandemia. E noi siamo qui per dire ai detenuti che il Signore è venuto a visitarli, a toccare le ferite, a invitare a riprendere il cammino”. “Sono venuto con gratitudine - sottolinea l’arcivescovo You Heung-sik, ricordando di essere stato anche lui cappellano in Corea. Agli occhi del Signore noi siamo tutti insieme, anche nel carcere si può vivere per gli altri, amare gli altri”. La liturgia della Parola prevede un brano di Isaia: “Il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”. Poi il Vangelo di Luca, con la Crocifissione e il dialogo coi “malfattori”. E proprio da queste parole parte l’omelia dell’arcivescovo Ferrada. “Questa è una serata che si apre alla speranza sotto la Croce che è il simbolo del capovolgimento del mondo: Gesù è morto non per i giusti ma per il riscatto dei peccatori, di tutti noi, perché tutti lo siamo”. Per tutti c’è la misericordia, anche per chi ha fatto “scelte libere sbagliate” perché, aggiunge il presule, “sulla Croce Gesù diventa giudice di salvezza, di vita nuova, non di condanna”. Per questo, conclude, “facciamo spazio al Signore perché ci accolga a braccia aperte. Solo così siamo davvero liberi”. E mentre pronuncia queste parole, due passeri, non si sa come entrati nella “rotonda”, volano e cinguettano tra un ballatoio e l’altro. Liberi. Una bellissima coincidenza. E molto belle sono anche le preghiere dei fedeli. Un’operatrice e un agente penitenziario chiedono al Signore aiuto per il loro difficile lavoro in carcere. Un detenuto prega per le famiglie di chi è in carcere. Un altro, infine, prega “perché nessuno perda la fiducia nella vita”. Parole ancor più impegnative se a dirle è chi sta pagando con la reclusione i propri sbagli. Il piccolo coro composto da volontari e detenuti intona un canto che parla di speranza, “Signore tu hai vinto la morte”. Poi tutti i detenuti presenti si avvicinano alla “Croce della misericordia”. Chi lascia una delicata carezza, chi un bacio, un segno della Croce, una preghiera silenziosa. Davvero la Croce, come disse il Papa, “è occasione per non soffocare la fiammella della speranza”. Sergio Staino: “L’arte di vedere nel buio” di Luigi Manconi La Repubblica, 13 novembre 2021 La luce che si riduce. La creatività che continua, nonostante tutto. Il disegnatore “padre” di Bobo racconta la storia della sua cecità. Con una certezza: “La memoria dei colori resiste al loro logoramento”. Quando ero piccino, tra le opere di beneficenza svolte dalla mia famiglia, c’era il sostegno a una particolare iniziativa: l’attività artistica di persone con grave disabilità. A promuovere la raccolta dei contributi economici, provvedeva l’invio per posta di diverse serie di cartoline, che riproducevano a colori i quadri realizzati - col pennello stretto tra i denti o sotto l’ascella o tra l’alluce e il secondo dito del piede - da persone afflitte da mutilazioni. Le immagini inducevano una qualche inquietudine in me e nelle mie sorelle perché accanto alle foto dei quadri si trovavano quelle dei pittori: e quei moncherini, quegli arti tronchi, quelle membra amputate producevano un notevole turbamento. E maggiore disponibilità a un atto generoso. A quanto ricordo, nessun quadro mai venne indicato come realizzato da un cieco. La cosa mi viene in mente quando mi trovo a parlare con Sergio Staino, come me non vedente, importante illustratore e disegnatore, inventore del personaggio di Bobo, rivoluzionario in acuta crisi di identità esistenziale e politica. Pittori non vedenti? Non tutti sanno della vicenda del quasi-cieco Claude Monet, del quale trovo traccia in un noir di Michel Bussi (Ninfee nere, pubblicato in audiolibro da Emons). Tomaso Montanari mi parla di uno scultore del Seicento, Giovanni Gonnelli (Firenze), e Marica Fantauzzi ha scovato, negli Stati Uniti, un pittore contemporaneo, John Bramblitt, anch’egli privo della vista. Ma qui non siamo storici dell’arte (per chi voglia approfondire: La cecità dei pittori di Barbara Antonelli) e, a interessarci, è piuttosto il comprendere come diavolo faccia Staino a disegnare tutti i giorni le sue vignette. “Fino a un mese fa la mia tecnica era sostanzialmente digitale: un computer dallo schermo molto grande, 60 per 40, con la penna touch tarata a seconda della pressione, dell’inclinazione della punta, della velocità del tratto. Lavoravo così: buttavo giù un segno guardando con l’occhio sinistro appiccicato quel tanto di chiaroscuro che ancora riuscivo a cogliere. Una volta fatta la bozza, la mandavo a mio figlio Michele, che disegna molto bene ed è, per così dire, padrone della mia tecnica. La prima cosa che fa è adeguare con photoshop le proporzioni perché, dal momento che io vedo il disegno solo pezzetto per pezzetto, può accadere che la testa di un personaggio risulti gigantesca rispetto alla mano o al piede. Diversamente avviene per la colorazione. Io do alcune indicazioni generali partendo da quanto il mio cervello ricorda delle tonalità. Tutto si svolge nella mia mente”. È così anche per me quando scrivo: nella mia testa immagino la punteggiatura e gli aggettivi, i salti di tono e gli a capo, e poi detto... “Per la verità, a me capitava anche prima di perdere la vista, quando chiudevo gli occhi e vedevo forme e colori delle vignette. Sai, per me il disegno è una sorta di ventre materno, che mi offre rifugio dalle intemperie della vita. Me ne sono accorto negli anni, notando come rispondevo attraverso il disegno a tutte le disavventure: la scuola che non andava, le tonsille operate senza anestesia, i familiari che morivano, l’angoscia che mi prendeva”. Ma quanto tempo richiede questo lavoro in società con tuo figlio? “Una volta, per un’intera pagina de L’Unità, impiegavo qualche ora. Oggi per un’intera pagina di Specchio, supplemento de La Stampa, ci metto due giorni. La penso il sabato e la domenica e devo dormirci sopra. Poi, senza che io lo decida, la mia mano si muove, anche quando sono a letto, seguendo un tracciato come se dovesse disegnarlo. Non è facile, soprattutto quando devo raffigurare paesaggi, montagne, città e personaggi vari. Durante la rassegna del Club Tenco, per Specchio, ho realizzato una tavola dove Giorgia Meloni e Matteo Salvini conversano tra loro utilizzando esclusivamente i testi delle canzoni di Mogol e Battisti: e ci sono volute ore e ore”. Mi dicevi che questa tecnica di lavoro, da qualche tempo, non funziona più come prima. “In effetti, nelle ultime settimane, mi sono accorto che i pochi sprazzi di luminosità rimasti si sono ridotti ulteriormente. Così, quando disegno volti nuovi, fatico a capire dove devo mettere l’occhio o l’orecchio o il mento. Ma se ricorro alla stilografica o a un pennarello dalla punta fine, certe cose riesco ancora a disegnarle: a esempio, la forma dettagliata delle rose che Bobo offre a una signora, che è un po’ la mia firma. Dunque, ho comprato una lavagna a fogli con una superficie molto più grande e un pennarellone con una spessa punta a scalpello. In piedi, davanti a questo spazio così ampio, ricomincio a vedere, o immagino di vedere, il disegno. Riesco a creare l’intera figura dei personaggi, che, poi, vengono fotografati e scannerizzati al computer”. Pensi che sia la tua tecnica definitiva? “Per la verità, questa mia rincorsa contro l’esaurirsi della vista dura da oltre quarant’anni. Calcola che lavoro tutti i giorni, 350 giorni all’anno, e faccio quotidianamente 6-7 o più disegni. Perciò sono circa 3.000 ogni dodici mesi, ma forse anche il doppio. Se moltiplichi per quasi mezzo secolo di lavoro, siamo a decine e decine di migliaia”. Ma quando tutto è cominciato? “I primi segni della cecità si manifestano nel 1977. Il mio occhio destro era molto miope, mentre il sinistro raggiungeva gli 11/10 con la correzione. Una sera, mentre guidavo, mi sembrò che i catarifrangenti ai lati della strada saltassero, non cogliessero il riflesso dei fari e si oscurassero. All’ospedale Maggiore di Trieste, la diagnosi fu: retinite degenerativa. Insomma, la retina era enormemente tesa a causa della grandezza del globo oculare. Come fosse la retina di un uomo di 120 anni, mentre ne avevo solo 37. E mi venne detto che, probabilmente, non