Caratteristiche, valori e comportamenti dell’istituzione carceraria di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 6 marzo 2021 Quali dovrebbero essere le caratteristiche e i comportamenti di un’organizzazione a cui per dettato costituzionale viene assegnato il compito di “rieducare”? In questi giorni compio vent’anni di impegno in carcere; un impegno in larghissima parte volontario e in qualche rara - ma molto piacevole - occasione anche retribuito. Compio vent’anni, dunque, ed esco proprio dal primo istituto, da quello in cui ho cominciato nella primavera del 2001; tanti ricordi e tanti pensieri nella mia mente, pensieri anche molto intimi con qualche domanda su cui vorrei soffermarmi a partire da quell’art.27 di cui cito il punto che tanto mi è caro: … Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Le pene (e non la pena al singolare), dunque, devono tendere alla rieducazione del condannato e, quindi, tutto il mondo dell’esecuzione penale in teoria dovrebbe farsi qualche domanda su cosa significhi essere soggetto a cui è deputata una questione seria e impegnativa come la “rieducazione”. Non si tratta, evidentemente, soltanto di accogliere e ospitare attività di maggiore o minore contenuto pedagogico (magari verificando le competenze di chi le propone e le conduce) ma piuttosto di ripartire dall’origine e di chiedersi quali siano o quali dovrebbero essere le caratteristiche, i valori e i comportamenti di un’organizzazione a cui per dettato costituzionale viene assegnato il compito di “rieducare”? Provo a individuare le prerogative che mi sembrano irrinunciabili e già mi chiedo quante volte mi è capitato di riscontrarle nelle persone o nelle organizzazioni che ho conosciuto nel ventennale cammino. La risposta purtroppo non è incoraggiante: poche, pochissime volte. Casi isolati. Rifletto su questi requisiti e li scrivo per provare a fare chiarezza anche dentro di me, per dire anche a me stessa quali sono le condizioni di una stimabile adultità. Fatti salvi, naturalmente, gli scivoloni e i limiti che tutti abbiamo. La credibilità, innanzitutto; se l’istituzione fa un patto o una promessa con la persona detenuta o condannata o imputata deve essere in grado di tener fede a quel patto e a quella promessa. Senza se e senza ma. Applicando a sé stessa la severità che adopera con gli altri; non solo con chi si è macchiato di una condotta illegale ma anche con il volontariato e la società esterna che - con differenti ruoli - entra in carcere o si impegna nel sostenere le “misure di comunità”. La chiarezza o trasparenza che dir si voglia, che implica regole chiare e scritte (dove sono finiti i regolamenti di istituto?) e risposte puntuali, in tempi accettabili. In realtà la trasparenza rappresenta uno dei limiti più seri e preoccupanti delle istituzioni deputate - a vario titolo e con differenti ruoli - all’esecuzione delle pene. Regole molto fluide e imprecise che possono mutare a seconda del vento e tempi biblici per le risposte, attese snervanti che fanno salire l’ansia e la rabbia. La maturità degli interventi disciplinari che abbiano - per quanto è possibile - un’attenzione focalizzata sulla proposta educativa e non siano soltanto risposte emotive. Questi, al momento, mi sembrano i pilastri della responsabilità e devo dire che su questi pilastri mi impegno a confrontare la mia attività umana e professionale nell’ambito della risposta penale che, per fortuna, è ben più ampia della sola detenzione. Mi sforzo, quindi, di essere severa anche con me stessa, di non compiacere le persone detenute o “messe alla prova” a cui dedico una significativa parte del mio tempo. Cerco relazioni chiare; rispettose ma chiare. Non mi impegno a pubblicare scritti inadeguati solo per assecondare le persone con cui lavoro, non mi piace trattare gli adulti come bambini ma, in realtà, mi sono sempre impegnata a essere chiara anche con i bambini. La compiacenza è senza dubbio meno faticosa ma mi sembra così poco rispettosa. Non si tratta, dunque, di fare semplicemente qualcosa ma di essere qualcos’altro. Sarebbe bello su questi temi poter aprire una riflessione profonda e onesta tra cittadini e istituzioni ma il confronto non sembra mai essere tra le priorità. E dunque riprendo il cammino… *Giornalista, responsabile della redazione di Ristretti Parma De Vito: “Sui morti in carcere durante le rivolte politica e intellettuali si sono voltati dell’altra parte” di Angela Stella Il Riformista, 6 marzo 2021 “Stupisce che sia stato chiesto conto al Dap della Circolare che mirava a segnalare i detenuti più a rischio per il Covid e non del silenzio su quelle morti. La galera non si governa con il pugno duro, se ci fosse stato più dialogo forse si sarebbero evitati dei drammi”. Ad un anno dalle rivolte nelle carceri che tra il 7 e il 9 marzo 2020 hanno sconvolto il nostro Paese, ci confrontiamo con il dottor Riccardo De Vito, magistrato di sorveglianza e presidente di Magistratura Democratica, la cui sensibilità culturale e costituzionale nei confronti della questione penitenziaria è nota a tutti. Dal Riformista lancia una proposta provocatoria sui vertici del Dap: “È impensabile che quel posto venga occupato da un “non magistrato”? Dottor De Vito cosa ricorderemo di quei giorni? Personalmente, oltre alle vite perse e alle testimonianze dolorose di detenuti e personale del carcere, ricorderò soprattutto il dramma della politica e dell’intellettualità italiane che, con poche eccezioni, hanno voltato la testa dall’altra parte. Da militante di Magistratura democratica sento di dover esprimere il mio disagio soprattutto rispetto alla sinistra che, escluso il mondo vitale dell’associazionismo, ha fatto sparire il carcere dall’orizzonte. Si tratta di un’amputazione grave del pensiero politico. Come ha scritto recentemente l’architetto Corrado Marcetti, il carcere è un frammento socio-spaziale della realtà urbana contemporanea e risente di tutte le trasformazioni che investono quest’ultima. Se si ambisce a cambiare la città non si può lasciare il carcere fuori dai confini dell’impegno e della ricerca intellettuale e politica. Tredici detenuti hanno perso la vita. Sulla loro morte ci sono delle inchieste. Nel nostro Paese non si avevano così tanti morti da decenni per le rivolte. Lei concorda con chi, come il Garante Mauro Palma, sostiene che “il nodo della discussione si è concentrato su di esse e su chi le abbia organizzate ma non sul fatto che tredici vite si sono consumate”? Certo. Purtroppo il bilancio in termini di vite umane è stato tragico. Per tornare a fatti di uguale distruttività occorre riandare con la mente all’incendio che il 3 giugno 1989 devastò il braccio femminile delle Vallette a Torino. In quel caso fu un incendio fortuito - sommato a tanta incuria - a uccidere undici detenute e due agenti e a dimostrare che il carcere può trasformarsi rapidamente in un inferno, se ad esso non si dedicano cura e attenzione. Vedremo cosa diranno le indagini in corso, ma al di là di tutto colpisce che all’Amministrazione penitenziaria centrale sia stato chiesto conto di una circolare che mirava a segnalare all’autorità giudiziaria i detenuti a più alto rischio di contrarre il Covid in forme letali e non del silenzio sui morti, sui loro nomi, sulle loro identità o delle informazioni intermittenti sul contagio all’interno delle mura. Non pare conforme a Costituzione e a utilità sociale che fumano diventi fattore di ascrizione di responsabilità e il disumano passi sotto traccia. Cosa ci hanno insegnato quelle rivolte? L’ammonimento più importante, a mio avviso, è che la galera non si governa con il pugno duro, con il disciplinare, con la pretesa di un’obbedienza cieca e acritica da parte delle persone detenute. Occorrono dialogo, negoziazione, scambio di informazioni - ce ne fossero state di più al momento della chiusura dei colloqui con i familiari forse di sarebbe evitato qualche dramma - e, soprattutto, promozione del benessere di tutte le persone che nella comunità carceraria vivono e lavorano. Non pare un caso che i reparti a più alta intensità trattamentale non siano stati toccati dalle rivolte. Se si pensa di derubricare il carcere a un mero problema di disciplina, sicurezza e ordine pubblico si imbocca una strada destinata a fallire. A questo proposito condivido le preoccupazioni espresse da alcuni sindacati, tra cui quello dei Direttori Penitenziari, per l’emanazione da parte del Ministero dell’Interno di linee guida per l’intervento in casi di disordini nelle carceri: si tratta di direttive che paiono esautorare il ruolo del Direttore e rafforzare un coordinamento diretto tra forze di polizie e Comandanti di penitenziaria. Un segnale non incoraggiante. La neo ministra Cartabia nella sua visita al Dap ha detto: “Come scriveva Calamandrei, bisogna aver visto le carceri. E anche io, quando le ho viste, non ho dimenticato i volti, le condizioni, le storie delle persone che ho conosciuto durante le visite fatte con la Corte costituzionale”. Lei come magistrato di sorveglianza è in prima linea sul fronte della conoscenza del mondo penitenziario. Di cosa hanno bisogno le carceri? Lei crede che con questo nuovo Ministro potremmo pensare ad una riforma strutturale? O ci sarà il freno dl questa maggioranza troppo allargata per convergere verso cambiamenti di sistema? Non c’è dubbio che l’eccellente sensibilità scientifica della Ministra potrà scontrarsi con le pulsioni carcero-centriche di alcune componenti della maggioranza A voler essere ottimisti si potrebbe pensare che l’ampiezza della maggioranza politica possa sgombrare il campo, per un po’ di tempo, dal principale nemico delle riforme penitenziarie, a destra come a sinistra. la ricerca del consenso. Sarebbe quanto mai importante che in Parlamento si tornasse a discutere dei bisogni del carcere. Credo sia arrivato il momento non solo di un rafforzamento della riforma del 1975 e di un suo aggiornamento, ma di un ulteriore cambio di paradigma La penalità penitenziaria deve essere riportata dentro la città: vanno separati i detenuti effettivamente pericolosi da quelli (la maggior parte) non pericolosi, e per questi ultimi occorre pensare a un circuito diverso a livello urbano, architettonico, trattamentale; va affrontato, a mio avviso nell’ottica della depenalizzazione, il grande tema degli stupefacenti; vanno rafforzati e ripensati i legami tra interno ed esterno, anche in chiave trattamentale. Questo è stato un anno molto difficile anche per la magistratura di sorveglianza. Siete stati messi sotto accusa per alcune concessioni di detenzioni domiciliari per motivi di salute ad alcuni detenuti dell’alta sicurezza e del 41bis. Che bilancio fa di questo? Credo che la magistratura di sorveglianza abbia agito nel profondo rispetto del suo mandato istituzionale - tutelare dignità e umanità della pena in un’ottica di bilanciamento con le esigenze di sicurezza pubblica - e mi fa piacere che un riconoscimento del molo svolto sia arrivato dal Presidente Anni, Giuseppe Santalucia. In un bilancio di quel periodo, posso dire di aver visto affiorare un confronto/conflitto di culture all’interno della stessa magistratura in materie scottanti come