Caratteristiche, valori e comportamenti dell’istituzione carceraria di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 7 marzo 2021 Quali dovrebbero essere le caratteristiche e i comportamenti di un’organizzazione a cui per dettato costituzionale viene assegnato il compito di “rieducare”? In questi giorni compio vent’anni di impegno in carcere; un impegno in larghissima parte volontario e in qualche rara - ma molto piacevole - occasione anche retribuito. Compio vent’anni, dunque, ed esco proprio dal primo istituto, da quello in cui ho cominciato nella primavera del 2001; tanti ricordi e tanti pensieri nella mia mente, pensieri anche molto intimi con qualche domanda su cui vorrei soffermarmi a partire da quell’art. 27 di cui cito il punto che tanto mi è caro: “…Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Le pene (e non la pena al singolare), dunque, devono tendere alla rieducazione del condannato e, quindi, tutto il mondo dell’esecuzione penale in teoria dovrebbe farsi qualche domanda su cosa significhi essere soggetto a cui è deputata una questione seria e impegnativa come la “rieducazione”. Non si tratta, evidentemente, soltanto di accogliere e ospitare attività di maggiore o minore contenuto pedagogico (magari verificando le competenze di chi le propone e le conduce) ma piuttosto di ripartire dall’origine e di chiedersi quali siano o quali dovrebbero essere le caratteristiche, i valori e i comportamenti di un’organizzazione a cui per dettato costituzionale viene assegnato il compito di “rieducare”? Provo a individuare le prerogative che mi sembrano irrinunciabili e già mi chiedo quante volte mi è capitato di riscontrarle nelle persone o nelle organizzazioni che ho conosciuto nel ventennale cammino. La risposta purtroppo non è incoraggiante: poche, pochissime volte. Casi isolati. Rifletto su questi requisiti e li scrivo per provare a fare chiarezza anche dentro di me, per dire anche a me stessa quali sono le condizioni di una stimabile adultità. Fatti salvi, naturalmente, gli scivoloni e i limiti che tutti abbiamo. La credibilità, innanzitutto; se l’istituzione fa un patto o una promessa con la persona detenuta o condannata o imputata deve essere in grado di tener fede a quel patto e a quella promessa. Senza se e senza ma. Applicando a sé stessa la severità che adopera con gli altri; non solo con chi si è macchiato di una condotta illegale ma anche con il volontariato e la società esterna che - con differenti ruoli - entra in carcere o si impegna nel sostenere le “misure di comunità”. La chiarezza o trasparenza che dir si voglia, che implica regole chiare e scritte (dove sono finiti i regolamenti di istituto?) e risposte puntuali, in tempi accettabili. In realtà la trasparenza rappresenta uno dei limiti più seri e preoccupanti delle istituzioni deputate - a vario titolo e con differenti ruoli - all’esecuzione delle pene. Regole molto fluide e imprecise che possono mutare a seconda del vento e tempi biblici per le risposte, attese snervanti che fanno salire l’ansia e la rabbia. La maturità degli interventi disciplinari che abbiano - per quanto è possibile - un’attenzione focalizzata sulla proposta educativa e non siano soltanto risposte emotive. Questi, al momento, mi sembrano i pilastri della responsabilità e devo dire che su questi pilastri mi impegno a confrontare la mia attività umana e professionale nell’ambito della risposta penale che, per fortuna, è ben più ampia della sola detenzione. Mi sforzo, quindi, di essere severa anche con me stessa, di non compiacere le persone detenute o “messe alla prova” a cui dedico una significativa parte del mio tempo. Cerco relazioni chiare; rispettose ma chiare. Non mi impegno a pubblicare scritti inadeguati solo per assecondare le persone con cui lavoro, non mi piace trattare gli adulti come bambini ma, in realtà, mi sono sempre impegnata a essere chiara anche con i bambini. La compiacenza è senza dubbio meno faticosa ma mi sembra così poco rispettosa. Non si tratta, dunque, di fare semplicemente qualcosa ma di essere qualcos’altro. Sarebbe bello su questi temi poter aprire una riflessione profonda e onesta tra cittadini e istituzioni ma il confronto non sembra mai essere tra le priorità. E dunque riprendo il cammino… *Giornalista, responsabile della redazione di Ristretti Parma Una giustizia integrata: la svolta che noi avvocati per la mediazione chiediamo alla ministra di Tiziana Rosania* Il Dubbio, 7 marzo 2021 L’Unam, Unione nazionale avvocati per la mediazione, ha scritto alla nuova Guardasigilli Marta Cartabia congratulandosi per il prestigioso incarico e formulando alcune proposte sulla riforma della giustizia civile, con particolare riguardo agli strumenti Adr e con l’auspicio di un confronto costruttivo sul tema dell’implementazione degli strumenti di risoluzione delle controversie. L’Unam si è caratterizzata fin dalla sua nascita nel 2014, preceduta dal “Manifesto” del 2013 sulla promozione delle soluzioni consensuali, per la sua peculiare finalità: promuovere e diffondere la cultura della mediazione. Nata come associazione per l’avvocatura, sua principale interlocutrice, Unam si è resa promotrice di un obiettivo ancora più ambizioso: incoraggiare un cambiamento culturale e sociale che in ogni settore privilegi e valorizzi nella gestione del conflitto principalmente il confronto e l’approccio collaborativo rispetto al contraddittorio puramente avversariale. A tal fine Unam ha varcato il perimetro del mondo forense coinvolgendo anche altri contesti fondamentali della società civile, come quello scolastico, imprenditoriale e della pubblica amministrazione, nei quali l’apertura a un nuovo modo di gestire il conflitto attraverso una dialettica costruttiva può significare progresso civile e sviluppo economico. Ne è testimonianza il protocollo d’intesa sottoscritto nel 2020 tra Unam e ministero della Pubblica istruzione per diffondere tra le nuove generazioni la cultura della mediazione attraverso il Progetto Scuola “Parliamone: Impariamo a comunicare per gestire i conflitti”. Unam ha poi avviato un dialogo con il mondo delle imprese e della Pa e con tutte le categorie professionali promuovendo nell’aprile 2020 il progetto Covid-Exit denominato “Patto per la Rinascita tra Avvocati, Professionisti, Imprese e Pubbliche Amministrazioni”, basato sui principi di coesione e cooperazione sociale “per un’assunzione di responsabilità da parte di tutte le categorie professionali, finanziarie e imprenditoriali, dalla politica alla pubblica amministrazione”. In tale prospettiva di sensibilizzazione e di contaminazione culturale Unam, riconosciuta nel 2019 dal Consiglio nazionale forense quale associazione Specialistica maggiormente rappresentativa, condivide la scelta del governo di porre tra le sue priorità la riforma della giustizia civile e auspica in tale ambito una rinnovata visione di intervento, non più ancorata al solo processo, ma piuttosto declinata alla promozione di metodi di composizione consensuale nel segno di una autonomia privata capace di ricomporre il conflitto, grazie anche a un nuovo modo di “essere avvocato” a beneficio della società civile e del rilancio economico del Paese, tanto più urgente nell’attuale periodo storico afflitto dalla pandemia. “È auspicabile - ha scritto l’avvocato Angelo Santi, presidente di Unam - che il sistema giustizia venga ripensato e che sia visto finalmente come una galassia composita, non più incentrata esclusivamente sulla giurisdizione, ma alla stregua di un complesso integrato di giurisdizione e giustizia consensuale, dove i metodi negoziali e mediativi possono essere adeguatamente incentivati e valorizzati”. In tal senso l’invito rivolto al governo è ad intervenire più sul piano delle risorse e dell’organizzazione, che su quello delle procedure. Con questo auspicio Unam pone all’attenzione della nuova ministra della Giustizia alcune proposte tra cui quelle di rendere effettivi gli incentivi fiscali previsti dal decreto legislativo n. 28/ 2010, estendere il patrocinio a spese dello Stato ai procedimenti di mediazione, rivedere la disciplina sul primo incontro di mediazione, ampliare le materie oggetto di mediazione, valorizzare la consulenza tecnica nel successivo eventuale giudizio, prevedere figure ausiliarie del giudice che selezionino fascicoli afferenti a controversie mediabili per l’applicazione dell’articolo 5 comma 2 del d. lgs. n. 28/ 2010. E ancora, si propone di regolamentare la responsabilità erariale dei funzionari pubblici che sottoscrivono un accordo di mediazione, valorizzare gli esiti positivi dei giudizi pendenti definiti in mediazione “demandata’” ai fini della progressione in carriera dei magistrati. Temi che, affrontati nella prospettiva di concepire il mondo della giustizia come un sistema complesso all’interno del quale la soluzione giudiziale possa rappresentare soltanto una delle possibili soluzioni da ritenersi non principale, ma parallela e complementare a un novero di metodologie negoziali, conciliative e arbitrali, come si legge nella nota dell’Unam inviata alla ministra, potranno favorire in concreto la diffusione di una cultura conciliativa valorizzando la funzione sociale dell’avvocato a vantaggio di tutta la collettività. *Avvocata, componente comitato esecutivo Unam Né gelosia né natura, le parole sbagliate fanno corto circuito tra cultura e sentenze di Paola Di Nicola* Corriere della Sera, 7 marzo 2021 La produzione giuridica, al pari di quella filosofica e religiosa, è, innanzitutto, una produzione culturale: stabilisce i valori su cui poggia la struttura della convivenza civile. Una sentenza non si limita a stabilire la regola del caso concreto, dando torto o ragione, ma stabilisce anche qual è l’ordine sociale, ritenuto legittimo, in nome dello Stato. La magistratura con l’attività interpretativa dà forma alla realtà ed esprime la parola pubblica sino a renderla un modello che si impone nei confronti di tutti. Se l’istituzione replica pregiudizi culturali li rende regola giuridica, se li decostruisce rompe assetti millenari aprendo nuove prospettive. È una scelta che presuppone consapevolezza, formazione e capacità di visione. In questa difficile e delicata operazione un ruolo cruciale è svolto dal linguaggio, massima forma di espressione del potere perché, come dicono le linguiste, esiste solo ciò che è nominato e l’utilizzo di una parola al posto di un’altra legge o deforma la realtà, legittima un assetto di valori e assegna precise identità. Se il movente di un femminicidio viene individuato in un raptus di gelosia, se l’intervento delle forze dell’ordine per violenza domestica viene definito lite familiare, se lo stupro viene qualificato come impulso sessuale irrefrenabile, se la ritrattazione di una vittima è ridotta a scelta di un amore malato, il fenomeno criminale è banalizzato, naturalizzato, romanticizzato, quindi ridimensionato e giustificato, infine impunito. La narrazione della violenza di genere, come di qualsiasi tipo di reato, deve essere oggettiva e fondata su fatti, non su pre-giudizi e atteggiamenti moralistici e compassionevoli. Utilizzare un linguaggio emozionale in una sentenza, enfatizzando lo stato emotivo di un uomo che esercita violenza (era frustrato, esasperato, amareggiato, geloso, ecc.) costituisce, di per sé, una scelta che sposta l’attenzione dalla descrizione di un dato di realtà, cioè l’atto criminale (botte, insulti, denigrazioni, umiliazioni, morte), al suo travisamento frutto soltanto della scala valoriale di chi indossa la toga (uomo o donna) tanto da imporne il suo modello soggettivo. Descrivere un uomo cheviolenta una donna come mosso da un impulso sessuale significa spostare la responsabilità dal suo autore ad una natura incoercibile di cui non è padrone; descrivere un uomo che uccide la compagna come mosso da gelosia significa depotenziare e naturalizzare la violenza come frutto prevedibile e genuino di un sentimento; descrivere un uomo che picchia o insulta la moglie come mosso dall’ira avalla il ruolo del padre-padrone che non può essere contraddetto. In questo modo la famiglia diventa un luogo di pulsioni unilaterali e non di relazioni paritarie, un territorio di caccia e di affermazione di un uomo in cui nessuna donna deve porre argini, esprimere dissenso e autonomia, esercitare minimali diritti di libertà: pena violenze e morte. E quando tutto non può essere taciuto, perché a terra c’è un corpo senza vita, arriva un altro strumento potentissimo di neutralizzazione della responsabilità maschile: il delirio di Otello, il raptus, la perdita di controllo, la cieca passione. Patologie e sentimenti debordanti e non atti volontari e premeditati. Il nero si tinge di rosa, il romanticismo dell’emozione in nome del popolo prende il sopravvento sulla realtà di quella morte e di quella violenza. Di quel reato. L’imputato si trasforma magicamente in una vittima fragile e predestinata di una donna che lo ha ferito con la sua libertà; di un contesto culturale e sociale che pretende la sua re-azione, altrimenti non è un uomo; di un ego smisurato che è centro di tutte le cose dalla notte dei tempi. Non è un caso che ci chiamiamo umanità, da homo. Come sono, invece, le donne che subiscono violenza nei nostri processi? Esagerate, calcolatrici, contraddittorie, bugiarde, pazze. Se denunciano c’è dietro qualcosa. Chissà a cosa mirano. Chi denuncia una truffa, una rapina, un furto è creduto, non si dubita della sua parola. Le vittime di violenza, invece, non solo sono le uniche vittime di reato a cui non si crede, a priori, ma vengono anche colpevolizzate per non avere evitato quella violenza. Perché non è fuggita? Perché non ha cambiato numero di telefono? Perché non si è trasferita? Perché non lo ha lasciato? Perché lo ha lasciato? Perché è andata alla festa? Perché ha bevuto? Perché è uscita di sera? Perché non si è fatta accompagnare? Perché ha sorriso? Sarebbe più veloce chiederle: “perché esiste?”