sarei arrivato alla cecità totale, ma molto molto vicino. Piansi per giorni. Fortunatamente avevo accanto a me Bruna, la mia compagna ormai da 47 anni. Dopo di che, quando l’occhio prese a familiarizzare con questa macchia disposta nel centro della pupilla, mi feci portare, in quella stanza di ospedale, fogli e matite. Davanti al mio letto c’era una finestra, come dire, asburgica, dotata di doppi vetri. Così, mi sono dannato per cercare di “vederla” e disegnarla. È stata una lotta spaventosa per capire come era fatta, quella finestra, e riprodurla sul foglio. Una fatica che ha cambiato totalmente il mio segno. Quello precedente era il tratto di un architetto sicuro di sé e fin strafottente, mentre quello attuale, è un segno conquistato millimetro per millimetro, scavato e lavorato duramente. È la penna che agisce e reagisce con sofferenza. Da allora è stata una ricerca continua di nuovi strumenti tecnologi: prima un tavolino retroilluminato con i fogli sopra, poi lenti di ingrandimento sempre più potenti e, infine, il computer. Nel frattempo, ero uscito ormai da tutto e diventava inevitabile che mi buttassi anima e corpo nel fumetto”. Che vuol dire “uscire da tutto”? “Nel 1969 avevo aderito al Pcd’I (M-L): ovvero al Partito Comunista D’Italia, parentesi: marxista-leninista, chiusa parentesi, di ispirazione stalinista e filo-albanese, devoto cioè al regime di Enver Hoxha. Ero membro del comitato provinciale di Firenze, ma c’erano alcune cose che mi rendevano sospetto: in particolare la mia barba veniva considerata una degenerazione piccolo borghese. Così, quando mi recai in delegazione in Albania, me la dovetti tagliare. Se non l’avessi fatto, avrebbe provveduto il barbiere che si trovava al posto di frontiera; con lui, un sarto che aveva il compito di allungare minigonne e stringere pantaloni a zampa d’elefante, così da rendere “accettabili dal popolo” gli ospiti occidentali. Sarei uscito da quella setta solo dieci anni dopo - un tempo lunghissimo di cui mi vergogno - e la goccia che fece traboccare il vaso fu il rifiuto del Pcd’I (M-L) di partecipare alla manifestazione sindacale unitaria del primo maggio. Mi ritrovai solo, confuso e smarrito. E questo contribuì al fatto che Bobo diventasse il centro del mio lavoro e della mia vita”. E come viene fuori quel personaggio? “Ha una precisa data di nascita: 10 ottobre del ‘79. Lavorai forsennatamente per alcune settimane intorno alla figura di quell’uomo, così simile a me anche nei tratti fisici, attraversato da una crisi devastante. Inviai le tavole a Oreste Del Buono, direttore di Linus: e a lui, i pensieri, le parole e i dilemmi di Bobo e dei suoi due figli, Michele e Ilaria, piacquero tantissimo. Vennero pubblicati già nel fascicolo di dicembre ed ebbero il suggello dell’apprezzamento niente meno che di Umberto Eco. I fattori del successo sono stati probabilmente due: il racconto della Grande Frustrazione personale e politica, che tanti riconoscevano come propria; e quella sofferenza che il mio tratto dolente tradiva. Quando parlo della storia di questo mio apprendistato ai giovani ipovedenti, mi rendo conto di quanto può aiutarli a non arrendersi. E mi commuovo: se mi vedesse Stalin mi ammazzerebbe”. Prima dicevi che dei colori oggi hai solo memoria, senza alcuna percezione diretta. È così? “Sì. Eppure, ancora sei, sette anni fa, ho realizzato opere a colori come i due fondali della rassegna del Club Tenco. Oggi, i colori si sono letteralmente dileguati. Vedo qualcosa che mi sembra un po’ sul rosso, ma poi non c’entra nulla con il rosso”. Ma nelle tue fantasie e nei tuoi sogni i colori ci sono? “La memoria dei colori resiste al loro logoramento”. Noi ciechi e anche chi, come me, non ha il bene della pittura, dovremmo riflettere sulla eccezionale esperienza di Monet. Il progressivo deteriorarsi della vista rendeva i suoi colori più sfocati e meno intensi, e introduceva una tonalità giallognola in tutto ciò che i suoi occhi riuscivano faticosamente a cogliere e a riprodurre. Successivamente, tutto cominciò ad apparirgli venato di blu. Il che non gli impedì di continuare a dipingere ma ebbe l’effetto di “trasfigurare” le differenze cromatiche, fino a inventarne di nuove, rispetto alla mera riproduzione, semmai fosse possibile, dei colori reali. Oggi, una riflessione colta e avventurosa sui colori, la si trova in un libretto di Claudio Magris, Le toppe di Arlecchino, appena pubblicato da La nave di Teseo. “Nella vita di tutti i giorni, tuttavia, la scomparsa dei colori ha effetti assai concreti e pesanti. Quando la mattina scendo in cucina trovo la stessa familiare disposizione del tavolo e della sedia e ho in mente la collocazione precisa delle tazze bianche e delle posate e la luce che vi si riflette. E ogni giorno, immancabilmente, misuro quanto, di quella tazza bianca, perdo”. L’esito è il buio totale? “No, non è detto e spero proprio che non accada”. Ancora una questione: cosa ti ha insegnato la cecità a proposito del rapporto tra cervello e vista? “Dopo la rottura della retina, nell’arco di una settimana, la macchia nell’occhio è scomparsa perché il cervello ha cominciato a fare una sorta di calcolo delle probabilità. E a riempire quella macchia di tutti gli elementi che le stavano intorno, ormai non visibili. Era il cervello a scegliere come colmare il vuoto che si era aperto. È semplice: se c’è un ciclista sulla strada, di cui io vedo solo mezza ruota, sarà la mia mente a fornirmi i particolari che costituiscono il quadro d’insieme: dall’asfalto al manubrio a tutti gli altri dettagli. Insomma, viva la mente che vede”. Una decina di anni fa, entrambi già quasi nell’attuale condizione, decidemmo di scrivere una lettera all’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, esponendo il dramma di noi assiduissimi frequentatori, privi di vista, dei treni italiani. Il motivo: l’apparato idrico delle toilette dei treni passeggeri, di prima e seconda classe, frecciargento o frecciarossa che siano, o anche regionali, offre una varietà praticamente infinita di soluzioni per attivare il flusso d’acqua nel water e nel lavandino. Il povero cieco, che voglia utilizzare quella funzione, ricorrendo alla memoria delle precedenti esperienze, fallirà inesorabilmente. Il pulsante o la leva o il pedale per azionare l’acqua del water si trovano sempre - sempre! - in una posizione diversa da quella prima conosciuta. Il getto dell’acqua nel rubinetto richiede una ricerca a tentoni abitualmente destinata all’insuccesso. Quello che sempre si riesce a far funzionare, anche non volendo, è un violentissimo getto di aria calda - una specie di soffione boracifero - pensato per asciugare le mani, ma capace di ustionare il non vedente che brancola in quello spazio angusto. La nostra lettera non ebbe nessuna risposta. Peccato. L’Italia è dotata di una buona legge contro le barriere architettoniche risalente al 1989, la cui applicazione è drammaticamente disattesa. Un paese come il nostro, storicamente privo di senso civico e di comune responsabilità, è portato a inventare ostacoli inciampi e barriere per ogni dove: a danno anche di persone particolarmente privilegiate, come noi. Figuriamoci gli altri. Le nostre fragili istituzioni e la libertà appesa a un filo di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 13 novembre 2021 Al momento c’è da gestire il contrasto alla pandemia e l’impiego dei fondi europei ed è rassicurante disporre di un governo di alto profilo. Ma poi cosa si fa? Après Draghi le déluge? Dopo Draghi il diluvio? Perché ad eccezione di alcuni bastian contrari (che naturalmente hanno tutto il diritto di esserlo) tutti pensiamo che il governo Draghi sia un’ottima cosa? Perché l’Italia si è aggrappata a una persona? Certo, per il prestigio e la qualità della sua leadership. Però un Paese che pensa di non avere alternative, che paventa un eventuale dopo-Draghi immaginando che l’intera casa potrebbe crollarci di colpo addosso, sta dichiarando al mondo che non si fida di se stesso, che è consapevole di quanto fragile e precaria sia diventata la propria esistenza. Al momento, c’è da gestire il contrasto alla pandemia e la messa a