Carceri, anatomia della strage del Sant’Anna di Lorenza Pleuteri giustiziami.it, 8 marzo 2021 Modena, carcere Sant’Anna, piazzale esterno, 8 e 9 marzo 2020. Lo scenario è da “medicina da campo di guerra”, senza precedenti in tempo di pace. Una dottoressa dichiarerà a verbale di aver visitato in un paio d’ore una quarantina di detenuti reduci dalla sommossa e dai roghi, il che fa tre minuti a testa e sempre che non si siano state pause anche brevissime tra un paziente e l’altro. Parma, notte tra l’8 e il 9 marzo. Una collega spiegherà agli investigatori non aver potuto verificare in presenza le condizioni di salute di sedici ragazzi appena arrivati, alcuni dei quali con problemi evidenti all’ingresso, perché si erano addormentati in cella e le celle di notte si possono aprire solo in situazioni particolari. Li ha “visitati” dai corridoi, guardando dentro le celle. Ed era sicura che fossero tutti vivi, perché all’accensione della luce erano stati disturbati e si muovevano. Ancora Modena, 8 marzo. Medici e infermieri attivati per la maxi emergenza, con l’istituto fuori controllo e 546 detenuti presenti e potenzialmente bisognosi di cure, non hanno con sé abbastanza dosi di farmaci necessari per contrastare le overdosi di metadone e psicofarmaci. Si devono far portare altre confezioni da un pronto soccorso. Alessandria, un’ora all’alba del 9 marzo. Tra il malore di un detenuto appena giunto, la chiamata d’emergenza e l’arrivo di una ambulanza medicalizzata, a supporto di una dottoressa della casa circondariale, passano 40 minuti. Un anno fa, durante e dopo le rivolte scoppiate in decine di carceri italiane, morirono tredici reclusi. Dopo dodici mesi di indagini - e di silenzi e indifferenza - per otto delle vittime della strage viene notificata la richiesta di archiviazione delle indagini firmata dalla procura di Modena, destinata ad essere formalmente contrastata dai legali del Garante dei detenuti, da Antigone e da un padre. Otto dei 9 carcerati “modenesi” - si sostiene - sono stati stroncati dalle conseguenze provocate dall’ingestione di metadone associato a psicofarmaci, senza alcuna concausa, senza azioni di terzi o omissioni (o perlomeno con omissioni, come il mancato rilascio di nulla osta scritti ai trasferimenti, che vengono giustificate dalla procura con lo stato di necessità e il contesto emergenziale). Analoga richiesta era stata presentata a Bologna, dove pende un’opposizione già formalizzata. Da Rieti, dove i morti sono stati tre, tutto tace. Idem da Ascoli e da Ancona, le due città dove potrebbe essere finito il fascicolo sulla fine tragica di Salvatore Sasà Piscitelli, palleggiato tra Marche ed Emilia Romagna. Le indagini modenesi sui reati commessi dai rivoltosi sono ancora in corso, così come quella su maltrattamenti, abusi e torture denunciati da almeno nove scampati (due denunce formali iniziali, due lettere con firme oscurate, un esposto con cinque sottoscrizioni della prima ora). Quest’ultima e l’inchiesta madre, sugli otto morti, sembra non siano state incrociate (“Procediamo separatamente, perché un conto sono gli ipotetici maltrattamenti e un altro conto i decessi”, ha spiegato il procuratore capo pro tempore). La richiesta di archiviazione delle indagini presentata al gip Modena, aperta contro ignoti e rimasta tale, in 76 pagine racconta le ultime ore di vita di Hafedh Chouchane, Erial Ahmadi, Slim Agrebi (spirati l’8 marzo, il primo giorno della rivolta) Alì Bakili e Lofti Ben Mesmia (trovati senza vita il 10 marzo), Ghazi Hadidi (deceduto il 9 durante il trasporto a Trento, soccorso troppo tardi alla fermata di Verona), Artur Iuzu (morto in una cella del carcere di Parma, il 9), Abdellha Rouan (accasciatosi all’arrivo alla casa circondariale di Alessandria, sempre il 9). Una strage senza precedenti. L’epilogo di una rivolta che la procura ritiene sia stata “evidentemente” predeterminata, basandosi su tempi e modalità della protesta. Le prime 25 pagine di testo (e le fotografie dei reparti inagibili e delle postazioni assaltate) servono per ricostruire le drammatiche fasi della rivolta, l’assalto alle infermierie e la razzia di metadone e psicofarmaci, la distribuzione di flaconi e pasticche come se fossero caramelle, il metadone bevuto a canna, le devastazioni e gli incendi, infermiere e medici barricati in stanze ammorbate dal fumo. Un crescendo drammatico Una situazione senza precedenti, ad altissima tensione. Per ricomporre il quadro la procura si basa sulle autopsie (tutte fatte solo dai consulenti della pubblica accusa, senza consulenti delle persone offese, nominati successivamente), sulle analisi tossicologiche, sulle relazioni e sulle dichiarazioni di agenti e graduati della polizia penitenziaria e di operatori sanitari del carcere ed esterni. I detenuti sentiti a verbale sono pochissimi. Gli agenti hanno sparato in aria (dicono loro) per evitare evasioni e contenere i disordini, però il “particolare” non è stato dichiarato nelle informative al Parlamento e omesso dalle poche persone che qualche dichiarazione iniziale la fanno. Il metadone era presente in grande quantità (pari a 18 flaconi da 1,25 litri ciascuno). Ma non è strano, non secondo il personale medico e la procura. Era quello necessario per garantire due mezze giornate di terapia ai detenuti cui era prescritto. Ed era conservato correttamente, così si legge, con le modalità previste dalle Linee guida della regione Emilia Romagna (che però non prevedono l’eventualità di rivolte e i rischi connessi) e accorgimenti supplementari. Nelle pagine successive vengono trattati i diversi scenari (decessi in carcere durante le rivolte, gestione sanitaria degli scampati, morti in cella dopo le rivolte e morti a seguito delle traduzioni), approdando a conclusioni simili per tutte le otto vittime. L’overdose (spiegata in termini di effetti letali sull’organismo) è l’unica causa individuata. Sui corpi sono stati trovati segni di ecchimosi e contusioni, ma si esclude che possano aver contribuito a provocare i decessi. Sarebbero stati lasciati da azioni fatte dai detenuti durante le azioni di protesta o a precedenti tentativi di suicidio. Al detenuto morto sulla strada per Trento, Ghazi Hadidi, mancavano due denti, Aveva problemi odontoiatrici, da tempo. Ma non è stato chiarito dove e come abbia perso uno o entrambi. Ha preso qualche colpo in faccia? O già non li aveva? Il trauma al viso non è considerato in alcun modo influente sulla morte. Una dottoressa si ricorda che aveva già un dente rotto (non saltato via), però non sa dire quale. Il capitolo centrale è quello sulla gestione sanitaria dei detenuti, che a Modena erano 546. La descrizione delle ore di massimo allarme è pesante, dura, drammatica. Forse per la prima volta si percepisce in quali condizioni si siano trovati ad operare medici, infermieri e volontari, costretti ad occuparsi di decine di persone in pericolo di vita e in un contesto delicato, come è quello carcerario. Sono stati colti impreparati, anche loro? Hanno fatto tutto il possibile, come sostiene la procura? Ci sono state sottovalutazioni? La necessità di salvare vite, è la risposta data dall’inchiesta, ha prevalso su tutto. L’ordinamento penitenziario impone che siano da sottoporre a visita medica i reclusi da trasferire (con un nulla osta sanitario da consegnare al caposcorta), chi arriva in carcere, coloro che sono coinvolti in azioni i cui la polizia penitenziaria usa la forza (pratica ammessa in determinate circostanze). Nelle carte della procura sintetizzate dalla richiesta di archiviazione (carte che rimandano ad atti ponderosi e con contenuti più ampi) non è indicato il numero di medici e infermieri schierati per reggere l’onda d’urto dei carcerati (e del personale del penitenziario con problemi da salute) da visitare e curare. Si legge che è stato attivato il protocollo delle maxi emergenze 118 (senza riferimenti a piani specifici per emergenze in ambito carcerario) e che vengono allestiti due posti medici avanzati., due tendoni attrezzati per il triage, per i primi accertamenti, per la stabilizzazione e per l’osservazione dei pazienti. Si attesta la presenza di volontari della Croce rossa e della Protezione civile, sempre senza indicare il numero (che potrebbe essere riportato negli atti integrali, quelli che la procura deve depositare e mettere a disposizione delle parti). La situazione è paragonata a quella della “medicina da campo di guerra”. Dal carcere devastato e incendiato vengono portati fuori detenuti sballati, in stato comatoso, cianotici, con le pupille ristrette e altri sintomi da intossicazione da oppiacei e psicofarmaci. Sotto i tendoni e nei letti disponibili tutti non ci stanno. Vengono adagiati e assistiti sull’aiuole e sull’asfalto. La priorità è scongiurare tragedie. La ventilazione manuale o in maschera supportano la respirazione. La somministrazione di antidoti contrasta gli effetti del metadone. Ma non ci sono abbastanza dosi per tutti. Occorre farsi mandare altri farmaci antagonisti da un pronto soccorso. E per le persone più gravi viene disposto l’accompagnamento in ospedale. Non c’è nemmeno il tempo - afferma la procura, facendo proprie le spiegazioni dei sanitari - di chiedere il nome e di identificare i reclusi presi in carico (senza documenti addosso e con i fascicoli dell’ufficio matricola distrutti), di registrare le visite, redigere via libera ai trasferimenti. “È evidente come in tale contesto di criticità - si rimarca - non è stata prodotta alcuna documentazione scritta che potesse avere valore di nulla osta al trasferimento”, perché compilarlo avrebbe sottratto energie e minuti “preziosissimi per assistere quante più persone possibili”. La situazione d’emergenza non consente nemmeno, non nelle prime ore, di procedere alla registrazione degli interventi sanitari effettuati. La procura ritiene lo stesso che ci sia la prova (anche se dovrebbe chiamarsi prova quella che si acquisisce in giudizio e non nelle indagini preliminari) che tutti i detenuti siano stati visitati, come d’obbligo. Alcuni sono stati visitati due volte, si dà atto. Ghazi Hadidi, ad esempio. Si era ripreso, dopo un doppio giro di controlli. Si è allontanato da un tendone dei soccorritori fumando una sigaretta. A Verona è arrivato morto, nell’ultima cella di un furgone della Polizia penitenziaria. L’autista e i sei agenti di scorta hanno detto di non aver percepito nulla di anomalo, in quanto i carcerati a bordo - moribondo compreso - “erano in silenzio, poiché stavano presumibilmente dormendo”. I compagni di viaggio non sono stati interrogati (o perlomeno non è annotato nella richiesta di archiviazione). C’è invece un detenuto che ha deposto di averlo visto durante la sommossa con le tasche piene di farmaci e una bottiglia di metadone in uno zaino. Ma quanto sono durate le visite mediche pre trasferimenti? E quanto sono state approfondite, compatibilmente con la situazione e la necessità di salvare vite? Una dottoressa, parlando dei detenuti portati in barella nel posto medico avanzato riservato alle urgenze, dice: “In un paio d’ore ne avrò visitato circa una quarantina”. Tre minuti a controllo, più o meno. Nessuno, tra loro e tra gli altri passati dal tendone nelle ore successive, “presentava lesioni da aggressioni fisiche”. Alla fine, tra i carcerati rimasti a Modena e tra i 417 portati altrove, si conteranno nove cadaveri. A Parma la storia lascia l’amaro in bocca. Sedici detenuti “modenesi” arrivano alle 22.30. Tutti vengono perquisiti, per verificare che non abbiano addosso metadone o altro. I quattro che presentano sintomi “evidenti da abuso di sostanze (occhi semichiusi, rallentati nelle reazioni, alcuni con eloquio incerto) sono collocati in celle diverse, assieme a compagni che stanno bene. Poi uno peggiora, soccorso dal personale e fatto portare in ospedale. Un’ora dopo il cessato allarme, alle 2 di notte, la dottoressa di turno si ricorda che si sono i nuovi giunti da visitare, come previsto dall’ordinamento penitenziario. Ma si tratta di persone pericolose e in più dormono già e i protocolli per il Covid complicano tutto. La dottoressa, è scritto nei atti, effettua le visite dall’esterno delle celle. Guarda dentro le stanze dal corridoio, dopo aver fatto accendere le luci. Si vede perfettamente, annota la procura, perché le porte blindate sono aperte e ci sono solo i cancelli a sbarre tra controllante e controllati. Lei deduce che siano tutti vivi e che non abbiano bisogno di cure urgenti, perché si muovono, disturbati dalle lampade e dalle voci. Uno alza la testa, per riappisolarsi subito. La dottoressa, finito il giro, in una mail garantisce al suo referente: “Ho sinceramente fatto del mio meglio”. Sono le 2.39. Quattro ore più tardi il compagno di cella esce dal bagno e si accorge che Artur Iuzu non respira o respira male. “I sanitari giungevano sul posto immediatamente”. Troppo tardi, anche per lui. Il modello Sant’Angelo dei Lombardi, un carcere umano è possibile di Viviana Lanza Il Riformista, 8 marzo 2021 Il carcere può funzionare come luogo di responsabilizzazione e non di sola privazione, di rieducazione e non punizione, di opportunità e non di vendetta. E la prova che tutto questo è possibile arriva da una piccola realtà dell’Avellinese. La Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi è un esempio di carcere che riesce pienamente a rispettare la funzione rieducativa della pena stabilita dalla Costituzione, anche se per la sezione psichiatrica la struttura deve fare i conti con le scarse risorse a disposizione. Da giugno, secondo la denuncia del garante Ciambriello, mancano lo psichiatra e un tecnico della riabilitazione. Nella sezione di Sant’Angelo dei Lombardi, però, è presente un solo detenuto con problemi psichiatrici. Dunque il bilancio della struttura è nel complesso positivo. “Qui si sperimenta la funzione rieducativa della pena”, ha sottolineato il garante regionale Samuele Ciambriello dopo aver visitato il carcere avellinese. I detenuti hanno la possibilità di dedicarsi al lavoro nella tipografia, nella sartoria, nella lavanderia, nella carrozzeria e nell’officina meccanica. C’è, inoltre, un possedimento agricolo con una produzione propria di vini, miele, pomodori, marmellata, lavanderia esterna. Un ventaglio di attività vario e vasto che consente ai reclusi di espiare la pena impiegando il tempo in attività che possono garantire loro un futuro lavorativo, una volta espiata la condanna e riottenuta la libertà. È un esempio di istituto, quindi, che consente di allegare lo sguardo verso il futuro. Le attività che si svolgono nella casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi sono un’eredità del compianto direttore Massimiliano Forgione. “Così si sperimenta la funzione rieducativa e costituzionale della pena - ha aggiunto il garante - Un carcere dove anche le relazioni tra personale penitenziario e detenuti e detenuti e personale dell’area educativa hanno un qualcosa di empatico”. La casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi ospita 134 detenuti di cui 45 arrivati proprio nei giorni scorsi, e provenienti dal carcere di Poggioreale. La tipografia di questa struttura penitenziaria accoglie commesse da tutte le carceri d’Italia, e dunque l’esempio di Sant’Angelo dei Lombardi sarà una nota positiva nel bilancio annuale dell’attività del garante. La relazione sulle carceri campane consente di mettere a fuoco la situazione nei vari istituti di pena della regione e quest’anno includerà anche un bilancio sulla gestione dell’emergenza epidemiologica che ha fatto dieci vittime all’interno delle carceri della Campania, oltre a migliaia di contagiati nel corso dell’ultimo anno: un dramma che ha sollevato nel corso dei mesi scorsi proteste e indignazioni, appelli e richieste di interventi. Detenuti 41bis esclusi da colloqui Skype con figli, deciderà la Corte costituzionale agi.it, 8 marzo 2021 La Corte costituzionale dovrà sciogliere il nodo ovvero se è legittimo escludere i detenuti sottoposti al 41 bis, dai colloqui via Skype con i figli minori. Il 41 bis è il regime speciale a cui sono sottoposte alcune categorie di detenuti, a partire da boss di mafia e terroristi. Ed ora la Corte costituzionale si appresta a decidere sulla possibilità che questo tipo di detenuti possa colloquiare tramite Skype con i figli minori. Il 9 marzo il tema sarà trattato in udienza pubblica. All’origine c’è il caso di un detenuto sottoposto al carcere duro che si era visto rifiutare i colloqui via Skype con la figlia di 5 anni e che per questo si era rivolto al Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria. Le conversazioni via Skype sono stati introdotti nelle carceri con l’emergenza Covid, in sostituzione degli incontri diretti, per evitare il diffondersi del contagio e nello stesso tempo per garantire il diritto del detenuto al mantenimento delle relazioni affettive. Li ha previsti l’articolo 4 del decreto-legge 10 maggio 2020, n. 29. Le norme però non fanno riferimento