l’antimafia”. Sarebbe auspicabile un’attività di formazione comune tra inquirente e giudicanti, di cognizione e di sorveglianza Sono convinto che il dibattito potrebbe uscire, da una parte e dall’altra, dalle secche dei pregiudizi ideologici per spostarsi sul terreno della realtà dei fatti. A partire da quella del carcere. Il professore Fiandaca da questo giornale ha detto: “se vogliamo che siano proprio magistrati a dirigere il Dap almeno questi capi si scelgano tra i migliori giudici di sorveglianza piuttosto che tra gli ex pubblici ministeri”. Ha ragione? Ha ragione. Ma dico di più, e lo dico nell’ottica della crisi che attraversa la magistratura e delle polemiche che attorno a passate nomine per il Dap si sono create. È impensabile che quel posto venga occupato da un “non magistrato”? Da un dirigente penitenziario, da un garante, da un esperto della penalità penitenziaria? Può sembrare una proposta provocatoria, ma se ne può discutere. La magistratura, su un piano non solo simbolico, lancerebbe un segnale importante: la tutela dei diritti dei detenuti si realizza soprattutto dentro le aule e la collaborazione con l’amministrazione prescinde da chi ne rivesta il molo di capo. In più ci si allontana dal rischio di strumentalizzazioni politiche. Questo è stato un anno molto difficile anche per la magistratura in generale. Ci siamo lasciati alle spalle l’inaugurazione dell’anno giudiziario che si è aperto con una certa ridondanza della parola “credibilità”. Solo retorica da inaugurazione o secondo lei la magistratura ha preso davvero coscienza che bisogna attuare una vera lauto) riforma? Credo che le inaugurazioni dell’armo giudiziario abbiano dato voce alla maggioranza dei magistrati italiani, che si sente a posto con la coscienza, che intende difendere la credibilità della giurisdizione quotidiana - anche dalle ricostruzioni strumentali di Palamara ma che sa che non tutto l’affaire Palamara può liquidarsi sotto l’insegna della strumentalità A questi magistrati va restituita voce, con un procedimento di trasferimento di poteri dall’alto al basso sia in ambito istituzionale sia in ambito associativo. In ambito istituzionale questo non può non passare per un’effettiva demitizzazione della dirigenza e del potere di nomina. In ambito associativo occorre ricostruire partecipazione e controllo democratico. Cosa ne pensa della lettera che 67 magistrati hanno inviato al Presidente Mattarella per chiedere di intervenire in vari modi contro le degenerazioni del sistema torrentizio? Ne capisco la tensione ideale sottostare te, ma non ne condivido gli scopi. Da un lato soluzioni inesistenti nell’ordinamento (il potere di scioglimento del Csm da parte del Presidente), dall’altro rischi di cortocircuiti istituzionali: le commissioni di inchiesta parlamentari nascono nell’alveo del controllo del Parlamento sul Governo, non sull’ordine giudiziario. Vi leggo, poi, una sorta di deresponsabilizzazione della magistratura. l’affidarsi alle soluzioni degli altri. Tuttavia credo sia indispensabile che le persone coinvolte nelle famose chat chiariscono la loro posizione, se ritengono anche cori le querele (di cui è bene però si abbia notizia): mi sembra un’etica minima, doverosamente esigibile soprattutto da chi riveste una posizione istituzionale. Il diritto di difesa è sacro, anche al 41bis di Maria Brucale Il Domani, 6 marzo 2021 La protezione della segretezza del rapporto difensivo è parte del volto costituzionale della pena e l’avvocato ne è espressione. Gli agenti del Gom non consentono all’avvocato di portare con sé i propri appunti, i propri oggetti personali, le penne, se non sono trasparenti, perché potrebbero occultare “pizzini”, controllano gli orologi che potrebbero nascondere strumenti di video ripresa o di registrazione. È inaccettabile che il difensore che si rechi in un istituto detentivo dai propri assistiti in 41bis sia investito con violenza dal sospetto che possa fare del colloquio uno strumento per trasmettere messaggi di contenuto criminale. Il colloquio con il proprio difensore è segreto. Non può essere ascoltato, spiato, videoregistrato. È un incontro costituzionalmente presidiato, nel quale, in un’intesa fiduciaria protetta, l’assistito sa di affidare la propria storia umana e processuale a chi è tenuto a difenderlo, a curare i suoi interessi, in una comunicazione sottratta al controllo ed alla vigilanza del potere pubblico. Ciò vale all’interno di uno studio legale, al telefono e, forse con maggior forza, in carcere, tanto più nei regimi privativi del 41bis dove il soggetto recluso si trova già in una condizione di oggettiva vulnerabilità determinata dalla reclusione di rigore. La protezione della segretezza del rapporto difensivo è parte del volto costituzionale della pena e l’avvocato ne è espressione. È, allora, inaccettabile che il difensore che si rechi in un istituto detentivo dai propri assistiti in 41bis sia investito con violenza dal sospetto che possa fare del colloquio uno strumento per trasmettere messaggi di contenuto criminale. Gli agenti del Gom (Gruppo Operativo Mobile, un corpo di guardia speciale assegnato alla custodia dei ristretti in detenzione derogatoria) non consentono all’avvocato di portare con sé i propri appunti, i propri oggetti personali, le penne, se non sono trasparenti, perché potrebbero occultare “pizzini”, controllano gli orologi che potrebbero nascondere strumenti di video ripresa o di registrazione. Il principio di segretezza - Ciò perfino quando, come in tempo di covid-19, il vetro divisore che separa il detenuto dal suo interlocutore, in un locale stretto e asfittico, rimane chiuso. E nel cubo di ferro dove si svolgono i colloqui, anche quando la persona ristretta è protetta dal vetro antiproiettile a tutta altezza, viene chiusa a chiave anche la porta alle spalle del difensore. Quando vorrà uscire dovrà bussare e attendere l’arrivo degli agenti. Piccole e grandi vessazioni che cambiano a seconda del carcere, a seconda dell’agente. Non sono conoscibili, non le trovi scritte in un regolamento consultabile e non sono registrate. Quando si consumano, a danno della dignità dell’avvocato, del rispetto del suo ruolo, della sua funzione e della sua persona, di esse non c’è traccia. Nessuno redige un verbale dove vengono annotati gli oggetti che il difensore è costretto a lasciare in deposito se vuole accedere, dopo aver affrontato lunghi viaggi e inspiegabili attese, al colloquio con il proprio assistito. Nell’incontro del ristretto con il suo avvocato non possano essere attivati i mezzi di protezione ordinariamente previsti dall’ articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario per impedire il passaggio di oggetti perché è indebito investire il difensore del sospetto. Lede la sacralità del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione. La Corte di Cassazione ha anche specificato, per le stesse ragioni, che il detenuto dopo avere incontrato senza la separazione del vetro, come avviene normalmente, il proprio difensore non possa essere soggetto a perquisizioni personali. Del resto sarebbe anche del tutto illogico immaginare di impedire la trasmissione di messaggi chissà come occultati quando la comunicazione tra l’avvocato e il suo difeso è per legge segreta. Si deve dedurre che non lo sia? Che indebitamente le conversazioni siano ascoltate? Registrate? O si cerca di intimidire con ottuse restrizioni gli avvocati difensori per indurli a lasciare nell’isolamento e nell’abbandono della loro condizione i detenuti del 41bis? La visione distorta - Forse è soltanto il consueto dominio di una distorta visione simbiotica tra l’avvocato e il suo assistito. Quella che induce l’ignoranza populista al linciaggio di chi assuma la difesa di persone attinte da gravissime accuse relative a reati di particolare allarme sociale o a condotte estremamente riprovevoli. Una macchina del fango mai paga, veleni mai sopiti e la criminalizzazione delle battaglie di Diritto scomode. Un facile approdo per chi non vuole farsene carico. Sono battaglie di civiltà che richiedono un altissimo senso di rispetto per le Istituzioni, abnegazione, rigore morale, coraggio. I diritti inalienabili appartengono a qualunque uomo nella stessa misura e c’è una linea dell’invalicabile che non può essere mai oltrepassata, pena la confusione tra lo Stato e il criminale. Solo la comprensione autentica di questa premessa consente di eliminare quell’alone fuligginoso che viene impresso addosso a chi tutela i diritti delle persone che hanno commesso reati, a chi indossa con orgoglio la sua toga quale vessillo alto di libertà. “Oltre il virus”. Presentazione del Rapporto sulle carceri di Antigone fuoriluogo.it, 6 marzo 2021 Giovedì prossimo si torna a parlare di carcere presentazione on line del XVII Rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone. “Oltre il virus” è il titolo del XVII Rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone che sarà presentato giovedì 11 marzo, alle ore 11.00, in diretta sulla pagina Facebook e il canale YouTube dell’associazione. Il Covid-19 ha colpito duro anche il sistema penitenziario. Abbiamo assistito a migliaia di contagi, sia tra i detenuti che gli operatori; allo scoppio di focolai; ad alcuni decessi. La pandemia ha messo in risalto tutte le criticità che da tempo denunciavamo. Ha isolato ancora di più il carcere dal resto della società. Gli sforzi delle istituzioni, come ovvio che sia, si sono concentrati in questa fase sul contenimento del coronavirus. Tuttavia bisogna guardare oltre il Covid-19. Con la sua scomparsa, che ci auguriamo avverrà presto, anche grazie alla somministrazione dei vaccini, non spariranno i problemi del sistema penitenziario e la pandemia deve rappresentare, in questo senso, l’occasione per non tornare indietro. Alla presentazione parteciperanno: Bernardo Petralia, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; Gemma Tuccillo, Capo Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità; Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Una giustizia classista: in carcere finisce l’ultimo anello della catena di Attilio Bolzoni* Il Domani, 6 marzo 2021 “I ragazzini di San Cristoforo ammanettati e incarcerati, i boss mafiosi che fanno affari coi soldi della droga e i figli della Catania bene indaffarati a cercare un altro posto dove comprare l’erba e la coca, prima di andare a una festa, prima di farsi uno spinello sotto la luna, davanti al mare”. È una mattina fredda di gennaio. Le sirene spiegate e il frastuono degli elicotteri incombono sulla via Stella Polare e i mezzi della polizia calano in forze fino al confine col vecchio quartiere San Cristoforo. Entrano nelle dimore che ospitano la miseria, quella vera, dove “improbabili giacigli sono calunniati come letti” e si portano via uomini e ragazzi impiegati nello spaccio della droga. Giovani disgraziati, vissuti nel disagio, hanno creduto che fosse più facile vendere fumo e bustine di coca anziché lavorare. Con due notti di spaccio riesci a comprarti un iPhone, mentre lavorando un mese in nero al mercato riesci a mala pena a sopravvivere. La mattina le foto degli arrestati sono esibite nella consueta