Un anno fa le rivolte e i 13 detenuti morti: “Grave che si dimentichi cosa è accaduto” di Dario Paladini Redattore Sociale, 9 marzo 2021 Il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma: “Un fatto senza precedenti”. Occorre interrogarsi sulle tensioni e sulla pervasività della droga nelle carceri. E sui procedimenti penali in corso: “Abbiamo nominato avvocati e periti per vigilare che non si arrivi a conclusioni affrettate”. “Penso sia grave che, pur in un momento così difficile per la pandemia, non ci si interroghi e non si faccia una riflessione su quanto accaduto nelle carceri un anno fa. Che ci si dimentichi di quel che è accaduto”. Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, lo ripete spesso: le rivolte in 49 carceri, con la morte di 13 detenuti e il ferimento di 40 agenti, avvenute dal 7 al 10 marzo del 2020, è un fatto senza precedenti nella storia della Repubblica Italiana. Rivolte scoppiate a seguito delle restrizioni dei colloqui per limitare i contagi negli istituti penitenziari. Settimana scorsa, la Procura di Modena ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta su otto dei nove detenuti morti della casa circondariale Sant’Anna: il decesso sarebbe stato causato solo da overdose. “Valuteremo con i nostri avvocati e periti la motivazione della richiesta di archiviazione - annuncia il Garante nazionale dei detenuti -, e vedremo se fare opposizione”. Oltre ai 9 del Sant’Anna (cinque deceduti durante la rivolta, quattro mentre venivano trasferiti in altre carceri), vanno aggiunti i tre morti nel carcere di Terni e uno in quello di Bologna. Il primo interrogativo riguarda la causa dei decessi. L’allora ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, in Senato dichiarò che erano “per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini”. Sono effettivamente morti tutti di overdose? Inoltre, in che condizioni erano i quattro deceduti dopo o durante il trasferimento in un altro carcere la notte stessa della fine delle rivolte. Chi ha autorizzato il trasporto? “Abbiamo fiducia nella magistratura - aggiunge il Garante. Abbiamo deciso di seguire i procedimenti penali in corso sulle loro morti, nominando nostri avvocati e periti, anche per rassicurare la collettività, perché oltre alla magistratura c’è anche il Garante che vigila che non si arrivi a conclusioni affrettate”. “Ma l’aspetto penale, pur rilevante, non è l’unico da tenere in considerazione - sottolinea Mauro Palma. Perché quelle rivolte riguardano tutti noi, sia dal punto di vista istituzionale, politico e sociale. Evidenziano la situazione che si vive nelle carceri, dove c’è elevata conflittualità. Non solo. Come mai le rivolte si sono trasformate anche in un assalto alle infermerie e quindi ai medicinali e al metadone? Il problema droga pervade il carcere, visto che l’esplosione di una situazione di tensione si concentra poi nel procurarsi sostanze: forse dobbiamo pensare ad altri percorsi per molti detenuti”. “Mi chiedo, inoltre, come mai sia stato così difficile evitare che la situazione esplodesse -aggiunge il Garante-. Non penso che dietro alle rivolte ci sia stato un disegno della criminalità organizzata, semmai come nel caso di Foggia (dove sono evasi 72 detenuti, poi rientrati spontaneamente o arrestati, ndr) è intervenuta dopo. Il problema di fondo è invece come si comunica con i detenuti, perché il carcere è un sistema che ha un’intrinseca fragilità. Si è data l’impressione che si andasse verso la chiusura di tutti i colloqui e di ogni rapporto tra i detenuti e l’esterno. Poi invece con i sistemi di video chiamata la tensione si è sciolta”. Nell’intera vicenda delle rivolte, per il Garante “va inoltre posta attenzione alle condizioni in cui furono fatti i trasferimenti dei detenuti” e “sulla capacità da parte delle carceri in cui sono stati destinati di saper gestire con il dovuto rigore e rispetto la loro accoglienza evitando qualunque forma di rivalsa”. Detenute in Italia, la reclusione pensata al maschile di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 marzo 2021 Le donne sono circa il 4% della popolazione carceraria. In Italia solo 4 istituti sono per le recluse: Pozzuoli, Trani, Rebibbia, Venezia Giudecca. Le detenute in Italia si trovano nella stragrande maggioranza in sezioni ricavate all’interno degli istituti maschili in una condizione di minoranza numerica che ne compromette l’equità nell’acceso alle opportunità trattamentali. In Italia esistono solo 4 istituti dedicati esclusivamente alle recluse: Pozzuoli, Trani, Rebibbia, Venezia Giudecca. La dispersione delle donne in 63 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili e in solo cinque istituti interamente femminili risolve il problema della vicinanza territoriale ai propri affetti prevista dall’Ordinamento penitenziario a scapito di una vita detentiva estremamente trascurata dalle istituzioni per quanto riguarda le donne in piccole sezioni. Quello che manca, è la riorganizzazione della mappa stessa degli Istituti penitenziari, prevedendone uno femminile per regione. Le detenute sono tra il 4 e il 5% della popolazione carceraria - Non solo le donne in carcere sono poche, ma la maggioranza si trova dunque in comunità molto piccole, all’interno di strutture disegnate per gli uomini. La bassa incidenza statistica, parliamo di una percentuale che oscilla sempre tra il 4% e il 4,5% sulla popolazione detenuta totale, potrebbe far illudere di una maggiore attenzione istituzionale nel costruire percorsi di reinserimento sociale, ma nella pratica si trasforma in causa di discriminazione. La discriminazione non nasce da una consapevole volontà istituzionale, ma dalla mancanza di un pensiero che consideri la differenza di genere. Nella società sono solitamente le donne a portare il maggior peso di responsabilità affettiva. All’interno di penitenziari, la questione si amplifica. Quando una donna finisce in carcere, fuori ci sono sempre i figli, una madre, un padre, a volte anche un marito che contavano su di lei e che restano abbandonati e senza sostegni. E così la detenuta, oltre al peso della carcerazione, si sente colpevole di averli lasciati soli, si sente responsabile per non poter far nulla per loro e somatizza il suo malessere. Non di rado ne derivano conseguenze fisiche. Dai disturbi al ciclo mestruale, all’ansia, ma anche depressione, anoressia e bulimia. Il retaggio delle definizioni lombrosiane - Se le donne portano tuttora questo peso, ciò è da ritrovarsi nella sottocultura del passato. Infatti, vi è stata nel tempo una persistente difficoltà culturale ad affrontare la problematica della donna-delinquente-detenuta, in quanto, storicamente, la donna deviante, che cioè contravveniva alle regole che la società (maschile) si era data, non è mai stata considerata, in ragione della sua inferiorità biologica e psichica, come portatrice cosciente di ribellione, ma o una “posseduta” (ad esempio strega) o una malata di mente (ad esempio isterica). Questo perché non si poteva ammettere, culturalmente, che la donna potesse coscientemente desiderare, con autonomia di scelta di uscire dal perimetro delle regole. Infatti già Cesare Lombroso scriveva nel suo testo del 1893 intitolato “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale”: “Se la criminalità femminile è molto meno diffusa di quella maschile, dipende dal fatto che le donne sono più deboli e stupide degli uomini”. In carcere le donne sono soggetti vulnerabili - Inoltre, la donna delinquente, la donna colpevole, è sempre stata anche considerata macchiata dalle stigmate di aver abiurato, commettendo il reato, alla propria natura femminile tradizionalmente dedita alla maternità e alla cura; colpevole dunque, non soltanto di fronte alla legge scritta dagli uomini, ma anche verso quella di natura. Nella società libera non è corretto - riferendosi alle donne - parlare di soggetti vulnerabili. Però in carcere, in una situazione privata della libertà, tale definizione è appropriata. Lo spiega molto il rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà relativo all’anno 2019. Parlare di soggetti vulnerabili è giusto, perché “il carcere - si legge nel rapporto - è un’istituzione punitiva e di controllo pensata per i maschi, con regole definite attorno a tale pensiero e continua a essere tale, pur tra le molteplici voci che si alzano a dire che l’esecuzione penale è uguale per tutti e al contempo attenta a ogni specificità, a cominciare da quella di genere”. Alcuni anni fa il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva attivato all’interno della sua struttura organizzativa un apposito settore dedicato alla riflessione sul tema della detenzione femminile, alle proposte, al monitoraggio delle situazioni concrete. Di ciò non si è più avuta notizia in anni recenti e purtroppo il Garante nazionale si è trovato di fronte ad alcune situazioni limite in cui, per esempio, quattro donne erano ristrette in un Istituto di ben più di centocinquanta uomini. Qualche passo in avanti c’è stato, ma ancora molta strada deve essere fatta. “Il carcere femminile è l’inferno, noi donne dimenticate”: lo sfogo dell’ex detenuta di Rossella Grasso Il Riformista, 9 marzo 2021 Essere donna e detenuta è davvero dura. Non basta la lontananza dai figli e dalla famiglia, che per una donna è più sentita, ma a volte sono anche le condizioni a rendere tutto peggiore. Ma di carceri femminili si parla poco anche se i problemi non sono da poco. Carmela (nome di fantasia) ha scontato 20 anni in carcere, ora è libera ma nella sua testa rimbombano ancora le grida di quell’inferno che è il carcere femminile. “Dopo il carcere è dura tornare a vivere, ad affrontare la tua famiglia e riprendere una vita normale - racconta Carmela - Certe cose non le puoi mai scordare. Negli occhi hai sempre la violenza che hai visto in carcere, le donne trovate impiccate e quelle che in doccia si tagliavano le vene o si avvelenavano. È molto dura dimenticare. E la mente va a quelle donne, detenute o operatrici del carcere che sono rimaste in quell’inferno”. Proprio perché ha vissuto quell’incubo Carmela, da donna libera, vuole raccontare e tirare fuori tutte le inefficienze di un sistema carcerario che rende peggiori, che abbrutisce e incattivisce e non rispetta la persona, la donna. Vuole rimanere anonima perché la vita dopo il carcere non è semplice, ma sente in cuor suo di dover parlare: “Lo devo a tutte quelle donne che in carcere mi hanno aiutata, perché se ce la fai è solo per la solidarietà femminile”. E si scaglia contro le inefficienze e le storture del carcere, in particolare quello di Vigevano. “Stavamo in celle di 3 metri per tre in due persone - racconta - ti capitava di dover condividere quel poco spazio con persone anche violente. Stavamo a celle aperte e le guardie non entravano nelle celle per sedare le risse. ‘Entriamo solo quando vediamo il sangue e se si ammazzano’, dicevano. Qualcuna di noi ha anche tentato il suicidio e siamo state noi a salvarle. Noi abbiamo pagato per i reati commessi ma di tutto ciò la cicatrice resta”. Per Carmela le detenute sono “persone dimenticate nelle celle”. Lo sono anche le ammalate che non ricevono le giuste cure, “nemmeno una pillola per il mal di testa ti danno”. E racconta di una donna affiliata all’Isis che fu portata in ospedale per un mal di pancia. “Non l’abbiamo più vista, venimmo a sapere dai TG che era morta. A noi dissero che l’avevano trasferita. Aveva solo 40 anni. Si può morire così?”. Poi c’è la storia di un’altra detenuta malata di tumore, operata e rispedita in carcere dopo 12 ore. “È assurdo che quella donna sia rimasta così poco sotto osservazione - continua il racconto - Ma purtroppo in carcere non c’è abbastanza personale per garantire un piantone in ospedale e i ricoveri rischiano di essere un problema”. Poi il cibo, che secondo Carmela è poco o nulla: “Le nuove arrivate o chi non riceve visite dai parenti rischiano di morire di fame - racconta - Non ti danno nemmeno vestiti o intimo. Spesso eravamo noi detenute a mettere insieme cose utili da dare a chi non ne aveva, ce le toglievamo noi per non lasciare in difficoltà nessuna”. Ancora più angosciante la situazione del lavoro in carcere: “mansioni che dovrebbero essere pagate ma che se ti arrivano i soldi sono 20 o 30 euro al mese per lavorare 3 o 4 ore al giorno che spesso diventano molte di più e di volontariato. A questi bisogna togliere le trattenute e con il poco che rimane non si riesce manco a fare la spesa per comprare qualcosa da mangiare. E in tutto questo i garanti dei detenuti venivano lasciati alla porta - continua Carmela - Poi di psicologi ed educatori non se ne vede l’ombra. All’inizio c’erano delle guardie di una grande umanità, poi sono andate via e le ragazze che ci sono hanno iniziato a trattarci senza alcun rispetto”. “Dopo l’esperienza del carcere posso dirti che se una persona ama i familiari può tornare a casa e riprendersi in mano la sua vita - conclude Carmela - Ma chi non è abbastanza forte e non ha una bella famiglia accanto uscendo dal carcere trova solo buio”. “Essere donna e detenuta è molto peggio che essere uomini in carcere - spiega Pietro Ioia, garante dei detenuti del Comune di Napoli - Nei penitenziari femminili il sentimento per i figli, per i mariti, è molto più sentito rispetto agli uomini. C’è poca attenzione per le carceri femminili che invece dovrebbero avere più attenzione degli uomini. Io sono garante a Napoli dove non c’è carcere femminile e non posso accedere a quello di Pozzuoli. Ho già parlato tante volte con il sindaco di Pozzuoli per avere l’autorizzazione ad assistere anche le detenute a Pozzuoli. Soffro a non poter andare lì, soprattutto le donne hanno bisogno di supporto”. Le agenti sono solo il 10% della Polizia penitenziaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 marzo 2021 Le agenti di Polizia penitenziaria sono adibite in Istituto solo all’interno delle sezioni femminili. In altri Paesi europei ammesse nei reparti maschili. L’ingresso, fondamentale, di figure femminili nel personale, anche con ruoli di direzione e di comando della Polizia penitenziaria, ha avuto un impatto importante nel percorso verso una nuova e migliore attenzione al tema delle donne recluse affrontato nell’articolo precedente, anche per i suoi riflessi sulla detenzione in generale. Ma nel mondo della polizia penitenziaria c’è ancora tanta strada da fare per garantire e allargare i diritti delle donne che vi lavorano. La presenza di donne nel corpo di polizia penitenziaria è una novità introdotta appena 31 anni fa con la Legge 395 del 1990 e rappresenta oggi il 9% del personale tra gli agenti (il 7% tra i sovrintendenti e il 12% tra gli ispettori). Questa è una conseguenza anche della normativa vigente secondo cui “il personale del corpo di polizia penitenziaria da adibire ai servizi in Istituto all’interno delle sezioni deve essere dello stesso sesso dei detenuti”. E se consideriamo che la popolazione carceraria è costituita 2.252 detenute (dati aggiornati a fine febbraio) su un totale di 53.697 persone recluse, va da sé che la presenza maschile è quasi esclusiva. Ma è davvero quella vigente l’unica modalità possibile? In altri Paesi europei ammesse in servizio anche nelle sezioni maschili - Secondo il Coordinamento donne di polizia penitenziaria della Cgil non è così. Ci sono infatti esperienze europee (come quelle di Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Spagna, Portogallo, Regno Unito, Francia e Germania) in cui le donne della polizia penitenziaria sono ammesse anche nelle sezioni maschili, salvo che per le operazioni di perquisizione dei detenuti. Queste esperienze insegnano che aumentare il numero di donne nel corpo di polizia penitenziaria, se fatto con criterio, è possibile. C’è poi tutta la questione di come si lavora nelle carceri. Secondo la Cgil, un ambiente storicamente maschile ha mantenuto in sé una serie di aspetti organizzativi e pratici, oltre che psicologici e umani, che rendono difficile il clima per le donne poliziotte. La comunità penitenziaria non rispecchia nella composizione di genere la società esterna - Sul tema sono intervenuti anche Michela Romanello e Gennarino De Fazio, rispettivamente, Segretaria Nazionale con delega alle pari opportunità e Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “Le donne nella Polizia penitenziaria - dichiarano - rappresentano solo il 10% degli uomini; ciò, oltre a discriminare il genere femminile e a comprometterne le pari opportunità nel lavoro e nello sviluppo professionale, si ripercuote pesantemente anche sull’efficacia nel perseguimento della finalità rieducativa della