“Il garantismo dei partiti si misurerà sulla riforma del carcere” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 12 novembre 2021 Sulla giustizia il Pd va all’attacco. A tutto campo. E a illustrarne i contenuti, e importanti anticipazioni, nell’intervista a Il Riformista è Anna Rossomando, senatrice Pd, Vice presidente del Senato, responsabile nazionale Giustizia del Partito democratico. “Respingiamo al mittente le valutazioni dell’esponente del Movimento 5 Stelle Ferraresi pronunciate alla Camera sul caso dell’ex sindaco di Lodi, aggetti. Una vicenda su cui ritenevamo definitiva la netta presa di posizione del ministro Di Maio di qualche mese fa”. È stata la sua reazione a caldo. Le chiedo: dietro l’uscita di Ferraresi non c’è quel giustizialismo radicalizzato che è stato un elemento identitario dei 5Stelle dal loro nascere? Le parole di Ferraresi sono apparse un passo indietro rispetto a quelle del ministro Di Maio, che proprio rispetto al caso Uggetti aveva fatto un mea culpa sulla gogna mediatica a cui era stato sottoposto da più parti l’ex sindaco di Lodi. Un punto di avanzamento nella discussione interna al Movimento 5 Stelle che avevamo molto apprezzato. Per quanto riguarda il Pd, continueremo a ripetere fino alla noia che i processi si celebrano nelle aule dei tribunali e non nelle piazze. Su questo non arretriamo, è una questione di civiltà, al di là delle furbizie di chi, come la Lega, oggi gioca a fare il garantista a corrente alternata Ma per fare i processi in tribunale è necessario affrontare il nodo dei tempi della giustizia. Questo era ed è l’obiettivo delle riforme approvate in questi mesi con il voto favorevole dell’intera maggioranza. Se parliamo di giustizialismo sottolineo che l’inizio di questa legislatura con il governo gialloverde ha prodotto la cosiddetta “Spazzacorrotti” con l’abolizione della prescrizione, la legittima difesa e i decreti Salvini che avevano demolito il sistema di accoglienza e che sono stati poi fortunatamente modificati grazie soprattutto al nostro lavoro. Con i governi successivi e l’ingresso del Pd si è spostato l’asse politico. La cultura delle garanzie non è alternativa alla cultura della legalità. Questo è il quadro di riferimento quando ci confrontiamo con il Movimento 5 Stelle. Andando oltre, dopo l’approvazione della “riforma Cartabia”, quali sono a suo avviso le questioni primarie da porre in agenda politica e parlamentare da qui alla fine naturale della legislatura, nel 2023? In primis la riforma del Csm, per diversi motivi. Certamente perché è impensabile arrivare alle prossime elezioni con l’attuale legge elettorale, ma soprattutto perché non è rinviabile una riforma complessiva. Convinta che intervenire sulle regole dell’autogoverno non deve intaccare bensì rafforzare i principi costituzionali di autonomia e indipendenza, così come che per contrastare la degenerazione del correntismo occorre restituire valore al pluralismo delle idee, dico che non si può difendere l’esistente. Tra le misure principali che proponiamo ci sono Io stop alle nomine a pacchetto, tramite l’adozione in ordine cronologico, mentre sui consigli giudiziari prevediamo il diritto di intervento e di voto per avvocati e professori universitari. Nella legge elettorale del Csm vogliamo introdurre un meccanismo che garantisca la parità di genere. Puntiamo inoltre a inserire nella valutazione di professionalità anche un parametro costituito dal dato percentuale di smentite processuali delle ipotesi accusatorie, con un osassimo di percentuale significativo. Proponiamo poi la costituzione di un’Alta Corte competente per il giudizio d’Appello sulle decisioni degli organi di autogoverno di tutte le magistrature. In pratica un giudice di Appello nei confronti delle decisioni disciplinari e amministrative del Csm, del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa e di quella Contabile. Si tratta ovviamente di una legge costituzionale, che ho depositato a mia prima firma al Senato pochi giorni fa, sulla quale chiediamo un impegno a tutte le forze politiche presenti in Parlamento. Intanto è stata recepita la direttiva europea sulla presunzione di innocenza stabilendo un altro punto centrale su corto circuito mediatico e inchieste giudiziarie stop alla spettacolarizzazione delle inchieste e avanti sul principio che sottolineavo in precedenza, i processi si celebrano in aula. Conclusa questa fase delle tre riforme, penale, civile e Csm c’è un altro tema su cui non intendiamo soprassedere, la riforma dell’ordinamento penitenziario. Qui ci sarà modo di misurare davvero il garantismo di ciascuna forza politica. Giorgia Meloni chiede di cambiare l’articolo 27 della Carta, quello che proibisce trattamenti inumani in carcere e dichiara la pena “rieducativa”. Non è un arretramento gravissimo? A dir poco! Con queste parole Meloni vorrebbe buttare al macero secoli di storia e cultura sulla funzione della pena dall’Illuminismo in poi. Tra l’altro della migliore “tradizione italiana” se pensiamo che il padre di questo impianto è Beccaria. Il carcere deve restituire alla collettività persone migliori di quando sono entrate. Le esperienze positive sul campo sono innumerevoli e a differenza della Meloni, pensiamo che questo sia strettamente legato al tema della sicurezza, perché una pena che recupera abbatte la recidiva. Aggiungo che abbiamo tutti gli strumenti per garantire la difesa della legalità in questo quadro. Lei è responsabile Giustizia del Partito democratico. Ritiene che nell’insieme del partito, e non solo del suo gruppo dirigente, vi sia la necessaria consapevolezza di come il tema giustizia sia cruciale nell’agire del centrosinistra? Noi pensiamo da sempre che il tema della giustizia sia cruciale nel rapporto tra cittadino e Stato. Una giustizia che non funziona è il primo elemento di discriminazione tra soggetti che non partono da uguali posizioni di tutela. Garantire uguale e sostanziale accesso ai diritti è dunque storicamente un obiettivo dei progressisti e il sistema giustizia ne costituisce uno snodo. Vogliamo anche lasciarci alle spalle una fase lunghissima di quasi 30 anni che ha visto la giustizia quasi esclusivamente come terreno di scontro strumentale. Un approccio che da una parte ha annichilito il dibattito sul rapporto tra libertà e potere e dall’altra ha impedito le riforme attese dal Paese. Quindi nessun partito può permettersi di sottovalutare la portata della giustizia sia da un punto di vista di accesso ai diritti e con le garanzie connesse, sia con riferimento al mondo produttivo che deve avere la certezza dei tempi nella risoluzione delle controversie. Non è un caso che la riforma del processo civile e la riduzione dei tempi dei processi siano state una delle precondizioni per l’ottenimento dell’intero Pnrr. Il Pd e i referendum sulla giustizia. Vi sono state prese di posizioni individuali di importanti esponenti dem a favore e contro quei referendum. Non crede che il sì e no ai quesiti referendari, non possa essere lasciato alla “libertà di coscienza” ma richieda una indicazione chiara del Pd in quanto tale? La posizione del Partito democratico sui referendum è sempre stata chiara: con il massimo rispetto dei proponenti, almeno quelli originari, e di chi ha firmato, riforme di questa portata in materia di giustizia, secondo noi, non si possono fare a colpi di abrogazioni. Perché ricordo a tutti che i referendum sono esclusivamente abrogativi. Avevamo detto che le riforme sarebbero arrivate prima del referendum e cosi è già successo con il processo penale. Sulle valutazioni di singoli esponenti del Pd, valgono le parole del segretario Letta: non siamo una caserma Oltretutto è evidente che c’è chi ha usato i referendum per convenienza politica e penso alla Lega. Un esempio immediatamente comprensibile: sul quesito sulla custodia cautelare, comunque mal posto, sarei felice se il partito di Salvini avesse cambiato idea rispetto all’impostazione del “devono marcire in galera” e a come votò, cioè contro, sulla riforma dell’istituto nel 2015. Ma basta andare a rivedere le parole di Salvini dopo la condanna in primo grado di Mimmo Lucano per capire che non è così. Anche sulla cosiddetta separazione delle carriere sono state dette molte inesattezze, infatti se dovesse passare il quesito referendario ci sarebbe semplicemente un vuoto normativa sulla sola separazione delle funzioni che già oggi vede criteri stringenti che possono essere accentuati. Per noi il punto è un altro: rafforzare le garanzie nel processo assicurando tempi certi e regole per la piena attuazione del principio di non colpevolezza, contrastare le degenerazioni del correntismo e una certa autoreferenzialità nella magistratura. Abbiamo la responsabilità di farlo in Parlamento che è il qui ed ora del vero garantismo. Peraltro, a riprova di ciò, se alcuni quesiti sono fuorvianti, altri sono già oggetto dei provvedimenti approvati o in via di approvazione. Ma la pena non è vendetta di Salvatore Curreri Il Riformista, 12 novembre 2021 Le due proposte di legge presentate da Fratelli d’Italia per scongiurare, a loro dire, lo “smantellamento” del carcere ostativo per i boss mafiosi dimostra una volta ancora, ed in modo tristemente inequivocabile, quanto ancora lunga sia la strada che separa una certa cultura politica dalla nostra Costituzione sulla pena e la sua funzione. Difatti, tra le tre possibili finalità della pena - intimidatoria, afflittiva ed emendativa - i costituenti decisero di privilegiare quest’ultima. Da qui l’art. 27. Non è dunque vero che le finalità della pena sono equivalenti come sostiene Meloni, la finalità principale e ineludibile è la rieducazione del condannato. Le due proposte di legge (l’una costituzionale, l’altra ordinaria) presentate da Fratelli d’Italia per scongiurare, a loro dire, lo “smantellamento” del carcere ostativo per i boss mafiosi dimostra una volta ancora, ed in modo tristemente inequivocabile, quanto ancora lunga sia la strada che separa una certa cultura politica che pur si candida alla guida del Paese dai principi della nostra Costituzione sulla pena e la sua funzione, nonostante ci separino quasi 75 anni dalla sua approvazione e più di 250 dal Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Difatti, tra le tre possibili finalità della pena - intimidatoria, afflittiva ed emendativa - i costituenti (alcuni dei quali il carcere l’avevano vissuto di persona) decisero di privilegiare quest’ultima. Da qui, l’art. 27.3 Cost. secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Non è dunque vero che le finalità della pena sono equivalenti (c.d. concezione polifunzionale), come reiteratamente si afferma nella relazione della proposta di legge costituzionale a prima firma Giorgia Meloni, perché, come recentemente affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 149/2018 (non a caso mai citata in tale relazione) la rieducazione del condannato è la finalità principale e ineludibile della pena e non può mai essere sacrificata “sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena”. Del resto, è proprio per smorzare e, in fin dei conti, contraddire la prevalente finalità rieducativa che Fratelli d’Italia propone d’aggiungere al citato art. 27.3 Cost. l’inciso per cui “la legge garantisce che l’esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”, perché - Meloni dixit - “a me che tu hai avuto una buona condotta in carcere o che hai partecipato a programmi di rieducazione non frega niente se sei stato un mafioso che hai ammazzato”. Una modifica che finirebbe per sfregiare il “volto costituzionale” della pena, che deve sempre essere proporzionale anziché eccessiva, individuale anziché fissa, flessibile in corso dell’esecuzione anziché immodificabile. Ciò nella convinzione, sottesa alla nostra Costituzione e sideralmente distante dalle parole della Presidente di Fratelli d’Italia, che “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento” che chiama in causa sia la sua