frutto dei fondi europei con i connessi e complessi provvedimenti. È rassicurante disporre di un governo giudicato di alto profilo, all’altezza, sia da noi che dagli altri governi. Nella speranza, naturalmente, che la classe politica, alle prese con una delle più difficili elezioni del capo dello Stato della storia repubblicana, non finisca per perdere la bussola, facendo vacillare le mura lesionate dell’intero edificio. Sì, ma poi? Superato questo scoglio, che si fa? La cosa più impressionante è che la consapevolezza generale della fragilità delle nostre istituzioni non abbia ancora generato reazioni di sorta, che non circoli, non dico un progetto ma neppure qualche vaga idea su come puntellare la molto mal messa democrazia italiana. Questo disinteresse non riguarda solo la classe politico-partitica, con il suo orizzonte temporale inevitabilmente compresso e ristretto. Vale anche per quella che un tempo si sarebbe definita la “classe dirigente”: imprenditori, dirigenti delle istituzioni finanziarie, vertici delle varie categorie professionali, intellettuali, addetti alla comunicazione. L’elenco delle disfunzioni (si tratti di Parlamento, amministrazione, giustizia o altro) lo hanno sempre fatto tutti ed è noioso ripeterlo. Per ricordare quanto sia pesante l’emergenza istituzionale basterà citare, fra i tanti possibili, un solo aspetto: i rapporti fra centro e periferia. Prima che la gravità della sfida pandemica imponesse una centralizzazione di fatto del potere decisionale ricordate in quale confusione fosse immerso il Paese? Nella fase iniziale della diffusione del virus, governo, regioni e Comuni, da un lato, si rimpallavano le responsabilità (di ciò che non funzionava) e dall’altro si contendevano competenze e autorità decisionale. In quel momento fu chiaro a tutti (o avrebbe dovuto esserlo) quanto mal messo sia il nostro sistema istituzionale in un suo aspetto nevralgico. Quando la pressione della pandemia si sarà allentata e quando, per conseguenza, il potere decisionale, oggi centralizzato di fatto, tornerà a rifluire lungo la piramide istituzionale, si può stare certi che tutto ciò che non va nelle relazioni centro-periferia (chi ha il diritto/dovere di prendere quali decisioni?) tornerà a manifestarsi. C’è per caso in giro qualche proposta su come rimediare? No, non c’è. La ragione ha a che fare con una caratteristica della nostra cultura politica. Per essa sembra che a contare siano solo le persone, ciò che esse pensano e dicono, e che le istituzioni non contino nulla. Secondo le narrazioni dominanti, “ciò che va e ciò che non va” dipendono dalle caratteristiche personali che attribuiamo agli uni e agli altri: quello è “onesto” e quell’altro no, quello è “serio” e quell’altro no, quello è “affidabile” e quell’altro no. La qualità delle persone è importante ma lo è anche il modo in cui sono congegnate le istituzioni: esso non determina ma comunque condiziona il comportamento delle suddette persone. Tanto meno siamo capaci di ragionare sul malfunzionamento delle istituzioni, tanto più tendiamo a scivolare nel moralismo, a farne la vera cifra del dibattito pubblico. La svalutazione del ruolo delle istituzioni spiega anche, almeno in parte “l’effetto Draghi”. Dimenticando che il primo ministro in Italia non ha il potere del presidente francese, del premier britannico o del cancelliere tedesco, non comprendiamo che l’attuale concentrazione del potere nelle mani di Draghi è solo la conseguenza, inevitabilmente transitoria, dello stato di emergenza innescato dalla pandemia. Quando la pressione dell’emergenza si ridurrà, torneremo a fare i conti con gli scarsi poteri di cui il primo ministro, in una democrazia assembleare come la nostra, si trova in realtà a disporre. Chiunque sia, in quel momento, il primo ministro, Draghi o un altro. Il “momento di non ritorno”, il momento in cui si aggrava l’avvitamento della democrazia italiana, a parere di chi scrive, risale a cinque anni fa, al risultato del referendum costituzionale del 2016. Quel referendum fu, da un lato, la dimostrazione di qualcosa che già c’era e, dall’altro, la causa principale di ciò che è venuto dopo. Fu innanzitutto una dimostrazione dello scarso interesse generale per il funzionamento delle istituzioni della democrazia. Tolte due ristrette minoranze (quelli che, con il sì, volevano superare la democrazia assembleare, e quelli che, con il no, volevano difendere la “Costituzione nata dalla Resistenza”), per tutti gli altri fu soltanto un referendum a favore o contro Matteo Renzi. Con scarso interesse per la vera posta in gioco. Ma quel referendum fu anche causa di molto che è accaduto dopo. Seppellendo definitivamente qualunque velleità di riforma delle istituzioni, il risultato di quel referendum (per inciso, la riforma che venne allora bocciata riguardava anche i rapporti centro-periferia) ci ha lasciati disarmati. Il disinteresse per le istituzioni e il loro funzionamento si manifesta in ogni occasione. Si prendano ad esempio le continue lamentele per la scarsa qualità della classe politica. Le classi politiche sono costrette a praticare reclutamenti di livello solo in un caso. Se hanno di fronte un folto pubblico esigente che non tollera il pressapochismo. Ma dopo trent’anni e passa di incuria delle istituzioni educative, perché mai dovrebbe esistere quel folto pubblico? Se quel pubblico non c’è, viene a mancare l’incentivo a migliorare meccanismi e canali di reclutamento della classe politica. Per ora abbiamo nascosto il problema del malfunzionamento delle istituzioni (di governo e non) sotto il tappeto. Ma fra breve, c’è da temere, ci esploderà in faccia. La fragilità istituzionale mette sempre a rischio le democrazie. Sono argomenti noiosi? Forse. Ma libertà e prosperità sono appese a un filo. Occorrono idee su come irrobustirlo. Migranti. L’Italia continua a ignorare i problemi degli stranieri irregolari di Claudia De Martino Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2021 Sabato 6 novembre scorso una donna albanese di nome Adelina Sejdini si è tolta la vita a Roma gettandosi dal Ponte Garibaldi: i quotidiani hanno riportato che fosse malata di cancro e che si fosse data fuoco per protesta il 28 ottobre scorso davanti a Montecitorio per il mancato rinnovo del suo permesso di protezione umanitaria in quanto apolide. L’Italia infatti ha sottoscritto la Convenzione relativa allo status degli apolidi del 1954 (entrata in vigore nel 1962) il cui articolo 32 invita gli Stati contraenti “a facilitare l’assimilazione e la naturalizzazione degli apolidi” e adottato la legge 92/1991 che prevede la concessione della cittadinanza dopo 5 anni di residenza continuativa in Italia, tuttavia con un cavillo, ovvero che la condizione di apolidia sia successiva all’ingresso nel territorio italiano e non originaria, ovvero qualifica dello straniero già giunto in Italia in quanto apolide. Sembra un rebus giuridico insensato per i “non-addetti ai lavori” e tuttavia a causa di questa incongruenza è andata persa una vita che lo Stato italiano avrebbe dovuto proteggere, se non in quanto apolide almeno in quanto vittima di una terribile tratta di esseri umani, al cui contrasto l’Italia è vincolata dalla Convenzione sull’azione contro la tratta degli esseri umani del Consiglio d’Europa del 2005, ratificata nel 2011, nonché dal recepimento della Direttiva UE 2011/36/UE. Cosa sia andato storto nella storia di Adelina, come di altre donne straniere vittime di tratta che si sono rivolte allo Stato italiano in cerca di protezione, è evidente: la legislazione restrittiva in materia d’immigrazione intervenuta dal 2018 ad oggi a seguito della revisione delle norme operata dall’allora ministro degli Interni Salvini, sensibile alla pressione di un’opinione pubblica italiana tendenzialmente ostile all’accoglienza - non ancora sovvertita dall’attuale governo Draghi -, ha sottratto servizi assistenziali minimi ai migranti. La situazione precaria che si è prodotta di conseguenza è illustrata con estrema chiarezza e ottima capacità divulgativa nel bellissimo libro di Rita Coco e Roberta Ferruti (Una storia scritta con i piedi, Recosol, 