pena, laddove la comunità penitenziaria non rispecchia nella composizione di genere la società esterna”. Romanello e De Fazio, denunciano: “Se è vero che il servizio all’interno delle sezioni detentive deve essere assicurato da operatori dello stesso genere dei detenuti ivi ristretti, sembra consequenziale che solo un numero proporzionato al fabbisogno effettivo di donne e uomini in quei servizi rimanga vincolato nella determinazione delle dotazioni organiche e nelle procedure concorsuali, rendendo disponibili i restanti posti senza alcuna distinzione, che si traduce in discriminazione, di genere”. Nodi della giustizia, Cartabia prova a mediare di Liana Milella La Repubblica, 9 marzo 2021 Oggi vertice al ministero sulle riforme dell’ex Guardasigilli Bonafede. La Guardasigilli ha convocato per le 9.30 i presidenti delle commissioni di Camera e Senato. La ministra vuole accelerare e affrontare la questione della diffamazione e del carcere per i giornalisti. Costa di Azione riapre il dossier intercettazioni. Giustizia e Recovery, un binomio strategico che necessita di una straordinaria accelerazione. Non solo per l’arrivo e l’utilizzo dei fondi Ue, ma anche perché siamo già a due terzi della legislatura e non possono più attendere le leggi “delega” sui tempi dei processi, sulla legge elettorale del Csm, sulle toghe in politica pena il concreto rischio di aver lavorato inutilmente. È per questo che la Guardasigilli Marta Cartabia spinge sull’acceleratore e convoca - alle 9 e trenta - un vertice in via Arenula. Presenti i suoi neo sottosegretari Sisto e Macina, ma soprattutto i presidenti e i capigruppo delle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Per la prima volta i “nemici” di sempre - Forza Italia, Lega e Azione da una parte; Pd, M5S, Italia viva, Leu dall’altra - dovranno confrontarsi e cercheranno di raggiungere una mediazione che accontenti tutti e regga al voto parlamentare su un argomento divisivo come la giustizia. Non sarà facile, perché fino a ieri questi partiti hanno soltanto litigato e si sono contrapposti duramente. Cartabia dovrà spendere tutta la sua autorevolezza di giurista di fama internazionale e di ex presidente della Consulta per ottenere un risultato concreto. Il “metodo” Cartabia e gli appuntamenti Due settimane fa, la prima uscita alla Camera della ministra ha fatto goal. L’ordine del giorno proposto da lei, che inseriva il tema della prescrizione nel contesto della riforma penale, ha messo d’accordo tutti (tranne qualche mugugno finale di Fi), ed è passato in aula con il decreto Milleproroghe. Ma adesso la partita è più complessa. E intorno allo stesso tavolo ci saranno falchi come Pierantonio Zanettin di Forza Italia, e lo stesso sottosegretario Francesco Paolo Sisto, e il senatore Giacomo Caliendo. O ancora Andrea Ostellari, il presidente leghista della commissione Giustizia del Senato, e il suo compagno di partito Simone Pillon. Nella maggioranza c’è Enrico Costa di Azione, le cui battaglie sulla giustizia lo hanno visto sempre in posizione fortemente critica sulle riforme dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Riforme che lo stesso M5S - con il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni - non è affatto disposto ad abbandonare. Modifiche sì - dice M5S - ma mirate, per migliorare, ma non per smontare i testi di Bonafede. Una partita politicamente molto difficile. Su cui ci vorrà tutta la capacità strategica di Cartabia affinata in nove anni da giudice alla Consulta. Una “scuola” dove s’impara a rispettare la Costituzione e a metterla in atto, per fare in modo che ogni provvedimento non abbia “palesi difetti” rispetto alla Carta. In una parola, leggi innanzitutto “a prova di Consulta”, politicamente frutto di una mediazione tra impostazioni giuridiche differenti. Cartabia ha già dimostrato abilità politica quando ha affrontato il rapporto con Bonafede e le sue leggi, nella formula ipotizzata per affrontarle, “discontinuità nella continuità”, visto che ci sono ovviamente le richieste pressanti di Forza Italia, Lega e Azione per cambiarle, ma nella maggioranza c’è anche M5S, ben deciso a non buttare alle ortiche il lavoro dell’ex Guardasigilli. Inutile immaginare, comunque, che tutto sarà “rose e fiori”. Come quando, al Senato, si dovrà affrontare la legge Zan sull’omofobia e in commissione farà la sua parte il leghista Pillon. Ci sono tre appuntamenti - a parte domani - dai quali si capirà fino in fondo come vuole muoversi la ministra. Lunedì 15 marzo la prima uscita in commissione Giustizia alla Camera. Giovedì 18 marzo la replica al Senato. E poi martedì 23 marzo quando, per la prima volta, Cartabia andrà al Csm. C’è già stato, in via Arenula, un incontro tra la Guardasigilli e il vice presidente di palazzo dei Marescialli David Ermini. Ma è lì, a piazza Indipendenza, che Cartabia dovrà affrontare lo scandalo della legislatura. Quel caso Palamara che ha cambiato la storia delle toghe e ha svelato che anche i giudici, quando si tratta di un incarico di prestigio (ma anche non) trafficano proprio come i politici. Di cosa si discuterà domani al ministero? L’agenda è fittissima. I protagonisti pronti anche a utilizzare il fioretto. Perché le questioni sul tavolo sono molte. Certamente quelle più “calde” sono alla Camera rispetto a quelle più “necessarie e urgenti” del Senato. A partire dalla riforma del processo civile, su cui Cartabia ha già fatto capire che non intende fare un decreto, come invece avrebbe voluto il Pd. Ma è a Montecitorio che ben due leggi delega di Bonafede vedono posizioni contrapposte. Innanzitutto la riforma del processo penale che contiene la magica formula dei tempi del processo, in tutto cinque oppure addirittura quattro anni, e di conseguenza la prescrizione, su cui Cartabia finora non ha fornito anticipazioni sulla possibile soluzione. Ma necessariamente dovrà farlo dopo aver sentito le soluzioni ipotizzate dai partner della sua maggioranza. Un rinvio della legge Bonafede in vigore? È una questione apertissima. La via che vorrebbero seguire Italia viva con Lucia Annibali, Costa, i forzisti, la Lega. Come lo sono questioni altrettanto rilevanti legate ai tempi del processo. Di cui si è già discusso in commissione alla Camera con dure contrapposizioni. Che succede, ad esempio, se il dibattimento non rispetta i tempi previsti? Secondo Bonafede la toga che lo gestisce finirà sotto azione disciplinare. Ma questo non bastava per l’ex opposizione, Forza Italia, la Lega, Costa. Pronto quest’ultimo a chiedere l’estinzione del processo stesso. Idem per le indagini preliminari se non si chiudono nei due anni previsti. Per l’ex Guardasigilli c’era la discovery degli atti, all’opposto Costa chiede la decadenza dell’indagine stessa, mentre l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, nella sua riforma del processo penale, aveva previsto l’avocazione da parte della procura generale. Una formula che però non ha funzionato, ma ha creato solo conflitti. Sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, sulla soluzione da dare alle candidature dei magistrati in politica, sulla stretta disciplinare, ma soprattutto sulla futura legge elettorale dello stesso Csm, il confronto si fa caldissimo tra chi vuole buttare via la proposta di Bonafede di un doppio turno per lanciare il sorteggio, del tutto inviso alle toghe. Insistenti finora, in commissione Giustizia alla Camera, le contrapposizioni tra chi, come il forzista Zanettin, vuole il sorteggio, e chi come il relatore Alfredo Bazoli del Pd è contrario. Quello del Csm è sicuramente il tema più delicato. Proprio perché alle sue spalle c’è il caso Palamara, quelle chat diventate ormai il libro mastro su cui decidere le promozioni. I tempi sono strettissimi, perché per il prossimo Csm si vota a settembre del 2022 e l’iter parlamentare di una legge delega invece è lungo. Il rischio potrebbe essere quello, alla fine, di dover ricorrere necessariamente a un decreto legge. Ma proprio rispetto al caso Palamara conta molto anche il capitolo dei poteri delle procure, non solo per fissare i criteri delle nomine, ma anche dell’organizzazione degli uffici rispetto ai poteri del “capo” nella scelta dei suoi vice, ma anche sull’indicazione dei criteri di priorità per definire quali reati trattare rispetto ad altri. Sul tavolo di Cartabia - inevitabilmente - cadrà ancora la questione delle intercettazioni. Ad Enrico Costa, uno dei nemici acerrimi della legge Orlando-Bonafede, non è certo passata inosservata la notizia che la Corte di giustizia Ue, trattando un caso dell’Estonia - vedi su Repubblica.it del 2 marzo l’articolo di Alessandro Longo “Dubbi sulle richieste dei pm sui tabulati telefonici per le indagini” - ha sollevato la questione che non sarebbe sufficiente la sola richiesta del pm per ottenere i tabulati di un indagato. Sarebbe necessario anche il vaglio del gip con un lasciapassare. E nella legge di Delegazione europea Costa sarebbe già pronto a presentare un emendamento per adeguare la legislazione italiana al dettato della Corte di giustizia. Si tratterebbe di una vera rivoluzione perché la richiesta dei tabulati attualmente rappresenta un passo necessario per molte indagini e richiede dei tempi rapidi, che certamente verrebbero allungati qualora anche il gip dovesse essere coinvolto. Ma Cartabia metterà in cima alla lista delle priorità il tema della giustizia civile. Perché il via libera a questa riforma è fondamentale per ottenere i 2,7 miliardi di euro del Recovery che permetteranno non solo assunzioni di personale, ma anche la completa digitalizzazione degli atti. Tuttavia la Guardasigilli ha detto no all’idea di trasformare in un decreto legge il testo della commissione Giustizia del Senato. Ipotesi che invece sembrava possibile con l’ex Bonafede. Allo stesso modo non sarà affrontata subito la complessa questione della magistratura onoraria, anche se da quel mondo si moltiplicano gli appelli delle 5mila toghe tuttora pagate a sentenza per ottenere i propri diritti, soprattutto dopo la sentenza di luglio della Corte di Giustizia del Lussemburgo, la sentenza di Napoli che di fatto parifica le toghe onorarie a quelle ordinarie, e infine le parole pronunciate dal presidente della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio. Ma proprio per via della Corte, Marta Cartabia vorrebbe agire con un po’ più di respiro, visto che i suoi ex colleghi dovranno affrontare un’ordinanza proprio sul rapporto tra il cursus di un magistrato onorario, che non ha fatto i concorsi, rispetto a quello di un giudice ordinario che invece dopo la laurea li ha superati. Nel 2020 è stato un giudice di pace di Lanciano a porre la questione della costituzionalità delle norme della riforma Orlando del 2017 che rende volontario e quindi occasionale il loro lavoro, anche se è fiscalmente assimilato a quello di un lavoratore autonomo. Sempre del 2020 è anche un’ordinanza del tribunale di Genova sulla misura dell’indennità riconosciuta ai giudici onorari. Quindi, secondo la ministra, prima di varare una legge sarebbe opportuno attendere queste due pronunce. Com’è noto, quello del carcere è un tema molto caro a Cartabia. E adesso c’è uno snodo che va affrontato. Come più volte ha detto al Senato il capogruppo del Pd in commissione Giustizia Franco Mirabelli, dopo il Covid, è giunto il momento di verificare se le misure che sono state prese per questa emergenza - ad esempio quelle di lasciare liberi coloro che hanno permessi di lavoro esterno oppure dei permessi premio - possono diventare misure a regime, quindi permanenti. Tema su cui la mediazione sarà complessa per la contrarietà del centrodestra. Ma, proprio come sostiene Mirabelli, il Covid ha consentito di verificare norme che, se hanno dato un buon esito, possono assumere un carattere di stabilita, per esempio aumentando la premialità per buona condotta che non è passata nei decreti Ristori. Infine ci sono tre temi nell’agenda della giustizia. Al primo posto uno che sta a cuore a Cartabia e che anche in questo caso lei eredita dalla Consulta, la diffamazione e il carcere per i giornalisti. La Corte ha dato un anno di tempo al Parlamento, ma a giugno - se le Camere restano inerti - dovrà decidere proprio com’è accaduto per il caso Cappato. Cartabia invece, adesso dall’altra parte, vorrebbe lanciare un input. Sul suicidio assistito è il presidente della Camera Roberto Fico e M5S che vorrebbero fare un passo avanti, in questo caso andando oltre la Consulta. Per chiudere un altro capitolo da sempre fonte di forti lacerazioni, quello della legge Zan sull’omotransfobia. Dopo il sì della Camera il Pd vorrebbe un rapido via libera dal Senato. Primo round sulla prescrizione fra Cartabia e i partiti di governo di Errico Novi Il Dubbio, 9 marzo 2021 Il pacchetto “garantista” di Enrico Costa contro la Maginot dei 5 stelle: da qui la “sintesi” per superare la norma Bonafede. Che, per la ministra, non può prevalere sulla Costituzione. Appuntamento ore 9,30. La riunione fra Marta Cartabia e i capigruppo Giustizia della maggioranza in programma per stamattina inizia abbastanza presto da lasciare a tutti il tempo di elaborarne il risultato. Anche se, assicurano da via Arenula, è fuori luogo pensare che una prima riunione al ministero possa produrre la formuletta magica per la giustizia. Piuttosto si definiranno un metodo di lavoro, una tempistica e un obiettivo. Innanzitutto, l’idea di un dialogo senza forzature che mettano singoli partiti all’angolo (compresi i 5 stelle rispetto alla prescrizione). Quindi, un orizzonte temporale chiaro: venti giorni per sciogliere i nodi principali, prescrizione inclusa, con il giro di boa delle linee programmatiche che Cartabia esporrà lunedì 15 alle commissioni Giustizia delle Camere e la data spartiacque del 29 marzo, entro cui i singoli partiti potranno presentare emendamenti al ddl penale. L’obiettivo, infine, dovrebbe essere ormai chiaro, almeno dal punto di vista della guardasigilli: lo ha chiarito l’ordine del giorno condiviso due giorni fa dalle forze di governo a Montecitorio su tempi del processo e prescrizione. Tutto ruota attorno a due articoli della Carta: il 27, che sancisce (anche) il fine rieducativo della pena, e il 111, che impone alla legge di assicurare la durata del processo. È la base del confronto al via da oggi tra Cartabia, i presidenti delle due commissioni Giustizia Mario Perantoni e Andrea Ostellari (pentastellato il primo, leghista il secondo) e i capigruppo di tutte le forze di governo nelle suddette commissioni. Ma la partita potrebbe risolversi in una dialettica bilaterale: da una parte il deputato di Azione Enrico Costa, il più tenace e creativo avversario della norma Bonafede, dall’altra il Movimento dell’ex ministro. Dai due estremi potrebbe venire una sintesi. Col Pd destinato in una prima fase a fare da arbitro. È vero che Walter Verini, responsabile democratico “ad interim” per la Giustizia, ha avanzato la proposta della prescrizione “per fasi”. Ma un partito tuttora alleato coi 5 stelle difficilmente può assumere l’iniziativa sulla norma voluta dall’ex guardasigilli. Può farlo invece Costa, che ha già pronto un articolato restyling dell’intera riforma del processo, destinata a diventare il veicolo dei correttivi sulla prescrizione. Il probabile punto di arrivo del confronto dipende anche dalla precisa volontà della guardasigilli di indicare nella funzione rieducativa della pena un criterio decisivo anche rispetto alla prescrizione. Non è possibile, si è convenuto nell’ordine del giorno proposto da Cartabia e condiviso da tutti, 5 stelle compresi, che la condanna venga eseguita quando sono trascorsi troppi anni dal fatto, perché nel frattempo la persona ritenuta colpevole sarebbe inevitabilmente “mutata”, e perché l’idea del recupero sociale non può essere tradita da un’esecuzione così temporalmente slegata dal reato. Basta e avanza per pronosticare il superamento della prescrizione di Bonafede: un limite massimo, all’eventuale durata parossistica di un processo va imposto. Anche perché il principio di dignità della persona, sotteso al fine rieducativo, è supremo rispetto ad altri legittimi interessi. E seppure in una logica di bilanciamento, non può essere sacrificato. Plausibile che il Movimento 5 Stelle suggerisca di porsi il problema solo qualora la più ampia riforma del processo non desse buon esito. Ma qui si farebbe sentire anche il punto di vista di magistrati che tuttora affiancano Cartabia nei ruoli tecnici del ministero, come il capo di gabinetto Raffaele Piccirillo. Che Bonafede aveva voluto a via Arenula ma che non ha mai nascosto il rischio di un vulnus connesso alla