ai detenuti sottoposti al regime del carcere duro e proprio per questo i giudici reggini dubitano della loro costituzionalità, dubbi che investono anche lo stesso l’articolo 41-bis della riforma penitenziaria del 1975, visto che non prevede che i colloqui sostitutivi con i figli minorenni possono essere autorizzati a distanza, in alternativa a quelli telefonici, con modalità audiovisive. Tutto questo per i giudici si traduce in una disparità di trattamento dei figli minorenni dei detenuti sottoposti al regime speciale rispetto a quelli dei detenuti comuni, e nella lesione dei loro diritti inviolabili, come quello di mantenere i rapporti affettivi con il genitore in carcere, a tutela del corretto sviluppo della loro personalità e del loro benessere psico-fisico. I giudici denunciano perciò la violazione di una serie di norme della Costituzione (articoli 2, 3, 30 e 31) oltre che dell’articolo 27, perché fondamentale per il recupero sociale del reo è il mantenimento dei rapporti familiari e soprattutto genitoriali. Sarebbe leso anche l’articolo 117 della Costituzione, in riferimento agli articoli 3 e 8 della Carta europea dei diritti dell’uomo, che vietano pene inumane e degradanti e garantiscono il rispetto alla vita familiare. Giustizia riparativa e riti alternativi per accelerare i processi penali di Sergio Lorusso* Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2021 Le aspettative che il Governo guidato da Mario Draghi ha ingenerato in tema di giustizia sono elevate. L’individuazione di un Guardasigilli di alto profilo, come Marta Cartabia, docente universitaria e Presidente emerito della Corte costituzionale, induce in tale direzione, senza per questo ispirare un facile ottimismo. L’obiettivo è una giustizia degna dell’Europa, a partire dalla priorità dell’annosa questione della ragionevolezza dei tempi del processo penale, rispetto alla quale è possibile individuare alcune soluzioni che facciano leva sull’ambito dei riti differenziati riducendo durate spesso elefantiache. Quali i rimedi possibili? In primo luogo, anticipare la definizione del processo penale nella fase delle indagini preliminari (nella quale la maggior parte dei procedimenti si prescrivono), introducendo un’archiviazione “condizionata” a forme di risarcimento e/o di ristoro del danno e/ o dell’offesa subiti dalla vittima. In tal modo la persona sottoposta alle indagini preliminari esce dal circuito giudiziario e la vittima trova nel risarcimento/ristoro per l’offesa subita un soddisfacimento delle sue pretese. Anche nella fase processuale si potrebbe pensare a meccanismi di giustizia riparativa, rafforzando in tale chiave i riti già esistenti: sospensione con messa alla prova, giudizio abbreviato, applicazione della pena su richiesta delle parti. In questi ultimi casi si potrebbero aumentare i vantaggi per l’imputato (a partire da un incremento degli sconti di pena e dei benefici), a fronte di un comportamento attivo - più incisivo di quello ora riconosciuto - che “risarcisca” la vittima e le sue istanze. La sospensione con messa alla prova potrebbe vedere ampliati i confini di operatività e resi più flessibili i requisiti d’ingresso. Solo una maggiore appetibilità, del resto, potrebbe infrangere il muro della scarsa convenienza ad adire tali riti piuttosto che attendere la probabile prescrizione. E appagare, al contempo, le giuste aspettative della vittima. Le direttrici qui indicate potrebbero risultare efficaci a ridimensionare quello che è un cancro della nostra macchina processuale, dai molteplici effetti altamente negativi. La durata irragionevole - d’altronde - finisce per incidere sulla stessa presunzione di non colpevolezza, lasciando sotto una spada di Damocle l’imputato, anche quando innocente, ledendone le prerogative e trasformando il processo in una “condanna anticipata”: da qui il danno all’immagine, all’attività lavorativa, alla vita di relazione (tutti, allo stato, non risarcibili né indennizzabili). Il raffronto con altre realtà come quella statunitense, caratterizzata dalla discrezionalità dell’azione penale, dalla cultura del One Day in Court e dalla giuria è problematico ma non impossibile (almeno in prospettiva). Sono solo alcune proposte, certamente perfettibili, che non hanno l’ambizione di risolvere in toto il problema del mancato rispetto dell’articolo in, comma i, della Costituzione ma - più semplicemente - di costituire degli input da cui partire per avviare un dibattito sereno e scevro da pregiudizi tra magistrati, avvocati, politica e, last but not least, dottrina. Per costruire, finalmente, un processo a misura d’Europa. *Ordinario di diritto processuale penale Università di Foggia Cartabia: “Prevenire i femminicidi estirpando la cultura della violenza contro le donne” di Liana Milella La Repubblica, 8 marzo 2021 Alla vigilia della Festa della Donna la ministra della Giustizia invita ad agire “dalle prime, apparentemente piccole, manifestazioni”. Per salvare le donne dalla morte, anziché constatare, a cose fatte, che un uomo violento alla fine di un percorso di minacce e provocazioni le ha uccise, è necessario agire subito, agendo “dalle prime, apparentemente piccole, manifestazioni per prevenirne tempestivamente le conseguenze più gravi”. È il primo 8 marzo di Marta Cartabia ministra della Giustizia. E le sue parole sulle donne vittime della violenza di un assassino fanno riflettere. Proprio per il timing che Cartabia propone, nel senso di cogliere e ascoltare tutti i segnali di tortura su una donna, in modo da agire prima che il fatto di sangue venga compiuto. “La violenza contro le donne è espressione di una cultura di potere e di subordinazione che deve essere estirpata dalle radici” scrive Cartabia. Ladddove per “radici” bisogna intendere una strategia di ascolto dei primi segnali lanciati dalla potenziale vittima. Quelle, appunto, “apparentemente piccole manifestazioni” che poi sfociano in “conseguenze più gravi”. Basta pensare alle denunce, tante volte ignorate, oppure trattate in modo superficiale. O ancora agli errori strategici, come quello di mandare agli arresti domiciliari l’assassino, dopo appena due anni di carcere, com’è avvenuto per l’omicidio di Fortuna Bellisario a Mianella nel Napoletano. Poche ore prima che arrivi l’8 marzo, e mentre dal Viminale la ministra Luciana Lamorgese rende pubblico il dossier sull’aumento dei femminicidi, Marta Cartabia esprime la sua “sentita partecipazione alla sofferenza di tutte le donne che hanno subìto violenza, fisica e psichica, e a quella dei familiari di tutte le vittime che hanno perso la vita per atti di aggressione e che avvertono bruciante il bisogno di giustizia”. Del resto è ormai un tragico trend quello per cui aumentano i “femminicidi”, l’espressione che Cartabia preferisce usare per indicare, come fanno gli esperti, gli omicidi compiuti dagli uomini che uccidono la donna in quanto tale. Un trend confermato, a differenza degli omicidi più in generale che invece risultano in calo, anche durante la pandemia. In questo drammatico quadro, la Guardasigilli Cartabia annuncia che aderirà all’invito della ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti “per ricostituire gli organismi di governance previsti dall’ordinamento per il presidio delle politiche di prevenzione e contrasto della violenza contro le donne”. “Sì a leggi che aiutino le donne: ora alla Camera si valuterà l’impatto di genere di ogni norma” di Giovanna Casadio La Repubblica, 8 marzo 2021 La vicepresidente di Montecitorio Maria Edera Spadoni spiega il nuovo servizio, già attivo al Parlamento europeo, che entrerà in funzione a breve. Inoltre le commissioni parlamentari che esamineranno il Recovery plan inseriranno nei loro pareri una parte specifica relativa alla parità di genere. “La scommessa è quella di avere norme che aiutino le donne”. Maria Edera Spadoni, grillina, vice presidente della Camera, l’ha spuntata: le commissioni parlamentari che esamineranno il Piano Nazionale di ripresa e resilienza dei fondi europei inseriranno nei loro pareri, ognuno per la sua competenza, una parte specifica relativa alla parità di genere. Non solo. Dalla prossima settimana il servizio studi della Camera dei Deputati predisporrà, all’interno di ogni dossier di approfondimento, una parte specifica relativa alla valutazione dell’impatto di genere della legge in esame. Sembra una questione tecnica, lo è assai poco: significa infatti indicare una rotta e colmare le disparità. Spadoni, un suo ordine del giorno e il pressing sui capigruppo di una settantina di deputate di ogni partito su donne e parità, cosa ha ottenuto alla fine? “Spesso si fanno tante parole e pochi fatti sulla parità di genere. Alla Camera abbiamo messo in cantiere alcuni progetti. Sul Piano di ripresa e resilienza, ad esempio. Verrà vagliato dalle commissioni parlamentari, i cui rilievi andranno poi inviati alla commissione Bilancio, a cui spetta di dare il parere al governo. Ebbene l’intergruppo donne, diritti e pari opportunità, composto da circa 70 deputate di diversi gruppi politici, ha spinto affinché all’intento dei rilievi di ogni commissione ci sia una parte specifica relativa alla parità di genere. Ciascuna commissione dovrà avere una attenzione particolare a questo”. Cosa cambia? “Innanzitutto che la parità di genere non deve essere relegata ad alcuni settori, come il sociale o la giustizia. Per raggiungere una vera parità di genere, tutti i settori economici e sociali devono essere coinvolti”. Riguarda solo il Piano di resilienza? “No. Io ho lanciato una proposta affinché nei report del servizio studi della Camera dei Deputati che accompagnano tutti i progetti di legge, ci sia un paragrafo dedicato alla valutazione dell’impatto di genere. Già esiste questo metodo nell’Europarlamento e in alcuni Paesi come il Portogallo”. In concreto? “Se il legislatore decide di fare norme per migliorare il trasporto pubblico e i dati Istat ci dicono che sono le donne ad usarlo di più, è chiaro che la valutazione d’impatto di genere sarebbe dirimente. Il potenziamento agevolerà le donne”. Altri esempi? “Nel piano Colao, sul welfare si raccomandava la copertura di asili nido al 60% dei bambini. Quindi teniamone conto. Per le donne il problema è la gestione della cura dei figli, degli anziani, delle persone con disabilità. Le donne se ne fanno carico. Quindi se fai politiche che incrementino i servizi, allora agevoli le donne che non si dovranno licenziare quando hanno un figlio. 37000 neo-mamme nel 2019 si sono licenziate. Questo trend deve finire. Aggiungo che nei nidi il personale è soprattutto femminile, quindi si incrementerebbero anche posti di lavoro”. Il Parlamento Ue ha già introdotto questo sistema? “Sì, ora noi ci adeguiamo”. L’aspetto negativo in fatto parità di genere nel Piano di rilancio e resilienza quale è? “Un dato elaborato da Linda Laura Sabbadini dell’Istat dice che il 57% del Pnrr andrà a settori prevalentemente maschili. E non perché i progetti siano stati fatti per non agevolare le donne, ma perché hanno un impatto, una incisività profonda in settori in cui ci sono poche donne. L’Italia ha un problema culturale profondo, per cui le donne non si sentono adeguate per fare determinati mestieri. Solo una rivoluzione culturale può abbattere gli stereotipi”. Ma quale è la priorità delle priorità? “L’occupazione femminile. È fondamentale. Non puoi lasciare a casa il 50% della popolazione italiana. La presenza delle donne lavoratrici fa crescere l’economia. E se sei indipendente a livello economico riesci anche più facilmente a uscire da una spirale di violenza”. L’arresto diventa spettacolo. Penalisti infuriati: “Così si alimenta la gogna” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 marzo 2021 Omicidio di Faenza, la polizia filma il momento dell’arresto e il Resto del Carlino pubblica il video. Ma l’Unione Camere Penali non ci sta: “Se è vero che la cronaca è un diritto, non lo sono né lo possono diventare la curiosità o la sete di vendetta”. Se negli Stati Uniti sono abituati alla walk of shame delle persone tratte in arresto costrette dalla polizia a fare la passerella dinanzi alla folla di giornalisti, qui in Italia abbiamo i video delle forze dell’ordine a celebrare la camminata della vergogna, come se la vicenda di Enzo Tortora non ci avesse insegnato nulla. Il caso in questione di oggi riguarda il video della Polizia di Stato pubblicato sul sito del Resto del Carlino: 90 secondi di auto-esaltazione che riprendono prima il convoglio di macchine degli agenti in autostrada e poi l’esecuzione dell’ordine di custodia cautelare nei confronti dei due indiziati - Claudio Nanni e Pierluigi Barbieri - rispettivamente presunti mandante e esecutore materiale dell’omicidio di Ilenia Fabbri, meglio noto alle cronache come l’omicidio di Faenza. Tale episodio viene ora fortemente stigmatizzato dall’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali Italiane con un documento di cui vi proponiamo ampi stralci: “Questa volta le telecamere sono addirittura entrate nelle abitazioni degli indagati, riprendendo tutte le fasi in cui costoro venivano privati della loro libertà, mentre indossavano le manette, in attesa di ogni giudizio, attraverso una profanazione non certamente mitigata dall’oscurazione postuma del loro viso”. Il fatto su cui si indaga è sicuramente grave, “ma il diritto di cronaca - scrivono i penalisti - non può spingersi fino alla divulgazione al pubblico delle immagini integrali dell’arresto dei due indagati, coperti per altro dal presidio della presunzione di innocenza”. Ma cosa prevede la legge in merito? L’Osservatorio lo spiega chiaramente: “La legge vieta la pubblicazione dell’immagine di una persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova con le manette ai polsi ovvero soggetta ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta e punisce chiunque contravvenga a tale divieto con sanzioni di carattere penale e disciplinare. Salve le sanzioni previste dalla legge penale, la violazione del divieto di pubblicazione previsto dagli artt. 114 e 329 comma 3 lettera b) costituisce infatti illecito disciplinare a carico di esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato e di ogni violazione del divieto di pubblicazione commessa dalle persone indicate nel comma 1 il pubblico ministero informa l’organo titolare del potere disciplinare”. Pertanto è evidente che “tutelare con maggior cura possibile la dignità delle persone sottoposte ad indagini, o comunque coinvolte in un procedimento penale, è dunque un preciso dovere dello Stato, tanto più qualora la persona versi in condizioni di particolare vulnerabilità; eppure questo principio, sancito dalle direttive europee, oltre che dalla legge italiana, viene continuamente vituperato”. Come sappiamo molte persone sono state sbattute sulle prime pagine dei giornali e la loro immagine è stata distrutta, “eppure, ad oggi, non risultano segnalazioni degli Uffici di Procura e tantomeno iniziative disciplinari a fronte della non infrequente pubblicazione di foto e riprese di arrestati in manette, magari con l’ipocrita accorgimento delle manette “pixelate” e dunque, paradossalmente, ancor più sottolineate”. La conclusione è che “se è vero che la cronaca è un diritto, non lo sono né lo possono diventare la curiosità o la sete di vendetta. Gli strumenti per contenere queste distorsioni sono sempre stati in un cassetto che purtroppo nessuno vuole aprire. Sarà impegno dei penalisti italiani ricercare quella chiave a tutela delle garanzie costituzionali che si è scelto di difendere”. Abuso d’ufficio: così i Pm hanno sottomesso la politica di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 8 marzo 2021 Il reato di abuso in atti di ufficio ha una storia lunga, tormentata e - come dire - vagamente isterica. Nella sua originaria formulazione, la norma era pressoché “in bianco”: il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, al fine di acquisire un vantaggio per sé o per altri, o arrecare ad altri un danno, “abusa del suo ufficio, è punito” eccetera. Le norme penali in bianco sono una sciagura, perché sia il Pubblico Ministero che il giudice possono assegnare loro un significato ignoto al cittadino accusato di aver violato la norma medesima. “Abusa del suo ufficio”, come è ovvio, può significare tutto e il suo contrario. Nel 1990 la norma subì una prima modifica, ma non relativa a quella sua micidiale genericità. La riforma fece solo sì che quel reato inglobasse l’abrogato interesse privato in atti di ufficio, prevedendo un aggravamento di pena se l’interesse ed il danno perseguiti dalla (sempre indeterminata) condotta abusiva fossero di natura patrimoniale. Nel 1997 la norma subì finalmente una prima, importante modifica. La esigenza di specificare, cioè di tipizzare una norma di fatto “in bianco”, ne impose finalmente la riscrittura. L’abuso deve essere caratterizzato dalla violazione di legge e di regolamenti; e la condotta di avvantaggiare