Niente benefici a chi si dissocia senza collaborare. “Non è l’unico parametro di valutazione” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 novembre 2021 La Suprema Corte smentisce la fake news sul rischio di riconoscere benefici a chi si dissocia senza collaborare: infatti non è questo l’unico “parametro” di valutazione. La dissociazione dei cosiddetti “irriducibili” detenuti mafiosi al 41 bis viene interpretata da taluni detrattori della sentenza della Corte Europea e della Consulta sull’ergastolo ostativo, come una strategia efficace per ottenere un “tana libera tutti”. Si incute quindi il timore che con la fine della preclusione assoluta dei benefici per chi non collabora con la giustizia, la dissociazione diventa un fattore decisivo per ottenere la libertà. Niente di più falso. Tutto ciò viene smentito dalla sentenza numero 39868 della Cassazione, appena depositata, che ha respinto il ricorso di Filippo Graviano contro la decisione della proroga del 41 bis. Martedì sarà votato il testo base sull’ergastolo ostativo - A proposito dell’ergastolo ostativo il presidente della commissione Giustizia di Montecitorio e relatore del provvedimento, Mario Perantoni del Movimento 5Stelle, fa sapere che martedì prossimo sarà votato il testo base sulla riforma dell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. “Sono soddisfatto dichiara Perantoni - che vi sia stata ampia convergenza sulla proposta di testo base che, tra l’altro, prevede che i condannati all’ergastolo ostativo non possano accedere ai benefici penitenziari se non vi è certezza della inesistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata o del pericolo di un loro ripristino, oltre alla condizione dell’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato”. Perantoni spiega che “il boss mafioso non collaborante non potrà accedere ai benefici penitenziari secondo i criteri ordinari: questo resta un punto fermo in piena coerenza con gli orientamenti della Consulta”. Filippo Graviano aveva chiesto l’annullamento della proroga del 41 bis - Per quanto riguarda Filippo Graviano il suo difensore aveva chiesto l’annullamento del provvedimento emesso dal Tribunale di sorveglianza di Roma il 3 dicembre 2020, recante il rigetto del reclamo proposto avverso il decreto emesso dal ministro della Giustizia, concernente la proroga del 41 bis. Nel ricorso per Cassazione si deduce erronea l’applicazione del carcere duro, nonché vizio di motivazione. Come spiega la Corte Suprema il 41 bis stabilisce che i provvedimenti applicativi del regime di detenzione differenziato sono prorogabili nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni, quando “risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno”. Per la Cassazione il Tribunale di sorveglianza di Roma aveva proceduto correttamente - Ma veniamo al punto. Nel caso in esame, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha proceduto - sottolinea la Cassazione - “con corretta interpretazione ed esatta applicazione dei principi di diritto in materia”, alla verifica della permanenza dei dati indicativi della capacità di collegamento di Filippo Graviano con la criminalità organizzata, valorizzando gli elementi sui quali ha fondato la valutazione della pericolosità del medesimo e della legittimità e fondatezza della proroga della misura in oggetto. In particolare, il Tribunale di sorveglianza ha evidenziato la correttezza del decreto ministeriale, alla luce: del ruolo di vertice rivestito dal Graviano nel gruppo mafioso di appartenenza; dell’irrilevanza della circostanza che prevalentemente si occupasse della gestione finanziaria dei crimini; dell’inidoneità del percorso di studi universitari compiuti dal detenuto a recidere il vincolo associativo; della circostanza - che la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo ha valutato come priva di qualsiasi effettività la dichiarazione di dissociazione resa dal Graviano il 6 maggio 2010; del fatto che lo stesso è indicato, nelle note degli inquirenti, come attualmente inserito nel clan di appartenenza; dell’attuale operatività di quest’ultimo; dell’assenza di elementi sintomatici dell’acquisizione di valori di legalità da parte del ricorrente. La dissociazione non è l’unico parametro di valutazione - Quindi, nonostante la dissociazione resa nel 2010, tutti questi elementi elencati sono stati ritenuti idonei a dimostrare il pericolo di una ripresa di contatti, da parte del ricorrente, con il clan di appartenenza, e sono stati - sottolinea la Cassazione - “pertanto valorizzati, secondo un ragionamento logico e nel rispetto della disciplina di riferimento, al fine di giustificare le ulteriori restrizioni trattamentali”. In conclusione, per la Cassazione, il ricorso di Filippo Graviano deve essere dichiarato inammissibile. Cosa significa tutto ciò? Che c’è il rischio di riconoscere benefici o sconti di pena a chi si dissocia senza collaborare con la giustizia, è una fake news. La dissociazione, che tra l’altro non è normata per i detenuti condannati per mafia, non è l’unico parametro di valutazione per concedere o meno i benefici. Figuriamoci per gli ex boss condannati per le stragi. Vogliono la sharia in Costituzione. Chi: l’Islam? No, Meloni e (forse) i Cinquestelle di Piero Sansonetti Il Riformista, 11 novembre 2021 Giorgia Meloni ha presentato un disegno di legge per modificare l’articolo 27 della Costituzione. La ragione immediata di questa iniziativa è chiarissima: impedire che misure come l’ergastolo ostativo (sul quale, in assenza di iniziative del Parlamento la Consulta deciderà a maggio) siano abolite perché incostituzionali. Dice Meloni: anziché cambiare le misure repressive, cambiamo la Costituzione. L’articolo 27 contiene dei principi che sono il cuore della Costituzione. Sono il suo spirito liberale che 75 anni fa unì le sinistre, le destre e i cristiani. Abolirlo, o sfregiarlo, vuol dire uccidere la Costituzione. Trasformarla in un regolamento di condominio, senza principi, senza anima. L’iniziativa della Meloni, che a occhio dovrebbe trovare l’appoggio dei 5 Stelle, punta a ricostruire lo stato di diritto non più intorno alla religione del diritto ma alla religione della punizione. È il nuovo punizionismo. Che assomiglia moltissimo - non se la prenda Giorgia Meloni - allo spirito della Sharia islamica. La pena messa al centro dei rapporti tra Stato e società. C’è un articolo della nostra Costituzione, l’articolo numero 27, che ha una particolare importanza nell’impianto generale dello stato di diritto. Perché contiene non solo una direttiva, ma un principio generale, che nasce dallo spirito della nostra civiltà cristiana e illuminista. Per usare una parola greca, molto conosciuta, questo principio è il logos della civiltà moderna. L’articolo numero 27 fu scritto parola per parola da personaggi fondamentali nella storia della repubblica. Quelli che si chiamano i padri costituenti. De Gasperi, Togliatti, Nenni, Pertini, Saragat, Pajetta, Gullo, Calamandrei. Alcuni di loro avevano conosciuto la prigione durante il fascismo. Qualcuno l’aveva conosciuta anche molto bene: l’aveva potuta studiare da dentro per oltre dieci anni. Dice così, quell’articolo della Costituzione (al terzo comma): “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. L’altra sera la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha annunciato un disegno di legge per la modifica di questo articolo. La ragione immediata è impedire che la Corte Costituzionale, in assenza di iniziativa del parlamento, alla scadenza del mese di maggio renda definitivo il divieto dell’ergastolo ostativo. La ragione più generale è quella di rilanciare in Italia una politica punizionista, dove il carcere assuma un ruolo centrale nei rapporti tra legge e società, e che chiuda il periodo lungo e contrastato iniziato circa 50 anni fa e sempre caratterizzato da una lotta tra liberali e reazionari sul fronte della politica carceraria. È stata una lotta piena di colpi e contraccolpi, dalle leggi liberali volute da Mario Gozzini (parlamentare di sinistra, cattolico), alle leggi di segno opposto, quelle dell’emergenza, volute dalla magistratura (spesso dalla sinistra della magistratura), dai provvedimenti per alleggerire il sovraffollamento delle carceri e per esaltare le pene alternative, ai ritorni di fiamma “sbirreschi” come quelli recenti del governo gialloverde e del ministro Bonafede, e poi ancora, negli anni novanta, alla sollevazione della magistratura contro il famoso decreto Biondi (che limitava la carcerazione preventiva) e al varo delle varie pene ostative, fino all’ergastolo, e al 41 bis. In sintesi, la questione è questa. Al momento in Italia esiste l’ergastolo ostativo, che anche molti magistrati chiamano carcere duro. E poi esiste il 41 bis che è un articolo del regolamento carcerario. Ergastolo ostativo vuol dire che devi restare in prigione sempre, senza permessi e comunque finché non muori. Non è possibile nessuna liberazione anticipata. Il 41 bis invece è applicato con intensità diverse e giunge fino a regimi medievali. Il condannato (o anche il detenuto in attesa di giudizio e sospettato di reati di tipo mafioso) è isolato, non può vedere la Tv, non può parlare con nessuno, non incontra mai gli altri prigionieri, non può cucinare, non può ricevere regali e aiuti da fuori, ha pochissime possibilità di parlare con i suoi parenti, i figli, la moglie o il marito, l’avvocato, e comunque deve farlo sempre protetto da un vetro blindato. Il contatto fisico è vietatissimo. Permesso solo ai bambini sotto i dodici anni, ma non sempre. Con le scene strazianti dei figlioletti che al compimento dell’anno dodicesimo non possono più abbracciare il proprio papà come hanno fatto fino alla settimana prima. Naturalmente ergastolo ostativo e 41 bis sono in netto contrasto con l’articolo 27 della Costituzione. Sia perché impongono pene contrarie al senso di umanità, sia perché in nessun modo possono tendere alla rieducazione del prigioniero. E sono anche in violazione palese della dichiarazione dei diritti dell’Uomo del 1948 e delle poco conosciute “Mandela Rules” (che qualche mese fa abbiamo pubblicato su questo giornale) approvate dall’Onu all’inizio di questo secolo (che, tra le altre cose, vietano l’isolamento del carcerato per più di 15 giorni). Nello scorso mese di maggio la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sull’ergastolo ostativo. E ha deciso, con prudenza, di dare al Parlamento un anno di tempo per abolirlo o modificarlo, dichiarando che, nelle condizioni attuali, è illegale. Arriva qui l’iniziativa di Giorgia Meloni. La quale, saggiamente, non contesta l’incostituzionalità, evidente, del carcere duro, ma contesta la Costituzione. E propone la modifica dell’articolo 27, da realizzare in tempi molto rapidi, in modo da evitare il contrasto tra Costituzione e punizione inumana, rendere non decisiva la condizione della rieducazione, e così togliere le castagne dal fuoco alla stessa Corte Costituzionale. Può avere successo l’iniziativa di Giorgia Meloni? I numeri sono ballerini. Attualmente, diciamo che sulla linea Meloni, a occhio, si trovano solo i 5 Stelle - che hanno sempre difeso l’ergastolo ostativo - e naturalmente Fratelli d’Italia. Meloniani e grillini però non dispongono di maggioranza parlamentare. Si può immaginare che a una modifica costituzionale di questo genere si oppongano Forza Italia, il Pd, Iv e gli altri piccoli gruppi liberali. Resta il punto interrogativo sulla Lega, che tra tutti i partiti italiani, in tema Giustizia, è tra i partiti più altalenanti. A volte garantista a 24 carati, a volte amante della forca e delle maniere forti (“buttate la chiave” è uno degli slogan politico-giudiziari più amati da Salvini). Se la Lega dovesse unirsi al fronte reazionario Fdl-5 Stelle la maggioranza per cambiare la Costituzione ci sarebbe, almeno sulla carta. Non sto parlando di fantapolitica. E neppure di un aspetto minore della lotta politica. Nei prossimi anni la giustizia sarà uno dei campi di battaglia della politica italiana. E si confronteranno due concezioni del mondo assai lontane tra loro e incompatibili. Quella punizionista, che pone la pena al centro della legalità. E quella garantista, che mette il diritto, il cittadino e la libertà a pilastri della civiltà. Il primo schieramento, il quale, seppure involontariamente, si ispira alla Sharia islamica, è molto vasto e fa riferimento ai vecchi principi reazionari. Il secondo schieramento è variegato, tutt’altro che unito, timido e spesso privo di sufficienti motivazioni culturali. Perciò la battaglia sarà molto dura e non è affatto detto che vincano i liberali. E se finirà per essere cancellato l’articolo 27 della Costituzione, secondo me, la Costituzione non esisterà più. Avrà perso l’anima e il volto. Sarà trasformata in un gelido regolamento politico Giustizia e referendum, non basta più nemmeno la fiducia di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 11 novembre 2021 Sì al decreto. Ma poi cominciano i problemi. Maggioranza in affanno alla camera perché divisa sul trojan e sulla proroga alla raccolta delle firme. La discussione, impedita sugli emendamenti, esplode sugli ordini del giorno. Costringendo a ripetuti rinvii. C’è il coperchio sulla pentola, ma balla assai. La camera approva con la fiducia la conversione del decreto legge che si occupa di giustizia (tabulati e trojan) e referendum (proroga) e copre così le divisioni nella maggioranza. Ma incassata la fiducia il confronto, impedito sugli emendamenti, si sposta sugli ordini del giorno come ormai sempre più spesso. Balla la maggioranza, sempre sul filo. Deputati precettati a votare fino a tarda sera e alla fine si deve rinviare a questa mattina sui testi più pericolosi per il governo, tutti accantonati. Perché non c’è una sola maggioranza. Sulla giustizia ce n’è una diversa da quella che governa: al M5S non piace la stretta sull’acquisizione dei tabulati telefonici che, nel rispetto di una sentenza della Corte di giustizia Ue, andranno autorizzati d’ora in poi da un giudice. Non piace nemmeno il (leggerissimo) limite all’uso del captatore informatico, il trojan capace di trasformare da remoto ogni telefono in un microfono ambientale. Negli ordini del giorno i 5 Stelle propongono al contrario di allargarne l’utilizzo. Altri pezzi della maggioranza - Azione e Forza Italia - più Fratelli d’Italia tentano l’operazione opposta. Il governo dà parere contrario su tutto ma si accorge di non avere i numeri sugli ordini del giorno di centrodestra. Lavori sospesi, polemiche, richiami al regolamento. Sui trojan si votano solo gli ordini del giorno di Fratelli d’Italia. Vengono bocciati soltanto perché Forza Italia e Lega si astengono (a favore invece i renziani). La maggioranza c’è, ma è molto relativa. Gli ordini del giorno di Azione e Fi, invece, saranno riformulati questa mattina nel tentativo di trovare un accordo. Il problema si ripresenta sul referendum, perché Pd, M5S e +Europa vorrebbero che i ritardi dei comuni nel produrre i certificati elettorali d’ora in poi non ricadano sui proponenti. Ma la Lega - che aveva provato pure con un inammissibile ordine del giorno a introdurre i controlli anti droga per i deputati - resiste e proverà oggi a spostare anche Forza Italia. La fiducia è un coperchio che balla Cartabia: “Improcedibilità? Da non attivare mai, se possibile” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 novembre 2021 La ministra fa a tappa a Palermo nel suo Viaggio nelle Corti d’appello. E torna sull’istituto più controverso del ddl penale. “Ha tanto suscitato discussioni: deve rimanere l’extrema ratio”. “L’improcedibilità che tanto ha suscitato discussioni deve rimanere un’extrema ratio, possibilmente da non attivare mai. E perché questo possa accadere abbiamo previsto l’osservatorio sul processo penale che istituiremo a giorni. È di imminente attuazione proprio per accompagnare una riforma che sappiamo essere sconvolgente, che ha bisogno di essere testata nella sua sperimentazione e che vogliamo accompagnare con tutti i supporti e le correzioni che si dovessero rendere necessari”. A dirlo a Palermo è stata questa mattina la ministra Marta Cartabia, nella nuova tappa del suo viaggio nelle Corti di Appello. Lo stesso concetto che ci espresse il sottosegretario Sisto in una intervista: “Se la sperimentazione ci dirà che il nuovo istituto non funziona, il Parlamento potrà sempre intervenire, come accade normalmente”. La guardasigilli ha voluto probabilmente rispondere, con quelle parole, anche al presidente Anm Giuseppe Santalucia che, nell’ultima riunione del “parlamentino” delle toghe, ha detto: “Non abbiamo notizie della costituzione del Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, previsto dalla legge di riforma, e credo si possa tutti convenire nell’auspicarne la rapida costituzione, perché gli uffici giudiziari non possono essere lasciati soli nell’affrontare una riforma, per dire eufemisticamente, complicata”. Ma Cartabia sembra così replicare anche alle critiche arrivate negli ultimi mesi da settori della magistratura, dall’Accademia, e in ultimo il 3 novembre dall’Ufficio del Massimario della Cassazione: “Non si fa una riforma della giustizia con un tratto di penna, ma è un processo che deve essere continuamente rivisto. Tutte le grandi riforme, non solo quella della giustizia, mostrano la loro efficacia e i loro limiti sono nel momento dell’applicazione. Quando si disegna una riforma si cerca di immaginare tutte le criticità, di attingere a tutte le esperienze e i contributi che possano mettere in campo il disegno più vicino alla perfezione, ma è un processo da attuare per tappe successive”. Cartabia ha tenuto anche a fare una precisazione sull’Ufficio per il processo che “è una componente fondamentale delle riforme che stiamo portando avanti, ma non è l’unico elemento su cui si sta puntando, anche se, a mio parere, è un elemento portante. È un aiuto nell’immediato, ma è anche un investimento per i futuri colleghi, è un patto intergenerazionale”. La guardasigilli si è soffermata sui paventati rischi che i giovani inseriti nell’Ufficio del processo finiscano per affollare le schiere del precariato: “Uno degli aspetti è la stabilizzazione delle risorse umane. Non è vero che stiamo creando una nuova categoria di precari, stiamo pensando a nuovi sbocchi e a