prescrizione per eventuali malcapitati condannati in primo grado e stritolati all’infinito da macchina processuale inefficiente. Sarebbe assurdo pensare che lo Stato se ne lavi le mani e dica: proprio a voi è andata male, siete stati sfortunati, ci dispiace. Nel confronto di maggioranza interverrà inevitabilmente il progetto di Costa: molto articolato, arricchito dal recupero di diverse proposte della commissione Fiorella e in generale così connotato in una chiave garantista opposta a quella dei 5 stelle da obbligarli a una mediazione. Tanto per fare un esempio: nel suo pacchetto Costa prevede la decadenza del procedimento non solo se una fase del giudizio dura troppo, ma persino quando il pm non esercita l’azione penale, non chiede cioè, scaduto il termine per le indagini, né il processo né l’archiviazione. Non solo: si integra la già prevista (nel ddl penale) possibilità per l’imputato di chiedere la conclusione dell’appello entro 3 mesi, in modo che, una volta trascorso addirittura un anno senza che si arrivi alla sentenza di secondo grado, la prescrizione bloccata (in base alla norma Bonafede) dopo la pronuncia del tribunale ricominci a decorrere. Avrà gioco facile, il fronte garantista, nel far notare ai 5 stelle che sono stati sempre loro a dirsi certi delle virtù taumaturgiche del ddl penale (scritto sempre da Bonafede), e che dunque non dovrebbero temere l’impunità per alcuno. Qualunque ulteriore replica dovrebbe a quel punto riferirsi necessariamente a un preteso primato della “certezza della pena” sul giusto processo. Una forzatura che la stessa Cartabia non potrebbe sopportare, e che non potrebbe impedire l’attenuazione degli effetti parossistici della norma Bonafede. Vergognoso mostrare gli arrestati in manette, anche se hanno confessato di Giuseppe Belcastro Il Dubbio, 9 marzo 2021 I media cannibali e l’omicidio di Ilenia Fabbri. La ministra Cartabia intervenga per fermare lo scempio. Signore e signori va ora in onda la vergogna a reti unificate. Per l’ennesima volta, calpestando in un sol colpo la norma e i diritti che si dovrebbero tutelare, due procedure di arresto vengono recitate a favore di telecamera. Claudio Nanni e Pierluigi Barbieri, accusati dell’omicidio di Ilenia Fabbri, tratti in arresto dalla Polizia di Stato nella mattinata del 4 marzo, subiscono quella che gli anglosassoni definiscono la perp walk o anche, appunto, walk of shame, passeggiata della vergogna. Con una sapiente regia, fatta di tagli perfetti, cambi inquadratura, montaggi professionali, insomma una post-produzione degna delle sale cinematografiche, tutta l’operazione di arresto viene immortalata dalle telecamere della Polizia di Stato: dal momento in cui le volanti lasciano la caserma col favore delle tenebre, fino al momento del ritorno all’ovile, con le prede in ceppi; prede passate con la dovuta lentezza sotto le luci della ribalta, appunto in manette, affinché sia chiaro che essi sono i cattivi e, al contempo, quanto sia bravo lo Stato che li acciuffa. Che poi il codice di procedura penale, all’art. 114, vieti espressamente “la pubblicazione dell’immagine di persona privata della liberta? personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica”; che i due siano al momento solo accusati dell’atroce delitto (ancorché, dopo gli arresti, uno di essi abbia confessato) sebbene neanche la condanna legittimerebbe questo sopruso; che addirittura la diffusione di questa gogna sia potenzialmente deleteria per il futuro esercizio della giurisdizione avendo la vocazione ad inquinarla col preconcetto, come l’Unione delle Camere Penali italiane va dicendo da tempo, tutto ciò, a quanto pare, non importa. Eppure sono passati quasi 30 anni da quando, il 5 luglio del 1992, l’Unità dava spazio a una circolare di Claudio Martelli, allora Ministro della Giustizia (e anche un pò della Grazia) che li censurava come “comportamenti che rivelano la mancanza di un elementare senso di rispetto per la dignità della persona”. Viene da dire che sono passati invano se, non più tardi di qualche mese fa, un altro ministro, Bonafede, il petto gonfio di orgoglio, sebbene quella volta senza la giubba blu della Polizia Penitenziaria, sorrideva a favore di obiettivo per l’arrivo sul suolo patrio di un pericoloso criminale estradato, coi ferri ai polsi e circondato da una ricca scorta, casomai avesse in animo di fuggire sulla pista dell’aeroporto. E se l’ha fatto il Ministro, insomma, perché non dovrebbe farlo la Polizia? Se non ci inganniamo però, il tempo del clamore mediatico che corrompe animi e processi, il tempo della violazione sprezzante delle norme di legge e del rispetto per l’essere umano - che è poi ciò che distingue lo stato dal delinquente - è passato, o sta passando. Se non ci inganniamo, lo spettacolo indecente di queste ore non dovrebbe piacere stavolta nemmeno dalle parti di via Arenula. Intervenga, ministra Cartabia, e ponga fine a questo scempio; ché il paese di Beccaria non lo merita. I senatori Pd a Cartabia: “Basta con le intercettazioni agli avvocati” di Valentina Stella Il Dubbio, 9 marzo 2021 Monica Cirinnà, Anna Rossomando e Franco Mirabelli hanno presentato un’interrogazione alla ministra della Giustizia per chiedere che vengano interrotte le intercettazioni dei dialoghi tra legali e clienti. Stop alle intercettazioni dei dialoghi tra avvocati e assistiti: lo hanno chiesto i senatori del Partito Democratico Monica Cirinnà, Anna Rossomando e Franco Mirabelli attraverso una interrogazione a risposta orale al Ministro della Giustizia, Marta Cartabia. Lo spunto, come si legge nel documento di sindacato ispettivo, è arrivato da una comunicato della Camera penale di Roma dello scorso 24 febbraio, nel quale i penalisti hanno fortemente stigmatizzato il “modus operandi che dimostra ancora una volta come le Procure abbiano in spregio la norma dell’art. 103 c.p.p.”, il cui comma 5 prevede che “non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari, né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite”. La nuova riforma delle intercettazioni ha fatto qualche passo avanti quando ha previsto il divieto di trascrizione, anche in forma riassuntiva, delle comunicazioni con il difensore casualmente captate. Eppure la non distruzione automatica delle stesse - in linea teorica - non impedirebbe al pubblico ministero di ascoltare e venire a conoscenza della linea difensiva. Pertanto, scrivono i tre nell’interrogazione, “al di fuori del caso in cui l’avvocato sia soggetto a intercettazioni nella qualità di indagato per reati in relazione ai quali l’uso di tale strumento di indagine sia consentito, è dunque necessario assicurare l’inviolabilità delle comunicazioni tra avvocato e cliente”. I senatori Cirinnà, Rossomando e Mirabelli hanno chiesto quindi al Guardasigilli “se non ritenga opportuno intraprendere iniziative per accertare che sia sempre garantita la riservatezza delle conversazioni tra difensore e indagato e dunque la piena tutela del diritto inviolabile di difesa, costituzionalmente garantito in ogni fase del procedimento penale”. Proprio alla senatrice Cirinnà chiediamo se come partito non intendano intraprendere una iniziativa politica per migliorare ulteriormente la riforma: “l’interrogazione - ci spiega il Segretario della Commissione Giustizia - serve per capire cosa pensi e intenda fare in merito la nostra nuova Ministra della Giustizia. L’azione politica potrebbe essere della stessa Ministra, magari interessando anche le commissioni competenti. Noi al momento ci troviamo in una maggioranza molto larga e molto scomoda. Ma, come Partito Democratico, dobbiamo fortemente connotare la nostra azione ad un ritorno pieno del garantismo. E questo percorso passa attraverso segnali concreti: questo è un segnale concreto sull’inviolabilità del diritto di difesa”. Però la convivenza con i Cinque Stelle potrebbe convertire questo obiettivo in velleità: “la convivenza con i Cinque Stelle - prosegue Cirinnà - l’avevamo già con il Governo Conte. Noi dobbiamo essere in grado di far proseguire al Movimento Cinque Stelle questa trasformazione volta ad abbracciare pienamente tutti i canoni della democrazia previsti dalla nostra Costituzione, tra cui il diritto di difesa. Loro devono in qualche modo abbandonare la visione giustizialista e devono aiutare tutti noi a frenare, a contenere e a regolare in qualche modo questa onnipotenza che troppe Procure hanno in questo periodo e non solo. Su questo si può ricostruire un accordo di maggioranza, almeno della vecchia maggioranza. Io ho in testa di fare questo, spero che in tanti mi seguano”. Il casus belli, come vi avevamo raccontato, all’origine del comunicato della Camera Penale di Roma ha riguardato l’avvocato Piergiorgio Manca, 75 anni, uno dei più noti penalisti del foro romano, indagato dalla Procura di Roma con l’accusa di associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti. Il suo legale, l’avvocato Cinzia Gauttieri, proprio al Dubbio criticò il metodo degli inquirenti, “trattandosi di una imputazione strumentale all’utilizzo di intercettazioni telefoniche e ambientali di un difensore che trovano giustificazione solo con la contestazione di reati contenuti in un preciso catalogo. Si tratta di una concezione distorta della figura del difensore perché lo identifica con il suo assistito e con il reato da questo commesso”. Prima di questo caso, c’era stato quello dell’avvocato Roberta Boccadamo, difensore di Giovanni Castellucci, coinvolto nell’inchiesta sul crollo del Ponte Morandi a Genova: in quel caso l’intercettazione fu addirittura trascritta, utilizzata dal gip, e giustificata dalla non veritiera circostanza per cui la Boccadamo fosse la compagna del suo assistito. Non dimentichiamo anche quanto accaduto all’avvocato Francesco Mazza, sempre del foro di Roma, che si era ritrovato citato in un’informativa di cui era entrato in possesso dopo la notifica della chiusura delle indagini preliminari a carico di tre suoi assistiti. Anni prima era stato l’avvocato Giosuè Naso a denunciare di essere stato intercettato e addirittura pedinato insieme ai suoi clienti nell’ambito dell’inchiesta (ex) Mafia Capitale, condotta dalla Procura di Roma. “Niente tabulati in procura senza l’ok del giudice: ora l’Italia si adegui all’Ue” di Simona Musco Il Dubbio, 9 marzo 2021 Intervista a Giorgio Spangher: “Per autorizzare l’acquisizione dei tabulati serve un’autorizzazione”. La Corte Ue dice basta ai pm “spioni”. La semplice richiesta del pm non basta: per acquisire i tabulati è necessaria l’autorizzazione di un giudice terzo. Potrebbe rivoluzionare il modo di fare indagini in Italia la decisione della Corte di Giustizia europea, che lo scorso 2 marzo si è pronunciata negativamente sulle norme dell’Estonia, stabilendo la necessità di un “controllo indipendente” che preceda qualsiasi accesso ai dati personali, salvo situazioni di urgenza debitamente giustificate, “nel qual caso il controllo deve avvenire entro termini brevi”. La decisione, spiega al Dubbio Giorgio Spangher, professore emerito di diritto processuale penale alla “Sapienza”, richiede ora un adeguamento della legislazione italiana. Perché anche se la sentenza riguarda l’Estonia, i principi della Corte si applicano a tutti i Paesi della Ue. E le prove acquisite con tale metodo, dunque, rischiano di essere illegittime. Professore, la sentenza apre una discussione interessante dal punto di vista delle garanzie processuali. Ce la spiega? La Corte di Giustizia, interpretando alcuni articoli del Trattato di Nizza e, soprattutto, alcune direttive europee in tema di tutela della privacy e dei dati personali, si è chiesta entro quali limiti siano acquisibili e da chi i dati esterni del traffico telefonico. Quei dati permettono di sapere quante volte ho parlato al telefono e con chi, dove mi trovassi, dove mi sono spostato eccetera. Dati esterni che dunque descrivono, in qualche modo, la mia persona e i miei comportamenti e che possono essere utilizzati in funzione di prova penale. Nel caso estone, la sentenza della Corte di Giustizia fissa alcuni principi. A partire dal fatto che non può essere il pubblico ministero a disporre l’acquisizione di tali dati. Per quale motivo? Per quanto il pm sia un organo imparziale e possa svolgere anche attività a favore dell’imputato, ciò non gli attribuisce quel ruolo di garanzia e di terzietà che invece è necessario in materia di tutela dei dati personali. Accedere ai tabulati significa conoscere tutto di una persona e il pm non è ritenuto, stando a questa sentenza, organo di garanzia. Ciò in quanto, secondo la Corte, l’autorità incaricata di tale controllo non deve essere coinvolta nella conduzione dell’indagine penale, come invece lo è il pubblico ministero. Deve essere quindi un organo indipendente e nel caso del processo penale non può che essere un giudice. Un altro aspetto è: si può fare questa attività di acquisizione dei dati per tutti i reati? Qui entra in campo la logica del bilanciamento. Noi abbiamo diritti individuali, come il diritto alla privacy, che prevale sull’esigenza di accertamento di reati a condizione che ci sia una proporzione. Ovvero: io ho i miei diritti, ma anche lo Stato che vuole accertare dei reati ha i suoi diritti. Quindi, quando si tratta di gravi reati, come criminalità organizzata, terrorismo, eccetera, le esigenze collettive prevalgono sui diritti individuali. Ma se si tratta di reati minori, allora prevale il mio diritto alla privacy e lo Stato deve trovare altri strumenti per accertare eventuali responsabilità. C’è, quindi, un principio di proporzione nell’uso dello strumento ed è necessario capire per quali reati, quali fini, sulla base di quale presupposti e per quali soggetti tali dati vengano acquisiti. Inoltre, un’altra cosa che emerge è che il principio enunciato dalla Corte va rispettato a prescindere dalla quantità di dati acquisita o dal periodo preso in considerazione. Come funziona attualmente nel nostro Paese? Nel 1998 le Sezioni Unite avevano stabilito che, effettivamente, per acquisire i tabulati c’era bisogno dell’autorizzazione di un giudice. Nel 2000, invece, le cose sono cambiate: da allora il pm può farlo senza passare da un giudice e può farlo per tutti i reati. Naturalmente ci sono sentenze che fissano qualche limite e qualche criterio, però quello che resta è che non c’è una soglia di legge, non c’è una richiesta al giudice, non c’è nulla di ciò che la sentenza richiede con riferimento all’Estonia. E ora cosa cambia per noi? Questa sentenza stabilisce che acquisire i tabulati senza un’autorizzazione terza significa produrre materiale inutilizzabile. È una questione che riguarda l’oggetto della prova, perché quel materiale entra nel processo. Che ne facciamo di questa sentenza? Probabilmente non sarà di immediata applicazione per l’Italia, perché a differenza della giurisprudenza Cedu le sentenze della Corte di Giustizia hanno una portata diversa. Riguardano il caso concreto. Ci sono due alternative: l’Italia, per un verso, dovrebbe cambiare la legge, adeguandosi agli orientamenti della Corte di Giustizia. Quella è un’interpretazione del diritto europeo e non dobbiamo dimenticare che abbiamo una sovranità limitata, abbiamo ceduto una porzione della nostra sovranità all’Europa. Ci sono delle norme che tutelano la privacy e la riservatezza che sono contenute dentro al Trattato di Nizza. Quindi a questo punto quella giurisprudenza, quelle linee che sono state individuate, valgono anche per noi. Se non dovesse intervenire il legislatore, o comunque prima che intervenga, l’alternativa è che qualcuno sollevi una questione di legittimità costituzionale in violazione dell’articolo 117, che ricorda i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. E si potrebbe chiedere l’applicazione di quella norma, quanto meno per le attività future. Quale crede che sia la soluzione migliore? A mio parere sarebbe opportuno un intervento del Parlamento, in quanto al momento ci troviamo in una condizione di violazione del Trattato di Nizza. Però per risolvere il problema è necessario capire quale sia la soglia di gravità che consente di acquisire i tabulati. Parlare di criminalità organizzata o terrorismo significa parlare di categorie. E come si potrebbe fare? Probabilmente applicando le norme delle intercettazioni anche ai tabulati. Ovvero: i reati che per i quali sono consentite le intercettazioni saranno quelli per i quali sarà possibile richiedere i tabulati. Si porrà un problema sulla legittimità delle attività fatte prima della sentenza della Corte... L’attività svolta prima della sentenza secondo quella modalità non è contra legem, perché era