conferenza stampa. In città i benpensanti si sentono rassicurati, come sempre. Ma se si riflette un attimo c’è poco da stare sereni. Questi sventurati condotti in carcere sono l’ultimo anello della catena del sistema sociale: la massa di manovra di un mondo dove la mafia e la “città bene” sono sfruttatori in misura eguale. La mafia gestisce i traffici reclutando ragazzi, e la Catania bene è il suo cliente finale. Sui “Siciliani Giovani”, il mensile diretto da Riccardo Orioles, Matteo Iannitti dipinge il quadro con parole che meritano di essere riportate nella loro interezza: “Non esiste immagine più nitida dell’ingiustizia della nostra città: i ragazzini di San Cristoforo ammanettati e incarcerati, i boss mafiosi che fanno affari coi soldi della droga e i figli della Catania bene indaffarati a cercare un altro posto dove comprare l’erba e la coca, prima di andare a una festa, prima di farsi uno spinello sotto la luna, davanti al mare”. Un dato che a molti fa comodo nascondere - più avanti spiegheremo il perché - è che la mafia ha mollato gli ormeggi allontanandosi dalla prima linea dei reati visibili. Ai ragazzini che vendono la droga di Cosa nostra non si contesta più il reato di mafia, eppure si sa che la droga è un affare da uomini d’onore. Anche i killer d’ora in poi saranno reclutati così, tenendo separati esecutori e organizzazione. Raccontando le più recenti vicende economiche di Cosa nostra ci siamo accorti che i patrimoni e gli interessi sono oramai separati dal mondo della strada. L’organizzazione (che era stata) violenta gioca adesso a carte coperte; si sente aggredita e monitorata; ha necessità di eludere i filtri e i controlli personali e patrimoniali; non può più sparare per aprirsi la strada degli appalti e dei traffici illeciti; deve rimanere invisibile. E dunque è assetata di alleanze istituzionali. Senza alleati che contano per Cosa nostra sarebbe già finita: dalla latitanza del suo esponente di spicco Messina Denaro, alla conservazione del suo cospicuo patrimonio. E non è più credibile che chi le garantisce appoggio lo faccia perché teme di essere ammazzato. Perché questa mafia può permettersi sempre meno le azioni di violenza visibili. Più essa si nasconde più crescono i concorrenti esterni, che sono diventati tantissimi. Ma davvero pochi di essi vengono puniti. Va chiarito che le inchieste che contrastano la mafia militare e gli affiliati che appartengono alle famiglie sono molto ben fondate e certamente esiste ancora una compattezza di gruppo e una pericolosità di costoro anche nella dimensione militare e tradizionale. Tuttavia col progredire della mia esperienza ho iniziato a provare un profondo senso di ingiustizia nel considerare un sistema che reprime i disgraziati che si espongono sulla strada, ma conduce verso la totale impunità chi fa affari con esponenti dei clan, si arricchisce stabilendovi alleanze e consente che siano violate le regole di imparzialità nella gestione dei beni pubblici. Perché è come se si volesse una giustizia a due velocità: che vuol vedere dietro le sbarre i brutti ceffi, ma che si gira dall’altra parte per non vedere chi alimenta per proprio interesse quella medesima realtà criminale. Detto questo sarà semplice comprendere perché i poteri pubblici e la legge penale - nella sua prevalente interpretazione - finiscano per essere molto più rigorosi con Santapaola Mazzei e i loro seguaci - che sono obiettivi visibili - piuttosto che con coloro che da esterni forniscono gli apporti che consentono a Cosa nostra di esistere o con i colletti bianchi che depredano risorse destinate agli ultimi creando disagio che si trasforma in mafia. Ma se si crea una distanza nel criterio di affermazione della responsabilità tra “appartenenti” e “concorrenti”, tra chi interpreta i fenomeni e chi li alimenta, la mafiosità finisce per diventare una condizione sociale di ceto, al pari di un requisito di nascita o di uno stigma sociale. Si comincia a prescindere dal contributo che un individuo fornisce al fenomeno mafioso e la mafia viene invece ricercata solo laddove è riconoscibile: su base familiare, di gruppo, di affinità, di frequentazione, di solidarietà. Al mafioso di squadra si riconosce la responsabilità penale perché la rozzezza della sua condizione lo rende facilmente incasellabile dentro il 416-bis. E cioè all’interno del “tipo sociale” meritevole di carcere e di repressione. Mentre il colletto bianco generatore del disagio da cui prende le mosse quella tipologia criminale, quando viene accusato di agevolare la mafia, è considerato una vittima della giustizia, perché distante da quel modello. I sistemi penali moderni dovrebbero punire più severamente chi contribuisce all’accrescimento dei fenomeni, e invece le classi dirigenti si preoccupano del contrario. Inizia a percepirsi una distinzione tra i “dannati di mafia”, che per il solo fatto di portare un certo cognome o di essere nati in un certo quartiere non possono intraprendere una attività - perché rischiano di non poterne giustificare la legittimità - e i veri fruitori e alimentatori del fenomeno mafioso, per i quali tutte le giustificazioni sono buone per dire che non sapevano, non potevano prevedere, non immaginavano di essere entrati in simbiosi con Cosa nostra. *Testi tratti dal libro “Cosa Nostra S.p.a.”, di Sebastiano Ardita Ha un tumore, perde sangue e teme minacce dagli ‘ndranghetisti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 marzo 2021 “È entrato in carcere con le sue gambe e ora è in carrozzina. Aveva tutti i suoi denti e ora ha perso il conto di quelli che non ha più, tra l’altro spariti dalla sua cella dopo una perquisizione”. A segnalare il caso all’associazione Yairaiha Onlus è la compagna di un detenuto malato oncologico. Ultimamente gli fuoriesce il sangue dal naso e dalla bocca con il sospetto che sia dovuto dalla terapia che sta facendo. Non solo. A ciò si aggiunge che è un detenuto in attesa di giudizio, ma è recluso in una sezione dove ci sono tutti condannati definitivi. Si professa innocente, dice di non appartenere al clan della ‘ndrangheta e si sente minacciato. Il risultato è che vive, volontariamente, come se fosse a un 41bis: 24 ore su 24 non esce dalla propria cella. Parliamo di Carmine Multari, un caso seguito da Yairaiha Onlus e che del quale si è già occupato Il Dubbio quando, una volta dismesso dall’ospedale perché ricoverato per aver contratto il Covid 19, è ritornato nel carcere di Opera nonostante il suo complesso quadro clinico. La compagna ha denunciato che Multari non è mai stato seguito adeguatamente né dal centro clinico dove era prima di contrarre il Covid né ora dove si trova nel primo reparto del carcere milanese. “La notte passata ha perso sangue dalla bocca e dal naso ma nessuno sembra ascoltarlo quando dice che i farmaci non sono adeguati a quella che dovrebbe essere la sua terapia. Gli stanno distruggendo il corpo”, racconta con preoccupazione la compagna. Il processo in corso si celebra presso il tribunale di Vicenza. Per questo ha chiesto di essere trasferito nel carcere vicino, ma anche perché c’è l’ospedale che lo aveva in cura e operato. Ma sta avendo difficoltà nonostante il parere positivo del Gup. La preoccupazione si fa più concreta quando il detenuto ha appreso che tra i medicinali che gli vengono somministrati vi sarebbe un farmaco “salvavita”. Ma ad oggi non è stata comunicata alcuna patologia tale da mettere a rischio imminente la sua vita. Il suo legale, l’avvocato Lorenzo Manfro, anche alla luce dei fenomeni di sanguinamento tanto dal naso quanto dalla bocca, ha chiesto con urgenza di avere una copia della cartella clinica aggiornata per poterla girare al medico di fiducia esterno alla struttura e capire effettivamente le sue condizioni di salute. Ma, com’è detto, a questo si aggiunge un altro grande problema. Lo stesso Multari ha inviato alle autorità competenti, dal Dap ai giudici dell’udienza preliminare, una missiva che ha come oggetto la dichiarazione del divieto di incontro con la popolazione detenuta. Premette che si reputa estraneo alle accuse contestategli, ossia di essere membro delle cosche “ndranghetiste”. Denuncia che nella struttura del carcere di Opera sono presenti detenuti definitivi, condannati perché appartenenti / affiliati a cosche della ‘ndrangheta. Multari sottolinea che ai sensi dell’articolo 14 dell’ordinamento penitenziario, la sua ubicazione non è quello dove è ubicato, poiché la legge prevede una separazione dai detenuti definitivi da quelli giudicabili. “Oggi - si legge nella lettera di Multari - sto vivendo nell’ansia e nella paura di ripercussioni da parte della popolazione detenuta”. Per questo chiede espressamente il divieto di incontro con l’intera popolazione detenuta poiché teme per la sua vita. Contestualmente chiede di essere trasferito per motivi di ordine e sicurezza in altro istituto penitenziario. “Nel caso che non diate corso alla mia richiesta e nel caso in cui mi succeda qualche aggressione tutte le A. G. destinatarie della presente sarete chiamati a risponderne penalmente nelle dovute sedi giudiziarie”, conclude la missiva indirizzata alle autorità competenti. L’associazione Yairaiha Onlus ha segnalato il caso alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e al garante nazionale delle persone private della libertà. Segnala che, appunto, le condizioni attuali sono “assolutamente peggiorate non solo sotto il profilo della salute per mancanza di cure adeguate ma sembra che anche le condizioni di detenzione abbiano superato quel limite imposto dall’articolo 27 della nostra Costituzione”. Per questo invita le autorità a voler intervenire affinché la dignità e la tutela dei diritti della persona vengano garantiti anche in condizioni di detenzione. “Dal penale al carcere, la giustizia va ricostruita libera da ideologie” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 6 marzo 2021 “Restituire credibilità ed efficienza alla giustizia costituisce oggi più che mai una necessità: nella crisi sociale ed economica, aggravata dalla pandemia, dobbiamo fare in modo che la giustizia non diventi un problema ma sia parte della soluzione dei problemi, contribuendo a restituire al Paese coesione sociale e competitività. Le condizioni ci sono tutte, il punto è saper cogliere le opportunità che la crisi ci ha dato e mettere a frutto la lezione che ci ha lasciato”, afferma la dottoressa Cristina Ornano, giudice a Cagliari e presidente nazionale di Areadg, il raggruppamento della magistratura progressista. Presidente, il governo è cambiato, il guardasigilli anche. Da dove partire? Urga cambiare metodo e approccio, abbandonando steccati e conflitti. Serve confronto e condivisione per trovare soluzioni strutturali e di ampio respiro che rispondano realmente all’interesse generale. Cosa non andava nel metodo precedente? La condivisione presuppone il confronto nel momento in cui si elaborano le proposte. Chiedere un parere quando una proposta di riforma è ormai bella e fatta è una cosa completamente diversa. Ha fiducia nella ministra Marta Cartabia? Sì, perché ha già dato prove positive in tal senso e perché è una donna che esprime insieme alla sua sensibilità competenze