responsabilità individuale “nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità”, sia “la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino” (C. cost. 149/2018, 7). Sono questi i principi che hanno portato dapprima la Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Viola del 13 giugno 2019 confermata dalla Grande Camera il successivo 8 ottobre) e la Corte costituzionale (sentenze nn. 253 e 263 del 2019 e 97 del 2021) a dichiarare illegittimo il divieto assoluto di accesso a benefici carcerari (permessi premio e liberazione condizionale, peraltro dopo almeno 26 anni di pena scontata) ai condannati per reati associativi di particolare allarme sociale (tra cui mafiosi e terroristi) perché non avevano collaborato con la giustizia. Difatti, come il “collaborare” non implica sempre “un vero pentimento” (come dimostrano i falsi pentiti), analogamente il “non collaborare” non significa sempre “assenza di pentimento”, specie quando ciò è dovuto ad altri fattori, come il timore di ritorsioni contro i propri familiari. Il “fine pena mai” per mafiosi e terroristi dunque contrasta radicalmente con la finalità rieducativa della pena. Ed è solo frutto di una banalizzazione a fini propagandistici affermare che ad un boss mafioso basta aver tenuto una buona condotta in carcere e partecipato ad un programma di rieducazione per essere scarcerato. Spetta, infatti, sempre al giudice di sorveglianza, infatti, valutare attentamente caso per caso la sua effettiva pericolosità sociale, anche qui senza automatismi o presunzioni assolute, sulla base dell’effettiva interruzione dei suoi rapporti con la criminalità organizzata e della sua fattiva partecipazione al percorso rieducativo. Valutazione peraltro compiuta alla delle relazioni del carcere nonché dei pareri della Procura antimafia antiterrorismo e del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Del resto i numeri sono lì a dimostrare quanto le maglie siano rimaste strette, anche dopo le sentenze della Corte: sono stati infatti solo otto i permessi accordati agli ergastolani e nessuno di loro era sottoposto al carcere duro del 41-bis. Consapevole comunque della delicatezza della materia, la Corte costituzionale, nell’ultima sentenza, ha affidato al legislatore il compito, entro il prossimo 22 maggio, di ridefinire la materia, bilanciando i diritti dell’ergastolano con le esigenze di contrasto del fenomeno mafioso. In questa prospettiva le proposte di legge presentate da Fratelli d’Italia e tutte quelle che tendono a reintrodurre il c.d. ergastolo ostativo per mafiosi e terroristi che non collaborano con la giustizia si pongono pervicacemente contro l’articolo 27 della Costituzione sulla finalità rieducativa della pena (che non a caso, come detto, si vorrebbe modificare), di fatto ignorando (o facendo finta d’ignorare) che tale preclusione assoluta è stata già dichiarata incostituzionale dalla Corte. Molto più utili in tal senso sono, piuttosto, le proposte di legge che cercano di rispondere positivamente alle esigenze di bilanciamento sollecitate dalla Corte costituzionale. In questo senso merita particolare menzione quella avanzata dalla Fondazione Giovanni Falcone (tanto per capire chi ne interpreta correttamente il pensiero e chi no). Del resto, come opportunamente ricordato su queste colonne da Tiziana Maiolo, proprio Giovanni Falcone aveva subordinato l’accesso ai benefici penitenziari all’accertamento da parte del giudice di sorveglianza dell’inesistenza di collegamenti con la criminalità organizzata e non alla collaborazione con i pubblici ministeri, introdotta piuttosto con il successivo decreto Martelli dell’8 giugno 1992, dopo le stragi di quell’anno. La proposta della Fondazione subordina l’accesso alla libertà vigilata dei mafiosi e terroristi condannati all’ergastolo, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, non solo al loro “contributo per la realizzazione del diritto alla verità spettante alle vittime, ai loro familiari e all’intera collettività sui fatti che costituiscono gravi violazioni dei diritti fondamentali”, ma anche alle loro iniziative in favore delle vittime ed alla loro effettiva partecipazione alle forme di giustizia riparativa (tema giustamente molto caro all’attuale ministra della Giustizia). Un’ultima considerazione. Agli alfieri del populismo penale che ritengono la finalità rieducativa della pena discorso da “anime belle” che ignorano come il carcere debba essere una “discarica sociale” popolata da condannati che vi devono marcire sino all’ultimo giorno di pena, forse (ma solo forse) vale la pena ricordare che rieducare ogni condannato non è solo un obbligo morale ed un vincolo costituzionale ma costituisce il miglior investimento economico per assicurare la sicurezza sociale. È infatti statisticamente dimostrato che i condannati anche per gravi delitti che abbiano potuto acquisire in carcere una professionalità lavorativa o fruito di permessi, premi e misure alternative alla detenzione non solo non tendono a fuggire ma, una volta scarcerati, in massima parte si reinseriscono più facilmente nella società e tornano meno a delinquere. Il che significa minore tasso di recidività, più sicurezza sociale e, quindi, meno costi per lo Stato. Di contro, il 70% di quanti hanno espiato fino all’ultimo giorno la pena in galera commettono nuovi reati. E purtroppo l’albero fa rumore quando cade, non quando cresce. Ergastolo ostativo: martedì voto sul testo base in Commissione Giustizia alla Camera di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2021 I boss potranno uscire solo dimostrando l’assenza di collegamenti attuali con i clan. “Oltre alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo”, si legge nel testo, i condannati dovranno dimostrare “l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato”. L’assenza di collegamenti (e del pericolo del loro ripristino) dovrà ricavarsi da “congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione”. Si vota martedì 16 novembre, in Commissione Giustizia alla Camera, l’adozione del testo base sulla riforma dell’ergastolo ostativo. Una legge resa necessaria da più sentenze della Corte costituzionale: quella che a ottobre 2019 ha dichiarato illegittimo il divieto di concedere permessi premio ai condannati per delitti di mafia e terrorismo che non collaborano con la giustizia, ma soprattutto quella che ad aprile 2021 ha bocciato il divieto di liberazione condizionale degli stessi soggetti, dando al Parlamento un anno di tempo per riscrivere la norma. Se adottato, il testo andrà a sostituire i tre disegni di legge depositati finora: quello del Movimento 5 stelle a prima firma del deputato Vittorio Ferraresi, quello di Fratelli d’Italia con Andrea Delmastro Delle Vedove e quello della dem Enza Bruno Bossio (precedente alla decisione del 2021). “Personalmente sono soddisfatto che vi sia stata ampia convergenza sulla proposta che, tra l’altro, prevede che i condannati all’ergastolo ostativo non possano accedere ai benefici penitenziari se non vi è certezza della inesistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata o del pericolo di un loro ripristino, oltre alla condizione dell’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato”, dice il relatore, il presidente della Commissione Mario Perantoni (M5s). Il testo, infatti, riprende in molti passaggi la proposta dell’ex sottosegretario alla Giustizia Ferraresi. L’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario viene riscritto prevedendo che i benefici possano essere concessi anche agli ergastolani che non collaborano, “purché, oltre alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo, dimostrino l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o l’assoluta impossibilità di tale adempimento”. Inoltre, il giudice di sorveglianza dovrà accertare,”a seguito di specifica allegazione da parte del condannato, congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali”. Non solo. Il giudice dovrà acquisire il parere del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica del luogo in cui è stata emessa la sentenza di primo grado o, se diverso, del luogo di dimora abituale del condannato nonché di quello in cui intende stabilire la residenza una volta uscito dal carcere. Nel testo attuale il parere obbligatorio è solo quello del comitato del luogo in cui il condannato è detenuto (spesso però distante centinaia di chilometri da quello in cui ha commesso i reati). Sarà necessario anche sentire i pubblici ministeri che hanno richiesto le condanne e le procure nazionali antimafia e antiterrorismo, nonché le direzioni dei penitenziari dove il detenuto è internato. Se uno o più di questi pareri fossero contrari, il giudice potrà concedere il beneficio soltanto indicando” gli specifici motivi per i non ha ritenuto rilevanti le istanze istruttorie e gli elementi acquisiti, nonché gli ulteriori elementi che consentono di superare i motivi ostativi indicati nei pareri del pubblico ministero e nelle informazioni fornite dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente”. “Noi di Fratelli d’Italia vogliamo modificare l’articolo 27 della Costituzione” di Andrea Delmastro Delle Vedove Il Dubbio, 12 novembre 2021 Delmastro, responsabile Giustizia: le norme devono garantire che “l’esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato”. Egr. Direttore, ho letto l’articolo del Suo giornale sulle proposte di legge di Fratelli d’Italia in merito all’ergastolo ostativo. Mi consenta, in premessa e senza alcuna vena polemica, ma per amore di verità e gusto del confronto, precisare che il titolo stesso è fuorviante, laddove suggerisce di far sapere a “Giorgia Meloni” che per la Consulta l’ergastolo ostativo, così come è oggi, è già di per incostituzionale. La consapevolezza è tale e tanta che siamo corsi ai ripari tempestivamente sia con una legge ordinaria nel solco delle indicazioni della Consulta, sia con una proposta di legge costituzionale che intervenga sull’art. 27 della Costituzione al fine di evitare continue erosioni di una delle funzioni della pena: quella preventiva e di difesa sociale. L’art 27 della Costituzione è stato il grimaldello culturale di chi, in questi anni e a più riprese, ha lentamente eroso la certezza della pena sul presupposto che esisterebbe, nella polifunzionalità della pena, un valore “tiranno”: quello della funzione rieducativa. La rieducazione è una delle funzioni pena e fingere che sia l’unica ha comportato la lenta erosione del valore di difesa sociale e di prevenzione generale della pena. Nella proposta costituzionale, pur mantenendo inalterata la funzione rieducativa della pena, introduciamo a caratteri cubitali che “la legge garantisce che l’esecuzione delle pene tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”. È blasfemo o incostituzionale richiamare l’esigenza di sicurezza dei cittadini che è alla base del contratto sociale con cui nasce lo Stato per cui i cittadini autolimitano loro diritti assegnando il monopolio della sicurezza e della giustizia allo Stato? Fratelli d’Italia ha un approccio pragmatico e non ideologico alle vicende della giustizia, rifiutandosi di militare nelle contrapposte e speculari curve ultras tanto dei garantisti che dei giustizialisti. Siamo convinti della necessità di garantire i diritti degli indagati e degli imputati in ogni fase e grado del procedimento, ma crediamo che in Italia, per paradosso, vengano compressi diritti di imputati e indagati e vi sia troppo lassismo nei confronti dei condannati con sentenza passata in giudicato. Questa deriva culturale che nasce dal fuorviante convincimento che la funzione della pena si risolva nella sola funzione rieducativa che ne è tratto essenziale, ma non totalitario. Non possiamo permetterci che tale distorsione della funzione della pena possa disarticolare il percorso di frontale contrasto alla criminalità organizzata che, non a caso, ha fatto del contrasto alla normativa del carcere duro la madre