indebitamente sé stessi od altri, o di danneggiare terzi, deve essere intenzionale. I nostalgici dell’abuso d’antan (puntualmente in prima linea Piercamillo Davigo dalle colonne dell’amato Fatto Quotidiano) omettono puntualmente di ricordare perché si arrivò a quella prima riforma. Ve lo ricordo io. Quella norma in bianco fu usata dalla magistratura italiana, a partire dai primissimi anni novanta, come una clava. Le indagini per abuso in atti di ufficio impazzarono in tutto il Paese, perché attraverso di esso le Procure di tutta Italia poterono esercitare un potere di controllo pressoché assoluto sulla Pubblica Amministrazione, sulle sue stesse scelte discrezionali, sulle sue dinamiche politiche. Che poi, anni dopo, quelle indagini ed i relativi processi finissero sistematicamente (come le statistiche confermano in modo eclatante) nel nulla, essendo in larga misura il nulla, poco importa. Intanto, le sorti politiche e professionali di sindaci, assessori, giunte regionali, amministratori di aziende pubbliche in genere, le decidono le Procure. Senonché la riforma del 1997 vide vanificati i suoi salutari intenti nel breve spazio di un mattino, perché da subito la giurisprudenza si occupò di annacquarne il senso, pur inequivocabile. Per dirne una: nella nozione di “violazione di legge” va inclusa - stabiliscono i magistrati- anche la violazione del principio costituzionale del buon andamento della Pubblica Amministrazione (art. 97). Dunque non prendiamoci la pena di dover individuare per forza una violazione di legge specifica, come pure la legge imporrebbe: qualunque atto amministrativo che possa essere qualificabile come atto di cattiva amministrazione, torni ad essere penalmente sindacabile. La giurisdizione penale rinunzia ben difficilmente ad un potere così formidabile quale è quello di controllare e sindacare, con la forza devastante della azione penale, la Pubblica Amministrazione. Sia ben chiaro, qui nessuno pretende, come si vorrebbe far intendere, l’impunità per i cattivi amministratori: stiamo discutendo di altro. Corruzione, concussione, peculato, induzione indebita, malversazione, fino ad arrivare all’impalpabile “traffico di influenze”, sono tutte condotte che presuppongono che il pubblico ufficiale abusi del proprio ufficio, cioè dei poteri che da esso derivano; e sono, come è giusto che sia, di già severamente punite. Non c’è nessun bisogno di prevedere una specie di norma di chiusura delle condotte di abuso, utile solo a mantenere sotto il giogo delle Procure ogni atto, ogni intenzione, ogni scelta discrezionale della Pubblica Amministrazione. La ribellione della giurisdizione alla chiara volontà che il Parlamento sovrano espresse con la riforma del 1997 ha finito di fatto per ricostituire le condizioni preesistenti del reato di abuso di ufficio come norma penale in bianco. Al punto che perfino il Governo Conte due, dunque in pieno populismo penale, nel 2020 ha ritenuto indispensabile intervenire di nuovo, ribadendo che il reato di abuso non può mai riguardare un atto discrezionale della Pubblica Amministrazione, salvo che ovviamente quell’atto non integri condotte abusive più severamente punite (corruzione, concussione, peculato eccetera). Il dott. Davigo se ne duole, dice che questa storia della paura di firmare che hanno i pubblici amministratori è inspiegabile, male non fare paura non avere, ed amenità simili. Ora forse capirete un po’ meglio perché il dott. Davigo se ne duole. Io intanto, faccio il facile profeta: diamoci un po’ di tempo, e cominceremo a leggere le prime ordinanze di custodia cautelare che ci diranno: un momento, ma cosa significa in realtà “atto discrezionale”? Cosa dobbiamo davvero intendere per “specifiche norme di legge”, come pretende la nuova, ennesima riforma? e saremo - come si suole dire - da capo a dodici. Accetto scommesse. Giudici contro giornali, Area bacchetta la stampa: basta con le pressioni di Viviana Lanza Il Riformista, 8 marzo 2021 Il reato viene derubricato da volontario a preterintenzionale e l’uomo, accusato di aver ucciso la moglie, viene messo agli arresti domiciliari dopo due anni trascorsi in un carcere. La storia diventa quindi un caso per la stampa cittadina e per l’opinione pubblica. Ci sono proteste e un sit-in davanti al tribunale. Si grida al mostro scarcerato senza fermarsi a riflettere su norme, diritti, garantismo. Certo, il reato è grave, la storia molto triste e il femminicidio è un fenomeno odioso e preoccupante, ma ogni caso merita di essere valutato singolarmente e la giustizia non deve mirare alla vendetta. Ma la situazione in città diventa tale da far intervenire una parte della magistratura che pubblicamente chiede di evitare pressioni mediatiche sui giudici. Cosa succede? Viene da chiederselo ricordando gli anni delle inchieste mediatiche, delle sentenze emesse su giornali e tv prima ancora di arrivare davanti ai giudici, di indagini che si sono concluse con un nulla di fatto dopo essere state inizialmente sbandierate come se contenessero verità assolute e ignorando le conseguenze, spesso devastanti, sulle vite di chi ne veniva travolto. Cosa succede? L’interrogativo ritorna. Forse ci si sta rendendo conto che è il garantismo il principio da seguire, che gridare subito al mostro o al colpevole è sbagliato, che magistratura e stampa dovrebbero rimanere ciascuna nei propri ambiti senza cercare l’una la complicità dell’altra, che i giudici dovrebbero essere liberi e autonomi tanto rispetto a logiche di corrente e di potere quanto a pressioni mediatiche. Dopo la notizia di Repubblica sulla scarcerazione dell’uomo accusato di omicidio e l’onda mediatica che ne è scaturita, i magistrati di AreaDg, la corrente di sinistra della magistratura, hanno preso posizione: “Fuori alle porte del Tribunale di Napoli è in atto un sit-in di protesta per una decisione cautelare, assunta nel processo per l’omicidio di Fortuna Bellisario, che ha fatto discutere. Crediamo che, in un momento come questo, siano necessari tutto il rispetto e la considerazione possibili per le ragioni delle persone che manifestano ma anche una ferma richiesta di rispetto per le decisioni dei giudici, sia di chi si è già pronunciato, sia di coloro che saranno chiamati a esprimersi nelle successive fasi del giudizio cautelare e di merito”. “Ogni spiegazione istituzionale del senso e del significato dei provvedimenti giudiziari - prosegue la nota - va incoraggiata, per garantire trasparenza e comprensibilità dell’azione giudiziaria ma, come anche il Capo dello Stato ha avuto modo di precisare nella comunicazione al Csm del 25 settembre 2018, ciò non significa che le decisioni giudiziarie debbano orientarsi secondo le pressioni mediatiche né che si debba intervenire per difendere pubblicamente le decisioni assunte. Mentre è opportuna una adeguata comunicazione istituzionale, scevra da commenti e valutazioni. La “serenità” delle decisioni è e deve restare un valore nell’ambito di un sistema garantito da più fasi e gradi di giudizio. Siamo certi che tutti, anche i titolari del diritto di cronaca e di informazione, concorderanno su questo”. Ma qual è il caso che ha ispirato questa presa di posizione? Vincenzo Lo Presto ha 43 anni, nessun precedente penale ma una gravissima accusa per la quale è stato di recente condannato in primo grado, con rito abbreviato, a dieci anni di reclusione: è accusato di aver aggredito la moglie con la stampella con cui si aiutava a camminare avendo seri problemi di deambulazione e di averne causato la morte. La donna, Fortuna Bellisario, morì il 7 marzo 2019. Lo Presto ha ammesso di averla picchiata in passato ma sulla responsabilità per la morte della moglie il processo, secondo il suo difensore (avvocato Sergio Simpatico), è tutt’altro che chiuso. Confrontando i risultati della perizia autoptica sul corpo della donna e dati di studi scientifici di livello internazionale, la difesa è pronta a sostenere il processo in appello. Intanto la scarcerazione di Lo Presto ha sollevato un caso mediatico al punto che la Procura si è attivata per chiedere che l’uomo torni in cella, nonostante sia costretto su una sedia a rotelle e per il giudice che lo ha condannato non sia da considerarsi un soggetto pericoloso né in grado di fuggire o reiterare il reato. Il Palamaragate è stato seppellito: le Procure tacciono, i giornali censurano di Piero Sansonetti Il Riformista, 8 marzo 2021 Silenzio, signori. L’ordine di scuderia è quello lì: silenzio assoluto, si fa finta che non sia successo niente. “Non rispondete alle provocazioni, compagni”: mi ricordo che una volta si diceva così. La scuderia di cui parliamo è quella della premiata ditta Pm & Giornali. Che più che una scuderia è un robusto partito politico e qui da noi in Italia fa il bello e il cattivo tempo. Dispone di armi di offesa molto affilate e di armi di difesa efficientissime. Le armi di difesa consistono nel seppellire qualunque magagna. C’è qualcuno che dice che sia un sistema sostanzialmente molto simile alla vecchia “omertà”. Un po’ più di un mese fa l’ex Pm Luca Palamara (che per anni è stato il capo del partito dei Pm) ha pubblicato un libro nel quale ha raccontato decine di episodi dai quali si deduce che i vertici della magistratura italiana non sono liberi ma vengono scelti e costruiti sulla base di puri e semplici giochi di potere, sono scelti dalle correnti al di fuori di ogni criterio di indipendenza, e si è scoperto che questi giochi di potere producono clamorose deviazioni nella giurisdizione, condizionano indagini, sentenze, uso del carcere. Uno scandalo che non ha precedenti, direi dai tempi del delitto Matteotti. È quella l’ultima volta che il potere ha dichiarato formalmente la sua intoccabilità: “Se il fascismo è una associazione a delinquere - disse Mussolini - io ne sono il capo”. Nei giorni scorsi questo giornale ha denunciato altri due episodi clamorosi delle vicende di magistratopoli. Uno è stato raccontato anche in Tv, e riguarda il più importante giornalista giudiziario italiano (Bianconi, del Corriere della Sera) che - senza neppure scriverlo sul giornale - avvisò riservatamente Luca Palamara che a Perugia era in corso una inchiesta giudiziaria su di lui. Palamara non ne sapeva niente. Fuga di notizie. Reato. Colpevoli presunti i Pm di Perugia dell’epoca. Indagini? A noi non risulta. Risalto sui giornali? Zero. Proprio zero virgola zero. Il secondo episodio l’abbiamo denunciato due giorni fa con un articolo di Paolo Comi. Ci era stato detto che per un errore (o forse per una maliziosa intenzionalità) il trojan di Palamara si era spento proprio la sera del suo incontro a cena con Giuseppe Pignatone, nel quale si parlò della nomina del nuovo procuratore di Roma e di altre scelte di potere. Era una cosa molto grave. Ma abbiamo scoperto una cosa più grave ancora: non è vero che si era spento. Il trojan ha funzionato. Il file con l’intercettazione esiste, però è sparito. Chi l’ha fatto sparire? Dove è finito? Perché ci hanno mentito e su ordine di chi? Queste denunce sono cadute nel nulla. Sono fatti clamorosi ma i giornali non ne hanno neanche parlato. Perché? Ordini superiori? Del partito dei Pm, evidentemente, al quale i giornali aderiscono. Le cose, nel campo dell’informazione giudiziaria, da noi funzionano più o meno come a Cuba. Forse però la censura è anche più efficiente, da quando è morto Castro. L’unico che non è scappato via di fronte alla notizia, lo dico con stupore, è stato Massimo Giletti. E le procure? Le Procure tacciono. E i politici? Si sono nascosti sotto i tavolini dei loro banchi alla Camera, credo. Non se ne trova nessuno che abbia voglia di occuparsi del Palamaragate. Scotta. Per quel che ne so l’unica parlamentare che si è esposta e ha denunciato lo scandalo del trojan sparito è una parlamentare europea che si chiama Sabrina Pignedoli. Di che partito è? Dei 5 Stelle. E qui il mio stupore ha superato lo stupore per Giletti. È proprio così, spesso in politica succede quello che mai prevedresti. Grazie, onorevole Pignedoli, ci fai sentire un po’ meno soli. Noi comunque non ci adeguiamo all’ordine del silenzio. Continueremo a bussare alla porta delle Procure e a quella dell’opinione pubblica: C’è nessuno? Chissà, prima o poi magari qualcuno ci risponderà. Corte Ue: la pandemia non ha fermato l’attività giurisdizionale Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2021 Il Presidente Koen Lenaerts, “i piani di crisi hanno consentito di garantire il funzionamento degli organi giurisdizionali e la continuità dell’attività”. Nel 2020 la Corte di giustizia dell’Unione europea è riuscita a mantenere un livello di attività elevato in un contesto caratterizzato dal lavoro a domicilio e dai limiti agli spostamenti che hanno comportato l’impossibilità di tenere udienze tra il 16 marzo e il 25 maggio 2020. E quanto si legge in una nota ufficiale. Come sottolinea il Presidente della Corte, Koen Lenaerts, “i piani di crisi predisposti dall’inizio del confinamento, in stretta collaborazione con i gabinetti e gli uffici dell’istituzione, hanno consentito di garantire il funzionamento più normale possibile degli organi giurisdizionali e la continuità dell’attività al servizio della giustizia europea”. L’Istituzione ha concepito un sistema specifico di videoconferenza che consente l’interpretazione simultanea da e verso le 24 lingue ufficiali. Nel 2020, 40 udienze sono state quindi organizzate in videoconferenza dinanzi alla Corte di giustizia e 37 dinanzi al Tribunale. Le misure di confinamento e le restrizioni hanno tuttavia avuto un impatto in termini di minor numero di cause promosse: 1.582 sono state le cause in totale erano, 1.905 l’anno precedente, ma soltanto 1.683 nel 2018 e 1.656 nel 2017. Sono diminuite dell’11% anche le cause definite: 1.540, erano 1.739 nel 2019, ma il livello di attività è rimasto simile a quello del 2017 (1.594) e addirittura superiore a quello del 2016 (1.459). La durata dei procedimenti raggiunge invece un minimo storico con una media di 15,4 mesi. Corte di giustizia - Dal punto di vista delle cause promosse (735), come per i due anni precedenti, sono sostanzialmente le domande di pronuncia pregiudiziale a costituire la parte più importante delle nuove cause, dato che queste sono 556 (contro le 641 del 2019). La Germania rimane lo Stato membro che invia il maggior numero di rinvii pregiudiziali (139 cause) davanti all’Austria (50), all’Italia (44) e alla Polonia (41). Dal punto di vista delle cause definite, il loro numero, pari a 792, è eccezionale pur essendo inferiore alla cifra record del 2019 (865), dal momento che, nonostante i limiti connessi alla pandemia, è nettamente superiore a quello del 2018 (760) e del 2017 (699). Il numero di cause pendenti è peraltro molto diminuito, essendo pari a 1.045 alla fine del 2020 contro 1.102 alla fine del 2019. Tribunale - Si è registrata una diminuzione del numero di cause promosse nel 2020, essendo queste pari a 847 contro le 939 del 2019. Il numero di cause relative ai diritti di proprietà intellettuale resta il più elevato (282) e la maggior parte delle rimanenti cause rientra nell’ambito dell’applicazione dello Statuto dei funzionari (120), del diritto istituzionale (65) e degli aiuti di Stato (42). In termini di cause definite (748), 237 riguardano la proprietà intellettuale, 127 cause riguardano il diritto istituzionale e 79 la funzione pubblica europea. Da sottolineare che il numero di cause giudicate da sezioni a cinque giudici è quasi raddoppiato tra il 2019 e il 2020 (59 contro 111), circostanza che contribuisce a una giustizia di qualità e a una maggiore autorevolezza delle sentenze pronunciate da tale organo giurisdizionale. La durata media del grado di giudizio ha continuato a ridursi per raggiungere una durata record di 15,4 mesi per tutte le categorie di cause. Il numero di cause discusse nel 2020 ha raggiunto il numero di 335 (di cui 275 tra maggio e dicembre 2020) contro le 315 del 2019, nonostante diverse settimane di sospensione delle udienze. Calabria. Il Covid fa paura anche nelle carceri, il Garante: “Priorità vaccini ai detenuti” di Riccardo Tripepi lacnews24.it, 8 marzo 2021 Mentre l’ordinanza di Spirlì sulla chiusura scuole viene contestata dai sindaci e rischia di finire impugnata davanti al Tar, Siviglia sottolinea come nulla sia stato fatto per mettere in sicurezza la salute dei detenuti e degli operatori dei 12 istituti penitenziari calabresi. Continua a procedere a rilento e con un grande livello di confusione la campagna vaccinale in Calabria con il presidente della giunta facente funzioni Nino Spirlì che appare sempre più in difficoltà. La sua ordinanza di chiusura delle scuole, con tanto di refuso poi corretto per gli asili, è finita al centro delle polemiche. I sindaci della provincia di Reggio hanno scritto una lettera al presidente per fare notare la contraddizione della misura rispetto all’indice di contagio che mantiene la Calabria in zona gialla e sarebbero pronti