future carriere che queste persone potranno avere”. È una Cartabia diversa dal solito che forse sente il peso di una riforma non condivisa da tutti, sebbene sia ispirata ai principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata. “Si sta cercando di portare avanti una riforma organica - ha concluso Cartabia - con uno sguardo olistico, sistematico, comprensivo di tutti i problemi della giustizia. Nessuno ha la bacchetta magica, non promettiamo una palingenesi della giustizia da un giorno all’altro, ma stiamo cercando di intervenire con gradualità. Un passo dopo l’altro con il contributo di tutti”. Attorno al processo penale, via Arenula pare dunque intenzionata a favorire una tregua, a chiedere tempo per valutare appieno il lavoro svolto a partire dai disastri del “fine processo mai” di Bonafede. Le ragioni di Cartabia sono giuste, come abbiamo sempre raccontato da questo giornale, ma come ha detto il professor Tullio Padovani in un convegno del 2012, parlando di carcere ma non solo, “l’extrema ratio nella realtà operativa vera non conta assolutamente nulla, perché è un appello alla buona volontà, una sorta di invito rivolto con parole alate a chi poi non è vincolato all’ascolto se non nella misura in cui decide di ascoltare”. Giustizia, sulla microspia Trojan la maggioranza si spacca a colpi di ordini del giorno di Liana Milella La Repubblica, 11 novembre 2021 Pd e M5S contro centrodestra, Italia viva e Azione. Furibondo il ministro D’Inca. Per colpa della microspia Trojan il governo si spacca alla Camera. Per giunta su un decreto per il quale era stata messa e votata la fiducia. Quello che proroga di un mese la possibilità di raccogliere le firme per il referendum sulla cannabis e cambia le regole sui tabulati telefonici che dovranno essere autorizzati dal giudice dopo la richiesta del pm. Ma quando è sera ecco l’agguato dei super garantisti che da sempre odiano il ‘virus’ inoculato nei telefoni. Per giunta sulla votazione degli ordini del giorno. Quindi a fiducia ormai alle spalle. E proprio tra gli ordini del giorno ce ne sono molti - di Costa di Azione, di Vitiello di Italia viva, di molti deputati di Fratelli d’Italia, di Turri della Lega, della Siracusano di Forza Italia - che stringono le maglie sul Trojan e, con differenti richieste, pretendono che i controlli e le autorizzazioni diventino molto più stringenti. È stato Costa, per primo, a chiedere già in commissione Giustizia, che fossero tre giudici, e non il solo gip, ad autorizzare la richiesta del pm. Proposta bloccata. Che Costa però ha trasformato in un ordine del giorno, seguito dal centrodestra. Ma, sul fronte opposto, ecco altrettanti emendamenti di M5S - da Saitta, da Sarti, da Ferraresi - che, all’opposto, chiedono di ampliare l’uso del Trojan, per esempio ai reati ambientali, oppure a quelli contro le donne, con la possibilità di utilizzare subito le trascrizioni, anche dopo 48 ore, senza il via libera del giudice. Modifiche a un provvedimento che vede contro tutti i giudici. E proprio qui la situazione sfugge di mano. Il sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, boccia alcuni emendamenti, dà il via libera ad altri, fatte salve delle riformulazioni. Chiede di accantonare quelli su cui, di fatto, il governo rischia. Ma la sua proposta non sta bene a FdI, perché Ciro Maschio e Carolina Varchi insistono sul voto di due emendamenti. Che ricordano il duro intervento del Copasir per via di procure che non danno sufficiente conto delle intercettazioni fatte. FdI chiede che intervenga in modo molto più netto la Corte dei conti. Messi al voto, i due emendamenti passano, spaccando a questo punto la maggioranza. Perché FdI vota assieme a Lega e Forza Italia, e anche a Italia viva e ad Azione. Restano in minoranza Pd, M5S e Leu. Ma non basta, perché sul tavolo ci sono gli altri ordini del giorno, tutti dello stesso tenore contrapposto, di cui Sisto ha chiesto l’accantonamento. Roberto Giachetti di Italia viva spiega che se venissero votati rappresenterebbero un precedente che impedirebbe di riformulare gli altri. A questo punto scoppia il caos. Giorgia Meloni, presente in aula, s’infuria, e la capogruppo del Pd Deborah Serracchiani insiste per sospendere la seduta. Arriva a Montecitorio il ministro per i Rapporti con il Parlamento D’Incà che fa la voce grossa, ma dopo venti minuti, trattando con Deborah Bergamini e la Serracchiani, ottiene il risultato di convincere Lega, Forza Italia e Italia viva ad astenersi su altre votazioni. E va così su un nuovo ordine del giorno di FdI che viene bocciato: vota sì il partito della Meloni e Costa di Azione, no di Pd, M5S e Leu, astenuti Lega, Fi, Iv. Riformulati gli ordini del giorno di Turri della Lega e di Ferraresi di M5S con l’obiettivo di superare l’impasse di altre bocciature. Ma comunque, per evitare altre grane, tutto è rinviato a domani. Responsabilità civile dei magistrati. La Cassazione rimette la questione alla Consulta di Massimiliano Di Pace Il Dubbio, 11 novembre 2021 La Corte di Cassazione ha emanato un’ordinanza per richiedere alla Corte costituzionale di decidere se, in materia di responsabilità civile dei magistrati, disciplinata dalla legge 117/ 88 (legge Vassalli), è costituzionale l’art. 2, comma 1, che prevedeva la limitazione dei danni non patrimoniali al solo caso della privazione della libertà personale, limite poi cassato dalla legge 18/2015, la quale è però rinviata anche essa all’esame di costituzionalità per la mancanza di una disciplina transitoria. Tutto è nato da un ricorso presentato nel 2008 da un magistrato della Cassazione contro la Presidenza del Consiglio per ottenere il risarcimento dei danni (patrimoniali e non) subiti per essere stato coinvolto in un procedimento penale avviato dalla Procura di Catanzaro nel 2004, nel quale si ipotizzava un suo concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso, in assenza di un qualsiasi elemento, sia pure indiziario, e con l’aggravante che l’evento era stato divulgato dalla Procura, producendo una vasta eco, dato il ruolo della persona sottoposta ad indagine. Inoltre la sua posizione era stata stralciata dopo ben 2 anni (e decisamente archiviata dopo 3 anni), pur essendosi messosi a disposizione delle autorità inquirenti fin dall’inizio. Il ricorso presentato dal magistrato indagato ingiustamente al Tribunale di Salerno diede luogo ad una liquidazione di 12.000 euro di danni patrimoniali, ma nulla per quelli non patrimoniali, non essendo stato il ricorrente privato della libertà personale. A quel punto l’esponente della Cassazione ha proposto appello per la richiesta dei danni non patrimoniali, che viene però rigettata dalla Corte d’Appello di Salerno nel 2018, che riteneva che la novità introdotta dalla legge 18/ 2015, che ampliava i danni non patrimoniali a fatti ulteriori rispetto all’incarcerazione, non poteva essere considerata una interpretazione delle norme, e quindi essere applicata retroattivamente, trattandosi invece di una loro modifica. Inoltre si escludeva che la norma in questione (art. 2 della legge 117/ 88) fosse incostituzionale, costituendo quella disposizione un compromesso tra interessi diversi, tutti ugualmente tutelati dalla Costituzione. A questo punto il magistrato di Cassazione si rivolge nel 2019 alla Suprema Corte (ma non a sé stesso), contestando che la legge 18/ 2015 non aveva natura innovativa, ma una finalità di adeguamento del sistema della responsabilità civile dei magistrati con il diritto comunitario, tra l’altro proprio per le misure riparatorie, che non erano in linea con il diritto dell’Ue, e per questo motivo tale adeguamento doveva avere valore retroattivo. Inoltre il ricorrente insisteva sul palese contrasto dell’art. 2 della legge 117/ 88 (che impediva di risarcire i danni non patrimoniali, oltre il caso della privazione della libertà personale) con i parametri costituzionali di eguaglianza e ragionevolezza. Si è arrivati così alla valutazione del caso da parte della Cassazione a luglio 2021 (17 anni dopo gli eventi che hanno determinato i ricorsi), la quale, dopo aver riconosciuto la necessità del rinvio alla Corte costituzionale, ha espresso alcune considerazioni, che contrastano quelle del collega ricorrente: 1) i fatti che hanno determinato i danni hanno avuto luogo in un periodo (2004- 2007) in cui vigeva una norma diversa da quella attuale, ed inoltre la vicenda è esaurita, per cui non si può applicare la retroattività, che tra l’altro deve essere espressamente prevista dalle norme; 2) la normativa comunitaria non prevede un diritto al risarcimento di qualsiasi danno derivante dall’attività giurisdizionale, ma soltanto di quello cagionato nell’interpretazione delle norme comunitarie. Morti sul lavoro, ecco il ddl di M5S e centrosinistra che istituisce la Procura nazionale di Marco Patucchi La Repubblica, 11 novembre 2021 Firmato da senatori pentastellati, di Pd e Leu, punta a integrare il decreto governativo che ha rafforzato l’Ispettorato nazionale e le sanzioni. Romano: “Non sono norme anti-impresa. Le aziende virtuose non saranno danneggiate dalla concorrenza sleale di quelle fuori regola”. L’iter procede a Palazzo Madama. Faticosa e titubante su altri fronti, l’alleanza tra Movimento Cinque Stelle e centrosinistra procede spedita su un tema di profondo valore sociale: la sicurezza nelle fabbriche e nelle aziende, dove morti e incidenti sono emergenza endemica del Paese. “Una tragedia nazionale”, l’ha definita la ministra della Giustizia, Marta Cartabia. E lo fa concretamente con un disegno di legge che istituisce la Procura nazionale del lavoro, ovvero la distribuzione dei magistrati in pool specialistici, come si è proceduto in Italia (con ottimi risultati) nel contrasto alle mafie, o come altre esperienze analoghe in Germania e Francia. L’articolato ha iniziato il suo iter nella Commissione lavoro del Senato, che ha già svolto audizioni e a breve sentirà anche i ministri del Lavoro e della Salute, Andrea Orlando e Roberto Speranza. A firmarlo l’intero gruppo M5S, con in testa Iunio Valerio Romano, insieme a molti esponenti Pd e di Leu, tra i quali i dem Tommaso Nannicini, Valeria Fedeli e Gianclaudio Bressa che, tra l’altro, presiede la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni del lavoro. Si tratta di un tassello che completerebbe l’azione già avviata con il decreto governativo, varato nelle scorse settimane, per il rafforzamento del ruolo dell’Ispettorato nazionale del lavoro e per l’inasprimento delle sanzioni alle imprese che non rispettano le norme sulla sicurezza. “Ma ci tengo a sottolineare la proposta non è animata da alcun spirito anti-industriale - spiega Romano - anzi, sono proprio le imprese virtuose a guadagnarci, perché viene meno la concorrenza sleale delle aziende fuori norma. Abbiamo scritto un ddl con la consapevolezza che non si esce dall’emergenza solo con le sanzioni, ma completando un quadro di intervento culturale che guardi anche alla prevenzione e alla conoscenza dei fenomeni. Anche perché la legislazione in materia è adeguata, semmai a pesare è la mancata applicazione e la carenza dei controlli affidati a organi di vigilanza e magistratura”. “Una Procura nazionale esperta e specializzata nel fare fronte - si legge nella relazione del ddl - alle ipotesi caratterizzate da maggiore complessità, ipotesi di reato di cui alcuni uffici non sono in grado di occuparsi, non per cattiva volontà, ma per difetto di competenza specifica”. Fondamentali, in questo senso, evidenzia il provvedimento, “metodologie di indagine innovative e penetranti che facciano chiarezza sui centri decisionali dove si definiscono le politiche anche sulla sicurezza, non fermandosi all’accertamento di responsabilità dei livelli più bassi della gerarchia aziendale”. Da qui l’applicazione, finora poco praticata, del sistema di responsabilità amministrativa delle società. Altro obiettivo della Procura nazionale è l’efficienza dei rapporti con l’Inail e “la semplificazione di quelli con le autorità giudiziarie degli altri Paesi, necessari nei casi di infortuni che si verifichino in stabilimenti posti alle dipendenze di società multinazionali con sede all’estero”. Il ddl prevede la creazione, presso il tribunale del capoluogo, di una direzione distrettuale del lavoro con la designazione di magistrati che dovranno farne parte per almeno due anni. Nell’ambito della procura generale presso la Corte di cassazione, inoltre, è istituita la Direzione nazionale del lavoro: il procuratore nazionale del lavoro ha un mandato di quattro anni, rinnovabile una sola volta, e “esercita funzioni di impulso e di coordinamento nei confronti dei procuratori distrettuali al fine di rendere effettivo il coordinamento delle attività di indagine, di garantire la funzionalità dell’impiego della polizia giudiziaria nelle sue diverse articolazioni e di assicurare la completezza e la tempestività delle investigazioni”. È contemplata anche la possibilità di avocare le indagini preliminari. La vigilanza sulla Procura nazionale (che avrà a disposizione addetti con funzioni di sostituti), è esercitata dal procuratore generale presso la Corte di cassazione che illustrerà l’attività svolta e i risultati del procuratore nazionale del lavoro nella relazione generale sull’amministrazione della giustizia. Il ddl, infine, prevede un aumento di 100 unità dell’organico della magistratura e di 300 unità per l’Ispettorato nazionale del lavoro. Lo Stato può far lavorare gratis i professionisti, ma ai privati impone l’equo compenso di Giulia Merlo Il Domani, 11 novembre 2021 Il Consiglio di Stato ha annullato il bando che prevedeva prestazioni gratuite, ma ha scritto che “la prestazione lavorativa a titolo gratuito è lecita” perché il ritorno può essere un “vantaggio indiretto”. Mentre alla Camera si è approvata la legge sull’equo compenso per i professionisti. Il Consiglio di Stato ha annullato l’avviso pubblico del Ministero dell’Economia, che prevedeva di assegnare prestazioni professionali a professionisti del settore legale. Prestazioni che, però, dovevano essere svolte a titolo gratuito. L’avviso, pubblicato nel febbraio 2019, era rivolto a professionisti con “consolidata e qualificata esperienza accademica e professionale documentabile di almeno 5 anni”, anche in ambito europeo o internazionale, negli ambiti tematici del diritto societario, bancario, pubblico dell’economia o dei mercati finanziari o dei principi contabili e bilanci societari. L’incarico, di durata biennale e non rinnovabile, era a titolo gratuito, con l’esclusione di ogni onere a carico dell’amministrazione. Inoltre, per recedere dal rapporto serviva l’avviso di 30 giorni e il completamento di eventuali progetti in corso. L’avviso è stato impugnato al Tar dai consigli degli ordini di Roma e Napoli ma i giudici amministrativi lo avevano rigettato, ritenendo la richiesta di lavoro gratuito per la pubblica amministrazione pienamente legittima. Ora il Consiglio di Stato ribalta la decisione, ma solo in parte. L’annullamento - Secondo i giudici di Palazzo Spada, infatti, l’avviso pubblico va annullato non perché violi i principi dell’equo compenso per i professionisti, la cui norma è stata approvata nel 2017, ma per violazione delle regole sull’imparzialità dell’azione amministrativa, “sia sotto l’aspetto della formazione dell’elenco da cui attingere per i futuri affidamenti di incarichi, sia in relazione ai criteri da applicare di volta in volta per attribuire specificamente gli incarichi ai professionisti”. Secondo il Consiglio di Stato, infatti, l’avviso pubblico aveva criteri troppo generici e per questo è da considerarsi illegittimo perché la pubblica amministrazione deve utilizzare “canoni e regole di assoluta imparzialità nella selezione e nella scelta dei professionisti, di modo che in questo “nuovo mercato” delle libere professioni nessuno abbia ad avvantaggiarsi a discapito di altri”. In pratica, avrebbero dovuto essere specificati meglio i criteri per scegliere i professionisti candidati, per evitare corsie preferenziali. Nessun dubbio, invece, sulla legittimità di chiedere ai professionisti di lavorare gratis: “Nel quadro costituzionale ed eurounitario vigente la prestazione lavorativa a titolo gratuito è lecita e possibile e che il “ritorno” per chi la presta può consistere anche in un vantaggio indiretto (arricchimento curriculare, fama, prestigio, pubblicità)”. Tradotto: lavorare gratis per la pubblica amministrazione conviene, perché si ottiene un vantaggio indiretto come voci di curriculum interessanti e pubblicità. E forse anche entrature presso gli uffici pubblici. La domanda che segue è chi sia il libero professionista che può permettersi di lavorare senza incassare per due anni, senza ottenere vantaggi economici nemmeno in via indiretta. L’equo compenso - Il paradosso è che alla Camera è stata approvata una proposta di legge che integra le norme già vigenti in materia di equo compenso per i professionisti. In particolare, impone che i professionisti abbiano diritto ad essere retribuiti in modo equo anche nell’ambito dei rapporti contrattuali con la Pa e i cosiddetti “committenti forti”, come sono per esempio le imprese bancarie, le compagnie assicurative e le aziende di grandi dimensioni. Questa legge ha l’obiettivo di evitare l’effetto dei grandi committenti che ottengono prezzi sotto soglia di mercato per prestazioni professionali da parte di studi che poi sperano di avvantaggiarsi di altre offerte di lavoro. Con questa pratica, però, a venire penalizzati sono i piccoli studi professionali e i singoli professionisti che non sono in grado di competere e di offrire prestazioni a prezzo altrettanto basso. Secondo i giudici amministrativi, però, il caso del lavoro gratuito non va considerato lesivo dell’equo compenso. Questo per un ragionamento peculiare: l’equo compenso si applica solo per contratti a titolo oneroso. Quando il contratto presuppone un pagamento, questo pagamento deve rispettare uno standard come previsto dalla legge. Ma in questo caso il contratto è a titolo gratuito e l’equo compenso non può essere reclamato, visto che compenso non c’è. “La normativa sull’equo compenso sta a significare soltanto che, laddove il compenso sia previsto, lo stesso debba necessariamente essere equo, mentre non può ricavarsi dalla disposizione l’ulteriore che lo stesso debba essere