e valori molto alti: un mix che può fare la differenza. Parliamo invece di opportunità... Abbiamo un’occasione unica e imperdibile offerta dai fondi europei del Next Generation Eu, che ci danno la possibilità di progettare riforme strutturali e di medio e lungo periodo in modo da guardare, più che al processo, all’organizzazione giudiziaria, alla digitalizzazione, all’innovazione tecnologica, all’intelligenza artificiale. Tenendo sempre presente che il personale giudiziario dovrà essere il motore dell’innovazione organizzativa. E a tal proposito, l’unico settore nel quale negli ultimi dieci anni abbiamo avuto un recupero di efficienza, ossia il civile, è quello nel quale vi è stato un serio investimento in termini di innovazione tecnologica con il Pct. Un commento sulla riforma dell’ex ministro? Premesso che non ci servono più leggi manifesto, per dire che si è fatto qualcosa ma senza risolvere nulla o addirittura aggravando le cose, la riforma Bonafede era molto articolata e, quindi, lo è anche il giudizio su di essa. Alcune parti, penso all’organizzazione delle Procure, sono certamente apprezzabili; altre, come quelle che pretendono di assicurare tempi ragionevoli alla durata del processo imponendo ai magistrati di rispettare termini che non sono nella loro disponibilità e sanzionandone l’inosservanza con il disciplinare, sono totalmente irricevibili. Non servono ad assicurare una giustizia efficiente e giusta e si traducono in misure punitive contro i magistrati, veicolando il messaggio falso per cui le lentezze della giustizia sarebbero causate dalla nostra scarsa laboriosità. Cosa che anche l’ultimo rapporto Cepej smentisce. Anche il blocco della prescrizione, se non verrà controbilanciato da misure, come la prescrizione processuale, rischia di affossare definitivamente il processo penale e di tradursi in un capestro inaccettabile per le persone coinvolte nel processo. Su questo terreno è necessario un intervento di seria e coraggiosa depenalizzazione che alleggerisca il carico penale ormai insostenibile. In Italia ci sono troppi reati e troppi imputati e questo nuoce ad una azione di serio contrasto alla vera criminalità. Una riforma che andava fatta e che vorrebbe veder recuperata? Penso in particolare a quella sull’Ordinamento penitenziario. So bene che intorno al tema del carcere muovono molti pregiudizi, ma credo che la conoscenza dei problemi del carcere e dei detenuti aiuterebbe anche la politica a superare i pregiudizi. Il sistema italiano è carcerocentrico, e ci sono troppi detenuti. Occorre riprendere al più presto gli esiti degli Stati generali e dare avvio alla riforma che vada nel segno di una umanizzazione delle condizioni dei detenuti, apra alle pene alternative e alla giustizia riparativa. La prossima settimana Areadg organizzerà un convegno sulla giustizia tributaria. Può anticipare qualcosa? Da tempo stiamo dedicando particolare attenzione al tema della giustizia tributaria, perché lo riteniamo un settore strategico per il Paese e ingiustamente trascurato. Qualche mese fa abbiamo organizzato un seminario in cui sono emersi due dati: il primo è che esiste una generale condivisione sulla necessità di una riforma della giustizia tributaria, il secondo è che non vi è una idea condivisa sul come la riforma debba essere fatta. Il rischio è che in un sistema come questo, non riformato da troppo tempo, nelle pieghe dei problemi si possano insinuare posizioni di potere, rendite, interessi partigiani che potrebbero rendere difficile il cammino verso una riforma capace di restituire efficienza e trasparenza. Punti cardini dovranno essere la professionalizzazione del giudice tributario, la formazione, la sua autonomia e indipendenza effettiva. In Cassazione metà del contenzioso civile è presso la Sezione tributaria... È uno dei nodi della crisi della giustizia tributaria, ma insieme è una delle chiavi di soluzione del problema. Nel tributario, specie in Cassazione, si affrontano questioni giuridiche tecnicamente complesse e occorre fare i conti con una normativa in rapido mutamento: quello della nomofilachia è un tema delicatissimo. I tempi “irragionevoli’ del processo e un arretrato, oltre 52mila cause, ormai non più gestibile con le misure ordinarie, rendono il compito complicato da realizzare. Restituire efficienza alla giustizia tributaria specie in Cassazione è un obiettivo ineludibile per i contribuenti che attendo risposte, ma anche per l’intera organizzazione della Corte, penalizzata da questo esorbitante arretrato. Affronteremo il tema dell’abbattimento dell’arretrato nel convegno della prossima settimana in cui abbiamo chiesto agli attori ed esperti del processo tributario di confrontarsi su quali misure mettere in campo con i fondi europei per incidere su quel grave carico giudiziario. La riforma del processo tributario sarà oggetto, invece, di un prossimo convegno. Si sente di dire qualcosa sulla vicenda “Palamara”? Dopo i fatti dell’hotel Champagne e le chat di Palamara, la magistratura appare divisa al suo interno e fatica a superare il momento di crisi. È così. La crisi ha attinto tutti e ha creato un senso di sfiducia soprattutto in chi, e sono la stragrande maggioranza dei magistrati, a quella caduta etica era ed è estraneo. Il rischio è che la reazione sia un ripiegamento in un’autoreferenzialità corporativa, che porterebbe la magistratura ancora più lontana dai cittadini. La magistratura deve invece saper riformare se stessa per difendere i valori dell’autonomia e dell’indipendenza quali precondizioni per assolvere all’alta funzione che la Costituzione le assegna. La mossa di Cartabia: cambiare la prescrizione senza umiliare i 5 stelle di Errico Novi Il Dubbio, 6 marzo 2021 Marta Cartabia chiede di cambiare la prescrizione senza strappi. Martedì nuovo vertice di maggioranza. Lunedì 15 marzo l’intervento nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Poi la ministra chiederà ai partiti una sintesi, che superi la norma Bonafede. Altrimenti a fine mese sarà lei a prendere l’iniziativa. È l’ora. Certo, detto così sembra il finale di una tragedia. Non lo sarà. Né per il Movimento 5 Stelle né per chi, come Marta Cartabia e alcuni leader di maggioranza, dovrà dirigere il lungo addio alla legge Bonafede. Ma intanto si può parlare di un piccolo drammatico passaggio destinato a consumarsi nella coalizione di governo. Sulla giustizia penale, of course. Cambierà la prescrizione. Nel giro di qualche settimana sapremo come. E lo sapremo in parte martedì prossimo, giorno in cui la guardasigilli ha fissato un vertice di maggioranza a via Arenula (da svolgersi almeno in parte “in presenza”). Se ne saprà di più e meglio la settimana ancora successiva, a un’ora e un giorno esatti, cioè lunedì 15 marzo alle 15: in quella occasione Cartabia esporrà le linee programmatiche in commissione Giustizia alla Camera, e poco dopo lo farà in Senato. Si capirà (quasi) tutto il 29 marzo, quando scade il termine degli emendamenti alla riforma del processo penale. In quel ddl è incistato il lodo Conte bis, ed è lì che in un modo o nell’altro si cercherà di rimettere a posto la prescrizione soppressa da Bonafede. I protagonisti del vertice (e della trattativa) - Primo step martedì prossimo dunque. Due giorni fa la ministra della Giustizia ha fatto partire gli inviti per il vertice. Ci saranno i presidenti delle due commissioni Giustizia: Mario Perantoni, deputato 5 stelle, e Andrea Ostellari, senatore leghista. Con loro i sottosegretari alla Giustizia, pure connotati con bilanciata giustapposizione: la pentastellata Anna Macina e l’azzurro Francesco Paolo Sisto. In più, il folto numero dei capigruppo di maggioranza nelle due commissioni. Certamente presenti dunque i protagonisti del dibattito sul ddl penale alla Camera, da Enrico Costa di Azione a Giovanni Bazoli del Pd, da Pierantonio Zanettin di Forza Italia e Carla Giuliano dei 5 stelle fino a Federico Conte di Leu e Lucia Annibali di Italia viva. Il primo autore dell’omonimo lodo, la seconda titolare dell’emendamento anti Bonafede. Non ci sarà un dibattito serrato. Ma una intesa sul metodo sì: si discute, si avanzano proposte, non si scatenano guerre. Dai colloqui che la guardasigilli ha avuto con diversi esponenti dei partiti di maggioranza è emersa fra l’altro una sua precisa intenzione: nessuno deve essere mai messo nelle condizioni di sentirsi isolato ed escluso dal dialogo. Vale anche per il Movimento 5 Stelle in materia penale e in particolare per la prescrizione di Bonafede. Cosa esattamente ne potrà conseguire, non è scontato. Ma una cosa è certa: gli emendamenti che modificano la legge cara ai 5 stelle non saranno affatto proibiti. E soprattutto, non si può escludere che sia proprio la ministra a proporre non una piccola azione di microingegneria legislativa, ma un complesso di interventi che rimodellino il ddl penale del suo predecessore su alcuni aspetti. Prescrizione compresa. Il ruolo di Enrico Costa - È possibile che finisca proprio così. Non è scontato. Ma c’è un aspetto da cui dipende molto. E riguarda Enrico Costa, il parlamentare che più di tutti, in assoluto, si è battuto contro la norma di Bonafede. Cartabia gli ha espresso sincero apprezzamento per la scelta di annunciare prima di altri il ritiro degli emendamenti anti Bonafede dal decreto Milleproroghe. Alla mossa del deputato di Azione (ed ex viceministro alla Giustizia con FI) è seguita l’adesione al disarmo da parte di Forza Italia, Lega e Italia viva. E ancora, la prima riunione con Cartabia a Montecitorio subito dopo il voto di fiducia a Mario Draghi, poi il no con sfumature variate all’emendamento trappola lanciato da Fratelli d’Italia in Aula. Costa è considerato interlocutore non eludibile anche dal Pd, che aveva suggerito per lui un incarico da relatore sul ddl penale, ora ricoperto dal dem Franco Vazio e dalla 5 stelle Giulia Sarti. Non si può escludere il sorprendente avvicendamento fra uno dei due deputati dell’ex maggioranza giallorossa e Costa, che prenderebbe il timone di un ddl scritto dal suo grande avversario, l’ex guardasigilli. In tal caso, la ministra Cartabia potrebbe affidare proprio al deputato di Azione uno sforzo di sintesi sulla riforma del processo, che comprenda anche la modifica della prescrizione. Cambia la prescrizione, ma non solo - È un’ipotesi realistica anche perché il deputato di Azione avrebbe già messo a punto un pacchetto integrato di modifiche, che vanno dal recupero di una vecchia proposta sua e di Gaetano Pecorella con cui diventa necessario far precedere l’interrogatorio all’eventuale misura cautelare detentiva, fino alle diverse modifiche che includerebbero anche la prescrizione per fasi. L’articolato disegno riformatore prevede la decadenza dell’azione penale come sanzione per il mancato rispetto di tempi limite massimi (anche nella fase delle indagini) e modellati in base alla complessità. Nel caso dei maxi processi di mafia, per intenderci, i tempi limite resterebbero molto lunghi. Costa potrebbe dunque tentare un dialogo anche con i 5 Stelle su tale impostazione, che peraltro riprende molte proposte della “vecchia” commissione ministeriale Fiorella, riferimento cruciale