a fioccare i ricorsi al Tar contro la decisione assunta dal governo regionale. Ma i ritardi si registrano anche sul delicato fronte della vaccinazione all’interno degli istituti penitenziari. Il garante regionale dei diritti dei detenuti Agostino Siviglia ha più volte invocato pronti interventi per mettere in sicurezza le carceri, ma fin qui la Regione ha fatto finta di non sentire. “Mi rendo conto che in Calabria ci sono tante priorità per quanto riguarda il piano vaccini, penso ai disabili o agli insegnanti, ma tra queste rientrano anche le persone detenute nei 12 istituti penitenziari calabresi. La messa in sicurezza delle carceri non solo era prevista nel piano vaccini nazionale - spiega il Garante - ma anche da ultimo la nuova ministra della Giustizia Marta Cartabia si è recata dal Garante nazionale e dal Capo del Dipartimento Petralia per sollecitare e monitorare il piano vaccini negli istituti penitenziari perché bisogna immunizzare quel mondo chiuso rispetto a una possibile diffusione del contagio. Come garante regionale ho già scritto alla fine del mese di febbraio al presidente Nino Spirlì e al Commissario Longo, ma la cosa più disarmante è che c’è una totale sordità parte di chi di dovere. Spiace davvero che non ci sia l’attenzione dovuta per le categorie più deboli. Una condizione politico istituzionale che vive la Calabria ultima se non penultima per quanto riguarda la somministrazione dei vaccini. Non c’è nessun tavolo di concertazione e non esiste nessuna risposta a questo problema”. All’interno delle carceri calabresi, però, fino al momento la situazione di diffusione del contagio da Coronavirus è sempre rimasta sotto controllo. “Per fortuna la Calabria è stata una delle poche Regioni dove c’è stata una minima diffusione di contagio - dice ancora Siviglia - ci sono state alcune situazioni di positività a Vibo, Cosenza e Reggio e anche per questo bisogna agire subito per evitare che adesso la terza ondata possa provocare situazioni a rischio”. Volterra (Pi). Coronavirus, 15 positivi nel carcere: scuole chiuse pisatoday.it, 8 marzo 2021 La casa di reclusione è una struttura di tipo “aperto”, da qui la decisione di fermare l’attività didattica in presenza per ricostruire i contatti dei positivi e bloccare il più possibile i contagi. Un cluster individuato all’interno del carcere di Volterra con 15 nuovi casi di persone positive al Covid-19 che sono state messe in isolamento. “Insieme alla ASL e alla dirigente della casa di reclusione abbiamo concordato e deciso di attuare una serie di operazioni per mettere in sicurezza gli ospiti della stessa casa di reclusione, il personale di Polizia penitenziaria in modo da limitare il contagio - afferma il sindaco volterrano Giacomo Santi - per questo motivo, ho disposto un’ordinanza per la didattica a distanza per tutte le scuole di ogni ordine e grado per la settimana dall’8 al 13 marzo compresi per prevenire ulteriori possibilità di contagio”. Uno stop alla scuola in presenza che sarà necessario per il completo tracciamento di possibili contatti. “Visti la particolarità della struttura di tipo ‘aperto’ e la frequentazione esterna ed interna del personale di Polizia penitenziaria, del corpo docente e di tutto il personale preposto alle attività che nella struttura sono svolte - prosegue il primo cittadino - è stata presa una misura cautelativa più stringente per evitare il più possibile eventuali contagi esterni e dare tempo al Dipartimento di igiene di attuare una campagna massiva di tracciamento e prevenzione”. Una persona si è già negativizzata, mentre al momento in tutto le persone positive al Coronavirus nel Comune di Volterra sono 29. Padova. Un voto a Messina Denaro per il Garante dei detenuti. È polemica affaritaliani.it, 8 marzo 2021 Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà Mauro Palma esprime sconcerto per quanto avvenuto a Padova, dove nel segreto dell’urna un consigliere comunale ha espresso un voto per il boss Matteo Messina Denaro, durante l’elezione dei Garante dei detenuti a livello cittadino. Un atto condannato subito in modo bipartisan dall’assemblea municipale, e che potrebbe portare ad una segnalazione in Procura. “Indipendentemente dall’esito della votazione su cui, come è ovvio, non spetta al Garante nazionale esprimersi - si legge in una nota - l’indicazione da parte di un consigliere del nome di un noto boss mafioso costituisce una grave offesa non soltanto al Consiglio, ma anche al lavoro di tutti i Garanti che operano per la tutela dei diritti di ogni persona nel fermo vincolo della lotta a ogni forma di criminalità e del sostegno a chi nel nostro Paese opera per estirpare la dura realtà delle organizzazioni criminali”. “Una indicazione di un nome - aggiunge - che rappresenta un’inaccettabile offesa a tutte le Istituzioni della nostra democrazia. Il discredito che l’autore del gesto, nel segreto del voto, ha voluto gettare su un organismo di tutela dei diritti dovrà rafforzare l’impegno alla rigorosa azione per una esecuzione penale pienamente in linea con il dettato costituzionale a cui contribuirà, auspicabilmente a breve, il Garante dei diritti delle persone private o limitate della libertà di cui la città di Padova si doterà”. Messina Denaro, condannato a più ergastoli, è ricercato dai primi anni 90. Il voto che, nel segreto dell’urna, è stato dato in favore del boss ha peraltro impedito l’elezione del Garante dei detenuti di Padova, saltata proprio per mancanza di una sola preferenza. Siena. “Finalmente regole precise nelle carceri” di Teresa Scarcella La Nazione, 8 marzo 2021 Parla la garante dei detenuti di Ranza, Sofia Ciuffoletti. “Decisivo il protocollo firmato in Regione. È l’ora di stabilire davvero diritti e doveri”. È stato firmato giovedì in consiglio regionale il protocollo tra il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone, il garante regionale Giuseppe Fanfani e i garanti comunali. La firma pone il sigillo su un impegno delle parti al fine di tutelare i diritti dei detenuti e regolamentare l’attività dei garanti stessi. Un accordo standard, ma necessario per evitare una serie di problematiche. “È capitato, in passato, che ci venisse fatto ostruzionismo all’ingresso - racconta Sofia Ciuffoletti, presidentessa dell’Altro diritto, garante di San Gimignano - questo perché una ex direttrice non riconosceva la possibilità di un’associazione non governativa, come la nostra, di svolgere la funzione di garante”. Il protocollo, quindi, regola diritti e doveri reciproci. Tra i doveri ci sono: il miglioramento della qualità della vita nelle carceri e il potenziamento dei percorsi di reinserimento sociale dei detenuti. Due concetti che si fondano sul presupposto sottolineato da Fanfani: “Chi finisce in carcere è figlio di questa società”. “Parliamo giustamente di reinserimento e non di rieducazione, perché l’obiettivo è aiutare la persona a reinserirsi dandogli la possibilità di farlo - continua Ciuffoletti - nel rispetto del principio di autodeterminazione che deve valere anche in carcere”. Possibilità che, a quanto pare, viene minata da un sistema ancora troppo lacunoso. “Alla base c’è un deficit strutturale e noi dobbiamo lavorare per superarlo. Ad oggi ci sono ipoteche enormi sulla possibilità di accedere a un trattamento che dia una possibilità concreta di reinserimento alle persone detenute. Parlo di una formazione culturale, lavorativa, attività che non si limitino allo ‘stare buttati’ nelle celle o nelle sezioni. Oggi c’è l’ostacolo del Covid che però ha solo aggravato una situazione già compromessa. Per questo è molto importante che i detenuti vengano inseriti rapidamente nel piano regionale di vaccinazioni: è fondamentale che il carcere torni ad aprirsi”. Lo stesso presidente del consiglio regionale Antonio Mazzeo, su questo tema, si è speso molto sull’impegno della Toscana e infatti pare che le vaccinazioni per i detenuti partiranno da metà mese. Il reinserimento non è altro che la difesa della dignità. La stessa che rischia di essere minata dai luoghi comuni, come quello con cui il leader della Lega, Matteo Salvini - secondo chi lo accusa - in visita a Ranza pochi giorni fa, ha parlato del procedimento in atto ponendolo sul piano semplicistico di contrapposizione tra buoni e cattivi. “La realtà è molto più complessa di quanto il luogo comune voglia farci credere - conclude Ciuffoletti - la nostra Costituzione ci dice che la dignità non si perde per demerito e non si acquista per merito, ma è riconosciuta a tutti. Questo dovrebbe essere un concetto banale. Fossi negli agenti coinvolti nel procedimento, mi sentirei più tutelata dal nostro patrimonio di garanzie penali e penitenziari, che dall’intervento politico di Salvini”. Novara. Il Garante regionale dei detenuti incontra la neo direttrice del carcere novaratoday.it, 8 marzo 2021 Il Garante dei detenuti Bruno Mellano a Novara per conoscere la neo direttrice Maria Vittoria Menenti, che ha sostituito la precedente direttrice Rosalia Marino, diventata direttrice del Carcere di Torino. Mellano, accompagnato dal Garante comunale di Novara, Dino Campiotti, ha dato il benvenuto alla dottoressa Menenti, che manterrà contemporaneamente la vice direzione del Carcere di San Vittore di Milano. Direttrice di grande esperienza, precedentemente direttrice a Pordenone e vicedirettrice a Venezia, trova una struttura con particolari esigenze dovuta alla presenza di 67 ristretti in regime di carcere duro “41 bis” che si aggiungono agli altri 101 detenuti comuni. Dopo un approfondimento delle varie situazioni individuali di esecuzione penale, con un’attenzione particolare nei confronti dei progetti di reinserimento lavorativo, Mellano ha visitato la prima e la seconda sezione della parte detentiva comune, accompagnato dalla direttrice e del comandante Rocco Macrì e analizzando le situazioni più difficili con la capoarea educativa Patrizia Borgia. I garanti, offrendo la massima collaborazione alla dottoressa Menenti hanno ricordato le problematiche già denunciate in precedenza, tra cui la necessità di urgente recupero e rifunzionalizzazione della palazzina interna alla cinta muraria un tempo destinata alla sezione femminile, struttura che risulta chiusa da oltre 10 anni: la collocazione nella suddetta palazzina di tutti i locali adibiti ai servizi medico-infermieristici valorizzerebbe il presidio sanitario regionale interno al carcere, consoliderebbe e razionalizzerebbe (accesso delle ambulanze) un servizio della Regione Piemonte erogato dall’Asl di Novara e potrebbe rispondere, con sempre maggior efficacia ed efficienza, ad una responsabilità propria del servizio sanitario, cogliendo anche la particolare esigenza della particolare popolazione carceraria del carcere novarese. Salerno. “Così in carcere si ricuce la speranza” di Carmen Autuori La Città di Salerno, 8 marzo 2021 L’omaggio alle detenute della Casa circondariale impegnate nel progetto per la realizzazione di mascherine anti-Covid. “Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”: è questo il senso della manifestazione di ieri nella casa circondariale di Fuorni in occasione della giornata della Donna anticipata, per esigenze legate all’emergenza sanitaria. In un luogo di violenza, spesso alla ribalta della cronaca, caratterizzato da criticità notevoli, emerge un’altra realtà, quella dello stop alla violenza sulle donne portato avanti grazie alla produzione dei dispositivi anti covid realizzati all’interno del carcere. “Da donna a donna. Ricuciamo i legami”: questo il tema dell’evento organizzato dal Ministero della Giustizia, dalla Fondazione della Comunità Salernitana Onlus e dal Comitato femminile plurale di Confindustria Salerno, presieduto da Alessandra Puglisi, il cui scopo è quello di valorizzare la figura imprenditoriale femminile. “La produzione di mascherine all’interno del carcere ha portato le detenute ad entrare in una nuova dimensione, quella imprenditoriale - spiega Puglisi - ed è nostro dovere supportare questa attività attraverso la distribuzione del prodotto alle nostre associate”. Della raccolta fondi per finanziare, in parte, il progetto se ne occupa la Fondazione Comunità Salernitana Onlus, la cui socia fondatrice Antonia Autuori è da tempo attiva in molte iniziative all’interno della struttura penitenziaria attraverso il crowdfounding, il reperimento di materia prima quali scampoli di stoffe, ma anche di sarte che periodicamente offrono la loro esperienza alle detenute. “Mai come in questo momento in cui è sospeso ogni legame con la famiglia, a parte le videochiamate, a causa dell’emergenza sanitaria, è importante che le detenute diano un senso concreto alle loro giornate, impegnandosi con la produzione delle mascherine- racconta Livia Bonfrisco educatrice della sezione femminile - in quanto il carcere assume una valenza ancora più punitiva, per le donne. Questo luogo è l’ultimo stadio di una violenza che le ha accompagnate per tutta la vita, soprattutto fuori da qui. Ma quando si vive in certi contesti, soprattutto metropolitani, è molto più difficile cambiare vita per una donna che per un uomo. Per fare ciò bisognerebbe innanzitutto allontanarsi materialmente dal contesto che ha portato a delinquere, e questo per una donna è quasi impossibile, soprattutto quando è madre”. Il momento artistico è stato affidato ai “Picarielli”, band di musica popolare, il cui ritmo delle tammorre ha oltrepassato le mura e le sbarre. “Ricucire - spiega la direttrice del carcere, Rita Romano- è la parola chiave. Ricucire i legami con sé stessi e con l’esterno. Solo così si può tentare di sanare la piaga della recidiva. E grazie a questo gruppo di donne non solo imprenditrici ma anche vicine agli ultimi, l’iniziativa assume una valenza profonda: è un “filo” da donna a donna che lascia ben sperare per il futuro”. Bari. Custodire e rieducare. “Decisivo il nostro ruolo” di Francesca Di Tommaso Gazzetta del Mezzogiorno, 8 marzo 2021 Il prezioso lavoro delle donne alla guida del carcere. Il vertice del carcere barese è donna. Si chiamano Valeria Piré e Francesca De Musso e sono, rispettivamente, direttore della Casa circondariale e Comandante capo della polizia penitenziaria. Equilibrio, determinazione, forza e il valore aggiunto dell’essere donne in un mondo per anni indiscusso “regno” maschile. Nella giornata della festa della donna, in un momento di stereotipi dilaganti sui media, le due dirigenti si raccontano alla Gazzetta. “Nel mio concorso, 24 anni fa, gli uomini erano in numero assolutamente residuale: oggi i direttori donna e i dirigenti generali donna sono una realtà consolidata, non necessariamente digerita, ma inesorabile” commenta caustica Pirè. “L’essere un comandante, così come un direttore donna, desta curiosità e talvolta sorpresa - le fa eco il comandante De Musso - Il carcere di Bari, poi, istituto penitenziario di particolare complessità gestionale, non aveva mai avuto un comandante donna prima di me, ma questo non mi impedito di assicurare il mio mandato istituzionale con la necessaria passione, serenità d’animo e consapevolezza del ruolo. Anzi, capacità empatica e comunicativa tipica delle donne mi hanno spesso agevolata nell’attività di garanzia della sicurezza, mediante la parola, supportando me e il nostro staff nel compito ambiziosissimo di custodire per rieducare, per far sì che l’uomo di azione a noi affidato diventi uomo di riflessione”. “Niente ostruzionismo, ad onore del vero - sottolinea il direttore Pirè Il nostro è un ruolo in cui il potere è dato da un’investitura formale. La differenza la fa la dimostrazione di “esserci” nella sostanza e non solo nella forma”. Per entrambe, entra da sempre in gioco la parola “passione” a muovere ogni scelta. Valeria Pirè è entrata nell’amministrazione penitenziaria 1’8 settembre 1997. “Primo concorso dopo la laurea in Giurisprudenza e una passione che non mi ha mai abbandonata. E che, con l’età, comincio a considerare un limite”. Francesca De Musso ha cominciato ad occuparsi di carcere dopo l’abilitazione alla professione forense, quando, “da aspirante giurista innamorata della legalità, con il sogno di lavorare per la giustizia, incontrando le persone. L’idea nel mio immaginario era, all’epoca, quella del carcere quale luogo di espiazione ma, soprattutto, di rieducazione e reinserimento. Vinto il concorso da funzionario di polizia penitenziaria, nel 2010, ho potuto cominciare, non più e non soltanto a preoccuparmi ma ad occuparmi di carcere, un mondo spesso avvertito dalla società civile come un muro di cinta da additare e da cui tenersi lontani fisicamente, con il pensiero e con le emozioni. Il carcere può sospendere unicamente il diritto alla libertà, mai annullare gli altri diritti fondamentali, come quello alla salute e alla risocializzazione. Si sconta una pena che non deve mortificare la dignità umana. Sono stata designata comandante del carcere di Bari nell’aprile del 2013. Il carcere è una istituzione totale, impossibile da