sempre previsto”, scrive il Consiglio di Stato. La fine di Adelina: “Tradita dallo Stato, un’amazzone senza scudo” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 11 novembre 2021 Adelina Sejdini suicida a 47 anni. Fece arrestare i suoi sfruttatori, non ottenne mai la cittadinanza. Sola e disperata. In tasca un permesso di soggiorno con tre “x” al posto della nazionalità: Apolide. In testa più coraggio per morire che per vivere. Adelina 113 ha scavalcato il parapetto del Ponte Garibaldi e si è arresa al buio, al vuoto, alla vita. Due passanti l’hanno vista andare incontro alla morte ma erano troppo lontani per provare a salvarla. Pioveva a dirotto, sugli ultimi battiti del suo cuore, e le lacrime - se ha pianto - si sono perdute nella pioggia. L’hanno avvicinata per primi gli agenti di una pattuglia della polizia ferroviaria. Era morta sul colpo, sotto il diluvio romano della notte fra sabato e domenica scorsi. La vita è stata feroce fino all’ultimo istante, con quella donna. Ma, per essere sinceri, con lei è stato feroce anche lo Stato italiano, che avrebbe potuto e dovuto aiutarla in segno di gratitudine per quello che aveva fatto. E che invece l’ha abbandonata dopo averne fatto un simbolo. “Una combattente” - Myrta Merlino, giornalista, scrittrice e autrice televisiva, dice che Adelina 113 “era una combattente, un’amazzone senza scudo”. La conosceva da anni, l’ha ospita più volte nella sua trasmissione L’aria che tira (La7), e fatica a trattenere il pianto quando ne parla, perché è stata l’ultima persona alla quale lei ha chiesto aiuto in diretta, tre giorni prima di togliersi la vita, “e io non ho saputo cogliere il suo ultimo sguardo”, si rimprovera Myrta. “Con lei ho perso io, ha perso lo Stato nel quale lei credeva molto, a volte così cieco e ingiusto. Ha perso il sistema con la sua burocrazia a senso unico. E ha perso la tivù, che al di là del racconto è impotente. Ho pianto di rabbia e spero che lei ci abbia perdonato tutti”. Chiedere aiuto, per Adelina 113, voleva dire una sola cosa: avere la cittadinanza italiana. Era il suo unico sogno. In gommone - Classe 1974, era nata a Durazzo, in Albania. A 22 anni si era fatta ingannare dall’illusione di un futuro luminoso in Italia. Lei, come migliaia di altri “incoraggiati dalla bellezza vista per televisione”, arrivò in gommone in questo Paese che “sembrava un sogno steso per lungo ad asciugare”, per dirla con la poetica Pane e coraggio di Ivano Fossati. Gli uomini delle false promesse ne fecero una prostituta e una schiava a forza di botte. “Mi tagliarono una gamba con le forbici e nelle ferite ci misero il sale per farmi più male”, raccontò fra le mille altre cose quando finalmente ne uscì, dopo quattro anni. Aveva giurato a se stessa che non sarebbe morta schiava e così una notte, a Varese, decise che nessuno avrebbe più abusato di lei. Chiamò il 113 e si affidò allo Stato. Da allora per i carabinieri e la polizia, che l’hanno sempre aiutata, è diventata “Adelina 113”, una specie di nome in codice che si è portata appresso anche durante le indagini e i processi nati dalla sua collaborazione con la Giustizia (il suo vero nome era Alma Sejdini). La testimonianza - Con la sua testimonianza fece arrestare 40 albanesi che decidevano la vita e la morte delle donne finite nei loro artigli (sfruttatori poi condannati con pene fino a 20 anni di carcere). Ha sempre collaborato con Procure e forze dell’ordine senza esitazioni né paura, è stata un esempio per decine e decine di donne che grazie a lei si sono ribellate al racket della prostituzione, ha portato più volte la sua voce in Senato, anche alla commissione Affari Costituzionali, come esperta della drammatica situazione delle prostitute. Ha parlato nelle scuole, ha speso il suo tempo e la sua energia ovunque abbiano avuto bisogno di lei. Una cittadina modello senza cittadinanza. Un paradosso. Era stata proprio Myrta Merlino, nel 2019, a sottoporre il caso all’allora ministro degli Interni Matteo Salvini. E lui se ne era interessato fino a farle ottenere un permesso di soggiorno speciale, in attesa delle pratiche burocratiche per la cittadinanza. Ma poi, fra il cambio di governo e la lunghezza di ogni singolo passaggio burocratico, è finita che Adelina 113 si è ritrovata di nuovo in balia della scadenza del permesso. Solo che stavolta aveva un motivo in più per sentirsi sola e disperata: un tumore molto aggressivo che l’aveva costretta a cicli devastanti di chemioterapia e a una debilitazione continua. Eppure, se era rimasta ancora in piedi davanti a una sorte così buia, era stato soltanto per coltivare quel sogno: cancellare dalla sua vita l’infamia di quelle tre “x”. “Io non sono un fantasma senza Stato”, ripeteva sempre. “Amava l’Italia e si sentiva profondamente italiana”, la ricorda Myrta. “In Albania non ci voglio tornare nemmeno da morta”, le aveva detto lei l’ultima volta che si erano parlate. E così sarà. Resterà qui per sempre, nessuna “x” la riporterà indietro. Aveva paura di tornare in Albania, si è uccisa. La disperazione di Adelina Sejdini di Manuela Marziani La Nazione, 11 novembre 2021 Dopo aver fatto arrestare 40 persone chiedeva la cittadinanza italiana, mai arrivata: “Là, mi ammazzano”. Rincorreva un sogno: ottenere la cittadinanza italiana, ma quello Stato che tanto amava le ha voltato le spalle e lei non ha retto. Adelina, all’anagrafe Alma Sejdini, sabato sera mentre si trovava a Roma per chiedere quelli che riteneva i suoi diritti, ha scavalcato il parapetto di ponte Garibaldi e si è lanciata nel vuoto. Quella voce “albanese” al posto di apolide scritta sul permesso di soggiorno che la questura di Pavia dove risiedeva, le aveva rilasciato da poco proprio non riusciva a sopportarla. “La mia cittadinanza è xxx - diceva la donna -, non sono albanese. Se torno in Albania quelli mi ammazzano”. Grazie alla sua coraggiosa collaborazione con la polizia, infatti, la donna era riuscita a sgominare e a fare arrestare una banda di sfruttatori di oltre 40 albanesi che rapivano le ragazze per farle prostituire. Arrivata da Durazzo a bordo di un gommone, Adelina era finita nelle mani dei suoi aguzzini dai quali era riuscita a liberarsi. Ma viveva sotto falso nome perché la mafia l’aveva condannata a morte. A Pavia, dove si era stabilita per farsi curare un tumore al seno molto aggressivo, con l’aiuto dell’Associazione invalidi civili era riuscita a ottenere il 100 per cento di invalidità e l’indennità, la cittadinanza però no. L’aveva chiesta a due presidenti della Repubblica, Giorgio Napolitano prima e Sergio Mattarella poi senza successo. “Chiedo di diventare italiana prima di morire” ripeteva spesso. E al Capo dello Stato avrebbe voluto chiederlo anche il 5 settembre, quando venne a Pavia per l’inaugurazione dell’anno accademico, però non le fu possibile incontrarlo. E, invece, di diventare italiana almeno da un punto di vista burocratico era tornata ad essere albanese grazie a un permesso di soggiorno rilasciato più per affetto da parte della questura che per meriti speciali. Per quel motivo la 47enne aveva deciso di andare a Roma a chiedere direttamente ai funzionari del Viminale di intervenire per correggere il documento che rischiava di non consentirle di ottenere un alloggio popolare come aveva chiesto e quei pochi benefici che aveva e con i quali si manteneva non potendo avere un lavoro. Per attirare l’attenzione la donna si è persino data fuoco sul piazzale ed è stata ricoverata all’ospedale Santo Spirito per farsi curare le gravi ustioni. Dimessa, Adelina si è presentata davanti al Quirinale nel tentativo di chiedere aiuto al presidente Mattarella. Ma la polizia ha prelevato la donna consegnandole il foglio di via e il divieto di fare ritorno sul territorio comunale di Roma per un anno. “Io che sono la legalità in persona vengo trattata come un criminale - aveva detto venerdì sera -. Devo andarmene entro domani”. Disperata e sola, sabato sotto la pioggia ha scavalcato il parapetto di ponte Garibaldi e si è buttata su una banchina di cemento. Inutili i tentativi di trattenerla fatti da alcuni passanti e da una pattuglia della polfer di Roma Termini. Adelina è morta sul colpo e non lo ha fatto da cittadina italiana. Modena. Rivolta al carcere di Sant’Anna: indagati 70 detenuti di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 11 novembre 2021 Tre sono accusati di evasione e 67 di devastazioni, saccheggio e incendio. La Procura vuole indagare per altri sei mesi. Sono settanta gli indagati che a vario titolo la Procura ritiene possibili responsabili della rivolta, delle devastazioni e dell’incendio al carcere di Sant’Anna nella tragica giornata dell’8 marzo 2020, terminata con nove detenuti morti ufficialmente per overdose di metadone saccheggiato. Il numero è quello dei detenuti indicati nell’elenco della richiesta che le due pm titolari dell’indagine - Lucia De Santis e Francesca Giordano - hanno presentato al gip per una richiesta di proroga. Le sostitute procuratrici chiedono infatti altri sei mesi di tempo per proseguire l’indagine del filone iniziale dell’inchiesta: la dinamica e le responsabilità della rivolta vera e propria, scoppiata nella tarda mattinata. Non si sa altro dello stato dell’indagine. La richiesta al Tribunale è infatti motivata nell’atto solo dalla generica “complessità delle indagini”. Non si fa cenno di video o immagini ritrovate, come qualcuno aveva detto nelle scorse settimane. I settanta indagati sono suddivisi in due gruppi a seconda dei capi d’accusa. Tre sono quelli sospettati di aver tentato l’evasione. E a loro questo reato viene contestato insieme con la resistenza a pubblico ufficiale. Agli altri sessantasette detenuti (o ex detenuti) viene invece contestata una coppia di reati pesanti: devastazione e saccheggio (che comporta pene fino a 15 anni) e l’incendio. Ovviamente, l’indagine è complessa proprio per la difficoltà di individuazione delle singole responsabilità penali. Questo perché le telecamere erano fuori uso, come detto anche nella relazione del Dap presentata il 24 marzo 2020 all’allora ministro Alfonso Buonafede. Resta da capire se tutte o solo alcune telecamere di sorveglianza interna erano fuori uso, perché fossero rotte o scollegate e se esistono altre immagini della rivolta. Le prime e uniche fotografie note sono successive: risalgono al pomeriggio e venero fatte per la polizia giudiziaria (alcune venero divulgate per far conoscere gli effetti delle devastazioni all’ufficio matricole e nell’infermeria saccheggiata). L’inchiesta della Procura si basa non solo sulla relazione della direttrice Maria Martone inviata il 20 maggio al Provveditorato regionale e poi confluita nella relazione generale del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) sulla tragica giornata di rivolte carcerarie in tutta Italia. Determinante in questi mesi è stata la ricostruzione delle due pm attraverso gli atti della polizia penitenziaria e l’ascolto di detenuti e agenti che hanno riferito dalla loro angolatura cosa è successo. La miccia che ha fatto esplodere la rivolta è stata l’angosciante notizia diffusa nel primo pomeriggio dell’8 marzo che un detenuto in isolamento era davvero malato di Covid, sospetto fino allora negato dalle autorità. Le distruzioni e l’incendio sono proseguiti per ore fino alla repressione totale. Poi la scoperta dei morti e ora le denunce di detenuti di pestaggi e violenze subite dopo essere stati denudati. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Pestaggi in cella, la Cassazione conferma le accuse di Raffaele Sardo La Repubblica, 11 novembre 2021 Respinti i ricorsi degli agenti della Penitenziaria indagati. Hanno retto anche davanti alla Corte di Cassazione le accuse a carico degli agenti della Polizia Penitenziaria coinvolti nell’indagine sulle violenze ai danni di detenuti avvenute il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Per gli agenti le accuse sono a vario titolo di tortura, lesioni, reati di falso. Al vaglio della suprema Corte ieri le posizioni di alcuni agenti ancora sottoposti a misure di restrizione della libertà personale, come gli arresti domiciliari, ma la Cassazione ha dichiarato inammissibili tre ricorsi rigettando gli altri nel merito. Resteranno dunque ai domiciliari Gaetano Manganelli, che il sei aprile 2020 era il comandante delle guardie penitenziarie del carcere di Santa Maria Capua Vetere (poi trasferito), l’agente Angelo Iadicicco e il Sovrintendente della Penitenziaria Salvatore Mezzarano, che appena qualche giorno fa è passato dal carcere ai domiciliari e ora vi resterà; i tre indagati sono difesi da Giuseppe Stellato. Arresti in casa confermati anche per gli altri agenti Raffaele Piccolo di 57 anni, Rosario Merola e Oreste Salerno (assistiti da Angelo Raucci), Raffaele Piccolo di 48 anni (difeso da Mariano Omarto) e Fabio Ascione (assistito da Michele Spina). Gli avvocati difensori hanno puntato sulla mancanza di esigenze cautelari, visto che la Procura di Santa Maria Capua Vetere ha notificato agli indagati l’avviso di chiusura indagini il 9 settembre scorso, per cui, a detta dei legali, non sussisterebbe più l’esigenza cautelare del pericolo di reiterazione del reato. Firenze. “Il carcere riguarda tutti, Cartabia venga a vedere la vergogna di Sollicciano” di Viviana Lanza Il Riformista, 11 novembre 2021 Parla il sindaco di Firenze Dario Nardella: “I soldi che lo Stato spende per i detenuti non mirano alla rieducazione, il sistema va riformato”. Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, lo ripete da anni: “Sollicciano è un carcere fuori dalla legalità”. Ora anche il sindaco di Firenze Dario Nardella chiede alla ministra Cartabia di venirlo a visitare, perché ormai la situazione è insostenibile. Sindaco ci vuole spiegare bene le ragioni di questo appello? Sono anni che pongo il tema dello stato delle carceri italiane all’attenzione del dibattito pubblico e politico. La situazione ha raggiunto ormai un livello non più sopportabile, dal punto di vista sociale, giuridico ed economico. Un recente studio della Bocconi ha messo in evidenza come ogni detenuto costa alla comunità 154 euro al giorno, di cui solo sei per il mantenimento del detenuto, appena 35 centesimi per la sua rieducazione, prevista dalla Costituzione italiana. I soldi degli italiani che lo Stato spende non mirano all’attuazione di uno principio costituzionale. Non rieducare significa incrementare la recidiva che in Italia, come sottolinea lo stesso studio, è del 68%, dato che scende al 19% quando si applicano misure alternative come la semilibertà e le forme di inserimento lavorativo. Recidiva poi significa utilizzo di soldi pubblici per contrastarla. Questo è un tema che riguarda i cittadini: se gli italiani fossero più informati e coinvolti, forse ci sarebbe più attenzione da parte della stampa e del Parlamento sul problema carcerario. Poi c’è l’altro aspetto, quello umano, che riguarda la vita dell’intera comunità penitenziaria. È sconvolgente il dato delle morti: oggi si muore di carcere. Nel 2018 ci sono stati 67 suicidi, nel 2019 53, nel 2020 62, nel 2021 48 suicidi tra i detenuti. Ma muoiono anche le persone che lavorano in carcere: dal 1998 143 agenti penitenziari si sono tolti la vita. Occorre una riforma del sistema carcerario, a partire dalle strutture. Il carcere di Sollicciano è una vergogna dell’architettura carceraria del nostro Paese, per tutto il rispetto per chi l’ha disegnata. Quella struttura non è pensata per aiutare il detenuto in un’ottica di rieducazione e di reinserimento. Dobbiamo ripensare tutto il modello e partire dall’obiettivo della rieducazione. Il carcere non è un problema marginale rispetto alle nostre città e vite di comunità. È un anello fondamentale di tutta la filiera della legalità, della sicurezza e della convivenza sociale e civile. Per tutto questo ho chiesto nuovamente alla ministra Cartabia di venire a visitare il carcere di Sollicciano, sarebbe un grande gesto di attenzione e di vicinanza a tutto il mondo del carcere. Sollicciano non è tra gli istituti che potranno beneficiare dei fondi del PNRR. Quali sono allora le strade che si possono percorrere a livello locale e nazionale per migliorare la situazione? Mi dispiace molto che il Pnrr non possa essere impiegato per Sollicciano. Però il Pnrr permette anche di liberare risorse su altri capitoli. Certamente si possono trovare fondi aggiuntivi. Contemporaneamente all’aumento dei fondi pubblici occorre mettere in campo un modello nuovo, che preveda anche una progressiva ricostruzione di queste strutture. Devono essere pensate per vivere dentro il contesto sociale, per aumentare le possibilità di inserimento lavorativo dei detenuti, per offrire loro strumenti di educazione e formazione, con spazi più adeguati per chi vive e lavora all’interno. Come dice Lei le carceri non assicurano il rispetto della dignità dei detenuti. Abbiamo raccontato su questo giornale di un padiglione di Sollicciano rimasto per settimane senza acqua e corrente. Ma non è l’unico caso. Allora in attesa di grandi riforme non sente l’urgenza di interventi immediati, ad esempio facendo uscire chi ha pene o residui di pena bassi da scontare? L’obiettivo è quello di mettere i detenuti nelle condizioni di vivere il carcere in modo umano e con la possibilità di crescere come persone. Quando si arriva a provvedimenti palliativi come lo svuota-carceri, lo Stato ha già perso. Se non si cambia prospettiva ci troveremmo sempre dinanzi alle solite polemiche in Parlamento tra chi preferisce misure urgenti e il partito dei forcaioli. Il sovraffollamento è solo una delle criticità ma va risolto alla radice. Ferrara. Processo per tortura in carcere. “Il detenuto è una maschera di sangue” di Davide Bonesi La Nuova Ferrara, 11 novembre 2021 La comandante: “Il medico mi riferì di andare a vedere il detenuto: è una maschera di sangue”. In aula la testimonianza di Annalisa Gadaleta della Polizia penitenziaria. “Colopi mi denunciò di essere stato picchiato dagli agenti”. Tre poliziotti e un’infermiera accusati anche di falsi, calunnia e favoreggiamento Se non è il primo, è uno dei pochi processi in Italia per il reato di tortura, in carcere. Su un detenuto - ipotesi d’accusa - da parte di tre tra ispettori e agenti di Polizia penitenziaria e, indirettamente anche un’infermiera. Ma come emerso nell’udienza di ieri il processo