previsto dalle norme. Ma da domani bisognerà proporre una modifica sul punto. Se un’eventuale questione di legittimità venisse accolta, probabilmente potrebbe travolgere quanto fatto prima. Ma c’è bisogno o di una legge o di una sentenza della Corte costituzionale che ne dichiari l’illegalità. E poi c’è anche un’altra questione da porre: come si applica questa norma al procedimento di prevenzione? E all’attività di intelligence? Sono tutte domande alle quali dobbiamo trovare una risposta. Quei collaboratori di giustizia diventati “consulenti a vita” delle procure di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 marzo 2021 Dal rigore del metodo Falcone all’uso indistinto del pentitismo per combattere i clan mafiosi: funzionamento (e limiti) del programma di protezione testimoni. I criteri del programma di protezione dei collaboratori di giustizia sono fissati da una legge del 1991 scritta su impulso di Giovanni Falcone, che allora era direttore generale degli affari penali del Ministero della giustizia. Con il tempo, poi, il parlamento ha affinato lo strumento più volte, soprattutto sulla distinzione tra chi si pente dopo aver fatto parte dei clan e chi è vittima o testimone dei fatti e decide di parlare. Le dichiarazioni agli inquirenti dei collaboratori di giustizia, ad esempio, devono avvenire entro 180 giorni dalla dichiarazione di volontà di collaborare. Come funziona la protezione? La prima fase è il trasferimento del “pentito” e dei suoi familiari, che viene allontanato dalla sua zona di origine e residenza. La seconda fase è il trapianto del nucleo familiare in una nuova realtà sociale dove possono sorgere problemi di rapporti umani, di amicizie, di parenti abbandonati (sindrome da sradicamento). I benefici possono riguardare il lavoro, la scuola, l’arredamento e tutto il necessario per una vita decente, a cui si aggiungono i benefici carcerari se il collaboratore deve scontare la pena. Il contributo mensile ai pentiti, che si aggiunge alla disponibilità di un appartamento dignitoso, è parametrato all’indice Istat sul costo della vita, alla misura degli assegni sociale e via discorrendo. Un patto tra lo Stato e il pentito - In sostanza la collaborazione si fonda su un patto tra lo Stato ed il pentito. Una trattativa: tu fai i nomi e noi ti garantiamo una vita decente. Se da una parte la figura del pentito è sacrosanta per la lotta alla mafia, dall’altra si rischia di trasformarlo in una sorta di “consulente” a vita. Questo perché i pentiti sono sempre considerati imputati di reato connesso. Ecco perché, anche nei processi su episodi recenti, ci ritroviamo pentiti “storici” che non possono conoscere i fatti attuali. Può anche accadere che lo Stato possa diventare inconsapevolmente il braccio armato della lotta tra clan. Non di rado accade che i pentiti siano una testa di legno di un clan che li usa per smantellare i loro rivali senza ricorrere allo spargimento di sangue. Può anche accadere che nel corso del tempo ci siano pentiti che ricordino improvvisamente degli eventi; a volte gli eventi si incastrano con i teoremi giudiziari del momento. Il “Nano” e gli altri e la strage di Via D’Amelio - In particolare, sulla strage di via d’Amelio, diversi pentiti si sarebbero inseriti nel raccontare le loro verità solo dopo che erano emersi nuovi nomi nelle accuse degli inquirenti. Tra questi, figurerebbero anche pentiti che non erano di Cosa Nostra, come Nino Lo Giudice, che un tempo era a capo di un clan di Reggio Calabria. Il “Nano”, così era soprannominato, sapeva, ma non lo aveva mai detto prima, che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato il poliziotto Giovanni Aiello, uomo da qualche anno morto d’infarto, su cui si era concentrato l’imbuto dei misteri. Glielo avrebbe confidato anni prima Pietro Scotto, quando erano insieme in carcere all’Asinara. Non solo, sempre a dire del “Nano”, anni dopo lo stesso Aiello avrebbe pure partecipato all’omicidio dell’agente Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio nel 1989. Le sue dichiarazioni, rese a Reggio Calabria, furono trasmesse alle Procure siciliane. Inutile dire che parliamo di un pentito che in diverse occasioni è risultato inattendibile, parla e ritratta a seconda di come tira il vento. Quei pentiti che il più delle volte hanno l’attitudine a compiacere la pubblica accusa - Ma ogni tanto c’è anche un giudice a Berlino. Nelle motivazioni della sentenza del 2013, che assolse l’ex Ros Mario Mori e Mario Obinu nel processo clone sulla Trattativa, il giudice Mario Fontana puntò il dito contro quei collaboratori di giustizia, che il più delle volte hanno l’attitudine a compiacere la pubblica accusa. Il giudice parla di cautela nelle valutazioni, perché “non consentono, in via astratta, di escludere che le indicazioni fornite siano state indotte dalla volontà di compiacere gli inquirenti, in dipendenza della particolare importanza che alle stesse indicazioni sarebbe stata attribuita”. La notazione che si legge nelle motivazioni vale, in particolare, per il pentito Giovanni Brusca “nelle cui dichiarazioni si devono registrare aggiornamenti inediti, seguiti a una nuova inchiesta giudiziaria promossa nei suoi confronti, e svariate oscillazioni, concernenti indicazioni di notevole rilievo, che potrebbero essere state influenzate da improprie interferenze inquinanti, collegate a notizie di stampa relative a pregresse acquisizioni dibattimentali”. Non solo Fontana, ma pure Marina Petruzzella che nelle motivazioni dell’assoluzione di primo grado dell’ex ministro Calogero Mannino (assoluzione - dove smontata il teorema trattativa stato mafia - confermata in cassazione), scrisse che le interpretazioni del collaboratore di giustizia erano state “suggerite dalle molteplici sollecitazioni, ricevute nel corso di interrogativi, a volte anche molto sofisticati, degli inquirenti e dalle contestazioni fattegli durante i suoi esami”. Lo Stato magnanimo con Giovanni Brusca - Eppure con Brusca, proprio perché pentito, lo Stato è stato magnanimo. Ha sciolto nell’acido un bambino, Giuseppe Di Matteo, per zittire il padre che pentito lo era diventato prima di lui. Ha “scannato” tante persone da non ricordare l’esatto numero delle vittime. Forse cento, addirittura centocinquanta. Ha schiacciato il telecomando dando il via all’inferno di Capaci. Niente ergastolo per tutto questo, ma una condanna a trent’anni che finirà di scontare il prossimo novembre nel 2021 e una sfilza di permessi, un’ottantina, alcuni dei quali per trascorrere le festività a casa. Non si saprà mai quanta sincerità ci sia nella richiesta di perdono, peraltro tardiva, rivolta da Brusca ai parenti delle vittime che ha ammazzato. Certe, invece, sono le contraddizioni che hanno da sempre accompagnato i suoi racconti. Il sospetto che dica ciò che i PM vogliono sentirsi dire è abbastanza concreto. Tanti pentiti rischiano di comportarsi così. Il pentitismo è importante, ma pochi Pm seguono le orme di Falcone: vagliare le dichiarazioni dei pentiti, senza assecondarli. E se raccontano menzogne, inquisirli per calunnia. Caserta. Fermato per rapina, 16enne suicida in Comunità per minori di Viviana Lanza Il Riformista, 9 marzo 2021 È stato trovato morto nel bagno della comunità dove era stato collocato in seguito a un tentativo di rapina. La vittima è un ragazzo di 16 anni, originario di Boscoreale, comune in provincia di Napoli, deceduto dopo essersi impiccato nei locali della comunità di Villa di Briano (Caserta). Accanto al corpo del giovane, ritrovato in un bagno della struttura, è stato trovato un biglietto. Inutili i soccorsi da parte dei sanitari del 118. Sul posto anche i carabinieri della Compagnia di Aversa che stanno svolgendo le indagini. Disposta dal magistrato di turno della procura di Napoli nord l’autopsia. Ogni anno in Campania si contano in media 5mila ragazzi, tra i 12 e i 18 anni, identificati e riaffidati ai genitori o condotti in comunità di recupero per episodi di disagio e devianza, atti di bullismo, risse. Circa 250 sono quelli che affrontano percorsi rieducativi, 150 quelli affidati a comunità, circa 70 quelli detenuti nei centri di accoglienza per minori per accuse relative a reati penalmente rilevanti. Sono un mondo, delicato e complesso al tempo stesso. Dietro ognuno di loro c’è una diversa storia di povertà e disagio, di abbandono e sofferenza, di criminalità e mancanza di alternative. Nel 40% dei casi hanno abbandonato la scuola troppo in fretta e così la povertà culturale diventa uno dei fattori che alimenta il fenomeno della criminalità minorile. L’altro fattore è la camorra, presente e diffusa anche nelle vite dei più piccoli attraverso legami familiari o amicizie di quartiere. A rischio sono quindi i figli dei camorristi, i figli degli affiliati, i boss in erba, i giovani che si armano per fare stese e rapine a mano armata. A queste realtà se ne affiancano però anche altre, non meno pericolose: sono le cosiddette baby gang, quelli della violenza anche senza motivo, degli accoltellanti e delle risse in strada, delle aggressioni a tutte le ore del giorno ad opera di ragazzini che spesso non hanno nemmeno l’età imputabile. Foggia. Un anno dalla folle evasione dal carcere, fuggirono 72 detenuti di Francesco Pesante immediato.net, 9 marzo 2021 Ecco qual è la situazione attuale del penitenziario. Tutti catturati e trasferiti in poche settimane tranne Aghilar, preso quasi 5 mesi dopo. Intanto, non c’è più il reparto di “Alta Sicurezza” per i prigionieri “in odore di mafia”. Resta il sovraffollamento. Un anno dalla folle fuga dal carcere di Foggia. Il 9 marzo 2020, 72 detenuti uscirono dalla porta principale del penitenziario al termine di una rivolta scoppiata per l’emergenza Covid. Il tutto a poche ore dal lockdown che fermò l’Italia intera. Scene da film, riprese dai mass media di tutto il mondo. Molti prigionieri rientrarono in cella il giorno stesso, altri rapinarono alcuni automobilisti per fuggire lontano dalla città. Tra gli evasi anche personaggi di spicco della criminalità locale, ritenuti contigui ai clan della provincia di Foggia. Alcuni di loro vennero raggiunti e arrestati dalla squadra mobile il 14 aprile successivo in una cava di Apricena. Si erano dati alla latitanza e al momento del blitz stavano partecipando ad un vero e proprio summit malavitoso. Stessa sorte per gli altri evasi, riacciuffati a stretto giro e trasferiti nelle case circondariali di tutta Italia. Cristoforo Aghilar fu l’ultimo ad essere catturato; il killer di Orta Nova venne arrestato dai carabinieri il 29 luglio, mentre si nascondeva in un casolare nella Bat. Fu un fantasma per quasi cinque mesi. Ma qual è la situazione oggi nel carcere di Foggia? Prima della “grande fuga”, c’era un sovraffollamento record, oltre 600 detenuti rispetto ai 365 posti regolamentari. Oggi i carcerati, anche per via dei trasferimenti post evasione, sono poco più di 500. Una situazione non facile ma meno allarmante rispetto a quella di un anno fa. Scarseggiano, però, i poliziotti penitenziari, dovrebbero essercene 261, ce ne sono circa la metà. In un 2020 contrassegnato dalla pandemia, il carcere di Foggia ha anche perso il reparto di “Alta Sicurezza”, chiuso ancor prima della maxi evasione. L’Alta Sicurezza, detta “As”, era riservata ai detenuti “in odore di mafia”; a Foggia erano presenti alcune decine di ristretti ritenuti contigui ai clan locali. Negli anni, l’Alta Sicurezza di via delle Casermette ha ospitato elementi di rilievo della criminalità di Capitanata. In quelle celle, infatti, transitarono esponenti di vertice della Società Foggiana e della mafia garganica e sanseverese, tutti trasferiti altrove. Ma anche tra i “detenuti comuni” si celavano - e forse si celano ancora - uomini vicini alla malavita organizzata, come quelli arrestati nella cava di Apricena. Personaggi che non avendo condanne per mafia, né accuse di reati aggravati dalla mafiosità, vengono collocati insieme a tutti gli altri. Dal 9 marzo 2020 ad oggi si sono susseguite le proteste dei sindacati e i sopralluoghi dei vertici del mondo penitenziario italiano per l’annoso problema del sovraffollamento. Lo scorso ottobre il sindacato della penitenziaria Spp è tornato a chiedere interventi seri ed immediati: “È necessario riportare i numeri a quelle che sono le capienze massime della struttura”, aveva detto il rappresentante Di Giacomo. Ma nonostante gli appelli, la città di Foggia continua a rappresentare una delle realtà carcerarie più complesse di tutto il paese. Napoli. Le trans a Poggioreale: “Risposte contro la segregazione, basta doppia reclusione” di Viviana Lanza Il Riformista, 9 marzo 2021 Gli ultimi dati forniti dal Dap parlano di 58 persone transessuali detenute in Italia, di cui 8 in Campania. Il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello oggi è stato a trovare i Transessuali ristretti al piano terra del reparto Roma di Poggioreale, regalando loro delle mimose. “Nelle carceri italiane le persone trans detenute sono purtroppo trattate ancora come un fenomeno clandestino, di fronte a cui il Dap non è riuscito a fornire risposte univoche, creando forme di segregazione di tali individui o relegandoli in reparti precauzionali, insieme a sex offenders, collaboratori di giustizia o ex appartenenti delle Forze dell’ordine, con cui non condividono vissuto e bisogni. Solo nelle carceri di Napoli, Roma, Belluno, Firenze e Rimini infatti sono previste sezioni dedicate specificamente alle persone transessuali detenute e solo nel carcere di Rimini queste sono sotto la vigilanza di personale femminile”. “Le condizioni critiche della detenzione sono esasperate dalla separazione cui tali persone sono sottoposte, non potendo partecipare realmente ai percorsi trattamentali e alle attività rieducative previste dagli istituti. Da ciò consegue un disagio di tipo psichico, dovuto spesso anche alla mancanza di relazioni familiari esterne, oltre che fisico per l’impossibilità di rivolgersi a medici specializzati”, così il garante Ciambriello all’uscita di Poggioreale. Infine il garante campano dei detenuti lancia un allarme denuncia: “Nelle persone trans diviene ancora più impossibile declinare qualsiasi forma di affettività e sessualità. È chiaro che ciò si risolva in una forte discriminazione, che viola il principio di uguaglianza previsto dalla nostra Costituzione, oltre che l’imprescindibile obbligo rieducativo previsto dall’articolo 27. Occore far di più, per evitare una doppia reclusione. Non per il futuro prossimo, ma per il nostro sobbollente presente”. Mercoledì Ciambriello visiterà il carcere femminile di Pozzuoli. Padova. Consigliere comunale vota Matteo Messina Denaro come Garante dei detenuti Il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2021 Il sindaco: “Fatto gravissimo”. Il caso in procura. L’episodio è avvenuto mercoledì scorso, durante la votazione a scrutinio segreto indetta per nominare il nuovo garante. Il sindaco Giordani: “La Giunta intende mettere in campo tutte le azioni presso tutte le sedi competenti per andare a fondo di questa ignobile vicenda”. È finita tra lo sconcerto generale la seduta del consiglio comunale di Padova indetta mercoledì scorso per nominare il nuovo garante dei detenuti della città. Su 22 preferenze necessarie per l’elezione, il principale candidato ne ha incassate 21. Quella decisiva, e che ha fatto saltare la votazione, è andata invece a Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa nostra condannato a più ergastoli e ricercato dagli anni Novanta. L’identità del consigliere comunale che ha indicato il nome del superlatitante non è nota, visto che la votazione è avvenuta a scrutinio segreto, ma il caso è stato duramente condannato in modo bipartisan dall’assemblea. E ora rischia di finire direttamente in procura. “La Giunta intende mettere in campo tutte le azioni presso tutte le sedi competenti per andare a fondo di questa ignobile vicenda”, ha attaccato il sindaco di Padova Sergio Giordani, che parla di “fatto gravissimo” non derubricabile a “goliardata”. “Quanto accaduto in Consiglio Comunale mi ha profondamente scosso”, ha aggiunto il primo cittadino. “Padova è una città che si batte contro tutte le mafie, lo abbiamo testimoniato più volte e continueremo a farlo con tutta la forza necessaria. Non capisco come sia possibile che a un consigliere comunale, un rappresentante dei cittadini, passi per la mente di scrivere sulla scheda di un voto a scrutinio segreto il nome di un mafioso superlatitante”. Giordani lancia quindi un appello: “Chiunque sia stato, abbia un sussulto di dignità e non si consegni a quell’omertà, elemento triste e cardine su cui si basano