conoscere alla maggior parte delle persone, impenetrabile a chi non abbia motivi personali per entrarvi. Eppure di una realtà così sconosciuta la gente parla, come se la conoscesse. Il senso sociale si è creato convinzioni, dettagli, una rappresentazione fisica dei luoghi e dei tempi: ma questa è la rappresentazione dell’immaginario sociale, non della realtà del tempo e del luogo del detenuto, né, tantomeno, degli operatori penitenziari”. Quella degli operatori, invece, è una vita ad “occuparsi di persone - come ribadisce Valeria Pirè - un universo variegato e complesso di visi, problemi, emozioni che attendono risposte, risposte che talvolta non sei in grado di dare”. Ma alle quali consenti di attraversarti. “E la giornata che ti prefiguri non corrisponde MAI alla giornata effettiva - continua - perché emergenze e urgenze sono determinate da questioni giuridiche, sanitarie, scadenze sopraggiunte, problemi improvvisi”. Come la rivolta dell’8 marzo 2020: la protesta dei detenuti nacque dalla sospensione dei colloqui “a vista” con i familiari, introdotta con il decreto anti-contagio varato dal governo per fare pronte al diffondersi del Coronavirus. “Un 8 marzo indimenticabile. E gli ultimi dodici mesi intensissimi, unici e terribili: nella mia carriera ho affrontato molte criticità, ma mai rivolte - ricorda il direttore Pirè. Ci hanno mosso spirito di squadra, disponibilità del personale, compattezza assoluta tra direzione e comando. E poi capacità di mediazione unita a fermezza e conoscenza profonda dei nostri interlocutori. I due mesi successivi sono stati tremendi: in istituto ininterrottamente dalle 7 del mattino alle 22, talvolta ben oltre e talvolta di notte, sempre accompagnata da questa sensazione di assoluta incertezza sul domani prossimo”. De Musso conferma: “Comandante e direttore restano sempre reperibili e raggiungibili. La vita privata? Tanta pazienza e comprensione dai nostri familiari”. E il Covid? “Ha richiesto una capacità continua, incessante di flessibilità e rideterminazione e ricalendarizzazione dei processi e delle procedure, in un clima di indeterminatezza e precarietà - continua Pirè. Grazie a dialogo e confronto serrato con la direzione sanitaria dell’Unità Operativa Complessa di assistenza sanitaria penitenziaria, alla collaborazione e interazione del nostro personale con il personale sanitario abbiamo attuato dei protocolli che fino ad oggi ci hanno consentito di avere un solo caso di Covid tra i detenuti presenti (a parte alcuni casi di detenuti appena arrestati). I detenuti oscillano tra i 420 e i 435. Qui ci sono 5 reparti detentivi, suddivisi tra media e alta Sicurezza e Centro clinico. La sezione femminile è chiusa per ristrutturazione. La Casa circondariale di Bari ospita uno dei centri clinici dell’amministrazione penitenziaria, gestito dalla Asl, perché dal 2008 la medicina penitenziaria è passata al ministero della Salute. È presente un numero elevato di detenuti con patologie psichiatriche o borderline”. Nei prossimi giorni partirà la vaccinazione di tutti i detenuti e di tutto il personale. 8 marzo, cosa dire da donne a donne? - “La capacità di reagire e di combattere per quello in cui si crede possono abbattere muri e produrre risultati inizialmente impensabili - dice Valeria Pirè -. Siamo creature complesse e quindi la complessità non ci deve spaventare”. “Alle donne voglio dire di avere sempre fiducia in se stesse e consapevolezza delle proprie potenzialità, passioni e risorse - commenta Francesca De Musso. E di essere “ala di riserva” per quelle donne che ne abbiano bisogno, nel loro processo di emancipazione totale e di libertà. Voglio loro dire, con Clarissa Pinkola Estes: “andate e lasciate che le storie, ovvero la vita vi accadano, e lavorate queste storie dalla vostra vita, riversateci sopra il vostro sangue e le vostre lacrime e il vostro riso, finché non fioriranno, finché non fiorirete”. Milano. “La pena deve riabilitare, sempre” di Roberta Rampini Il Giorno, 8 marzo 2021 Giorgio Leggieri, neodirettore del carcere modello di Bollate: qui c’è molto da imparare e sperimentare. È arrivato nel “carcere modello” d’Italia ai tempi del Covid-19 Giorgio Leggieri, 54 anni, nuovo direttore della casa di reclusione di Milano-Bollate. Lo scorso 12 gennaio ha preso il posto di Cosima Buccoliero, direttrice reggente dal 2019, trasferita al carcere di Opera. Di origini pugliesi, come chi lo ha preceduto, con molte reggenze in istituti di pena del Nord, negli ultimi due anni è stato direttore del carcere di Cuneo. “Qui a Bollate ho trovato grande energia: nonostante la situazione di emergenza sanitaria abbia modificato ritmi e abitudini, qui le relazioni non sono state frantumate. Malgrado le limitazioni imposte, ho colto in tutti la consapevolezza che si debba andare avanti e non perdere mai di vista la prospettiva - dichiara Leggieri. Lo scopo riabilitativo della pena sancito dalla Costituzione italiana qui è declinato nel modo più innovativo possibile”. Da giorni sta “misurando il passo dell’istituto”, un’espressione che racchiude gli incontri con gli operatori, educatori, volontari, agenti della polizia penitenziaria e detenuti. Ma anche passi concreti: dalle eccellenze dell’area industriale al reparto degenza Covid, aperto a novembre, che attualmente ospita 82 detenuti risultati positivi al coronavirus provenienti dagli istituti penitenziari della Lombardia, di cui solo due di Bollate. “Sicuramente sono rimasto colpito dalla professionalità del laboratorio dove si producono le mascherine chirurgiche distribuite ai Provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria in tutta Italia, attualmente sono impiegati 22 detenuti ma è un impianto in espansione - racconta. Quando sono entrato nell’area industriale mi sembrava di essere al Lingotto di Torino per l’organizzazione, la capacità produttiva e lo spirito imprenditoriale. E il mio non è buonismo, ma il riconoscimento di un lavoro rieducativo con detenuti che a Bollate è diventato cultura e si respira ovunque”. Conoscenza e graduale ripresa della normalità scandiscono le giornate del nuovo direttore, con un grande sforzo per garantire a tutti i detenuti le videochiamate con i familiari e in attesa della ripresa dei colloqui in presenza. “Mi hanno colpito anche l’inclusione sociale, la capacità di osmosi tra dentro e fuori - aggiunge il direttore -: credo che qui ci sia molto da imparare e sperimentare, chi c’è stato prima di me ha sicuramente fatto un ottimo lavoro”. Direttore ha un po’ di ansia da prestazione? “Sicuramente si, le aspettative sono alte. Ma io sono molto pragmatico, rappresento lo Stato, non sono qui per dimostrare qualcosa, entro in un sistema di relazioni dove le persone sanno quello che rappresento”. Milano. Abbiamo portato lo smartworking in cella di Antonietta Nembri vita.it, 8 marzo 2021 Grazie alla cooperativa sociale Bee.4 Altre Menti nel carcere di Bollate la connettività non è più un tabù, complice la pandemia da Covid-19. “Un’autentica rivoluzione per quelli che sono i canoni dell’universo penitenziario oltre ad essere una nuova chiave interpretativa per l’approccio al tema del lavoro in carcere”, dice Pino Cantatore direttore della cooperativa Per Marco Girardello, che si occupa della comunicazione per la cooperativa sociale bee.4 Altre Menti quella in corso è una vera “rivoluzione. Stiamo titillando un tabù del mondo carcerario”. Il tabù è la connettività, internet in cella. Ma per un’impresa sociale (“concepita dentro la galera” chiosa Girardello) fondata nel 2013 per avvicinare il percorso di detenzione alla finalità rieducativa della pena prevista dalla Costituzione e che lavora offrendo servizi alle imprese di Business process outsourcing (quali assistenza clienti, back office ecc.) dover fare a meno di 10 operatori su 50 in un colpo solo perché messi in isolamento a causa della pandemia significa “rischiare di perdere il cliente e di conseguenza buttare i posti di lavoro” scandisce Girardello. La soluzione in casi come questi è lo smartworking o l’home working che ci sta accompagnando da un anno. Ma come fare smartworking considerando che la bee.4 però lavora all’interno della Casa di Reclusione di Milano Bollate? I dieci lavoratori sono persone detenute che, appunto, per un focolaio epidemico da Covid-19 si sono ritrovate in isolamento e nell’impossibilità di recarsi nella sede di lavoro che si trova nell’area industriale dello stesso carcere. “I nostri clienti si attendono da noi continuità nell’operatività. La pandemia ci ha messi di fronte a diverse dinamiche, ma quest’ultimo avvenimento ci ha fatto fare un passo in più” continua Girardello. “Rinunciare voleva dire perdere di colpo tutti i posti di lavoro legati alla commessa. Per cui abbiamo “remotizzato” le postazioni di lavoro”. La soluzione, non scontata, è stata quella di portare la connessione wifi direttamente nelle celle dei dieci lavoratori della cooperativa per permettere loro di continuare a operare per il call center. Grazie alla lungimiranza della direzione dell’Istituto, infatti, è stato possibile elaborare un protocollo straordinario di intervento che sta consentendo in questi giorni di sperimentare questa nuova modalità di lavoro “a domicilio” fondato sull’accesso a forme di connettività alla rete internet, ovviamente, nel rispetto dei limiti di sicurezza previsti dall’Amministrazione Penitenziaria. A rendere possibile questa sperimentazione - precisano dalla cooperativa sociale - anche e soprattutto il supporto fornito da Fondazione Vismara nell’ambito del progetto “Lavorare ne vale la pena” Osserva il direttore della cooperativa sociale bee.4, Pino Cantatore “la remotizzazione delle postazioni di lavoro in cella rappresenta un’autentica rivoluzione per quelli che sono i canoni dell’universo penitenziario oltre ad essere una nuova chiave interpretativa per l’approccio al tema del lavoro in carcere”. Dopo alcuni giorni (lo smartworking è partito il 17 febbraio) “possiamo dire che questa cosa funziona”, osserva Girardello per il quale l’aspetto più importante è l’opportunità che questa sperimentazione offre in termini di lavoro e crescita personale. “Il carcere è il luogo della chiusura, del contenimento, ma è anche un contesto che deresponsabilizza. Con il lavoro invece rimettiamo tutto in gioco, la rieducazione è anche responsabilizzare le persone. La responsabilità è terapeutica e stiamo dimostrando che è praticabile” spiega. “Noi abbiamo portato i computer in cella, affidato strumenti che sono importanti non solo dal lato lavorativo, ma anche personale perché con la connettività cambia tutto. Anche se si tratta di una connettività protetta, filtrata e protocollata”. La scommessa dell’impresa sociale bee.4 è quella di sfruttare la tecnologia, “devi avere il know how giusto per vendere servizi di terziario avanzato e se spingi tutto questo le persone che lavorano con te a fine pena possono ancora giocarsi questa opportunità: a casa o in una sede esterna” precisa Girardello sottolineando come il lavoro in team, la presenza di team leader e l’attenzione alla formazione siano gli ingredienti fondamentali. “Concretamente metti le persone in un’ottica di possibilità che riesce a far immaginare una modalità di pena diversa che è rieducazione”, conclude. Piacenza. Servono con urgenza almeno 30 nuovi agenti, ma ne arriveranno solo 10 ilpiacenza.it, 8 marzo 2021 Una delegazione regionale del sindacato di polizia penitenziaria Uspp ha incontrato il parlamentare piacentino Tommaso Foti (FdI) per fare il punto della situazione sul carcere piacentino. Il parlamentare piacentino Tommaso Foti (FdI) ha incontrato di recente una delegazione del sindacato Uspp Polizia Penitenziaria per fare il punto della situazione sulle criticità che il personale di polizia penitenziaria sta affrontando in questo difficile momento di Pandemia anche a Piacenza. Presenti all’incontro il coordinatore interregionale dell’Emilia-Romagna e Marche Gennaro Narducci, e il segretario provinciale Nicola Lucino. Presente anche il responsabile regionale enti locali Fabio Callori. Nel suo intervento, il sindacato degli agenti ha sottolineato come quanto accaduto nella prima decade di marzo “abbia messo a nudo le criticità del sistema penitenziario che la nostra organizzazione sindacale ha sempre denunciato, ossia la carenza di organico del personale di polizia penitenziaria, il sovraffollamento dei detenuti e l’inadeguatezza delle strutture e delle strumentazioni in dotazione. Per questo motivo - hanno detto - c’è necessità di investire risorse, e i provvedimenti in discussione in Parlamento auspichiamo trovino finalmente il parere favorevole di tutte le forze politiche. Soprattutto riguardo all’invio urgente presso la struttura piacentina di almeno 30 nuovi agenti, anche se da ultimi dati sembrerebbe che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sia intenzionato ad inviare solamente 10 neo-agenti. Il carcere delle Novate è carente di ben 40 unità nei vari ruoli”. Successivamente, durante l’incontro, si è discusso sull’acquisto di nuove strumentazioni “per potenziare l’esecuzione penale esterna, unico modo concreto per contrastare il fenomeno del sovraffollamento dei detenuti. Esistono, inoltre, priorità che si possono affrontare a costo zero e, tra queste, c’è senza dubbio la necessità di rivedere l’attuale organizzazione del lavoro della Polizia Penitenziaria, non solo con la finalità di prevenire il contagio da covid-19, ma anche per contrastare il continuo incremento delle aggressioni subite dal personale”. Foti ha chiesto anche quale fosse la situazione del contagio da Covid-19 all’interno della struttura penitenziaria di Piacenza, ed è stato risposto che “la direzione del carcere ha fatto una buona campagna di prevenzione verso gli agenti di polizia penitenziaria e verso l’utenza detenuta”. Il segretario provinciale Nicola Lucino ha ribadito la proposta inviata ai vertici del Dipartimento tramite la segreteria nazionale, proponendo “una nuova organizzazione del lavoro per affrontare l’emergenza dell’attuale sistema di vigilanza dinamica, che ha visto un’apertura indiscriminata delle celle senza prevedere criteri di premialità”. Foti ha concordato e ha assicurato che la porterà all’attenzione del parlamento. Narducci ha invece evidenziato il problema dello stress correlato al lavoro in un Corpo che effettua un servizio difficile e stressante già nell’ordinario e che, con l’emergenza epidemiologica, ha affrontato momenti drammatici. Al termine dell’incontro il parlamentare piacentino si è impegnato a visitare insieme alla delegazione sindacale il carcere delle Novate e di organizzare un incontro con il personale di polizia penitenziaria alla presenza del leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Sassari. Il sogno diventa realtà: in carcere stoffe e lavatrici di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 8 marzo 2021 Alle detenute donate anche due macchine da cucire per realizzare una tenda Le commissarie pari opportunità: “Determinante la generosità della gente”. Quella che inizialmente era solo una richiesta piena di speranza rivolta dalle detenute di Bancali alle commissarie regionali delle Pari opportunità (che erano andate in visita nel carcere sassarese ai primi di gennaio), oggi è diventato un progetto vero e proprio che presto entrerà anche in altri istituti penitenziari dell’isola che ospitano detenute. Venerdì mattina davanti a quelle donne commosse e con lo sguardo colmo di gioia le commissarie del Nord Sardegna Martina Pinna, Paoletta Zolo, Anna Cherchi e Zoraida Dolores De La Rosa, accompagnate dalla presidente Francesca Ruggiu e dal garante dei detenuti Antonello Unida hanno incontrato il direttore Graziano Pujia e il vicecomandante della polizia penitenziaria e hanno quindi consegnato i doni di Sassari alla sezione femminile del carcere di Bancali. Perché di questo si è trattato: del frutto della sensibilità mostrata da commercianti e artigiani della città. Ai primi di gennaio, infatti, le detenute avevano espresso il desiderio di avere a disposizione dodici metri di stoffa per poter cucire una tenda e usarla per coprire le grate all’interno della cappella del carcere. Un piccolo sogno che da subito aveva svelato la grande dignità di queste donne: vivere la preghiera dimenticando almeno durante la celebrazione della messa di essere dentro un carcere. E la risposta di Sassari è arrivata subito dopo: il negozio di tessuti “Diana” di via Brigata Sassari ha donato la stoffa, “Chicca Pe” (Costanza Pedoni) conosciuta a Sassari per i suoi bellissimi lavori di cucito ha voluto regalare dei pizzi e le macchine da cucire per realizzare la tenda. E, ancora, la sarta Silvia Franca si era proposta per insegnare alle detenute come si lavorano le stoffe. Un corso di cucito che deve ancora essere autorizzato. Anche un negozio di Ottica si era reso disponibile a donare alcune paia di occhiali alle detenute. Ora si è aggiunta anche