dovrà valutare prima gli aggettivi usati a riguarda della perquisizione della cella 2, sezione Nuovi Giunti, che ospitava in isolamento Antonio Colopi, in carcere per omicidio, il giorno 30 settembre 2017. Perquisizione della Polizia penitenziaria al centro del processo, che la procura ritiene essere stata “arbitraria”, poiché non prevista quel giorno. Mentre in aula ieri è emerso, dalla deposizione della comandante della Polizia penitenziaria, Annalisa Gadaleta, che era comunque “anomala”, “inconsueta”, “residuale”, ma “non irregolare”. Ossia, quel giorno tra le 8 e le 8.30 di mattina, i poliziotti decisero autonomamente - lo potevano fare - di perquisire la cella di Colopi. Anche se la stessa Gadaleta ha ribadito essere “un fatto non consueto ma non irregolare”. Accendendo uno dei difensori l’avvocato Alberto Bova che assiste due poliziotti rimasti a processo, il terzo ha chiuso in abbreviato con la condanna a tre anni mentre l’infermiera deve rispondere solo di falsi e favoreggiamento. Bova ha infatti chiesto perché nel capo di imputazione viene indicata come “arbitraria” quando non lo era, di fatto. La tesi dell’accusa è che i tre, entrati nella cella di Colopi quella mattina, lo picchiarono, lo fecero denudare, lo ammanettarono e minacciarono. In modo violento e arbitrario, in modo premeditato e punitivo: Colopi era lì in isolamento da due giorni dopo uno scontro con altri agenti, ed essersi poi tagliato un braccio con un vetro. Quell’aggressione è poi diventata il reato di tortura e tanto altro: reati che vanno dalle lesioni ai falsi nelle relazioni, alla calunnia per aver accusato Colopi di resistenza a pubblico ufficiale. La comandante Gadaleta ha ripercorso quella mattina, ricordando che attorno alle 10.15, la dottoressa Sibahj, medico di turno del carcere, quella mattina dopo aver visitato Colopi le telefonò dicendole: “Comandante ha visto il detenuto? Lo veda perché è una maschera di sangue”. La visita era stata alle 9 del mattino, dopo la perquisizione avvenuta attorno alle 8.20/8.30. “Mi ero allarmata per la frase della dottoressa” ha ricordato la Gadaleta, che però sapeva già dell’aggressione violenta dall’ispettore Casullo alle 9.20, nel suo ufficio: “mi informò che c’era stata una aggressione e mi disse “noi ci siano dovuti difendere”“. Gli agenti avevano escoriazioni, occhiali rotti, trovarono in cella un coltellino rudimentale fatto con un lamierino delle bombolette del gas. “Fotografai tutto e dissi ai colleghi di farsi refertare”. Poi alle 10.15, la telefonata della dottoressa che la allarmò. Quindi alle 11, la Gadaleta con il direttore del carcere Paolo Malato, ricevettero il detenuto Colopi in ufficio che disse: “Io oggi devo denunciare, mi hanno picchiato in cella”. Dunque, i poliziotti sostengono di essere stati aggrediti durante la perquisizione cui Colopi non voleva sottostare, mentre Colopi dice il contrario. Le indagini di procura, polizia penitenziaria e carabinieri gli hanno dato ragione arrivando alle accuse in aula: ora toccherà al tribunale valutare se quella perquisizione fu un atto premeditato o no. Tribunale che ieri ha visionato le immagini di quella mattina riprese dalla telecamera del corridoio della sezione Nuovi giunti. In cui si vedono andare e venire agenti e detenuti, e nessuna immagine della cella 2, dove si trovava Colopi. Bologna. Sovraffollamento e divieti d’incontro interni: preoccupa la situazione alla Dozza di Ambra Notari redattoresociale.it, 11 novembre 2021 La denuncia del Sinappe. “Il sistema di premialità è saltato”. Nel reparto infermeria allestito un segmento detentivo che accoglie i detenuti più facinorosi o che hanno subito violenza e minaccia da altri ristretti: “Ciò che più sconcerta è l’assenza di intervento preventivo da parte dell’Istituzione carceraria” A fronte di una capienza di 492 persone, i detenuti nella casa circondariale di Bologna sono 770. “Il meccanismo della premialità, utile anche a gestire meglio le persone detenute, è saltato - denuncia la segreteria regionale del Sinappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria -. In queste condizioni è difficile che il detenuto non incorra in sanzioni disciplinari giocandosi, di fatto, anche la possibilità di godere di sconti di pena - 45 giorni per ogni semestre. È saltato anche il sistema della vita detentiva incentrato su un incastro tra premi e sanzioni: le capacità adattive dei detenuti sono ridotte al lumicino, aspetto che non consente di rendere la quotidianità detentiva più sopportabile. Logica conseguenza, anche per noi è un inferno”. Come spesso abbiamo raccontato su queste pagine, la situazione alla Dozza è in un precarissimo equilibrio: “Presso il reparto infermeria - continua il sindacato - è stata predisposta una sezione ospitante una trentina di detenuti, con ben 14 divieti d’incontro interni, circostanza che rende oggettivamente e incontrovertibilmente impossibile il compito del poliziotto penitenziario chiamato a gestire questo contenitore di rabbia, sofferenza e regimi detentivi del tutto incompatibili”. Si aggiungano poi le problematiche più incistate: mancano educatori, mancano medici di sezione, mancano anche gli ambulatori - distrutti durante le rivolte della scorsa primavera -, sono quasi all’ordine del giorno ritrovamenti di telefoni cellulari nelle sezioni dell’alta sicurezza. “L’aspetto che più ci preoccupa - evidenzia il Sinappe -, è quello della tutela della salute”. Come spiega, il D. Lgs 22 giugno del 1999 n. 230 ha introdotto alcune trasformazioni aventi a che fare con l’erogazione dei servizi sanitari negli istituti penitenziari. Nello specifico, il decreto ha sancito il principio secondo il quale “le persone detenute e internate hanno diritto, al pari dei cittadini liberi, all’erogazione di prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci e appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel piano sanitario regionale e in quelli locali”. In questo senso, il servizio sanitario dovrebbe impegnarsi ad assicurare livelli di prestazione analoghi a quelli offerti all’utenza libera. Una situazione precaria, tanto da spingere il vice segretario regionale del Sinappe Nicola D’Amore a scrivere una nota al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e Marche: “I segnali allarmanti provenienti dall’U.O. Infermeria/nuovi giunti continuano ad accumularsi. Siamo a conoscenza - si legge - che presso il reparto in questione esiste un segmento detentivo che accoglie i detenuti più facinorosi o che hanno subito violenza e minaccia da altri ristretti. L’aspetto più complesso per il personale di polizia penitenziaria è, senza dubbio, quello della gestione di un numero elevato di divieti d’incontro interni, circostanza che rende rischioso il lavoro dei poliziotti, chiamati a gestire il crescente disagio psico-fisico che vivono i detenuti. Il recente tentativo di suicidio verificatosi all’interno di questo segmento (un detenuto di origine straniera che voleva togliersi la vita perché impossibilitato a mettersi in contatto con la propria famiglia per questioni burocratiche, ndr) testimonia l’esistenza di una forma di malessere connessa alla privazione della libertà, ma anche alle pessime condizioni carcerarie. Ciò che più sconcerta è l’assenza di intervento preventivo da parte dell’Istituzione carceraria al fine di garantire condizioni di dignità, vivibilità e sicurezza a detenuti e poliziotti, dovuto anche all’emergenza sovraffollamento”. Il flop del Tribunale di Napoli nord: la prima udienza? Tra 5 anni di Viviana Lanza Il Riformista, 11 novembre 2021 Quello che arriva dal Tribunale di Napoli nord, questa volta, è più della solita denuncia delle criticità e dei disagi. È un grido disperato, anche una sorta di ultimatum. Come a dire che così non si può andare avanti. Basti pensare che le prime udienze di processi con imputati a piede libero, ad oggi, sono fissate per il 2026. Tra cinque anni! “Qui non si tratta di ridurre i tempi del processo del 25 o del 40 per cento come si discute parlando di riforma, qui si tratta proprio di iniziare un processo” tuona il presidente del Tribunale di Napoli nord, Luigi Picardi, intervenendo al convegno dell’Associazione nazionale magistrati sul futuro di questo tribunale di frontiera. Quale futuro ha un tribunale dove le carenze sono tali da spingere il presidente a far cominciare un processo penale a sei anni dalla richiesta, a sospendere le udienze preliminari per imputati a piede libero e le camere di consiglio a seguito di ricorsi contro le archiviazioni, a decidere le misure cautelari in base a un ordine cronologico ad eccezione di quelle che per carattere legislativo devono avere la precedenza, e nel settore civile a ritardare di mesi la pubblicazione delle sentenze dei giudici di pace? “Nessuno può continuare nella logica di San Sebastiano - aggiunge il presidente Picardi ricorrendo alla metafora dei martiri - Qui ci sono professionisti che fanno il loro lavoro e devono poterlo fare bene”. Il rischio, nemmeno tanto lontano, non è soltanto quello di avere ritardi nelle risposte della giustizia (e non è cosa da poco, considerato che le conseguenze negative di tutto questo sono come sempre a carico dei cittadini) ma è anche quello di avere una sede giudiziaria sempre più deserta, perché le eccessive criticità possono spingere magistrati e personale a chiedere il trasferimento e non certo a scegliere Napoli nord come sede. Creato nel 2013 per decongestionare il Palazzo di Giustizia di Napoli e creare un presidio di legalità in un territorio devastato dalla presenza criminale e della Terra dei Fuochi, Napoli nord è un concentrato di tutte le criticità che vive il sistema giustizia: piante organiche inadeguate, scoperture di personale amministrativo e di magistratura, edilizia giudiziaria da rivedere. Sì, perché i grandi problemi al Tribunale di Napoli nord non sono soltanto legati al fatto che il personale nelle cancellerie e tra i giudici non è sufficiente, ma sono anche dovuti a questioni strutturali. Le aule, per esempio, sono talmente piccole che un processo con dieci imputati, più avvocati difensori ed eventuali parti offese non si può celebrare e si è costretti ad andare a fare questi processi a Napoli, proprio nella sede che il Tribunale di Napoli nord doveva alleggerire. Un ossimoro genetico. Un controsenso, non l’unico, del nostro sistema giustizia. L’aula bunker, per esempio, c’è solo nell’indicazione della cartellonistica ma di fatto manca. “Il 20 dicembre 2013 ci fu l’affidamento dei locali e ora, otto anni dopo, siamo arrivati alla firma del contratto. Ed è stato un lavoraccio, il Ministero ci ha comunque dato una mano”. Otto anni per una firma, ma per l’avvio dei lavori tocca aspettare il visto di legittimità della Corte dei Conti. Allo studio, poi, c’è anche il progetto esecutivo per nuove aule nell’ex ufficio del giudice di pace. “Vorremmo sapere se esiste o no la volontà politica di porre rimedio a questa condizione - dice Picardi. I numeri evidenziano lo scandalo di questa realtà giudiziaria che coinvolge non solo Ministero e politica ma tutti gli operatori che avevano capacità di intervento e hanno difeso a oltranza il furto commesso ai danni dei cittadini di questo circondario. Un furto di giustizia - tuona ancora - costruito dallo Stato e perpetrato dallo Stato”. Il presidente Picardi scuote, poi, i colleghi dell’Anm: “Se si vuole continuare a consentire posizioni di privilegio nel distretto ditelo. La politica che voleva la bandiera a Napoli nord ora se n’è andata - aggiunge. Io sono stato nemico giurato di questo tribunale nato per una follia politica e gestito in maniera disastrosa, senza nessuna capacità di programmazione. Ma una volta che è nato, deve vivere. Lo dobbiamo ai cittadini di questo circondario che devono ricevere risposte dalla giustizia”. Napoli. Il caffè delle “Lazzarelle” di Pozzuoli si arricchisce con l’abbigliamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 novembre 2021 Le detenute del carcere femminile di Pozzuoli si aprono al futuro, divenendo protagoniste del progetto “Lazzarelle non si nasce, si diventa” promosso dal brand di abbigliamento femminile Silviana Heach e dalla Cooperativa Lazzarelle. Il titolo del progetto nasce dall’unione di due aziende. Una è la Cooperativa Lazzarelle, si occupa della torrefazione di caffè dal 2010 all’interno della casa Circondariale Femminile di Pozzuoli. Qui, appunto, le “Lazzarelle”, guidate da Imma Carpiniello, realizzano la torrefazione del caffè, producono dolciumi. L’altra azienda è Silvian Heach, il brend principale di Arav, Casa di moda nata a Ottaviano, in provincia di Napoli, che oggi è titolare anche del brand Jhon Richmond (uomo, donna, bambino e accessori) e Marcobologna (donna e accessori) e in licenza la linea Trussardi Kids. distribuiti in cinque negozi e numerosi corner in Italia e all’estero. Il progetto consiste nella realizzazione di un cofanetto che verrà messa in vendita sul sito ufficiale silvianheach.com, contenente, quindi, sia i prodotti firmati Lazzarelle (due miscele di caffè, una tisana e una crema spalmabile), che quelli Silvian Heach: una t- shirt, con la stampa di un logo creato ad hoc, un cuore con un abbraccio, e una bag in tessuto ecosostenibile con la stessa grafica. L’iniziativa è stata lanciata a Palazzo Caracciolo, a Napoli, in occasione della proiezione di un documentario che raccoglie frammenti di interviste e il reportage fotografico realizzato all’interno della casa circondariale di Pozzuoli. Introdotto dalla giornalista Sabrina Scampin, il video tratteggia il passato di donne in contesti sociali difficili e le prospettive di un reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. Mena Marano, ceo del brand di abbigliamento femmminile, Imma Carpiniello, founder della cooperativa Lazzarelle e Maria Luisa Palma, direttore della casa circondariale femminile di Pozzuoli, unite per la prima volta con l’obiettivo di modificare la forma mentis dell’opinione pubblica, sempre incline ad emarginare chi ha commesso reati ed errori, e promuovere un atteggiamento volto a concedere loro una seconda possibilità. Ogni anno la cooperativa Lazzarelle produce 50mila pacchetti di caffè macinato da 250 grammi. Tutto caffè d’alta qualità proveniente da piccoli produttori del sud del mondo. In questi 11 anni la cooperativa ha dato lavoro a 60 detenute, offrendo loro l’occasione di cimentarsi in un mestiere diverso dai soliti “lavori femminili” che s’imparano in carcere. Negli anni la cooperativa si è ampliata e ha compiuto il grande salto: la scorsa estate ha aperto nella Galleria Principe di Napoli il Lazzarelle bistrot. Oltre a offrire ottimo cibo, il bistrot è la vetrina dei prodotti realizzati dalle detenute: miscele di caffè di ogni tipo, anche biologico e in cialde, e poi infusi, te, creme di caffè e tazze, tazzine, shopper. Il caffè delle Lazzarelle è nato mettendo insieme due soggetti deboli: le donne detenute e i piccoli produttori di caffè del sud del mondo. Acquistano i grani di caffè dalla cooperativa Shadilly che promuove progetti di cooperazione con i piccoli produttori. Poi hanno aggiunto alla produzione di caffè artigianale quella di tè, infusi e tisane. Nella cooperativa si sono avvicendate - come si legge nel sito - sino ad oggi 56 donne, ognuna con la propria storia, diversa ed identica alle altre. Molte di loro, prima di lavorare con la cooperativa, non avevano mai avuto un regolare contratto di lavoro. Imparano un mestiere, ma soprattutto acquisiscono coscienza dei loro diritti e delle loro possibilità. Civitavecchia (Rm). “La svolta” inaugura la rassegna di teatro in carcere “Destini Incrociati” centumcellae.it, 11 novembre 2021 Si terrà a Roma, da mercoledì 17 a domenica 20 novembre, “Destini Incrociati”, rassegna nazionale di teatro in carcere, con la direzione artistica di Ivana Conte, Grazia Isoardi, Vito Minoia, Valeria Ottolenghi, Gianfranco Pedullà, Michalis Traitsis, Valentina Venturini. “Il carcere non deve essere un luogo di conferma del destino segnato, fatto di marginalità ed esclusione - dichiara Vito Minoia, presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere. Grazie alle sue peculiarità creative e artistico espressive, il linguaggio teatrale diventa uno strumento privilegiato di intervento, fuoriuscendo dagli schemi imposti e individuando forme di conoscenza in grado di far fronte a una vera e propria emergenza educativa”. Un’edizione speciale, quella di Roma, che unifica due annualità a causa dei mutamenti dovuti alla pandemia, e che si colloca nell’ambito del Progetto Nazionale di Teatro in Carcere “Destini Incrociati” con il contributo del Ministero della Cultura, Direzione Generale Spettacolo, ai sensi dell’articolo 41 D.M. 27 luglio 2017 n. 332, Promozione/Progetti di inclusione sociale ed è promossa in rete da 22 organismi aderenti al Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, avendo come soggetto capofila l’Associazione Teatro Aenigma. La rassegna “Destini Incrociati” si svolge in collaborazione con il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università degli Studi Roma Tre, con il Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità, Associazione Nazionale Critici di Teatro ed è stata organizzata in collaborazione con l’Associazione AGITA, la Compagnia AdDentro/Associazione Sangue Giusto, Fort Apache Cinema Teatro. Una rassegna che presenta spettacoli, frutto di laboratori produttivi realizzati con detenuti, una sezione dedicata alla proiezione di video, strumento indispensabile per documentare le esperienze di teatro in carcere, laboratori, sia di accompagnamento alla visione degli spettacoli, curati da Agita (associazione nazionale e agenzia formativa), sia di critica teatrale, in collaborazione con l’ANCT (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro), sezioni di studio, convegni, conferenze e presentazioni editoriali. Un progetto articolato, quindi, in grado di restituire un ampio panorama delle nuove esperienze drammaturgiche sperimentate da registi e autori professionisti che, da anni, lavorano sul campo con detenute e detenuti, spesso direttamente coinvolti anche nel processo di scrittura e allestimento. Apre la programmazione l’anteprima, mercoledì 17 novembre (ore 16.00, Casa di Reclusione di Civitavecchia) “La svolta”, studio da “Quai Ouest” di Bernard-Marie