per ogni ipotesi seria di revisione sul processo. E se l’ex viceministro si mostrasse disponibile a superare la prescrizione di Bonafede senza rinunciare alla mediazione, l’iniziativa resterebbe sua. Se invece il dialogo non funzionasse, Cartabia prenderebbe l’iniziativa e probabilmente avanzerebbe lei, come ministra, una proposta di revisione del ddl che intervenga su diversi aspetti. Prescrizione inclusa, comunque. Ma l’intento della guardasigilli sembra orientato a promuovere, da martedì in poi, il più possibile una soluzione concertata fra le forze di maggioranza. Graduale ma efficace. Preferirebbe che il Movimento 5 Stelle non finisse all’angolo. Né che succeda ad altri con provvedimenti altrettanto controversi, come la riforma del Csm, di cui pure si parlerà martedì. La guardasigilli esporrà l’ipotesi, essenziale per il Recovery plan, di un decreto che anticipi alcuni aspetti della nuova giustizia civile, in particolare sulla crisi d’impresa. Ma soprattutto, chiederà di avere uno sguardo costituzionale, il meno ideologico possibile. A tutti. A Costa come ai pentastellati. Risolvere, senza mortificare nessuno. Ma senza nemmeno eludere le scadenze. La riforma della giustizia per dare certezze al Paese di Riccardo Riccardi Il Tempo, 6 marzo 2021 Il giustizialista non può essere democratico. Per definizione. Il suono che ama è il tintinnar di manette. Lo esaltano la gogna mediatici, lo sbattere il mostro in prima pagina. È un acceso sostenitore di leggi punitive che, se non più di moda il rogo, devono prevedere pene rigorose nella convinzione che tutti siamo colpevoli anche se ignari del misfatto compiuto. Da passare per le armi. Le leggi, abbattuto il dispotismo, hanno una funzione di indirizzo a tutela dei cittadini. Chi commette dei reati è giusto che paghi e che sconti la privazione della libertà che, secondo Frà Savonarola, “è più preziosa che l’oro e l’argento”. Per Montesquieu, però, “la pena che non derivi dalla assoluta necessità è tirannica”. Tanto che per Victor Hugo “essere buono è facile il difficile è d’esser giusto”. Sono anni che sentiamo ripetere come l’Italia soffra di una asfissiante burocrazia che, per normative sovrapposte e contraddittorie, toglie il fiato a tante iniziative economiche. La conseguenza è la deficienza di produttività che impedisce la modernizzazione del Paese sostenuto a debito e provvidenze. Micce pericolosamente accese sempre più vicine al barile di polvere. La funzione dello Stato è quella di regolatore altrimenti diventa oppressivo e secondo Tacito “non c’è mai da fidarsi di un potere eccessivo” Negli anni tanti hanno auspicato le riforme in particolare quella della giustizia sia civile che penale. La prima per dare certezza al mondo degli affari, grandi o piccoli che siano, la seconda per ridare al Paese, una volta Maestro, la civiltà giuridica. Che, non va dimenticato, è la base per ridurre la povertà, creare posti di lavoro e ridare al nostro Paese la dignità che merita. “Apocalisse” Covid: profondo rosso per sette avvocati su dieci di Simona Musco Il Dubbio, 6 marzo 2021 Redditi giù, futuro sempre più incerto e giovani e donne penalizzati, specie al Sud. Sono alcuni dei dati emersi dal V Rapporto Censis sull’avvocatura. Il reddito che cala. Il futuro sempre più incerto. E giovani e donne, specie nel Sud del Paese, in difficoltà. Sono alcuni dei dati emersi dal V Rapporto Censis sull’avvocatura italiana e dal terzo Bilancio sociale di Cassa Forense. Un rapporto, ha sottolineato Nunzio Luciano, presidente dell’ente previdenziale dell’avvocatura, “che segnala il clima di incertezza professionale nel quale vivono gli avvocati, per le difficoltà causate dalla pandemia e per i noti problemi che affliggono il nostro Paese. Cassa Forense sta facendo la sua parte per dare sostegno all’avvocatura con le misure assistenziali straordinarie, la temporanea abrogazione del contributo minimo integrativo per gli anni 2018-2022 e con il progetto di riforma del sistema previdenziale forense, al quale stiamo lavorando”. Il rapporto mette in evidenza dati interessanti. Come l’urgenza, avvertita dal 35 per cento degli italiani, di riformare la giustizia, la crescente sfiducia nella magistratura, l’insofferenza per la lentezza dei processi. Ma anche una valutazione positiva della figura dell’avvocato, che per oltre la metà del campione è “essenziale” nel sistema di tutela dei diritti. Dati che si mescolano a quelli che, invece, certificano il periodo di forte crisi vissuto dalla professione. Redditi in calo - I numeri parlano chiaro: prima del Covid, il reddito professionale medio era di 40.180 euro. Ma con l’avvento della pandemia, più della metà degli avvocati intervistati (in totale sono oltre 14mila) si è spostata nella fascia di reddito uguale o inferiore a 30mila euro, mentre a supera la soglia dei 50mila euro è il 22,6% degli intervistati. Il calo ha interessato principalmente chi già stava sotto i 15mila euro, ovvero circa il 60%. Si tratta in particolare di donne (61,2%) - che quest’anno superano numericamente gli uomini tra gli iscritti -, di giovani (38,8% fino a 40 anni), di coloro che hanno una minore anzianità professionale (38,8%) e coloro che lavorano nel Mezzogiorno (50,9%). Dati che spingono sette avvocati su dieci a definire critica la situazione lavorativa, dopo la ripresa registrata tra il 2018 e il 2019, quando la crescita del fatturato aveva interessato circa un terzo dei professionisti. E ciò provoca non poca preoccupazione per il futuro: solo il 29,9% ha dimostrato di nutrire speranze per un miglioramento nei prossimi anni. Le misure di sostegno - Il crollo dei redditi ha obbligato molti professionisti ad usufruire degli aiuti forniti dallo Stato, come il Reddito di ultima istanza, al quale ha fatto ricorso il 61,5% degli avvocati. Che però non sono molto soddisfatti: il 54,7% ha definito inadeguata la somma percepita, il 30,8% del tutto inadeguata, mentre solo il 14,5% si è espresso favorevolmente. Ma ad aiutare gli avvocati ci ha pensato anche Cassa Forense, che ha messo a disposizione diverse iniziative, attraverso 13 bandi, tra i quali il “preferito” è risultato essere quello per l’erogazione di contributi riguardanti i canoni di locazione degli studi professionali (7,6% nel caso di persone fisiche, 2,6% nel caso di studi associati o società tra avvocati). Lavoro e lockdown - Il lockdown non ha colpito solo i redditi, ma anche e soprattutto il modo di lavorare. “Costringendo” ad una smaterializzazione della professione, un lavoro a distanza che alla maggior parte non piace. Per ragioni d’età e la conseguente scarsa dimestichezza con i mezzi tecnologici, in alcuni casi, ma soprattutto perché il rapporto personale col cliente rappresenta un elemento imprescindibile quasi per tutti. Così come lo è il Tribunale, nella sua fisicità. Il 29,6% ha scelto di lavorare esclusivamente da remoto, mentre circa quattro avvocati su dieci hanno tentato di bilanciare il lavoro da casa con quello in studio. Il 15.9%, invece, ha deciso di continuare a lavorare alla vecchia maniera. Ma c’è anche chi si è visto costretto a interrompere completamente la propria attività per problemi organizzativi. In ogni caso l’elemento critico è chiaro: “La difficoltà di contatto con la clientela o con gli altri colleghi, considerando fondamentale per la professione l’aspetto relazionale”. I favorevoli sono pochi: solo il 14,8% del campione, prevalentemente tra i giovani. Mentre circa un quinto degli intervistati, soprattutto sopra i 50 anni, giudica negativamente l’esperienza. Ma a pesare più di ogni cosa è stato il rallentamento delle attività dei Tribunali e la sospensione dell’attività giudiziaria (34,6%). A fianco a questo, problematico è stato anche l’accesso atti giudiziari, soprattutto a causa di un’incompleta digitalizzazione (4,7%), nonché la paura di poter essere contagiati (4%). Giustizia e diritti - Otto cittadini su 10 non hanno chiesto aiuto agli avvocati. Prevalentemente perché rinunciare al contatto diretto, sfruttando solo i mezzi tecnologici, è stato visto come un ostacolo, sebbene per circa il 44% le tecnologie siano state d’aiuto. Le criticità maggiori avvertite dai cittadini sono quelle che riguardano i ritardi nelle procedure e nella tenuta delle udienze, insopportabili per il 39,3% degli intervistati. Mentre poco più di un quinto ha deciso di rinunciare alla richiesta di tutela, anche a causa delle restrizioni e per i costi legati all’avvio delle procedure. Lo scontento riguarda però i tempi lunghi per arrivare a un giudizio definitivo (15,8%), ma anche la sfiducia nei confronti della magistratura e nel funzionamento della Giustizia (14%). Da qui l’esigenza, da parte del quasi quattro italiani su dieci, di arrivare in tempi brevi ad una riforma per riavviare la crescita del Paese. Ma emerge anche l’esigenza “di rinnovamento di un sistema chiamato a tutelare i diritti dei cittadini e che attualmente non è più in grado di fare”, sistema al cui interno gli avvocati giocano un ruolo essenziale per garantire tale tutela, secondo il 50,7% degli intervistati. Una buona fetta (40,8%) li considera utili, riconoscendo loro le difficoltà legate all’eccesso di norme e alla bassa qualità delle stesse. A pensarlo sono quasi tre italiani su dieci. “L’aspetto positivo - ha spiegato il segretario generale del Censis, Giorgio De Rita - è la forte accelerazione delle riforme e degli investimenti pubblici. Ed è il momento di fare quelle riforme che aspettavamo da tempo, prima fra tutti quella della Giustizia. E poi c’è una domanda di tutela per nuovi diritti, pensiamo alla tutela ambientale, alle nuove tecnologie, alla privacy. Ciò apre non soltanto un panorama nuovo per poter esercitare la professione, ma anche un ambito nuovo per l’applicazione dei principi giuridici e della professione”. Si sta male ma si sopravvive, dicono molti degli avvocati intervistati. Ed è per questo che, secondo Maria Masi, presidente del Consiglio nazionale forense, è necessario sfruttare il momento “per trimodulare, ripensare e progettare in una visione più ampia” la professione. Il dato del “sorpasso” ad opera delle donne sugli uomini, ha aggiunto, è positivo. Ma sarà necessario che tali numeri vengano confermati negli anni. Ovvero che le donne, per motivi non strettamente legati a scelte libere, si ritrovino a dover cancellare la propria iscrizione all’albo. Senza dimenticare l’esigenza di colmare il gap salariale, “condizione generale, ma molto forte nell’avvocatura. Gran parte delle cause è ascrivibile alla difficoltà di conciliare i tempi di vita e di lavoro, perché gli oneri di cura sono ancora appannaggio delle donne in maniera preponderante. Questa emergenza sanitaria l’ha reso ancora più evidente - ha aggiunto. Per quanto ci riguarda molto dipende dalla possibilità di trovare nuovi spazi. Il Cnf ha messo a disposizione delle istituzioni una proposta di riforma che comprende anche questo, in termini di sussidiarietà, di individuazione di nuovi percorsi, della possibilità che l’avvocatura diventi protagonista anche di altri strumenti, quelli alternativi alla giurisdizione”. Masi ha anche evidenziato la necessità di offrire altri campi di qualificazione