. La condotta di un uomo violento non viene mai letta come un’azione, ma sempre come una re-azione. Se ci chiediamo a cosa, scopriremo che la violenza nasce perché una donna si è sentita libera e questo non le è consentito, fa crollare il mondo, tuttora costruito sulla sua soggezione. Uscire con le amiche o decidere di lasciare un uomo violento è un atto eroico, in Italia e nel mondo. Può portare persino alla morte. Il passaggio di responsabilità dall’autore di un crimine alla sua vittima, passaggio che silenziosamente serpeggia ogni volta che apprendiamo di uno stupro o di un femminicidio, avviene anche attraverso un altro inconsapevole meccanismo giuridico: ciò che per il codice penale aggrava un reato, tanto da aumentarne in astratto la sanzione si trasforma nel suo contrario fino ad escluderla o alleviarla. Pensiamo alla condizione di ebrezza della vittima di uno stupro: è un’aggravante per chi ne approfitta, eppure capita di leggere sentenze (in Italia e nel mondo) in cui quella stessa ubriachezza, che annienta qualsiasi volontà di re-azione (questa si), viene confusa con un implicito consenso e porta all’assoluzione. Oppure pensiamo alla gelosia, parola non menzionata nel codice penale, che da decenni viene interpretata dalla Corte di cassazione come aggravante (rientrando tra i motivi futili che muovono la condotta delittuosa), ma che, specialmente nei femminicidi, viene illogicamente recuperata, da alcuni giudici di merito, per ridurre la pena e legittimare gli argomenti usati dagli imputati che si descrivono come illusi e traditi dalla donna che hanno ucciso. Si tratta di un’inversione logico-giuridica che non trova spazio per nessun’altra aggravante e per nessun altro reato. Ecco svelata la falsa neutralità dell’interpretazione, che nulla ha a che vedere con l’applicazione del diritto, ma è solo figlia della scala valoriale del singolo giudice che, con il sigillo dello Stato, universalizza i pregiudizi e genera un’aspettativa di tolleranza sociale rispetto alla violenza. Se questo avviene è solo perché ciascuno di noi, in ogni contesto, è ingabbiato/a in una struttura culturale in cui le donne vanno svilite, la loro capacità va ridimensionata, il loro lavoro vale meno, le loro ambizioni vanno soffocate, la loro parola va ridicolizzata, la loro presenza va occultata, la loro storia va denigrata, la loro libertà va punita. E se tutto questo vive e cresce nelle nostre case e nei nostri luoghi di lavoro, con battute, modelli e complici omertà, non può che replicarsi drammaticamente nelle aule di giustizia che ne costituiscono il riflesso o la cassa di risonanza. La sfida è che uomini e donne di questo tempo, a partire dalle istituzioni, riconoscano e poi decostruiscano stereotipi culturali millenari che alterano la realtà e i fatti, per restituire una parola pubblica fondata su una nuova imparzialità. *Magistrata, giudice e scrittrice “La mafia teme più la scuola della giustizia” di Andrea Pasini ticinonotizie.it, 7 marzo 2021 “La mafia teme la scuola più della giustizia, l’istruzione toglie erba sotto i piedi della cultura mafiosa”. Non a caso, per iniziare questo articolo ho scelto una citazione di Antonino Caponnetto. Il magistrato che è stato uno dei personaggi simbolo della lotta contro il crimine organizzato in Italia. Nella sua carriera, a fianco di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, consegnò alla giustizia oltre 400 criminali legati a Cosa Nostra. Così, partendo dall’impegno di un uomo che ha dedicato la vita al suo Paese, voglio rivolgermi al nuovo governo, dal suo premier Mario Draghi ai suoi ministri Luciana Lamorgese e Patrizio Bianchi chiedendo loro di assumere un impegno concreto nella lotta contro la mafia e l’Ndrangheta partendo proprio dai nostri giovani. Ho letto tante dichiarazioni da parte di politici in merito al potere della scuola per “sconfiggere” questa piaga sociale. Parole importanti che a volte, ma ancora troppo raramente, trovano anche un riscontro con la realtà, come nel “Progetto educativo antimafia” istituito ben 15 anni fa dal Centro studi Pio La Torre. Serve però un segnale concreto che venga dall’alto delle istituzioni e dalla politica. Perché non inserire delle lezioni dedicate alla lotta alla mafia nel nel programma scolastico di tutte le scuole italiane? In questo periodo di incertezza, dove le persone si sentono scoraggiate, le autorità hanno il dovere di mostrarsi forti e lanciare messaggi di speranza. L’infiltrazione mafiosa si avvale della permeabilità, della cedevolezza di una parte della classe dirigente e della diffusione della corruzione, non permettiamogli di sfruttare la pandemia per diffondere il loro messaggio di odio, ma iniziamo a insegnare ai nostri ragazzi quello che viene spesso definito “il sentimento della legalità”. Chi se non la scuola può prendersi questo onere? Come diceva il magistrato e Procuratore antimafia Pier Luigi Vigna: “Nella scuola si verifica il primo momento in cui un giovane può entrare e spesso entra in contatto con ragazzi diversi da lui, diversi per condizione economica, capacità intellettuali, lingua, razza. Inoltre le scuole sono un tessuto di immunizzazione possibile dai pericoli delle devianze e dell’illegalità, quindi è come una rete, che se si ispira a questi principi dà luogo a un sentimento di legalità che funge da vaccino per comportamenti illegali, per i silenzi di fronte alle illegalità. Deve suscitare una capacità di reazione positiva, di denuncia. Perché il silenzio è la prima fase del distacco dalle istituzioni, che poi in certe regioni dà luogo al fenomeno tremendo dell’omertà”. Io sono Andrea Pasini un imprenditore di Trezzano Sul Naviglio un paese nella periferia sud ovest di Milano dove da almeno vent’anni soprattutto l’Ndrangheta ha intaccato il sistema economico e politico portando insicurezza e distruzione. Buccinasco, Cesano Boscone, Rozzano e Trezzano Sul Naviglio sono stati paesi dove molte famiglie di Ndrangheta per decenni hanno contaminato il nostro tessuto sociale. La vera battaglia contro questa gente è spiegare ai giovani quanto sia importante scegliere nella vita di essere uomini e donne liberi, con la schiena dritta, onesti e per bene. E quanto sia importante stare indistintamente dalla parte dello Stato, delle istituzioni e della legge. E di stare tutti i giorni con coraggio al fianco di chi quotidianamente combatte anche a costo della propria vita quello schifo che rappresentano i mafiosi o gli ndranghetisti. Mi auguro che questo nuovo governo, in cui tutta l’Italia ha riposto grandi speranze, decida di prendersi questo impegno concreto per costruire un futuro migliore. Educazione civica è insegnare ai nostri giovani a pensare, insegnare che anche un singolo può fare molto nella lotta al malaffare perché tutti siamo indispensabili. Ce lo hanno insegnato i tanti magistrati e gli appartenenti alle forze dell’ordine come Carabinieri, Poliziotti e Finanzieri che hanno perso la vita nella loro lotta contro la mafia. Non lasciamo che questa importante lezione di vita venga dimenticata. Il pg Napoli Luigi Riello: riforma della giustizia? Tagliare rami secchi di Cristina Giuliano Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2021 La giustizia italiana, non è un mistero, è lenta e farraginosa. Il civile a rallentatore scoraggia gli investimenti. Il penale ha anche un vizio di fondo: “L’emotività del momento che ha segnato tutte le riforme, dopo l’entrata in vigore nel 1989 di quello che ci ostiniamo a definire dopo 32 anni, il nuovo codice di procedura penale, ha fatto sì che venisse varata una serie di norme di segno opposto che hanno reso questo codice, una sorta di vestito di Arlecchino, tutto toppe e rammendi”. Così Luigi Riello, procuratore generale della Corte d’Appello di Napoli, che in questa intervista spiega quello che lui stesso definisce “pendolarismo normativo”. “Accadeva - dice - la strage di Capaci e si introducevano norme più restrittive e si capiva che quel codice forse non era adatto a un Paese infestato dalla criminalità organizzata. Avevamo una vicenda giudiziaria in cui si era avuta una condanna ingiusta, e allora norme garantiste”. Dal diritto romano in poi l’Italia è sempre stata all’avanguardia, ma oggi secondo Riello, si trova di fronte alla necessità di “tagliare i rami secchi”, velocizzare le procedure e anche modernizzarle. “Abbiamo un cammino abbastanza soddisfacente riguardo al processo civile telematico” sottolinea Riello. “Abbiamo invece un cammino ancora molto insoddisfacente quanto alla digitalizzazione e alla modernizzazione del processo penale. Siamo ancora all’ufficiale giudiziario che deve bussare alla porta dell’imputato, non siamo come in tutti gli altri Paesi ad una unica notifica che viene fatta all’inizio del processo e poi tutte le altre vengono fatte al difensore. Non bisogna andare con l’ufficiale giudiziario, piccione viaggiatore, a casa dell’imputato”. C’è poi il numero dei processi in Cassazione e il confronto stridente con gli altri Paesi. “Ottanta - novantamila all’anno. Negli Stati Uniti d’America che sono leggermente più grandi dell’Italia, presso la corte suprema che raccoglie in sé, cumula in sé le funzioni della nostra corte di cassazione e della nostra corte costituzionale, pendono 120-130 ricorsi e vengono emesse approssimativamente altrettante sentenze. Noi andiamo in cassazione anche per un debito di 50 euro, anche per un reato bagattellare. Questo in altri Paesi è assolutamente impensabile. In Italia ci sono 60.000 avvocati cassazionisti, a una certa età quasi tutti possono andare in Cassazione, in Francia ce ne sono 60. E allora ci sono delle anomalie che andrebbero corrette ed è molto difficile in due parole dirlo, ma un discorso organico, strutturale non emozionale, ma finalmente strategico va fatto”. Giustizia a orologeria contro chi non fa parte del sistema: intervenga la ministra Cartabia di Francesco Storace Il Tempo, 7 marzo 2021 È ora che Marta Cartabia, presidente emerito della Corte Costituzionale e ministro della giustizia del governo Draghi, faccia sentire la sua voce. Batta un colpo per stroncare definitivamente il metodo Palamara, per mettere in condizione di non nuocere i manettari di ritorno, di chiudere definitivamente la stagione del fango permanente su chi non è organico ad un sistema che dura da troppi anni. Ieri è toccato a Giorgia Meloni subire calunnie e attacchi. La deposizione di un pentito, accuse ridicole su affissioni di manifesti, una specie di giallo senza alcuna prospettiva di successo. Ma con le solite iene rosse pronte a colpire: basta leggere che cosa è arrivato a dichiarare l’uomo del Pd in commissione antimafia, il senatore Franco Mirabelli. Quello che però non vuole l’ex magistrato Luca Palamara in antimafia chiede alla Meloni di smentire ciò che è smentito dai fatti e dalla sua personalità onesta senza ombra di dubbio. In antimafia, visto che parliamo di clan operanti con metodo mafioso nella provincia pontina, bande di rom in prima fila, Mirabelli ci porti semmai il giornalista di Repubblica che ha scritto un articolo senza preoccuparsi di sentire la versione della Meloni; il pentito ciarliero; e chi ne ha raccolto le parole. Magari si scoprirà anche chi è che diffonde calunnie su fatti che si presume essersi svolti otto anni fa. Se ne ricordano quando leggono i sondaggi. “Ha ragione ma dobbiamo attaccarlo”, disse Palamara riferito a Matteo Salvini, che è a processo per sequestro di persona. Oggi si può usare la stessa frase contro Giorgia Meloni. E anche contro Silvio Berlusconi, che si torna ad accoppiare ai pentiti di cosa nostra, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Oltre il centrodestra, c’è la frase orrenda del magistrato Nello Rossi sul “cordone sanitario” con cui annullare Matteo Renzi. Il ministro Cartabia non può restare indifferente rispetto a quello che sembra un vero e proprio assedio ad una politica che non sta zitta. “Ha ragione ma bisogna attaccarlo” vale per tutti quelli che non obbediscono alla sinistra. Ne va del valore di una democrazia ridotta a pezzi. La giustizia al servizio di certa politica non va affatto bene. Nel suo caso, la Meloni vede anche la propria collocazione attuale all’opposizione. I “fatti” che si riferiscono al 2013, sono davvero surreali. Un ex deputato, Pasquale Majetta, che dice alla Meloni di dare i soldi ad una banda di rom. Chi conosce la leader di Fdi può solo immaginare la risposta se il “colloquio” fosse stato davvero reale: “Perché non glieli dai tu...”. Già, perché la pretesa di sborsare 35mila euro per manifesti affissi avrebbe significato riempire Latina e tutta l’intera provincia di materiale elettorale. Poi, i dettagli ridicoli. Un segretario che non ha mai avuto - come sanno tutti quelli che frequentano la Meloni - una Volskwagen nera che non ha mai posseduto e una mitica busta del pane per incartare i quattrini. Purtroppo, non è una barzelletta, ma un verbale di interrogatorio ad un signore che non ha nulla da perdere e che magari spera di ricevere il grazie di Stato per il favore fatto; e non c’è traccia di un solo inquirente che abbia bussato a casa Meloni per farle qualche domanda. No, solo fango, abilmente pilotato sulla stampa amica. A Palazzo di Giustizia non manca mai. Ecco, da un ministro serio come la Cartabia ci si attende un rigoroso accertamento delle procedure seguite. E una riforma che consenta di non dover più temere per le proprie opinioni politiche. Perché se via via si infangano Berlusconi, Salvini e ora Meloni; e se si pretende di mettere la mordacchia anche a Renzi per le attuali inimicizie a sinistra, non va affatto bene. Basta parole. Chi ha ragione, si difende e non si criminalizza. Sennò vuol dire che è ancora in vigore il metodo Palamara. La ‘ndrangheta non si deve vedere, nemmeno quando va a processo di Enrico Fierro Il Domani, 7 marzo 2021 Questo processo non si deve vedere. Succede a Lamezia Terme, Calabria, dove è in corso il maxi processo contro la ‘ndrangheta e i suoi referenti politici e massonici, scaturito dall’inchiesta Rinascita-Scott della procura di Catanzaro. Un lavoro di indagine enorme coordinato dal procuratore Nicola Gratteri, il magistrato certamente più mediatico sulla scena giudiziaria italiana. Ma non siamo di fronte a una curiosa legge del contrappasso. Tutti fuori - A dire no alla presenza nell’aula bunker costruita a tempo di record nella desolata area industriale di Lamezia, è il giudice Brigida Cavasino, presidente del collegio giudicante. Il 12 gennaio scorso, a ventiquattr’ore dall’inizio della prima udienza, consegna ai giornalisti l’elenco degli accrediti. “Le riprese audio-video durante la celebrazione delle udienze, non sono autorizzate”. Quindi fuori i telegiornali di tutte le reti italiane, quelle delle trasmissioni di approfondimento e dei talk, fuori anche i grandi network internazionali. Esclusa Radio Radicale, che da anni registra integralmente tutti i grandi processi italiani. La decisione della giudice è formalmente inappellabile, può però essere revocata in qualsiasi momento, e provoca discussioni e contestazioni. Protestano sindacato e ordine dei giornalisti, Usigrai e singole personalità del mondo della cultura e dell’informazione. Nei giorni scorsi Usigrai e Federazione nazionale della stampa sono tornati all’attacco. “Negare la registrazione video e audio vuol dire negare un pilastro del racconto. E vuol dire anche impedire di costruire la memoria di un fatto storico. Questo processo non riguarda solo l’Italia, ma tutta l’Europa, viste anche le infiltrazioni in altri paesi. Anche per questi motivi, il processo ha attirato l’attenzione di giornalisti europei. Ma, nei fatti, la decisione di impedire la ripresa delle udienze limita fortemente il diritto di cronaca. La Federazione europea dei giornalisti, la Federazione nazionale della stampa italiana e l’Usigrai chiedono che il divieto venga cancellato e si consenta ai giornalisti di fare il loro lavoro pienamente e senza limitazioni, nell’interesse dei cittadini europei a essere informati”. Voci di dissenso - Note e lettere di protesta finora non hanno smosso di un millimetro i vertici giudiziari calabresi. Il processo sta andando avanti, e le telecamere sono tenute fuori. Accade a Lamezia per un processo su mafia e politica, succede anche a Locri al processo che vede imputati Mimmo Lucano e il suo “modello Riace”, anche in questo caso l’aula è off-limits per le telecamere. “È una decisione che spero possa essere ripensata e rivista. Come si dice in questi casi, ci rimettiamo al buon senso della corte”. Alessio Falconio è il direttore di Radio Radicale, l’emittente che fa della registrazione integrale dei grandi eventi (dibattiti parlamentari, convegni e processi) uno dei suoi punti di forza. “Il nostro lavoro - ci dice - è quello di documentare, affinché tutti i cittadini possano documentarsi. Quando seguiamo un processo lo registriamo integralmente, senza mediazione o interventi giornalistici. Chi vuole farsi un’idea ascolta le registrazioni e poi, se vuole, decide di approfondire