Koltès. Interpretato dagli allievi attori della compagnia AdDentro della Casa di Reclusione “G. Passerini” di Civitavecchia e riscritta collettivamente dai partecipanti al progetto Fortezza/Matrioska - Officine di Teatro Sociale 2021 - Assessorato alla Cultura Regione Lazio, La svolta, diretto da Ludovica Andò, porta in scena l’umanità ai margini che popola una zona portuale dismessa in cui l’arrivo di un uomo ricco, che ha scelto quel luogo per togliersi la vita, risveglia in tutti la speranza nella “svolta”, solleva gli sguardi dal fango dell’hangar, rompe qualsiasi patto e regola di convivenza. Il tono crudo e disilluso di Koltès si mescola a quello onirico e ottimista del racconto di Zavattini “Totò il buono” (all’origine di “Miracolo a Milano” di De Sica), grazie anche alle improvvisazioni e ai racconti personali degli attori. Il lavoro teatrale, attualmente in fase di creazione, partendo dai testi originali e traducendoli nel linguaggio degli interpreti, si concentra sulle dinamiche relazionali della comunità carceraria, la solidarietà interna e il senso di appartenenza, le regole non scritte, in una storia in cui nessuno è bianco o nero, ma tutti sono grigi, infangati dalla vita stessa e il confine tra buoni e cattivi non esiste. La società e i rischi di un Paese che ormai dice no a tutto di Walter Veltroni Corriere della Sera, 11 novembre 2021 Le regole del gioco si fanno insieme e la partita è tra avversari. In Italia, al contrario, le regole cerca di imporle la maggioranza e il governo si fa tutti insieme. Ci stiamo abituando a dire solo no, no a tutto. Il “bel paese dove il sì suona”, verso di Dante che rischiarava uno dei canti più cupi della Commedia, potrebbe ormai essere volto al suo contrario. Stiamo diventando davvero “il bel paese dove il No suona”. O almeno questa è l’impressione. No vax, no green pass, no tav, no euro, no immigrati. E i governi che da decenni si costituiscono sono fondati spesso, esclusivamente fondati, su un No. No ai comunisti, no ai post comunisti, no a Berlusconi, no al Pd, no a Salvini. E così abbiamo avuto il capolavoro di governi precari, eterogenei fino al caos, incapaci di generare riforme e modernità perché non fondati su una comune visione del futuro della società italiana, né talvolta sulla comunanza dei valori minimi di riferimento. I programmi sono stati documenti di centinaia di pagine che annacquavano le differenze in un profluvio di parole senz’anima e, come accade ancora oggi, allo stesso tavolo di governo possono sedere forze che si considerano, o dovrebbero considerarsi, alternative. Le stesse forze, per paradosso, contro le quali, solo dodici mesi prima, si era formato, con gran rumore di grancassa, un governo del tutto diverso. Così la politica, “arte regia” per Platone, finisce col sembrare una gigantesca porta girevole di albergo e si perdono le nitide, ossigenanti, differenze tra forze, culture e programmi che distinguono sinistra e destra del duemila. E il grottesco è che, in fondo, aleggi sempre una sorta di pregiudizio di legittimità democratica degli uni verso gli altri. Ma, nel momento in cui, anche in una situazione d’emergenza, si è giustamente collaborato, non può più esistere quel pregiudizio che spinge a definire i propri avversari, oggi partner di coalizione, come non legittimati a gestire la cosa pubblica. Se provassimo a fare un passo in avanti? A dismettere i pregiudizi che servono ad alimentare gli schieramenti che nascono solo contro e tentassimo di ricreare la virtuosa dimensione delle regole di una democrazia? Quella che i nostri costituenti, divisi da ideologie e riferimenti internazionali - non le bazzecole di oggi - seppero mettere in campo? Se cioè i due schieramenti le cui radici affondano, seppure in forma molto mediata, nella storia italiana, dialogassero e convergessero sulla definizione delle regole del gioco e poi divergessero, confrontandosi anche aspramente, su programmi e valori per il futuro dell’Italia e degli italiani? Le regole del gioco si fanno insieme e la partita è invece tra avversari. In Italia succede il contrario: le regole elettorali o costituzionali cerca di imporle la maggioranza effimera di turno e invece il governo si fa tutti insieme o, comunque, con schieramenti tenuti insieme con la colla derelitta “dell’evitare che vinca o governi quell’altro”. Un governo all’anno, in media. Così è stato nella Prima Repubblica, della quale è sciagurato avere nostalgia, ma così è anche in questa Repubblica uno bis. E l’Italia è stato l’unico Paese europeo a sperimentare, in vari momenti delle sue crisi più drammatiche, formule di governi tecnici presiedute da personalità rilevanti. E spesso è a questi governi, per estremo paradosso, che si possono collegare i momenti di più radicale cambiamento, le stagioni di più intenso cambiamento. È stato così con Ciampi, Monti, ora con Mario Draghi. Quando la politica perde la sua capacità di affrontare il disagio sociale con risposte minute e concrete e, al tempo stesso, rinuncia ad accendere un sogno che sia energia vitale della vita democratica, allora si fanno strada i No come risposta difensiva, rabbiosa; come paura di un futuro che non si riconosce nitidamente, del quale non si distingue il profilo. E non sono il No coraggioso dei dodici professori, solo dodici, che nel 1931 rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo. Non sono i No educativi che, come diceva Giovanni Bollea nella presentazione del libro di Asha Phillips, “aiutano a crescere”. Non sono quei no cha hanno accelerato i cambiamenti o conquistato libertà perdute. Sono No impauriti, carichi d’odio, in fondo conservatori. La loro rilevanza deve certo essere relativizzata, per non confondere lo stato d’animo di minoranze con lo “spirito del tempo”. Ma non possono essere considerati solo un problema di ordine pubblico. Sarebbe un grande errore. Anche perché si sta facendo strada il più pericoloso dei sentimenti, per una democrazia: il No al voto, di cui abbiamo avuto drammatica - e sottovalutata - prova nelle recenti elezioni amministrative, pure da sempre le più care agli italiani. Rigenerare la politica, ritrovare la bellezza dei confini programmatici e ideali, definire regole condivise, mettere fine al grande caos di questi anni, generato dalle culture populiste di ogni risma, e riprendere il cammino per una democrazia dell’alternanza, attuabile con diversi sistemi elettorali, che restituisca ai cittadini il potere di decidere chi li governa. Forse la via è più semplice e naturale di quanto sembri. Basta volerlo. Eutanasia. La morte non è un fatto privato di Emiliano Manfredonia* Il Manifesto, 11 novembre 2021 La posizione delle Acli. Non è facile per un cattolico, per di più impegnato in un’associazione di vita cristiana come le Acli, poter intervenire nel dibattito sull’eutanasia con la certezza di essere etichettato per le proprie convinzioni sul fine ultimo della vita. E questa semplificazione eccessiva è in se stessa una forma di rifiuto del dialogo che sarebbe tanto più necessario su questioni etiche di tale rilevanza. Questa preoccupazione si riflette anche negli interventi pubblici: a parlare sono i proponenti il referendum e la Chiesa, intesa come i propri organi pastorali. I credenti, i fedeli laici, mancano quasi del tutto in questo dibattito. La prima riflessione è che il dibattito manca persino tra i promotori, visto che associazioni e partiti politici (in particolare quelli che ritengono di valorizzare la cultura cattolico democratica) avrebbero potuto consultare la propria base, aprire un dibattito interno prima di prendere la decisione di promuovere il referendum, e ciò rimanda anche alla riduzione dei partiti a semplici cartelli elettorali. E in effetti, e questo è il secondo punto, molta della cultura antipolitica deriva proprio dalla convinzione che le discussioni non servano a nulla, che i parlamentari siano una manica di oziosi e che le questioni importanti vadano decise con un taglio netto. Questa è in sé stessa un’abdicazione dei partiti dal loro ruolo non solo di mediatori ma anche di educatori del corpo sociale, di ammortizzatori di spinte spesso emotive ed irrazionali che nel loro unilateralismo non colgono la complessità dei problemi. Un terzo punto, che mi interroga di più, riguarda la motivazione di fondo dei referendari: “Finalmente liberi”, questo il motto della campagna, pone l’atto della morte come atto di libertà, di autodeterminazione, sbattendo davanti all’opinione pubblica le sofferenze del malato cronico ma dimenticando che la depenalizzazione avviene anche nei casi in cui si aiuti una persona che ha semplicemente deciso di farla finita, magari perché afflitta dai debiti o per il semplice mal di vivere. Il tema è culturale ed etico perché oggi la nostra è una società “usa e getta”: consumiamo la vita come se fosse una bibita fresca da bere tutta d’un fiato e quanto è finita la si butta via. Ma proprio in questi anni abbiamo lottato insieme per la vita, contro questo maledetto virus, abbiamo capito qual è la direzione che si dovrebbe prendere nel nostro rapporto con gli altri, con la natura. E proprio ora, nel pieno di questa ripresa, nella quale rifiorisce la speranza, poniamo questo interrogativo di morte come priorità ai cittadini? Chiariamo un pensiero. La morte fa parte della vita, ci dovremo fare i conti tutti. Da cristiano non trovo le parole per convincere altri rispetto alla bellezza della vita, anche quella sofferente, non ho la grazia per sostenere che nulla muore davvero ma tutto scorre perché c’è una direzione, uno sviluppo finale per cui nulla è perduto, né una lacrima, né una lotta, né una speranza; che non c’è sofferenza nascosta, non ci sono esperienze minori. Tutto ha senso. Con questo non cerco di consolare con l’esperienza della croce, che ognuno può rifiutare. Ma vorrei che si aprisse un dibattito franco non tanto su due visioni della vita, ma nel pieno bene della persona che intende lasciare la vita. Dove può arrivare il dolore di una persona? Dove possono arrivare le cure, qual è una vita degna? Interrogativi che non devono nemmeno sfuggire ad un cristiano che fa i conti con la modernità, con la scienza e la sua applicazione, sapendo che nessuno di noi può aggiungere un’istante alla propria vita. Se la morte diventa sinonimo di libertà, se il nascere, il morire, il costituirsi in famiglia, il generare o meno figli e come farlo, sono solo questioni che vengono lasciate alla dimensione privatistica, per non dire egoistica, dell’essere umano, dimenticandone l’evidente rilevanza sociale, quel tessuto connettivo che ci tiene uniti gli uni agli altri e ci rende comunità, nel momento in cui la nostra individualità personale si apre agli altri - e che in fondo è la logica stessa che presiede alle decisioni “difficili ma necessarie”, come ha detto il Presidente Draghi a proposito dell’obbligo vaccinale - rischia di sfaldarsi. Mi sembra, in effetti, che queste concessioni sempre più sistematiche alla dimensione individualistica dei diritti civili finisca per rendere irrilevante quella che è la loro natura sociale, di fatto collocando la sinistra - intesa in senso lato - in una posizione impropria, nel momento in cui slega il diritto soggettivo dalla comunità etica e sociale a cui ogni essere umano appartiene e che costituisce non un limite ma una necessaria contestualizzazione della nostra libertà di singoli in rapporto alla libertà e al benessere altrui. Apriamo un dibattito costruttivo, interroghiamoci, lasciamo anche spazio al Parlamento di trovare la giusta sintesi, laica, ma rispettosa della pluralità. Ma soprattutto utile e seria per far sì che il dolore non sia un destino ineludibile per chi è malato cronico e neppure la morte l’unica via possibile di evasione dal dolore. *Presidente nazionale Acli Sull’eutanasia la Chiesa è lontana dai credenti di Marco Cappato e Mina Welby Il Manifesto, 11 novembre 2021 I presidenti dell’associazione Luca Coscioni rispondono alla presa di posizione delle Acli. Il motto della campagna - “Liberi fino alla fine”, non “Finalmente liberi” - non punta certo a proporre la morte come liberazione da guai passeggeri della vita, ma a stabilire il diritto della persona affetta da sofferenza insopportabile ed irreversibile di esercitare la propria libertà di scelta fino alla fine della propria vita, eventualmente anche nel farsi aiutare da un medico a porre fine alla propria esistenza. Essendo il referendum solo abrogativo abbiamo potuto soltanto proporre la cancellazione del reato che condannerebbe fino a 15 anni di carcere il medico che facesse in Italia ciò che può invece fare legalmente un medico in Spagna. Le procedure e condizioni per accedere a tale diritto saranno invece compito del Parlamento. Al nostro congresso don Ettore Cannavera ha dichiarato: “Se a fronte di atroci sofferenze la decisione migliore per qualcuno è interrompere la vita, allora io gli dico… fallo serenamente, sarai benedetto dal Padre Eterno”. Ecco sull’eutanasia è ora di aprire un dibattito anche teologico all’interno della Chiesa cattolica, intesa non semplicemente come gerarchie vaticane ma come comunità dei credenti. Quel 52 per cento di praticanti assidui della messa che a nordest sono a favore della possibilità di un medico di terminare la vita del paziente su sua richiesta (fonte Ipsos, Il Gazzettino) indicano l’esistenza di quello che il grande filosofo e esponente dell’esistenzialismo cristiano Pietro Prini definiva “scisma sommerso”. Ringrazio don Ettore Cannavera perché aiuta ad aprire finalmente quel dibattito all’interno della chiesa cattolica, a far emergere quello scisma. Non credo che nella storia della Repubblica alcun referendum sia stato mai a tal punto preparato e dibattuto quanto questo. Il soggetto promotore del referendum - l’Associazione Luca Coscioni - ha tenuto due riunioni pubbliche del proprio consiglio generale e ha consultato alcuni dei principali giuristi italiani per elaborare il testo del quesito referendario. Ma soprattutto la decisione di procedere alla raccolta firme è il risultato di un processo lungo quindici anni passato per una legge di iniziativa popolare depositata 8 anni fa e sottoscritta da oltre 140.000 cittadini. Iniziò 15 anni fa quando il Presidente Napolitano risposte a Welby che “l’unico atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio” sul tema. Il contributo di Mina Welby - E invece, come oggi la politica delegittima un organo come la Corte Costituzionale, allora si fece sorda anche ai richiami del Presidente della Repubblica. Ho sentito morire me stessa accanto a quell’eroe di mio marito, Piergiorgio Welby. Era il 20 dicembre 2006. Le tracce della sua sofferenza le trovo nei suoi scritti, nei suoi disegni. Lui mai un lamento, né con me, né con chi lo venne a trovare. All’accanimento terapeutico e a una sopravvivenza costrittiva da una macchina senza cuore seguivano, ancor peggio, le umiliazioni dettate dagli attestati di compassione percepibili come olio sulle ustioni. Anch’io sono una cattolica praticante, anch’io prima che mio marito si ammalasse forse non avrei parlato volentieri di eutanasia. Credo in Dio, la vita è il dono più grande che possiamo ricevere. Ma ho iniziato a distinguere l’amore dall’egoismo. A conoscere la parola libertà. Una cosa che ha ferito profondamente la mamma di Piergiorgio fu la non concessione dei funerali in chiesa. La sua morte non era eutanasia e anche il catechismo (secondo l’articolo 2278 di quel testo) avvalorava la sua richiesta di non soffrire più. Punito nel momento della morte, mentre si assolvono anche i peggiori criminali. Proprio lui, disconosciuto da chi parla di amore perché voleva semplicemente smettere di subire le torture atroci che gli ha riservato la vita e una legge per tutti gli italiani. Tutti amiamo la vita fin dove è vivibile. Vorrei capire da dove vengono quegli ipocriti anatemi sull’eliminare le persone incapaci, anziane. Discorsi vuoti che non prendono in considerazione il dramma e il vissuto del prossimo, fanno propaganda in maniera vile ed egoista. Non considerano il numero dei suicidi e delle eutanasie clandestine. Dove sono quelli che parlano di cultura dello scarto, di persone usa e getta quando un malato soffre? Di sicuro non accanto a loro, ma nelle proprie belle case o su uno yacht. Così come non c’è lo Stato, il primo ad abbandonare queste persone e le loro famiglie, non mettendole in condizioni di beneficiare dei sussidi necessari, e di una vita affrontabile con dignità. Chiediamo solo che a queste persone non venga tolta, oltre alla dignità, anche il diritto umano alla libertà. Ai banchetti oppure online: nei referendum vince il merito di Andrea Pugiotto Il Riformista, 11 novembre 2021 Il 31 ottobre è scaduto il termine per depositare in Cassazione le richieste referendarie. La chiusura della campagna di raccolta firme offre, già ora, dati a consuntivo di sicuro interesse. Allineamoli. Sono state promosse 5 iniziative referendarie: in tema di giustizia (6 quesiti), eutanasia legale (1), depenalizzazione della cannabis (1), abolizione della caccia (1) e del green pass (4). Un altro quesito, abrogativo del reddito di cittadinanza, benché annunciato urbi et orbi non è mai stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Sono tutti referendum d’iniziativa popolare cui si è affiancata, per i soli quesiti sulla giustizia, identica richiesta di 9 Consigli regionali. Tutte le iniziative hanno beneficiato di importanti novità procedurali: allargamento della platea di autenticatori (ora inclusiva anche di avvocati, consiglieri regionali, parlamentari); proroga del termine per la raccolta e il deposito di firme e certificati elettorali (differito di un mese); possibilità (a far data dal 1° luglio) di sottoscrivere digitalmente i quesiti. Il numero approssimato di sottoscrizioni raccolte, dichiarato dai comitati promotori, varia per ogni iniziativa. Giustizia: 4.275.000 firme totali (di cui 18.000 digitali), tra le 700.000 e le 750.000 a seconda del quesito. Eutanasia: 1.222.000 (di cui 388.000 digitali). Cannabis: 630.000 (di cui 606.880 digitali). Caccia: 520.000 (di cui 73.800 digitali). Green pass: ignote le cifre ufficiali evidentemente insufficienti per il deposito in Cassazione, non avvenuto. Così come non c’è stato per le firme dei quesiti sulla giustizia, a sostegno dei quali sono