professionale, sempre nella direzione di un rafforzamento delle competenze, partendo da lontano, con una riforma dell’accesso alla professione. La cui necessità è risultata particolarmente evidente in relazione alla pandemia: proprio per questo il Cnf ha proposto un doppio orale, con una prima prova selettiva che sostituisca lo scritto e una seconda che rappresenti l’orale vero e proprio. Antimafia. I 25 anni della legge sull’utilizzo a fini sociali dei beni confiscati di Antonio Maria Mira Avvenire, 6 marzo 2021 La norma venne approvata il 7 marzo 1996. Nel dossier di Libera le storie di 867 buone prassi in 17 regioni. Ma ancora il 50% resta inutilizzato. C’è una bella Italia che combatte le mafie con concrete esperienze di riscatto e rinascita. Sono le 867 realtà, associazioni, cooperative, diocesi, parrocchie, che gestiscono beni confiscati alle mafie. Sono il più bel risultato della legge 109 del 1996 che domenica 7 marzo compie 25 anni. Una legge nata dopo la stagione delle stragi mafiose del 1992-93, presentata nel 1994 da Giuseppe Di Lello, ex componente del pool antimafia di Falcone e Borsellino, e fortemente sostenuta dall’associazione Libera che raccolse e inviò al Parlamento ben un milione di firme a sostegno di una legge che introduceva l’uso a fini sociali dei beni tolti alle mafie, un fondamentale passo in avanti dopo la legge Rognoni-La Torre del 1982 che prevedeva la confisca di tali beni. Da allora sono più di 36mila i beni immobili confiscati, il 48% sono stati destinati dall’Agenzia nazionale (Anbsc) per le finalità istituzionali e sociali, ma ben 5 beni su 10 rimangono ancora da destinare. Il maggior numero di beni immobili confiscati e destinati sono in Sicilia (6.906), segue la Calabria (2.908), la Campania (2.747), la Puglia (1.535) e la Lombardia (1.242). Sono invece 4.384 le aziende confiscate e di queste il 34% è stato già destinato alla vendita o alla liquidazione, all’affitto o alla gestione da parte di cooperative formate dai lavoratori delle stesse; il 66% è ancora in gestione presso l’Anbsc. Anche qui la Sicilia è prima con 533 aziende destinate, segue la Campania (283), la Calabria (204) e il Lazio (160). Sono i dati del dossier Fattiperbene realizzato la Libera in occasione dei 25 anni della legge. Nel dossier Libera ha mappato le esperienze di riutilizzo dei beni confiscati per finalità sociali “per raccontare una nuova Italia, che si è trasformata nel segno evidente di una comunità alternativa a quelle mafiose, che immagina e realizza un nuovo modello di sviluppo territoriale”. Gli 867 soggetti del terzo settore impegnati nella gestione di beni immobili confiscati alla criminalità organizzata, ottenuti in concessione dagli enti locali, si trovano in ben 17 regioni su 20, a conferma della pervasività delle mafie. Più della metà delle realtà sociali è costituito da associazioni di diversa tipologia (468) mentre le cooperative sociali sono 189. Tra gli altri soggetti gestori del terzo settore, ci sono 11 associazioni sportive dilettantistiche, 23 soggetti del terzo settore che gestiscono servizi di welfare sussidiario in convenzione con enti pubblici (tra cui aziende sanitarie, enti parco e consorzi di Comuni), 36 associazioni temporanee di scopo o reti di associazioni, 70 realtà del mondo religioso (diocesi, parrocchie e Caritas), 26 fondazioni, 14 gruppi scout e 6 istituti scolastici di diversi ordini e gradi. La regione con il maggior numero di realtà sociali che gestiscono beni confiscati alle mafie è la Sicilia con 218 soggetti gestori, segue la Calabria con 147, la Campania con 135 e la Lombardia con 133. Storie non facili. Mediamente nel campione del censimento di Libera tra il sequestro e l’effettivo riutilizzo sociale trascorrono ben 10 anni. E questo provoca degrado e altre conseguenze negative dei beni. Una legge che, comunque, funziona ma che ha bisogno di alcuni interventi per migliorarne l’efficacia. Per questo Libera chiede l’effettiva estensione ai corrotti delle norme su sequestri e confische previste per gli appartenenti alle mafie, con la loro equiparazione e l’attuazione della riforma del codice antimafia nelle sue positive innovazioni. Era già previsto nella proposta di legge di 25 anni fa, ma poi il Parlamento la escluse. Libera chiede, inoltre, l’assegnazione di adeguati strumenti e risorse agli uffici giudiziari competenti e all’Agenzia nazionale in tutto il procedimento di amministrazione dei beni, prevedendo il raccordo fra la fase del sequestro e della confisca fino alla destinazione finale del bene e assicurando il necessario supporto agli enti locali. E ancora la piena accessibilità delle informazioni sui beni sequestrati e confiscati e la promozione di percorsi di progettazione partecipata del terzo settore e di monitoraggio civico dei cittadini. Inoltre la destinazione di una quota del Fondo Unico Giustizia, delle liquidità e dei capitali confiscati ai mafiosi e ai corrotti, per rendere fruibili i beni mobili e immobili e sostenere la continuità delle attività aziendali, tutelandone i lavoratori, nonché per dare supporto a progetti di imprenditorialità giovanile, di economia e inclusione sociale. Infine l’utilizzo delle risorse previste per la valorizzazione sociale dei beni confiscati nella proposta di Piano nazionale di ripresa e resilienza Next Generation Eu, assicurando un percorso di trasparenza e di partecipazione civica nella progettazione e nel monitoraggio. Dana Lauriola. Anche i magistrati firmano per liberare l’attivista no-Tav di Giulia Merlo Il Domani, 6 marzo 2021 È partito un appello per la liberazione di Dana Lauriola condannata a due anni per violenza privata. Aveva partecipato al blocco di un casello autostradale durato venti minuti. Sta prendendo corpo la mobilitazione per chiedere di liberare l’attivista no Tav Dana Lauriola, in carcere da quasi sei mesi in esecuzione di una condanna a due anni per il reato di violenza privata. L’appello lanciato il 4 marzo e indirizzato alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, al garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e a quello di Torino Bruno Mellano, ha già raccolto oltre 200 firme di intellettuali, politici, professori, avvocati e anche magistrati. La trentottenne Dana Lauriola, storica attivista No Tav, è stata arrestata la notte del 17 settembre 2020 dalla sua casa di Bussoleno, in Val di Susa e sta scontando nel carcere di Torino Le Vallette una condanna di due anni per violenza privata e interruzione aggravata di servizio di pubblica necessità, confermata dalla Cassazione. I fatti risalgono al 2012, quando Lauriola partecipò a una protesta contro la Torino-Lione durante la quale 300 persone bloccarono per circa venti minuti il casello autostradale di Avigliana, sulla Torino-Bardonecchia, alzando le sbarre del pedaggio e facendo passare gli automobilisti senza pagare, bloccando con il nastro adesivo l’accesso ai tornelli del casello. Il danno quantificato è stato di 777 euro di pedaggi non pagati, già rimborsati dagli attivisti. L’avvocato di Lauriola, Claudio Novaro, aveva commentato l’arresto e la decisione del tribunale di Torino di non accogliere la richiesta di misure alternative definendola “incomprensibile” e “del tutto stonata rispetto alle relazioni dei servizi sociali che hanno perorato la messa in prova, invece il tribunale la ha mandata in carcere”. Oltre al rifiuto delle misure alternative, nel gennaio scorso la direttrice del carcere ha fatto richiesta al tribunale di sorveglianza di censurare la posta di Lauriola, con la motivazione di un tentativo di fare propaganda dentro la struttura detentiva. Il magistrato, però, ha rigettato la domanda per “mancanza di fatti aderenti a tale richiesta”. L’appello indirizzato alla ministra Cartabia si fonda proprio sul rigetto dell’istanza di misure alternative: “Denunciamo, da un lato, l’evidente sproporzione tra i fatti (commessi senza violenza alle persone e con un danno patrimoniale di assoluta modestia) e la pena e, dall’altro, la sorprendete anomalia della mancata concessione di una misura alternativa al carcere (pur consentita dalla legge e coerente con le condizioni soggettive di Dana). Il nostro stupore e la nostra preoccupazione, poi, aumentano guardando alle motivazioni con cui l’istanza di misura alternativa è stata respinta: Dana non può beneficiare della pena alternativa e, quindi, merita il carcere per aver tenuto fermi i propri “ideali politici” e la propria opposizione al Tav e perché abita nella valle”. Tra i firmatari, che sono oltre duecento, ci sono l’ex deputato Luigi Manconi e Luciana Castellina, la scrittrice Michela Murgia e la saggista Lea Melandri, le registe Sabina Guzzanti e Emma Dante, il vignettista Sergio Staino ma anche il pm del processo sulla trattativa stato-mafia Vittorio Teresi, l’ex magistrato e membro del Csm Giovanni Palombarini e la magistrata e relatrice speciale dell’Onu sulla tratta degli esseri umani, Maria Grazia Sammarinaro. Campania. Lotta al Covid, ecco il piano per vaccinare 11mila tra detenuti e poliziotti di Viviana Lanza Il Riformista, 6 marzo 2021 Il piano vaccinale per il mondo penitenziario finalmente c’è. Il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone ha confermato che sono stati fissati i criteri di priorità e concordate le modalità organizzative per la somministrazione dei vaccini al personale che lavora all’interno delle strutture campane e ai detenuti. C’è anche una previsione sui tempi che saranno necessari per avviare le vaccinazioni, ma la data è l’unico dettaglio su cui è difficile essere sicuri e su cui resta per il momento un velo di incertezza perché bisogna fare i conti con fattori esterni che riguardano tempistiche ed entità delle forniture. La riserva sulla data, quindi, dovrà scioglierla la Regione non appena saranno disponibili i vaccini e si sarà effettivamente pronti per partire con la somministrazione all’interno delle quindici carceri campane. La speranza e il progetto, tuttavia, sono orientati affinché la data di inizio sia molto vicina, questione anche di giorni se non ci saranno intoppi. “Tutto sta nella disponibilità dei vaccini - spiega il provveditore Fullone -L’intenzione è quella di compattare il più possibile l’intervento”. Si partirà, oltre che dalle categorie più fragili come già accade anche fuori dal carcere, con la vaccinazione degli agenti della polizia penitenziaria e del personale che lavora negli istituti di pena della Campania, perché spostandosi tra fuori e dentro il carcere sono potenzialmente più esposti al rischio di diventare vettori di contagi. In una fase immediatamente successiva - “ma l’idea sarebbe riuscire a partire in maniera contestuale”, chiarisce Fullone - si procederà alla vaccinazione dei detenuti. Per motivi di sicurezza e di organizzazione, i detenuti saranno vaccinati all’interno delle strutture penitenziarie e, laddove non vi siano presidi interni attrezzati per interventi di pronto soccorso sanitario, si procederà con il supporto di unità mobili. Per il personale, invece, le vaccinazioni saranno eseguite in strutture al di fuori di quelle penitenziarie. Nel complesso, si tratta di attuare un piano vaccinale su