una lavatrice che è stata messa a disposizione dalla famiglia Mura, titolare dei supermercati Crai ed Eurospin e che ieri è stata consegnata alle detenute insieme agli altri oggetti. Un’iniziativa molto importante che, con l’approvazione della commissione, è partita da Sassari ma presto approderà anche in altri istituti penitenziari sardi. Un progetto portato avanti “in un periodo in cui l’epidemia sta allontanando le persone l’una dall’altra - avevano spiegato le commissarie del Nord Sardegna - privandole della motivazione primaria alla socialità”. Per questo avevano voluto dimostrare la loro vicinanza “a chi è costretto ancora di più all’isolamento sociale, sia per via della misura detentiva che per ragioni di lavoro”. Salerno. Stop alla violenza sulle donne, flash mob davanti al carcere di Fuorni di Viviana De Vita Il Mattino, 8 marzo 2021 La scritta rossa sulla stoffa nera: “Stop alla violenza sulle donne”. È stato questo lo slogan scelto per decorare decine e decine di mascherine cucite a mano dalle detenute del carcere di Fuorni e presentate nel corso dell’iniziativa “Da donna a donna. Ricuciamo i legami”. La direttrice del carcere, Rita Romano, in occasione della festa della donna che sarà celebrata domani, ha infatti deciso di dare risalto al lavoro delle detenute attraverso un momento di svago, un flash mob organizzato dalla Fondazione della Comunità Salernitana presieduta da Antonia Autuori, insieme all’associazione musicale I Picarielli e all’associazione Campania Danza. L’evento, svoltosi ieri pomeriggio, nel cortile della casa circondariale, ha dato avvio a una raccolta fondi per potenziare il laboratorio di cucito presente all’interno del carcere. La manifestazione, che si è svolta nel pieno rispetto delle norme anticovid, è stata patrocinata dal Comune di Salerno, dal CIF - Comitato Imprenditoria Femminile della Cciaa di Salerno, dal Comitato Femminile Plurale di Confindustria e da FG - Industria Grafica. Cagliari. Alla Casa circondariale la 12esima edizione di “Un sorriso oltre le sbarre” Ristretti Orizzonti, 8 marzo 2021 Torna in presenza, anche se limitata a soltanto due rappresentanti dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, l’edizione 2021 di “Un sorriso oltre le sbarre” nel carcere di Cagliari-Uta. La manifestazione di solidarietà, promossa da Sdr in collaborazione con la sezione di Cagliari della Fidapa, è dedicata alle donne private della libertà nella Giornata Internazionale della Donna. L’appuntamento, organizzato grazie alla collaborazione dell’Area Educativa dell’Istituto e della Direzione della Casa Circondariale “Ettore Scalas”, consente annualmente alle detenute di trascorrere una mattinata con iniziative che permettono di riflettere sulla realtà femminile dietro le sbarre. Non solo detenute, ma anche Agenti di Polizia Penitenziaria e Funzionarie Giuridico-Pedagogiche che quotidianamente svolgono l’attività di recupero e risocializzazione. “Con l’auspicio che presto possa terminare questo momento di grande difficoltà e la partecipazione all’iniziativa possa essere una vera occasione di scambio di esperienze, l’appuntamento per noi - affermano Elisa Montanari (Sdr) e Silvia Trois (Fidapa Cagliari) - è molto importante. Appena possibile infatti organizzeremo una giornata speciale con le donne detenute. Desideriamo però rivolgere a loro e a tutte le operatrici dell’Istituto un particolare augurio in una Giornata che celebra l’impegno femminile in ogni settore”. Anche nella Giornata di lunedì, grazie alla generosità di Paola Melis e della stilista Emma Ibba nonché alla disponibilità del Direttore Marco Porcu, ciascuna detenuta riceverà una busta contenente dei prodotti per la cura della persona. Oltre a spazzolino, dentifricio, shampoo e crema nel sacchetto ci sarà anche una mascherina realizzata dalla stilista. A consegnare i prodotti con la presidente Elisa Montanari ci sarà Katia Rivano. L’appuntamento di domani segna anche la ripresa della presenza delle volontarie in carcere. “Speriamo - ha sottolineato Maria Grazia Caligaris, già presidente di Sdr - di poter riattivare al più presto la Parruccheria, il Coro, il corso di ricamo e le attività di danza-terapia nonché i colloqui a tu per tu. La volontà e l’impegno dell’associazione non sono mai venuti meno”. “Cattività”: le donne della mafia, storie di rinascita La Repubblica, 8 marzo 2021 Nel film con le attrici del reparto di alta sicurezza nel carcere di Vigevano. Dall’8 marzo su Prime Video, il documentario diretto da Bruno Oliviero, distribuito da 102 Distribution, dopo un’esperienza quadriennale di teatro. L’8 marzo esce su Prime Video - distribuito da 102 Distribution - “Cattività”, documentario diretto da Bruno Oliviero e interpretato dalle attrici della Casa di Reclusione di Vigevano, recluse nel reparto di Alta Sicurezza. Il documentario racconta il percorso di emancipazione che le detenute hanno avuto attraverso un’esperienza quadriennale di teatro, condotta da Mimmo Sorrentino, regista, drammaturgo e teorico del teatro partecipato, nell’ambito del progetto “Educarsi alla libertà”. Come ha scritto il professor Nando Dalla Chiesa, uno dei testimoni importanti del film, non solo perché tra i maggiori esperti di criminalità organizzata al mondo, ma perché vittima di mafia, “il valore di questo progetto è incalcolabile perché queste donne, anche se non denunciano, non tradiscono, possono diventare un fatto esemplare per il Paese”. E ha fatto dire al professor Massimo Recalcati “Io ho visto questo nello spettacolo. Ho visto quando eravate bambine rispetto al padre, figlie rispetto alle madri, poi madri rispetto alle figlie ed eravate una preghiera”. Il reinserimento nella società. Queste donne di mafia, ‘ndrangheta e camorra hanno iniziato a raccontare a Mimmo Sorrentino la loro infanzia, poi i tragici episodi di sangue a cui hanno assistito e questi racconti sono diventati testi teatrali, dove ognuna recita la parte di un’altra, rappresentati in teatri stabili e nelle aule magne di molte universitarie italiane grazie a un’estensione del permesso di necessità con scorta previsto dal codice di procedura penale per motivi di salute o di lutto. I magistrati di sorveglianza hanno infatti stabilito, cosa unica nella giurisprudenza italiana, che per queste donne praticare cultura fosse necessario. Il risultato di questa esperienza è che la maggior parte di queste donne ha terminato di scontare la propria condanna e oggi si sono ricostruite una vita lontana dai contesti dove avevano commesso i reati e si sono inserite nella società come operaie, badanti, donne delle pulizie. Il desiderio di una vita altra e migliore. “La regia - sottolinea Bruno Oliviero - è il risultato della scelta di filmare nella loro interezza le ‘giornate particolari’ che queste donne hanno vissuto ogni volta che sono uscite dal carcere. Non solo gli spettacoli quindi, ma ciò che accade sui loro volti nelle pause, negli interstizi delle incombenze carcerarie, nei momenti di incontro tra le loro storie e il pubblico. Nei loro occhi abbiamo colto il processo di cambiamento che stavano vivendo: il dolore prima della gioia. La costruzione e l’accettazione di una della loro intrinseca bellezza, il desiderio di una vita altra e migliore generava in loro dubbi, paura, pietà e infine amore - ha aggiunto Oliviero - una condizione comune a tutti noi, di fronte al passato che non ci lascia evolvere e al futuro che ci sembra faticoso. Le protagoniste di Cattività urlano un doloroso inno alla gioia del cambiamento”. Il film è la descrizione della condizione umana. Quella delle detenute che urla e la nostra, spettatori protagonisti del nostro tempo, troppo spesso sopita”. Film riconosciuto di interesse culturale, è stato realizzato con il contributo economico del Mibact - Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo - Direzione generale cinema, con il contributo di: Regione Lazio - Fondo regionale per il cinema e l’audiovisivo e con il patrocinio del Ministero della Giustizia e del Mibact. Le interpreti. Teresa, Michela, Rosaria, Margherita, Marina, Maria A., Maria D., Federica, Maria C. Graziella, Magda, Carla, Diana, Sonia e Assunta. Il film è prodotto da Quality Film e Flat Parioli con Rai Cinema e la Cooperativa Sociale Teatro Incontro come produttore associato. La sceneggiatura è scritta dallo stesso regista con Mimmo Sorrentino e Luca Mosso, la direzione della fotografia affidata ad Alessandro Abate, il montaggio a Carlotta Cristiani. Otto marzo, la rivoluzione delle ragazze negli anni Settanta di Natalia Aspesi La Repubblica, 8 marzo 2021 Cinquant’anni di battaglie contro le diseguaglianze. Una cavalcata gioiosa iniziata all’insegna del coraggio. I femminismi furono tanti, ognuno con i suoi testi. Quando le ragazze si risvegliarono, ed erano i primi anni 70, il nemico da combattere era una potente astrazione, il capitalismo, di cui il patriarcato era una delle colonne indispensabili. O viceversa. Il nemico non era il maschio, lui stesso vittima delle costruzioni invincibili del potere, maschile o femminile che fosse. Anzi i giovani uomini erano gli alleati, quelli con cui insieme si doveva distruggere il mondo dei padri: era una rivoluzione che si accodava a quella grandiosa dei lavoratori contro i padroni, che nasceva soprattutto nel privilegio delle università, della consapevolezza culturale, era un movimento di élite quanto mai rumoroso iniziato insieme, ragazzi e ragazze, alla ricerca di quel famoso mondo migliore, la chimera che stiamo ancora cercando, per altre strade, con altre mete e per ora pessimi risultati. Ma se sei un maschio, pur volonteroso di uguaglianza, e sei nato da una madre più patriarca del padre, sbagli inesorabilmente: avevano, i ragazzi di quegli anni luminosi, un bel riunirsi e fare autocoscienza, a dichiararsi colpevoli di maschilismo, a imparare a piangere, addirittura a sottomettersi alla pericolosa ingiunzione delle compagne di toglier loro la verginità, che era per le ragazze la prima liberazione indispensabile per sottrarsi alla legge della sudditanza. Era più forte di loro, dei ragazzi pur innocenti di maschilismo cosciente e, mentre scrivevano comunicati del tutto incomprensibili e purtroppo sempre più sanguinari, alle adorate compagne di lotta riservavano l’uso quasi domestico del ciclostile. Si scocciarono, le ragazze che ne sapevano più del diavolo e dei compagni barbuti e riccioloni, si ribellarono, se ne andarono, tutte femmine, a inventarsi il femminismo del momento, non certo il primo del secolo: ma non si è donne e intellettuali e di sinistra per niente, e infatti i femminismi furono subito tanti, ognuno con la sua idea di liberazione e i suoi testi e le sue leader. Del resto le catene davvero erano troppe, e ancora oggi non tutti i lucchetti sono saltati. Io ero già in là con gli anni per unirmi a loro, non mi avrebbero accettata, però le seguivo come cronista, talvolta con entusiasmo talvolta con ironia. Il bisogno di liberazione era immenso, ma non ancora rivolto ai singoli uomini. L’uomo non era il nemico, anzi far l’amore faceva parte della rivoluzione, dell’essere finalmente nuova e libera: via dalla famiglia (si leggeva molto “La morte della famiglia” di David Cooper), dalle vecchie regole punitive, persino via dai romanzi rosa che pur scritti esclusivamente da donne, erano di un maschilismo efferato. Ci si impegnava sul serio, in modo radicale, a esplorare le ragioni del sesso, e se per esempio il corpo dei volonterosi compagni era tutto lì, esposto, e di meccanica primitiva, cosa nascondeva il corpo femminile, che aspetto aveva quella sua parte misteriosa, regno di ogni peccato e vergogna, che nessuno aveva osato ritrarre tranne, si diceva, un certo ottocentesco Courbet il cui quadro peccaminoso era però tenuto nascosto in qualche caveau? Una delle azioni liberatorie fu proprio quello delle giovani eroine che, sedute a terra in cerchio, si misero uno specchio tra le gambe per acculturarsi su cosa voleva dire essere femmina. Le più coraggiose, preso atto di questa origine del mondo, arrivarono a spiegarne i meccanismi ai compagni d’amore e no, che ne sapevano quasi niente. Spiace dirlo, ma quella solenne cerimonia oggi la si vede, ridicolizzata, su TikTok, con ragazzine che si fanno un selfie sotto la gonna e si spaventano. Le ragazze che amavano le ragazze ebbero il coraggio di baciarsi in pubblico, e a un certo punto si formò un gruppo di estremiste della politica femminista, che pur essendo placidamente etero, si imposero almeno per un po’ la pratica lesbica, non sempre con grande profitto. In quegli anni meravigliosi di coraggio, davanti alle donne si estendeva una immensa prateria, una infinita foresta, inesplorata: prima di tutto la necessità di scoprire se stesse, le sconosciute che il patriarcato aveva travestito secondo le sue necessità, come in “La fabbrica delle mogli” di Ira Levin; e poi la loro storia taciuta lungo i secoli, il presente da ribaltare, il futuro da costruire. La passione aveva attraversato tutto il mondo occidentale, il femminismo non aveva una sola patria, era universale. A Milano arrivavano dagli Stati Uniti l’arrabbiata Kate Millett per parlare del suo libro “La politica del sesso”, dall’Inghilterra la fascinosa Germaine Greer con “L’eunuco femmina”, in Francia Simone de Beauvoir che più di vent’anni prima aveva scritto “Il secondo sesso”, il testo fondamentale del femminismo, firmava il “Manifesto delle 343”, assieme a una folla di donne che dichiaravano di aver abortito e quindi commesso un crimine: in Italia la grandiosa Carla Lonzi scriveva “Sputiamo su Hegel” e io avendolo proposto al mio giornale di allora, Il Giorno, rischiai il licenziamento. In California una mostra storica faceva scoprire l’esistenza delle grandi artiste sino ad allora ignorate in quanto donne, Artemisia Gentileschi, Elisabeth-Louise Vigée-Le Brun, Rosalba Carriera e le altre centinaia. A Verona nasceva Diotima, il gruppo di filosofe che, rivendicando una filosofia al femminile, mandarono in bestia le barbute celebrità del ramo; a Padova si combatteva per il salario al lavoro domestico e i comunisti si disperarono, decine di giovani donne scrivevano testi spesso meravigliosi, sempre colti, un patrimonio per chi avesse oggi la bizzarra idea di informarsi di cosa fosse il femminismo trionfante di allora: se non altro per confrontarlo a quello, pur rispettabile ovvio, di adesso, che ha scelto soprattutto il ruolo della vittima più che quello della combattente. Eppure ci sarebbe ancora molto da conquistare, da pretendere, da ottenere, nel lavoro, nelle carriere, nel potere che sarà una brutta cosa ma è indispensabile, non tanto per la cosiddetta parità di genere che oggi è diventata troppo vasta, quanto per un autentico equilibrio del mondo. Prima che gli uomini si stanchino di sentirsi colpevoli di ogni maschilità e dicano basta cara ancelle, vi aspetta Gilead, la teocrazia totalitaria, ecco per voi la tonaca anche alta moda. Otto marzo, il lavoro perduto delle donne. Oltre 300 mila hanno perso il posto nel 2020 di Luisa Grion La Repubblica, 8 marzo 2021 Sono tre volte più degli uomini quelle rimaste disoccupate. E il gender gap costa 88 miliardi. Novantanovemila donne disoccupate da una parte, duemila uomini disoccupati dall’altra. Basta questo dato sui posti di lavoro persi nel solo mese di dicembre per capire cos’ha rappresentato il Covid per il lavoro femminile. Un tornado che le ha travolte e riportate indietro di almeno quattro anni, mettendo a nudo la fragilità del traguardo raggiunto solo un anno prima: nel 2019 il loro tasso di occupazione aveva toccato per la prima volta il 50,1 per cento - sempre poco rispetto alla media europea del 62,3 - ma nell’anno della pandemia è di nuovo crollato al 48,6 per cento, 19 punti sotto quello maschile. Al di là del picco di fine anno, l’intero 2020 è stato disastroso: su quattro lavoratori che hanno perso il lavoro tre sono donne (312 mila contro 132 mila). Percentuale più o meno uguale fra gli inattivi, ovvero fra le persone che non hanno un’occupazione e che ormai non fanno più nulla per cercarla: nel 2020 sono state 482 mila in più rispetto all’anno pre-Covid, 388 mila donne, 144 mila uomini. L’analisi del crollo è presto fatta: la crisi, più che sull’industria, ha picchiato sui servizi. Cura, assistenza, ristorazione, turismo: lavori a termine, precari per definizione, spesso part-time involontari, massacrati dalle restrizioni e dal lockdown ed esclusi anche dal blocco dei licenziamenti che ha “salvato” solo i posti di chi poteva contare su un contratto a tempo indeterminato. Sono i settori che, con istruzione e sanità, danno lavoro a otto donne occupate su dieci. E ciò spiega l’enormità del prezzo pagato. Ora si tratta di non considerare più questi dati come un problema femminile, ma di vedervi una emergenza nazionale e come tale aggredirla: è questa la motivazione di fondo per la quale è nato “Donne per la salvezza-Half of it” il movimento che