2020) che richiama in maniera esaustiva sia i quadri normativi europeo che italiano che hanno “governato” il processo migratorio - per quanto riguarda l’Italia, dalla legge Foschi (1986) ad oggi -, sia l’ottica emergenziale con cui i vari Stati e governi hanno affrontato il “tema immigrazione” quasi si trattasse di un fenomeno destinato naturalmente ad esaurirsi, tralasciando sullo sfondo questioni sociali e politiche strutturali che non hanno fatto altro che esacerbarsi nel tempo. Tra queste, il contrasto alla tratta degli esseri umani, dal cui fenomeno criminale l’Italia è fortemente interessata (con un numero di vittime annuali che oscillano tra le 657 del 2019 alle 470 del 2020, come riportati dal “Trafficking in Persons” Report, stilato annualmente dal Dipartimento di Stato Usa), ma che riguardano a maggioranza vittime di nazionalità straniera (Nigeria, Cina, Pakistan, Romania, Bulgaria) toccando dunque solo marginalmente le autorità italiane, che infatti vi investono poche risorse. “Una situazione - spiegano, però, Coco e Ferruti nel libro - che era difficile da gestire anche prima del D.I. 113/2018 o “decreto sicurezza”, ma che è diventata emergenziale con l’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari che veniva riconosciuto alla maggioranza delle potenziali vittime di tratta”. Una crisi aggravata da un altro elemento introdotto dal Decreto, l’impossibilità di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo ed ex titolari di protezione umanitaria, che impediva di fatto l’accesso ai servizi essenziali, contro la cui costituzionalità si è poi pronunciata la stessa Corte costituzionale (con sentenza del 20 luglio 2020). E’ questo il motivo per cui il Dipartimento di Stato americano nel suo TIP ha declassato l’Italia a Paese parzialmente sicuro, in quanto “non fornisce la protezione legale per gli atti illeciti che le vittime hanno commesso sotto costrizione dei trafficanti”, ma anche in quanto non si impegna sufficientemente per spezzare le catene del traffico di esseri umani, non valuta adeguatamente i rischi corsi dalle vittime prima delle procedure di rimpatrio forzato ed espulsione (Coco&Ferruti: 228) e, infine, “tollera” che circa 180.000 lavoratori agricoli siano mantenuti in condizioni di potenziale schiavitù (TIP, 2021) e che il 60% delle sue circa 40.000 prostitute di strada (24-27.000 persone) sia soggetto a sfruttamento sessuale come vittime di tratta. L’Italia emerge, quindi, come un Paese poco virtuoso e solerte nella protezione delle persone straniere fragili, spesso accomunate dalla privazione di diritti loro imposta dalla negazione della cittadinanza o di altro titolo a soggiornare legalmente nel Paese. In uno scenario italiano ed europeo già repressivo e criminalizzante dei flussi migratori, l’epidemia da Covid-19 non ha fatto altro che distogliere ulteriormente l’opinione pubblica dalla chiusura progressiva dei canali di accesso regolari all’Unione Europea, quasi il virus avesse il potere di invertire o fermare i movimenti dei migranti. Coco & Ferruti sottolineano che “gli Stati Ue sono divisi tra coloro che chiedono la ripartizione di richiedenti asilo e rifugiati secondo un sistema di quote e i fautori della chiusura a tutti i costi”, mentre l’Italia, nel suo piccolo, continua a smantellare l’unica eccellenza a cui abbia dato vita, ovvero l’accoglienza diffusa praticata negli Sprar, come si evince anche dalla grottesca condanna comminata al sindaco di Riace Mimmo Lucano. Con forte pragmatismo ma altrettanta tensione etica, Coco & Ferruti invitano gli italiani a governare meglio il fenomeno migratorio anche “in un’ottica utilitaristica”, ovvero consentendo a “più braccia per lavorare di soggiornare regolarmente in Italia per un necessario riequilibrio demografico che consenta di reggere la pressione del sistema previdenziale in futuro”: qualsiasi approccio, anche strumentale, sarebbe infatti meglio dell’attuale, che pretende di ignorare sistematicamente i problemi degli stranieri irregolari che vivono tra noi nell’illusione che un giorno spariscano tutti simultaneamente, magari a seguito di un’ “epidemia di rimpatri”. Migranti. La guerra infinita agli intrusi, privati di ogni umanità di Guido Viale Il Manifesto, 13 novembre 2021 Nel nostro futuro c’è una guerra sempre più intensa contro una moltitudine crescente di genti escluse dal novero degli esseri umani, condannate allo sterminio; per loro, in un mondo stravolto dalla crisi climatica e ambientale non c’è più posto. Apocalisse vuol dire rivelazione. Quale rivelazione ci riserva l’apocalisse ormai in corso? Decine di migliaia di profughi si ammassano ai confini dell’Europa, degli Stati uniti e dell’Australia: alcuni per sfuggire a guerre e bombardamenti; altri costretti dall’impossibilità di sopravvivere nelle loro terre devastate; molti spinti dal desiderio di sfuggire a un ambiente senza futuro (come fanno migliaia di giovani italiani). In molti casi, si sentenzia, quei “migranti! sono la componente meno sofferente delle loro comunità: i più istruiti, i più intraprendenti, i meno poveri. E’ vero; gli altri non hanno i mezzi per muoversi se non fino al territorio più vicino; ma quelli che cercano una via di fuga lontano lo fanno spesso per cercare di aiutare chi resta: magari con una parte dei 30 euro al giorno che guadagnano spaccandosi la schiena in un campo. Poi ci sono quelli ancora lontani dai nostri confini, intrappolati in paesi di transito dove l’Europa e gli Usa vorrebbero che restassero per sempre. Governi e associazioni criminali paragovernative (come in Libia) giocano sulla loro pelle per ricattare i paesi meta di quei viaggi: il gioco sporco della la Turchia lo conosciamo; il Marocco ha cominciato imitarla; la Libia - o chi per essa - si riprende, a pagamento, quelli che non riescono a raggiungere le navi delle Ong; non per portarli in salvo: per depredare di nuovo loro e le loro famiglie e poi imbarcarli in un nuovo viaggio; la Bielorussia li fa arrivare in aereo come turisti e li spinge contro la frontiera polacca per ricattare l’Unione europea. Ma non si tratta certo di sprovveduti; quei profughi non se li è inventati Lukashenko. Molti di loro, senza questa “opportunità”, intraprenderebbero comunque quel viaggio con altri mezzi. Di fronte a questo “assedio” l’Unione europea ha fatto una scelta univoca: guerra ai migranti. A questo servono l’agenzia Frontex, ormai finanziata con centinaia di milioni di euro, il suo esercito in formazione di 10.000 unità e, soprattutto, l’apparato ipertecnologico di sorveglianza dei confini. Le navi di Frontex non salvano i migranti in mare; i suoi aerei non ne segnalano la presenza alle navi commerciali. Se non c’è una motovedetta libica pronta a sequestrarli per riportarli all’inferno, li lasciano annegare. Così succede anche alle frontiere di terra: sia di qua che di là del filo spinato viene lasciata mano libera a polizie, milizie parafasciste, truppe nazionali, e ora anche alla Nato, per respingere i migranti catturati, o abbandonarli al gelo in un bosco, dopo averli depredati e massacrati di botte. Li aspetta la morte. Sono fatti noti e documentati: trattamenti riservati a uomini, donne, famiglie, bambini, non più considerati esseri umani. È il messaggio della Ue all’opinione pubblica. Addio ai decantati “valori europei”: non solo per i tanti che non sanno che farsene; anche per chi finge di “tenerci”; scrive Bernard Guetta su Repubblica (9.11): “Devo confessarlo, per quanto sia ironico, per quanto sia doloroso… non resta che sistemare reticolati…Se non fosse che alla frontiera tra la Bielorussia e la Polonia le temperature sono così rigide che i rifugiati muoiono di freddo…Nondimeno, dramma umano o no, i polacchi non possono cedere a questo ricatto. In guerra come in guerra”. Ma c’è qualcuno che pensa che queste “ondate” possano arrestarsi, o invertire rotta? E’ ovvio che continueranno a crescere come valanghe; tanto più che le non decisioni del G20 e della COP26 renderanno sempre più inospitale un numero crescente di aree della Terra, le cui popolazioni non potranno che cercar di sfondare le barriere dei paesi dove la vita sarà