una popolazione di 11mila persone, ammesso che tutti ne facciano richiesta. La decisione sul piano è arrivata ieri al termine di una riunione tecnica dell’Osservatorio regionale per la sanità penitenziaria a cui hanno partecipato il provveditore regionale, i dirigenti e i responsabili sanitari penitenziari, il garante campano dei detenuti e i rappresentanti del Dipartimento di giustizia minorile della Campania. Dunque, a un anno esatto dall’esplosione della pandemia, dal primo lockdown e dai primi casi di positività all’interno delle carceri si parla finalmente di vaccini anche per il mondo dietro le sbarre. Il bilancio di questo anno appena trascorso è stato drammatico come in tutto il Paese e in tutto il mondo. Il Covid è entrato nelle carceri creando nuovi drammi e nuove tensioni. Non sempre, nei mesi scorsi, è stato facile gestire le emergenze, i casi di positività, gli isolamenti necessari perché, si sa, in carcere gli spazi sono minimi e il sovraffollamento è stato più che mai un problema. Oggi i dati sui contagi nelle strutture penitenziarie campane parlano di 22 detenuti positivi al Covid, di cui 8 a Poggioreale, 7 a Secondigliano, 6 a Carinola e 1 ad Avellino (si tratta di un cosiddetto nuovo giunto), e di 53 contagiati tra gli agenti di polizia penitenziaria, di cui sei in terapia intensiva e 22 provenienti dal carcere di Carinola dove si è registrato uno dei focolai più violenti, con tre agenti morti nelle scorse settimane. Negli ultimi mesi i contagiati in Campania sono stati 1.644: 862 agenti, 724 detenuti, 58 operatori penitenziari. E dieci sono state le vittime della pandemia: cinque agenti, quattro detenuti e un dirigente medico. “Anche nella nostra Regione, realisticamente per la metà di marzo, partirà la campagna vaccinale per istituti penitenziari e luoghi di comunità - afferma il garante dei detenuti Samuele Ciambriello - La particolare condizione delle persone ristrette richiede una valutazione equa della vulnerabilità a cui sono esposte. E, dopo il vaccino contro il virus, servirà il vaccino contro l’indifferenza verso quelle misure alternative alla detenzione che alleggerirebbero notevolmente il pianeta carcere da ulteriori vittime di questa pandemia”. Toscana. Accordo per la legalità tra istituti penitenziari e garanti dei detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 6 marzo 2021 Collaborare per tutelare i diritti dei detenuti, migliorare la qualità di vita e rispettare la legalità negli istituti penitenziari della Toscana, sono gli intenti principali del protocollo d’intesa biennale siglato fra il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, Carmelo Cantone, il garante dei detenuti per la Toscana, Giuseppe Fanfani, e i garanti comunali. L’accordo è stato firmato ieri e presentato alla stampa nell’aula consiliare del Consiglio regionale alla presenza del presidente Antonio Mazzeo. La convenzione, sulla base della disciplina generale delle visite nelle carceri, contenuta negli articoli 67 dell’Ordinamento penitenziario e 117 del DPR 230/2000, definisce più nel dettaglio le regole relative all’accesso dei garanti negli istituti e agli impegni delle parti in attività, azioni e collaborazioni. “Il senso del protocollo - ha dichiarato il provveditore Carmelo Cantone - è di lavorare insieme all’abbattimento del ‘colesterolo burocratico’, come lo definiva Mino Martinazzoli, ministro della Giustizia negli anni Ottanta. Dobbiamo rendere tutto più semplice e trasparente, metterci in gioco e condividere progetti e criticità”. Di rilievo l’impegno dei garanti a promuovere azioni congiunte con l’Amministrazione Penitenziaria per “sollecitare, suggerire e valutare l’attività degli organismi regionali, provinciali e comunali competenti in materia di diritti dei detenuti”. Amministrazione penitenziaria e garanti hanno, del resto, già sollecitato in più occasioni Regioni e ASL a organizzare, con urgenza, somministrazioni vaccinali nelle carceri. Il presidente Antonio Mazzeo - che nel suo intervento ha ribadito l’intenzione di rendere il consiglio regionale “sempre più il luogo per dare voce a chi ha meno voce” -, ha in proposito sottolineato l’impegno a collaborare per mettere al più presto in sicurezza personale penitenziario e detenuti. All’incontro erano presenti i garanti comunali di Livorno Marco Solimano, Lucca, Alessandra Severi, Pisa, Alberto Marchesi, Porto Azzurro, Tommaso Vezzosi, e San Gimignano, Sofia Ciuffoletti. Il garante per la Toscana, Giuseppe Fanfani, ha sottolineato come l’accordo realizzi quella leale collaborazione che è tra “i principi fondamentali dei rapporti interistituzionali nelle democrazie avanzate”. Campania. L’impegno di “Carcere possibile Onlus” per i detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 marzo 2021 Mercoledì scorso, il Provveditore regionale della Campania Antonio Fullone e la Presidente dell’Associazione “Carcere Possibile Onlus”, l’avvocata Anna Maria Ziccardi, presso la sede del PRAP in Via Nuova Poggioreale a Napoli, hanno sottoscritto un protocollo di intesa che intende valorizzare la condivisione di esperienze, professionalità, risorse e opportunità da convogliare in un modello integrato di buone prassi e sviluppo di azioni finalizzate alla risocializzazione dei soggetti reclusi, avvalendosi della particolare esperienza organizzativa e delle competenze giuridiche dell’Associazione. Il Protocollo è il frutto della collaborazione tra Prap e Associazione che ha già prodotto negli anni numerose e apprezzabili iniziative nelle carceri campane: laboratori di teatro con spettacoli rappresentati anche all’esterno del carcere, come la cornice del maschio Angioino e prestigiosi teatri cittadini, corsi di cucina con chef stellati, laboratori di lettura e artistici, pubblicazione di volumi come “Il carcere dimenticato - Riflessioni sulla detenzione con uno sguardo agli Istituti della Campania”. L’Associazione nasce come evoluzione del progetto della camera Penale di Napoli “Il Carcere Possibile” del 2003 su iniziativa dell’Avvocato Riccardo Polidoro, all’epoca componente della Giunta dell’Associazione, presieduta dall’ avvocato Antonio Briganti. Il 6 novembre 2006 il “progetto” si trasforma in un’Organizzazione non Lucrativa di utilità sociale dando vita a “Il Carcere Possibile Onlus”, in quanto l’attività svolta, per essere ulteriormente incrementata, richiedeva una forma associativa indipendente ed inoltre si avvertiva la necessità di una partecipazione non limitata ai soli Avvocati. “Il Carcere Possibile Onlus” persegue il fine della solidarietà sociale, civile e culturale nei confronti della popolazione detenuta, nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 27, secondo e terzo comma della Costituzione della Repubblica Italiana. Tra gli scopi dell’Associazione vi è anche quello specifico di tutelare in ogni sede, anche giudiziaria, i diritti dei detenuti e di promuovere azioni, anche legali, in difesa di tali diritti, per pretenderne il rispetto ed eventuali danni causati alla comunità detenuta. “La collaborazione con “Il Carcere Possibile Onlus” - ha dichiarato Antonio Fullone -, è un esempio virtuoso di “rete” tra l’Amministrazione penitenziaria regionale e il Terzo settore per potenziare gli interventi trattamentali e di sostegno a favore delle persone ristrette. Credo fermamente, ha continuato il Provveditore, nella necessità della cooperazione tra “dentro e fuori” per creare sicurezza e reinserimento sociale”. Commenta la presidente Anna Maria Ziccardi: “L’Associazione “Il Carcere Possibile Onlus” mette a disposizione competenze e impegno per promuovere e coadiuvare la realizzazione dei percorsi e delle iniziative nelle carceri campane impegnandosi a promuovere campagne di sensibilizzazione e attivazione della rete territoriale”. Vasto (Ch). Internato si toglie la vita in carcere zonalocale.it, 6 marzo 2021 Un internato si è tolto la vita nel carcere di Vasto. A comunicarlo è il Sappe. “In data odierna un internato ubicato presso la sezione 1° piano è stato ritrovato privo di vita. Questa organizzazione sindacale non è più disposta a tollerare le mancanze da parte delle istituzioni sia a livello locale che nazionale, il personale di Polizia penitenziaria è allo stremo delle proprie forze, il turno notturno, quando va bene è assicurato da cinque agenti compresa la sorveglianza generale, mancano progetti affinché gli internati (per la maggior parte soggetti psichiatrici), socialmente pericolosi ma che nel contempo vivono un senso di frustrazione e abbandono, siano impegnati a livello lavorativo, gli stessi passano il proprio tempo oziando per la maggior parte del tempo in cella. Questa segreteria locale è ben disposta a dimostrare in tutte le sedi e a tutte istituzioni come negli ultimi due anni abbia denunciato fortemente come la situazione stesse peggiorando e come peggioreranno nei prossimi mesi avvenire, è inaccettabile che poliziotti con oltre trent’anni di servizio e prossimi alla pensione debbano andare incontro ad eventuali procedimenti penali quando le responsabilità sono da ricercare in un sistema penitenziario che non funziona, che fa acqua da tutte le parti che decreta il fallimento delle Stato Italiano”. Modena. Strage al Sant’Anna, il Gruppo Carcere-Città: “La giustizia si mostri credibile” modenatoday.it, 6 marzo 2021 I volontari che operano nell’istituto modenese, ad un anno dalla tragedia, ricordano i nomi dei ragazzi morti e chiedono una “più sollecita ricerca della verità”. “Hafedh Chouchane, Slim Agrebi, Alis Bakili, Ben Mesmia Lofti, Ahamadi Erial, Artur Iuzu, Abdellah Rouan, Hadidi Ghazi, Salvatore Cuono Piscitelli”. Questi i nomi delle 9 persone decedute a seguito della drammatica rivolta del carcere di Modena dell’8 marzo 2020. Questi i nomi che in prossimità dell’anniversario della strage il gruppo modenese Carcere-città ha voluto ricordare: “In quella giornata la ragione si è smarrita e la violenza non ha trovato argine. Il tributo di vittime è stato terribile. Nella storia della nostra Repubblica, lunga ormai 75 anni, non c’è niente di paragonabile a quel fatto”. Il gruppo modenese è formato dai volontari di diverse associazioni che da ormai molti anni portano il proprio contributo ai detenuti del Sant’Anna (ma anche a Castelfranco), in particolare in termini di attività sportive, culturali e di avviamento al lavoro. In questa triste ricorrenza Emanuela Carta (CSI Modena Volontariato), Giulio Marini (Porta aperta al carcere), Francesco Pagano (Giorni Nuovi Società Cooperativa Sociale) e Andrea Abate (Uisp) hanno commentato: “Da allora, dopo che la rivolta è stata domata, è passato un anno intero e le ferite sono ancora aperte. I locali semidistrutti sono ormai in gran parte recuperati, non così gli animi e il funzionamento delle istituzioni, ancora turbati, anche a causa della malattia che continua a tormentare la nostra società e impone limiti gravosi. Ritrovare la strada della ragione e della responsabilità personale e istituzionale è molto faticoso, perché allora qualcosa è sfuggito e ha messo a nudo il peggio di noi e delle nostre istituzioni. Però lo dobbiamo ai ragazzi che sono morti in questo buio e che non abbiamo saputo