chiede di utilizzare almeno metà dei fondi del Next Generation Eu per realizzare parità di genere e infrastrutture sociali, dando uno scossone ad una questione di cui si parla da decenni senza che vi sia mai stata la volontà politica di affrontarla. “Senza risolvere questo problema l’Italia non ne esce - dice Paola Mascaro, presidente di Valore D, l’associazione d’imprese impegnata nella promozione della parità - Tanti studi, fra i quali uno di Bloomberg basato su dati Eurostat, dicono che il raggiungimento da parte dell’Italia della media europea dell’occupazione femminile determinerebbe un aumento del Pil di circa 88 miliardi di euro. Non possiamo più permetterci di far finta di nulla”. Ci sono almeno tre cose che si possono fare subito, dice Susanna Camusso, ex segretaria generale Cgil e responsabile del sindacato per la parità di genere. “Inserire norme che impediscano il part time involontario, visto che è a part time un posto di lavoro femminile su tre e di questi il 60% non lo è per scelta. Introdurre la paternità obbligatoria, in modo da scardinare la discriminazione femminile d’ingresso e il preconcetto che di cura si debbano occupare solo le donne. Collegare le diverse forme di incentivo e sostegni, in particolare su green e digitale, alla valorizzazione della presenza femminile nelle aziende: basta con i bonus a pioggia”. Gli asili nido, certo, sono fondamentali: “La pandemia ha portato alla luce l’arretratezza delle nostre infrastrutture sociali, che creano occupazione femminile e migliorano la qualità di vita del paese. Dobbiamo cominciare da lì”. Interventi sui quali sono d’accordo anche le imprese di Valore D, che chiedono in più incentivi alle aziende che fanno formazione alle donne aiutandone la riqualificazione e una sorta di micro-credito per salvare le imprese femminili. Perché nel 2020 il Covid ne ha spazzate via 4 mila, soprattutto fra quelle guidate da donne con meno di 35 anni. La violenza silenziosa sulle donne ai tempi dalla pandemia di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 8 marzo 2021 I maltrattamenti in famiglia sono il reato che precede i femminicidi: insulti e vessazioni, fino alle botte. Stando tutti più in casa, aumentano. Ma le denunce calano. Facciamo abbastanza per intervenire prima che sia troppo tardi? Cesare Parodi è un tipo preciso. Procuratore aggiunto di Torino, per anni si è occupato di reati informatici: hacker, server, file di log, spear phishing e privilegi di root. Ad aprile dell’anno scorso, durante il lockdown, è stato messo a capo del pool “fasce deboli”, i magistrati che si occupano di reati in danno di donne, anziani, minori, disabili. Nell’ufficio al settimo piano del palazzo di giustizia sfoglia le ultime denunce per maltrattamenti in famiglia. Insulti, vessazioni, umiliazioni. “Mi fai schifo”. “Sei sciatta”. “Sei sporca”. “Non sei buona nemmeno a cucinare”. “Non servi a niente”. Impilando le denunce come fa ogni giorno da un anno, il pm Parodi depone gli occhiali e alza lo sguardo: “Per me è stato un bagno drammatico nella realtà”. Violenza domestica è ogni forma di violenza fisica, psicologica o sessuale e riguarda tanto soggetti che hanno, hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima di coppia, quanto soggetti che all’interno di un nucleo familiare più o meno allargato hanno relazioni di carattere parentale o affettivo. Non sono parole. Sono reati. Il reato previsto dall’articolo 572 del codice penale punisce i maltrattamenti in ambito familiare. Maltrattamenti sono comportamenti prevaricatori, vessatori e oppressivi ripetuti nel tempo, tali da produrre nella vittima una sofferenza fisica o morale. Sono il rumore di fondo delle violenze domestiche, di cui ci accorgiamo solo quando diventa sangue. Troppo tardi. I femminicidi (dodici nei primi due mesi del 2021) finiscono sui giornali e in televisione. I maltrattamenti, no. Alla fine di gennaio, come sempre, si sono svolte le cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario. Le relazioni dei più alti magistrati hanno sottolineato le statistiche sui reati, in calo costante. Gli omicidi volontari, per esempio, l’anno scorso sono stati 268, con un calo del 14% rispetto al 2019 e dell’86% rispetto al 1991, anno del picco. Ma la quota di omicidi con vittime donne cresce: era del 35% nel 2017, è arrivata al 42% nel 2020. Allarmante è anche il dato delle donne uccise nell’ambito di relazioni affettive. Detto in termini non statistici, le donne continuano ad essere uccise da coloro che “le amano” e in maniera sempre più intollerabilmente costante. Il pool “fasce deboli” della Procura di Torino apre dieci fascicoli al giorno. Nel 2020 quelli per maltrattamenti sono stati 1047 (di cui 138 con arresti). Quasi tre al giorno. Seguono stalking (435 casi, con 56 arresti), lesioni (301) e violazione di obblighi di assistenza familiare (300). Spiega il pm Parodi che i maltrattamenti in famiglia non sono solo il reato più diffuso, ma anche quello “tragicamente più trasversale” dal punto di vista etnico, mentre dal punto di vista sociale si concentra ovunque c’è “debolezza economica delle donne”. Nel 2019 la legge denominata “codice rosso” ha creato nuovi reati, aggravato le pene, dedicato un canale preferenziale per le indagini, previsto appositi percorsi di assistenza per le vittime e di riabilitazione per i colpevoli. Nel 2020 la ridotta mobilità dovuta alle misure anti Covid ha aumentato la conflittualità in famiglia. Secondo il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, a pagare il prezzo maggiore sono stati “i soggetti vulnerabili, esposti al rischio di esplosione delle tensioni endo-familiari”. Donne, bambini. Ma la pandemia ha anche indebolito tutti i presidi sociali e ridotto la propensione alla denuncia. Inoltre la riabilitazione sociosanitaria “ha effetti non immediati”, spiega il pm Parodi, per cui l’intervento repressivo è ancor più importante. In un caso su due la Procura valuta una misura cautelare per impedire un’escalation violenta. Nel corso della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, il vertice della magistratura italiana, Pietro Curzio, primo presidente della Cassazione, ha detto: “Numerosi uffici segnalano che nell’anno appena trascorso, in assenza di quella stanza di compensazione che è la scuola e di attività esterne, si è riscontrato un silenzioso aumento dei maltrattamenti in famiglia verso minori”. La parola chiave è “silenzioso”. Sinonimo di “sommerso”. Così la Procura di Milano spiega la diminuzione di denunce a Milano: 1864 fascicoli aperti per maltrattamenti nell’anno del Covid contro i 2281 dell’anno precedente. Tendenza analoga per le lesioni personali (da 880 a 639), uno dei cosiddetti “reati spia” di una grave situazione di disagio familiare. “Non si tratta di una ritrovata pace familiare - dice Maria Letizia Mannella, procuratore aggiunto e capo del pool “fasce deboli” a Milano - ma di una diminuzione legata alla paura delle vittime, costrette alla convivenza forzata e isolata con chi le maltratta, a subire una pressione psicologica che impedisce loro di chiedere aiuto”. Durante il lockdown, il 78% dei centri anti violenza ha dichiarato di aver registrato una diminuzione nel numero di nuovi contatti. Dai dati del Telefono Rosa risulta che le telefonate nelle prime due settimane di marzo sono diminuite del 55,1% rispetto al 2019. La casa non è sempre un posto sicuro. Tra gli omicidi che riguardano donne, otto su dieci sono commessi in ambito familiare e affettivo: quindici anni fa erano sei su dieci. Analizzando i dati sulle vittime di violenze domestiche, si scopre che il 60% ha meno di 45 anni. Le vittime sono minorenni in sette casi su 100. Gli autori delle violenze sono minorenni in 2 casi su 100. I maltrattamenti “sommersi” hanno una specificità per i bambini, troppo piccoli per chiedere aiuto. Per tutelarli, un ruolo decisivo è affidato alla scuola. Ma nell’ultimo anno la possibilità di essere salvati è diminuita proporzionalmente alla presenza fisica nelle scuole. Il pool di magistrati milanesi ha riscontrato un aumento di ragazzi adescati sul web e di denunce di abbandono di minori. Lontani da maestri, educatori, da chi “sorveglia” la loro crescita hanno subìto e basta. In molte famiglie, non potendosi permettere babysitter, per accudire i figli i genitori si rivolgono a vicini di casa e conoscenti. Non sempre persone idonee. Rimpiangeremo a lungo di non aver evitato questi disastri I dati delle denunce di maltrattamenti in ambito familiare non sono omogenei nei diversi periodi del 2020. Nei mesi del lockdown (marzo-maggio) sono diminuite. Poi sono tornate ai livelli abituali. Chi lavora sul campo, spiega Alessandra Simone, dirigente della sezione anticrimine della Questura di Milano, ha constatato “l’esplosione di aggressività, atteggiamenti prevaricatori e pieni di rabbia, violenza psicologica oltre che fisica: quindi minacce, insulti e botte”. Valutare le segnalazioni di maltrattamenti in famiglia richiede una specifica preparazione. Anche perché la tempistica e la tipologia dell’intervento sono decisivi: se si agisce troppo tardi o senza proteggere adeguatamente la vittima, si rischiano conseguenze irreparabili. Sia nella magistratura che nelle forze di polizia, si sono create figure ad hoc per questo tipo di reati. Ma l’isolamento sociale causato dalle misure restrittive anti Covid ha reso più problematico anche questo lavoro di “pronto soccorso”. “Il timore di far entrare estranei in casa ha coinvolto anche noi poliziotti”, dice Alessandra Simone. Primi giorni di aprile. All’alba arriva una telefonata alla Questura di Milano. A chiamare una donna di 78 anni in lacrime. Dice che non ce la fa più con il figlio di 42 anni, tossicodipendente che vive con lei. Nella notte la situazione è degenerata: le ha impedito di andare in camera da letto, costringendola a guardarlo mentre, sul divano del soggiorno, continuava a scolarsi birre. Poi ha minacciato di ucciderla, l’ha spinta sulla poltrona, l’ha presa per il collo, le ha tirato i capelli, l’ha tenuta a testa in giù. Dopo averla lasciata, ha ripreso a bere. Solo quando s’è addormentato completamente ubriaco, la mamma ha trovato la forza di comporre il 112. La polizia ha arrestato l’uomo, poi sottoposto a sorveglianza speciale. In passato, di fronte alle prime intemperanze verbali, era stato destinatario di un ammonimento del questore. Un provvedimento introdotto nel 2009 dalla legge sullo stalking, per consentire un intervento (una specie di ultimatum) anche nei casi in cui la vittima è restia a denunciare, facendo emergere fenomeni altrimenti “sommersi”. Storie come queste sono all’ordine del giorno, anche se passano inosservate alla cronaca. Spie di un fenomeno - i maltrattamenti di figli sui genitori - in crescita nel 2020 ed “erroneamente trascurato sebbene sia una piaga sociale”, sostiene il pm torinese Parodi snocciolando la casistica che arriva sulla sua scrivania: vessazioni, botte, richieste di denaro accompagnate da rifiuto di assistenza, danneggiamenti di arredi domestici, umiliazioni verbali con frasi tipo “Sei un fallito” o “Guarda che vita di merda che fai”. La pandemia ha rotto alcuni argini sociali. Con un’aggravante: raramente i genitori trovano la forza di denunciare i figli e in ogni caso, quando vengono sentiti da magistrati e forze dell’ordine, tendono a sottovalutare, complicando la reale comprensione della situazione. Le situazioni di disagio non vengono più compensate da strutture esterne come medici e servizi sociali. La mancanza di un monitoraggio costante ha portato a sfoghi di rabbia incontrollata sui genitori. La pandemia ha reso più problematiche anche le misure a tutela delle vittime come la collocazione in strutture protette. Allontanamenti necessari in casi come quello capitato a Milano durante il lockdown: un uomo aveva smesso di prendere farmaci e frequentare il Cps (Centro psico-sociale), prendendosela con moglie e due figli adolescenti: bamboline impiccate in camera, foto scarabocchiate, scritte con insulti sui muri. “Le storie più penose - dice il pm Parodi - sono quelle delle donne che ci spiegano di aver deciso, nonostante i maltrattamenti, di fare un altro figlio con lo stesso uomo”. Per queste vittime è fondamentale l’assistenza psicologica. Ma la Procura di Torino, che ha competenza su un territorio con circa 2 milioni di abitanti, ha solo due assistenti sociali. Tanto che ha dovuto sottoscrivere una convenzione con l’associazione carabinieri in pensione per farsi dare una mano. Le donne ridimensionano i maltrattamenti e giustificano gli uomini in diversi modi. “Da quando mio marito ha perso il lavoro…”. “Il fatto di stare in casa…”. “Dopo la nascita di nostro figlio…”. La minaccia di ritorsione sui parenti della donna è un fattore di freno alle denunce. Vicende che sembrano tutte uguali, fatte di sofferenza acuita dall’assenza di contatti con l’esterno, dalla perdita di punti di riferimento cui rivolgersi per chiedere aiuto Per questo, come ha scritto il capo della polizia Franco Gabrielli nel dossier “Un anno di codice rosso” pubblicato nel novembre scorso, “gli esperti parlano di approccio olistico, capace di coinvolgere tutti gli attori sociali”. A livello internazionale si parla di 5 P: prevenire le violenze, proteggere le vittime, punire i colpevoli, procurare i risarcimenti, promuovere una cultura nonviolenta. Un aumento di maltrattamenti in famiglia è stato registrato in tutti i Paesi durante la pandemia. Il Portogallo ha registrato un aumento del 180% delle richieste di aiuto telefonico nel periodo marzo-giugno. Negli Stati Uniti le violenze domestiche sono cresciute fino al 30%. La Francia ha varato un piano per assistere le vittime, finanziando 20mila prenotazioni alberghiere, dotando i centri anti violenza con 1 milione di euro e creando punti di assistenza nei supermercati e nelle farmacie. L’Olanda ha creato un codice specifico per la richiesta di farmaci a domicilio, da cui le farmacie deducono una richiesta di aiuto da girare alle autorità. E noi, in Italia, stiamo facendo abbastanza? A fine aprile 2020 il governo ha pubblicato un bando per rimborsare con 5,5 milioni di euro Case rifugio e Centri antiviolenza, 553 strutture riconosciute dalle Regioni in tutta Italia, per interventi di adeguamento sanitario ai protocolli di sicurezza anti Covid. Ogni Casa rifugio poteva chiedere fino a 15mila euro, ogni Centro anti violenza fino a 2500 euro. La richiesta di una fideiussione ha impedito la partecipazione ai centri non in grado di avere una tale garanzia dalle banche. Dieci mesi dopo, solo il 13% delle strutture che hanno chiesto il contributo l’ha ottenuto. Il 12% ha ottenuto un acconto. Il 50% non ha ancora ottenuto un euro. Molte non sanno nemmeno se la domanda è stata accolta o no. Su circa 700 centri di assistenza attivi in Italia, poco più di cento hanno avuto effettivamente accesso ai finanziamenti pubblici. Secondo l’associazione D.i.Re “Donne in Rete contro la violenza”, il bilancio dell’iniziativa è “sconcertante” e significativo della “poca considerazione che le istituzioni hanno nei confronti delle organizzazioni che sono ogni giorno attive per contrastare la violenza contro le donne e per sostenere nei percorsi di uscita quelle che la vivono”. No, non stiamo facendo abbastanza. Famiglia, lavoro, società: ripensare il ruolo delle donne di Christine Lagarde* Corriere della Sera, 8 marzo 2021 Con il dilagare della pandemia di Covid-19 il mondo intero ha dovuto affrontare un anno di sacrifici. Troppi hanno perso la vita, o i propri cari. Altri hanno dovuto lottare duramente per sopravvivere, a livello fisico, emotivo e finanziario. L’anno appena trascorso ha reso evidente che l’impatto sociale ed economico della pandemia sulla vita delle donne è particolarmente pesante. Un numero sproporzionato di donne lavora nei settori più colpiti dalla pandemia. Svolgono, con maggiori probabilità, attività informali non tutelate dai programmi di sostegno pubblico. Molte hanno dovuto prendersi cura da sole dei familiari più giovani e anziani, mentre cercavano di tenere testa agli impegni lavorativi. È preoccupante che queste circostanze rischino di annullare i progressi conquistati a caro prezzo sul fronte della parità di genere. Non dobbiamo permettere che ciò accada. Ma c’è anche speranza di cambiamento. Le crisi esistenziali sconvolgono il nostro modo di vivere quotidiano e ci spingono a rifondare alcuni dei nostri valori. La pandemia non ha soltanto alzato il velo sulle gravi carenze della nostra società, ci ha anche costretto ad agire in modo diverso. Ed è proprio qui che vedo la possibilità di un cambiamento per il meglio. Per questo oggi, Giornata internazionale della donna, invito tutti, donne e uomini, a rompere insieme gli schemi e abbracciarne di nuovi, più consoni alle necessità del presente. La famiglia, il lavoro e il nostro ruolo di guida sono compiti che richiedono molto impegno. Il lavoro comincia in famiglia, cuore