o sembrerà ancora possibile. Ecco allora che cosa ci rivela l’apocalisse già in corso: nel nostro futuro c’è una guerra sempre più intensa contro una moltitudine crescente di genti escluse dal novero degli esseri umani, condannate allo sterminio; per loro, in un mondo stravolto dalla crisi climatica e ambientale non c’è più posto; e farglielo capire toccherà, in modo sempre più diretto, a tutti noi. Per difendere il nostro “stile di vita” non negoziabile? Neanche per sogno! Se Covid 19, con “solo” 5 milioni di morti (o forse il doppio) ha stravolto catene di fornitura, prezzi delle materie prime, rifornimenti di gas, vita quotidiana, è facile immaginare che cosa provocherà la crisi climatica mano a mano che i suoi effetti si faranno più pesanti: altro che auto elettriche, riscaldamento a gogo, vacanze all’estero. Riusciranno forse a “sfangarla” le comunità che avranno organizzato per tempo sistemi energetici, di mobilità, di alimentazione, diversi; stili di vita più sobri; una rinnovata attenzione per la vita che ancora popola il nostro pianeta. Sperando che il loro esempio si diffonda nel resto del mondo. Migranti. Italia condannata dalla Corte di giustizia europea per la Carta famiglia vita.it, 13 novembre 2021 Dopo la sentenza di settembre relativa alle discriminazioni previste dal bonus bebè e dalla indennità di maternità, ora il Parlamento deve immediatamente modificare la normativa risalente all’Esecutivo “Conte I”, che limita la prestazione ai soli cittadini italiani e comunitari. Escludere i cittadini non comunitari dalla “Carta della famiglia” è contrario al Diritto dell’Unione Europea. È la stessa Corte di Giustizia UE con una sentenza (la n? C-462/20 del 28 ottobre 2021) a evidenziare come, la “Carta della Famiglia”, pur non costituendo una “prestazione” (infatti non vede attribuita una specifica somma ma il riconoscimento di uno sconto), è un “servizio” e pertanto deve essere rispettata la parità di trattamento tra cittadini comunitari e cittadini extracomunitari nell’accesso a beni e servizi. Il ricorso - promosso davanti al Tribunale di Milano - ha visto protagoniste le associazioni Avvocati per niente, Asgi e Naga ed è stato patrocinato dagli avvocati Alberto Guariso, Livio Neri e Ilaria Traina. Pur a fronte di uno scarso utilizzo - ad oggi- della Carta (sono infatti solo 270 i negozi o servizi convenzionati sul territorio nazionale) emergeva evidente la discriminazione dei cittadini extracomunitari da un servizio riconosciuto anche durante la pandemia a famiglie italiane, indipendentemente dal reddito. La Carta della famiglia è stato un provvedimento fortemente voluto dall’allora Ministro per la Famiglia e la Disabilità Lorenzo Fontana durante l’Esecutivo “Conte I”. Ora l’Italia è chiamata immediatamente a modificare la normativa eliminando la disposizione che limita la prestazione ai soli cittadini italiani e comunitari. “Dopo la sentenza della Corte di Giustizia dell’UE degli inizi di settembre che riconosce ai cittadini di paesi terzi di beneficiare di un assegno di natalità e di un assegno di maternità previsti dalla normativa italiana, giunge per l’Italia una seconda, cocente condanna in sede di giustizia europea. Quando domina una impostazione ideologica e propagandistica per nulla riflettente le disposizioni comunitarie in vigore arrivano condanne come queste capaci di riportare la bussola su politiche realmente egualitarie e inclusive. Avevamo la certezza che vi fosse un giudice, non tanto a Berlino, ma in Lussemburgo”, dichiara l’Avvocato Alberto Guariso per Avvocati per niente. “Le condanne sono ancora più interessanti considerando come quei provvedimenti discriminatori hanno riguardato famiglie bisognose che si sono viste escludere da concreti aiuti anche e soprattutto in occasione della pandemia. Ci auguriamo che il nostro Parlamento dia sollecita attuazione alle indicazioni della”, evidenzia il Presidente di Avvocati per niente Antonio Papi Rossi. Russia. Le torture nelle carceri al vaglio del Consiglio Ue Il Fatto Quotidiano, 13 novembre 2021 Una rivolta in un penitenziario nella regione di Irkutsk, avvenuta nell’aprile 2020, fu sedata nel sangue. Ma grazie al lavoro del whistleblower Serghey, che è riuscito a trafugare centinaia di giga di video, adesso la verità è venuta a galla. Una rivolta in prigione nella regione di Irkutsk, avvenuta nell’aprile 2020, di cui solo ora emergono spaventosi dettagli grazie a un’indagine del media Taiga, che pubblica “l’enciclopedia delle violenze” commesse durante le proteste dei detenuti. Poi un “archivio degli orrori” compiuti in moltissime strutture carcerarie della Federazione: migliaia di video, grazie a un whistleblower bielorusso, raggiungono l’Europa. E infine, perfino la denuncia di un marine americano, che si trova dietro le sbarre del Paese di Lev Tolstoy, che ha scritto che per giudicare “il grado di civiltà di uno Stato” bisogna visitare le sue prigioni. Nella prigione di massima sicurezza a 50 chilometri da Irkutsk, nel padiglione 15, nell’aprile 2020 è scoppiata una rivolta. Leonid Sagalakov è stata una delle vittime: era il capo regionale del Fsin, servizio penitenziario federale. Insieme a lui, durante le violenze, sono morte altre 17 persone, quasi tutti detenuti: secondo Taiga, è stato l’episodio più sanguinoso mai verificatosi in una prigione russa. Dopo la protesta, contro centinaia di prigionieri si è scatenata la violenza delle divise, ma delle torture si è saputo solo mesi dopo, quando ha cominciato a diffondersi anche la notizia degli abusi sessuali compiuti per punirli e ricattarli. L’enciclopedia, divisa in paragrafi che mettono insieme i pochi dati a disposizione sulle vittime, è stata stilata anche grazie a quanti hanno testimoniato e vivono adesso sotto minaccia. Gli stupratori, invece, non sono sotto indagine. Una delle storie riguarda il corpo di Maxim Dautov, un detenuto a cui, all’epoca, mancavano pochi giorni per tornare libero, andare a casa e riabbracciare sua moglie e sua figlia. È stato ritrovato trafitto da tagli, afflitti soprattutto sulle braccia. Il suo cadavere era una mappa di lividi: li ha contati la madre di sua figlia quando lo ha ricevuto e ha chiesto agli inquirenti di aprire un’indagine. La risposta che ha ricevuto è stata negativa: quella morte non era certo dovuta ad atti criminali. “Nove dei russi che sono incarcerati qui sono tenuti nella stessa stanza con un buco sul pavimento da usare come toilette per i bisogni e in stato di incommunicado con le loro famiglie”. A denunciare le condizioni dei prigionieri russi è un altro detenuto, ma molto più celebre, che ha appena dichiarato di aver iniziato lo sciopero della fame per la ripetuta violazione dei suoi diritti nel penitenziario federale della Mordovia. L’ex marine degli Stati Uniti Trevor Reed è finito in cella dopo aver causato un incidente in stato di ebrezza, evento di cui ha sempre detto di non ricordare nulla, ma per cui rischia una condanna di nove anni. In Russia era arrivato per fare visita alla sua ragazza e studiare il cirillico. Mentre parenti e amici, oltreoceano, attendono uno scambio di prigionieri con Washington, suo padre ha aperto un sito per chiedere la sua liberazione e denunciare tutti gli errori commessi dalle divise russe durante le indagini. Del caso Reed, e di quello di un altro marine Usa rimasto inghiottito dal sistema carcerario russo, ha parlato perfino il presidente Biden all’omologo Putin quando si sono incontrati a Ginevra a giugno scorso. Uomini bendati per essere stuprati, percossi fino allo sfinimento, filmati mentre venivano abusati. “Umiliati nel corpo e nello spirito”. Il whistleblower Serghey, che è riuscito a trafugare centinaia di giga di video che finalmente testimoniano le torture commesse nelle carceri russe, ne parla nell’intervista che verrà pubblicata sul Fatto lunedì 15 novembre. Insieme al fondatore dell’ong Gulagu.net, (che vuol dire “no al gulag”), Serghey racconta della sua vita nelle infernali celle slave e della sua rocambolesca fuga con “l’archivio dell’orrore”, adesso sotto il vaglio del Consiglio d’Europa. Il futuro della Libia e noi di Gianluca Di