proprio il comportamento mafioso e la prevaricazione - conclude - si autodenunci, chieda scusa e contestualmente dia le dimissioni immediate”. Il caso tra l’altro è scoppiato nella stessa città che per anni ha ospitato in una comunità il figlio del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. Presto la vicenda potrebbe essere discussa anche in commissione parlamentare Antimafia. “Presenterò un’interrogazione ai ministri dell’Interno e della Giustizia per chiedere di fare piena luce sull’episodio e l’allontanamento dal Consiglio Comunale di Padova del responsabile di questo gesto”, ha annunciato il deputato Pd Nicola Pellicani, membro della commissione. Nelle scorse ore è intervenuto anche il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà Mauro Palma: “Indipendentemente dall’esito della votazione su cui, come è ovvio, non spetta al Garante nazionale esprimersi - si legge in una nota - l’indicazione da parte di un consigliere del nome di un noto boss mafioso costituisce una grave offesa non soltanto al Consiglio, ma anche al lavoro di tutti i Garanti che operano per la tutela dei diritti di ogni persona nel fermo vincolo della lotta a ogni forma di criminalità e del sostegno a chi nel nostro Paese opera per estirpare la dura realtà delle organizzazioni criminali”. L’indicazione di Messina Denaro, conclude, rappresenta “un’inaccettabile offesa a tutte le Istituzioni della nostra democrazia”. Padova. Scandalo al carcere Due Palazzi: droga e telefoni cellulari, in 12 finiscono indagati di Marco Aldighieri Il Gazzettino, 9 marzo 2021 La Casa di reclusione Due Palazzi è teatro dell’ennesimo scandalo: ancora una volta i carcerati hanno introdotto nel penitenziario droga e telefoni cellulari. In dodici sono finiti indagati per spaccio, resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale e accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti. Le indagini, condotte dal pubblico ministero Benedetto Roberti insieme alla polizia penitenziaria, hanno scoperchiato un business illegale tra le celle non senza difficoltà. I reclusi hanno cercato in tutti i modi di impedire agli inquirenti di effettuare le perquisizioni. Il giorno 10 dicembre dell’anno scorso almeno otto carcerati, hanno organizzato una rivolta ostacolando il lavoro degli agenti. Sull’episodio è intervenuto Nicola Boscoletto legale rappresentante della cooperativa Giotto, capace di dare lavoro dietro alle sbarre a centinaia di detenuti. Il capo della coop, attraverso due email spedite nei giorni 13 e 21 gennaio e indirizzate a Dap, presidente del tribunale di sorveglianza e garante dei detenuti, ha scritto di avere saputo di presunte violenze da parte delle guardie carcerarie ai danni di alcuni reclusi. E ha chiesto di fare luce sul caso. In realtà, come hanno dimostrato le immagini registrate dal sistema di videosorveglianza, quel 10 dicembre sono stati i detenuti a scagliarsi contro i poliziotti della penitenziaria peraltro non in tenuta antisommossa. La Procura su questo incartamento spedito da Boscoletto ha aperto un fascicolo, al momento senza indagati. L’indagine ha preso corpo il giorno 10 dicembre quando il tunisino di 24 anni Zaharan Salah Ben Mohamed è stato “pizzicato” all’interno del carcere con diversi ovuli di droga (cocaina, hashish e marijuana) e schede telefoniche occultati nell’intestino. Il giovane straniero, nipote di Ben Torch il “re” delle spaccate dell’estate 2019, secondo gli inquirenti si sarebbe approvvigionato della sostanza stupefacente durante il suo permesso premio alla comunità “Piccoli Passi” di via Po. Qui avrebbe incontrato la madre, Mounira Torch 54 anni, finita anche lei nei guai per avere portato al figlio la merce illegale. I due, ironia della sorte, erano stati “scritturati” come attori nel film documentario “Tutto il mondo fuori” realizzato dalla cooperativa Work Crossing legata a filo diretto con la coop Giotto. Un viaggio all’interno del Due Palazzi, insieme a don Marco Pozza, dove il messaggio è il recupero della persona grazie a numerosi progetti di formazione. Indagato è poi finito Nizar Boughanmi tunisino di 35 anni, insieme al connazionale Wissem Talbi di 24 anni. I due, secondo l’accusa, avrebbero aiutato Zaharan a portare in carcere la droga e i telefoni cellulari. L’apparecchio del nipote di Torch, un telefonino minuscolo, è stato anche “salvato” dalla perquisizione degli agenti: con una sorta di carrucola è stato portato dal secondo al quarto piano del penitenziario. Non solo, sarebbe stato utilizzato da diversi detenuti per comunicare: come avrebbe fatto lo stesso Zaharan (il pm per lui ha già chiesto il rinvio a giudizio) con spacciatori di Padova e Venezia. La vendita di droga in carcere, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, rende moltissimo. Se sulla strada una dose di cocaina viene spacciata a 70 euro, dietro alle sbarre ne costa 300. Ad essere sfruttati sono i carcerati più deboli, quelli dipendenti dalle sostanze stupefacenti e con il portafoglio imbottito. Infine nel registro degli indagati ci sono finiti altri otto detenuti, tra cui ancora Boughanmi e Talbi, per resistenza pluriaggravata a pubblico ufficiale. Grazie a “radio” carcere, quel 10 dicembre sono venuti a sapere dell’arresto di Zaharan e di una immediata perquisizione nelle celle al secondo piano del Due Palazzi. In pochi minuti si sono organizzati per mettere in piedi una sommossa. Gli agenti sono stati bersagliati con lanci di pezzi di legno, frutta e altro materiale. Inoltre sono state date alle fiamme numerose lenzuola. Gli altri finiti nei guai sono Sami Rouini 40 anni, Adleni Al Hmidi 36 anni, Ahmed Chouchoui 22 anni, Naim Landolsi 39 anni, Minamine Zidi 29 anni e il marocchino Radouan El Madkouri di 26 anni. Nicola Boscoletto, il capo della cooperativa Giotto, in merito alle due email spedite per chiedere delucidazioni su eventuali abusi subiti dai detenuti quel 10 dicembre, è stato sentito a sommarie informazioni dagli inquirenti. Non ha fornito i nomi dei carcerati che gli avrebbero segnalato le presunte violenze per mano degli agenti. Sul caso è stato aperto un fascicolo al momento senza indagati. La Procura ha fatto sapere che durante le indagini c’è stata la piena collaborazione da parte del direttore del carcere e della polizia penitenziaria. Pesaro. Focolaio Covid nel carcere di Villa Fastiggi: un detenuto in terapia intensiva Il Resto del Carlino, 9 marzo 2021 Sarebbero una ventina i contagiati nel penitenziario, permessi allungati ai detenuti vicini alla scarcerazione Giulia Torbidoni, presidente di Antigone Marche: “Ricorso più ampio alle misure alternative”. Focolaio all’interno del carcere di Villa Fastiggi, una ventina di detenuti sarebbero risultati positivi al Covid. Preoccupano in particolare le condizioni di uno di loro, un 64enne ricoverato in terapia intensiva. Il cluster all’interno della struttura carceraria che ad oggi ospita 183 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 143 è scoppiato la settimana scorsa e il numero dei positivi è in continuo aggiornamento. Difficile avere un quadro preciso, in quanto tutte le attività sono state interrotte e le sezioni chiuse, tra quarantene e isolamenti e la richiesta di svolgere una capillare attività di tamponi. “La nostra attività di volontariato in carcere è ripresa a settembre e non ha mai avuto interruzioni fino a sabato scorso, quando l’istituto ci ha comunicato la chiusura in seguito a casi Covid - spiega la presidente di Antigone Marche, Giulia Torbidoni. Ora stiamo raccogliendo quante più informazioni possibili anche per provare a dare una mano alle famiglie che ci contattano per avere notizie”. A causa del rischio contagio, la direzione dell’istituto ha deciso di applicare una misura preventiva. A parte dei detenuti, quelli che godevano di permessi di lavoro esterno e quindi prossimi alla scarcerazione, è stata concessa la possibilità di soggiornare a casa invece di rientrare in carcere dalla sera al mattino successivo. Altro segnale che dimostra come la situazione all’interno dell’istituto sia davvero a rischio: “Quello che sta avvenendo lì dentro dimostra quanto l’equilibrio delle carceri sia fragile - aggiunge la Torbidoni. In strutture sovraffollate, a Pesaro il fenomeno c’è e riguarda una quarantina di unità in eccesso, è impossibile mantenere il distanziamento, per cui la diffusione del contagio è velocissima. Sarebbe prioritario vaccinare detenuti e personale. La gestione della pandemia riguarda la sanità regionale e ci aspettiamo anche dal Garante (Giancarlo Giulianelli, entrato in ruolo il 16 febbraio scorso e pochi giorni fa risultato positivo al Covid, ndr) un intervento che faccia chiarezza su quanto è avvenuto. Inoltre, auspichiamo che la magistratura di sorveglianza faccia il ricorso più ampio possibile alle misure alternative, in modo tale da evitare, laddove possibile, ingressi in carcere”. A proposito dei vaccini, le prime dosi al personale in servizio a Villa Fastiggi sono state somministrate mercoledì scorso, proprio nel momento in cui scoppiava il focolaio Covid. Per i detenuti non esiste ancora una data di avvio delle vaccinazioni”. Oggi in Regione, il consigliere di minoranza Antonio Mastrovincenzo (Pd) dovrebbe presentare un’interrogazione sulla vicenda all’assessore alla sanità Filippo Saltamartini. Volterra (Pi). Focolaio Covid in carcere: casi in crescita, adesso sono 50 di Ilenia Pistolesi La Nazione, 9 marzo 2021 Altri 28 positivi fra i detenuti, agenti ospitati in isolamento in foresteria in attesa dell’esito dei tamponi. Esami a tappeto in tutta la struttura. I numeri sono magma esplosivo e inchiodano una fotografia che diventa ogni ora sempre più allarmante: 50 detenuti del Maschio positivi al Covid, 28 tamponi positivi in più che hanno dato verdetto nefasto fra domenica scorsa e ieri. Deflagra pericolosamente la pandemia di cella in cella e la situazione al momento è un quadro turbolento e in continuo divenire, con la pesante minaccia di una crescita della curva dei contagi in attesa che venga ricostruita l’intera filiera di infezione. Insomma, l’ora è cruciale per capire quanto il focolaio carcerario possa allargarsi a macchia d’olio non solo nella struttura penitenziaria, mentre si assiste ad una spasmodica corsa contro il tempo per sottoporre a tampone il maggior numero di persone possibile, ossia oltre 270 soggetti. Parliamo di un’indagine epidemiologica massiccia in corso in queste ore condotta attraverso tamponi a tappeto, e che sta riguardando anche quaranta insegnanti che gravitano non solo nelle scuole carcerarie ma anche nelle galassie scolastiche esterne (i primi quindici tamponi risultano negativi) e il personale della polizia penitenziaria, una settantina di agenti in tutto, alcuni dei quali già allontanati dai propri contatti stretti (i familiari) e ospitati temporaneamente alla Foresteria in attesa dell’esito dei tamponi. Stando i numeri del Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) la popolazione carceraria al 31 gennaio 2021 era di 176 detenuti, ma attualmente i numeri scendono fino a 150 galeotti ospiti fra le mura possenti del Maschio. Le misure adottate fino ad ora riguardano lo stop alle uscite dei galeotti in semi libertà, l’isolamento nelle celle e, come detto, la campagna di screening che riguarda tutto il mondo professionale che orbita attorno al Maschio. Una struttura carceraria in cui, per un anno esatto, il virus non aveva fatto il suo sporco gioco: i tamponi effettuati a cadenza mensile avevano sempre dato esito negativo, inclusi gli ultimi accertamenti risalenti a meno di un mese fa. Come il virus sia riuscito a farsi strada in carcere è affare lapalissiano, perché il Covid si è insinuato dall’esterno e si è poi propagato minacciosamente infettando una cinquantina di detenuti. Da quanto appreso, parliamo di persone che sono asintomatiche o che stanno manifestando sintomi lievi al coronavirus. Per inciso, i detenuti non sono più andati in permesso per quasi un anno, sono stati sospesi i colloqui con i familiari dall’esplosione della pandemia ed i pochi galeotti che hanno familiari in Toscana al loro rientro in carcere hanno effettuato un periodo di isolamento di due settimane e poi sono stati sottoposti a tampone. Piacenza. Antigone: “Solo 5 detenuti positivi al Covid, adottate tutte le misure di sicurezza” piacenzasera.it, 9 marzo 2021 “L’istituto di Piacenza sembra aver retto all’emergenza sanitaria pur essendo collocato in uno dei territori inizialmente maggiormente colpiti. Dall’inizio della pandemia sino a dicembre 2020 - data in cui abbiamo effettuato la visita - si sono registrati unicamente 5 casi di positività”. È quanto riferisce l’associazione Antigone, realtà nata negli anni Ottanta “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, nel report dedicato alla pandemia e al suo effetto nelle carceri. “Un lungo anno è trascorso dall’ondata di proteste e rivolte che ha sottoposto a estrema tensione il comparto penitenziario nazionale, dopo decenni di pace apparente rispetto alle forme di conflittualità più appariscenti - si legge nel report -. In attesa che vengano definite le conseguenze giudiziarie relative alla gestione di questi conflitti e alle eventuali responsabilità istituzionali sui decessi occorsi, riteniamo opportuno proporre una sintetica lettura di fase sugli istituti emiliano-romagnoli. Mentre la conflittualità ha registrato un anno fa picchi significativi nelle case circondariali di Modena e Bologna, tutte le prigioni della regione sono state interessate dalle conseguenze in termini di misure disciplinari e trasferimenti della popolazione detenuta, con particolare riferimento ai presunti protagonisti delle rivolte”. Per quanto riguarda Piacenza, “sin dal mese di febbraio 2020 erano state messe in atto tutte le misure volte a scongiurare l’ingresso del virus - scrive l’associazione -. Tra queste, da subito è stata ripristinata la custodia chiusa e sospesa la sorveglianza dinamica. Tale scelta si è rivelata, a detta della Direzione, fondamentale per gestire meglio l’emergenza sanitaria ma anche particolarmente adatta a garantire “ordine e pulizia” e un generale migliore clima tra le persone ristrette. Ad ogni modo, anche prima dello scoppio della pandemia, la sorveglianza dinamica era assicurata unicamente all’interno di solo uno dei due padiglioni (il nuovo) di cui si compone questo istituto. Le attività, sospese nella prima fase, sono riprese successivamente. Fino a che la stagione lo ha concesso molte attività si sono svolte all’esterno. Il carcere di Piacenza, collocato alla periferia della regione, ha da sempre subito numerosi trasferimenti da altre carceri e da ultimo ha visto l’arrivo di molti detenuti provenienti da istituti della regione teatro delle rivolte della scorsa primavera”. Livorno. C’è un cibo che rende “liberi dentro” e alimenta la speranza oltre il carcere informazioneonline.it, 9 marzo 2021 Il progetto con la chef Sonia Vellere andrà a sostenere i percorsi di consapevolezza negli istituti penali di Livorno e Gorgona, ma c’è anche un filo che passa da Busto. C’è un cibo che fa rinascere, un cibo che libera. In una cucina speciale confluiscono tante vite, progetti, la fiducia di poter costruire un futuro diverso oltre il carcere. Così una masterclass online di cucina olistica naturale diventa il punto di incontro di diverse esperienze e zone d’Italia, Busto compresa. Perché tra le persone coinvolte c’è Luca Cirigliano, che da diversi anni si è appassionato a progetti in grado di poter dare una speranza ai detenuti. Questa volta “Il cibo della rinascita”, lezione della chef Sonia Vellere con Daniel Lumera e Karima, servirà a sostenere un percorso di educazione alla consapevolezza negli istituti penali di Livorno e Gorgona. Si terrà sabato 20 marzo alle ore 10, proprio alla vigilia della primavera. L’evento, patrocinato dal Comune di Livorno, mira sostenere l’associazione di volontariato My Life Design onlus per tracciare il percorso previsto con il metodo My Life Design® ideato da Daniel Lumera, docente e autore di bestseller, riferimento internazionale nell’area delle scienze del benessere. L’intero ricavato dell’evento andrà a supportare l’avvio del percorso Liberi Dentro nel carcere di Livorno e nella sezione distaccata dell’isola di Gorgona. Ma che cos’è Liberi Dentro? Un progetto dell’Associazione My Life Design onlus già attivo in diverse realtà carcerarie italiane, che intende promuovere una giustizia consapevole. Detto in altri modi, alimenta una presa di consapevolezza delle proprie responsabilità, fattore indispensabile per attivare processi di cambiamento. Una tappa fondamentale