ascoltando pareri e leggendo articoli. Ma c’è di più, il nostro lavoro è materiale preziosissimo per gli storici. Mi chiedo perché di questo importante processo non debba rimanere una traccia audio o video. Non riesco a capirlo, spero davvero in un ripensamento”. Un giorno in pretura è un programma di Rai 3 in onda dal 1988. Documentare con le telecamere i grandi processi (Tangentopoli, mafia, il mostro di Firenze, grandi fatti di cronaca) è l’obiettivo della trasmissione. Roberta Petrelluzzi è ideatrice, regista e conduttrice. “È un no davvero strano, quello dei giudici di Vibo Valentia. Nella mia esperienza non è mai esistito un divieto quando c’è una rilevanza sociale forte. Parliamo tanto della forza della ‘ndrangheta, e della sua pericolosità, poi quando la portiamo dietro le sbarre spegniamo i fari. I maxi processi hanno sempre centinaia di imputati, accuse che delineano scenari e fatti, migliaia di atti e pagine, spesso l’informazione si perde, l’attenzione dell’opinione pubblica cala, la presenza delle telecamere può aiutarci a evitare che accada. Ma è come se ci fosse un pregiudizio nei confronti delle immagini, si mette sullo stesso piano l’informazione sui giornali di carta e quella televisiva. Due modelli e due funzioni radicalmente diversi: il giornale informa, approfondisce, analizza, la tv mostra, fa vedere. Se vuoi tenere alta l’attenzione sulle mafie, devi far vedere le immagini, se lo impedisci, riporti la giustizia nell’ambito ristretto degli addetti ai lavori. È davvero una scelta di retroguardia e io spero vivamente in un ripensamento. Accettare le telecamere in un processo di tale portata è una forma di garanzia per tutti”. Il dibattito è aperto, come si dice in questi casi. Filmare le fasi, anche le più delicate, di un processo, può essere una forma di lesione dei diritti dell’imputato? L’avvocato Franco Calabrese arriva subito al nocciolo della questione. Nel processo Rinascita-Scott difende l’imputato più importante, Luigi Mancuso, detto ‘o supremo, boss di Vibo Valentia e punto di riferimento importante della ‘ ndrangheta. “Abbiamo discusso col nostro assistito e all’interno del collegio difensivo. In linea generale siamo favorevoli alle riprese audio e televisive. Che si documenti il processo per noi va bene, azzardo una ipotesi, credo che il 90 per cento degli avvocati la pensi allo stesso modo. Il provvedimento di divieto è revocabile in qualsiasi momento e anche a processo iniziato, se venisse riproposto noi saremmo certamente favorevoli”. Animali mediatici - Ma nel dibattito entra anche un altro tema, come i boss usano le telecamere nei processi. La risposta è netta: boss e gregari sono formidabili “animali mediatici”. E non è un talento solo delle giovani leve. Michele Greco, il “papa” di Cosa nostra, è stato un precursore degno della interpretazione di Marlon Brando ne Il Padrino. È un uomo potentissimo, nella sua tenuta vanno a caccia mafiosi e personalità della Palermo bene, quando inizia il maxi processo contro Cosa nostra è latitante. Lo arrestano in un casolare di campagna dove vive da solo, unica compagnia un mulo. In aula recita a favore di telecamere da grande attore. “Se non mi fossi chiamato Michele Greco, ma Michele Roccapinnuzza, ora non sarei in quest’aula. Mi accusano perché il mio nome fa cartellone”. L’11 novembre 1987 il “papa” è meno ironico. I giudici stanno per riunirsi in camera di consiglio e lui si rivolge così al presidente Alfonso Giordano: “Vi auguro la pace, la serenità dello spirito, e la serenità è la base per giudicare. Signor presidente, le auguro che questa pace vi accompagnerà per il resto della vostra vita”. Parole e immagini vengono trasmesse dalle televisioni italiane e straniere. Per la prima volta gli italiani possono vedere il volto di un capo di Cosa nostra. E capire. Non è da meno Totò Riina, che in un processo a Reggio Calabria nel 1994, a telecamere accese attacca “Violante, Caselli e Arlacchi, tutti un combriccolo di comunisti”, lanciando anche un messaggio a Silvio Berlusconi, all’epoca capo del governo. Quello di stare “attento ai comunisti e di cancellare la legge sui pentiti”. Più recentemente, in una delle udienze del processo Mafia Capitale, Massimo Carminati, “il cecato”, si è esibito nel saluto romano. Era in videoconferenza, sapeva della presenza delle tv, è scattato sull’attenti e ha steso il braccio destro. Ma il più mediatico di tutti è stato certamente Raffaele Cutolo, il boss della camorra morto qualche settimana fa. Di fronte all’obiettivo sapeva calibrare ogni gesto, ogni parola, trasformare il suo cappotto di cammello in un vero e proprio brand, con l’illusione di diventare un mito. Forse ci è pure riuscito, ma milioni di italiani hanno visto il grande capo, il boss dei boss, sconfitto e dietro le sbarre. Mostrare la realtà, sempre e comunque, è questa la vera forza delle immagini. Calabria. La Regione “dimentica” le carceri di Francesco Donnici Corriere della Calabria, 7 marzo 2021 “Priorità vaccinale per i detenuti e sblocco della Rems di Girifalco”. Al Garante regionale fa eco il ministro Cartabia. Bloccato l’iter per la messa in funzione della “struttura d’avanguardia” finanziata sei milioni. “Senza un immediato intervento rischiamo di perdere il controllo di una situazione potenzialmente pericolosa”. Il Garante regionale per i diritti dei detenuti, l’avvocato Agostino Siviglia, rilancia il suo appello alle Istituzioni ed autorità competenti per “inserire nel “Piano vaccini regionale per la Calabria”, fra le categorie prioritarie, le persone detenute nei dodici Istituti penitenziari nonché il personale ad altro titolo operante nelle carceri in quanto rientranti tra le categorie a rischio”. Un’omissione, quella della Regione, derivante dal mancato rispetto delle linee guida dettate dall’ex commissario straordinario all’emergenza Covid, Domenico Arcuri, e ribadite dalla neoministro della Giustizia, Marta Cartabia, dopo l’incontro col capo del Dap, Bernardo Petralia. “Oggi - ha dichiarato la Guardasigilli - è urgente che la somministrazione delle vaccinazioni, iniziata in alcune realtà carcerarie già da settimane, prosegua velocemente. Il primo bisogno di chi lavora e vive in carcere è quello di proteggersi contro il virus, che porta malattia nel corpo e genera tensioni, ansie e preoccupazioni nello spirito”. Infatti, mentre nel piano della Regione Calabria detenuti e operatori non sono stati inseriti, altre regioni, come ad esempio il Lazio, hanno loro riconosciuto la priorità vaccinale. L’appello era stato lanciato dal Garante calabrese già lo scorso 22 febbraio, data della missiva indirizzata al presidente facente funzioni Spirlì, al commissario ad acta Guido Longo e a tutti i soggetti competenti. A livello locale, era stato raccolto dal Garante cittadino di Crotone Federico Ferraro per richiamare “l’attenzione istituzionale, in tal senso, come questione di somma urgenza”. Nella stessa missiva, Siviglia evidenziava anche un altro aspetto parimenti importante, chiedendo alla Regione (nella specie all’Asp di Catanzaro) di attivarsi al fine di ultimare l’iter per la messa in funzione della Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Girifalco” affinché “possa cessare l’illecita detenzione di soggetti prosciolti in quanto incapaci di intendere e di volere, ma attualmente in carcere per l’assenza di idonee strutture”. “Ho ritenuto - racconta Agostino Siviglia al Corriere della Calabria - sollevare l’attenzione delle autorità ed Istituzioni competenti sulla necessità di inserire tra le categorie ad alto rischio i soggetti privati della libertà personale, come già avvenuto in altre regioni dov’è iniziata la somministrazione dei vaccini”. Ad oggi, nel cronoprogramma della Regione sono stati inseriti (solo) gli agenti di polizia penitenziaria, quali organi di pubblica sicurezza, “ma nelle carceri entrano anche docenti, operatori, assistenti sociali e la possibilità di contagio è sempre molto alta. La Regione Calabria avrebbe dovuto agire in conformità alle linee guida del commissario e invece si è completamente dimenticata del sistema penitenziario”. La popolazione carceraria calabrese è divisa in dodici istituti. In base all’ultimo censimento, risalente al 31 gennaio 2021, in Calabria sono presenti 2.457 detenuti a fronte di una capienza di 2.704 posti. Di questi 58 sono donne e 448 sono cittadini stranieri. Sono invece 53.329 i detenuti presenti nelle carceri di tutta Italia, a fronte di una capienza regolamentare di 50.551 posti sparsi nei 189 istituti del Paese. Numeri che raccontano, ancora oggi, di un sovraffollamento che dà la dimensione della necessità di scongiurare un’eventuale propagazione del virus anche per sedare eventuali tensioni ed insofferenze rispetto alle ulteriori restrizioni imposte dal periodo. Nei penitenziari della regione “ci sono stati casi sporadici di persone risultate positive, ma asintomatiche, senza rischio di contagio per il resto della popolazione detenuta. Per la quarantena sono stati destinati alcuni spazi “ad hoc” dove le persone vengono isolate e vengono distaccate dal resto della comunità. Solo allorquando il secondo tampone risulta negativo, vengono fatte rientrare in contatto con gli altri detenuti”. Circa un anno fa le rivolte nelle carceri, scaturite anche a seguito dell’interruzione dei colloqui. “In Calabria, per fortuna, abbiamo avuto solo qualche “battitura” ma non vere e proprie proteste. - racconta il Garante - Nel frattempo l’amministrazione penitenziaria è intervenuta mettendo a disposizione tablet e telefoni cellulari per fare chiamate e colloqui da remoto, così da sopperire all’impossibilità indotta dalle restrizioni. In alcuni casi i colloqui sono ripresi in presenza, ma nella misura più tollerabile possibile e in modo controllato”. Altro tema caldo era stato quello di alcune “scarcerazioni eccellenti” che avevano suscitato molte polemiche innescando un dibattito a tratti dannoso e fuorviante. “Gli interventi operati dalla magistratura di sorveglianza nulla hanno avuto a che vedere col decreto “Cura Italia”, emanato dal precedente governo, come sostenuto da alcuni”. Il nostro ordinamento, infatti, riconosce già di per sé l’obbligo o la facoltà di differire la pena qualora ci siano condizioni di incompatibilità con la detenzione. “In questo senso la pandemia ha influito in relazione al fatto che, laddove qualcuno avesse altre co-morbilità (specificamente indicate nella “famosa” circolare del Dap al tempo guidato da Basentini, ndr) con un eventuale contagio avrebbero potuto risultare letali”. Tuttavia, il vero problema di fondo, dice Siviglia, “è che in questo Paese non c’è una vera volontà di parlare e guardare all’interno del carcere”. “Sono oltre cinquanta, ancora oggi, le persone in lista d’attesa per essere collocate all’interno di strutture idonee alla loro condizione”. Il Garante riporta l’attenzione anche sul tema dell’esecuzione delle “misure di sicurezza” dove l’inerzia delle parti in causa si traduce: nell’immediato, in un abuso nei confronti di soggetti “illegalmente detenuti”; in prospettiva, in un possibile spreco di risorse. “Nel momento in cui una persona viene prosciolta perché incapace di intendere e di volere - spiega - gli si applica una misura di sicurezza e dev’essere collocata in una Rems, strutture che nel tempo sono andate a sostituire gli ex ospedali psichiatrici”. L’unica struttura simile, in Calabria, gestita dalla cooperativa cosentina “Il Delfino”, si trova a Santa Sofia d’Epiro e conta solo 20 posti (esauriti ormai da qualche anno). “Persone che non dovrebbero stare in carcere rimangono detenute illegalmente perché non ci sono più posti nella Rems”. Per questo motivo, da tempo è stato attivato un lungo iter per riqualificare anche la struttura presente sul territorio comunale di Girifalco, nel Catanzarese, che potrebbe ospitare oltre 40 persone. Il 9 ottobre 2013 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto che prevedeva, tra l’altro, il “programma definitivo per gli interventi” sulle “strutture sanitarie extra-ospedaliere”. Per quella di Girifalco veniva previsto un finanziamento di 5 milioni e 890 mila euro a carico dello Stato. I lavori per la riqualificazione della struttura partono dall’aggiudicazione del 16 settembre 2015, ma vengono nel tempo rallentanti da peripezie giudiziarie e materiali, come il crollo della strada nei pressi del cantiere. Lo scorso febbraio 2020, in un comunicato, il comitato cittadino “Emergenza sanità”, in prima linea per vedere realizzata ed operativa la struttura, annunciava che, dopo un’interlocuzione positiva, l’Asp del capoluogo aveva indicato fine maggio come data ufficiosa “per il completamento dei lavori, la consegna della struttura e il trasporto degli arredi”. Nel frattempo il direttore dell’Ufficio “attività tecniche” finisce coinvolto nell’inchiesta “Cartellino Rosso”. L’evenienza ritarda l’iter, sebbene risulti che alla data del 31 dicembre 2020 la struttura sia stata completata. Di questo, ci dà conferma il sindaco di Girifalco, Pietrantonio Cristofaro: “L’Ufficio tecnico dell’Asp è stato in stand-by, ma a quanto riferitomi, lo scorso 1 marzo è stato individuato il nuovo responsabile. Auspichiamo che si attivino nell’immediatezza. La struttura è completa in ogni sua parte, mancano solo gli arredi. La struttura - sottolinea - è all’avanguardia, un’eccellenza unica in Calabria”. Il problema, piuttosto, sarà quello “di individuare gli operatori che dovrebbero gestire la struttura”. “Nell’ultimo incontro avvenuto circa due settimane fa, - dice il sindaco - l’Asp sosteneva di non aver avuto ancora mandato dal commissario a stilare i bandi necessari a procedere a nuove assunzioni”. Sempre il sindaco sottolinea che sono diversi gli incontri avuti con l’Asp per cercare di tenere alta l’attenzione sulla questione. “Il nostro ruolo è quello di sollecitare a tutti i livelli sia il commissario sia l’Asp per attivarsi subito per le dovute procedure concorsuali”. La richiesta espressa fatta dal Comune al commissario dell’azienda sanitaria e al prefetto è quella di un sopralluogo. “Spero quanto prima di avere un colloquio anche con il commissario Longo così che possa sbloccarsi la situazione e la struttura possa essere attivata”. Di fatti, nella sua missiva formale del 22 febbraio, il Garante elenca gli adempimenti per le autorità competenti, da attuarsi “con urgenza e tempestività”: “bandire la procedura ad evidenza pubblica per l’acquisto degli arredi e delle attrezzature; perfezionare il procedimento di autorizzazione e/o accreditamento della Rems; definire la forma di gestione della struttura stessa (pubblica e/o a gestione privata)”. “È necessario - spiega il Garante - che in regione vi sia un centro capace di ospitare le persone socialmente pericolose a cui è stata applicata una misura di sicurezza. Inoltre, una simile struttura potrebbe diventare un indotto importante perché si può assumere personale sanitario e medico”. E conclude: “Spetta alla Regione Calabria e nello specifico all’Asp assolvere agli adempimenti accantonati. Tale inazione, se perdura, può diventare una grave colpa di scienza e coscienza per chi ha il dovere di agire. La struttura è completa e sono stati spesi molti soldi quindi non c’è più giustificazione per aspettare col rischio di ritrovarci l’ennesima cattedrale nel deserto”. Ferrara. Suicidio in cella, i dubbi della famiglia estense.com, 7 marzo 2021 Eseguite la tac e l’autopsia sul corpo del 31enne trovato morto. È stato trovato