di tutte le battaglie contro lo Stato. La Consulta si limita a precisare che non può più assumersi come presunzione assoluta la pericolosità sociale del detenuto per reati associativi se non collabora con la giustizia. Fermo restando che la mancata collaborazione rimarrà un indice della presunzione relativa di pericolosità sociale, Fratelli d’Italia ha depositato una proposta volta a scongiurare che il percorso infra murario, la formale dissociazione e la partecipazione al lavoro non siano gli unici indici per concedere la liberazione condizionale. Con la proposta di legge ordinaria addossiamo all’istante l’onere probatorio (si chiama onere probatorio rafforzato ed è assolutamente legittimo) di aver rescisso ogni legame con l’ambiente mafioso e l’assenza del pericolo di ripristino, introduciamo maggiori e più penetranti poteri di controllo da parte del Giudice e assegniamo il potere di speciali prescrizioni per scongiurare che il mafioso, ottenuti i benefici, possa nuovamente flagellare la società. Ebbene sì, vogliamo addossare al mafioso l’onere della prova della assoluta rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata, pretendiamo che prima di valutare qualsiasi beneficio si abbia la certezza che non ripristinerà i contatti con l’ambiente malavitoso, consideriamo corretto che un mafioso non possa ottenere benefici vivendo nel lusso in assenza di risarcimento della vittima. Per la particolarità del fenomeno mafioso, è veramente poco probabile che un associato, se veramente pentito, non abbia spunti da offrire, in termini di collaborazione alla giustizia, ma si può affermare che prima di ottenere la liberazione dobbiamo avere almeno la certezza che non ripristinerà collegamenti con gli ambienti malavitosi? O ancora possiamo dubitare della dissociazione formale di chi, ottenuti i benefici, potrà vivere godendo di notevoli patrimoni famigliari, senza aver avvertito la necessità di risarcire la vittima? Questo è il succo della proposta di Fratelli d’Italia che, nel solco delle indicazioni della Consulta, si prefigge di mantenere la durezza del carcere nei confronti delle associazioni delinquere di stampo mafioso, perché il contrasto alla Mafia deve rimanere frontale senza gargarismi garantistici che consegnerebbero la vittoria a Totò Riina nella sua pluridecennale battaglia contro l’ergastolo ostativo. Per noi vince sempre lo Stato, per noi non potrà mai vincere la mafia. Ma non è già troppo quella Guantánamo della civiltà chiamata 41 bis? di Davide Varì Il Dubbio, 12 novembre 2021 Gentile onorevole, innanzitutto la ringrazio per la pacatezza e il tono della sua lettera. Temo però - e intendiamoci: lo dico col massimo rispetto, che sia l’unica cosa che condividiamo. In effetti ci era chiarissima la volontà del suo partito di intervenire sull’articolo 27 della nostra Costituzione. Anzi, credo che valga la pena di pubblicarlo integralmente convinto di far cosa gradita anche a lei, visto che rappresenta uno dei passaggi più alti della nostra Carta: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Lei sostiene, gentile onorevole, che sia indispensabile metter mano all’articolo 27 della Costituzione perché, cito testualmente, “è necessario arginare le continue erosioni di una delle funzioni della pena: quella preventiva e di difesa sociale”. Mi pare però che la sua richiesta avrebbe come “effetto paradosso” quello di erodere un precetto costituzionale già pesantemente intaccato e indebolito da alcune disposizioni previste (solo) dal nostro ordinamento penale e giudiziario. Parlo del 41 bis, naturalmente, di un articolo che fa carta straccia della raccomandazione, per così dire, di evitare “pene contrarie al senso di umanità”. Lei sa bene quanto me, gentile onorevole, che il 41 bis è una vera e propria tortura legalizzata, una sorta di Guantánamo che si cela negli angoli più bui delle nostre carceri. Oppure vogliamo parlare del reato di concorso esterno in associazione mafiosa? Una sorta di Frankenstein giuridico creato per aggirare garanzie e diritti costituzionali e consentire di spedire in carcere mafiosi solo presunti. La verità, caro onorevole, è che siamo ancora pienamente immersi nella cultura delle legislazioni d’emergenza. Abbiamo ereditato - e fatichiamo a liberarcene- legge emergenziali dalla stagione del terrorismo prima e da quella dello stragismo mafioso poi. Ma il terrorismo è vinto, è battuto; e le stragi mafiose, sono solo un terribile ricordo. Di più, con lo storico della mafia Salvatore Lupo e il giurista Giovanni Fiandaca possiamo dire che “La mafia non ha vinto” (Laterza editore). Eppure, come avvinti da una sindrome di Stoccolma collettiva, non riusciamo a liberarci da un’emergenza finita da anni. E come se continuassimo a pretendere il green pass obbligatorio - tema assai caro al suo partito - anche a 10 anni dalla fine di questa epidemia da Covid. Caro onorevole, le giro la domanda: quanto siamo disposti a rinunciare al nostro Stato di diritto, al nostro sistema di garanzie e ai nostri valori pur di veder “marcire in carcere un condannato per mafia”? La nostra risposta la trova nell’articolo 27 della Costituzione. È al 41 bis, gli vietarono i libri di Cartabia e di Manconi, ora rischia la cecità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 novembre 2021 Angelo Chiriaco, avvocato di Tommaso Costa detenuto a Viterbo, ha segnalato alla direzione del carcere la condizione di salute del suo assistito che da oltre un anno è in attesa di un intervento chirurgico. È recluso al 41 bis del carcere di Viterbo. Da oltre un anno è in attesa di un intervento urgente agli occhi, ma nonostante l’operazione fosse stata programmata e richiesta da tempo, è ancora in attesa. Parliamo di Tommaso Costa che, durante l’ultimo colloquio avvenuto con il suo avvocato Angelo Chiriaco, ha manifestato estrema sofferenza fisica. Ha gravi patologie agli occhi e deve essere operato - Come ha segnalato l’avvocato stesso alla direzione del carcere Mammagialla di Viterbo, il recluso al carcere duro ha lamentato notevoli problemi agli occhi tanto è vero che, lo stesso, ha riferito all’avvocato di vederlo come un’ombra, non riuscendo più a distinguere in maniera nitida la sua persona. Il detenuto gli ha inoltre riferito di avere notevoli difficoltà nella deambulazione, non riuscendo più a mantenere un’andatura lineare e avendo necessariamente bisogno di appoggio per muoversi e camminare. Come si evince dai referti medici, questa situazione deriva sia dalla problematica alle sacche lacrimali sia da quella alla cataratta, che ormai da un po’ di tempo lo affliggono costantemente. Tali circostanze, secondo quanto segnala l’avvocato al direttore del carcere di Viterbo, sulla scorta delle rimostranze manifestate durante il colloquio, “impone di dover valutare l’opportunità di sottoporre a intervento chirurgico il signor Costa, non sembrando più la terapia che lo stesso sta seguendo idonea a dare sollievo nonché miglioramenti del proprio stato di salute”. L’avvocato, quindi, chiede di voler attivare tutti i controlli propedeutici alla predisposizione di un intervento chirurgico agli occhi da eseguirsi presso la struttura sanitaria e - sottolinea l’avvocato - “a cui sembra ormai chiaro ed evidente che il detenuto Tommaso Costa debba sottoporsi con estrema urgenza, visto il lamentato ed evidente cattivo stato di salute”. In alternativa, su espressa indicazione da parte del suo assistito, si rende anche disponibile alla segnalazione di idonee strutture presso le quali si possa effettuare l’intervento a totale ed esclusive spese del detenuto stesso. Gli fu negato il diritto a leggere il libro della Cartabia e quello di Manconi - Parliamo del diritto alla salute, che evidentemente è costantemente violato nei confronti dei detenuti in generale, ma ancor di più per chi è al 41 bis. A questo si aggiunge il diritto all’informazione e alla cultura. Si tratta, infatti, dello stesso detenuto - come già riportato da Il Dubbio - al quale l’autorità giudiziaria aveva negato - quando ancora non aveva problemi di vista - la lettura dei libri, tra i quali proprio quello a firma dell’attuale ministra della Giustizia Marta Cartabia. Il motivo? “Il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti, aumenterebbe il carisma criminale”, si legge nel rigetto. Il pericolosissimo libro che avrebbe aumentato lo spessore criminale, è “Un’altra storia inizia qui” a firma della guardasigilli Marta Cartabia e Adolfo Ceretti, docente di Criminologia, nel quale si confrontano con il magistero del compianto arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini. Non solo. Al detenuto al 41 bis gli hanno vietato anche l’acquisto del libro di Luigi Manconi e Federica Graziani “Per il tuo bene ti mozzerò la testa”. Anche in questo caso la richiesta di acquisto è stata respinta in quanto giudicata “non opportuna” dalla direzione del carcere. Puntualmente, la decisione è stata confermata dalla Procura. Due libri, insomma, considerati pericolosissimi in mano a un detenuto al 41 bis. Roberto Giachetti aveva presentato una interrogazione parlamentare - Una storia raccontata dallo stesso Tommaso Costa che aveva inviato tutta la documentazione al parlamentare di Italia Viva Roberto Giachetti. Una vicenda riferita anche a Rita Bernardini del Partito Radicale. Ricordiamo che Roberto Giachetti aveva presentato una interrogazione parlamentare a risposta scritta per chiedere al ministro della Giustizia di adottare interventi di chiarimento normativo, “al fine di evitare interpretazioni palesemente arbitrarie, che si traducano nella negazione del diritto all’informazione dei detenuti”. Diritto alla salute e quello all’informazione, completamente compressi per chi vive recluso in 41 bis. Eppure, sulla carta, non dovrebbe essere un carcere duro. Lo ha spiegato molto bene Luigi Manconi nell’aprile del 2016 quando, da presidente della commissione dei diritti umani del Senato, ha condotto un’indagine su questo regime differenziato. Non dovrebbe essere definito un “regime duro”, perché la finalità non dovrebbe essere il massimo dell’afflizione, la pena più dura, la limitazione più acuta delle libertà e delle garanzie. Manconi è stato chiaro. Il 41 bis ha solo lo scopo di impedire rapporti tra detenuti e criminalità esterna - Tutto questo non c’entra nulla con il 41 bis, che ha un solo scopo: quello di impedire i rapporti tra i detenuti e la criminalità esterna. La chiarezza proviene anche dal rapporto tematico sul 41 bis a cura del garante nazionale delle persone private della libertà. Partendo dai dati, oltre che dai resoconti delle visite alle singole sezioni a regime detentivo speciale, il Garante ha formulato diciotto raccomandazioni volte al miglioramento delle condizioni di attuazione della privazione della libertà in regime del 41 bis. Regime che lo stesso Garante invita a non definire mai quale “carcere duro”, concetto che “implica in sé la possibilità che alla privazione della libertà - che è di per sé il contenuto della pena detentiva - possa essere aggiunto qualcos’altro a fini maggiormente punitivi o di deterrenza o di implicito incoraggiamento alla collaborazione. Fini che porrebbero l’istituto certamente al di fuori del perimetro costituzionale”. Il caso Costa ricorda “La cecità” di Saramago - Ritornando al caso del detenuto Costa, il 41 bis non ha la finalità di indurlo alla “cecità”. Il pensiero va al libro di Saramago. Il romanzo, dal titolo “La cecità”, parla di una pandemia che ha fatto perdere la vista, rendendo tutti gli esseri umani improvvisamente spietati e vulnerabili. Una cecità che da noi viene indotta dalla retorica sul 41 bis, un regime che rischia di non conservare più alcun briciolo di umanità. Ma la finalità, sulla carta, non è quella. L’umanità si è fermata fuori dalle sbarre di Stefano Musu La Ragione, 12 novembre 2021 Ci si interroga spesso su quale sia il metro di misura più efficace per distinguere il grado di umanità di una società moderna