per consentire il reintegro in società al termine della pena e per contrastare la recidiva, che in Italia si attesta attorno al 70%. Nella masterclass la chef Sonia Vellere sarà accompagnata da un aiuto chef d’eccezione: Saverio, un ragazzo detenuto del carcere di Livorno, formatosi a Cucina Consapevole. Spiega la chef: “Il mio contributo a Liberi Dentro è mostrare il potere benefico che la cucina dona alla rinascita”. “Una delle esperienze formative più significative della mia vita - afferma Daniel Lumera - è stato il progetto “Liberi Dentro”. È un percorso che si basa su processi inclusivi e di comprensione di quelle che sono le radici del dolore dell’essere umano per una riabilitazione che parta dal nostro ambiente interiore. Lì possiamo agire ed è lì che gli strumenti di perdono, consapevolezza e meditazione hanno un impatto molto grande sulla qualità della vita di ognuno, e portano a generare un reale benessere collettivo che parte dal concetto di “noi”. Venezia. Donne in carcere, Suor Busnelli: sorprendono ogni giorno con la loro generosità di Davide Dionisi vaticannews.va, 9 marzo 2021 La religiosa volontaria nella Casa di reclusione femminile di Venezia racconta agli alunni delle scuole la sua esperienza e invia un augurio speciale a tutte le donne. “Il modo per fare riflettere i miei studenti sull’8 marzo, quest’anno, parte da un incontro con una donna straordinaria, una suora dal sorriso emozionante, una persona gracile e fortissima”. La religiosa a cui si riferisce la testimonianza di Alessandra Fiori, docente di Lettere nella scuola Secondaria di Primo grado “Virgilio” di Cremona, è Suor Franca Busnelli, delle Suore di Carità (di Maria Bambina ndr) che presta servizio da sette anni nella Casa di reclusione femminile di Venezia-Giudecca. Storie di emarginazione - È lei la protagonista scelta per la Festa della Donna per raccontare le storie delle “sue” ragazze “inchiodando al video” tanti studenti, oltre l’orario scolastico. “Sono storie ruvide di emarginazione sociale, di tossicodipendenza e di dolore, di bisogno d’amore e di strazianti separazioni, di dieci minuti di telefonate alla settimana ai famigliari lontani, di quei minuti che sono pochi e così si deve scegliere se parlare con i figli grandi o scherzare con quelli piccoli. Poi ci sono quelli piccolissimi da crescere in carcere e a cui nascondere le divise delle guardie carcerarie. Una sorta di pena del contrappasso: costrette alla reclusione in una delle città più belle al mondo, la possono solo immaginare” spiega la professoressa del Virgilio, aggiungendo che “Suor Franca trasmette ai miei alunni e a quelli di altre due classi della scuola un messaggio straordinario nella sua semplicità: si può sbagliare e si deve pagare, ma il carcere deve rieducare, deve offrire la possibilità di un riscatto”. Un’onda potente - Secondo la professoressa Fiori, la testimonianza della religiosa arriva agli studenti “come un’onda potente” perché “si può inciampare anche più volte, ma ciò non impedisce di essere accettati, accolti, amati”. La docente è convinta che “In un periodo così complicato della loro esistenza, la preadolescenza, la narrazione asciutta e profonda giunge come una carezza inaspettata. È un’onda che bagna ma non travolge, perché è necessario conoscere e comprendere che dalle storie di quelle donne dannate si impara a fare i conti con le fragilità e con la verità. I volontari seminano amore - Persone come suor Franca e i volontari nel carcere” continua “seminano amore e propongono concrete opportunità, prospettano la possibilità di credere ancora in se stesse, di vedersi come donne a cui scelte sbagliate hanno portato via affetti e sicurezze, ma a cui è possibile restituire dignità e comprensione”. Un modo diverso per raccontare l’8marzo e le donne che “attraversa il sorriso dolce e accogliente di suor Franca, una donna che è madre, perché l’esserlo è una condizione che appartiene a qualunque donna decida di amare e dedicarsi agli altri, una donna che insegna a me, alle mie colleghe e ai nostri ragazzi che le donne vanno amate e basta, di qualunque colore sia la loro pelle, qualsiasi sia la loro religione, qualunque sia la loro colpa”. La generosità che non ti aspetti - Suor Busnelli, con il gruppo delle ospiti della Giudecca, si era già distinta durante la fase più acuta della pandemia per un gesto molto significativo di solidarietà: era riuscita a raccogliere 110 euro (cifra enorme per chi è detenuto) donati al Reparto di Terapia Intensiva dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre. Nell’occasione le ragazze vollero così testimoniare la loro vicinanza agli ammalati, ai loro familiari, ai medici e agli infermieri. Nel contempo inviarono una lettera al Presidente della Repubblica alla quale lo stesso Mattarella rispose elogiando l’iniziativa delle ospiti. Torino. “In carcere una stretta di mano può dare il senso alla giornata” italiachecambia.org, 9 marzo 2021 Vi proponiamo la quarta testimonianza del progetto “Chi ha Varcato la soglia” di Cascina Macondo, che svela il carcere attraverso la raccolta di storie personali. La parola oggi è affidata a Bruna Chiotti, che ha ricoperto per diverso tempo il ruolo di garante dei detenuti. Attraverso le sue riflessioni ci trasmette tutta l’umanità che si trova all’interno delle prigioni, unita alla necessità di riscatto di chi è “ospitato” qui. Ho varcato la soglia di un carcere alcuni anni fa come volontaria di un’associazione per gestire uno sportello sociale per pratiche pensioni, disoccupazioni e altro e poi come Garante Comunale per i diritti dei detenuti, ruolo che ho ricoperto per cinque anni. Ho incontrato una umanità dolente, rassegnata, arrabbiata, fiduciosa, incattivita, altruista, impaurita, silenziosa, allegra, speranzosa, creativa, in altre parole ho incontrato “l’uomo” in tutte le sue debolezze, ma con una grande volontà di riscatto. Ho visto piangere un anziano detenuto al quale veniva negata ogni possibilità di far valere i propri diritti. Ho incontrato persone con 20-30 anni di carcere sulle spalle - fine pena: “mai” -, ma ancora con la speranza di vedere la propria casa e di tornare liberi. Mi è rimasto impressa la storia, tra le tante, di un detenuto condannato all’ergastolo ed entrato in carcere a vent’anni. Mi raccontava che conosceva solo il quartiere dove era nato e cresciuto e che tra bande rivali sopravviveva chi sparava per primo. Mi disse che il carcere l’aveva salvato ed era riconoscente alla scuola interna che gli aveva permesso di studiare. Ho incontrato un capo mafia già anziano e con oltre trent’anni di pena scontata che si è laureato in carcere in Sociologia e che, nei giorni di permesso, svolgeva volontariato in una struttura per anziani. Ho conosciuto un detenuto che negli anni ottanta faceva parte delle “Brigate Rosse” a tempo pieno e prima ancora fu rapinatore e gangster: non ha mai rinnegato le sue scelte sbagliate, anche se era molto critico verso sé stesso al punto di scrivere un libro sulla sua cattiva strada. Ora lavora in una cooperativa sociale come volontario e continua a scrivere le sue memorie. Nessuno rivendicava il proprio passato, anzi c’è quasi una rimozione, accompagnata però da una ferma volontà di guardare avanti senza voltarsi indietro. Ho incontrato persone con grande dignità e voglia di riscatto chiedendo di lavorare perché “il lavoro dà dignità”. Mi hanno detto che gli anni passano, ma la giornata è lunga e il senso di solitudine e la nostalgia della famiglia sono devastanti. Per sopravvivere è indispensabile mantenere il rispetto di sé e la propria dignità di uomo, anche se dentro pesa una fragilità nascosta, mascherata da atteggiamenti anche aggressivi o da un’ostentata sicurezza di sé. Ma quello che pesa per un detenuto è l’indifferenza di chiunque varca la soglia del carcere, perché un saluto, una stretta di mano, un colloquio possono dare senso alla giornata, a quel tempo infinito che isola fisicamente e socialmente e che distrugge psicologicamente una persona, anche colpevole di reato, ma pur sempre una persona. Reggio Emilia. “Imparate a riconoscere l’amore” di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 9 marzo 2021 Riflessioni dei detenuti nella Giornata della donna. Hanno scelto la stoffa, come quella che un tempo si utilizzava per le tute dei detenuti, a righe, perché si potessero distinguere dai liberi, qualora fossero riusciti ad evadere. Sopra hanno impresso le loro riflessioni e le hanno dedicate alle donne, in particolare, a tutte quelle che sono state vittime di violenza. Gli autori sono sei uomini, detenuti nel carcere di Reggio Emilia, che hanno voluto in questo modo invitare tutte le donne a non subire più alcun gesto violento, a denunciare ogni sopruso, ogni atto che loro stessi, nonostante il passato complicato, hanno definito “vile”. Le cinque riflessioni, che hanno intitolato “Testamento dell’amore del detenuto”, iniziano tutte così: “Imparate a riconoscere l’amore perché” e, ciascuno di loro ha offerto una spiegazione. C’è chi ha proposto, “in amore si gioca alla pari”, chi ha suggerito che “l’amore è sano e non fa male”, oppure “siamo nati con l’amore”, “l’amore non è prepotente” e infine, il più semplice e complicato, la regola aurea, “l’amore è rispetto”. Cinque ‘perché’, semplici pensieri, in apparenza, che volendo potrebbero trasformarsi in ‘comandamenti’ ai quali sottoporre un rapporto d’amore, aiutando ogni donna a capire meglio cosa e chi si ha di fronte. Imparate a riconoscere l’amore - “Siamo uomini, siamo padri e figli di una famiglia” hanno motivato unanimemente i sei “nella vita abbiamo commesso errori, ma ci dissociamo da questi vili atti che urtano anche la nostra sensibilità e diciamo: no alla violenza sulle donne”. Sulle pergamene - realizzate in tessuto - assieme alle riflessioni hanno impresso, al posto della matricola, il 1522, numero gratuito antiviolenza, e una scarpa rossa, simbolo delle donne vittime di femminicidio, con un otto disegnato, a ricordare l’8 marzo, il giorno dedicato alla donna. Il progetto, ideato dalla referente regionale di Gens Nova, Anna Protopapa, volontaria del penitenziario, è stato promosso grazie anche alla collaborazione del comandante commissario capo, Rosa Cucca, della Direzione dell’Area educativa dell’istituto penale. Una delle pergamene è stata donata alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Covid: i 100 mila morti in Italia, il lutto di una nazione di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 9 marzo 2021 Il lavoro e il sacrificio di migliaia di medici e infermieri è stato troppo spesso vanificato dall’inadeguatezza delle classi dirigenti. A noi non resta che piangere i personaggi pubblici e l’esercito degli sconosciuti. Forse servirà per loro un luogo del ricordo. Si è partiti con le buone intenzioni: la vita continua, Milano non si ferma. Qualcuno ha proseguito senza sprezzo della verità e del ridicolo, per poi essere costretto dalla realtà a fare marcia indietro. Altri si ostinano tuttora a fare come se nulla fosse, ad esempio a riunirsi fuori dagli stadi per sostenere la propria squadra che gioca a porte chiuse: tutti hanno visto le immagini di San Siro e di Bergamo, ma la pratica si diffonde pure in provincia. È una reazione umana, tentare di mantenere le antiche abitudini; ma alla lunga c’è qualcosa di diabolico in questo perseverare, che è pure una mancanza di rispetto per le vittime e le loro famiglie. Troppe volte abbiamo sentito mormorare che “tanto avevano quasi tutti più di ottant’anni”; come se le vite degli anziani valessero meno, come se il dolore di chi resta non fosse altrettanto straziante. L’altro giorno poi è arrivata la sentenza dell’Istat: l’Italia non ha mai avuto tanti morti - 700 mila - in un anno di pace; dall’inizio della pandemia, si contano 108 mila morti in più rispetto alla media; la drammatica contabilità, purtroppo, coincide con i dati Covid. Ma in questi mesi è emersa anche un’altra tendenza. La potremmo chiamare del bollettino di guerra. Anziché lavorare seriamente su mascherine e vaccini, ci si è inoltrati in metafore belliche e confronti con i numeri dei conflitti del secolo scorso; e in effetti centomila morti sono più delle vittime dei bombardamenti, più dei caduti della ritirata di Caporetto, più degli alpini dispersi in Russia. Ma neppure questo approccio è giusto. La guerra quella vera, con le scelte disastrose del potere politico, con i ventenni mandati al fronte senza equipaggiamento adeguato, con i civili esposti ai raid terroristici del nemico, con la fame e i razionamenti, è un’altra cosa. Ogni generazione, però, ha la sua guerra da combattere, la sua prova della vita. Che richiede sia un imponente lavoro logistico e organizzativo, sia una dimostrazione di forza morale. Perché la prova della vita deve essere il punto alto, non il punto basso del nostro ciclo. Centomila morti rappresentano un bilancio spaventoso. La conferma che purtroppo non è andato tutto bene, come ci dicevamo l’un l’altro all’inizio. Il lavoro e il sacrificio di migliaia di medici e infermieri (e un prezzo particolarmente alto lo hanno pagato le donne) è stato troppo spesso vanificato dall’inadeguatezza delle classi dirigenti. E, come sempre con le inchieste giudiziarie, c’è il rischio che le responsabilità non vengano accertate e sanzionate come sarebbe doveroso. A noi non resta che piangere i morti. Personaggi pubblici: Vittorio Gregotti, l’architetto che ha cambiato il nostro modo di pensare le città; Germano Celant, il critico che ha inventato l’arte povera, fatta con i materiali della natura e dell’industria; Lea Vergine, la critica, che se ne è andata poche ore dopo il marito Enzo Mari, il designer; Giulio Giorello, il filosofo che vivrà ancora a lungo nei suoi libri; Franco Marini, il sindacalista che commemorò le vittime della strage di Bologna (e il politico abbandonato dai suoi quando aveva già ritirato il vestito per giurare da presidente della Repubblica); Carlo Tognoli, il sindaco più amato dai milanesi. E poi l’esercito degli sconosciuti, il cui nome dice poco a ognuno di noi, ma rappresenta tutto per coloro che li hanno amati. È necessario ricordare almeno il primo: Adriano Trevisan, 77 anni, agricoltore di Vo’ Euganeo. Ed è necessario ricordare le parole con cui sua figlia Vanessa l’ha salutato: “Adriano Trevisan non è un numero, non è la prima vittima italiana del coronavirus, non è un nome e un cognome sul giornale. Adriano Trevisan è il mio papà. È il papà dei miei fratelli Vladimiro e Angelo. È il marito di mia madre Linda. È il nonno di Nicole e di Leonardo”. Poi sono venuti giorni terribili, in cui i morti arrivavano quasi a mille, ed era difficile contarli, figurarsi raccontarli. Giorni duri che non sono ancora finiti. Non sapremo mai con esattezza quanti malati sono morti di Covid, e quanti con il Covid. È probabile che qualcuno di loro non ce l’avrebbe fatta comunque. È probabile che molti siano stati spenti dal coronavirus e non risultino nella statistica, perché il male non è stato loro diagnosticato. Lasciamo queste distinzioni ai riduzionisti e agli apocalittici, che ne trarranno ulteriori argomenti per le loro tesi. E proviamo a chiederci cosa ci lascia questa esperienza. oronavirus, perché in Italia si muore più che altrove - La morte noi non l’avevamo vinta; l’avevamo rimossa. Un tempo si moriva in casa, circondati dagli affetti. C’erano morti sin troppo affollate, come quella che si vede nel film di Giuseppe Tornatore “Baarìa”, con i compaesani che affidano al morente i messaggi per i loro antenati nell’Aldilà. Oggi non soltanto le vittime del Covid se ne sono andate da sole, senza il sostegno dei familiari, spesso senza i conforti religiosi, una benedizione, una parola dolce. Non soltanto ci sono stati figli che hanno saputo della scomparsa dei genitori dopo giorni, hanno scoperto che erano stati cremati a centinaia di chilometri da casa, hanno ricevuto la notizia poche ore dopo essere stati rassicurati: “Suo padre sta meglio”. Più in generale, siamo talmente avvezzi a negare la morte, a occultarla, a esorcizzarla relegandola nelle immagini terrificanti o grottesche o consolatorie delle fiction, che ritrovarcela così in faccia, minacciosa, spietata, ci ha inevitabilmente cambiati. Il tempo ci dirà come. Se la pandemia ci ha resi solo più guardinghi o anche più profondi. Se ci ha ulteriormente chiusi ai rapporti con gli altri, o ci ha insegnato a misurarne il valore, a selezionarli, a tenerli da conto. Se ci ha solo spaventati, o ci ha aiutati a riflettere su quel che abbiamo fatto sinora e su quel che ci attende, qui e oltre. Questo nel frattempo