senza vita martedì sera intorno alle 20 nella sua cella del carcere di Modena. Il giorno successivo doveva presentarsi in videoconferenza davanti al tribunale per un processo a suo carico per un episodio di furto di lieve entità. Ma quell’udienza lui, Zacaria Baba, 31enne di nazionalità marocchina residente da anni a Pilastri di Bondeno, non si è potuta svolgere. Secondo quanto riferito al suo avvocato da fonti carcerarie, il 31enne avrebbe inalato il gas della bombola del fornelletto per cucinare. Eppure quando il suo difensore, l’avvocato Salvatore Mirabile, gli aveva parlato il giorno prima l’aveva trovato “normale, tranquillo”. Anzi, “stavamo preparando strategie processuali per ottenere benefici e poterlo far uscire prima del tempo dal carcere”. Zacaria era evaso a Ferragosto dal carcere di Ferrara e per quel reato era stato condannato a sei mesi. Il suo difensore sperava di poterlo assegnare ai servizi sociali. Nell’udienza di mercoledì invece doveva rispondere di resistenza a pubblico ufficiale e inosservanza del divieto di far rientro nel comune. Ora invece ha dovuto riferire alla famiglia cosa è successo: “sono distrutti - afferma Mirabile a Estense.com - e vogliono capire cosa sia successo”. L’avvocato fa presente che Baba condivideva la cella con altri tre detenuti ed “è difficile pensare che possa aver compiuto un gesto simile senza esser visto dai compagni”. Intanto la pm Claudia Ferrari della procura di Modena ha disposto una tac full body - esame utile a rivelare eventuali ferite o microfratture invisibili ad occhio nudo - che è stata eseguita mercoledì e l’autopsia, effettuati ieri. All’esame autoptico, oltre al consulente della procura, ha partecipato anche un medico legale incaricato dalla famiglia. Vasto (Ch). Internato suicida: aveva chiesto più volte l’estradizione di Rosalba Emiliozzi Il Messaggero, 7 marzo 2021 Aveva 50 anni il magrebino che si è impiccato nel carcere di Vasto, in provincia di Chieti, dove non stava scontando una pena, ma era in cella a causa di una misura di sicurezza disposta perché dichiarato “socialmente pericoloso”. Il 50enne aveva chiesto più volte l’estradizione che gli era stata negata dal magistrato anche per un problema di identità: aveva cinque o sei alias che impedivano, di fatto, una sua certa e corretta identificazione. Da circa tre anni era ospite della Casa lavoro di Vasto. Il suo decesso ha provocato una serie di dure riflessioni del Sappe sulle condizioni carcerarie, la carenza annosa di personale e l’assenza di un programma di lavoro che porta i detenuti - fa sapere una nota del sindacato di polizia penitenziaria più rappresentativo - a un disagio crescente nelle carceri italiane. “Un internato ristretto nella prima sezione del carcere di Vasto si è tolto la vita ieri impiccandosi nella sua cella - dice Giovanni Notarangelo, segretario abruzzese del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe - L’ennesimo suicidio di una persona detenuta in carcere dimostra come i problemi sociali e umani permangono, eccome, nei penitenziari. Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 23mila tentati suicidi e impedito che quasi 190mila atti di autolesionismo potessero avere conseguenze irreparabili. Purtroppo, a Vasto, il pur tempestivo intervento degli agenti di servizio non ha potuto impedire il decesso dell’uomo”. La Segreteria Sappe di Vasto denuncia anche “le condizioni operative della polizia penitenziaria caratterizzate dalle gravissime condizioni di carenza organica del personale della casa lavoro con annessa sezione circondariale. Il personale di polizia penitenziaria è allo stremo delle proprie forze: il turno notturno, quando va bene, è assicurato da cinque agenti, numero assai esiguo. Mancano anche progetti affinché gli internati in carcere (per la maggior parte soggetti psichiatrici), socialmente pericolosi che nel contempo vivono un senso di frustrazione e abbandono, siano impegnati a livello lavorativo, visto che oggi passano il proprio tempo oziando per la maggior parte del tempo in cella”. Donato Capece, segretario generale del Sappe, richiama una pronuncia del Comitato nazionale per la bioetica che ha sottolineato come “il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere. Proprio il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Fondamentale è eliminare l’ozio nelle celle. Altro che vigilanza dinamica. L’Amministrazione penitenziaria non ha affatto migliorato le condizioni di vivibilità nelle celle, perché, ad esempio, il numero dei detenuti che lavorano è irrisorio rispetto ai presenti, quasi tutti alle dipendenze del Dap in lavori di pulizia o comunque interni al carcere, poche ore a settimana”. Si chiede al ministro Marta Cartabia di trovare una soluzione ai problemi penitenziari di Vasto e di tutto il Paese. Modena. Presidio davanti al carcere, slogan contro lo Stato nell’anniversario della strage modenatoday.it, 7 marzo 2021 Un gruppo di un centinaio di manifestanti ha tenuto un sit-in davanti alle mura del Sant’Anna, circondato da cordoni di polizia. Viabilità bloccata su via Lamarmora”. Come annunciato alcuni giorni fa, un gruppo composto da circa un centinaio di attivisti si è radunato oggi pomeriggio dalle 14.30 davanti al carcere di Modena: una manifestazione nata in corrispondenza dell’anniversario della strage dello scorso anno, che ha radunato diversi attivisti - provenienti da varie province - e afferenti alla galassia dell’associazionismo della sinistra radicale. I manifestanti si sono portati fino all’accesso dell’ex Cie, lungo via Lamarmora e qui hanno dato vita al presidio, con striscioni, musica e interventi al microfono. Le forze dell’ordine, Polizia e Carabinieri, sono state schierate in forze, con una serie di cordoni in tenuta antisommossa sia su via Lamarmora che su strada Sant’Anna, mentre Polizia Locale e PolStrada hanno chiuso tutte le vie di accesso all’area della struttura penitenziaria, di fatto isolata e non raggiungibile. Anche all’interno del penitenziario la Polizia era presente in forze. Emblematico della protesta è stato uno degli striscioni esposti: “Marzo 2020, 14 morti nelle carceri. Sappiamo chi è Stato”. Gli interventi al microfono hanno infatti ripercorso i fatti dell’8 marzo scorso, con la linea comune di una negazione di quanto finora emerso nell’inchiesta - ovvero i decessi per overdose per i quali è stata chiesta l’archiviazione - ed imputando agli agenti della Polizia Penitenziaria la responsabilità delle morti. Tra i cori “Fuoco alle carceri”, “libertà libertà” e numerosi insulti alle forze dell’ordine. Intorno alle ore 16 i manifestanti hanno lasciato il presidio sulla strada per avventurarsi nel campo antistante alla recinzione del carcere, dove sono intervenuti anche gli agenti antisommossa. A parte gli sfottò e gli slogan, tutto si è svolto senza scontro fisico. Firenze. Segnalati abusi a Sollicciano, Caputo (L’Altro diritto): “Parlarne sgretola la violenza” di Stefania Valbonesi stamptoscana.it, 7 marzo 2021 Sembrerebbero emergere altre violenze nel carcere fiorentino di Sollicciano, dopo l’inchiesta choc emersa l’8 gennaio 2021, nel giorno in cui scattarono le misure cautelari emesse dal gip del tribunale di Firenze nei confronti di 9 agenti di polizia penitenziaria, tre dei quali furono posti agli arresti domiciliari, mentre sei furono interdetti dalla professione. I nove sono accusati di aver dato luogo a due pestaggi, uno avvenuto nel 2018 e uno nel maggio 2019, a carico di detenuti che avrebbero riportato varie lesioni, fra cui la rottura di un timpano e delle costole. L’inchiesta ipotizza i reati di tortura e falso ideologico, in quanto, secondo le ricostruzioni dell’accusa, per coprire il pestaggio avvenuto nell’ufficio di un’ispettrice, quest’ultima avrebbe redatto una relazione in cui dichiarava che i colleghi erano stati costretti a intervenire perché il detenuto aveva cercato di aggredirla sessualmente. Il 29 gennaio scorso i giudici del Tribunale del Riesame di Firenze hanno accolto le richieste della difesa e hanno disposto per i tre la misura dell’interdizione dall’incarico per 12 mesi. Il Tribunale del Riesame ha anche revocato la misura dell’obbligo di dimora per gli altri sei, e ridotto quella dell’interdizione dall’incarico da 12 a 6 mesi. Le nuove violenze che sarebbero emerse nel carcere fiorentino sono state rese note da un articolo del quotidiano Il Dubbio a firma di Damiano Aliprandi. A segnalare con un esposto alla magistratura quelle che si configurerebbero, se confermate, come altrettante gravissime violazioni dei diritti dei detenuti, il Centro di documentazione L’altro diritto, che dal 1996 opera all’interno delle carceri toscane. Il Centro di Documentazione è nato presso il Dipartimento di Teoria e storia del diritto dell’Università di Firenze e svolge attività di riflessione teorica e di ricerca sociologica sui temi dell’emarginazione sociale, della devianza, delle istituzioni penali e del carcere. In seno all’associazione, nel 1997, ha preso vita il Centro di informazione giuridica. L’esigenza principale a cui questa struttura ha cercato di rispondere è stata quella della effettività dei (pochi) diritti dei soggetti detenuti e della loro eguaglianza, della garanzia condizioni minime della vita penitenziaria che sovente, per la fascia più debole della popolazione penitenziaria, vengono meno. Ciò che emerge infatti da varie fonti, ma anche e soprattutto dalle ricerche sul campo, è che spesso i detenuti meno informati sui propri diritti e sui benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, incappano in circuiti penitenziari, come spiegano dal Centro, più lunghi, più duri e con minori prospettive di reinserimento. Per cui, come spiega il dottor Giuseppe Caputo, ricercatore universitario, membro del Centro, coordinatore della clinica legale sulla “protezione dei diritti delle persone in esecuzione penale”, autore di diverse pubblicazioni sul tema della sicurezza sociale e del trattamento penale della povertà, la mission è in primo luogo quella di informare le persone detenute dei loro diritti ed eventualmente di aiutarli ad accedervi in tutte le circostanze in cui non è indispensabile la mediazione di un avvocato. Attività di tutela dei diritti e di informazione giuridica a favore dei soggetti detenuti che ha portato l’associazione interuniversitaria a stipulare una convenzione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Toscana, e poi, dato l’estendersi della sua attività, con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il che consente ai volontari di svolgere la loro attività in tutti gli istituti penitenziari italiani. Ad ora, l’Altro diritto è presente nelle carceri toscane e in quella di Bologna. Chi sono gli operatori che svolgono la loro attività in L’Atro diritto? “Si tratta di studenti delle facoltà di Giurisprudenza di Firenze, Pisa e Bologna, a cui si affiancano anche professionisti volontari, che magari hanno cominciato ad operare nell’associazione come studenti, oltre ad alcuni ricercatori, assegnisti di ricerca e dottorandi”. Attività che entra dunque nel profondo del carcere, mondo sconosciuto a chi non è addetto ai lavori, tanto che spesso assume la ribalta solo quando emergono casi particolari, sovente violenze, sia in forma di rivolte, che di risse fra detenuti, che di violenze sui detenuti da parte di agenti della polizia penitenziaria. Sotto quest’ultima voce, i casi in Toscana, a partire da quello che ha coinvolto il carcere di San Gimignano in cui l’associazione si è costituita parte civile, sembrano aver subito un’accelerazione inquietante. “Alcuni numeri possono intanto dare l’idea della composizione sociale di un carcere - spiega Caputo - un detenuto su tre è dipendente da sostanze stupefacenti, o da dipendenze di altro genere, come l’alcol. Moltissimi detenuti manifestano disagi psichici, o pregressi all’entrata in carcere, o indotti dalla permanenza in carcerare. A livello nazionale, 1 detenuto su 3 è straniero, media che diventa 2 su 3 in Toscana”. La media dell’età è nella fascia giovanile della popolazione e se si assommano dipendenze, giovane età, disagio psichico, provenienza da altri paesi che ovviamente complica sia la comunicazione che l’interrelazione fra detenuti stessi e polizia penitenziaria, è comprensibile che la gestione della situazione diventi piuttosto complessa. Il problema è quello, antico e universale, che in mancanza di risposte alla marginalità che spesso deriva dalla povertà, il carcere rappresenta l’unica risposta. Ma non certo la soluzione. “La mancanza di prospettiva è un’altra delle grandi molle della violenza - dice Caputo - la maggioranza di chi si ritrova in carcere è spesso proveniente da quella manovalanza di piccola criminalità, spesso straniera, che non ha alcuna speranza di accesso alle misure alternative alla detenzione e di reinserimento sociale a fine pena, anche per le limitazioni imposte dalla legge sull’immigrazione. E che non ha niente da perdere. Questo ingenera un circuito di violenze che non si riverbera solo nel rapporto fra agenti penitenziari e detenuti, ma anche fra gli stessi detenuti o gruppi di detenuti, magari divisi per provenienza etnica. Anni fa proprio Sollicciano fu teatro di una maxi rissa con feriti fra il gruppo albanese e marocchino”. Del resto, continua Caputo, “dal 1999 entro negli istituti penitenziari e credo di potere affermare che, per quanto riguarda la violenza nel rapporto fra detenuto e agente penitenziario, non sia la regola. Posso affermare che la maggioranza degli agenti si comportano con professionalità. Il vero punto è che il carcere è pervaso da una sottocultura in cui il paradigma che regola le relazioni umane è quello della violenza psicologica e fisica, fra detenuti e polizia e fra detenuti e detenuti. Si tratta però di un aspetto su cui l’introduzione del reato di tortura ad esempio, ma anche lo stesso fatto che i casi di abusi emergano e se ne parli sui media, in particolare la televisione, si comincino a raccontare, può avere senz’altro una ricaduta positiva”. Insomma, la sensazione è che, in particolare quando si tratta di abusi violenti sui detenuti da parte degli agenti ma anche quando emergono storie di violenza fra reclusi, il fatto che non si faccia finta di niente, che la società “civile” non volga più gli occhi da un’altra parte e che ci siano giudici ad interessarsi, dia in qualche modo il coraggio ai detenuti di parlare e di esporsi. Anche se la battaglia è lunga, e non riguarda solo gli attori principali. Un ruolo determinante ad esempio lo hanno i medici che lavorano dentro le carceri. Del resto, è spesso proprio dal referto medico che si parte per accertare un abuso, “e spesso questo è il primo scoglio - dice Caputo - ma anche in questo ci sono segnali di rinnovamento. Per fare un caso noto, il caso di San Gimignano è nato dal referto di un medico che non si è fatto intimidire da pressioni e minacce. Ricordiamo che ora i medici operativi dentro le carceri non appartengono più all’amministrazione penitenziaria, ma sono medici delle Asl, e sono più slegati dalle logiche di omertà proprie del carcere. Ora si parla e se si parla si sgretola quel clima di impunità che fino ad oggi è stato dominante”. Segnali che potrebbero rendere i detenuti più determinati a parlare per segnalare casi di abusi provengono dalle stesse notizie di stampa che hanno riguardato il caso ricordato all’inizio dell’articolo, prima delle segnalazioni più recenti di cui parla Aliprandi nel suo