Feo La Repubblica, 13 novembre 2021 Il vertice di Parigi traccia un percorso per superare la stagione della guerra civile. Per l’Europa la stabilità dell’Africa è fondamentale. Il messaggio è stato chiaro: Europa e Stati Uniti vogliono la stabilizzazione della Libia. E, forse per la prima volta, questo segnale viene lanciato in modo corale, senza distinguo tra i protagonisti della partita. Macron, Merkel e Draghi hanno parlato in maniera univoca, con il sostegno della Casa Bianca testimoniato dalla presenza di Kamala Harris. Anche il presidente egiziano Al Sisi avrebbe dato il suo appoggio, determinante alla luce dell’influenza sulla Cirenaica e sul maresciallo Haftar. Da questo punto di vista, la conferenza di Parigi rappresenta un grande risultato politico. Traccia un percorso per superare la stagione della guerra civile: le elezioni del prossimo 24 dicembre, le prime consultazioni dopo nove anni drammatici che hanno devastato la Libia. Un passo avanti fondamentale per un Paese che non ha mai conosciuto la democrazia, perché alla dittatura di Gheddafi si è sostituita la lotta armata tra milizie tribali. Ma soprattutto indica con chiarezza gli ostacoli sulla strada della pace: Russia e Turchia. Sono le potenze che condizionano le scelte di Tripoli e di Bengasi, con linee d’azione diverse: manifesta quella di Erdogan, che ha sottoscritto accordi formali e schierato truppe; molto più nell’ombra quella di Putin, che ha messo in campo i mercenari della compagnia Wagner. Entrambi però non intendono rinunciare né allo sfruttamento delle risorse petrolifere, né alle potenzialità geostrategiche offerte dalla costruzione di capisaldi al centro del Mediterraneo. Macron e Merkel sono stati decisi nel chiedere ad Ankara e Mosca il ritiro dei soldati. Le prossime cinque settimane saranno cruciali ma è indubbio che senza superare i loro i veti sarà impossibile arrivare a elezioni realmente rilevanti. Il vertice di Parigi ha anche mostrato una sintonia tra Italia e Francia sul futuro della Libia, accantonando i contrasti e i tiri mancini dell’ultimo decennio. E Draghi ha colto l’occasione per imporre un tema chiave, decisivo per le sorti dell’intera Europa: il contrasto al traffico di uomini nel Canale di Sicilia. Il premier ha parlato di “situazione insostenibile”, invocando l’intervento dell’Unione. L’inchiesta di Alessandra Ziniti mette in luce quanto sia pesante il carico sulle nostre strutture: dall’inizio dell’anno sono sbarcate 57.833 persone ma di queste solo 97 sono state accolte dagli altri Stati della Ue. Dietro l’ondata di disperati, che neppure la pandemia ha fermato, non ci sono soltanto gli interessi criminali dei càid di Tripoli: i flussi vengono controllati secondo un calcolo molto più ampio, che rispecchia non solo le dinamiche della crisi libica ma anche i disegni delle potenze straniere. Come in Bielorussia, pure nel Mediterraneo centrale la marcia dei migranti viene manovrata come un’arma secondo gli schemi di una vera “guerra ibrida”. Perché conosciamo gli effetti politici causati nei parlamenti dell’Unione dall’esodo siriano del 2013, incrementando la crescita dei movimenti sovranisti fino al punto da minacciare la stessa sopravvivenza delle istituzioni europee. Un rischio che oggi, con il tessuto sociale del continente messo a dura prova dal Covid, non si può correre. Ma che - come ha sottolineato Draghi - deve essere sventato senza dimenticare i valori dell’Europa e prima di tutto il rispetto dei diritti umani. Non si possono costruire muri, anche perché sul mare questa possibilità non esiste. E non si può proseguire nell’impiego di carcerieri prezzolati che bloccano le partenze vessando i profughi. L’Unione deve condividere il peso degli sbarchi e trovare la forza di concepire un intervento strategico sulle radici del problema: aprendo gli occhi sulle condizioni del Sahel e del Corno d’Africa, dove nasce la fuga dalla povertà e dalla guerra, e contrastando con fermezza i pupari che manovrano i flussi come un’arma. Un impegno costoso in termini economici, diplomatici e militari. Ma indispensabile: perché è dalla stabilità dell’Africa che passa il futuro dell’Europa. Egitto. Salvate Ramy Shaat, nelle mani di al Sisi come Patrick Zaki di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 13 novembre 2021 L’attivista di origine palestinese è in carcere da due anni e mezzo. La storia di Ramy Shaath ricorda in modo inquietante quella di Patrick Zaki, lo studente egiziano all’università di Bologna imprigionato in un carcere del Cairo dal febbraio del 2020 per “eversione”, “minaccia alla sicurezza nazionale” e “fiancheggiamento del terrorismo”. Attivista di origine palestinese, Shaat da oltre due anni e mezzo è detenuto nella prigione di Tora, pochi chilometri a sud della capitale, con le stesse, vaghe accuse, del povero Zacki. La sua unica fortuna è di essere sposato con una cittadina francese, Céline Lebrun- Shaath, che da venti mesi si sta battendo come una leonessa per la sua liberazione, portando il caso sulla ribalta mediatica e interrogando senza sosta il mondo politico transalpino. Una petizione per la rimessa in libertà di Shaat è stata ufficialmente firmata da circa duecento deputati dell’Assemblea nazionale, ma senza alcun esito concreto. Eppure i rapporti tra Parigi e il Cairo sono eccellenti e il presidente Macron dispone di tutte le armi diplomatiche per esercitare pressione sul presidente al Sisi. “In questi due anni e mezzo ci sono stati incontri bilaterali, vertici, telefonate, ma mio marito rimane in prigione anche se non ha fatto nulla di male. Non dubito della buona fede delle nostre autorità, di sicuro metto in discussione la loro efficacia”, spiega la donna al quotidiano Le Monde. Anche se non ha mai accusato l’Eliseo, molti attivisti che oltre le Alpi si stanno occupando del caso denunciano da tempo la totale accondiscendenza della Francia nei confronti dell’Egitto sulla questione dei diritti umani, sacrificati sull’altare dei mutui interessi economici. Gli accordi commerciali tra le due nazioni sembrano così più importanti del destino di Ramy Shaat. La prossima finestra utile sarà l’11 novembre, con la visita ufficiale di al Sisi a Parigi, dove incontrerà Macron. Lo scorso anno il presidente francese aveva evocato timidamente il caso nel corso di un viaggio al Cairo, senza però ricevere alcuna risposta concreta. In compenso ha regalato ad al Sisi la prestigiosa Legion d’onore, suscitando l’indignazione di chi da quasi 30 mesi si batte per la liberazione dell’attivista. Shaat è stato arrestato nel 2019 mentre partecipava a una manifestazione contro il regime del generale al- Sisi. Nessuno scontro con la polizia, nessuna tensione di piazza, la sua unica colpa era il dissenso. Figlio di Nabil Shaat, uno storico dirigente dell’Anp ex negoziatore e consigliere di Abu Mazen, Shaat partecipò nel 2011 al movimento delle primavere arabe che portò alla caduta di Hosni Mubarak, finendo dopo il golpe del 2015, nel mirino della giunta militare, decisa a sbarazzarsi di qualsiasi embrionale movimento di opposizione. Pressioni su al Sisi sono arrivate anche da Ramallah da parte della dirigenza dell’Anp, ma anche in questo caso si sono rivelate inutili. L’uomo resta dietro le sbarre. Anche perché la macchina della repressione politica funziona a ritmi spasmodici e non guarda in faccia nessuno. Se i Fratelli Musulmani sono stati messi fuori legge e i loro militanti arrestati in massa, ci sono migliaia di attivisti “laici” finiti individualmente nelle maglie della terrificante giustizia egiziana. La gran parte di loro è composta da “invisibili”, persone di cui nessuno conosce l’identità e la sorte, sepolte nelle cupe prigioni egiziane, piene zeppe di prigionieri politici. “Ramy non ha ricevuto nessun capo formale di imputazione, non c’è stata nessuna inchiesta giudiziaria nei suoi confronti. Il regime egiziano utilizza infatti la carcerazione preventiva come strumento per mettere a tacere qualsiasi voce critica, sbattendo in prigione dei cittadini senza processo e solo per le loro opinioni politiche”, continua la moglie di Shaat, che venne espulsa dall’Egitto pochi