possiamo, anzi dobbiamo fare: ricordare. Sottrarre all’oblio Roberto Stella, il presidente dell’Ordine dei medici di Varese, e Claudio Polzoni, il carabiniere che rispondeva al 112 di Bergamo. Angelo Rottoli, l’ex pugile detto Alì come il campione mondiale dei massimi, e la signora Terry mamma dei gemelli Filippini, i calciatori bresciani. Don Fausto Resmini, il prete degli ultimi, che assisteva i poveri e visitava le carceri, uno degli oltre trenta sacerdoti bergamaschi morti di Covid, e Manuela Andreoli, l’insegnante di Padova che il virus l’ha contratto in classe. Giuseppe Manfri, il poliziotto morto in servizio a 41 anni ad Avellino, e Michelina Petretta, l’infermiera del Cardarelli di Napoli. Forse servirà per loro un luogo del ricordo. Non un monumento; una semplice lastra con i loro nomi, come quella che a Washington commemora i caduti in Vietnam, o come quella - proposta da Mario Calabresi e mai realizzata - che dovrebbe onorare le vittime del terrorismo. Un nome non è mai casuale. Un nome è tutto. Un nome è anche un conforto, per chi ha perso il proprio caro senza poterlo vedere e salutare. Quei centomila morti sono altrettanti dolori privati; ma tutti insieme sono un grande dolore pubblico, un grande lutto nazionale. Ed è dal dolore e dal ricordo, più che dalla gloria e dalle vittorie, che una nazione culturale e sentimentale (più che politica) come l’Italia è unita. Centomila morti di Covid. In un anno più vittime della campagna di Russia di Michele Bocci La Repubblica, 9 marzo 2021 Dal primo decesso di Vo’ all’ultimo di Campomarino, un maresciallo di 55 anni. La catena senza fine dei lutti che in Italia ha colpito una famiglia ogni 250. Un lancio di agenzia nella notte: “Coronavirus: un contagiato in Lombardia”. Si torna sempre lì, a quel 21 febbraio 2020, quando tutto ciò che ancora non sembra destinato a finire ha avuto inizio. Si può soltanto riannodare il filo perché purtroppo il punto di partenza è l’unica cosa certa. La conclusione non è ancora nota e probabilmente solo la vaccinazione di massa permetterà di scriverla. Ancora a gennaio dell’anno scorso il coronavirus era un problema distante, pareva uno dei tanti virus che spuntano in luoghi lontani come l’Asia o l’Africa e lì restano. Oggi ha invaso il mondo ed è responsabile di una malattia che da ieri ha provocato più di 100 mila morti nel nostro Paese. Tutti conoscono qualcuno che ha perso la vita per causa sua. Un parente stretto, un amico, l’amico di un amico. In Italia ha ucciso più della Campagna di Russia (95 mila vittime). È come se ci fosse stato un morto in una famiglia italiana ogni 250. O peggio: è come se fosse scomparsa una città grande quanto Ancona. È passato poco più di un anno, il paziente uno di Cologno, Mattia Maestri, ormai è un personaggio da interviste rievocative, mentre il primo morto, Adriano Trevisan, viene ricordato come un pensionato tranquillo di Vo’ Euganeo che ha avuto la sfortuna di incontrare il suo destino, forse, durante una partita di carte al bar. Aveva 77 anni, cioè 4 in meno dell’età media dei morti nel nostro Paese. Abbiamo perso decine di migliaia di nonni, genitori, zii, fratelli, sorelle. E ne abbiamo persi di più rispetto a tanti altri Paesi, se si guarda al numero dei morti in rapporto alla popolazione. Nella prima ondata, fino a maggio, se ne sono andati in 34.314. Sembrava finita, l’estate aveva portato via le preoccupazioni e svuotato gli ospedali. E invece anche prima dell’arrivo del freddo il Covid è tornato. La curva dei contagi ha ricominciato a salire in fretta, da ottobre la malattia ha ucciso altre 64 mila persone. Come una guerra ma con gli anziani a fare i soldati. Non solo, dopo aver colpito soprattutto al Nord, con il tragico caso della Lombardia, il coronavirus dopo l’estate si è sparso in modo omogeneo in tutto il Paese. A nessuna regione ha risparmiato lutti, angoscia e dolore. Non è un caso che l’ultimo morto di ieri, il maresciallo dei carabinieri Arturo D’Amico, fosse il comandante della stazione di Campomarino, in provincia di Campobasso, cioè in Molise, una Regione praticamente non raggiunta dalla prima ondata e che oggi si trova in zona rossa. Non era anziano, aveva 55 anni. Se l’età media dei deceduti supera gli 81 anni, infatti, sono oltre 3mila i cinquantenni che hanno perso la vita per la malattia e oltre 9mila i sessantenni. Non avremmo mai pensato una cosa del genere, poco più di un anno fa. Lo ha detto anche il presidente del consiglio Mario Draghi, commentando i centomila morti. “Dobbiamo al rispetto della memoria dei tanti cittadini che hanno perso la vita il dovere del nostro impegno”. Otto marzo, Draghi si schiera con le donne. “Sulla parità di genere l’Italia è indietro” di Maria Berlinguer La Stampa, 9 marzo 2021 Il primo videomessaggio del premier: “Con il Recovery interventi concreti: congedi parentali e asili nido”. È ancora lunga la strada che le donne italiane hanno davanti per raggiungere i livelli europei. E passa non solo per un cambio totale di mentalità ma anche dagli investimenti che verranno fatti per combattere la disparità di genere e dalla possibilità di accedere a servizi come gli asili nido e strumenti come i congedi parentali. È Mario Draghi, nel suo primo videomessaggio da capo del governo, inviato alla Conferenza per la parità di genere promossa dalla ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti, ad ammettere il gap che ancora divide le italiane dalle più fortunate europee. Soprattutto ora che i numeri della crisi dovuta alla pandemia hanno certificato che sono state le donne (con i giovani) a pagare il prezzo più alto con la perdita del lavoro e con l’aumento esponenziale delle violenze domestiche. Un dramma che lo stesso Draghi ha affrontato ieri incontrando la Commissione d’inchiesta sui femminicidi e promettendo il suo sostegno totale. “A fronte dell’esempio di molte italiane eccezionali in tutti i campi, anche nella normalità familiare, abbiamo molto, moltissimo da fare per portare il livello e la qualità della parità di genere alle medie europee. La mobilitazione delle energie femminili, un non solo simbolico riconoscimento della funzione e del talento delle donne sono essenziali per la costruzione del futuro della nostra nazione” dice Draghi. “Dobbiamo prima di tutto cambiare noi stessi nella quotidianità della vita familiare”, avverte il premier. “Gli strumenti che dobbiamo impiegare in questa direzione sono vari, penso tra gli altri ai congedi parentali, penso al numero dei posti negli asili nido che ci vede inferiori agli obbiettivi europei, e alla loro distribuzione territoriale che va resa ben più equa di quanto non sia oggi”. Interventi necessari e urgenti se si considera che le donne ai posti di comando in Italia sono davvero pochissime se i dati certificano che nelle società quotate solo il 2% delle donne ricopre il ruolo di amministratore delegato. E, come ricorda Silvio Berlusconi, “ancora oggi l’80% di imprenditori sono uomini”. “Oggi, per le vittime dei troppi femminicidi e anche come reazione prodotta dalla pandemia, sembra formarsi una nuova consapevolezza che trova un’opportunità straordinaria nel programma Next Generation EU per diventare realtà nell’azione di governo, del mio governo. Tra i vari criteri che verranno usati per valutare i progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ci sarà anche il loro contributo alla parità di genere”, ha promesso l’ex presidente della Bce. La ministra Bonetti ha confermato la partenza del “Piano strategico per la parità di genere” che riguarda il lavoro delle donne, welfare, educazione e promozione della leadership femminile. I fondi sono quelli della Next generation Eu. Un otto marzo con poche manifestazioni, molti appuntamenti in streaming e diversi flash mob. Molti colorati di fucsia, come a Milano dove “Non un di meno” ha colorato piazza Duomo. A Brindisi la questura ha inaugurato la stanza delle Parole non dette uno spazio riservato alle donne e ai bambini vittime di violenze e abusi. Effetto Covid, così la pandemia ha peggiorato la condizione femminile di Valeria Valente Il Dubbio, 9 marzo 2021 Mentre gli omicidi diminuiscono, i femminicidi non si arrestano, con un’impennata di casi durante il lockdown. L’intervento di Valeria Valente, senatrice Pd e presidente della Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio e la violenza di genere. Quest’anno celebreremo l’8 marzo in una condizione particolare, a un anno dall’inizio della pandemia e nell’anniversario esatto del lockdown nazionale che se ha segnato, ora possiamo dirlo, un prima e un dopo per tutti, lo ha fatto soprattutto e in modo drammatico per le donne. Gli ultimi dati della Polizia di Stato confermano purtroppo l’indagine che abbiamo effettuato nel 2020 come Commissione d’Inchiesta del Senato sul Femminicidio e la violenza di genere. In linea con un trend che va avanti da 15 anni, mentre gli omicidi diminuiscono, insieme con gli altri reati violenti, i femminicidi persistono, così come le altre forme di violenza sulle donne ma, in termini relativi, il Covid ha peggiorato di molto la condizione femminile: l’incidenza dei casi di violenza contro le donne rispetto al totale ha infatti subìto un’impennata durante l’emergenza. Come ha rilevato la Commissione, se nel mese di marzo 2019 si erano registrate 38 uccisioni di persone, di cui 12 erano donne, il 30 per cento del totale, nel mese di marzo 2020 ci sono state 11 uccisioni e di esse ben 7 erano di donne, il 60 per cento del totale. Questo andamento si è poi confermato ad aprile 2020 rispetto allo stesso periodo 2019. A gennaio e febbraio di quest’anno sono state 15 le persone di sesso femminile uccise in quanto tali: la più grande, Clara Ceccarelli, aveva 69 anni, la più piccola, Sharon Barni, un anno e 8 mesi. In media, ogni 3-4 giorni una donna (o una bambina) muore per mano di uomo per il solo fatto di essere una femmina. Secondo il report della Polizia di Stato di fine di gennaio, nel 2020 si è registrato un incremento dei cosiddetti “reati spia”: i maltrattamenti in famiglia, lo stalking e le altre viole Visto che il femminicidio e la violenza di genere sono un fenomeno strutturale, riconducibile alla cultura patriarcale, le restrizioni alla mobilità e il lockdown hanno esposto di più le donne al pericolo della violenza domestica. Cosa stiamo facendo e cosa si può fare di più? Diciamo subito che molto è stato fatto, soprattutto sul piano normativo: ormai siamo in possesso di un patrimonio legislativo robusto di repressione, sanzione e anche di prevenzione. Tutto si può migliorare, ma le leggi esistenti ci danno concretamente la possibilità di fermare e di punire i colpevoli e anche di allontanarli dalla famiglia e infatti le donne denunciano di più. Dobbiamo però fare molto di più per cambiare la cultura di questo Paese, che purtroppo fotografa ancora l’esistenza di tanti stereotipi e pregiudizi e al contempo esprime modelli sociali e culturali con una forte disparità nella relazione tra uomini e donne. Il divario di genere oggi è uno dei principali ostacoli allo sviluppo del Paese. L’8 marzo di quest’anno, a mio avviso, può e deve dunque rappresentare uno spartiacque, anche in positivo. La pandemia da Covid ha infatti scoperchiato il vaso di Pandora, definitivamente, mettendo in rilievo quanto le donne paghino, in Italia, il fatto di essere donne. E contemporaneamente, anche grazie al Recovery Plan, ci dà la possibilità di invertire la rotta e di provare a far nascere, davvero, un paese per donne e per uomini. La violenza contro le donne si combatte con l’empowerment femminile, e la prima misura è l’occupazione, perché significa offrire a tutte le donne, nei fatti, percorsi e spazi di autonomia e libertà. Come Pd abbiamo lavorato affinché il Piano nazionale di ripresa e resilienza abbia come pilastro il lavoro delle donne, in modo trasversale rispetto ai diversi settori e dappertutto, ma soprattutto al Sud. Le donne che lavorano sono una risorsa per il Paese e riescono ad emanciparsi anche dalla violenza. La frontiera del contrasto, invece è costituita dal maggiore sostegno ai centri antiviolenza e su un più adeguato e cospicuo investimento nella formazione e specializzazione di tutti gli operatori e le operatrici coinvolti e coinvolte, anche al fine di debellare i tanti stereotipi e pregiudizi ancora esistenti e per cogliere in tempo utile segnali che lasciano presagire il peggio attraverso un’attenta e puntuale valutazione del rischio. Come Commissione di inchiesta ci stiamo ora concentrando su questo: stiamo analizzando i fascicoli relativi ai processi per femminicidio del 2018 e del 2019, in un’indagine che si concluderà in estate, per capire se e come viene registrata la violenza, fin dai suoi primi segnali. Dobbiamo aiutare tutto il sistema ad accogliere e capire le donne che si vogliono liberare dalla violenza, prima che diventi troppo tardi. La pandemia ha svuotato le carceri di tutta Europa di Laszlo Arato linkiesta.it, 9 marzo 2021 Molti detenuti sono stati rilasciati per prevenire la diffusione del Covid-19, e nel frattempo anche il tasso di criminalità è diminuito. Il calo più consistente è stato registrato in Turchia. Tuttavia, in alcuni paesi la popolazione incarcerata è aumentata. Il Consiglio d’Europa ha incaricato l’Università di Losanna di condurre uno studio sulla correlazione tra la prima ondata della pandemia Covid-19 e le popolazioni carcerarie in Europa. I dati forniti dalle amministrazioni penitenziarie di 35 paesi sono stati esaminati utilizzando come riferimento quattro fasi temporali nel 2020: 1) Prima della pandemia (31 gennaio) 2) Dopo il primo mese di lockdown e chiusure primaverili (15 aprile) 3) Al termine dei lockdown e delle chiusure primaverili (15 giugno) 4) La fine dell’estate (15 settembre). I dati cumulativi indicano che tra gennaio e settembre 2020 la popolazione carceraria in Europa è diminuita in media del 4,6 per cento, passando da 121,4 a 115,8 detenuti ogni 100.000 abitanti. I numeri variano da quelli dei dati ufficiali degli Stati membri perché alcuni paesi hanno più amministrazioni carcerarie. Cambiamenti nella popolazione carceraria dopo lo scoppio della pandemia - Proprio come il Covid-19 ha cambiato la vita delle persone comuni dall’oggi al domani, lo stesso è accaduto nei mondi chiusi delle prigioni. La popolazione incarcerata è diminuita di oltre il 4% tra il 15 marzo e il 15 aprile in 29 amministrazioni carcerarie. È rimasta praticamente invariata (cioè una variazione inferiore al 4%) nel 17% delle amministrazioni penitenziarie e solo un paese ha segnalato un aumento del numero di detenuti. Questo paese è la Svezia, dove (a differenza di altri paesi europei) non c’è stato un lockdown serio, la popolazione poteva muoversi molto più liberamente e la vita è rimasta in qualche modo invariata. Alla fine dei vari lockdown il 15 giugno, il numero di stati con popolazione carceraria in calo è ulteriormente aumentato, ma la tendenza si è invertita verso la fine dell’estate. In 12 paesi ci sono stati aumenti: Monaco (30%), Andorra (22%), Norvegia (16,8%), Lussemburgo (12,1%), Slovenia (10,9%), Finlandia (8,3%), Scozia (7,7%), Cipro (7,2%), Danimarca (6,7%), Belgio (4,8%), Romania (4,7%) e Irlanda del Nord (4,5%). In 22 paesi il numero si è stabilizzato, mentre la Bulgaria e il Montenegro sono state le uniche due amministrazioni carcerarie con una popolazione di detenuti inferiore a settembre rispetto a giugno. Osservando l’intero periodo gennaio-settembre emergono tendenze generali. In 20 paesi la popolazione carceraria è diminuita: Montenegro (-21,1%), Francia (-13,4%), Bulgaria (-12,7%), Albania (-12,5%), Portogallo (-12,5%), Italia (-10,8%), Lituania (-10%), Paesi Bassi (-8,8%), Scozia (-8,7%), Lussemburgo (-8,4%), Finlandia (-7,6%), Lettonia (-7,1%), Polonia (-6,8%), Spagna (Catalogna) (-6,3%), Cipro (-6%), Repubblica Ceca (-5,6%), Spagna (-5,1%), Inghilterra e Galles (-4,4%), Slovenia (-4,3%), Serbia (-4%). In 11 paesi la popolazione carceraria è rimasta stabile (né è aumentata né è diminuita di oltre il 4%): Azerbaigian, Belgio, Estonia, Ungheria, Liechtenstein, Repubblica Moldova, Monaco, Norvegia, Romania, Slovacchia e Irlanda del Nord. Infine, in quattro paesi si è registrato un aumento di oltre il 4% dopo la prima ondata di lockdown: Andorra (24,5%), Svezia (5,8%), Danimarca (5,4%) e Grecia (5,2%). 