state formalizzate le sole delibere regionali. Sulla regolarità delle richieste depositate deciderà l’Ufficio Centrale di Cassazione; a seguire, sarà la Corte costituzionale a pronunciarsi sull’ammissibilità dei singoli quesiti. Anche i termini per tali operazioni di controllo sono stati differiti di un mese: al 30 novembre (Ufficio centrale), al 10 febbraio (camera di consiglio della Consulta), al 10 marzo (pubblicazione delle sue sentenze). Che cosa racconta questa messe di dati? Ridimensiona, innanzitutto, l’urlato pericolo per il sopravvento di un’arrembante click-crazia, sicaria della democrazia rappresentativa. Abaco alla mano, la possibilità di raccolta online delle firme si è rivelata indispensabile solo per 2 quesiti (cannabis, caccia), non è stata determinante per 7 quesiti (giustizia, eutanasia), non ha evitato il fallimento di 4 quesiti (green pass), né è servita a far decollare un referendum annunciato (reddito di cittadinanza). Dunque, non basta la tecnologia per assicurare consenso referendario. Può rivelarsi necessaria ma non è sufficiente: a fare la differenza, più che il vettore, è il merito del quesito, promosso da un comitato riconoscibile, credibile, capace di fare rete tra persone e associazioni. Nessuna deriva tecno-populista è automaticamente trainata dalle firme digitali. Neppure se al servizio di referendum su un tema mediaticamente dopato, qual è il ribellismo contro il green pass e “qualsiasi altro strumento di coercizione e di controllo sociale” governativo (sic, nel sito del comitato promotore). Nessuna torsione referendaria in chiave antiparlamentare. L’antiparlamentarismo è l’anticamera di ogni fascismo. Il referendum, invece, avvia con le Camere una competizione potenzialmente feconda (e costituzionalmente garantita) sulla disciplina oggetto del quesito. Le richieste depositate questo fanno, grazie anche alle firme digitali. Se così è come i dati mostrano, sbagliano bersaglio i rimedi proposti contro la paventata spid-democracy: volendo arginarne l’abuso, ostacolano l’uso dello strumento referendario. Preliminarmente, tali proposte muovono da un malinteso: la digitalizzazione delle firme rappresenta un rimedio, non un problema da risolvere. Infatti, la si è introdotta perché l’Italia è stata condannata dal Comitato Diritti Umani dell’ONU per le “restrizioni irragionevoli” che la legge n. 352 del 1970 impone alla partecipazione al procedimento referendario. Per ciò la legge n. 178 del 2020 obbliga il Governo a realizzare - a decorrere dal 1° gennaio 2022 - una piattaforma pubblica per la raccolta online delle firme necessarie a iniziative referendarie (e legislative) popolari. Tale modalità di raccolta è stata transitoriamente anticipata - a spese dei promotori - con un emendamento al decreto semplificazioni (n. 77 del 2021) approvato all’unanimità, contro il parere del Ministero di giustizia. L’emendamento dell’on. Magi, dunque, si è innestato su una scelta legislativa dovuta, pregressa, consapevolmente anticipata. Non nasce da astuzia luciferina, semmai dall’intelligenza politica di chi sa esercitare il mandato parlamentare, nel solco della migliore scuola radicale. Guadiamoli allora, questi rimedi. L’idea di innalzare la soglia costituzionale delle 500.000 firme è motivata come adeguamento alle dimensioni del corpo elettorale: 50 milioni, contro i 30 milioni del 1948. È una premessa sbagliata. Se i Costituenti avessero inteso esprimere una proporzione tra firme referendarie ed elettori, non avrebbero indicato una cifra assoluta ma una percentuale (come, in origine, negli artt. 56 e 57 della Costituzione sul numero di deputati e senatori). Quella soglia, in realtà, esprime convenzionalmente la serietà della richiesta referendaria: a questo serve, non ad ostacolarne l’iniziativa. Sul come raccoglierle poi, la Costituzione nulla dice, tantomeno che lo si debba fare al rallentatore. Preso sul serio, l’aggiornamento proposto collocherebbe l’asticella a quota 920.000 sottoscrizioni. Un’enormità. Poco meno delle firme richieste per l’iniziativa legislativa popolare europea: 1 milione (a fronte però di 450 milioni di cittadini comunitari); soglia raggiunta, in 10 anni, solo 6 volte. È già disegno di legge (C. n. 3284) l’anticipazione del giudizio di ammissibilità del referendum a quando ha ottenuto, entro un mese, almeno 100.000 sottoscrizioni (e non più di 120.000). Si eviterebbero così “possibili frustrazioni” per le centinaia di migliaia di firmatari, consentendo alla Consulta di “pronunciarsi con serenità”. Posso dire? Una Corte costituzionale, istituzionalmente chiamata a opporsi a norme (illegittime) del Parlamento o del Governo, non abbisogna di simili cautele. Le sue decisioni referendarie non sono una variabile dipendente dal numero delle firme raccolte. Le critiche ad esse rivolte non si appuntano sul loro esito ma sulla loro imprevedibilità, dovuta a una giurisprudenza labirintica e contraddittoria. Superato il controllo preventivo dell’Ufficio centrale, 100.000 firme basterebbero per elevare prematuramente una ridotta falange di sottoscrittori a potere dello Stato. Infine, si moltiplicherebbero oltre il necessario gli interventi della Corte. Le Camere avranno tempo per razionalizzare la novità delle sottoscrizioni online: combinando l’arco temporale di raccolta, il divieto di nuovi referendum nell’ultimo anno di legislatura e nei primi 6 mesi della nuova, se ne riparlerà tra 3 anni. Per i quesiti già depositati, invece, si prospetta il voto in primavera. Salva una loro ecatombe in Cassazione o alla Consulta. E salva l’ipotesi di elezioni anticipate, come già accaduto (nel 1972, 1976, 1987, 2008) quando le Camere furono sciolte per evitare consultazioni referendarie già convocate. Tentazione che potrebbe riaffiorare, pur di sottrarsi alla logica binaria del voto e guadagnare tempo utile a disinnescarlo con mirati interventi legislativi. Voteremo altrimenti su quesiti numerosi e tematicamente differenti. In passato (nel 1990, 1997, 2000, 2003, 2005, 2009), la loro moltiplicazione ha scoraggiato la partecipazione fino a invalidarne il voto. Non è dunque necessariamente vero che più quesiti, richiamando platee diverse che si sommano, assicurino il raggiungimento del quorum. Questa volta, però, la loro rilevanza rende plausibile sia una massiccia affluenza alle urne che un voto differenziato (come già nel 1995: 12 quesiti, 5 approvati, 7 bocciati). Ne deriverà un positivo corollario: “l’astensionismo strategico diventa troppo rischioso e quindi i contrari saranno indotti a partecipare” (Vassallo). Vedremo. La storia referendaria ci ha abituato a tutto. Mai però si era visto, prima d’ora, il suicidio di un comitato promotore che dichiara di aver raccolto le firme ma non le deposita. Legittimando così qualsiasi retropensiero, anche quello di un numero talmente alto d’irregolarità nella raccolta da precludere la soglia delle 500.000 firme necessarie. Il comitato promotore dei referendum sulla giustizia esce così di scena, abbandonando ai delegati regionali (tutti leghisti) i 6 quesiti e perdendo ogni potere d’iniziativa costituzionale in loro difesa. In concreto: non potrà costituirsi davanti alla Consulta o contestare le decisioni dell’Ufficio Centrale. Non potrà sollevare conflitti d’attribuzione a tutela della “genuina manifestazione della sovranità popolare” (sent. n. 161/1995) contro Governo, Parlamento, Commissione di vigilanza. Non usufruirà di appositi spazi televisivi per la comunicazione referendaria. Di più. La scelta fatta capovolge la titolarità del potere d’iniziativa referendaria, che la Costituzione riconosce ai sottoscrittori “istituzionalmente rappresentati dai promotori” (sent. n. 69/1978). Il comitato ha agito, invece, come se quel potere fosse suo, sacrificandone gli autentici titolari alle proprie strategie. Servirsi degli elettori (e dei propri militanti) fingendo di esserne al servizio è proprio di partiti a guida autocratica. Della Lega si sapeva e non sorprende. Ma che il Partito Radicale subisca abbozzando, delude e lascia increduli. All’avvio della campagna referendaria (Il Riformista, 11 giugno 2021) ci si interrogava su chi, tra i due alleati, ne avrebbe avuto l’egemonia: la risposta è arrivata. Troppi giocano con la pelle dei profughi di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 11 novembre 2021 Scaricare a bella posta migliaia di esseri umani su una frontiera incerta e senza prospettive di salvezza, quello che sta facendo l’autocrate bielorusso Lukashenko, è meschino e vergognoso, peggio se motivato spregiudicatamente come ritorsione alle sanzioni Ue dopo il dirottamento dell’aereo Vilnius-Atene con a bordo un oppositore di Minsk. È un gioco sporco sulla pelle di esseri umani ora alle prese con il muro militare polacco fatto di stato d’assedio nella regione, spari, tank, elicotteri, forze speciali e arresti di massa. Lì di freddo sono morti già sei migranti. Ma questo non esclude interrogativi di fondo sulla crisi in corso al confine polacco diventato all’improvviso il fronte di una nuova “guerra ibrida” che vede schierato quasi tutto il mondo per una rinnovata guerra fredda in pieno Vecchio continente. Soprattutto se si considera che, al di là delle strumentalizzazioni di Lukashenko, il dramma dei profughi in fuga da guerre e miseria che ci hanno visti come protagonisti occidentali, non è propaganda: è reale. E soprattutto se si ha a cuore, non tanto la dimensione geopolitica della crisi, quanto la vita di migliaia di persone ora chiuse alla frontiera bielorussa, spinti a forza da una parte e respinti con violenza dall’altra, con in mezzo una barriera di filo spinato protetto da dodicimila militari inviati da Varsavia con forze antiterrorismo. Tre domande cogenti urgono: se c’è in atto un ricatto sui profughi, c’è forse una ricattabilità specifica su questo dell’Unione europea? Siamo sicuri che gli unici agenti protagonisti della crisi strumentale in corso siano l’autocrate di Minsk e il leader russo Putin considerato suo protettore - ma in realtà è visto da Mosca con grande diffidenza per la sua pericolosa inaffidabilità - e non anche due attori già in scena, la Polonia e, nascosta, la Germania? E che fine devono fare ora quei 5mila profughi (ma le fonti del governo polacco parlano di più di diecimila)? Alla prima domanda non è difficile, purtroppo, rispondere: la questione dei profughi è la voragine nera dell’Unione europea che si considera a torto leader dei diritti umani, che i migranti in fuga afghani, siriani, iracheni e africani ora li abbandona spesso al lor destino e che come fortezza economica li respinge indietro. La chiamano esternalizzazione, verso Paesi come Libia, Turchia, Marocco, che fanno i gendarmi per noi e che per questo ruolo, costruendo un universo concentrazionario di carceri e campi di concentramento, ricattano l’Ue nella gestione dei flussi; eppure il ricatto è tranquillamente accettato in un scambio ineguale di esseri umani e finanziamenti, nel pieno disprezzo dei diritti umani. E della memoria, visto che la gran parte dei Paesi europei ha partecipato alle ingerenze umanitarie e alla esportazione della democrazia in armi che hanno destabilizzato Libia, Siria, Afghanistan - la Germania ha avuto per un massacro di civili provocato da un suo bombardamento aereo addirittura una crisi di governo nel 2009. Che dire poi dei Paesi dell’Est, tutti entrati nella Nato e al seguito delle guerre Usa, che ora rifiutano ogni redistribuzione del carico di migranti in arrivo in Europa e che chiedono all’Ue di finanziare l’estensione di un muro di fili spinati lungo tutte le loro frontiere - e la maggior parte di loro non confina con la Bielorussia? Ora che nuovi muri sono comparsi su tutta la cosiddetta rotta balcanica e oltre, dall’Ungheria, alla Slovenia, alla Croazia, alla Grecia e alla Bulgaria che invia truppe al confine turco? Quanto alla domanda sugli attori in scena, come non notare che la Polonia, solo fino a 48 ore prima sotto accusa della Commissione europea per violazione dello Stato di diritto, sia diventata all’improvviso il baluardo geostrategico dell’Europa stessa? Ora la sua richiesta di un muro finanziato dalla Ue appare più “credibile”, mentre Varsavia respinge la presenza di testimoni sul luogo compresi i giornalisti e le Ong internazionali e vieta l’ingresso di Frontex. Solo pochi giorni fa Angela Merkel ha invitato Bruxelles ad essere più flessibili verso Varsavia in virtù delle sue “sofferenze storiche”, aprendo così la strada - ha scritto Sergio Romano sul Corriere della Sera - ad una rivisitazione diseguale dei doveri di rispetto dei Trattati europei. Allora come non vedere che c’è anche la Germania come attore non proprio invisibile, con Merkel che lascia la scena dichiarandosi pentita della scelta di aprire ai profughi siriani? Subito interpretata in questi giorni dal ministro ad interim degli interni Horst Seehofer: se l’inquadratura delle tv, dalla frontiera polacco-bielorussa si allargasse sul confine polacco-tedesco, vedremmo nel Brandeburgo centinaia di migranti chiusi in un corridoio di terrore, dove un esercito di poliziotti e qui e là di milizie neonaziste, è a caccia dei profughi che sono riusciti a passare. A proposito, ma la coalizione di governo in fieri della Germania post-elettorale su questo non ha nulla da dire? Ora che ogni autorità tedesca si dichiara favorevole al finanziamento Ue per la muraglia di filo spinato che un gruppo di Paesi, con la Polonia capofila, hanno richiesto? Non è solo questione di sovranismi che condizionano le scelte dei governi: l’Unione fin qui realizzata appare come un sovranismo gigante, in incerto equilibrio tra due nazioni, Germania e Francia, tutt’altro che sovranazionali, che disattende i suoi stessi Trattati sulla libera circolazione. A meno che, naturalmente, non si tratti di merci. Intanto sulla crisi arrivano l’allerta della Nato, responsabile di quasi tutte le guerre dalle quali macerie i profughi sono in fuga, e perfino la voce grossa degli Stati uniti che di muri contro i migranti e delle prigioni perfino per bambini profughi davvero se ne intendono. Ma allora che fine devono fare le migliaia di profughi imbottigliati al confine polacco-bielorusso? C’è un appello delle quattro scrittrici Nobel per la letteratura, l’austriaca Elfrie Jelineke, la russa Svetlana Aleksievic, la tedesca Herta Muller e la polacca Holga Tokarczuk, che appellandosi al responsabile degli affari esteri Ue Charles Michel dicono chiaro: “Per noi l’Ue è soprattutto una comunità morale basata sulle regole della solidarietà interpersonale… Comprendiamo che non è facile far fronte all’assalto della disperazione ai confini dell’Europa. Tuttavia, ciò che stiamo permettendo alla frontiera polacca non si adatta ai nostro valori fondamentali”, e chiedono quindi il rispetto della Convenzione di Ginevra sui rifugiati: vuol dire accoglimento, rispetto delle persone, salvaguardia del diritto d’asilo. Sarebbe la vera ingerenza umanitaria. Altrimenti nella zona grigia di questa crisi si consumerà un lento ma inesorabile declino di quella che ancora chiamiamo Unione europea. Migranti. Minsk, l’Ue pronta a nuove sanzioni ma si prepara a finanziare altri muri di Carlo Lania Il Manifesto, 11 novembre 2021 La crisi dei migranti in corso alla frontiera tra Polonia e Bielorussia ha avuto l’effetto di aprire l’ennesima crepa nell’Unione europea. Scartata fino ieri con determinazione dalla Commissione Ue, l’ipotesi di finanziare nuove barriere ai confini esterni dell’Unione utilizzando il bilancio europeo sta prendendo sempre più consistenza, con il rischio adesso di creare uno scontro tra Consiglio e Commissione. Ad aprire all’utilizzo di fondi europei - come richiesto qualche settimana fa da 12 Stati membri - è stato proprio il presidente del Consiglio Ue, il belga Charles Michel, per il quale è “legalmente possibile finanziare infrastrutture alle frontiere”. Michel ha anche sollecitato gli Stati a discutere presto la questione perché, ha spiegato, “i confini polacchi e baltici sono confini europei”. Linea che però, ancora una volta, non viene condivisa dalla presidente Ursula von der Leyen, per la quale non è possibile attingere al bilancio comunitario per costruire “recinzioni e filo spinato”. Unità c’è invece nel decidere un nuovo pacchetto di sanzioni contro Minsk. Von der Leyen, che ieri si trovava a Washington, ne ha parlato alla Casa Bianca con il presidente Joe Biden: quella in corso tra Polonia e Bielorussia, ha spiegato, “non è una crisi migratoria”, né “un problema bilaterale” tra i due Paesi, ma “il tentativo di un regime autoritario di provare a destabilizzare i suoi vicini democratici”. La discussione sulle nuove sanzioni si terrà lunedì, al vertice dei ministri degli Esteri, mentre anche gli Usa starebbero lavorando a un pacchetto di interventi mirati in particolare contro le compagnie aeree che trasportano i migranti in Bielorussia e che dovrebbe diventare operativo da dicembre. Per quanto riguarda la Ue non è esclusa però un’accelerazione ulteriore. Il prossimo consiglio Ue è fissato per dicembre ma il premier polacco Mateusz Morawiecki spinge per convocarne uno prima, da tenersi anche in videoconferenza, dove decidere le sanzioni contro Minsk e affrontare anche la questione dei finanziamenti alla costruzione di nuovi muri. Ipotesi, quest’ultima, sostenuta anche dal capogruppo dei Ppe al parlamento europeo, Manfred Weber. La situazione al confine bielorusso intanto non promette niente di buono. Anzi, secondo il capo della diplomazia Ue Josep Borrell “può solo peggiorare” con immagini “sempre più scioccanti” di come sono costretti a vivere i migranti. Le premesse perché le previsioni di Borrell si avverino ci sono tutte. A partire dalla presenza sempre più evidente della Russia nella crisi. Ieri la cancelliera Angela Merkel ha chiamato al telefono Vladimir Putin chiedendogli di utilizzare la sua influenza sul dittatore bielorusso Lukashenko, definendo “disumana e del tutto inaccettabile” la “strumentalizzazione” dei migranti. La risposta del presidente è stata come se la Russia fosse estranea a quanto sta accadendo. Putin ha infatti proposto che a discutere della crisi siano i “rappresentanti degli Stati membri della Ue e Minsk”. Come se lo scontro in atto alla frontiera non riguardasse Mosca. Peccato che da giorni i ministri degli Esteri