e centro della nostra vita durante il confinamento. La pandemia ha messo chiaramente in luce lo squilibrio fra uomini e donne in termini di lavoro non retribuito. Ma ci ha anche dimostrato che i nostri compagni possono farsene carico. In alcuni casi i padri, impegnati a lavorare da casa o costretti a un orario di lavoro ridotto, hanno preso in mano le redini della famiglia, mentre le madri svolgevano mansioni essenziali al di fuori delle mura domestiche. Una simile rottura dei canoni, se durerà, potrà portare alle donne la libertà di realizzarsi altrove, sul lavoro o nella comunità. Una maggiore partecipazione delle donne al mondo del lavoro, con adeguati servizi per l’assistenza all’infanzia e un’organizzazione flessibile dell’orario di lavoro a favore di donne e uomini, permetterebbe di compiere un grande passo avanti nel colmare il divario retributivo di genere. Nell’UE le donne guadagnano in media all’ora il 14,1% in meno degli uomini. Se i compiti domestici sono ripartiti in modo più equo all’interno della famiglia, i figli crescono con un’idea dei ruoli più paritaria rispetto alle generazioni precedenti. A questo si aggiungono gli impegni sul posto di lavoro. La pandemia ha posto in risalto il ruolo professionale imprescindibile che le donne svolgono nella società. Rappresentano i tre quarti dei circa 18 milioni di operatori sociosanitari nell’area dell’euro e contribuiscono in misura simile al mondo dell’istruzione. Entrambi i settori si sono rivelati indispensabili durante la pandemia. Ora che abbiamo visto qual è il vero valore di queste figure per la società, è importante che esso sia riconosciuto e retribuito adeguatamente. C’è bisogno di più donne anche nel campo della scienza, della tecnologia, dell’ingegneria e della matematica. In questi settori caratterizzati da un migliore trattamento economico, una maggiore presenza femminile contribuirà infatti a ridurre il divario retributivo di genere. Inoltre, le professioni scientifiche costituiscono un fattore determinante per l’innovazione e per la transizione verso un’economia più digitale e più sostenibile. Bisogna quindi guardare oltre le carriere tradizionali: incoraggiamo le donne e le ragazze ad affermarsi in quegli ambiti in cui solo poche di loro si sono ancora spinte. Oggi la BCE dà il via alla nuova edizione del programma di borse di studio per studentesse di economia, finalizzato a colmare la limitata presenza delle donne in questo settore. Il lavoro impegna anche nella leadership. La pandemia ha dimostrato il valore della leadership femminile, soprattutto in tempi di crisi. Le ricerche condotte durante la pandemia hanno rilevato che le donne sono considerate dai loro collaboratori leader più efficaci rispetto agli uomini. Sono in grado di dialogare e interagire meglio con i dipendenti. Eppure è donna soltanto il 18,5% dei capi di governo dei paesi dell’UE. Sebbene rappresentino più della metà della popolazione dell’UE (51%), la loro presenza nei parlamenti nazionali non supera un terzo dei membri. Nessuna delle banche centrali dell’area dell’euro, i cui governatori sono nominati dai governi nazionali, è guidata da una donna. La percentuale della rappresentanza femminile è altrettanto bassa negli organi di amministrazione delle imprese. Nelle maggiori società quotate europee le donne occupano soltanto il 7,5% delle posizioni dirigenziali. Alla Bce, tra il 2013 e il 2019, abbiamo più che raddoppiato la presenza femminile nell’alta dirigenza e il nostro obiettivo è ora raggiungere una quota del 40% entro il 2026. È il momento di ripensare la leadership e apportare maggiore diversità negli organi di amministrazione, nei parlamenti e nelle amministrazioni pubbliche. Una più equa ripartizione dei compiti domestici e maggiori opportunità di carriera permetteranno alle donne di contribuire ancor di più alla società, partecipare attivamente alla vita politica e dare voce alle tante istanze ancora inascoltate. Procediamo con ambizione verso questa meta affinché la nostra società riemerga più forte, più equa e più sostenibile dalla pandemia. *Presidente della Banca centrale europea La Giornata dei Giusti fa svanire le critiche di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 8 marzo 2021 Ora si celebra in mezzo mondo. Le resistenze dei tradizionalisti. Papa Francesco in Iraq per un mondo “inclusivo” senza muri. Il mondo è già radicalmente cambiato. Una mutazione inevitabile, accentuata non soltanto dal virus mortale della pandemia, ma dalla necessità di ripensare complessivamente la nostra vita, che non sarà mai più come prima. Ci sono i resistenti, inchiodati alle certezze e alle prigioni ideologiche del passato. Ma ci sono anche coloro che guardano avanti e rifiutano i più decrepiti luoghi comuni. Dico questo perché si è appena celebrata la Giornata dei Giusti nel mondo, approvata dall’Unione europea. Una Festa che dobbiamo ad un uomo ostinato e coraggioso, Gabriele Nissim, che ne è stato il vero creatore. Nissim non è stato esaltato da tutti. Da ebreo coraggioso ha denunciato, sin dall’inizio, errori e pregiudizi. Soprattutto nel suo mondo, dove gli ebrei tradizionalisti, nazionalisti, ottusi e bacchettoni non sopportano, anzi odiano l’idea che ci siano altri Giusti nel mondo. Per loro i Giusti sono soltanto i gentili che salvarono la vita degli ebrei durante la Shoah, l’Olocausto, la tragedia più terribile del secolo scorso. Nissim sostiene invece che Giusti sono anche coloro che hanno lottato e lottano per la difesa dei diritti umani, contro tutti i totalitarismi. Idea forte, anzi fortissima. Perché in questo mondo che non ama il coraggio delle proprie idee, vengono invece premiati i quaquaraquà, come ricordava il grande Leonardo Sciascia. Insomma si celebrano i reclusi, soprattutto nell’estrema destra, nella prigione delle loro certezze. Al Giardino dei Giusti di Gerusalemme, l’ostinazione ha vinto per anni. Per chi conosce sufficientemente bene Israele, per esperienza vissuta in decenni, anche allo Yad Vashem, come chi vi parla, è la triste verità. Hanno accusato Nissim di tutto e di più, ma lui ha resistito e ha voluto creare il primo Giardino dei Giusti aperto e inclusivo, proprio sul Montestella di Milano. Mi è stato facile avvicinarmi a lui e difenderlo fin dove possibile, accettando con gioia di diventare uno degli ambasciatori di Gariwo. Ma la gigantesca notizia di quest’anno è che tra gli ambasciatori è entrato Mordecai Paldiel, per 23 anni capo del dipartimento dei Giusti di Yad Vashem, che ha deciso negli Stati Uniti di sposare la causa dei Giusti, allargando il campo e inneggiando all’inclusione, quindi ben oltre i confini di coloro che hanno salvato gli ebrei durante la persecuzione che si concludeva nei campi di sterminio. È un passo storico e già immagino le critiche dei nazionalisti e dal solito codazzo servile. Ma anche i nuovi Giusti, che sono stati celebrati sul Montestella e che abbiamo scelto per questo 2021 con voto unanime, ci riempiono di gioia. Penso a chi andrà a far compagnia a Nelson Mandela e a Vaclav Havel. E cioè all’ebrea americana Ruth Bader Ginsburg, al cinese Liu Xiaobo e alla moglie Liu Xia, e in particolare allo svedese Dag Hammarskjold, ex segretario generale delle Nazioni Unite, morto in un misterioso incidente aereo nel 1961. E poi a coloro che verranno ricordati nei tanti Giardini virtuali in giro per il mondo. Un mondo che cambia profondamente, come dicevamo. Con un Papa straordinario come Francesco che è arrivato in Iraq, dove incontrerà, a Najaf, il leader spirituale sciita Al Sistani. Siamo alla realizzazione, con poche parole ma con tanti fatti quel “Fratelli tutti”, che riflette alla perfezione la coraggiosa linea del pontefice, molto legato alla Comunità di S.Egidio, che per prima ha voluto sostenere, in decine di incontri, che siamo tutti umani e che non ci sono differenze. So quanto la linea della Comunità di S.Egidio abbia spesso scatenato la rabbia e il profondo fastidio dei tradizionalisti. Ma i risultati sono davvero importanti. A parte qualche diplomatico bacchettone, che rifiuta di riconoscere, per pigrizia o semplice ignoranza, dal verbo ignorare, il lavoro che viene fatto in favore di deboli, diseredati e profughi, l’avanzata inarrestabile del dialogo fra tutte le religioni e i laici non si fermerà. Davvero straordinaria l’iniziativa di tre congregazioni locali, decisa a Berlino, di costruire una chiesa per tre fedi, che guarda al futuro, accogliendo assieme cattolici, ebrei e musulmani. La chiesa si chiamerà “churmosquagoga”, cioè la sigla- sintesi di chiesa, moschea e sinagoga. Fantastica idea. Questo è il nuovo mondo, che mi riempie di entusiasmo. Non ho mai nascosto la mia attrazione per la grande collega Rula Jebreal: araba israeliana, quindi musulmana; sposata con un ebreo, e madre di una ragazza battezzata cattolica. Crediamoci. Il futuro inclusivo e senza più muri sarà sicuramente migliore. Il Papa in Iraq, tra i cristiani che sognano la fuga: “Grazie Francesco per il coraggio” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 8 marzo 2021 Gli ultimi esponenti di una comunità perseguitata: noi in una terra senza legge. “Per noi cristiani la paura dei rapimenti iniziò molto presto. Già pochi mesi dopo l’invasione americana del marzo 2003 bande criminali si organizzarono nel mercato dei riscatti. Agli inizi del 2004 sequestrarono mio padre a Bagdad per un mese. Ci mandarono i video delle torture. Alla fine, pagammo 12.000 dollari, lo liberammo e scappammo a Zakho, nel nord curdo. In quel periodo almeno una decina di miei conoscenti, tutti caldei, vennero rapiti con le stesse modalità”, racconta la trentenne Marina Khairy, incontrata ieri a Erbil sugli spalti dello stadio Franso Hariri (guarda caso in memoria di un notabile cristiano assiro assassinato nel 2001 da estremisti islamici) mentre Papa Francesco celebrava l’ultima messa del suo tour iracheno. Vicino a lei il 58enne Emmanuel Danka, proprietario della catena di supermercati “Warda”, ammette che proprio per evitare i rapimenti ha mandato sua moglie e i figli a vivere a Beirut. “Io giro armato e con guardie del corpo. Questo rimane un Paese estremamente pericoloso”, ci spiega sbandierando i volantini di benvenuto a papa Francesco. Ma sono soprattutto i racconti di coloro che hanno perso case e proprietà nei villaggi della piana di Niniveh e Mosulche aiutano a comprendere il significato della visita del Papa. Ieri la sua tappa è stata il pellegrinaggio del dolore: Mosul, l’ex capitale del Califfato; Qaraqosh uno dei villaggi devastati; Erbil la città curda rifugio dei cristiani in fuga. “Ci siamo salvati per il rotto della cuffia. La sera dell’8 agosto 2014 i militari curdi hanno abbandonato le prime linee senza avvisarci. L’Isis aveva sfondato. Uno dei soldati cristiani passò a dirci trafelato che avevamo meno di due ore di tempo. Dopodiché Qaraqosh sarebbe stata catturata dai tagliagole”, ricorda Rafet Daho, 58enne venditore di spezie, che due anni fa è tornato trovando la sua abitazione completamente saccheggiata e bruciata. La sua è la storia di tutti: centinaia di migliaia di famiglie hanno dovuto fuggire, terrorizzate da un’orda di fanatici decisi a derubarli e persino ucciderli in nome di Allah. In questa luce, le parole di Francesco ricordano molto da vicino quelle “lettere” degli Apostoli alle comunità dei “confratelli perseguitati” che tanto fortemente segnarono i primi anni della storia della Chiesa. Di fronte a vicende così drammatiche passano in secondo piano le preoccupazioni di chi in Occidente mette in guardia contro il rischio pandemia o di attentati. In oltre due settimane non abbiamo trovato una sola critica, o anche solo velata preoccupazione, in questo senso tra i cristiani locali. Tutto il contrario. “Grazie Papa, grazie Francesco per il tuo coraggio, per la generosità e per l’attenzione dedicata alle nostre comunità che soffrono”, cantano in ringraziamento. Discordano tuttavia le valutazioni sul risultato del tour papale. “L’Isis è sconfitto. Il Papa ha fatto benissimo ad incontrare l’ayatollah Sistani, perché ciò faciliterà la nostra convivenza con gli sciiti. Ho fiducia in un futuro di pace. Non ho alcuna intenzione di andarmene”, dice ferma Dalia, una trentenne madre di due bambine, sposata con un poliziotto della caserma di Mosul e residente presso la basilica di Qaraqosh. Ma sembra una delle poche a dimostrarsi ottimista. Tre suore domenicane dell’Ordine di Santa Caterina da Siena elencano le loro chiese, scuole e cliniche devastate. “Spesso gli arabi musulmani trattano i cristiani come agenti dell’Occidente. Non sanno che noi eravamo qui prima di loro”, osservano. Tanti non nascondono le proprie paure e il desiderio di emigrare alla prima opportunità. “Il fanatismo islamico è stato sconfitto, però non battuto per sempre. Mosul rimane un centro di jihadisti agguerriti. Torneranno ad aggredire i cristiani, magari con un altro nome, però cercheranno di mandarci via. Ci stanno riuscendo. A Qaraqosh eravamo in 50.000 cristiani nel 2013, ora neppure 15.000”, dicono Feraz Barbaui e Adra Durdur, due fidanzati trentenni che stanno cercando di raggiungere le famiglie già emigrate in Australia. Attorno gli amici concordano. Non solo resta forte la paura per i radicali islamici. Ma soprattutto la crisi economica e la corruzione imperanti spingono a cercare una vita migliore all’estero. Senegal in fiamme dopo l’arresto del leader dell’opposizione Ousmane Sonko di Stefano Mauro Il Manifesto, 8 marzo 2021 Le autorità senegalesi hanno promesso di “ristabilire l’ordine”, dopo le scene di guerriglia urbana tra la polizia e centinaia di giovani, con 4 vittime tra i manifestanti, che ha vissuto in questi due giorni la capitale Dakar. Diversi distretti della capitale hanno vissuto scontri di portata sconosciuta da diversi anni: nel popolare quartiere della Medina, nel cuore della capitale senegalese, a Place de la Nation, nella vicina università Cheyk Anta Diop e in quartieri periferici come quello di Mbao dove, oltre agli scontri tra manifestanti e forze anti-sommossa, si sono registrati numerosi saccheggi nei supermercati. Le tensioni di questi giorni, in un paese solitamente considerato “un’isola di stabilità nell’Africa occidentale”, sono causate dall’arresto di questo mercoledì di uno dei principali politici dell’opposizione, Ousmane Sonko, leader del partito di opposizione Pastef - Les Patriotes. L’arresto di Sonko, terzo alle elezioni presidenziali del 2019 e uno dei principali concorrenti di quelle del 2024, ha spinto centinaia di suoi sostenitori a scendere nelle strade a protestare ed ha acuito ancora di più la frustrazione della popolazione senegalese, messa in grave difficoltà dalla profonda crisi economica e dall’aumento della povertà causato, nell’ultimo anno, dalla pandemia di Covid-19. Sonko è stato ufficialmente arrestato “per disturbo dell’ordine pubblico” questo mercoledì con un provvedimento di fermo che si conclude oggi, mentre si recava in tribunale per rispondere “delle accuse di stupro”, mosse contro di lui da una dipendente di un salone di bellezza. “Accuse infondate e strumento ormai consolidato per rimuovere dalle prossime elezioni i principali competitors del presidente Macky Sall” ha dichiarato il suo avvocato Abdoulaye Tal. La denuncia contro Sonko, che ha scatenato una tempesta nel mondo politico e mediatico, si va ad aggiungere ai guai giudiziari di Karim Wade, figlio ed ex ministro dell’ex presidente Abdoulaye Wade, e Khalifa Sall, sindaco di Dakar, entrambi colpiti da condanne “per appropriazione indebita finanziaria” e compromessi per le prossime elezioni del 2024. Macky Sall, eletto nel 2012 e rieletto nel 2019, rimane “incerto sulla possibilità di una candidatura per un terzo mandato”, nonostante il limite di due introdotto dopo una revisione costituzionale approvata nel 2016. Numerosi gli appelli internazionali per evitare un possibile peggioramento della situazione nel paese, a causa anche delle proteste legate al mantenimento delle misure di contenimento della pandemia, alle pulsioni indipendentiste del Movimento delle Forze Democratiche (Mfdc) nella regione del Casamance e della scoperta di alcune cellule jihadiste dopo che il presidente Sall aveva recentemente denunciato la volontà dello Stato Islamico di “volersi espandere fino all’oceano Atlantico, attraverso il Senegal”. Venerdì sera il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, si è detto “molto preoccupato” e ha chiamato il presidente Sall per chiedergli di “evitare un’escalation, invitando il governo alla moderazione”. Reporters sans Frontières e Amnesty International hanno denunciato “un’ondata senza precedenti di violazioni della libertà di stampa”, come le restrizioni di questi giorni sui social network e sulle applicazioni di messaggistica, e hanno richiesto alle autorità “di fermare gli arresti arbitrari di oppositori e attivisti e di rispettare la libertà di manifestare e la libertà di espressione”.