e democratica. Qualcuno risponderà che lo possiede quella che abbia riguardo di indigenti, senzatetto e migranti, anime troppo spesso vittime dell’avversa sorte; altri diranno che l’umanità si misura nella non discriminazione per ragioni legate all’orientamento sessuale, religioso o politico dei singoli, vessati per non essere omologati alla maggioranza dei consociati. Alcuni sosterranno che l’umanità si misura a partire dal livello di inclusione nei luoghi di vita e di lavoro dei diversamente abili, incolpevoli prigionieri di un corpo che non funziona a dovere e che li costringe a fare continuo affidamento su terzi. Tutte queste possibili risposte rappresentano altrettante battaglie sulle quali ha fondamento parte del dibattito politico attuale, in cui si consumano scontri tra ideologie opposte e scuole di pensiero divergenti. Nonostante negli ultimi anni si sia molto parlato di accoglienza (latu sensu) e di una società che si sforza di non lasciare indietro nessuno, ancora in pochi volgono le proprie attenzioni a quelli che siedono in coda, ultimi fra gli ultimi, nella ‘tavola dell’umanità’: sono coloro ai quali è stata tolta la libertà e che formano la popolazione carceraria. Nei penitenziari italiani dimorano oltre 53mila individui e quasi un terzo di essi non ha ricevuto una sentenza di condanna che giustifichi la propria prigionia. Queste donne e uomini - e purtroppo anche diversi bambini, troppo piccoli per essere separati dalle madri detenute - vivono nella stragrande maggioranza dei casi in situazioni al limite della (in)decenza, costretti in celle troppo piccole, fatiscenti e sovraffollate. Spesso i detenuti non dispongono neppure delle dotazioni minime in termini igienico-sanitari: dormono in materassi vecchi e ammuffiti, si nutrono con cibo scadente e razioni limitatissime, non godono dell’acqua calda in cella. In pochi possono lavorare, perché le liste di attesa sono troppo lunghe e i posti disponibili limitatissimi. Queste persone, comunque parte della società nonostante i reati (accertati o meno) imputati, vedono scivolare via la propria vita giorno dopo giorno senza che la chimera della pena riabilitativa, cui il carcere dovrebbe tendere, li prepari a un ritorno ‘sano’ in libertà. Non ci è dato sapere dove risieda il sentimento di umanità, quel che è certo è che pare essersi fermato a debita distanza dalle sbarre. Giro di vite del Csm sugli incarichi extra giudiziari per i magistrati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2021 Stretta del Csm sugli incarichi extragiudiziari. Che, in generale, non potranno più essere concessi a chi ha accumulato ritardi eccessivi nel deposito dei provvedimenti, e, più nel dettaglio, non potranno comunque mai riguardare l’inserimento nella governance delle grandi imprese in crisi. Ma l’intervento investe anche uno dei più canonici degli incarichi, quello delle docenze. Sono queste alcune delle indicazioni che arrivano dalla delibera approvata dal plenum del Consiglio superiore che modifica la circolare su materia tradizionalmente delicata e oggetto di ricorrenti polemiche sia interne sia esterne alla magistratura. Tra le misure più significative, il divieto alla concessione per il magistrato che nell’anno precedente la richiesta di via libera al Consiglio ha accumulato ritardi significativi nel deposito dei provvedimenti di sua competenza. Sinora il divieto colpiva soltanto il magistrato che fosse stato sanzionato sul piano disciplinare per la lentezza delle decisioni, provvedimento disciplinare che però, per i tempi della giustiziai interna, le incolpazioni in materia di ritardi arrivano a distanza di mesi e, a volte, di anni, da quando i ritardi stessi si erano accumulati. Evidente la ragione della ulteriore restrizione, e cioè il rafforzamento dell’inopportunità, anche agli occhi dell’opinione pubblica e non solo di parti e comunità forense, dell’affidamento di un incarico esterno alla giurisdizione per la toga che non rispetta i tempi previsti per lo svolgimento dell’attività “tipica”. Netto poi il no del Consiglio superiore anche alle sollecitazioni arrivate dal Mise sulla possibile attribuzione a magistrati dell’incarico di componenti del consiglio di sorveglianza nelle grandi imprese in amministrazione straordinaria. Per il Csm, infatti, le funzioni del comitato di sorveglianza sono variegate, significative ed impegnative, anche alla luce della natura delle imprese coinvolte, di grandi dimensioni, e dei conseguenti, rilevanti, interessi economici in gioco; inoltre, è mediamente richiesto un impegno costante e intenso, con una remunerazione molto significativa e in alcuni casi superiore a quella annuale di un magistrato. Sugli incarichi di insegnamento, caso assai frequente, poi, si è voluto evitare che la docenza possa essere conferita da enti privati che, sulla base dell’oggetto sociale, non si occupano, in via esclusiva o prevalente, di formazione; nel caso in cui l’ente privato svolga attività imprenditoriale di diverso genere può manifestarsi infatti, con maggiore probabilità, il potenziale e presumibile coinvolgimento in contenziosi così come non risulta chiaro, sottolinea la delibera, a che titolo, e a beneficio di chi, quell’attività formativa sia svolta. Il riferimento all’oggetto sociale si spiega in termini di certezza documentale che solo la visura camerale può offrire, sia le imprese individuali sia per le società. La restrizione si estende poi anche alle holding, con la verifica da parte del Csm dell’oggetto sociale della capogruppo e delle controllate. Delimitato poi il perimetro della procedura semplificata di autorizzazione, impedendo al magistrato di poter iniziare lo svolgimento dell’incarico prima dell’via libera del Consiglio. Va infatti tenuto presente che si tratta di incarichi conferiti da istituzioni politiche “sicché risulta opportuno, specie per la ricorrenza e la valutazione delle eventuali circostanze ostative che il parere del Consiglio intervenga in tempi rapidi ma pur sempre ex ante”. Mani Pulite non fu un romanzo rosa ma una pagina cupa della giustizia italiana di Francesco Damato Il Dubbio, 12 novembre 2021 Delle cronache sulla festa celebrata in suo onore dai colleghi di Francesco Greco arrivato all’epilogo della carriera di magistrato come capo della Procura della Repubblica di Milano, al netto dei brindisi, della solita goliardia di Antonio Di Pietro corso dalla sua campagna molisana interrompendo la raccolta delle olive, e delle immancabili voci e allusioni sugli assenti, in questo caso dai nomi altisonanti di Pier Camillo Davigo e di Ilda Boccassini, ciò che mi ha colpito di più è l’occasione che non ha voluto lasciarsi scappare Gherardo Colombo per retrodatare l’epopea di cui un po’ tutti si consideravano i fortunati superstiti. Più che il 17 febbraio del 1992, quando l’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa fu arrestato in flagranza di tangenti, diciamo così, cercando di buttare nello scarico del bagno una parte dei soldi che Di Pietro aveva contrassegnato come corpo del reato; più che questa scena non po’ tragica e un po’ anche comica di una tangente fra le tante che sporcavano non certo dal giorno prima la politica ambrosiana, al pari di tutta quella praticata nel resto del territorio italiano, e anche oltre; Gherardo Colombo ha voluto ricordare la circostanza tutta drammatica del suo approccio col tribunale di Milano. Gli era capitato, in particolare, di prendere praticamente servizio da magistrato il 29 gennaio 1979, quando il suo collega Emilio Alessandrini, di soli quattro anni meno giovane di lui, fu ucciso in auto da un commando di terroristi di “Prima Linea” mentre si dirigeva al tribunale. Ecco. Questa è la vera, epica storia della Procura di Milano che personalmente preferisco ricordare anch’io, riconoscendomi tutto e per intero nella parte dei magistrati, senza il cui sacrificio, senza la cui totalizzante fedeltà allo Stato temo che la democrazia non sarebbe sopravvissuta, Dell’altra epopea, invece, quella che prese il nome delle indagini “Mani pulite” contro il finanziamento illegale della politica e la corruzione spesso collegata, non sempre, come alcune sentenze avrebbero riconosciuto nella indifferenza generale, non mi sento per niente nostalgico, a dispetto dei tanti che invece la celebrano con puntualità: specie quelli che le debbono le loro fortune professionali di magistrati, politici e giornalisti. Sono passati gli anni e non ancora riesco a dimenticare, o a ricordare senza raccapriccio, le retate previste o preannunciate da quel cronista televisivo del Biscione, non della Rai, che parlava come un invasato mentre scorreva alle sue spalle il tram proveniente o diretto al tribunale. Né riesco a ricordare senza lo stesso raccapriccio le telecamere puntualmente appostate di notte davanti al portone da cui sarebbe uscito ammanettato il tangentaro vero o presunto di turno. Né riesco a togliermi dalla testa senza fastidio la faccia di quel magistrato ancora in servizio, ora chissà alla scalata di quale postazione giudiziaria, che dopo avere interrogato in carcere il povero, ormai ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari se andò in ferie così poco interessato, diciamo così, alla liberazione che ormai il suo imputato attendeva, da lasciarlo precipitare nella disperazione del suicidio. “Siamo stati sconfitti”, si lasciò scappare pressappoco Di Pietro senza farsi minimamente tentare con quel plurale generoso, visto che a quel passaggio non aveva partecipato, ad un gesto riparatorio di dimissioni. Non riesco neppure a dimenticare lo sgomento del povero Giovanni Galloni, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, quando scoprì di avere fra i consiglieri, regolarmente eletto dai colleghi, un giudice di “Mani pulite” che, non potendo disporre l’arresto di un indagato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica a corto di competenza, indicava a matita sul foglio il diverso reato, con relativo articolo del codice, cui doversi richiamare per garantirsi l’assenso. Potrei continuare a lungo con questi ricordi non risparmiando nessuno, ma proprio nessuno dei tanti magistrati morti dicendo di avere fatto allora solo il loro dovere, inchiodati - senza avere peraltro tutti i torti in questo paradosso- alle leggi scritte e approvate dalla Camere come peggio non si potesse. Potrei continuare, dicevo, se non me ne avesse esonerato in qualche modo prima di morire Francesco Saverio Borrelli in persona, il capo carismatico di quella Procura. Che era cosi esaltato all’inizio della sua opera rigeneratrice da chiedere all’amico giurista Giovanni Maria Flick - come Il Dubbio ha appena riprodotto - se fosse proprio necessario celebrare i processi e scrivere le sentenze di condanna dopo tante confessioni spontanee di imputati. Ebbene, dopo una più lunga e proficua riflessione, ma soprattutto vedendo il mondo della politica e degli affari prodotto dall’epopea di “Mani pulite”, il povero Borrelli si chiese se fosse stato giusto davvero demolire tutto quello che era stato demolito della cosiddetta prima Repubblica, e se non fosse opportuno scusarsi con gli italiani per averli affidati in mani ancora peggiori. Le scuse, per quanto lo riguardavano, furono subito accordate in un libro autobiografico da Claudio Martelli, che peraltro era grato del riconoscimento ricevuto da Borrelli di essere stato se non il migliore, almeno fra i migliori ministri della Giustizia succedutisi fra la prima e la seconda Repubblica. Contro di lui, in effetti, diversamente da Giovanni Conso, da Alfredo Biondi, da Roberto Castelli, non apprezzato neppure come ingegnere acustico, Borrelli e i suoi emuli non si erano mai spesi in proteste e minacciosi annunci di dimissioni. Suicida dopo mancata cittadinanza italiana: la sorella chiede giustizia tgcom24.mediaset.it, 12 novembre 2021 Adelina Sejdini si è tolta la vita lanciandosi da un cavalcavia ferroviario a Roma dopo che le era stata riassegnata la