giorni dopo l’arresto del marito. Da allora ha avuto diritto solo a delle brevi visite in prigione, ma le è vietato di soggiornare al Cairo per più di 24 ore. Libertà per Ocalan. La lotta dei curdi sbarca a Napoli di Chiara Cruciati Il Manifesto, 13 novembre 2021 Artisti, intellettuali e politici partiti dalla Grecia. Come il leader del Pkk 23 anni fa. Ad accoglierli hanno trovato centinaia di persone, sul molo Pisacane del porto di Napoli. Un po’ di pioggia, bandiere curde e quelle rosse di Rifondazione comunista e una canzone, Bella ciao, intonata mentre scendevano la scaletta della barca, addosso una maglietta nera con il volto del leader del Pkk, Abdullah Ocalan. A mezzogiorno sono sbarcati in Italia i 40 partecipanti alla carovana per la libertà, intellettuali, politici, artisti curdi e di svariati paesi del mondo, partiti da Atene l’8 novembre. Un’iniziativa che a Napoli è stata coordinata da Rete Kurdistan Meridione e che cade a 23 anni dall’arrivo di Ocalan in Italia. Partì dalla Grecia, come la carovana, in cerca di asilo politico in terra italiana. Pochi mesi dopo sarebbe stato catturato a Nairobi, con quella che è stata definita “un’operazione di pirateria internazionale”, dai servizi segreti turchi, principio della lunga prigionia che ancora oggi lo costringe nell’isola-prigione di Imrali. È a Ocalan che era rivolta l’iniziativa della carovana. A lui e alla quotidianità affrontata nei quattro angoli del Kurdistan dal progetto di confederalismo democratico sorto dalla sua teorizzazione, sotto attacco della Turchia ormai da anni. Sotto diverse forme: l’occupazione militare-jihadista del cantone curdo-siriano di Afrin e dell’est del Rojava, la campagna di attacchi con i droni contro il campo profughi di Makhmour e la regione di Shengal, in Iraq, e infine i bombardamenti continui contro le montagne di Qandil, rifugio della leadership politica del Pkk e della sua resistenza armata. Di questo parla al manifesto Yuksek Koc, co-presidente del Congresso popolare dei curdi in Europa, a bordo con ex deputati e deputate dell’Hdp, oggi in esilio: “Il nostro obiettivo è attirare l’attenzione sui crimini che la Turchia compie in Kurdistan. Una guerra sporca che si serve di ogni mezzo e tecnologia con il sostegno di Usa e Russia. Lo Stato turco pensa di uscire dalla propria crisi, di ricostruire la propria grandezza, distruggendo la nostra esperienza, anche usando armi chimiche, proibite, contro i villaggi e i civili”. “Chiediamo di cancellare il Pkk dalla lista dei gruppi terroristici, per togliere alla Turchia ogni copertura politica. Chiediamo a tutte le città d’Italia e d’Europa di concedere a Ocalan la cittadinanza onoraria, come ha fatto Napoli”. In attesa di incontrare il neo-sindaco Manfredi, al molo c’erano due presidenti di municipalità, Alessandro Fucito e Nicola Nardella, che hanno ricordato il percorso che ha condotto a quella cittadinanza “su spinta dei movimenti politici e sociali” perché “la battaglia del popolo curdo è quella di noi italiani e napoletani, per la libertà”. Dal porto si è mosso il corteo, ha attraversato il centro di Napoli fino a piazza del Plebiscito. È davanti al palazzo della prefettura che il piccolo camion che guidava la marcia, con musiche e slogan, si è fermato mentre i tanti curdi e curde arrivati dal resto d’Italia danzavano al suono delle melodie tradizionali. A camminare con loro anche Nicoletta Dosio, tra le leader del movimento No Tav della Val di Susa: “Con il popolo curdo abbiamo un legame particolare, alcuni dei nostri giovani sono stati nel Rojava a combattere per la difesa di una popolazione con cui sentiamo di avere tanto in comune - dice al manifesto - La difesa della bellezza e della natura, l’affermazione di una socialità dal basso, l’autogestione delle comunità e l’importanza del ruolo della donna. Anche quella No Tav è una lotta di donne: la violenza sulle donne e sulla natura hanno la stessa origine, la sopraffazione dell’essere umano su altri esseri umani”. “Per questo chiedo la liberazione di Ocalan e di tutti i detenuti - continua - Io ho provato il carcere, ho visto come nella prigione il sistema nasconde le proprie colpe. È un luogo da cui ci si salva solo collettivamente. Io non sono per migliorare la situazione nelle carceri ma per abolirle”. Uno dei pilastri del confederalismo democratico in atto nella Siria del nord-est, che ha tra i suoi punti il totale stravolgimento del sistema penale. Il carcere sperimentato anche da Ertugrul Kurkcu, presidente onorario del Partito democratico dei popoli (Hdp). Al Cinema Modernissimo, dove nel pomeriggio la carovana ha incontrato centinaia di persone, corre veloce tra le tappe della sua vita: “Ho 74 anni, sono turco e sono comunista. Provengo dai movimenti rivoluzionari turchi, dalla lotta armata e la prigione. Ad Ocalan la nostra esperienza ha dimostrato che era possibile ribellarsi. Lui ha messo in comune quell’esperienza con quella del popolo curdo. La lotta nazionalista curda è così uscita dalla dimensione tribale per divenire universale. Ha rivoluzionato sia i movimenti rivoluzionari turchi che la lotta del popolo curdo”. Per l’occasione è stato lanciato il sito freeapo.org, un’iniziativa del media center di Rete Kurdistan, con video, timeline e approfondimenti. Singapore. Salvato dalla forca grazie al Covid, ma solo per ora di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 13 novembre 2021 Il virus malvagio che tutti temono ha improvvisamente fatto un incantesimo: ha fermato la mano del boia a Singapore. Nagaenthran Dharmalingam, malesiano di 33 anni, doveva essere impiccato il 10 novembre, dopo oltre dieci anni trascorsi nel braccio della morte per un reato legato alla droga. Ma quando la corte, alla vigilia del giorno fatidico, si è riunita per decidere su un ricorso presentato in extremis dall’avvocato M. Ravi in merito alla sua disabilità intellettiva - Dharmalingam ha un QI di 69 - ha riscontrato che aveva contratto il Covid e ha rinviato l’esecuzione. La pandemia ha in generale imposto una “tregua nelle esecuzioni”. In parte per le lentezze processuali, in parte per alcuni sviluppi politici. Nel 2020 e in questo 2021, Singapore, per la prima volta dal 2013, non ha effettuato impiccagioni. Non ha però smesso di pronunciare condanne a morte. E si è distinto per due casi in cui la condanna a morte è stata emessa, l’anno scorso, non in un’udienza fisica ma tramite Zoom. Quando il 9 novembre, il giudice Andrew Phang ha annunciato la sospensione dell’esecuzione di Dharmalingam, ha spiegato come la decisione sia stata frutto della “logica, del senso comune e di quello di umanità”. Logica, senso comune e senso di umanità che dovrebbero far riflettere questa piccola isola città-stato del sud-est asiatico, e noi stessi, sull’insano primato che riveste nel microcosmo della pratica della pena capitale. Quello di avere una legislazione anti-droga tra le più severe al mondo e di praticare la pena di morte quasi esclusivamente per questo tipo di reati in un regime avvolto ancora in gran parte dalla segretezza. All’aeroporto, i formulari doganali avvertono senza mezzi termini i viaggiatori in arrivo sul rischio di “pena di morte per i trafficanti di droga”. Qualsiasi persona con più di 18 anni trovata in possesso di oltre 15 grammi di eroina, 30 grammi di cocaina, 500 grammi di cannabis o 250 grammi di metanfetamine è condannata all’impiccagione. Quando Nagaenthran Dharmalingam viene arrestato nel 2009 aveva sotto i suoi larghi pantaloni un pacchetto di 42,72 grammi di eroina legato alla coscia sinistra. Sembrava destinato a soccombere in un Paese in cui la pena di morte era addirittura obbligatoria. La sentenza capitale del 2010 è infatti confermata in appello nel 2011. Nel 2013, però, Singapore si rende conto che è giunto il tempo di rivedere tale disumana legge e introduce un margine di discrezionalità nel comminare la pena di morte o l’ergastolo e 15 colpi di bastone, per chi sia solo un corriere o un collaboratore con la giustizia. In alternativa, chi dimostra di essere un corriere potrebbe anche evitare la pena di morte se mentalmente o intellettualmente disabile. Dharmalingam, nel 