pezzo su Il Dubbio, che dovranno ovviamente essere verificate dalla magistratura. “Sembra di evincere - dice Caputo - da quanto pubblicato sui quotidiani che ci sia stata una grossa collaborazione all’indagine da parte dell’amministrazione e della stessa Polizia penitenziaria. Insomma, sembra che a Sollicciano non si sia voluto nascondere la polvere sotto il tappeto”. Bergamo. Carcere di via Gleno: limite ai colloqui e una tenda per il triage primabergamo.it, 7 marzo 2021 Anche il sindacato della Polizia penitenziaria alza il livello di guardia per il rischio contagio da coronavirus nelle carceri. E lo fa attraverso le parole del suo segretario generale, Aldo Di Giacomo, il quale riscontra come siano molti i detenuti delle carceri del centro-nord, “che da qualche giorno, a causa dell’emergenza Coronavirus, stanno dimostrando buonsenso chiedendo, sempre più numerosi, di rinunciare ai colloqui con i familiari. L’unica forma di prevenzione - sottolinea Di Giacomo - è bloccare ogni contatto con l’esterno, insieme a una campagna di prevenzione e di comunicazione che coinvolga prima di tutto il personale in servizio”. Nel carcere di Bergamo, la protezione civile ha installato nello spazio esterno alla struttura una tenda pneumatica utile al triage, dove si potrà controllare lo stato di salute dei nuovi arrivati. Già la direzione ha avviato procedure di contenimento e autolimitazione alla libertà dei detenuti proprio per evitare che il contagio possa propagarsi all’interno della struttura. È risaputo che nelle carceri già esiste un allarme contagi per via di un alto numero di “ospiti” affetti da malattie trasmissibili in una percentuale superiore al 10-15 per cento, rispetto alla popolazione generale. E che una buona fetta della popolazione nelle carceri ha un’età che si aggira sui 70 anni. Quindi la situazione è molto delicata. A Bergamo al momento ci sono più di 500 persone recluse con l’aggiunta di circa 230 persone di servizio. Sant’Angelo (Av). Ciambriello: “Qui si sperimenta la funzione rieducativa della pena” Il Roma, 7 marzo 2021 “Tipografia, sartoria, carrozzeria, officina meccanica e lavaggio, tenimento agricolo con produzione propria di vini, miele, pomodoro, marmellata, lavanderia esterna. Tutte attività poste in essere in questo carcere dal compianto direttore Massimiliano Forgione, così si sperimenta la funzione rieducativa - costituzionale della pena. Un carcere dove anche le relazioni tra personale penitenziario e detenuti, detenuti e area educative hanno un qualcosa di empatico”, così il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello dopo la visita di ieri nella casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi nella quale sono presenti 134 detenuti di cui 45 nuovi giunti in questi giorni provenienti dal carcere di Poggioreale. Il garante ha ritirato ieri le copie della sua relazione annuale composta da 287 pagine che ha fatto stampare nella tipografia presente nella struttura e che accoglie commesse da tutte le carceri d’Italia. Venerdì 12 marzo alle ore 10:30 nella Sala al piano terra dell’isola c3 al centro direzionale di Napoli il Garante presenterà alla stampa e agli operatori del settore la relazione annuale. Ciambriello così conclude: “La mia relazione partirà dai punti di forza e di debolezza del carcere ai tempi del Covid, sia i progetti messi in campo negli istituti, sia dal mio ufficio che dal mondo del volontariato, che dalle istituzioni. Mi occuperò poi degli istituti minorili, Rems e Tso e Ufficio esecuzione penale esterna, infine del disagio psichico nelle carceri, in particolare delle articolazioni psichiatriche presenti nella Campania, tra le quali vi è quella di Sant’Angelo dei Lombardi che può ospitare 6 detenuti (oggi era presente solo 1 detenuto), nella quale sezione dal mese di giugno 2019 mancano lo psichiatra e il tecnico della riabilitazione”. Milano. “Da donna a donna”, i pensieri attraverso le sbarre delle volontarie di Sesta Opera Ristretti Orizzonti, 7 marzo 2021 In occasione dell’8 marzo, Festa della donna, sulla pagina Facebook dell’associazione. Da donna a donna: un pensiero di gratitudine attraverso le sbarre. In occasione del prossimo 8 marzo, Festa della donna, Sesta Opera San Fedele, associazione di volontariato carcerario, ha raccolto le testimonianze di alcune volontarie in merito all’essere donna oggi in carcere. I contributi video sono pubblicati sulla pagina Facebook @sestaopera. “Sono riflessioni che colpiscono per la loro profondità proprio perché si riferiscono a donne che sono tuttora in condizione di ristrettezza - ha commentato il Presidente di Sesta Opera, Guido Chiaretti - persone che, insieme alle nostre volontarie, hanno elaborato strategie di resilienza, riuscendo a trovare un nuovo equilibrio in un contesto fortemente complesso e aggravato dalle forti limitazioni imposte dalla pandemia”. Barbara Musso, volontaria che opera nella sezione femminile di Bollate, dove si occupa del progetto di mediazione tra pari dei conflitti, dedica il suo pensiero a “Laura” e a tutte le donne che sanno rimettersi in discussione e ripartire dalle piccole cose. La seconda testimonianza è di Marina Di Leo, operativa al servizio guardaroba - una delle poche attività rimaste aperte anche in periodo di lockdown - che racconta di una giovane detenuta che le ha espresso la propria gratitudine per il servizio svolto. Ed infine, Giovanna Musco, attiva nel carcere di Opera e Presidente di InOpera, associazione che coinvolge i detenuti in attività di volontariato, esprime la propria riconoscenza per le donne in divisa. “La nostra opera di sostegno a fianco delle persone ristrette non potrebbe essere efficace senza la collaborazione anche degli addetti alla sicurezza”. Se la pandemia affossa gli “invisibili” di Stefano Lepri La Stampa, 7 marzo 2021 Per aiutare i nuovi poveri che la crisi da pandemia ha creato, non bisogna dare retta a chi piange miseria. Sembra strano, ma è così: come già alcuni hanno sottolineato, si trovano davvero in difficoltà gli “invisibili”, quelli che non sanno farsi sentire. Ovvero chi non è protetto dalle corporazioni sempre pronte a rivendicare in cui l’Italia purtroppo si divide. Nell’insieme, ovvero nella media, i sussidi, o “ristori”, o “sostegni” erogati sono stati grosso modo sufficienti. Il potere complessivo d’acquisto delle famiglie è sceso poco; tanto è vero che alla riduzione dei consumi (-9,1% nel 2020) è corrisposto in buona parte un aumento dei depositi bancari. Recenti analisi mostrano che, sempre nella media, le imprese restano abbastanza solide. La catastrofe di fallimenti di aziende, il diluvio di licenziamenti prossimi venturi che qualcuno ha predetto sperabilmente non avverranno. Ciò nonostante ci sono molte persone che stanno davvero male: sia a causa di falle preesistenti del nostro sistema di assistenza (in altri Paesi il reddito delle famiglie è quasi invariato) sia a causa di caratteristiche impreviste, o non viste in tempo, della crisi. Se ci dividiamo su quanto chiudere i ristoranti, sulle sciovie o sui cinema, se facciamo passare il condono di vecchie tasse come indennizzo alla pandemia, non risolveremo nulla. Ci sono alcune cose urgenti che per fortuna il governo già discute: sicurezza sociale per precari e per autonomi, migliore indennità di disoccupazione, garanzie di reddito più alte per le famiglie numerose. L’assistenza però non basta. Le aree di povertà indicano problemi profondi che è bene affrontare se vogliamo, una volta vaccinati, ripartire con più energia. Se a soffrire di più sono giovani, precari, donne, immigrati, e famiglie del Nord con un solo occupato che guadagna poco, abbiamo una lista di persone che, una volta sorrette, potranno dare un contributo importante. Da troppi anni l’Italia scarica sui giovani quasi tutto il peso del proprio declino; e scoraggiandoli lo aggrava. Non solo un laureato al primo impiego guadagna il 70% meno che in Germania e il 30% meno che in Francia; la sua paga è del 15% inferiore a quella di un italiano nelle stesse condizioni 25 anni fa. Quelli che lo trovano, il posto fisso; perché il resto sono precari o disoccupati. I precari guadagnano ancora meno. Negli ultimi 12 mesi, quasi mezzo milione tra loro ha perso il posto, mentre i sindacati concentravano tutta l’energia nel far mantenere il blocco dei licenziamenti per gli occupati fissi. Quando lo ritroveranno, sarà necessario porsi il problema di una paga minima, ma ancor più di come evitare che l’impiego a termine resti sempre tale. Quanto alle donne, Mario Draghi ha fatto una affermazione di peso: il Mezzogiorno diventerà migliore (“benessere, autodeterminazione, legalità, sicurezza”) se vi aumenterà l’occupazione femminile. Apre un modo nuovo di guardare a che cosa si debba differenziare negli interventi su aree tanto diverse quanto il nostro Sud e il nostro Nord. Ancora: più asili nido soccorrerebbero da subito le famiglie numerose, aiuterebbero le madri a guadagnare, contribuirebbero a darci in futuro giovani più capaci di inserirsi nella società. E invece tocca stare a sentire gli insegnanti che rifiutano di prolungare l’anno scolastico per recuperare le lezioni perdute. Rifiutati dalle banche, gli italiani impegnano i gioielli di famiglia. E prolifera l’usura di Federico Formica La Repubblica, 7 marzo 2021 Il rapporto del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) parla di una situazione in rapido peggioramento a causa della crisi pandemica. Chi non riesce a ottenere prestiti si rivolge ad altri canali. Messi ai margini da banche e finanziarie, sono molti gli italiani che impegnano i propri averi al banco dei pegni o dal compro oro per avere liquidità immediata o, peggio, finiscono nelle mani degli usurai. L’ultimo rapporto del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) fa il punto sull’indebitamento degli italiani delineando un quadro preoccupante. Non perché il fenomeno sia nuovo - tutt’altro - ma perché quella di Cnca è l’istantanea della situazione pre-Covid che “probabilmente, con la pandemia, andrà ad acuirsi ancora di più” commenta Filippo Torrigiani, consulente del Cnca e della commissione parlamentare antimafia. Il dossier denuncia, utilizzando anche altre fonti di dati, come stia proliferando il mercato creditizio della disperazione, con ottimi profitti per chi presta. In modo legale o no. Pegni. Nati intorno al 1400, i banchi dei pegni oggi sono regolati in modo ferreo e devono essere approvati dalla Banca d’Italia. In sostanza erogano finanziamenti a breve termine in cambio di beni mobili come oro, argento, mobili di valore, opere d’arte, gioielli, orologi e altro ancora. Quello che non molti sanno, spiega il rapporto, è che queste attività sono di proprietà “di circa una quarantina di banche tra le quali Unicredit, gruppo Monte dei Paschi di Siena, Intesa San Paolo, Carige, Banco Bpm, tanto per citarne alcune”. I dati di Assopegno dicono che ogni anno sono tra le 270.000 e le 300.000 le persone che si rivolgono a questi istituti, per un volume d’affari complessivo di circa 800 milioni di euro e un prestito medio erogato di circa mille euro. Si parla, dunque, di cifre basse che si chiedono per varie necessità: “Spese inattese o impreviste, rette universitarie, ristrutturazioni edili, inizio di nuove attività lavorative”. Per molti, sottolinea il Cnca, è l’ultima spiaggia. E la crisi dovuta alla pandemia, con posti di lavoro persi, sussidi arrivati in ritardo (o non arrivati affatto) ha aumentato il numero delle persone che, “con sguardi disillusi in fila composta davanti alle filiali del credito, attendono il loro turno, accomunate da storie simili segnate da difficoltà e disperazione” scrive il Cnca Compro oro. Di fatto questi esercizi commerciali funzionano in modo molto simile al banco dei pegni, ma le garanzie per il cliente sono molto inferiori. Aprire questo genere di attività è infatti molto semplice: “È sufficiente aprire una partita iva, presentare la documentazione di inizio attività agli uffici comunali di competenza, iscriversi al registro delle imprese e avere a disposizione un locale di 20 metri quadri”, spiega il rapporto. Se è vero che il boom dei compro oro è passato, il numero degli esercizi per il commercio di preziosi è cresciuto dai 24.877 del 2018 ai 29.511 del 2019. L’aumento non è però attribuibile solo ai compro oro, perché in questa categoria rientrano anche le gioiellerie. Proprio perché ci sono meno garanzie, è più facile che il cliente di queste attività incappi in qualche fregatura. Per questo il Cnca ha fornito alcuni consigli utili per arrivare preparati all’appuntamento: andare allo sportello solo una volta saputa qual è la quotazione dell’oro usato in quel momento. Solo così ci si può fare un’idea di quanto renderebbe la vendita dei gioielli; un’altra cosa da fare per evitare valutazioni ingiuste e quella di pesare i monili: “I compro oro offrono ai clienti un prezzo inferiore rispetto a quello che gli stessi hanno calcolato sulla base del valore dell’oro puro che è determinato dai mercati: questo perché altrimenti non otterrebbero un certo guadagno” spiega Cnca. Usura. Infine il capitolo più doloroso: i prestiti concessi a tassi usurari, che nel migliore dei casi superano del 50% le soglie massime ammesse dalla Banca d’Italia. I dati Eurispes dicono che per gli usurai questo è un periodo di grandi affari. Nel 2020 almeno un italiano su dieci - l’11,9% - si è rivolto al credito illegale: le cifre sono in aumento rispetto al 2019 (10,1%) e al 2018 (7,8%). Non è facile ottenere dati precisi su un fenomeno nascosto, per sua natura, nell’ombra: i dati di Sos impresa stimavano, a fine 2017, un volume d’affari di circa 24 miliardi di euro. È facile ipotizzare che la cifra sia aumentata. Le leggi ci sono e prevedono tutele forti per le vittime: la 108 del 1996 prevede che, nel momento in cui viene accertata l’usura, debba essere restituito quanto pagato, compresi gli interessi sia legali che usurai, oltre il risarcimento del danno patrimoniale e morale per le perdite subite e i mancati guadagni. Nonostante ciò, denuncia Cnca, le denunce dal 1996 al 2016 sono crollate da 1436 a 408 “e non certamente a causa della decrescita del fenomeno”. “Siamo pagati una manciata di euro e passiamo la vita a ripulire Facebook dall’orrore” di Maurizio Di Fazio L’Espresso, 7 marzo 2021 Non basta un algoritmo per giudicare se i contenuti segnalati dagli utenti meritano davvero di essere eliminati. A farlo è un esercito di moderatori sparsi per il pianeta. Un lavoro essenziale, segreto e stressante, tra fake news, revenge porn e video raccapriccianti. “Senza il nostro lavoro, Facebook sarebbe inutilizzabile. Il suo impero collasserebbe. I vostri algoritmi non sono in grado di distinguere tra giornalismo e disinformazione, violenza e satira. Solo noi possiamo”: queste parole si leggono in una lettera inviata l’anno scorso a Mark Zuckerberg e firmata da oltre duecento persone. Persone che lavorano per il colosso di Menlo Park, ma anche per le altre principali piattaforme digitali di massa: da Instagram a Twitter, da TikTok a YouTube. Sono i moderatori dei contenuti dei social media, i guardiani clandestini degli avanposti della rete contemporanea: una professione poco conosciuta, ma nevralgica. “Credo che l’aspetto più difficile sia la condizione di totale invisibilità in cui sono costretti a operare: per motivi di sicurezza, ma anche per minimizzare l’importanza del lavoro umano”, spiega all’Espresso Jacopo Franchi, autore del libro “Obsoleti. Il lavoro impossibile dei moderatori di contenuti” (AgenziaX). “Oggi è impossibile stabilire con certezza se una decisione di moderazione dipenda dall’intervento di un uomo o di una macchina. I moderatori sono le vittime sacrificali di un mondo che rincorre l’illusione della completa automazione editoriale”. Perché serve ancora come l’ossigeno qualcuno, in carne e ossa, che si prenda la briga di nascondere la spazzatura sotto il tappeto agli occhi dei miliardi di iscritti (e inserzionisti) connessi in quel preciso istante. Un attimo prima che infesti i nostri monitor e smartphone, o che faccia comunque troppi danni in giro. E anche certe sfumature di senso la tecnologia non riesce a coglierle e chissà se le capirà mai. I moderatori digitali sono uomini e donne senza competenze o specializzazioni specifiche, e di qualsiasi etnia ed estrazione: una manodopera assolutamente intercambiabile. Per essere assunti, basta essere subito disponibili e “loggabili”, avere una connessione stabile e pelo sullo stomaco. Il loro compito consiste, infatti, nel filtrare ed eventualmente cancellare l’oggetto dei milioni di quotidiane segnalazioni anonime che arrivano (a volte per fini opachi) dagli stessi utenti. Incentrate su post e stories, foto e video ributtanti. Immagini e clip pedopornografiche, messaggi d’odio e razzismo, account fake, bufale, revenge porn, cyberbullismo, torture, stupri, omicidi e suicidi, guerre locali e stragi in diretta. Fiumi di fango che sfuggono alla diga fallibile degli algoritmi, e che possono finire per rendere virale, inconsapevolmente, l’indicibile. Gli errori di selezione della macchina li risolvono gli uomini: dal di fuori tutto deve però sembrare una proiezione uniforme e indistinta dell’intelligenza artificiale. Un lavoro essenziale e misconosciuto per un trattamento barbaro. “Ero pagato dieci centesimi a contenuto. Per questa cifra ho dovuto catalogare il video di un ragazzo a cui era stato dato fuoco, pubblicato dall’Isis”, scrive Tarleton Gillespie nel suo “Custodians Of The Internet”. I “custodians” lavorano a ritmi forsennati, cestinando fino a 1500 contenuti pro-capite a turno. Uno alla volta, seguendo le linee guida fornite dalle aziende, i mutevoli CommunityStandards (soprannominati, tra gli addetti ai lavori, la Bibbia). Se non conoscono la lingua interessata si affidano a un traduttore online. L’importante è correre: una manciata di secondi per stabilire cosa deve essere tolto di mezzo dai nostri newsfeed e timeline. Non c’è spazio per riflettere: un clic, elimina e avanti col prossimo. Un’ex moderatrice, Valera Zaicev, tra le maggiori attiviste della battaglia per i diritti di questa categoria che è ancora alle primissime fasi, ha raccontato che Facebook conta persino i loro minuti di pausa in bagno. Lavorano giorno e notte, i moderatori digitali. “Il nostro team di revisione è strutturato in modo tale da fornire una copertura 24/7 in tutto il pianeta”, ha dichiarato a The Atlantic Monika Bickert, responsabile globale delle policy di Facebook. Nessuno sa niente del loro mandato, obbligati come sono al silenzio da marziali accordi di riservatezza. Pure la loro qualifica ufficiale è camaleontica: community manager, contractor, legal removals associate... “Quello del moderatore di contenuti è un esempio, forse il più estremo, delle nuove forme di lavoro precario generato ed eterodiretto dagli algoritmi”, aggiunge Franchi. “Nessuno può dirci con precisione quanti siano: si parla di 100-150 mila moderatori, ma non è stato mai chiarito quanti di questi siano assunti a tempo pieno dalle aziende, quanti siano ingaggiati con contratti interinali da agenzie che lavorano in subappalto e quanti invece retribuiti a cottimo sulle piattaforme di “gig working”, per “taggare” i contenuti segnalati dagli utenti e indirizzarli così verso le code di revisione dei moderatori “professionisti”. Restando a Facebook, si oscilla così dai moderatori più tutelati e con un contratto stabile negli Usa (15 dollari circa all’ora di salario) ai 1600 occupati dall’appaltatore Genpact negli uffici della città indiana di Hyderabad, che avrebbero una paga di 6 dollari al giorno stando a quanto rivelato, tra gli altri, dalla Reuters. Un esercito neo-industriale di riserva che si collega alla bisogna grazie a compagnie di outsourcing come TaskUs, persone in smart-work permanente da qualche angolo imprecisato del globo, per un pugno di spiccioli a chiamata. Il loro capo più autoritario e immediato, in ogni caso, è sempre l’algoritmo. Un’entità matematico-metafisica che non dorme, non si arresta mai. Una forza bruta ma asettica, tirannica e prevedibile, fronteggiata dall’immensa fatica del corpo e della mente. “È un algoritmo a selezionarli su LinkedIn o Indeed attraverso offerte di lavoro volutamente generiche”, ci dice ancora Iacopo Franchi, “è un algoritmo a organizzare i contenuti dei social che possono essere segnalati dagli utenti, è un algoritmo a pianificare le code di revisione ed è spesso un algoritmo a determinare il loro punteggio sulla base degli “errori” commessi e a decidere della loro eventuale disconnessione, cioè il licenziamento”. Già: se sbagliano in più del 5 per cento dei casi, se esorbitano da quei “livelli di accuratezza” monitorati a campione, può scattare per loro il cartellino rosso, l’espulsione. Per chi riesce a rimanere al proprio posto, è essenziale rigenerarsi nel tempo libero. Staccare completamente, cercare di recuperare un po’ di serenità dopo avere introiettato tante nefandezze. “Ci sono migliaia di moderatori nell’Unione Europea e tutti stanno lavorando in condizioni critiche per la loro salute mentale”, ha asserito Cori Crider, direttore di Foxglove, un gruppo di pressione che li assiste nelle cause legali. Sta di fatto che nel 2020 Facebook ha pagato 50 milioni di dollari a migliaia di moderatori che avevano sviluppato problemi psicologici a causa del loro lavoro. È uno dei new jobs più logoranti. Pochi resistono più di qualche mese, prima di essere defenestrati per performance deludenti o andarsene con le proprie gambe per una sopravvenuta incapacità di osservare il male sotterraneo del mondo senza poter fare nulla oltre che occultarlo dalla superficie visibile dei social. Gli strascichi sono pesanti. Il contraccolpo a lungo andare è micidiale, insopportabile. L’accumulo di visioni cruente traccia un solco profondo. Quale altra persona si sarà mai immersa così a fondo negli abissi della natura umana? “L’esposizione a contenuti complessi e potenzialmente traumatici, oltre che al sovraccarico informativo, è certamente un aspetto rilevante della loro esperienza professionale quotidiana, ma non bisogna dimenticare anche l’alta ripetitività delle mansioni”, spiega all’Espresso Massimiliano Barattucci, psicologo del lavoro e docente di psicologia delle organizzazioni. “A differenza di un altro lavoro del futuro come quello dei rider, più che ai rischi e ai pericoli per l’incolumità fisica, i content moderator sono esposti a tutte le fonti di techno-stress delle professioni digitali. E questo ci consente di comprendere il loro elevato tasso di turnover e di burnout, e la loro generale insoddisfazione lavorativa”. L’alienazione, l’assuefazione emotiva al raccapriccio sono dietro l’angolo. “Può nascere un progressivo cinismo, una forma di abitudine che consente di mantenere il distacco dagli eventi scioccanti attinenti al loro lavoro”, conclude Barattucci. “D’altro canto possono esserci ripercussioni e disturbi come l’insonnia, gli incubi notturni, i pensieri o i ricordi intrusivi, le reazioni di ansia e diversi casi riconosciuti di disturbo post-traumatico da stress (PTSD)”. Nella roccaforte Facebook di Phoenix, in Arizona, un giorno, ha raccontato un’ex moderatrice di contenuti al sito a stelle e strisce di informazione The Verge, l’attenzione di tutti è stata catturata da un uomo che minacciava di lanciarsi dal tetto di un edificio vicino. Alla fine hanno scoperto che era un loro collega: si era allontanato durante una delle due sole pause giornaliere concesse. Voleva mettersi così offline dall’orrore. I murales ai giovani boss: apologia o monito? Tracce di un territorio disperato di Roberto Saviano Corriere della Sera, 7 marzo 2021 Non esiste quartiere, non esiste periferia, non esiste barrio che non abbia murales dedicati ai caduti delle attività criminali. Morire uccisi dalle forze dell’ordine, morire in una faida tra opposte fazioni, morire accoltellati in una rissa rappresentano accadimenti tutt’altro che avulsi dalle vite quotidiane di gran parte dell’umanità. Da Soweto a Buenos Aires, da Lagos a Napoli, da Manila a Ciudad Juárez, la periferia è una; stesse regole, medesima cultura con molteplici sfumature, un’unica verità: si muore giovani. Se è vero che l’età media della nostra specie, negli ultimi anni, ha raggiunto soglie insperate per i nostri antenati - 72,6 anni, secondo lo United Nation World Population Prospect del 2019 -, si tratta pur sempre di un traguardo aleatorio e chiaramente falso, o meglio, terribilmente stridente con i dati relativi alla vita nelle periferie. Non solo perché la qualità della vita è nettamente inferiore, non solo perché chi abita le periferie è piegato dalla fatica di lavori più usuranti e da una maggiore instabilità - e quindi maggiore stress. Ciò che conta nella valutazione è che l’età media dei giovani dediti al crimine è la stessa dei loro coetanei nel Medioevo. Prevengo i medievalisti: non intendo gettare discredito su un’epoca incredibilmente feconda quale fu, appunto, il Medioevo. Ma è un dato di fatto drammatico con cui la società civile deve fare i conti. Il murale nella foto ha generato a Napoli un grande dibattito: gli altari, le cappelle votive, i murales dedicati ai ragazzi morti in azioni criminali vanno smantellati perché considerati apologia del crimine? Beh certamente lo sono, apologia del crimine intendo, ma circoscrivere al crimine e interpretare a senso unico queste espressioni sarebbe un errore, e una grave miopia. Pensare che siamo apologia del crimine è riduttivo perché queste immagini raccontano di vite perennemente a rischio, di vite condotte tra furti, rapine, omicidi da chi non è in grado di scorgere alternative. Che fare dunque di quei murales, distruggerli o tenerli lì a perenne monito? Rispondere non è affatto semplice. Se mi si chiedesse la mia opinione, forse direi che no, non li distruggerei perché sono tracce, tracce di un percorso, tracce di ciò che il territorio di cui sono espressione sta vivendo. L’altarino dedicato a Emanuele Sibillo (nella foto qui sopra), giovanissimo boss di camorra morto in un agguato, il più giovane di tutti, non un affiliato, non un moschillo, come sempre la criminalità organizzata ne ha avuti, ma un boss vero a 19 anni, con capacità di negoziare enormi quantità di droga e controllare il territorio, è un vero e proprio altare, l’altare dedicato a un santo laico, il protettore di chi condivide in sorte una vita disastrata. In Messico esiste Jesus Malverde, santo protettore di tutti i narcotrafficanti, ci sono persino chiese sul territorio messicano dedicate a lui. Impedire il culto di Jesus Malverde lo renderebbe un santo clandestino e il suo culto, paradossalmente, ancora più sentito perché da preservare, da sottrarre all’oblio. Allo stesso tempo, mi rendo conto che ignorare il proliferare di queste manifestazioni, di queste articolazioni di religiosità criminale crea una vera e propria contraddizione innanzitutto in termini di abuso, che si esplicita nella conquista di marciapiedi, di accaparramento di intere pareti di palazzi, di occupazione di quartieri. Ma, al netto di tutto ciò, si deve essere consapevoli che si può cancellare un murale ma non si può cancellare ciò che ha determinato quelle manifestazioni: dispersione scolastica, disoccupazione cronica, lavoro nero, un tessuto produttivo che si basa su uno sfruttamento di cui lo Stato centrale non sembra avere contezza, che non crede di dover sanare, su cui nemmeno per sbaglio posa lo sguardo. L’altarino e i murales sono epifenomeni, bisognerebbe capirlo e utilizzare l’indignazione che la generano per raccontare un territorio disperato; disperato e abbandonato a sé stesso. Abbandonato ai propri santi criminali che cadono rubando, sparando, accoltellando. Migranti. Quel giorno a Brindisi in cui gli albanesi vennero considerati fratelli di Roberto Di Caro L’Espresso, 7 marzo 2021 Il 7 marzo 1991 venticinquemila profughi arrivano al porto su barche di fortuna. Le autorità sono impreparate ma tra la gente nasce una straordinaria mobilitazione. Un episodio indimenticabile. Anche perché è durato poco. “È buio quando alle 7 di sera la nostra nave finalmente getta l’ancora ma Brindisi è tutta illuminata, sembra New York: perché il paradiso, si sa, è inondato di luce, e le vetrine brillano, la tv è a colori, c’è un telefono in ogni casa, le donne ballano come Raffaella Carrà e ridono come Loretta Goggi. Abbiamo freddo e fame, accovacciati da trenta ore in un angolo a poppa in mezzo ad altri ottomila come noi, uomini, donne, bambini, minori senza nessuno. Siamo gli ultimi, è dalle 10 di mattina che in porto attraccano navi come alveari galleggianti. Le banchine sono già invase da migliaia di profughi, gli elicotteri ci volteggiano sulla testa lanciandoci bottiglie d’acqua e sacchetti di zucchero. Qualche pazzo si tuffa in mare, gli altri spingono per scendere: una volta a terra, dicono, nessuno ci potrà più rimandare indietro...”