cittadinanza albanese. Aveva denunciato il racket della prostituzione. Si è tolta la vita lanciandosi da un cavalcavia ferroviario a Roma dopo che le era stata negata la cittadinanza italiana, che aspettava da anni, e riassegnata quella albanese, che non voleva più. Questo ha spinto al suicidio Adelina Sejdini, ex prostituta nata a Durazzo, che aveva denunciato il racket albanese della tratta delle donne; così aveva fatto arrestate 40 persone e denunciate altre 80. Ora la sorella Ermira, da Pavia, chiede giustizia. “Mia sorella - racconta - ha affrontato la vita aiutando le persone a non soffrire: quando è stata lei a chiedere aiuto, nessuno l’ha aiutata”. Denunciò il racket albanese - “Voglio sapere cosa è successo - aggiunge Ermira. La salma non ci è ancora stata restituita. Dalle istituzioni abbiamo avuto solo una telefonata, a mio padre, per annunciare che mia sorella era morta”. Era disperata, Adelina Sejdini, dopo che nel suo permesso di soggiorno era stato tolto lo stato di apolide e indicata la cittadinanza albanese. Aveva fatto arrestare i suoi sfruttatori, in gran parte appartenenti alla mafia albanese che controllava lo sfruttamento della prostituzione in tutta Italia, e attendeva di ottenere la cittadinanza italiana. La storia di Adelina - Arrivata in Italia a 22 anni dall’Albania, nel 1996, Adelina per anni è stata picchiata, violentata e mandata in strada. Ha avuto la forza di denunciare e uscire da quell’inferno. Ma, alla fine, si è sentita abbandonata dallo Stato, senza una casa, invalida al 100%, con un tumore al seno e, soprattutto, priva di quella cittadinanza italiana che le sarebbe spettata. Viveva a Pavia, ma per protestare contro la burocrazia, alla fine di ottobre aveva deciso di andare a Roma, nonostante le sue precarie condizioni di salute, sperando di poter incontrare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella o alcuni funzionari del ministero dell’Interno. Proprio davanti al Viminale il 28 ottobre si era data fuoco. Soccorsa e trasportata all’ospedale Santo Spirito con gravi ustioni, la donna, su disposizione delle autorità, sarebbe dovuto rientrare a Pavia, ma è rimasta a Roma e l’8 novembre si è tolta la vita lanciandosi dal cavalcavia ferroviario di ponte Garibaldi. Aveva 47 anni. Sulla tragedia sono in corso accertamenti da parte della polizia ferroviaria di Roma Termini. Marche. Oltre 1.700 libri per le biblioteche degli istituti penitenziari Redattore Sociale, 12 novembre 2021 Oltre 1.700 libri da destinare al circuito bibliotecario degli istituti penitenziari delle Marche: li ha donati la casa editrice “Liberilibri” di Macerata, sostenuta nell’iniziativa dal Garante regionale, Giancarlo Giulianelli. La consegna simbolica di alcuni testi nel corso di un incontro ospitato a Palazzo delle Marche, a cui hanno partecipato lo stesso Garante; Michele Silenzi, direttore editoriale della casa editrice; Marialucia Faggiano, responsabile della Sezione Osservazione e Trattamento del Prap; Rossana Barbaccia, responsabile dell’Area trattamentale degli istituti di Montacuto e Barcaglione; Angela Rutigliano, educatrice presso la Casa di reclusione di Fossombrone e Chiara Azzini, referente delle biblioteche degli istituti penitenziari di Ancona. “Siamo convinti - scrive Giulianelli in una nota - che la cultura rappresenti un tassello importante nel quadro più generale delle attività trattamentali. Ringrazio il presidente della casa editrice, Marco Cingolani, per aver condiviso questo mia idea e spero che ci sia l’occasione di realizzare insieme altre iniziative, come quella di poter effettuare donazioni anche ad istituti penitenziari fuori regione, di cui ho già parlato con altri Garanti”. Giulianelli si è soffermato anche su altre progettualità riguardanti le attività trattamentali, che saranno al centro dell’attività complessiva dell’Autorità di garanzia. “Il nostro obiettivo - ha detto - è quello di fornire ai detenuti strumenti che favoriscono il loro ingresso nel mondo del lavoro una volta fuori dal carcere. Su questo versante la formazione è essenziale”. Considerazioni condivise da Marialucia Faggiano, che ha parlato di una significativa capacità della Regione Marche di “fare rete” e ha ricordato due importanti realtà come quella del Polo regionale universitario di Fossombrone (che vede la collaborazione di Prap, Università di Urbino e Garante) e del Polo di formazione professionale a Barcaglione, come non ha mancato di evidenziare l’eccellenza del Sistema bibliotecario carcerario regionale. La Casa editrice “Liberilibri”, nata nel 1986 da un’idea di Aldo Canovari e Carlo Cingolani, è conosciuta per libri di saggistica e narrativa a contenuto libertario e la donazione propone titoli che spaziano in tutti i generi e le collane del catalogo saggistica, narrativa, teatro e carte costituzionali. Presenti 23 grandi autori internazionali, italiani e anche una rappresentanza di marchigiani (Marco Severini e Paolo Rivolta). “Quella che proponiamo - ha sottolineato il Direttore editoriale, Michele Silenzi - è una donazione a cui teniamo particolarmente, anche perché il tema della giustizia, inteso nel senso più ampio del termine, è stato sempre al centro della nostra attività e riteniamo che l’attenzione sulla situazione carceraria vada tenuta alta. La detenzione non può essere inquadrata in una condizione di non umanità”. La responsabile della comunicazione, Stefania Gelsomini, ha ricordato che la “Liberilibri” non è nuova a operazioni di questo tipo; nel 2018 sono stati donati 850 volumi agli istituti penitenziari della Campania. Molise. Farmaci da banco nelle carceri, nuova campagna di Antigone di Maurizio Cavaliere isNews.it, 12 novembre 2021 Partirà in questi giorni una nuova campagna solidale di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, che ha una propria sezione anche in Molise. L’associazione ha inteso promuovere l’acquisto di farmaci da banco che non necessitano di ricetta medica, da distribuire nelle tre case circondariali molisane di Campobasso, Isernia e Larino. Ieri sera il neo presidente Giovannino Cornacchione, che da alcuni mesi ha sostituito il compianto Gian Mario Fazzini, si è riunito con altri soci di Antigone Molise per deliberare su modalità e tempi dell’iniziativa: “Contiamo di portarla avanti fino alla prossima primavera” ci ha detto Cornacchione - Negli ultimi tempo ci siamo resi conto che all’interno degli istituti penitenziari molisani mancano alcuni farmaci da banco, per esempio quelli contro il mal di testa o le pomate contro le dermatiti, per citarne solo un paio. Ci siamo riuniti per avviare ufficialmente questa campagna solidale che riteniamo importante e perfettamente in linea con la missione di Antigone”. I farmaci di cui necessitano i ristretti sono stati individuati attraverso un elenco che nei mesi scorsi è stato richiesto alle carceri dal Garante regionale dei Diritti delle persone private della libertà personale Leontina Lanciano che lavora a stretto contatto con Antigone e con le altre associazioni che operano per la tutela dei diritti delle fasce della società più a rischio prevaricazioni. Monza. Si toglie la vita in carcere: colletta tra i detenuti per la lapide lapoliticalocale.it, 12 novembre 2021 Si è tolto la vita in carcere e gli altri detenuti hanno organizzato una colletta per portare i fiori sulla sua tomba. Il dramma è successo all’interno della Casa circondariale di Monza tra le 3 e le 4 di mattina di domenica scorsa. Un uomo polacco di 47 anni era recluso al Sanquirico dal 2018, dopo aver riportato una condanna definitiva a 16 anni che prevedeva il fine pena nel 2033. Seguito dall’area trattamento, dalla Asst di Monza e da alcuni volontari, già in passato aveva denunciato un forte malessere, ma la notte del 31 ottobre è arrivato il gesto estremo, denunciato anche dal collegio dell’autorità garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Un episodio che ha scosso tutti gli operatori, gli agenti di Polizia penitenziaria, il compagno di cella ma anche tutti gli altri detenuti della stessa sezione. Proprio questi ultimi giovedì scorso hanno intrapreso “un’iniziativa di solidarietà e umanità nei confronti della scomparsa dell’uomo - come ha spiegato la direttrice della Casa circondariale Maria Pitaniello - inviando alla direzione del carcere una richiesta di poter contribuire economicamente all’acquisto di fiori da portare al funerale, e posare sulla futura lapide”. Fiori per una degna sepoltura, una volta che le esequie verranno celebrate la prossima settimana; al momento, su disposizione della Procura, lo scorso venerdì è stato effettuato l’esame autoptico. Tutti gli elementi e la dinamica dei fatti sembrerebbero confermare la natura del decesso come suicidio. Allarme suicidi in carcere - E quello nella Casa circondariale di Monza sarebbe l’ultimo di tre avvenuti nel giro di una sola settimana, dopo i decessi del 25 e del 30 ottobre nelle carceri di Pavia e Isilli; la morte dello straniero ha portato il numero dei suicidi di detenuti in Italia a 47 dall’inizio dell’anno. Roma. I gemellini della mamma rom non nasceranno in cella: a volte la giustizia esiste di Iuri Maria Prado Il Riformista, 12 novembre 2021 Il magistrato di sorveglianza di Rebibbia ha firmato per la scarcerazione della donna che rischiava di partorire in prigione. Soddisfatti i Garanti. Anastasia: “Divieto di custodia in carcere largamente disatteso”. La detenuta in attesa di due gemelli, della quale vi avevamo parlato qualche giorno fa, non partorirà in carcere. A dare la notizia è stata la Garante di Roma Capitale, Gabriella Stramaccioni, dalla sua pagina Facebook: “Una buona notizia. Il Magistrato di Sorveglianza di Rebibbia Femminile ha appena firmato per l’accoglienza in comunità per la signora in attesa di due gemelli. Ieri è arrivato il definitivo per il suo procedimento e quindi è passata di competenza al Tribunale di Sorveglianza di Roma. A nome mio e del Garante Regionale Stefano Anastasia un sincero apprezzamento per la velocità con la quale il Magistrato ha risolto questa delicata vicenda a rischio”. Come ci spiega proprio la garante comunale Stramaccioni “la donna, di circa 38 anni, aveva già una condanna definitiva per furto a Roma e il magistrato di sorveglianza, il dottor Marco Paternello, le aveva già concesso l’affidamento in una comunità; ma c’era un altro procedimento a Milano che prevedeva la custodia cautelare. Per fortuna è arrivato il definitivo anche per questo secondo caso di furto e la competenza è tornata al Magistrato di Sorveglianza di Roma che nel giro di due giorni, essendo stato allertato ed avendo una grande sensibilità, ha predisposto il trasferimento nella comunità, specializzata proprio nell’accoglienza di donne incinte. Ma qual è il motivo profondo per cui è così difficile richiedere e ottenere che i detenuti siano trattati decentemente? Qual è la ragione connaturata per cui non ci si preoccupa, e anzi spesso ci si compiace, del fatto che i detenuti “soffrano”? Da decenni penso alle cose della giustizia e in decenni ho cambiato molte convinzioni in proposito, ma una ho avuto da sempre e ho ancora. E cioè che coloro ai quali ripugna l’idea che il detenuto possa ambire a qualche modestissimo miglioramento di vita non essere trasportata in ospedale”. Purtroppo, ci spiega la garante Stramaccioni, “queste donne rom hanno diversi cumuli di pena ma non per reati gravi o contro la persona”. Per il garante Anastasia, riconfermato da poco portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, “è stato un bel risultato. Nelle settimane scorse la collega comunale ed io avevamo scritto al giudice per le indagini preliminari a Milano, rappresentandogli appunto le condizioni della signora e quindi anche il pericolo che potesse partorire in carcere. Gli abbiamo chiesto di verificare comprendono la preziosità del bene supremo di cui il detenuto, pur trattato meglio, è in ogni caso privato, e che loro invece, per quanto possano essere