russo e bielorusso, Sergej Lavrov e Vladimir Makei, parlano praticamente con una voce sola e i toni non sono certi quelli di chi cerca una mediazione. Tanto che Lavrov ha definito “inaccettabili” e “illegali” eventuali nuove sanzioni europee contro Minsk, ha avvertito “la Vecchia Europa” di non farsi “trascinare in uno scontro con Russia e Bielorussia” aggiungendo che i due Paesi risponderanno uniti di fonte a “passi ostili della Nato”. E per sgomberare il campo da equivoci ieri due bombardieri russi Tu-22m3 hanno sorvolato la spazio aereo bielorusso: “Svolgono i compiti di allerta al combattimento per la difesa aerea nel Sistema di difesa aerea regionale dell’Unione statale Russia-Bielorussia” ha spiegato il ministero della Difesa di Mosca. Alla frontiera intanto i migranti sono riusciti nella notte a sfondare la recinzione entrando in Polonia. La reazione dei militari, diventati ormai 15 mila a difesa del confine, è stata immediata e violenta: molti migranti sono stati respinti indietro, una cinquantina arrestati e almeno quattro, secondo fonti bielorusse, sarebbero stati feriti. Sempre Borrell ieri ha chiesto che alle associazioni umanitarie venga permesso di raggiungere e aiutare uomini, donne e bambini rimasti bloccato in mezzo al filo spinato, e di organizzare dei corridoi umanitari per poterli trasferire. Inspiegabilmente, però, anziché avanzare la richiesta al governo polacco, come sarebbe logico, Borrell lo ha chiesto a Minsk a dimostrazione dell’ipocrisia europea. La crisi, infine, rischia di allargarsi ulteriormente. La Polonia ha infatti accusato la Turchia di agire “in piena sincronia con Bielorussia e Russia”, mentre l’Ucraina ha avvertito Minsk che potrebbero esserci “conseguenze irreparabili” se la Bielorussia, come ventilato da Makei, dovesse riconoscere la Crimea come russa. Spagna. Nelle carceri pestaggi (e impunità) all’ordine del giorno di Marco Santopadre Il Manifesto, 11 novembre 2021 Il rapporto del Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa: nelle prigioni e i commissariati maltrattamenti e abusi su fermati e detenuti per punire o estorcere confessioni. Madrid promette la creazione di un ufficio per contrastare le violenze. Il rapporto pubblicato martedì dal Comitato per la Prevenzione della Tortura denuncia i maltrattamenti - al limite della tortura - inflitti ai detenuti nei commissariati, nei penitenziari e nelle carceri minorili da parte di membri della Guardia Civil, della Policía Nacional e della polizia penitenziaria. Il documento, realizzato sulla base delle ispezioni condotte dai rappresentanti dell’organismo del Consiglio d’Europa dal 14 al 28 settembre 2020 in 19 centri penitenziari spagnoli, dettaglia 21 casi che però, avvisa, devono essere considerati solo un esempio di una casistica assai più ampia, basata su denunce consistenti e credibili. Ad esempio, nel caso del carcere di Albocasser (Comunità Valenzana), “circa un terzo dei 75 detenuti intervistati ha raccontato di maltrattamenti, in particolare di schiaffi e pugni, calci e colpi di manganello”. In più di un caso, hanno raccontato i carcerati, il personale utilizza pali, bastoni e altri strumenti non regolamentari e non manca la falanga, come vengono chiamati i ripetuti colpi inferti alla pianta del piede del torturato. Numerose le denunce di comportamenti violenti nei confronti dei detenuti stranieri, soprattutto nei commissariati, accompagnati da insulti razzisti associati dagli intervistati all’uso da parte del personale di simbologia fascista. “I maltrattamenti vengono inflitti per obbligare i sospetti a fornire informazioni o a confessare determinati delitti o per punirli dei crimini presuntamente commessi”, almeno nei commissariati, scrive il Cpt. Nelle carceri, invece, i detenuti vengono picchiati da uno o più agenti contemporaneamente come punizione per aver disobbedito agli ordini. Il rapporto evidenzia poi la mancanza di attenzione ai diritti delle detenute, che possono contare solo su tre carceri femminili in tutto il paese e che in genere sono rinchiuse in reparti ad hoc dentro carceri prevalentemente maschili. L’organismo si rivolge al governo spagnolo e alle istituzioni penitenziarie affinché le leggi sul rispetto dei diritti umani e delle garanzie per i detenuti siano integralmente applicate. Inoltre, il Cpt ribadisce l’importanza della sistematica punizione degli abusi al termine di celeri ed efficaci indagini per sradicare quella che definisce “cultura dell’abuso e dell’impunità”, agevolata da una diffusa omertà tra gli operatori. Infine, il rapporto sottolinea la necessità di conservare le registrazioni delle telecamere di sicurezza per almeno 30 giorni e di dotare gli agenti di telecamere corporee. I rappresentanti del Consiglio d’Europa hanno denunciato di aver trovato i cavi di una telecamera tranciati proprio in una zona dove erano stati riportati alcuni maltrattamenti. Il capitolo del rapporto dedicato alle prigioni è molto critico nei confronti dell’operato dei Tribunali di Sorveglianza, che lavorano solo sulla base della documentazione fornita dalle stesse carceri, senza ascoltare direttamente i denuncianti, il che porta ad archiviare sistematicamente le denunce come infondate. Secondo i dati forniti dallo stesso governo spagnolo al Cpt, tra l’1 gennaio del 2017 e il 20 giugno 2020 si sono accumulate ben 501 denunce di abusi nei confronti di detenuti da parte del personale penitenziario, ma sono state aperte solo 62 indagini sfociate in appena sette condanne. Il governo in carica rivendica la “stretta e permanente vigilanza in materia” realizzata dal ministero degli Interni e ha annunciato la prossima creazione di un Ufficio per la Garanzia dei Diritti Umani destinato a contrastare i casi di maltrattamenti inflitti ai detenuti. Stati Uniti. Il braccio violento della legge contro donne, neri e latinos di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni L’Espresso, 11 novembre 2021 Condizioni disumane nelle carceri. Prigioni sovraffollate e sporche, dove mancano le cure per la salute mentale dei detenuti. Con oltre 500mila persone contagiate dal Covid-19. Mentre la protesta degli attivisti si allarga a macchia d’olio. Inchiodata ai sei metri quadrati della sua cella, senza luce e neppure uno sbuffo d’aria, Jane aveva solo un pensiero che le martellava nel petto: “Prima o poi me ne andrò da qui”. Se lo ripeteva come una preghiera ogni notte, fissando il soffitto dalla sua branda nel penitenziario di Corona, in California. “Avevo i miei mantra per sopravvivere”, racconta oggi Jane Dorotik, condannata nel 2001 a 25 anni per l’omicidio del marito. Le porte del carcere per lei si sono spalancate solo quest’anno, scagionata grazie alle nuove prove del Dna presentate dai suoi avvocati. A settantaquattro anni, ammaccata da due decenni dietro le sbarre, l’ex infermiera è una delle voci più appassionate della California Coalition for Women Prisoners, l’organizzazione abolizionista con cui lotta per i diritti delle donne recluse ma anche di transgender e minoranze. Lo ha fatto in prigionia, continua a farlo da donna libera. Come Jane, sono centinaia gli attivisti che invocano una riforma sostanziale del sistema carcerario. Non sono bastati i cinquant’anni trascorsi dai moti di Attica, la rivolta più tremenda mai accaduta. Dal 9 al 13 settembre del 1971 quasi 1.300 detenuti della prigione di massima sicurezza nello Stato di New York si ribellarono contro le condizioni disumane a cui erano sottoposti, incluse le discriminazioni razziali, le percosse, il sovraffollamento. Dopo quattro giorni di negoziati, la polizia assaltò la fortezza. Sul campo di battaglia, i cadaveri di 10 ostaggi e 29 reclusi, oltre a decine di feriti. Mezzo secolo dopo, ci si chiede quanto effettivamente sia cambiato. Infatti, oggi come ieri, associazioni, famiglie e avvocati sono impegnati a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni violente e malsane in cui i detenuti sono costretti a vivere. Le rivendicazioni sono un continuum con il passato: istituti sporchi, sovraffollati, in cui spesso sono carenti cure mediche e assistenza per la salute mentale delle persone incarcerate, coinvolte sempre più spesso in aggressioni invece che in programmi di riabilitazione, denunciano gli attivisti. Le proteste corrono ormai lungo tutta l’Unione, inasprite inoltre dalla disastrosa gestione della pandemia. Oltre mezzo milione le persone contagiate, tra detenuti e impiegati: in altre parole circa 3 su 10 hanno contratto il coronavirus; di queste, tremila hanno perso la vita. La situazione più tesa è ora a New York. I riflettori sono puntati sul famigerato isolotto che sorge tra il Bronx e il Queens: la mastodontica Rikers Island, con quasi cinquemila internati. L’istituto è in piena crisi umanitaria; solo quest’anno hanno perso la vita 13 persone (di cui cinque suicide). Le cronache riportano di detenuti costretti a defecare in buste di plastica, per mancanza di servizi igienici adeguati. Bisogna agire e occorre farlo subito. Nonostante la popolazione carceraria tenda progressivamente a diminuire da una decina di anni, l’America è tuttora la nazione con il più alto tasso di incarcerazioni secondo il World Prison Brief, il database gestito dall’Università di Londra che mette a confronto circa 200 Paesi. Un trend che cammina su due gambe: la cultura della punizione e l’ineguaglianza (di classe e di razza). Il costo umano di queste politiche è aberrante. E cade quasi del tutto sulle spalle dei più deboli: poveri, minoranze, donne. Negli Stati Uniti su 100mila abitanti, 629 sono detenuti (in Italia la conta si ferma a 91). Se nel 2008 i reclusi avevano raggiunto il picco di 2,3 milioni, gli ultimi dati disponibili parlano ora di due milioni o poco meno. “Durante gli anni di detenzione, ho provato sulla mia pelle quanto sia brutale sistema carcerario”, sottolinea Jane Dorotik. Nei penitenziari, spiega, “le donne sono considerate oggetti sessuali o persone che hanno bisogno di essere rieducate”. Nelle celle americane è rinchiuso il 30 per cento di tutte le donne incarcerate del mondo. “La premessa di fondo è che non vali niente. Non c’è il riconoscimento del trauma che ti ha portato in cella. L’obiettivo è piegarti; ti insegnano che la tua vita è da buttar via, che sei un peso per la società”. La prigione invece dovrebbe riabilitare, non annichilire gli esseri umani, ammonisce John Hart, esperto del Vera Institute of Justice di New York che ha dedicato tutta la vita al verbo della “giustizia riparativa”. Un approccio nuovo che include la cura dell’individuo e della comunità, non soltanto la cieca punizione. Hart coordina il progetto Restoring Promise, un piano che al momento coinvolge sei Stati e punta a riformare le condizioni dei detenuti sviluppando unità abitative. Non più batterie sovraffollate e opprimenti, ma spazi rivoluzionari che favoriscono la riabilitazione. In collaborazione con architetti e designer, i progettisti di Restoring Promise creano alloggi innovativi. “Se la detenzione è mirata a riabilitare, lo spazio fisico dovrebbe effettivamente riflettere quei valori. Nelle nostre strutture cerchiamo di incrementare la luce naturale, favoriamo la creazione di spazi verdi, così benefici per la salute mentale. Se c’è una cosa, poi, che il carcere non promuove è il rispetto della privacy, quindi aumentiamo il numero di docce o bagni. Stiamo avendo ottimi risultati a livello nazionale”. L’obiettivo, continua, è quello di “sostituire la cultura correzionale punitiva che in America è radicata nella storia di razzismo e supremazia bianca. Agiamo per rimpiazzare quegli ideali tossici con valori diversi come la guarigione culturale, l’equità razziale, il partenariato familiare e comunitario”. Sempre più americani chiedono di invertire la rotta, assicura Hart. “Siamo anche in un periodo storico molto critico. Pensate al movimento Black Lives Matter e alle questioni legate alla brutalità della polizia. Credo che la gente abbia iniziato a prenderne consapevolezza. Siamo entusiasti di questa esplosione di energia che stiamo vedendo nell’arena politica e nelle comunità. Ritengo che un ruolo fondamentale lo abbiano avuto anche i social media. Questo tipo di esposizione mediatica ci ha sbattuto tante problematiche in faccia. Oggi vediamo i volti delle persone, non è più possibile nasconderli alla coscienza della società come magari succedeva 50 anni fa ai tempi di Attica”. La questione dell’equità razziale all’interno del sistema rimane il marchio di fuoco che lacera l’anima di questa nazione. La ricercatrice e attivista per i diritti civili Michelle Alexander definisce le incarcerazioni di massa “the new Jim Crow”, la versione riveduta e corretta delle feroci leggi razziali che fino agli anni Sessanta furono la spina dorsale della segregazione negli Stati Uniti. Per carpire il senso di questa tragedia, bisogna andare indietro nel tempo, agli anni Settanta, alla cosiddetta “war on drugs”, la guerra contro le droghe che ha affollato le prigioni americane, colpendo pesantemente la comunità nera (nonostante i dati dimostrino che i bianchi utilizzano e spacciano le stesse quantità di stupefacenti). Una riforma del sistema giudiziario e penale “senza riconoscere le basi razziste” a cui è saldato, non avrebbe senso, spiega Ashley Nellis, l’analista che per l’organizzazione The Sentencing Project di Washington ha curato un rapporto sulle “sbalorditive proporzioni” tra le incarcerazioni di neri e latini rispetto ai bianchi, pubblicato a ottobre. “Le manette scattano ai polsi degli afroamericani cinque volte più di quanto accada ai bianchi”, dice: “In ben 12 Stati, più della metà della popolazione carceraria è nera. Un problema che affligge anche la comunità sudamericana visto che nei penitenziari statali il tasso dei latini è più che doppio rispetto a quello dei caucasici”. Per affrontare le disparità razziali, ragiona Nellis, bisogna affondare le mani in una serie di questioni essenziali. Innanzitutto occorre fare i conti con l’impatto che le leggi in materia di criminalità hanno sulle diverse comunità. A ciò va aggiunta la depenalizzazione dei reati minori di droga: quasi metà dei detenuti americani ha commesso un crimine legato alla droga e la maggior parte non ha precedenti penali per reati violenti. Nelle carceri pubbliche come in quelle private. “Eticamente immorali, ma rappresentano solo l’8 per cento dei complessi penitenziari. Non funzionano né meglio né peggio del pubblico”, chiarisce. In alcuni Stati c’è chi ha iniziato a mettere mano a qualche lieve riforma per arginare le incarcerazioni di massa. Ad esempio eliminando il sistema di cauzione in contanti oppure evitando di perseguire piccoli reati di droga e crimini non violenti come il vagabondaggio. Ci sono poi alcuni progetti di legge che si stanno facendo strada verso il Congresso, come ad esempio quelli relativi al diritto al voto o alle condanne a lungo termine. Anche Donald Trump alla fine del 2018 aveva firmato un provvedimento volto a ridurre la popolazione carceraria federale. Ma non basta. Il presidente Joe Biden ancora non ha preso di petto il problema. “È all’inizio del suo mandato, tuttavia direi che la maggior parte dei sostenitori sono piuttosto delusi”, dice scoraggiata Nellis. Sul piatto ci sono “problemi acuti come il rilascio compassionevole degli anziani a cui era stato permesso di uscire di galera durante la pandemia. In tanti hanno esortato il presidente a consentire loro di rimanere a casa. Finora non è stato possibile, la gente è stata rimandata in prigione”. Sebbene qualcosa si muova, per una sostanziale riforma occorrerà aspettare. Aspettare ancora. “Esigiamo, come esseri umani, la dignità e la giustizia che ci sono dovute dal nostro diritto di nascita”, recitava il Manifesto di Attica del 1971. Cinquant’anni dopo, è ancora questo il grido, inascoltato, dei detenuti americani. Etiopia. Cooperante italiano arrestato: “Aiuta i profughi tigrini” di Floriana Bulfon La Repubblica, 11 novembre 2021 Alberto Livoni lavora per il volontariato salesiano. Da giorni in corso una retata di missionari e attivisti. Ad Addis Abeba si respira un clima d’assedio e le forze governative vivono nella paranoia di una “quinta colonna” tigrina attiva in città contro il premier Abiy Ahmed. Da una settimana vengono segnalati arresti di missionari, volontari delle Ong e persino dipendenti delle agenzie Onu. E il 6 novembre è stato fermato anche un operatore umanitario: Alberto Livoni. Il cittadino italiano lavora per Vis, il Volontariato Internazionale per lo Sviluppo che si ispira al messaggio di San Giovanni Bosco occupandosi di scuole e corsi di formazione per i giovani. Non ci sono conferme ufficiali sulle motivazioni del fermo. La polizia federale avrebbe agito per “ragioni di sicurezza” e avrebbe contestato a Livoni la cessione di una valigetta con un milione di birr - una somma pari a circa 20mila dollari - con il sospetto che il denaro servisse ad aiutare la popolazione tigrina. Livoni, cinquantenne di origini emiliane, studi in Svizzera e una lunga esperienza nella cooperazione, sarebbe ancora detenuto. In Etiopia lavora proprio per l’emergenza nel Tigray. La regione è isolata da oltre un anno: lo scorso novembre ha subìto l’offensiva scatenata dall’esercito, che da allora ostacola i rifornimenti di cibo e medicine provocando una crisi umanitaria gravissima. Poi il contrattacco tigrino ha inflitto una dura sconfitta alle truppe di Addis Abeba, innescando la rivolta di altri gruppi etnici che ora marciano verso la capitale. Ma le condizioni della popolazione restano drammatiche. Pochi mesi fa Livoni ha raccontato proprio i progetti allestiti nelle scuole dove sono stipati migliaia di bambini, tutti profughi in fuga dai villaggi devastati dal conflitto. Il nostro consolato e la nostra ambasciata si sono messi in contatto con le autorità etiopi per trovare una soluzione al fermo del volontario italiano. La situazione nella capitale peggiora ogni giorno. Nove formazioni hanno costruito un’alleanza contro il premier Abiy, che due anni fa era stato premiato con il Nobel per la Pace: le loro milizie sono a poco più di cento chilometri dalla città. Nelle strade di Addis Abeba ci sono state manifestazioni in sostegno del governo, con slogan contro gli Stati Uniti e l’Europa. Mentre aumentano le retate con perquisizioni, arresti e deportazioni