2015 chiede allora la revisione. Ma perde il ricorso in primo grado nel 2017 e in appello nel 2019. Lo scorso mese di ottobre, il Servizio delle prigioni manda una lettera a sua mamma per informarla della data dell’esecuzione e darle modo di far visita al figlio. La lettera viene fatta girare sui social media. In questo Paese dove non c’è quasi dibattito pubblico sulla pena di morte, anche perché leggi speciali limitano la libertà di stampa, accade che parte una mobilitazione internazionale che raccoglie oltre 60.000 firme su un appello rivolto al Presidente di Singapore Halimah Yacob affinché conceda la grazia. Oltre alla disabilità mentale, viene avanzato anche il caso che Dharmalingam sia stato usato nell’ambito del traffico di esseri umani. Intervengono il Primo Ministro della Malesia Ismail Sabri Yaakob, un gruppo di esperti ONU, il miliardario inglese Richard Branson, oltre alla delegazione dell’Unione Europea e le rappresentanze della Svizzera e della Norvegia. Sta di fatto che ad oggi la speranza di Dharmalingam è, paradossalmente legata al Covid, in un mondo che lascia mietere ben più morti alle politiche proibizioniste che alla pandemia. In Afghanistan è tornata la frusta di Giuliano Battiston Il Manifesto, 13 novembre 2021 Spalti gremiti allo stadio della città di Ghazni per assistere alla “giustizia” dei Talebani che riprende il suo corso. Un reportage dal capoluogo dell’omonima provincia afghana. C’è un gran trambusto fuori dallo stadio di calcio di Ghazni, capoluogo dell’omonima provincia afghana, lungo la rotta che da Kabul, 140 km più a nord, porta a Kandahar, 350 più a sud. Lo stadio è appena fuori città, sull’altro lato della strada rispetto ai due minareti a pianta stellare del XII secolo, ciò che rimane della moschea di Bahramshah. I minareti svettano solitari. Lo stadio, sulla strada che conduce all’università statale ancora chiusa, è accerchiato da auto, pick-up, motorette a tre ruote, motorini e biciclette. Gruppi di Talebani sostano all’esterno, scherzando. Giacche militari, bandiere sventolanti, barbe lunghe. Alcuni bambini allungano il collo da una collinetta. Gli spettatori sono tanti. Tra i due e i trecento almeno. Tutti uomini, vengono anche da distretti lontani. L’occasione è speciale: per la prima volta da quanto i Talebani sono arrivati al potere, nello stadio di Ghazni “si fa giustizia”. “Si tratta di due uomini, trovati in città a fare atti sessuali e giustamente puniti”, sostiene un signore. Vive in città. Racconta che i Talebani nei giorni scorsi hanno annunciato l’esibizione tramite altoparlanti piazzati sulle automobili. “Io l’ho saputo alla moschea”, spiega un ragazzo venuto dal distretto di Andar. “Se sono colpevoli è giusto punirli”. Un altro uomo si lamenta. È arrivato in ritardo. Non è riuscito ad assistere alla punizione: frustate. Quando tutto è finito, intorno allo stadio si alza un gran polverone. Ciascuno torna a casa a raccontare che è tornata la “giustizia” talebana. Di cui però non deve esserci traccia materiale. All’interno dello stadio non sono ammessi telefoni, macchine fotografiche, videocamere, giornalisti. Gli abitanti di Ghazni è bene che lo sappiano. Fuori, meglio di no. “No, certo che la notizia non possiamo darla” spiega Mohammed (nome di fantasia), un giornalista di Ghazni con dieci anni di esperienza. “Qui ormai siamo rimasti pochi. I giornalisti delle agenzie internazionali, i collaboratori di Voa, Bbc, della tv iraniana, sono andati via da un bel pezzo. Qualcun altro è stato evacuato. Altri sono in Iran o Pakistan. Quanto a noi, siamo a ranghi ridotti”. Nell’ente per cui lavora Mohammed “prima c’erano 25 tra giornalisti e tecnici, ora siamo in 6”. Le colleghe, tutte a casa. I limiti sono auto-imposti. “Sappiamo bene quel che possiamo e non possiamo dire. Via la musica dai palinsesti e via i programmi politici. Quanto alle notizie, niente che sia contro i Talebani”. Con il loro arrivo a Ghazni, Mohammed è scappato a Kabul, per tornare dopo una decina di giorni. “Sono preoccupato della situazione, certo. Lavorare così è difficile, ma che fare? Dobbiamo conviverci”. Affinché il patto di convivenza fosse chiaro, il responsabile del dipartimento per l’Informazione e la Cultura, mullah Abibullah Mujahid, ha convocato tutti i responsabili dei media della città, non appena si è insediato. “Ci ha detto che avremmo dovuto cooperare e sostenere l’Emirato”. Mullah Abibullah Mujahid è un uomo corpulento con lo sguardo bonario, la barba lunga nera e una giacca militare che toglie solo per la foto d’occasione. “Ho 48 anni e da 27 faccio parte dei Talebani. Negli ultimi 14 sono stato il responsabile dell’Informazione per la provincia di Ghazni”. Da due mesi, quello che era un ruolo-ombra, in attesa del rovesciamento della Repubblica, è diventato un ruolo ufficiale. Attorno a lui si muove la solita pletora di assistenti, vice-assistenti, portatori di tè. Sul tavolo dell’ampio ufficio, non manca il campanello con cui chiamare in caso di bisogno. Per il mullah, l’informazione locale va bene. È quella straniera che non funziona. “Siamo gente come si deve. È la propaganda degli americani che ci dipinge come persone terribili. Ma invito tutti, anche gli italiani, a venire a visitare l’Emirato”. Ghazni è una città straordinariamente ricca di storia. Qui le missioni archeologiche italiane hanno lavorato a lungo, offrendo un contributo importante. Tanti i siti archeologici. Mujahid sembra saperne poco. In più di un’occasione interviene il segretario: uno dei tanti che, per scelta o necessità, continua a fare il suo lavoro. Prima per le istituzioni della Repubblica islamica, ora per quelle, traballanti e non riconosciute, dell’Emirato. Per mostrarci le virtù del nuovo Emirato, ci conducono nella biblioteca, piena di sole e di libri, alcuni dei quali anche in inglese e su temi che un talebano scrupoloso potrebbe trovare inopportuni. Ma più che far sparire i vecchi libri, l’Emirato ne pubblica di nuovi. All’ingresso ci sono opuscoli freschi di stampa: la vita e il pensiero di mullah Haibatullah Akhundzada, l’Amir ul-muminin, la guida dei fedeli che molti danno invece per morto; la struttura e le istituzioni dell’Emirato; le gesta di Jalaluddin Haqqani, fondatore dell’omonima rete del terrore e padre di Sirajuddin, numero due dei Talebani e ministro degli Interni con molte ambizioni. Sono molto diversi i testi della biblioteca della Muslim University, “la più importante università privata di Ghazni”, puntualizza il vice-rettore, Zia U-Rahman, un dottorato in corso in una università indonesiana e un master all’università di Washington. Nota in particolare per l’istituto di medicina e stomatologia, la Muslim University ha una biblioteca fornitissima, con libri in inglese di prestigiose case editrici internazionali. “Con il cambio di regime siamo rimasti chiusi 15 giorni. Appena avuto il via libera, abbiamo riaperto”, spiega Zia U-Rahman. I problemi sono tanti: “Abbiamo perso molti studenti. Prima ammettevano ogni semestre tra i 200 e 250 studenti, ora tra i 70 e i 100”. Le classi si sono svuotate. “I libri di medicina sono molto costosi e la situazione economica è peggiorata per tutte le famiglie. Alcune mie amiche hanno abbandonato”, ci spiega Shagufa, una studentessa di 19 anni, il cui sogno, “fin da piccola, è fare la chirurga”. Racconta che anche pagare le tasse universitarie è diventato difficile. Che sono rimaste solo le studentesse le cui famiglie hanno più possibilità economiche. In altre facoltà ad abbandonare sono stati i funzionari del ministero dell’Interno: “Sfortunatamente ne abbiamo persi molti. Tanti studenti lavoravano per il vecchio governo, qualcuno nell’intelligence”, ci spiega Niamatullah Sherzad, docente alla facoltà di Diritto e politica. Per Mariam, 20 anni, l’arrivo al potere dei Talebani significa rinunciare alla sua ambizione professionale: “La mia famiglia ora mi dice “vedi, te lo avevamo detto che non dovevi studiare legge”. Mi manca un anno per completare gli studi. Ho sempre voluto fare la giudice. Cosa farò? Se ci saranno ancora i Talebani farò l’insegnante a scuola. Non ci permettono di fare altro”.