maltrattati dalla vita, hanno in ogni caso a disposizione: la libertà. Chi giudica superfluo, o magari offensivo, che al detenuto sia assicurato di vivere in una cella non affollata, di avere cibo accettabile e buone cure mediche, di disporre di spazi e strumenti di studio e svago, e momenti di intimità con parenti e persone care, cosa potesse essere fatto. In realtà non speravamo che si definisse il procedimento, saremmo stati soddisfatti anche di una attenuazione delle misure cautelari per essere trasferita in una struttura in attesa della decisione di merito. Invece è arrivata la definizione del procedimento e tutto si è risolto per il meglio, evitando di ripetere quanto accaduto quest’estate a Rebibbia quando a partorire in carcere fu una giovane rom che aveva solo rubato 40 euro da un portafoglio”. Quest’ultimo dettaglio porta il Garante Anastasia a muovere una e risente di tutto questo come se si trattasse dell’oltraggiosa concessione di privilegi ingiustificati, a tanto risentimento giunge perché non avverte “differenza di stato” tra sé e il detenuto. Se il recluso “sta bene”, allora non c’è più nessuna differenza rispetto a chi è libero, perché a far differente la condizione dell’uno da quella dell’altro non c’è, perché non ha nessun valore, la libertà disprezzata di chi sta fuori e quella soppressa di chi sta dentro. Se la libertà non vale nulla per chi critica alla normativa attuale, ossia l’articolo 275 comma 4 del codice di procedura penale (“Quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputato sia persona che ha superato l’età di settanta anni”): “la norma che vieta di disporre le misure cautelari per le donne incinte di fatto è largamente disattesa. Frequentemente ci sono donne in gravidanza nei nostri istituti penitenziari, mentre in termini generali il nostro ordinamento lo vieterebbe. La tendenza è quella di rilevare spesso la ‘eccezionale rilevanza’, legata non tanto alla gravità del fatto, quanto alla storia di queste donne che entrano ed escono frequentemente dagli istituti penitenziari, trattandosi di rom che spesso si rendono protagoniste di furti”. Per questo, conclude il Garante, “visto che il Ministero della Giustizia ha istituito la commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, nella relazione finale si dica chiaramente che la custodia cautelare in carcere non si applica alle donne incinte, mentre l’eccezionale rilevanza può essere immaginata per reati di particolare gravità, come quelli offensivi per la persona, non certo per un furto di 40 euro”. Cagliari. Metà dei detenuti con problemi di droga: la piaga nel carcere di Uta di Monica Magro youtg.net, 12 novembre 2021 Afflitti da disturbi di personalità e di adattamento alla loro condizione, che derivano anche dall’uso di sostanze stupefacenti. È la fotografia dei detenuti nel carcere di Uta. Se ne è parlato durante l’appuntamento “la tutela della salute mentale: dal territorio alle carceri” organizzato dall’Ats e iniziato oggi al T-hotel di Cagliari. Una due giorni con massimi esperti della materia durante la quale è emerso che nel penitenziario cagliaritano la metà dei detenuti è tossicodipendente e usa diverse sostanze stupefacenti. L’età media è di 35 anni. La condizione della sezione femminile è la stessa. Quelli in carico al dipartimento di salute mentale zona sud sono circa 250. “Rispetto al lockdown la situazione è rimasta immutata”, spiega Matteo Papoff responsabile progetto carceri Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze - Zona Sud, “l’aspetto più preoccupante è determinato dall’uso di nuove sostanze e dal suo incremento. la Sardegna non fa eccezione rispetto al resto d’Italia”. E per migliorare la quotidianità dei detenuti l’Ats ha deciso di incrementare le figure professionali. “Stiamo modulando le risposte, aumentando le figure presenti come quella degli psicologi ed educatori”, dice Graziella Boi, direttore Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze - Zona Sud, “spero in un prossimo futuro che si possa parlare anche di terapia di gruppo”. Udine. Nuovo carcere, progetto da 4 milioni e mezzo di Lillo Montalto Monella rainews.it, 12 novembre 2021 Presentato l’intervento di ristrutturazione che punta su innovazione e apertura alla città. Una rivoluzione nella struttura, che si spera inneschi anche una rivoluzione nelle teste, ovvero nel sistema carcerario. Questa la filosofia dietro il progetto di rifacimento della casa circondariale di Udine, in via Spalato. Lavori da 4 milioni e mezzo di euro, soldi provenienti da Roma, che inizieranno nel 2022 per rendere agibile l’ex sezione femminile, abbandonata da 20 anni. Diventerà un polo culturale e del volontariato, sede di laboratori di attività artigianali. Si aprirà una sezione per i detenuti in semilibertà, con più spazi per i colloqui privati con le famiglie. Saranno rifatti gli impianti, le finestre, installati pannelli fotovoltaici, sistemate le strutture per l’ora d’aria, incluse aiuole per il giardinaggio. Sarà soprattutto costruito un teatro da 100 posti, aperto alla città. La capienza del carcere di Udine è di 90 posti - un numero che non aumenterà. Ma ad oggi sono 133 i detenuti ospitati. Franco Corleone, garante delle persone private della libertà a Udine rileva che: “Il problema è che con i muri, occorre cambiare le teste, e il carcere deve rispettare i valori della Costituzione”. Indispensabile ora, indica Corleone, è ripensare l’applicazione delle misure alternative per ridurre il sovraffollamento, potenziare la rete per il reinserimento sociale dei detenuti, e aumentare gli organici di servizi sociali e di salute mentale. IL carcere di Udine non ha nemmeno educatori presenti tutti i giorni. I lavori di ristrutturazione - - che verranno presentati in un seminario di due giorni, alla presenza delle più alte cariche nel settore penitenziario - - vogliono fare di via Spalato un nuovo modello di carcere, “un presidio di civiltà, anche all’interno della stessa regione. Nel frattempo qualche passo avanti è stato fatto negli ultimi mesi: è stata ristrutturata l’infermeria, allestita una palestra per detenuti, rinnovata quella per la polizia penitenziaria e istituito un luogo di culto e sala riunioni per una 20ina di persone. Il progetto di rinnovamento del carcere sarà presentato ai detenuti, che ora hanno anche un comitato di rappresentanza di 15 membri. Torino. Cpr, cinque poliziotti indagati per la morte di Moussa Balde di Lodovico Poletto La Stampa, 12 novembre 2021 L’Ospedaletto non c’è più. Cancellato d’ufficio - e non senza qualche polemica - dopo la morte di Mamadou Moussa Balde, nato in Guinea 23 anni fa, e suicidatosi mentre si trovava in “isolamento sanitario”: ovvero dentro l’Ospedaletto del Cpr di Torino: il centro per migranti in attesa di rimpatrio. Era il 22 maggio scorso. Un mese fa avevamo detto che i tentativi di togliersi la vita da parte degli ospiti della struttura - in molti casi si tratta di simulazioni - erano più di venti. Adesso i numeri sono schizzati in alto come nessuno si aspettava. Dall’inizio di settembre all’altro ieri, nel centro di corso Brunelleschi, 57 immigrati hanno tentato - o fatto finta - di uccidersi. Ed il numero è impressionante. Perché la questione, a più di un mese dalla denuncia de La Stampa, non è ancora stata affrontata dal punto di vista amministrativo. Cioè: esaurite un paio di riunioni in Prefettura, al complesso di corso Brunelleschi, che riceve immigrati da tutta Italia, tutto è continuato come se nulla fosse accaduto. Non sono state adottate strategie per evitare il ripetersi di questo pericolosissimo film. Non sono cambiate le regole. Tanto che la chiave trovata da molti ospiti per riuscire a sfuggire alle maglie dei rientri in patria coatti, continua a far lievitare le statistiche. Cinquantasette ragazzi sono finiti nei pronto soccorso degli ospedali più vicini - il Martini e il Maria Vittoria - per quelli che la burocrazia chiama “gesti anti conservativi”. Hanno ingoiato pezzi di lamette dei rasoi usa e getta, hanno ingerito vetri delle lampadine o delle luci al neon, oppure hanno costruito un cappio adoperando le t-shirt oppure con i lacci delle sneakers. Se tutto è finito bene e nessuno ci ha rimesso la vita, è soltanto un caso. Basta poco che una simulazione - come lo sono gran parte di queste storie - si trasformi una tragedia vera. Cinquantasette persone, dunque, hanno rischiato di morire così. Per quale ragione molti migranti in attesa di rimpatrio adottino questa strategia è ormai è ampiamente chiaro. Chi è stato ricoverato per un tentato suicidio - e al momento delle dimissioni dall’ospedale ottiene una diagnosi di stato depressivo - che è considerata incompatibile con la detenzione deve immediatamente tornare in libertà. Così stabilisce la legge. Perfetto: si tratta di un doveroso gesto di umanità. Ma se i tentati suicidi sono simulazioni? E se qualcosa va male? Al Cpr di Torino, fino qualche mese fa esisteva una stanza che si chiama Ospedaletto. Serviva per ricoverare le persone che avevano bisogno di assistenza. Ma il Cpr non è un carcere e il sistema di vigilanza è circoscritto. Ci sono sì dei poliziotti, che garantiscono la sicurezza della struttura, ma niente di più. O meglio poco di più. Intervengono se - e quando - ci sono rivolte (e ci sono stati dei periodi in cui capitavano con una frequenza impressionante). Gli agenti garantiscono inoltre che gli accessi al Cpr siano autorizzati. In pratica non sono agenti di polizia carceraria: perché quello non è un carcere. E quello non è il loro compito. Per cui non vigilavano che chi era all’Ospedaletto non uscisse. Di qui la precauzione adottata dai responsabili della struttura di chiudere a chiave la porta. Quel gesto è costato - tra le altre cose - anche l’accusa di sequestro di persone al medico del Cpr nell’ambito dell’inchiesta sulla morte di Mamadou Moussa Balde. E per chi non se lo ricordasse era il giovanotto picchiato selvaggiamente a Ventimiglia da un gruppo di ragazzotti. E senza una ragione vera. Ecco l’indagine su quella vicenda da qualche giorno si è arricchita di un altro elemento. Nel fascicolo aperto dai magistrati Vincenzo Pacileo e Rossella Salvati - e nel quale figuravano già indagati il medico e il direttore della struttura (l’accusa che era stata loro mossa è di omicidio colposo) - adesso sono stati iscritti anche alcuni poliziotti della questura di Torino. Cinque in totale: tre agenti semplici e due graduati. Per loro il reato contestato è il concorso. Si domandano cioè i magistrati se quella morte avrebbe potuto essere evitata. E se tutti hanno fatto il loro dovere. Di questa vicenda nessuno parla volentieri. Anzi, di più: nessuno parla. L’unico che commenta è Eugenio Bravo il segretario provinciale del sindacato di polizia Siulp che dice due cose. La prima: “Il Cpr sta diventando una farsa che fa soltanto spendere una marea di soldi ai cittadini, senza adempiere alla ragione per cui era stato previsto: cioè l’espulsione degli extracomunitari che non hanno diritto di restare in Italia”. La seconda: “Occorre ripristinare al più presto modalità più efficaci possibili per le espulsioni. Diversamente queste strutture saranno una perdita di tempo per le forze dell’ordine è una pia illusione per le espulsioni”. Intanto l’“incubo suicidi” aumenta. E le ambulanze fanno la spola dal pronto soccorso al Cpr, e ritorno. Nessuno lo dice apertamente, ma trovare qualcuno che voglia prendersi la responsabilità di quanto sta accadendo dietro quei muri altissimi che circondano l’ex scalo ferroviario diventato un finto carcere, è sempre più complicato. Torino. Detenuti psichiatrici, aggressioni e tensioni: domani sciopero dei sindacati di Irene Famà La Stampa, 12 novembre 2021 Protesta degli agenti della Polizia penitenziaria al carcere Lorusso e Cutugno di Torino per chiedere provvedimenti per gestire la situazione “di emergenza” all’interno della casa circondariale. Le sigle sindacali hanno indetto un presidio domani