in luoghi sconosciuti. Proprio un giorno prima dell’arresto di Livoni alcuni agenti sono entrati in un centro gestito dai Salesiani nella zona di Gottera. All’interno c’erano 17 persone, sacerdoti e laici etiopi ed eritrei che vivevano nella struttura. “Sono stati tutti portati in una località segreta dove adesso sarebbero detenuti” fa sapere Fides, l’organo di informazione delle Pontificie Opere Missionarie in contatto con fonti locali. “Non riusciamo ancora a comprendere quali siano i motivi alla base di un atto così grave: perché arrestare sacerdoti che svolgono la loro missione di educazione, peraltro in un centro impegnato da sempre a fare del bene, molto frequentato da anni da tantissimi bambini, dove si fa recupero dei bambini di strada?”, chiede don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeisha mentre i Salesiani in Etiopia hanno inviato un messaggio in cui invitano a “pregare per la pace e l’unità del Paese”. In questa escalation del terrore anche sedici dipendenti delle Nazioni Unite originari del Tigray sono finiti in cella. “Sono al momento detenuti contro la loro volontà”, fa sapere il portavoce Stephane Dujarric. E ieri l’Onu ha annunciato che settanta autisti dei camion che trasportano gli aiuti del Pam - il Programma Alimentare Mondiale - sono stati arrestati con una contestazione generica di “terrorismo”: si tratta di persone di etnia diverse, non solo tigrina. L’effetto della retata è chiaro: impedire l’afflusso di cibo e medicine. L’operazione è scattata a Semera, la città chiave da cui i convogli cercano di raggiungere il Tigray. “C’è in corso un vero blocco umanitario. L’80 per cento dei farmaci essenziali non è più disponibile nella regione”, ha denunciato l’Onu. Ma il governo sostiene che i rifornimenti distribuiti dalle agenzie umanitarie finiscono anche nelle mani dei miliziani ribelli e contesta l’opera di alcune ong con accuse gonfiate per aumentare il livello della crisi. Il tutto - secondo l’Onu - senza fornire prove. Di fronte a questa escalation, le ambasciate occidentali hanno cominciato a ridurre al minimo il personale in Etiopia preparando piani di evacuazione completa e molte aziende straniere stanno rimpatriando i loro dipendenti. Un’emergenza che preoccupa anche l’Italia: ieri il Copasir ha ascoltato il generale Giovanni Caravelli, direttore dell’Aise: “Abbiamo chiesto informazioni sulla drammatica crisi che investe l’Etiopia e che vede l’avanzata delle milizie del Tigray verso la capitale Addis Abeba, anche in considerazione delle possibili ricadute sulla dinamica dei flussi migratori e della penetrazione islamica nel Corno d’Africa, Regione di nostro prioritario interesse strategico”. Etiopia. Il governo del Nobel Abiy Ahmed teme i ribelli e passa agli arresti di massa di Giusy Baioni Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2021 Ora in manette anche membri Onu e missionari. Un portavoce dell’esecutivo ha affermato che i dipendenti Onu sono stati trattenuti per la loro “partecipazione al terrore”, ma non è stata presentata alcuna prova. A preoccupare i leader del Paese è soprattutto l’unione di nove gruppi ribelli che adesso minacciano direttamente la capitale federale Addis Abeba e puntano a rovesciare il governo. Settantadue autisti del Programma alimentare dell’Onu (Pam) arrestati a Semera, 16 dipendenti delle Nazioni Unite e 17 missionari salesiani detenuti nella capitale: è solo l’ultimo allarmante segnale che giunge da Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, dove la guerra in corso da un anno esatto ha registrato negli ultimi giorni un brusco deterioramento. Un portavoce del governo etiope ha affermato che i dipendenti Onu sono stati trattenuti per la loro “partecipazione al terrore”, dopo che dal 2 novembre è in vigore lo stato di emergenza. Secondo un operatore umanitario sentito dall’Associated Press dietro garanzia di anonimato, tutti i membri dello staff Onu fermati sono tigrini, popolazione considerata dal governo come nemica e schierata al fianco delle forze ribelli che puntano a rovesciare l’esecutivo guidato dal premio Nobel per la Pace 2019 Abiy Ahmed Ali. Stando alle Nazioni Unite, non è stata fornita alcuna ragione per tali detenzioni, ma la comunità tigrina denuncia arresti diffusi attuati solo su base etnica. Il governo etiope, dal canto suo, afferma di detenere persone sospettate di sostegno alle forze rivali del Tigray, classificate all’inizio dell’anno come gruppo terroristico. Già il mese scorso Addis Abeba aveva espulso 7 membri del personale Onu, accusandoli senza prove di aver gonfiato falsamente la portata della crisi. Gli sforzi diplomatici e le denunce internazionali per le espulsioni e per arresti che paiono motivati esclusivamente dall’appartenenza etnica non hanno per ora sortito alcun effetto: Washington, così come l’Unione Africana, spingono per un cessate il fuoco immediato. Il segretario generale dell’Onu per gli Affari Umanitari, Martin Griffiths, ha concluso da poco un viaggio di quattro giorni nel Paese, dove ha incontrato il primo ministro Ahmed e ha visitato le “autorità di fatto” del Tigray, puntando almeno a facilitare l’accesso degli operatori umanitari a milioni di persone vittime del conflitto. Le radici della crisi - L’Etiopia era da anni indicata come un modello: un’economia in forte crescita, riforme atte a modernizzare il Paese, sede dell’Unione Africana, la migliore stabilità del Corno d’Africa. Ma è bastato un anno per precipitare in un incubo. Il suo premier, Abiy Ahmed, insignito del Nobel per aver ottenuto il riavvicinamento con l’Eritrea dopo decenni di guerra, il 4 novembre 2020 decideva una “azione lampo” dell’esercito in risposta a un attacco del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (Tplf) contro alcune basi militari. Il Tigray si era già distinto per atti di ribellione contro il governo centrale, culminati con la tenuta di elezioni senza l’autorizzazione di Addis Abeba. La guerra “lampo”, dopo un anno, ora rischia di trascinare l’intero paese nel caos e di minare alle fondamenta la sua credibilità. Ora il Tplf, coalizzato con altri otto gruppi fra cui l’Esercito di liberazione degli Oromo (Ola), minaccia direttamente la capitale federale Addis Abeba. L’escalation di questi giorni è solo l’ultimo atto di un conflitto di vecchia data che ha visto la minoranza tigrina governare l’Etiopia con pugno di ferro per quasi tre decenni. I tigrini (6% su 115 milioni di abitanti, nel secondo paese più popoloso d’Africa) avevano dovuto rinunciare al potere dopo che, nel 2015, enormi manifestazioni di piazza avevano preteso un cambio di regime. Era così giunto al potere l’attuale premier Abiy Ahmed, esponente della maggioranza oromo fino ad allora oppressa, che rappresentava un simbolo di riscatto e speranza. Le sue prime mosse avevano ristabilito il multipartitismo e la libertà di stampa, liberando prigionieri politici e giungendo infine a firmare la pace con l’Eritrea. Per la verità, ai Paesi vicini (la fragile Somalia in testa) già non sfuggivano le mire espansionistiche di un’Etiopia che puntava alla crescita economica e di prestigio, ma è stato solo nell’ultimo anno che l’immagine di Abiy Ahmed come riformatore illuminato ha definitivamente ceduto il posto a quella di un leader arroccato sulle sue posizioni e intestardito nella difesa a oltranza del suo esercito, anche quando commetteva crimini sulla popolazione tigrina: migliaia i morti, decine di migliaia gli sfollati, violenze e stupri, crimini di guerra testimoniati da diverse organizzazioni dei diritti umani e compiuti - va detto - da tutti gli attori in campo. Il conflitto nel Tigray non è l’unico rischio imminente per la regione: la decisione ostinata di costruire la Grand Ethiopian Renaissance Dam, ovvero la mega diga sul fiume Nilo, senza prestare ascolto alle rimostranze di Sudan ed Egitto, i Paesi a valle le cui economie dipendono in larga parte dalla portata del grande fiume africano, ha enormemente aumentato gli attriti regionali ed è passata in secondo piano solo a causa del mortifero conflitto col Tigray. Tigray che, invaso un anno fa, non è restato a guardare: i suoi leader, dopo essersi ritirati sulle montagne, si sono riorganizzati e ora - col probabile appoggio dei tanti nemici che si è fatto Abiy nella subregione - stanno puntando sulla capitale, con un rovesciamento delle posizioni di forza. Il premier ha chiamato i suoi concittadini alla rivolta contro il “nemico traditore del popolo”. E decine di migliaia di persone sono scese in piazza ad Addis Abeba e in altre città per sostenere il governo e protestare contro l’avanzata del Tplf. In ogni caso, un risultato è certo: credibilità azzerata, investitori in fuga, diplomazie preoccupatissime sono solo i più evidenti risvolti del precipitare degli eventi, in un’escalation che non mina solo la grande Etiopia, ma tutta la regione e rischia di avere pesanti conseguenze per l’intero continente, le cui istituzioni hanno sede proprio a Addis Abeba. Tace per ora il tigrino più illustre, il capo dell’Oms Tedros Gebreyesus che mosse i primi passi politici proprio nel Tplf e fu ministro della sanità nel governo precedente, quando l’Etiopia era guidata con pugno di ferro da Meles Zenawi. Quei prigionieri scampati all’inferno delle carceri degli Emirati Arabi di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 11 novembre 2021 I ricordi di Matthew sono ancora vivi e dolorosi. È stato prigioniero nelle carceri emiratine sotto il controllo, tra gli altri, del generale Ahmed Naser al Raisi, uno dei candidati alla presidenza dell’Interpol. Per scaricare la tensione Matthew accarezza Bruce, il cane di piccola taglia seduto sopra le sue ginocchia. Con fatica tra silenzi e sospiri racconta il calvario che ha subito nel 2018 negli Emirati Arabi Uniti. “Mi trovavo lì per finire la mia ricerca di dottorato incentrata sull’autoritarismo per l’università di Durham. Conoscevo le persone che stavo intervistando, erano tutti stranieri e non membri della sicurezza nazionale. Mi sentivo al sicuro”, dice. La sua ricerca procede senza intoppi e dopo mesi di lavoro, il 5 maggio, Matthew è pronto a salire su un volo per tornare in Inghilterra quando viene fermato dai poliziotti all’aeroporto di Dubai. “La situazione era caotica. All’inizio mi hanno detto che non ero in arresto, ma che avrei dovuto seguirli perché ero indagato. Ho subito chiesto un avvocato ma me lo hanno negato”. Matthew viene ammanettato, incappucciato e caricato su una vettura. La sua storia è un flusso di coscienza continuo. Ricorda che lo hanno portato davanti al procuratore di stato che, dopo dodici ore di interrogatorio, gli ha detto che sarebbe stato trattenuto in attesa di risolvere il caso. Nel frattempo, in Inghilterra, sua moglie Daniela non riesce né a contattarlo né a capire dove sia finito e percepisce che qualcosa non va. Matthew viene rinchiuso nella stanza di un edificio della sicurezza nazionale ad Abu Dhabi. È un posto dove di solito vengono portate persone accusate di crimini gravi o di reati politici. Ma lui è britannico, non avrebbe mai immaginato di essere trattato come Ahmed Mansoor, l’attivista per i diritti umani che dal 2017 sta scontando, in condizioni inumane, una pena di dieci anni per le sue critiche nei confronti del governo emiratino. Verso la confessione - Col passare dei giorni gli interrogatori diventano più aggressivi e arrivano a durare fino a quindici ore. “Mi dicevano che sapevano della mia ricerca, del mio lavoro. Mi hanno chiesto di rubare dei documenti dal ministero degli Esteri britannico ed è in quel momento che sono iniziati gli attacchi di panico”, dice il ricercatore. “Hanno iniziato a darmi delle medicine e gli interrogatori si sono fatti più aggressivi. Ho capito che era l’introduzione verso qualcos’altro. Mi hanno rinchiuso in una stanza. C’era del sangue per terra, sentivo la gente urlare di continuo. Era tutto organizzato per distruggere psicologicamente chi si trova lì dentro”, racconta guardando il vuoto. Lo hanno talmente imbottito di medicinali che è stato ricoverato in ospedale. Ed è lì che ha tentato il suicidio. Nel frattempo sua moglie è riuscita a trovare un avvocato, ma non serve. Una volta capito di cosa si tratta il legale decide di mollare il caso. Per Matthew l’unico modo di uscire da quella situazione è firmare una confessione. Dopo mesi di interrogatori, privazione del sonno e violazioni dei diritti umani decide di farlo. Solo a quel punto riesce a incontrare un rappresentante dell’ambasciata britannica. “È stata una riunione di cinque minuti, il procuratore di stato era circondato dalle sue guardie armate. Quando i diplomatici mi hanno chiesto se fossi stato torturato li hanno fatti uscire con la forza. Non riuscivo a crederci”. Passano ancora le settimane e a fine ottobre il giovane ricercatore viene rilasciato su cauzione per due settimane. Scopre che il suo caso è su tutti i giornali britannici. Sua moglie Daniela lo raggiunge nel paese. Solo a distanza di sei mesi dall’arresto ha saputo che nei confronti del marito c’è un’accusa di spionaggio. Il 21 novembre un giudice lo condanna all’ergastolo ma dopo cinque giorni ottiene il perdono presidenziale, esibito come un gesto di favore da parte delle autorità emiratine a quelle britanniche. Finalmente il 26 novembre Matthew torna a casa. Il processo nel Regno Unito - Ma il rientro in Inghilterra non è facile. Il trauma è talmente profondo che Matthew non riesce a uscire di casa. Inizia un percorso di terapia e di disintossicazione dagli antidepressivi. E inizia anche la sua battaglia personale per ottenere giustizia. Tramite il parlamentare laburista Ben Bradshaw nel settembre del 2019 presenta un reclamo all’Ombudsman (il difensore civico) del parlamento inglese lamentando, nei confronti negligenze e inadempienze del governo britannico nella gestione del suo caso. In parallelo parte anche un processo legale presso la Corte suprema di Londra contro quattro ufficiali degli Emirati Arabi Uniti: Saqr Said al Naqbi, il procuratore generale di Abu Dhabi di quel tempo; Mohammed Khalfan al Rumaithi, il capo della polizia di Abu Dhabi quando Matthew era detenuto; Hamad Hammad al Shamsi, un ufficiale dell’intelligence e, infine, il generale Ahmed Naser al Raisi, ispettore generale del ministero dell’Interno. Tutti nomi sconosciuti ai più tranne uno. Le ambizioni di al Raisi - Il generale al Raisi è una figura di spicco della sicurezza nazionale emiratina. È entrato a far parte delle forze di polizia di Abu Dhabi nel 1980 ed è arrivato a occupare la posizione di Ispettore generale del ministero dell’Interno nel 2015. È a conoscenza dei 25 prigionieri di coscienza che, stando al rapporto di Amnesty International 2020 sono detenuti nelle carceri che, di fatto, sono sotto il suo controllo. I suoi obiettivi sono ambiziosi e dopo una campagna elettorale in giro per l’Africa, l’Asia e l’Europa sta puntando alla carica di presidente dell’Interpol. Le elezioni si terranno a porte chiuse dal 23 al 25 novembre a Istanbul e varie ong hanno firmato appelli affinché al Raisi non ottenga l’incarico. “Non ho mai incontrato il generale al Raisi. Ogni volta che mi spostavano dalla stanza venivo incappucciato. Ma lui è responsabile di chiunque venga fermato e detenuto in un edificio della polizia o della sicurezza nazionale. È impossibile non sapesse del mio caso”, dice Matthew Hedges. È dello stesso parere Ali Issa Ahmad, un cittadino britannico detenuto, a suo avviso, per aver indossato una maglietta del Qatar durante una partita della coppa d’Asia che si è tenuta il 22 gennaio a Dubai. Fuori dallo stadio è stato avvicinato da alcuni agenti della polizia in borghese che gli hanno chiesto come mai indossasse quella maglietta. Ne è nato un diverbio e Ali è stato rinchiuso in una cella dove dice di essere stato torturato per diversi giorni. Come prova mostra le foto del suo corpo dopo il rilascio. Si vedono i segni di un piccolo coltellino: i poliziotti hanno provato a ritagliare la bandiera del Qatar cucita sulla maglietta che indossava. Per Ali il suo è un caso di discriminazione razziale acuito dai cattivi rapporti tra Emirati Arabi Uniti e Qatar. Nel 2019 i qatarini erano al centro dell’embargo imposto dagli altri paesi del Golfo e dall’Egitto per via delle accuse di finanziare il terrorismo islamista. “Sono stato un paio di settimane in una stazione di polizia a Sharja. Non mi è stato dato un avvocato e non ho potuto chiamare né la mia famiglia né l’ambasciata inglese”, dice con la voce spezzata. “Per uscire da quell’incubo ho firmato un foglio in cui dichiaravo di essermi ferito da solo”. Ali se l’è cavata con una multa e una condanna per aver fatto “perdere tempo alla polizia”. Oggi è a Wolverhampton ma anche lui ha iniziato una causa contro gli ufficiali emiratini. Tra questi c’è il generale al Raisi. “Non l’ho mai incontrato ma è lui che firma ogni documento, controlla ogni caso. Ma lui dà le direttive, nessun agente di polizia può fare come vuole soprattutto in un paese del genere. Non ci credo che possa diventare il prossimo presidente dell’Interpol. Chi vìola i diritti umani non può avere una carica del genere”. La beffa - Una volta rientrato in Inghilterra Matthew ha scoperto che Alistair Burt, il ministro per il Medio oriente in carica nel momento della sua detenzione, ha legami stretti con le istituzioni degli Emirati Arabi Uniti. Una settimana dopo l’arresto di Hedges, Burt ha firmato un importante memorandum tra il governatorato di Dubai e i servizi di comunicazione del governo britannico con l’obiettivo di “scambiarsi buone pratiche e il know how sulla comunicazione governativa”. Nel dicembre del 2019 sempre Burt, che appartiene ai Tory, è stato nominato dall’ambasciata degli Emirati Arabi Uniti di Londra come presidente onorario della Emirates society, un’associazione che si occupa di promuovere le relazioni e gli investimenti tra i due paesi. Ma non è finita qui. Secondo quanto rivelato dal Daily Mail Alistair Burt è indagato per aver fatto lobbying in favore del generale al Raisi per la presidenza dell’Interpol. Una serie di eventi su cui Matthew sta cercando di indagare con i suoi avvocati: “Per quanto è doloroso ho deciso di continuare questa battaglia legale perché io ho l’opportunità di farlo a differenza di chi non ce l’ha. È una responsabilità che sento addosso”.