. Sbarcheranno verso le 11 di notte, Astrit che racconta e i suoi due amici, Silvan e Roland. Il conto dell’esodo di quella sola giornata del 7 marzo 1991 arriverà a 25 mila profughi da 24 tra pescherecci di varia stazza e grandi mercantili come la Lirja, il Tirana, l’Apollonia, ultima la Legend, bandiera panamense e capitano greco: senza precise avvisaglie, solo radi segnali premonitori e senza che gli stessi protagonisti avessero deciso alcunché poche ore prima di gettarsi nell’avventura destinata a ribaltare le loro vite. Il Governo italiano ci metterà un giorno e mezzo prima di riuscire a muovere un dito. Brindisi, con i suoi 80 mila abitanti, i suoi problemi di disoccupazione e Sacra corona unita, si ritrova a fronteggiare da sola una catabasi alla quale nulla e nessuno l’ha preparata. Può finire in un disastro, le premesse ci sono tutte: una massa di disperati, un’invasione, numeri incontenibili. Invece, accantonato in fretta l’iniziale stordimento, la città, le sue istituzioni e associazioni e corpi, e decine di migliaia di brindisini, prendono l’iniziativa, si mettono in gioco, ribaltano una tragedia annunciata in una delle pagine più encomiabili della recente storia patria. Un passo indietro e 83 miglia nautiche a est, i 154 chilometri che in linea d’aria dividono Durazzo da Brindisi. L’Albania da cui chi può fugge appena s’apre uno spiraglio, senza un soldo in tasca e col vestito che ha addosso, è un paese al collasso. Morto nell’85 Enver Hoxha, il piccolo Stalin dei Balcani, paranoico dittatore dal ‘44 (vedere a Tirana il Museo dei Servizi segreti alla Casa delle foglie o le decine di migliaia di bunker costruiti in ogni dove in vista di un’invasione), fallite le riforme economiche e le timide aperture al pluralismo del suo delfino Ramiz Alia, il regime sopravvive come un cadavere al quale ancora non hanno detto che è già morto: con la sua nomenklatura, i suoi rituali, la sua polizia politica prima onnipotente ora inane e stracciona. Tutt’intorno, caduto il muro di Berlino, la Ddr è uno scheletro vuoto, le rivoluzioni dell’89 nell’Est Europa hanno abbattuto come birilli gli altri regimi del “socialismo reale”, l’arcinemica Jugoslavia in mano a Miloševic si dissolverà nel giro di quattro mesi dai fatti che qui si raccontano. Una fuga di massa dall’Albania c’è già stata: il 2 luglio del ‘90, mentre in Italia si gioca il Mondiale di calcio, in quasi cinquemila scavalcano le mura e i cancelli delle ambasciate occidentali a Tirana, dopo una difficile trattativa il 13 li imbarcano a Durazzo, da Brindisi li trasferiranno negli Stati disposti a dare asilo. A ottobre, colpo durissimo per il regime che perde l’ultima sponda per trattare un cambiamento col contagocce, espatria e ottiene asilo politico in Francia Ismail Kadare, il più autorevole scrittore albanese. A dicembre scendono in piazza gli studenti dell’Università di Tirana. Ramiz Alia legalizza i partiti e concede elezioni per fine marzo, ma ormai l’argine è rotto, per il disperato come per l’intellettuale la speranza è l’espatrio, la fuga, l’Italia: Lamerica, come tre anni dopo racconterà il film di Gianni Amelio. Astrit (di cognome fa Cela, oggi è funzionario Infocamere a Milano, sposato con un’italiana, due figli, fondatore dell’Associazione Albania e futuro) non è neppure tra i disperati. Ha 26 anni, insegna letteratura e francese in una scuola media di provincia a Skrapar, dalla tv ha una discreta conoscenza dell’italiano. Il più grande dei suoi cinque fratelli e sorelle è docente di filosofia alla Scuola centrale del Partito, funzionario di alto rango del regime: “Ci ritroviamo la mattina del 6 marzo in un bar di Tirana. Sa che me ne voglio andare, io temo rappresaglie contro di lui. “Ormai sei grande”, mi dice, “devi pensare alla tua vita”. Ci abbracciamo. Le ambasciate però sono chiuse, i carri armati pattugliano le strade, la stazione è bloccata. Silvan, insegnante di inglese e Roland, suo fratello, ingegnere civile, li incontro per caso, riferiscono voci di navi in partenza da Durazzo verso l’Italia. Un camion ci porta lì in un’ora, il soldato che ci dovrebbe fermare butta via il fucile e salta con noi sul cargo: nessuno chiede soldi, nessuno paga, è una fuga, non un traffico di esseri umani. Sono le 2 di pomeriggio. Ci spareranno, ci arresteranno? Qualcuno lascia, noi aspettiamo. Notte all’addiaccio, macchine spente. Solo alle 6 di mattina del giorno dopo, il fatidico 7 marzo, la Legend molla gli ormeggi e con una lentezza esasperante comincia il suo viaggio. Il mare è calmo, la giornata calda, a lungo ci accompagnano i delfini. Verso mezzogiorno uno scoppio di euforia, “libertà, libertà”, le dita a V di vittoria: siamo entrati in acque internazionali”. In tasca Astrid ha un oggetto proibito sotto il regime: mai sentito il nome di Madre Teresa di Calcutta, albanese e Nobel per la pace, ma tre giorni prima quello scricciolo di suora se n’era arrivata a Tirana e aveva aperto una casa di accoglienza: incuriosito, Astrit s’era unito alla folla che la applaudiva, lei dal balcone aveva gettato rosari per tutti. Il suo, lo terrà in tasca per tutta la traversata. La Brindisi che trova, quando alle 11 di notte sbarca infine dalla Legend, è una città scossa, impreparata, disorientata. A capo della locale Caritas è Bruno Mitrugno, bancario di 47 anni, che per assistere i profughi si giocherà le ferie dell’intero anno: “I primi arrivati sciamano lungo i due corsi del centro, Garibaldi e Roma: senza controlli, ma senza incidenti, sul viso dei più giovani un misto di gioia e stupore. La maggior parte è però ancora accovacciata sulle banchine e lì resterà per la notte, i più anche quella successiva: al riparo di teli di plastica bianca messi a disposizione da un’industria locale, nutriti alla bell’e meglio da volontari e cittadini con pane, latte, biscotti, ciò che uno ha in casa, inclusi pannolini, coperte, vestiti. È una mobilitazione spontanea: a centinaia vengono subito ospitati in casa dai brindisini: impensabile, oggi. Tutti fanno la loro parte, persino i contrabbandieri di sigarette che da poco hanno strappato a Napoli la palma del malaffare. C’è un solo grande assente, nei primi giorni: il Governo italiano”. All’avvistamento delle navi, gli ordini impartiti alla Capitaneria di porto erano stati di impedire l’attracco e rispedire tutta quella gente a casa sua, se la passano liscia stavolta ne arriveranno altre decine o centinaia di migliaia. Fallito il tentativo, non c’è nessun piano di riserva: il Coordinamento della Protezione civile è un ministero senza portafoglio, titolare Vito Lattanzio, pugliese, la struttura un semplice dipartimento con duecento persone e mezzi inadeguati, che “di civile conserva solo il nome”, riconoscerà lo stesso Claudio Martelli, vicepresidente del Consiglio nel sesto governo Andreotti allora in carica. Mentre le immagini choc fanno il giro delle agenzie e arrivano inviati e tv di mezzo mondo è una telefonata a vincere la riluttanza degli apparati dello Stato. Monsignor Settimio Todisco, grande vescovo, girata la città fin dall’alba, chiama il prefetto Antonio Barrel e gli dice testualmente: “Eccellenza, se lei non apre subito le scuole all’accoglienza, io stasera aprirò ai profughi tutte le Chiese”. La sera dell’8 marzo la prefettura requisisce 34 elementari e medie. Il 9 mattina un lancio dell’Ansa riferisce che è in corso il trasferimento delle persone dal porto agli edifici scolastici. Si aprono le porte della stazione marittima, rifugio in cortile e sotto i portici, e di un deposito militare in disuso nella frazione di Restinco. Altri profughi vengono dislocati a Ostuni, Villa Speranza della Diocesi, e a Molfetta dall’anomalo vescovo don Tonino Bello, fondatore di Pax Christi, l’anno appresso in marcia fin dentro la Sarajevo accerchiata e in guerra, ora beato. Sono già passati due giorni dal primo sbarco. Retto il violento impatto iniziale, tocca dare forma all’assistenza di fortuna di una massa gigantesca di sbandati. Racconta Mitrugno della Caritas: “Una vera cabina di regìa non c’è. Ci coordiniamo, noi, la Croce Rossa, i sindacati, le associazioni, gli ospedali, il sindaco: ma con il sistema del tam tam. Nutrire cento o duecento persone non è impresa impossibile, con grandi pentole e chili di fagioli ce la puoi fare: la gente regala il cibo, i volontari lo cucinano come possono. Più arduo è prendersi cura delle persone. Nelle scuole adibite a centro d’accoglienza mancano i letti, si dorme per terra, donne e bambini sui materassi portati da comuni cittadini. Nel marasma, mariti, mogli, figli si perdono di vista: inventiamo allora un telefono per i ricongiungimenti familiari. I bagni sono un grave problema, tant’è che quando tutto finirà dovranno essere rifatti nuovi ovunque. Le prime cucine da campo le vedremo soltanto quando, il quarto giorno, arriverà l’esercito. E, assieme ai militari, i primi politici: scesi dalla macchina, la prima cosa che chiedono è “Dov’è la stampa?”. Un’ultima notazione: si vociferava di una massa di delinquenti fuggita dalle carceri albanesi e confusa tra gli altri sulle navi. Bene, neanche una mela fu rubata in quei giorni”. Nelle settimane a seguire vengono requisiti campeggi e villaggi turistici lungo la costa salentina, ai migranti è concesso un permesso di soggiorno straordinario di un anno, Governo e Regioni trovano una quadra per ridistribuirli, c’è chi favoleggia di mandarli nel Kuwait da ricostruire dopo la guerra del Golfo. In realtà si disperdono presto in mille rivoli: storie diverse, chi avrà successo in Italia e resterà, chi vi imparerà un mestiere e tornerà a investire in Albania, anche chi si perderà, certo. Il racconto non può però tacere che il vento dell’opinione pubblica cambierà molto in fretta. L’8 agosto la nave Vlora è respinta a Brindisi e rimorchiata a Bari, i suoi 20 mila fuggiaschi chiusi nello stadio in condizioni abnormi, la gran parte verrà rimpatriata. Cinque anni dell’iperliberista Sali Berisha al potere dal ‘92 e il paese è di nuovo allo sfascio, città intere in mano a bande criminali: gli sbarchi ricominciano, il Venerdì Santo del ‘97 la nave militare Sibilla sperona per errore la motovedetta Kater i Rades, muoiono in 108, il governo Prodi dispone un blocco navale. Nell’immaginario collettivo l’albanese non è più il fratello da aiutare, ma il criminale che ruba, spaccia e costringe le sue donne a prostituirsi. Oggi la comunità, quasi mezzo milione, è la meglio integrata in Italia. Ma ci sono voluti trent’anni. Quel 7 marzo 1991 è rimasto una strana, felice, imprevedibile eccezione. Il Papa in Iraq sconfigge i potenti della terra di Alberto Negri Il Manifesto, 7 marzo 2021 In missione di pace. È suo il vero patto di Abramo che ieri in Iraq ha stretto con Ali Sistani, con tutti gli iracheni e anche con noi: basta guerre, basta armi, basta intolleranza. In poche ore Bergoglio in Medio sta facendo più di chiunque altro in un secolo di guerre e massacri, di falsi accordi e di pacificazioni effimere. Cosa sono la politica e la diplomazia? Eccole, nel segno di Abramo, e le porta un uomo testardo vestito di bianco. Cos’è il coraggio di cambiare il mondo? È quello di Bergoglio che in direzione ostinata e contraria, quando tutti lo sconsigliavano dall’andare in Iraq, ha sfidato i consigli più ipocriti, degli americani e dei venditori di morte occidentali. E lo ha detto anche nella biblica piana di Ur dove oltre a condannare il terrorismo in nome della religione si è scagliato contro ogni forma di oppressione e prevaricazione. “Quante divisioni ha il papa?”, si chiedeva ironicamente Stalin a Yalta a chi gli faceva presente le esigenze di Pio XII. La stessa domanda se la faranno adesso Biden, Macron, Netanyahu, magari pure il principe assassino, il mandante dell’omicidio di Jamal Khashoggi, il saudita Mohammed bin Salman - che in Yemen ha usato anche le bombe italiane - e molti altri dei cosiddetti potenti della terra. Perché il papa sta portando a casa un risultato straordinario che non si potevano neppure immaginare: hanno arsenali pieni ma poche idee che funzionano per una pace autentica. È suo il vero patto di Abramo che ieri in Iraq ha stretto con Ali Sistani, con tutti gli iracheni e anche con noi: basta guerre, basta armi, basta intolleranza. In poche ore Bergoglio in Medio sta facendo più di chiunque altro in un secolo di guerre e massacri, di falsi accordi e di pacificazioni effimere. Si sbaglia chi pensa di misurare in un tempo breve quello che accade sotto i nostri occhi e che gran parte dei media, forse stupiti, stenta ad accettare: il peso specifico di questo viaggio lo soppeseremo nell’onda lunga della storia ma già nell’immediato Bergoglio ha instaurato un clima mai visto in questo Paese che ha vissuto 40 anni di guerre, di morte, di sopraffazione dei più deboli e vulnerabili. Questa volta si sono dette cose completamente diverse da quelle che abbiamo dolorosamente conosciuto dell’Iraq. Nei cartelloni di benvenuto al papa lungo la strada maestra di Najaf campeggiava la scritta “Voi siete parte di noi e noi siamo parte di voi”, con sotto raffigurati i volti di Bergoglio e di Alì Sistani. In una stanza spoglia, con due divanetti, un tavolino, una scatola di fazzoletti appoggiata e un vecchio condizionatore sulla parete intonacata, il papa e Sistani si sono guardati negli occhi. Nessuno dei capi occidentali lo aveva mai incontrato in questi decenni. Il senso del viaggio di Bergoglio tutto in questa immagine di Najaf dove nel mausoleo con la cupola d’oro è sepolto l’imam Ali, quarto califfo, cugino e genero di Maometto, il cuore dell’islam sciita. È qui che Sistani lanciò nel 2014 l’appello a tutti gli iracheni per ribellarsi dal Califfato che aveva conquistato Mosul. Il papa ha ringraziato Sistani perché, assieme alla comunità sciita, di fronte alla violenza ha levato la sua voce in difesa dei perseguitati. Sistani ha affermato che le autorità religiose hanno un ruolo nella protezione dei cristiani iracheni che dovrebbero vivere in pace e godere degli stessi diritti degli altri iracheni. Un passo importante per il dialogo interreligioso ma soprattutto per la pacificazione tra tutte le componenti della società irachena, dalla maggioranza sciita irachena (60%) ai sunniti (35%), dai cristiani agli yazidi, dagli arabi ai curdi. L’incontro, lungamente preparato nei mesi scorsi dalla santa sede e dall’entourage di Sistani, con la mediazione di Louis Raphaël Sako, patriarca cattolico di Babilonia e dei caldei, ha infatti toccato tutte le questioni che affliggono le minoranze irachene, non solo quella cristiana. Francesco ha auspicato che sia proprio Sistani a guidare la difesa delle minoranze e il loro reintegro nella vita civile del Paese. Il suo patto di Abramo vale, almeno moralmente, assai di più di quello tra Israele e le monarchie del Golfo voluto da Trump e ora caldeggiato da Biden: quello non è un accordo per la pace e la composizione dei conflitti ma contro l’Iran e tutti i popoli della regione che non si arrendono alla violenza e ai soprusi, alla legge del più forte, di chi ha più armi, più soldi, più tecnologia. Il patto di Abramo degli americani è un accordo che divide tra buoni e cattivi. I buoni sono gli alleati dell’Occidente e i maggiori clienti di armamenti degli Stati uniti, i cattivi coloro che non si arrendono all’ingiustizia e al doppio standard applicato da Washington e dall’occidente ai popoli della regione. Forse non è del tutto casuale che, in coincidenza con il viaggio del papa in Iraq, l’ex capo dei pasdaran iraniani Mohsen Rezai abbia affermato, in un’intervista al Financial Times, che l’Iran è pronto a un nuovo negoziato sul nucleare se gli Usa si impegneranno a togliere le sanzioni a Teheran entro un anno. Il patto di Abramo, quello tra Bergoglio e Sistani, magari potrebbe anche funzionare. Si chiama Coltan, ed è il motivo per cui si muore in Africa di Stefano Liberti L’Espresso, 7 marzo 2021 Il minerale serve per smartphone, microchip, apparecchiature mediche. E troppo spesso la sua estrazione nelle miniere è controllata dagli squadroni della morte. L’assassinio dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo vicino a Goma, nell’est della Repubblica Democratica del Congo, ci riguarda molto più di quanto immaginiamo. È dalle miniere sparse per il Nord-Kivu, la provincia di cui Goma è capitale, che viene estratta una parte rilevante delle materie prime essenziali a molti strumenti del nostro vissuto quotidiano. È da qui che proviene il coltan, quella miscela di columbite e tantalite presente in cellulari, telecamere, micro-chip, oltre che in diverse apparecchiature mediche. È ancora qui che si ricava l’oro utilizzato nelle fedi nuziali, nei gioielli, ma anche come conduttore in vari dispositivi elettronici. Secondo una mappatura dell’istituto di ricerca belga International Peace Information Service (Ipis), nell’est del Congo ci sono circa 2000 siti d’estrazione. Di questi, almeno un terzo è controllato da gruppi armati, siano essi ribelli o battaglioni dello stesso esercito congolese. La presenza di questi miliziani crea un clima di instabilità permanente e alimenta quegli scontri incrociati in cui è caduta vittima anche la missione guidata dal diplomatico italiano. Sempre secondo l’Ipis, sono 200mila le persone impiegate in queste miniere informali. Fra queste, numerosi sono i bambini: particolarmente apprezzati per la loro capacità di infilarsi in cunicoli stretti, lavorano senza protezioni, scavando spesso a mani nude. Lo ha potuto constatare recentemente una missione