alle 10, all’esterno dei cancelli dell’istituto. “Abbiamo mandato continue note, ma tra i vertici della casa circondariale e il personale di polizia penitenziaria c’è totale assenza di comunicazione” spiegano in una nota stampa. I sindacati raccontano di “continue tensioni all’interno dell’Istituto, turni di lavoro massacranti, continuo stravolgimento della programmazione dei turni, continui sbeffeggi e gravi aggressioni da parte della popolazione detenuta”. I sindacati spiegano che la casa circondariale è sovraffollata “oltre il 35% della capienza” e sottolineano la “presenza di soggetti affetti da problematiche di natura psichiatrica che, senza la possibilità di essere impegnati nell’arco della giornata, sono lasciati liberi nelle sezioni a regime aperto, dove ingaggiano scontri fisici anche con gli altri detenuti”. C’è poi la questione di “grave carenza di organico” nei vari settori e delle “difficoltà quotidiane che gravano sulla sorveglianza generale, su ciascun padiglione detentivo, sul nucleo traduzioni e piantonamenti”. I sindacati invitano le forze politiche a partecipare al presidio. “È triste constatare che il carcere di Torino sia lasciato allo sbaraglio - dicono - considerato che questi è tra i più critici d’Italia, se non il più complesso. L’amministrazione penitenziaria deve prendere provvedimenti con urgenza”. Lecce. Dal carcere alla cucina di un hotel: la storia di Fulvio Rizzo di Francesco Oliva La Repubblica, 12 novembre 2021 Cinquantuno anni, 22 dei quali vissuti in cella, ora racconta in un libro come la passione per il cibo gli abbia cambiato la vita: prima fra le mura del supercarcere di Trani poi, una volta uscito, dandogli una seconda possibilità. Un libro per raccontare la sua esperienza in carcere dove ha subito soprusi e ingiustizie ma dove ha anche imparato il mestiere che ora svolge con passione e amore da circa dieci anni. “Sono un cuoco non uno chef” esordisce Fulvio Rizzo, 51 anni 22 dei quali trascorsi dietro le sbarre molti dei quali al 41 bis, il carcere duro. La sua passione per la cucina si è rivelata un balsamo per attendere il fine pena e concedergli una nuova chance appena tornato in libertà. Ora Rizzo gestisce un albergo e un ristorante, collabora nella stesura di opere teatrali e ha scritto anche un libro il cui titolo è la sintesi perfetta dei suoi primi 51 anni: “Diventare chef (nonostante tutto)”. Nei giorni scorsi ha presentato la sua prima fatica letteraria il cui ricavato sarà in parte devoluto all’associazione Antigone che da anni si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale. E Rizzo di battaglie ne ha fatte tante e vinte altrettante. Da ragazzino ci sapeva fare con il pallone e per tanti rappresentava una giovane promessa del calcio salentino; l’amicizia con Antonio Corvino che comprò il suo cartellino; poi, però, arrivarono le cattive amicizie; gli anni vissuti negli ambienti della malavita fino al carcere. Dietro le sbarre Rizzo ha visto il buio ma anche la luce (le amicizie coltivate, il diploma di ragioneria, la laurea in sociologia). “Ho fatto degli errori in gioventù - racconta - ho trascorso tanti anni dietro le sbarre per colpe non mie ma la vita mi ha riservato un’altra opportunità”. Rizzo era detenuto nel carcere di Trani quando si è avvicinato ai fornelli. “Dopo una protesta per il cibo scadente il direttore del carcere mi propose di allestire una squadra racconta. Lo feci ed è stata la decisione che mi ha cambiato la vita. Iniziai un percorso in cucina e il cibo si è rivelato qualcosa di eccezionale anche perché mi permetteva di trascorrere trenta/quaranta minuti con tutti gli altri compagni di cella”. Nel tempo Rizzo ha affinato le doti anche se rimane modesto. Una specialità? La lasagna di Portofino (besciamella, pesto e gamberetti) ideata in cella come “innocente evasione” e come risposta a una guardia che gli disse che il mare non l’avrebbe più rivisto. Rizzo, invece, non ha mai mollato. Insieme con il socio “fratello”, Gigi Perrone, “l’unico maestro che ha creduto in me e che mi ha teso una mano” ha aperto un ristorante apprendendo velocemente i trucchi del mestiere. I primi anni non sono stati semplici. Rizzo doveva rientrare in carcere entro le 21 perché in regime di semilibertà ma sono stati anche gli anni dei concorsi in cucina e dei riconoscimenti. Ed ora eccolo qui. Pronto a dispensare suggerimenti e consigli su come una pietanza vada preparata per valorizzare i sapori e soddisfare i palati più esigenti. “Tutto questo - dice con un pizzico di emozione - non sarebbe stato possibile se non avessi avuto al mio fianco una donna speciale come mia moglie e mia figlia che ho ritrovato fuori già donna e imprenditrice”. Referendum cannabis, ecco le dieci fake news sulla legalizzazione di Valentina Stella Il Dubbio, 12 novembre 2021 Il comitato promotore pubblica un decalogo per smentire le convinzioni più diffuse sulla cannabis: dall’aumento dei consumi, alla “cultura dello sballo”, fino al mercato delle mafie. “La legalizzazione non serve a ridurre mercato delle mafie” dicono molti politici a destra e cittadini proibizionisti. “Falso” risponde il comitato promotore del “Referendum cannabis legale”, spiegando anche il perché: “Il traffico di sostanze, anche di cannabis, è il bancomat delle mafie. Dal narcotraffico le mafie ricavano grandi flussi di denaro per fare riciclaggio in attività perfettamente legali. La Relazione annuale del Parlamento sulle tossicodipendenze del 2021 riporta che il mercato delle sostanze stupefacenti (un sistema completamente appaltato alla criminalità organizzata) muove attività economiche per 16,2 miliardi di euro, di cui circa il 39% attribuibile al mercato nero dei cannabinoidi (pari a 6,3 miliardi di euro). Per dare un metro di paragone l’infiltrazione criminale nell’industria turistica vale 2,2 miliardi di euro. La legalità si dimostra nuovamente l’unica arma per dare un colpo alla criminalità organizzata, per liberare risorse - uomini, mezzi, tribunali, carceri - per perseguire reati più gravi e droghe più pericolose”. E però “la legalizzazione della cannabis aumenterà il consumo dei giovani”. “Falso” pure questo, lo dimostra quanto avvenuto nello Stato del Colorado che è stato il primo a legalizzare negli Usa nel 2012: “Da allora il Paese ha registrato una costante diminuzione del consumo tra i giovani (oggi intorno al 20%). Così come il numero di giovani consumatori canadesi si è praticamente dimezzato l’anno dopo la legalizzazione nel 2018 (dal 19,8% al 10,4%) per poi tornare a livelli comunque inferiori ai precedenti (19,2%). In Europa la percentuale più bassa di giovani consumatori si trova in Portogallo: 14%. Si tratta di un Paese che ha decriminalizzato l’uso di ogni sostanza nel 2001, puntando a un approccio di intervento sociale invece che repressivo. In Italia, dove ci sono le leggi sulle droghe più severe d’Europa, il 28% degli studenti italiani ha fatto uso di sostanze nell’ultimo anno. Il 6% dichiara di aver iniziato prima dei 13 anni. La legalizzazione è finora l’unica misura messa in atto che ha allontanato i giovani dal consumo”. Queste sono solo alcune delle fake news che si sentono ripetere in merito alla legalizzazione della cannabis e che il comitato promotore, che ha raccolto e depositato 630 mila firme in Cassazione, ha deciso di sfatare sia durante un webinar con esperti, giuristi e medici sia con una apposita pagina sul sito della campagna. “La più odiosa tra le menzogne usate in questi giorni è quella relativa al via libera alla guida strafatti” ha detto Marco Perduca, dell’Associazione Luca Coscioni e presidente del Comitato promotore. “Chi la usa mente sapendo di mentire” ha aggiunto Leonardo Fiorentini, segretario Forum Droghe: “Il quesito infatti non incide sulla guida in stato alterato da sostanze - che rimane sanzionata - ma su una sanzione odiosa che colpisce chi è trovato in possesso di sostanze ad uso personale anche sul divano di casa! Una sanzione senza funzione rieducativa e anzi desocializzante a partire dal rischio di perdere il lavoro. I dati ufficiali ci dicono che non vi è variazione rilevante dell’incidentalità stradale negli Stati che hanno legalizzato rispetto agli altri. L’insinuazione che con la legalizzazione della cannabis avremmo un’ecatombe sulle strade è semplicemente un mito proibizionista”. Grecia. Condannato a 142 anni per aver salvato 33 vite. “Ma io rifarei tutto da capo” di Marta Serafini Corriere della Sera, 12 novembre 2021 “Rifarei tutto da capo”. Condannato a 142 anni carcere per aver salvato 33 vite umane. Quando Hanad Abdi Mohammed, somalo, nel dicembre 2020 sale sul barcone che lo deve trasportare dalla costa turca in Grecia non immagina che cosa sta per succedergli. “Avevo paura di annegare, di morire. Ma non pensavo di finire in una cella”. Al largo dell’isola di Lesbo i trafficanti turchi - come spesso accade - abbandonano il barcone e lo lasciano ai migranti. Così Mohammed, senza pensarci due minuti, afferra il timone e si mette alla guida. Ha paura ma è determinato a salvare se stesso e i suoi compagni di viaggio. Poi, però, una volta arrivato a terra, Mohammed viene arrestato. L’accusa è di traffico internazionale di esseri umani. E in primo grado viene condannato a 142 anni di cella. “È una sentenza ingiusta e crudele”, spiega al Corriere il deputato greco di Syriza Stelios Kouloglou che domenica ha fatto visita a Mohammed in carcere sull’isola di Chios insieme a una delegazione di eurodeputati. “Nonostante la situazione, l’ho trovato calmo e lucido”, spiega ancora. Per arrivare a questa sentenza “i giudici si sono basati su una legge greca del 2014, articolo 30 della legge 4251/2014 - spiega ancora Kouloglou - chi prende il timone è considerato un contrabbandiere e riceve una condanna a 15 anni per persona trasportata e l’ergastolo per ogni persona morta durante il viaggio”. Ma non solo. “All’imputato sono stati forniti inizialmente avvocati d’ufficio che non hanno studiato il caso e non gli è stata fornita un’appropriata assistenza nella traduzione durante gli interrogatori”, denuncia Kouloglou. Così, dopo un’udienza di circa quarantacinque minuti e di un’ora e mezza di Camera, arriva il verdetto. Uno choc. Il caso di Mohammad non è l’unico. Secondo un rapporto pubblicato a novembre da Border Monitoring, una ong tedesca, sono stati identificati almeno 48 casi solo a Chios e Lesbo, dove “gli imputati non hanno tratto alcun profitto dal business del contrabbando”. Nella stessa prigione di Chios sono rinchiusi due afghani, di 24 e 26 anni, entrambi condannati a 50 anni sulla base della stessa accusa. “Uno di loro ha viaggiato con la moglie incinta e il figlio, nessun trafficante farebbe una cosa del genere”, dice Kouloglou. E un uomo siriano di 28 anni è in prigione ad Atene dopo aver ricevuto una condanna a 52 anni ad aprile dopo aver attraversato la Turchia con sua moglie e tre figli, mentre un altro afghano è stato accusato per la morte del figlio durante la traversata provocata invece - secondo i testimoni - dallo speronamento della Guardia costiera greca. Una prassi comune, secondo le associazioni per i diritti umani. E proprio la condanna di Mohammad è stata aggravata dal fatto che due donne sono annegate in quella traversata. “Ma otto migranti che erano sulla barca hanno testimoniato come il trafficante turco che li trasportava avesse abbandonato l’imbarcazione dopo che una nave della Guardia costiera turca l’ha spinta a entrare in acque greche”, spiega ancora. Il meccanismo dunque è chiaro. Accusare i migranti per cercare di fermare il flusso. Una deterrenza che “oltre che a violare i diritti umani non funziona”, concordano gli esperti. La pratica di processare i migranti per traffico di migranti è iniziata nel periodo della crisi del 2015-2016, quando più di 1 milione di rifugiati hanno attraversato la Grecia. “E si è intensificata da quando la Turchia all’inizio del 2019 ha smesso di far rispettare un accordo raggiunto con Bruxelles