5 paesi hanno riferito di aver rilasciato detenuti come misura preventiva contro COVID-19: Albania, Andorra, Armenia, Austria, Azerbaigian, Belgio, Cipro, Danimarca, Francia, Islanda, Irlanda, Italia, Lichtenstein, Lussemburgo, Monaco, Norvegia, Portogallo, Serbia, Slovenia, Spagna, Turchia, Inghilterra e Galles, Irlanda del Nord e Scozia. Insieme hanno rilasciato143.000 prigionieri tra marzo e settembre. La Turchia si distingue come il paese che ha rilasciato il maggior numero di prigionieri dopo la Russia. Ha rilasciato 114.460 detenuti, quasi il 40% della sua popolazione carceraria. Altre cifre degne di nota includono il 23% dei detenuti in Catalogna (Spagna) e Cipro, il 17% in Francia e Portogallo, il 16% in Slovenia e il 15% in Norvegia. Va notato che ai prigionieri generalmente non sono state concesse amnistie, ma piuttosto sono stati richiamati in seguito o dovrebbero esserlo. Ciò ha riguardato anche i detenuti in custodia cautelare, ammissibili al rilascio su cauzione. La pandemia ha amplificato le tendenze esistenti - Secondo il professor Marcelo Aebi, direttore dello studio, la tendenza al calo della popolazione carceraria europea è spiegata non solo dal rilascio dei prigionieri. Anche il sistema di giustizia penale è cambiato nella maggior parte dell’Europa: le autorità cercano sempre più spesso di trovare metodi di punizione alternativi in ??sostituzione della detenzione. Ci sono motivi finanziari - le carceri sono costose da gestire - ma è anche noto che la punizione può essere raggiunta senza incarcerazione. Per questo motivo troviamo un aumento delle multe, degli arresti domiciliari e dei servizi alla comunità. La pandemia ha avuto un effetto generalmente positivo sui tassi di criminalità. A seguito delle serrate molte forme di criminalità sono diventate impossibili: non solo i taccheggi sono diminuiti, ma è diminuita anche la criminalità stradale. Con meno persone trovate all’esterno, il crimine di strada è stato reso più difficile. Locali notturni chiusi; i comportamenti criminali tradizionali dovevano essere adattati. Il mercato della droga illegale ha subito un temporaneo rallentamento. Va ricordato che in Svezia, dove non ci sono stati lockdown, la popolazione carceraria è aumentata all’inizio delle restrizioni. Lo studio rileva inoltre che almeno 3.300 detenuti e 5.100 membri del personale penitenziario sono stati infettati dal Covid-19 in tutta Europa al 15 settembre 2020 nelle 38 amministrazioni penitenziarie che hanno fornito dati al riguardo. Quando l’Egitto era il nostro Eden di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 9 marzo 2021 Guardando agli attuali rapporti italo-egiziani - tra durezza esibita degli uni, cupa indifferenza degli altri e reciproci affari sotterranei - viene da sfogliare un bel libro di Dora Marchese, “Nella terra di Iside” (Carocci). Di fronte all’omicidio di Giulio Regeni e alle truci disavventure di Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna tenuto in carcere al Cairo, è difficile ignorare il passato. Guardando agli attuali rapporti italo-egiziani - tra durezza esibita degli uni, cupa indifferenza degli altri e reciproci affari sotterranei --viene da sfogliare un bel libro di Dora Marchese, “Nella terra di Iside” (Carocci). Che ricostruisce la rappresentazione dell’Egitto nell’immaginario letterario italiano tra Otto e Novecento, suggerendoci tacitamente un confronto (disastroso) tra l’Eden (fantasticato ma anche reale) di allora e l’oggi decisamente truculento, anche se non privo di fruttuosi scambi economici. Da quando, esattamente centocinquant’anni fa, nel 1871, l’Aida di Verdi fu messa in scena per la prima volta all’Opera del Cairo, ne sono successe di cose nelle relazioni culturali tra i due Paesi. Basti fare un paio di esempi. Quello del sovversivo viareggino Enrico Pea che, arrivato nel 1902 ad Alessandria come mozzo, fondò nella sua soffitta la “Baracca Rossa”, destinata a diventare un mitico luogo d’incontro tra esuli, anarchici, rivoluzionari, idealisti, frequentato anche dal suo giovanissimo amico Giuseppe Ungaretti, che proprio ad Alessandria era nato. E spiccano figure femminili tutt’altro che conformiste (ormai pressoché cancellate dalla memoria), come Leda Rafanelli, avventurosa attivista della pace, anarchica e femminista oltre che musulmana convinta, editrice e romanziera autobiografica in chiave anticolonialista e filoaraba. Per non dire di una delle scrittrici italiane più sorprendenti (e meno ricordate), la sarda Fausta Cialente, la cui storia letteraria prese avvio ad Alessandria, dove si trasferì nel 1921. Suo marito, Enrico Terni, musicista e agente di cambio, animò un circolo intellettuale e artistico vivace, molto più di quelli che offriva l’Italia fascista. E a proposito di regime, sempre Cialente in quegli anni poteva esprimere la sua opposizione a Mussolini attraverso Radio Cairo dallo stesso Paese che oggi reprime con brutalità ogni dissidenza interna. Se Dora Marchese dovesse aggiornare il suo libro, si troverebbe a dar conto di un mondo capovolto e irriconoscibile. In cui, nel giro di un secolo, l’Eden è diventato un mattatoio. Libia. Colpo alla rete dei trafficanti di Paolo Lambruschi Avvenire, 9 marzo 2021 Le forze speciali di Tripoli entrano nella “città dei fantasmi” a Bani Walid e arrestano il famigerato Hassan, sadico aguzzino dei lager. Un fermo anche a Isola di Capo Rizzuto. E secondo colpo in 30 giorni alle milizie che gestiscono con trafficanti subsahariani il mercato di esseri umani in Libia nei centri informali’ Il 5 marzo scorso all’alba, unità della brigata da combattimento 444 della Rada, le forze anticrimine, hanno fatto irruzione in sei capannoni riconvertiti a prigioni non ufficiali a Bani Walid, arrestando torturatori libici e africani e liberando 70 migranti somali ed etiopi. Tra gli arrestati, confermano esponenti dell’opposizione eritrea in Italia, il famigerato Hassan, che i profughi sopravvissuti alla durissima prigionia a Bani Walid hanno descritto come crudele e sadico aguzzini di questi lager. Un video sui social mostra l’irruzione degli agenti e gli arresti. Il ministro dell’Interno Fathi Bashaga, secondo gli osservatori in piena campagna elettorale, pare intenzionato a presentarsi agli europei come interlocutore affidabile sullo scottante tema del controllo dei flussi. Il 16 febbraio scorso, infatti, le forze di sicurezza libiche avevano arrestato sei trafficanti che tenevano in una casa prigione a Kufra, primo approdo nel deserto dal Sudan, 156 migranti, tra cui 15 donne e cinque bambini provenienti da Somalia, Eritrea e Sudan. Dopo tanti anni ieri è crollato il mito dell’impunità della ‘città dei fantasmi’, così detta per i tanti subsahariani che vi hanno perso la vita. Bani Walid, 150 chilometri a sudest di Tripoli, è considerato un hub dei migranti gestito direttamente dai trafficanti. Punto di arrivo delle carovane di migranti provenienti dal deserto sia dalla rotta dell’Africa occidentale dal Ciad che da quella orientale dal Sudan e dirette verso la costa, diventava l’inferno per chi non aveva il denaro per proseguire. I migranti venivano divisi nei capannoni-lager in base alla nazionalità e detenuti in condizioni disumane. Le torture, spesso in diretta telefonica con i parenti per estorcere riscatti, erano abituali come le violenze sessuali. Nessuno fino a venerdì era intervenuto nella città franca dei trafficanti per stroncare orrori noti e documentati. Un video pubblicato ieri dal ministero dell’Interno libico mostra infatti una donna picchiata a sangue dai carcerieri. Ma Avvenire aveva pubblicato foto di prigioniere e prigionieri di questo inferno appesi al muro o minacciati con una pistola alla testa già nel 2018 e nel 2019, mentre in Italia per propaganda politica si sproloquiava sui “centri benessere” libici offendendo la memoria delle vittime di atrocità indicibili. Ad esempio, nemmeno tre settimane fa è evaso, durante il processo ad Addis Abeba, Kidane Zekarias Habtemariam, super-trafficante eritreo forse fuggito in Sudan e attivo dal 2013 fino a tutto il 2019 anche a Bani Walid. Dove, secondo i testimoni sopravvissuti stuprava le detenute e organizzava tornei di calcio tra squadre di prigionieri macilenti che non potevano saldare i riscatti dove i perdenti venivano uccisi. A Bani Walid torturava, stuprava e uccideva anche il somalo Osman Matammud, detto Ismail, primo condannato all’ergastolo con pena confermata in Cassazione lo scorso ottobre per crimini commessi nei lager libici. Lo avevano fatto arrestare a Milano nel 2016 le sue vittime. Decisive anche per l’arresto nel Cara di Isola Capo Rizzuto ordinato dalla procura della Dda di Catania di un altro noto aguzzino sbarcato in Italia, ad Augusta, dopo essere stato salvato da una Ong a febbraio in mare. Sabir Abdallah Ahmed, sudanese, 26 anni, è accusato di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Sarebbe uno dei complici dei trafficanti che usavano la violenza per tenere l’ordine prima delle partenze. Da Teheran a Kabul, le spine di Biden di Franco Venturini Corriere della Sera, 9 marzo 2021 Due grandi punti interrogativi chiedono risposte urgenti della Casa Bianca: il ritiro o meno dall’Afghanistan entro maggio, e l’auspicato salvataggio dell’accordo nucleare firmato nel 2015 con l’Iran. L’impressione è che Biden vada bene e di corsa. Ma nella politica estera statunitense restano due grandi punti interrogativi che chiedono risposte urgenti della Casa Bianca: il ritiro o meno dall’Afghanistan entro maggio, e l’auspicato salvataggio dell’accordo nucleare firmato nel 2015 con l’Iran. Sul ritiro dall’Afghanistan, che coinvolgerebbe anche i contingenti alleati tra cui 800 militari italiani, Biden e il suo Segretario di Stato Blinken hanno spiegato l’orientamento USA senza tuttavia renderlo definitivo. In Afghanistan la violenza non solo non è diminuita ma è aumentata, dunque il patto concluso da Trump con i Talebani per il ritiro a maggio 2021 non regge più. Si resta, ma come? Un compromesso con i Talebani oppure contro i Talebani che guadagnano terreno ogni giorno? Nella seconda ipotesi, basterebbero gli attuali 2500 soldati USA schierati in Afghanistan? Il tempo stringe, occorre chiarire una situazione che coinvolge anche gli alleati. Non meno complesso è l’avvio di un dialogo con l’Iran. Segnali di buona volontà sono stati appena scambiati: l’Iran ha accettato di discutere a livello tecnico le tracce di uranio rilevate dove non dovevano essere, la produzione di uranio metallo a Ispahan è stata (forse) sospesa, la decisione di vietare le ispezioni dell’Agenzia Atomica è stata parzialmente rimandata; in cambio gli europei, d’accordo con gli americani, hanno sospeso la presentazione di una risoluzione davanti all’AIEA che avrebbe fatalmente condannato l’Iran. Gesti, ma i problemi restano. Gli iraniani non possono concedere troppo prima delle presidenziali del prossimo giugno. E Biden non può tornare al tavolo negoziale senza una garanzia di accettazione da parte iraniana di qualche nuova clausola, su durata o coinvolgimento dei missili balistici e del comportamento regionale. Il mondo aspetta, sapendo che dopo le decisioni di Biden molti equilibri potrebbero cambiare in aree cruciali. Ruanda, dopo 27 anni il genocidio è ancora una ferita aperta di Pietro Del Re La Repubblica, 9 marzo 2021 In questi giorni si tiene l’udienza all’eroe del film Hotel Rwanda, accusato di approfittare della guerra per estorcere denaro in cambio di protezione. Radio e tv trasmettono il processo per ore. La spasmodica attenzione che prestano i ruandesi al processo contro l’uomo che nel 2005, assieme ad Aretha Franklin e Mohamed Ali, fu insignito dal presidente George W. Bush del massimo riconoscimento americano, la Freedom Medal, è sintomatica di quanto il genocidio del 1994 sia ancora una piaga aperta. Per ore, le radio della città trasmettono in diretta ogni udienza del dibattimento contro Paul Rusesabagina, 66 anni, feroce oppositore del presidente Paul Kagamé ed eroe del film Hotel Rwanda, oggi giudicato per tredici reati di terrorismo in un tribunale di Kigali, con indosso pantaloni e camicia rosa confetto, l’uniforme dei galeotti locali. Nel piccolo Paese africano sono in molti ad augurargli l’ergastolo, non tanto per aver creato una milizia armata che secondo l’accusa nel 2017 avrebbe rapinato e ucciso al confine con il Burundi, quanto per il ruolo che ebbe durante i massacri di 27 anni fa, quand’era direttore dell’Hotel Mille Collines. “Raccontò a tutti di aver salvato più di milletrecento tutsi dai machete dei genocidari, ma in realtà le cose sono andate diversamente”, dice l’attivista Jean-Pierre Sagahutu, che allora sopravvisse miracolosamente alle stragi nascondendosi in una fossa biologica dove per settimane si nutrì soltanto di vermi e scarafaggi. Secondo Sagahutu, da chi voleva varcare il portone dell’albergo e usufruire della protezione del contingente Onu che vi alloggiava, Rusesabagina esigeva più di 1500 dollari. Molti furono da lui respinti perché non avevano di che pagarlo. “Non ha mai agito per altruismo ma solo per soldi. Con le sue tante bugie è riuscito a convincere Hollywood di un essere stato un uomo eccezionalmente generoso e grazie al successo del film che gli fu dedicato, negli Stati Uniti c’è ancora chi gli crede”, aggiunge Sagahutu, la cui madre fu impalata viva e il padre segato in due dai genocidari. È del resto comprensibile che il genocidio non sia ancora stato né metabolizzato né i suoi tanti lutti elaborati, perché si è trattato di uno spaventoso trauma collettivo, in cui le milizie Interahamwe e contadini hutu si sono accaniti con una frenesia omicida e devastatrice su tutta la popolazione tutsi. Nonostante l’organizzazione sommaria e i mezzi piuttosto arcaici per compierlo, quali machete e bastoni, ottocentomila tutsi sono stati uccisi in dodici settimane, rendendo il genocidio in Ruanda di un’efficacia mai raggiunta prima. Dalla notte del 6 aprile 1994, subito dopo l’abbattimento nei cieli di Kigali dell’aereo sul quale viaggiava il presidente ruandese Juvénal Habyarimana, e il presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira, il Paese si tramutò improvvisamente in un luogo di estremo sadismo, dove le donne e i bambini divennero le prime vittime dei genocidari affinché non rinascesse nessuna generazione di tutsi, con le madri costrette a uccidere i propri figli per essere poi sistematicamente violentate, subire mutilazioni sessuali e infine essere uccise. Secondo un’inchiesta realizzata dall’Unicef, l’80% dei bambini ha avuto un morto in famiglia in quei tragici tre mesi del 1994, il 70% ha visto uccidere qualcuno e il 90% ha avuto paura di morire. Secondo Sagahutu fu tuttavia indispensabile avviare nel 2003 il piano di riconciliazione nazionale con i tribunali popolari, quelle corti Gazaca, che dovevano anzitutto svuotare le carceri di un Paese dove si contavano 120mila detenuti accusati di genocidio. “In quasi dieci anni, dodicimila Gazaca hanno risolto quasi due milioni di casi. È stato il programma più esauriente al mondo di una giustizia restauratrice in un periodo post-bellico, perché ha permesso a noi sopravvissuti di sapere che fine avevano fatto i nostri parenti, di ritrovare i loro corpi e di dar loro degna sepoltura. I tribunali speciali hanno anche posto le basi per una pace duratura nel momento in cui bisognava ricostruire il tessuto sociale del Paese. Ma non mi chiedano di perdonare gli assassini, perché dovrei farlo in nome di chi non c’è più”. Nel 2014, il museo del genocidio di Kigali è stato riconcepito, ed è stata aggiunta un’ultima sala dedicata ai bambini trucidati dai genocidari, con le gigantografie di una dozzina di piccoli scelti a caso su decine di migliaia. Raccontano le storie di Ariane Umutomi, 4 anni, che amava cantare e ballare, uccisa con colpi di pugnale sferrati negli occhi, o di David Mugiraneza, 10 anni, che amava giovare a calcio e che voleva diventare medico, torturato a morte. Andare a visitare il museo è ancora una sorta di dovere civico per ogni ruandese. Lo scorso maggio, l’arresto in Francia dell’ottantottenne Félicien Kabuga, dopo 23 anni di latitanza, suscitò a Kigali grande gioia ma anche molta rabbia. L’ex “banchiere del genocidio” che nel 1994 aveva fatto arrivare in Ruanda 500mila machete e che aveva creato e diretto Radio Mille Collines da cui diffondeva odio e invitava a snidare e mutilare “gli scarafaggi tutsi”, aveva fino al giorno del suo fermo ad Asnières-sur-Seine, vicino Parigi, trascorso la vita comoda e serena di un qualsiasi pensionato molto benestante. Dice ancora Sagahutu: “Chi l’ha protetto, tutti questi anni? Non lo sapremo mai, come non sapremo la soddisfazione che deve provare quell’assassino seriale, ormai vecchio e malato, all’idea che probabilmente non sarà mai condannato per tutto il male che ha fatto perché morirà prima che il Tribunale dell’Aja riesca a giudicarlo”.