della Fondazione Magis, l’ente della provincia euro-mediterranea della Compagnia di Gesù che sta conducendo un progetto volto a promuovere una filiera etica per l’oro esportato dal Congo in Italia. Perché è bene allargare la visuale e capire qual è la destinazione finale di quelle tanto ambite risorse minerarie. Il terminale ultimo dei conflitti che da 25 anni sconvolgono la Repubblica Democratica del Congo sono appunto i nostri cellulari, i nostri computer, i nostri anelli. Esiste un filo rosso tra strumenti e oggetti per noi di uso comune e quello che accade nell’est del Congo. Se lo smartphone è oggi alla portata di tutti, è anche perché l’estrazione delle materie prime necessarie al suo funzionamento avviene in queste condizioni di sfruttamento, senza rispetto per la dignità dei lavoratori né per i più basilari standard ambientali. E senza che lo stato congolese incassi le giuste royalties: i miliziani o gli intermediari che controllano questo commercio contrabbandano le risorse minerarie nei paesi vicini, da dove sono vendute alle industrie produttrici o ai raffinatori. Particolarmente tortuoso è il percorso dell’oro: dopo essere portato illegalmente in Uganda o in Ruanda, viene esportato in Sudafrica o a Dubai, dove è raffinato e trasformato in lingotti. In questa forma raggiunge i mercati finali, l’Europa, gli Stati Uniti, la Cina e l’India. La lunghezza della filiera rende complesso il processo di tracciabilità. Ma la buona notizia è che tale processo è oggi obbligatorio, almeno nell’Unione Europea: il 1° gennaio scorso è entrato in vigore il regolamento 821/2017, che obbliga gli importatori europei di stagno, tantalio, tungsteno, dei loro minerali, e di oro ad adempiere ai doveri di diligenza per impedire che i profitti provenienti da questo commercio vadano a finanziare conflitti. D’ora in poi, chi importa coltan e oro all’interno dell’Ue dovrà indicarne l’origine e gli spostamenti lungo la catena di approvvigionamento. Il regolamento è appena entrato in vigore. Bisognerà vedere nei fatti come avverrà la sua applicazione. Ma è certo che si tratta di un primo importante passo per migliorare le condizioni di vita e lavoro nelle miniere congolesi. E per rendere più trasparente una filiera in cui siamo più coinvolti di quanto immaginiamo. L’uccisione dell’ambasciatore Attanasio, la sicurezza dei cooperanti e le richieste delle Ong di Mario Mancini (Mlal) e Nicola Morganti (Acra) Corriere della Sera, 7 marzo 2021 Le ong dopo l’uccisione dell’ambasciatore italiano, La questione della sicurezza, l’incolumità fisica e la salvaguardia dei progetti e delle comunità. Necessari un lavoro di analisi, preparazione, pianificazione e monitoraggio. Di fronte a tragici fatti come la morte dell’ambasciatore Luca Attanasio in Nord Kivu, torna l’attenzione sul tema della sicurezza di operatori umanitari, cooperanti e volontari all’estero. Spesso il dibattito si focalizza sull’evento decontestualizzato, generando semplificazioni e strumentalizzazioni. Le ong sono impegnate nelle aree di conflitto armato, più o meno dichiarato, dove ogni tipo di violenza, rischi e morte sono fattori costanti: rapimenti, potenziale coinvolgimento in azioni di protesta e blocchi, incidenti in strade dissestate e malattie. La “sicurezza” nelle ong non è solo questione d’ incolumità fisica dei cooperanti, riguarda la salvaguardia dei progetti e delle comunità nei Paesi. È una preoccupazione costante, un lavoro di analisi, preparazione, pianificazione e monitoraggio, contestuale alla gestione dei programmi. Essenziale è la collaborazione tra soggetti della cooperazione non governativa per definire strategie condivise, costruire competenze e definire meccanismi di risposta più efficaci. L’Aoi da tempo sta realizzando un lavoro di rete, accelerato ulteriormente con la pandemia iniziata lo scorso anno. Infatti, nel marzo 2020 Aoi ha rapidamente messo in piedi una task force per offrire supporto al rientro di volontari, cooperanti e loro familiari presenti in decine di Paesi che dovevano rientrare in Italia. Questo, segnalando alla Farnesina i casi che necessitavano un intervento delle rappresentanze diplomatiche. Il lavoro sta continuando su vari livelli, dalla formazione degli operatori al supporto agli associati sul tema Safety & Security. Pur nella consapevolezza di non poter risolvere qualsiasi situazione, abbiamo la certezza che servono un percorso di “sistema” tra organizzazioni, una preparazione adeguata e uno scambio attivo di informazioni per affrontare con autorevolezza la gestione dei rischi e realizzare. Un prof dalla Russia a Ragusa per sfuggire al carcere: “Braccato dal regime di Putin” di Sebastiano Diamante La Repubblica, 7 marzo 2021 I giudici di Catania hanno detto di no all’estradizione di Maxim Bakhtin accusato di truffa: “Mai preso quei soldi”. “Sono una vittima del sistema politico, in Russia marcirei in cella senza aver commesso alcun reato”. I giudici della corte d’Appello di Catania hanno negato la richiesta di estradizione di Mosca nei confronti di Maxim Bakhtin, 46 anni, che potrà così rimanere in Italia grazie a una protezione sussidiaria internazionale e a un permesso di soggiorno di cinque anni. Ci sono elementi da spy story in ciò che è accaduto al docente universitario russo, arrestato in Sicilia nel 2020: su di lui pendeva un mandato di cattura internazionale, con le accuse di truffa e appropriazione indebita, per fatti che risalivano a sette anni prima. Ma la verità, stando al docente russo, è nascosta nella sua candidatura nel 2016 alla Duma di Mosca, il Parlamento della città, col partito “Russia giusta”, in contrapposizione a “Russia unita”, partito di maggioranza nel governo del Cremlino. Ma andiamo con ordine. Nel 2013 Bakhtin insegnava Storia e Filosofia nella sede distaccata di una università privata di Mosca. Assieme ad altri docenti avrebbe dovuto tenere un corso per il quale gli studenti avevano pagato le quote d’iscrizione (in tutto 15mila euro) “direttamente all’università - sostiene - non a me”. Ma il corso non si tenne. “Io non percepii denaro - racconta Bakhtin - né nessuno me ne chiese conto”. La sede dell’ateneo, dopo qualche mese, chiuse e finì anche il suo rapporto di lavoro. Nel 2016 Maxim Bakhtin, da sempre appassionato di politica, decise di candidarsi alla Duma di Mosca nelle file del partito anti-Putin. E lì cominciarono i guai. “Un mese prima delle elezioni - sostiene - ricevetti minacce telefoniche perché ritirassi la mia candidatura. Una settimana prima del voto, la polizia venne a casa mia con il pretesto di effettuare controlli”. Bakhtin non fu eletto, piazzandosi terzo nella sua lista, ma capì che era meglio “cambiare aria”: “Temevo il carcere, così andai via dalla Russia nel settembre 2017”. Ha lasciato tre figli e l’ex moglie, rimasti a Mosca, e ha girato per un po’ l’Europa: Francia, Spagna, Germania. Poi è andato in Tunisia e successivamente è approdato in Italia. “Ero affascinato dalla Sicilia - dice - e ho scelto Siracusa, città in cui mi sono trasferito nel 2020”. Ha partecipato a seminari di studio su storia e filosofia, collaborando con docenti italiani. A febbraio del 2020 il tribunale distrettuale di Kuzhminsk, a Mosca, ha emesso un mandato di arresto e la richiesta di estradizione nei suoi confronti. Il docente, che rischia sei anni di carcere, è stato arrestato dalla polizia ferroviaria nel maggio 2020, mentre andava da Siracusa a Taormina, e condotto in carcere a Catania. “Il nostro assistito - spiegano i suoi legali, Salvatore Di Fede e Paolo Occhipinti - è ancora in attesa di un processo. È stata chiesta una misura cautelare a sette anni di distanza dai fatti per i quali è accusato, eppure ha girato liberamente in Russia fino al 2017”. Dopo essere stato scarcerato, ha avuto l’obbligo di firma e si è spostato nel Ragusano: Donnalucata, Modica, Scicli e ora è a Ragusa Ibla. Ha il permesso di soggiorno ma ha chiesto asilo politico. “Cercavano una scusa - dice Bakhtin - per sbattermi in galera. I soldi non c’entravano nulla: sono perseguitato per motivi politici”. Nel suo futuro c’è l’Italia. “Mi piacerebbe lavorare in una università - conclude - e continuare e dedicarmi ai miei studi”. Crimini di guerra: Usa in soccorso di Israele per fermare la Corte penale internazionale di Michele Giorgio Il Manifesto, 7 marzo 2021 Benyamin Netanyahu a inizio settimana aveva annunciato ogni sforzo diplomatico pur di bloccare l’indagine per crimini di guerra nei Territori palestinesi occupati aperta formalmente dalla Corte penale internazionale. Ed è stato di parola. L’Amministrazione Biden si è subito schierata dalla parte di Israele contro la procuratrice internazionale Fatou Bensouda, senza ripetere le minacce e le sanzioni di Donald Trump contro i giudici dell’Aia. Nella prima telefonata l’altra sera fra Kamala Harris e il primo ministro israeliano, la vice presidente oltre a ribadire “la partnership su questioni di sicurezza regionale, compreso il programma nucleare iraniano” e l’appoggio agli accordi di normalizzazione fra Israele e paesi arabi, ha espresso una netta opposizione al procedimento avviato dalla Cpi. Il colloquio è servito a fugare i timori israeliani su relazioni più tiepide con la nuova Amministrazione dopo la luna di miele durata quattro anni con Trump e il suo entourage. Il mese scorso Joe Biden ha avuto una lunga conversazione telefonica con Netanyahu, primo leader in Medio Oriente sentito dal presidente Usa ma il 12esimo del mondo nonostante gli strettissimi rapporti fra i due paesi. Kamala Harris, sostenitrice entusiasta di Israele, con la sua telefonata ha confermato che è tutto ok tra i due alleati. Anche il segretario di Stato Tony Blinken ha fatto la sua parte. Deplorando l’indagine della Cpi, Blinken ha sostenuto che la Corte dell’Aia “non ha giurisdizione in materia perché non ne fa parte Israele, inoltre i palestinesi non hanno uno Stato sovrano e non possono essere un membro della Cpi”. Gli Stati Uniti, aveva twittato in precedenza, “si oppongono fermamente a un’indagine @IntlCrimCourt sulla situazione palestinese. Continueremo a sostenere il nostro forte impegno nei confronti di Israele e della sua sicurezza anche opponendoci ad azioni che cercano di prenderlo di mira ingiustamente”. Oltre agli Usa, Netanyahu conta di ottenere al più presto il sostegno di altri paesi, non solo occidentali. La procuratrice Bensouda indagherà su possibili crimini di guerra commessi da Israele, e anche dal movimento islamico palestinese Hamas, dal 13 giugno 2014 in poi. Con un focus particolare sull’offensiva israeliana Margine Protettivo contro Gaza costata la vita a oltre duemila palestinesi (in buona parte civili secondo i dati delle organizzazioni internazionali) e la distruzione totale o parziale di decine di migliaia di abitazioni. Israele non coopererà in alcun modo con l’indagine e, secondo indiscrezioni riportate da media locali, avrebbe rivolto pesanti ammonimenti all’Autorità nazionale palestinese minacciando sanzioni, anche contro il suo presidente Abu Mazen, se collaborerà con Fatou Bensouda. Nella prima fase delle indagini verranno raccolte le testimonianze delle vittime dei crimini. Successivamente la procuratrice chiederà pareri sulle regole di ingaggio e su come vengono attuate a organizzazioni per i diritti umani, esperti e forse anche a ex militari israeliani. Le indagini potrebbero richiedere anni prima che siano emessi eventuali mandati di arresto. In un’intervista il ministro della difesa Benny Gantz ha stimato in centinaia gli israeliani che potrebbero finire sotto inchiesta ma, ha aggiunto, “ci prenderemo cura di tutti”, anche con comunicazioni tempestive sui rischi relativi ai loro viaggi all’estero. Lo stesso Gantz è indicato come uno degli indagati poiché era capo di stato maggiore durante Margine Protettivo. Due anni fa il ministro israeliano mise in rete un filmato che, mostrando le macerie di Gaza, accreditava il suo pugno di ferro contro i palestinesi. Egitto. “Incapaci” per legge, le donne egiziane si mobilitano di Chiara Cruciati Il Manifesto, 7 marzo 2021 Fatta trapelare alla stampa una controversa bozza di riforma del diritto di famiglia. Servirà il permesso di un uomo per sposarsi, decidere sulla salute dei figli e viaggiare. Le organizzazioni femministe: si torna indietro di 200 anni. Il regime egiziano mette le mani sul diritto di famiglia e le donne si mobilitano. In un paese in cui la povertà avanza a passo spedito colpendo soprattutto le categorie economicamente più fragili, tra cui le donne, in cui l’Onu stima che il 99% di loro ha subito almeno una volta nella vita una forma di violenza, in cui si calcolano centinaia di prigioniere politiche sottoposte ad abusi quotidiani (tre di loro condannate alla pena capitale), ora Il Cairo sta lavorando a un arretramento dei diritti delle donne. Sul tavolo ci sono una serie di emendamenti al diritto di famiglia che riducono le donne a soggetti meno capaci degli uomini nella gestione della propria vita e di quella dei figli. Nella bozza della riforma fatta trapelare alla stampa è infatti prevista la figura del guardiano, un uomo che dovrà dare il proprio consenso alla donna - che sia la figlia, la moglie o la sorella - che intende viaggiare, sposarsi o prendere decisioni sulla salute dei figli. Quarantacinque pagine che hanno provocato la sollevazione delle organizzazioni per i diritti umani e le associazioni femministe che descrivono la bozza una riforma “arcaica” che riporta il paese indietro di 200 anni. Tra gli articoli più controversi, c’è quello che riconosce al guardiano il diritto di annullare il matrimonio della figlia, della sorella o della nipote entro un anno se ritiene che il coniuge non sia di pari livello sociale o di suo gradimento, o se l’unione è avvenuta senza il suo consenso. Una forma legale di oppressione, l’hanno definita sulla stampa araba svariati analisti, “che ribadisce la cultura patriarcale dominante della classe dirigente”. A nulla serve avere otto ministre nel governo o quote rosa in parlamento se la stragrande maggioranza delle donne egiziane è legalmente considerata incapace di decidere per sé. Lo mette nero su bianco un altro articolo della riforma che toglie potestà alla madre in merito alla salute e l’educazione dei figli, fino alla registrazione dei nuovi nati, possibile solo in presenza del padre. C’è poi il capitolo poligamia: l’uomo potrà sposare un’altra donna limitandosi a informare la moglie, pena l’arresto. Alla moglie viene tolto il diritto di rigettare il secondo matrimonio e di divorziare, le condizioni previste dall’islam. Unica nota positiva è l’”assicurazione” a favore della donna in caso di divorzio non consensuale, una previsione apprezzata soprattutto dalle classi più basse, dove un divorzio può costare alla donna che non lavora l’unica fonte di sopravvivenza economica. Ma se la legge non è stata ancora approvata, 50 organizzazioni di donne egiziane si sono già mobilitate con una dichiarazione congiunta che chiede il rispetto dei diritti umani fondamentali e della stessa Costituzione: alla base sta la richiesta, basilare, di riconoscere l’uguaglianza legale di donne e uomini, nella società come in famiglia. “Rigettiamo totalmente questa legge - il commento dell’Egyptian Centre for Women’s Rights - Abbiamo donne ministre che firmano contratti milionari in nome dello Stato, ma che con questa riforma non potrebbero nemmeno sposarsi liberamente o viaggiare, nemmeno per lavoro, senza il permesso del guardiano”.