nel 2016 per fermare il flusso e rimpatriare tutti coloro che riescono a entrare illegalmente in Grecia che non hanno diritto alla protezione dell’UE”, dicono alcuni osservatori. Inoltre “è molto difficile per la Grecia, ma anche per l’UE, cooperare con la Turchia per reprimere il traffico”. La Grecia, dal canto suo, si difende, affermando che i suoi tribunali sono equi e che ha l’obbligo di sorvegliare i propri confini. Negli ultimi due anni, secondo Dimitris Choulis e Alexandros Georgoulis, gli avvocati che difendono Mohammad e altri come lui, le accuse vengono mosse senza prove reali, come prova il fatto che un uomo afghano sia sotto processo contrabbando semplicemente perché aveva il Gps aperto sul suo cellulare durante un attraversamento. Ma nei confronti dei veri trafficanti non viene fatto nulla. Con il risultato che nulla cambia. Perché, come ha sintetizzato al New York Times Clio Papapadoleon, un importante avvocato per i diritti umani, “processare un rifugiato come contrabbandiere significa trattare un piccolo criminale per droga come Escobar. E forse anche peggio”. Giappone. Le scade il visto: arrestata. Poi muore dietro le sbarre di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 12 novembre 2021 La drammatica storia della studentessa del Sri Lanka Wishma Sandamali. La ragazza scompare a 33 anni “uccisa da stress e consunzione” Proteste nel Paese contro le durissime leggi anti- immigrati. Un caso drammatico sta svelando il volto sinistro del Giappone in materia di immigrazione. Il paese del Sol Levante infatti è ben lontano dalle stereotipate immagini di una nazione moderna, dedita al lavoro e alla tecnologia. Le cerimonie e la riservatezza dei suoi abitanti non si sposano infatti con l’accoglienza di migranti e richiedenti asilo. A far gettare la maschera è stata la morte, avvenuta nel marzo scorso, di una donna dello Sri Lanka, Wishma Sandamali di 33 anni. L’odissea inizia nel 2017 quando arriva in Giappone con un visto per studenti nel 2017, lo scorso anno chiese aiuto dopo aver subito violenza domestica ma invece di ricevere sostegno dalle autorità venne arrestata e posta in detenzione presso l’Ufficio Regionale per l’Immigrazione di Nagoya. La ragione, secondo quanto riferiscono i legali e la famiglia di Sardamali è che il suo visto era scaduto. E proprio mentre si trovava in prigione la donna è morta in circostanze che hanno spinto martedì i familiari a sporgere una denuncia contro diversi alti dirigenti, compreso il capo della struttura di detenzione in cui era detenuta, insieme agli ufficiali in carica il giorno della sua morte. Una mossa legale che può avere lo scopo di spingere i pubblici ministeri a esaminare ulteriormente le vere cause del decesso. Wishma Sandamali infatti avrebbe perso la vita per consunzione, cioè a causa di un fortissimo stress che ne ha progressivamente deperito le difese. Una tesi che sarebbe avvalorata anche dalle testimonianze di alcuni attivisti che la visitarono in carcere fino al giorno della morte. La condotta dell’Ufficio immigrazione dunque sarebbe apparsa altamente dolosa. Ciò è stato confermato anche da un rapporto stilato da un’agenzia governativa incaricata di investigare sul caso che, già in agosto, ha riscontrato come i funzionari dell’immigrazione non avessero condiviso i dettagli sulle condizioni della ragazza e non fornendo cure mediche adeguate. Tutto ciò legato da uno scarso rispetto dei diritti umani da parte del personale carcerario. Il caso tragico sta suscitando un’ondata massiccia d’indignazione in Giappone. In molti sono scesi in piazza per protestare e chiedendo maggiori informazioni sulla vicenda. Ripetute manifestazioni sono scoppiate anche a Nagoya, Tokyo e Osaka. Una petizione, diffusa da studenti e gruppi di sostegno per gli immigrati, che chiedeva la pubblicazione di tutte le riprese delle telecamere di sicurezza del carcere (che avevano catturato gli ultimi istanti di vita della donna srilankese), è riuscita a raccogliere più di 93mila firme. E proprio dai video, consegnati ai familiari e agli avvocati, è emerso che le autorità per l’immigrazione non avevano agito prontamente quando le condizioni di salute di Wishma Sandamali si stavano palesemente aggravando. Un dettaglio su tutti, la mancata chiamata di un’ambulanza sebbene la ragazza apparisse sempre più debole e insensibile nei giorni precedenti la sua morte. Sebbene la donna non fosse una richiedente asilo il suo caso ha messo in luce il complesso rapporto dello stato Giapponese con chi arriva in cerca di aiuto. A causa delle proteste popolari infatti è stato ritirato in Parlamento un controverso disegno di legge che avrebbe reso più facili le espulsioni. Attualmente non esiste un limite per il numero delle domande di asilo che si possono presentare, qualora però la norma più restrittiva andasse in vigore si potrebbe sottoporre richiesta in non più di due occasioni. Eppure le normative giapponesi sono già fortemente severe, un atteggiamento che fa si come non più dell’1% dei richiedenti venga accettato ogni anno. Una percentuale significativamente inferiore rispetto ad altre nazioni come gli Stati Uniti e i paesi europei in cui i tassi di accettazione sono compresi tra il 30% e il 40%. Che cosa succede alle giudici afghane? di Marjana Sadat* La Repubblica, 12 novembre 2021 È venerdì mattina. Il mio telefono squilla. Ho risposto. Una donna dall’altra parte dice con voce tremante: “Sei Marjana?”. Ho risposto di sì. Mi dice subito: “Aiutami. I miei due bambini sono in pericolo”. Le dico: “Come posso aiutare?” E lei: “Sono Maryam (nome di fantasia). Ho lavorato come giudice nel tribunale di Herat per molti anni. I criminali che ho mandato in prigione sono stati rilasciati dai talebani e mi stanno cercando. Ho lasciato la mia casa. Sono venuta a Kabul da Herat, ospite di amici. Sono nei guai. Ti prego di parlare con qualcuno che possa aiutarmi a uscire da questo inferno, non riesco a telefonare e ho inviato un’email a diverse organizzazioni che lavorano per i diritti delle donne, ma nessuna di loro ha risposto”. Ora vaga tra Herat e Kabul, ospite in casa di amici e conoscenti, con suo marito (che lavorava presso il Ministero dell’Energia e dell’Acqua) e i suoi due figli. Maryam chiede al Ministero della Giustizia italiano di aiutare lei e le altre donne giudici a proteggere la loro vita. Nel frattempo, 26 donne giudici e avvocate afghane sono arrivate in Grecia; altre centinaia sono ancora nel panico. La Grecia ha annunciato che 26 magistrate e avvocate afghane e le loro famiglie sono arrivate nel Paese alla fine della scorsa settimana. Più di 200 donne giudici e avvocate afghane vivono nel panico dopo la liberazione dei detenuti da parte dei talebani. Il ministero degli Esteri greco il primo ottobre ha emesso un bollettino annunciando che 26 donne giudici e avvocate afghane hanno lasciato il Paese. I funzionari greci hanno detto che gli uomini e le loro famiglie resteranno temporaneamente in Grecia fino al loro trasferimento in un altro Paese. Secondo il comunicato del ministero degli Esteri greco, le magistrate e le avvocate erano arrivate in Grecia passando per Tbilisi, la capitale della Georgia. Allo stesso tempo, Reuters riferisce che circa 250 donne, giudici e avvocate, sono vivamente preoccupate per il rilascio di detenuti che avevano mandato in prigione. Diverse magistrate afghane sono state uccise anche nell’era pre-talebana, ma ora sono in grande pericolo, dato che i talebani sono saliti al potere e non rispettano i diritti delle donne. Secondo la Reuters, il tentativo dell’Organizzazione Internazionale delle Donne Giudice (AIFJ) di far uscire queste donne dall’Afghanistan ha avuto successo solo in pochi casi. “Si sono presentati a casa nostra quattro o cinque talebani chiedendo di me. Erano persone che avevo condannato a pene detentive”. “Oltre alle donne magistrate e alle avvocate, circa 1.000 donne attiviste per i diritti umani e nella società civile sono a loro volta sono sotto la minaccia dei talebani”, dice Hurriya Mossadegh, attivista per i diritti delle donne afghane in Europa. L’ex segretario di Stato per la Giustizia britannico Robert Buckland ha detto alla Reuters che Londra è a conoscenza della rimozione di nove magistrate afghane e sta lavorando per garantire l’uscita sicura dal Paese di queste e di altre persone vulnerabili. *Traduzione di Luis E. Moriones La magistrata simbolo di Herat. “Qui in Italia ora sono al sicuro” di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 12 novembre 2021 La cittadinanza per protezione a Maraya Bashir. L’impegno della ministra Cartabia. Essere italiana, dice Mareya Bashir, significa “essere al sicuro, poter continuare a vivere, lavorare. Non essere sola. Grazie”. Su segnalazione della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, il Consiglio dei Ministri ha deliberato il conferimento della cittadinanza alla prima procuratrice donna dell’Afghanistan, che attraverso un decreto del presidente della Repubblica entrerà sotto l’ombrello protettivo del nostro Paese. Con un passaporto europeo, ma soprattutto con una procedura straordinaria che riconosce un ruolo d’eccezione. E vale come impegno, parole di Cartabia, “in difesa di tutte le altre donne tuttora esposte a violenza in quel Paese”. Giovane avvocata durante il primo regime talebano, chiusa in casa, Mareya Bashir al Corriere racconta il risveglio, vent’anni fa, alla caduta dei fanatici: “Fu come un’alba al termine di una notte profondamente buia. Un nuovo inizio con la speranza di ricostruire l’Afghanistan con energia ed entusiasmo”. Per un po’ è durata, grazie anche alla presenza italiana nella sua provincia, Herat: “Le porte di scuole e università si sono nuovamente aperte alle ragazze, le donne sono tornate al lavoro, e io al mio impegno”. Che era stato già stabilito quando studentessa negli anni Novanta Mareya s’era iscritta alla facoltà di Giurisprudenza: “C’era molta ingiustizia nella mia società, vedevo disparità e oppressione sin da bambina, e avevo maturato l’idea che per la giustizia bisogna conoscere i diritti e studiare legge”. Non è stata una discesa. “Tutto è difficile per le donne nel mio Paese: ho affrontato molti ostacoli, ma sono andata avanti”. Fino a diventare a 36 anni capo della procura di Herat (dal 2006 al 2015): “Cosciente di essere la prima nella storia del Paese, ho cercato di far capire alla mia gente, soprattutto agli uomini, che le donne possono lavorare bene. Ho l’orgoglio di esserci riuscita”. Nonostante i rischi: il primo più grave attentato, sulla porta di casa, è appena del 2007, due guardie del corpo ferite. Ma forte del sostegno (e della protezione) dei militari italiani, Bashir ha tenuto fede al suo impegno: istituti per ragazze, mercati in cui le donne potessero vendere i propri prodotti, ospedale dedicato all’alto tasso di maternità di Herat, un carcere femminile con spazio per i bambini delle detenute. Ma anche infrastrutture, una nuova Procura, sezioni specializzate - avanguardia assoluta nel Paese - nella tutela di donne e minori. La lotta alla violenza di genere è stata per la magistrata una priorità e molte delle sue iniziative hanno fatto scuola. Finito l’incarico in procura, Bashir ha fondando lo studio legale Bayat Adalat: “Deve esserci giustizia”, con cui è riuscita a portare in tribunale molti casi di maltrattamenti e abusi. Finché i talebani non sono tornati. “Siamo sotto choc - continua - è calata di nuovo l’oscurità. Se non avessi lasciato il Paese sarei stata uccisa, perché sono una donna e per il lavoro che ho fatto. Ci avevano già provato, questa volta ci sarebbero riusciti”. Grazie a un visto per la Turchia, Bashir ha lasciato Herat in agosto, a settembre è arrivata in Italia, e ora raggiungerà i figli in Nord Europa. “Aiutate il mio popolo - è il suo appello - per mio conto, continuerò a tenere alta l’attenzione”. Con un sogno ancora: “Tornare a Herat, un giorno, e vedere le bimbe andare a scuola liberamente”.