proteggere”. “Perché possiamo riuscirci è necessaria una più sollecita ricerca della verità, anche giudiziaria, su quelle giornate. Solo se la giustizia si mostrerà credibile sarà possibile recuperare un rapporto costruttivo con la città e le istituzioni. Per questo chiediamo di pervenire al più presto alla conclusione delle indagini. Noi siamo ancora qui, in attesa, consapevoli che in questa vicenda siamo coinvolti tutti, dalla politica alla magistratura, dal territorio alla sanità, dagli operatori agli agenti, alla scuola, fino a noi volontari”. Modena. In piazza contro la richiesta di archiviazione per le morti di detenuti radiocittafujiko.it, 6 marzo 2021 L’inchiesta sulle morti nel carcere Sant’Anna di Modena seguite alla rivolta del marzo 2020 potrebbe essere archiviata. La procura del capoluogo emiliano ha chiesto l’archiviazione del fascicolo aperto. Secondo gli inquirenti, otto dei nove decessi sarebbero conseguenza di overdose da metadone e altri farmaci dopo l’assalto all’infermeria e la condotta della polizia penitenziaria e del personale medico non mostrerebbe sottovalutazioni o comportamenti illeciti. Contro questa richiesta, il Comitato Verità e Giustizia manifesterà nel piazzale antistante l’ingresso della casa circondariale il 7 marzo alle 10.30, un anno dopo le rivolte. Il Comitato non accetta che la vicenda si concluda in questo modo. In questi mesi ha raccolto un dossier di testimonianze, dalle quali emerge che durante e in seguito alle rivolte, in particolare nei trasferimenti al carcere di Ascoli, ci furono pestaggi da parte della polizia penitenziaria verso i detenuti provenienti da Modena. Cinque detenuti, in particolare, hanno sporto denuncia consentendo l’apertura di un fascicolo. I morti durante la rivolta furono cinque, ma altri quattro detenuti furono trasferiti in altri istituti penitenziari, nei quali morirono nei giorni successivi, nonostante le loro condizioni di salute fossero già gravi. Al momento della sua presentazione pubblica, il Comitato Verità e Giustizia aveva sottolineato che, anche prendendo per buona la versione ufficiale, nel carcere di Modena potrebbe essersi registrata un’omissione di soccorso che non impedì la morte dei detenuti. “Ricordiamoci che alcune persone sono morte durante il trasferimento o a trasferimento avvenuto - sottolinea ai nostri microfoni Alice, portavoce del comitato - Anche se fosse che tutti i morti sono stati causati dall’abuso di metadone, la responsabilità della morte di queste persone va chiarita, perché una persona in fin di vita non deve essere trasferita”. Il dossier elaborato dal comitato si compone di 122 pagine, suddivise per mese, in cui si ricostruiscono le informazioni che sono uscite a proposito della vicenda, più testimonianze inedite. “Le testimonianze sono molto interessanti perché, aldilà delle cause della morte delle persone, c’è da indagare anche sul comportamento delle istituzioni penitenziarie nei confronti di chi veniva da Modena e, secondo loro, aveva preso parte alla rivolta, anche se non era così”. Il dossier sarà presentato proprio il 7 marzo durante la manifestazione e successivamente inviato alle redazioni e a tutti coloro che fossero interessati. Padova. Voto a Messina Denaro come Garante, anche la giunta si rivolgerà alla Procura di Luca Preziusi Il Mattino di Padova Stiamo valutando gli estremi per presentare un esposto in Procura. Quello che è accaduto è grave e non è stato per niente divertente. L’autore non ha preso in giro solo l’amministrazione comunale, tra l’altro durante un momento serissimo come il consiglio, ma anche tutti i cittadini”. L’assessore all’avvocatura civica e alla legalità Diego Bonavina torna sul caso Matteo Messina Denaro. Il nome del latitante più ricercato in Italia è stato scritto nero su bianco sulla propria scheda da un consigliere comunale durante il voto (segreto) di mercoledì sera in consiglio comunale, convocato per nominare il garante dei detenuti. Un gesto che non è piaciuto all’intera assise, che ha denunciato in massa l’episodio, aldilà dei partiti e appartenenze politiche. “Prendiamo come amministrazione tutte le distanze possibili da questa vicenda - prosegue Bonavina - che reputiamo gravissima, e su cui siamo a lavoro per capire se e come agire, magari intraprendendo un’azione legale. Non sappiamo chi sia stato, ma è necessario che la Procura apra un fascicolo, perché io mi sono sentito offeso, e penso che come me si siano sentiti offesi tutti i padovani. E a me questo non va bene affatto”. Va ricordato che il garante dei detenuti non è stato eletto per un solo voto, ossia proprio quello andato al boss Matteo Messina Denaro, condannato a più ergastoli e ricercato dal 1993. Prima di Bonavina era stato il consigliere leghista Alain Luciani a premeditare un esposto in Procura, pur avendo il forte sospetto che la “goliardata” porti la firma di un consigliere d’opposizione, quindi forse non troppo distante politicamente da lui. Anche il presidente del consiglio comunale Giovanni Tagliavini vuole vederci chiaro: “Quella di mercoledì sera è stata una seduta particolare, perché la prima in presenza dopo tanto tempo e con protocolli di sicurezza specifici che io avevo il compito di far rispettare, e quindi questo episodio è scivolato via troppo facilmente. Nei prossimi giorni ne parlerò sicuramente con i capigruppo, e valuteremo se farlo diventare un argomento per il prossimo consiglio comunale”, conclude l’esponente della lista civica di Arturo Lorenzoni. Padova. “Il carcere Due Palazzi è sotto organico”. Il caso in Parlamento di Luca Preziusi Il Mattino di Padova, 6 marzo 2021 Il “caso Due Palazzi” arriva in Parlamento. È il senatore di Fratelli d’Italia Luca De Carlo (che è anche coordinatore veneto del partito) a presentare un’interrogazione al Ministro della Giustizia Marta Cartabia sulla situazione della casa di reclusione di Padova, con particolare attenzione ai problemi delle guardie penitenziarie. “È una situazione che mette a rischio sicurezza e salute di oltre 500 servitori dello Stato”, spiega il senatore. “Sui 528 agenti previsti, l’organico attuale può contare solo su 475 uomini. Un conto che però è solo “sulla carta” perché un centinaio di questi vengono regolarmente impegnati in altri servizi legati all’attività penitenziaria e quindi non possono essere fisicamente al lavoro nelle carceri - sottolinea De Carlo - Per contro, la Casa di Reclusione ospita quasi 600 detenuti, a fronte della capienza massima fissata a 450, con inevitabili problemi di invivibilità e quindi di sicurezza, come dimostra la rivolta scoppiata lo scorso anno. In più, nella casa circondariale padovana verrà presto aperta una sezione dedicata ai detenuti psichiatrici, con nuove problematiche di sicurezza e di gestione come dimostra l’esperienza del carcere di Belluno dove frequenti sono le aggressioni da parte dei detenuti ai danni degli agenti. L’emergenza personale nelle carceri, a Padova come in tutto il Veneto e nel resto della nazione, deve essere risolta al più presto”. Il senatore di Fratelli d’Italia è netto, anche perché le guardie penitenziarie si trovano anche a dover affrontare l’emergenza Covid che in carcere può assumere i contorni del focolaio: “Parliamo di servitori dello Stato che rischiano la propria salute e la propria vita per difendere la sicurezza dei cittadini, accumulando decine di ore di straordinari per sopperire alle mancanze di organico, e i pericoli per la loro salute legati allo stress psicofisico ed emotivo sono sempre dietro l’angolo”, conclude. Del caso si occuperà anche il Consiglio comunale, impegnato in questi giorni a eleggere il Garante dei detenuti, con la prima votazione mercoledì scorso in cui la maggioranza ha fallito il quorum per le elezioni: “Proprio nei giorni in cui si sono accese fortissime polemiche sull’elezione del garante da parte del consiglio comunale e ho richiesto per ben due volte, a nome di Fdi, che si facesse chiarezza sulle presunte pressioni ai consiglieri per queste elezioni, ringrazio il nostro coordinatore regionale per questo intervento di livello nazionale”, aggiunge il consigliere comunale di Fdi Enrico Turrin. “Lo Stato deve garantire la sicurezza dei suoi cittadini, dei suoi uomini e dei detenuti interrogherò il ministro Cartabia chiedendo cosa vuole fare questo governo a sostegno delle strutture penitenziarie e del personale che ci lavora”, conclude De Carlo. Palermo. Femminicidi, “attivare anche dentro le carceri progetti specifici” di Serena Termini redattoresociale.it, 6 marzo 2021 Intervista a Rita Barbera, vice presidente del centro studi Pio La Torre ed ex direttrice del carcere Ucciardone di Palermo. “Si interviene ancora quando è già troppo tardi”. Ragazze giovani e giovanissime ma anche donne mature, quasi ogni giorno, muoiono uccise da uomini. L’elenco di queste tragedie è lungo e occorre mettere in campo tante forze. Per fronteggiarlo, secondo Rita Barbera, con 35 anni di servizio dentro diversi istituti di pena, oggi vicepresidente del Centro studi Pio La Torre ma per tanti anni direttrice del carcere Ucciardone di Palermo, bisogna urgentemente attivarsi nei confronti degli uomini in chiave preventiva, senza però trascurare nello stesso tempo i progetti e percorsi specifici di aiuto e di accompagnamento degli autori di questi reati. Nella sua lunga esperienza di direzione delle carceri, ha conosciuto anche autori di questi reati? Assolutamente, sì. Dal ‘96 al 2003 sono stata al carcere Pagliarelli, proprio nei primi anni della sua apertura quando c’erano solo spazi immensi e niente altro. Dopo altri istituti di pena, poi mi sono fermata dal 2011 all’aprile del 2019 al carcere Ucciardone. A questo proposito ricordo una storia che mi ha segnato per sempre facendomi soprattutto riflettere su come organizzare gli interventi sugli autori dei femminicidi. La prima cosa da dire è che solo la pena detentiva in carcere, senza altri progetti rieducativi mirati sulla persona detenuta, non serve a niente. Tanti anni fa, conobbi dentro un istituto di pena, un giovane appuntato della polizia che era uno dei migliori nel suo servizio. Aveva una moglie e due figli. Un giorno uccise sparandogli il presunto amante della moglie. Gli diedero un numero considerevole di anni di pena che scontò in vari istituti. Durante la lunga detenzione la moglie e i figli andavano a trovarlo regolarmente per avere dei colloqui. Sembrava che in qualche modo fosse avvenuta la ripresa di un rapporto di coppia. Dopo 10 anni, quando gli fu concessa la semilibertà, dopo pochi giorni, uccise la moglie. Purtroppo parliamo di una persona che, nonostante i tanti anni di detenzione, non aveva fatto alcun progresso, forse anche perché non aveva partecipato a percorsi dedicati finalizzati a prendere consapevolezza sul fatto compiuto. È stato un fallimento che ci ha messo in discussione se pensiamo che si trattava di una persona ‘normalè su cui si poteva lavorare non essendo un delinquente abituale e non provenendo da contesti sociali violenti o problematici. In questo caso non è stato raggiunto alcun obiettivo di tipo rieducativo. Che cosa occorre fare allora per arginare il più possibile il fenomeno? Nell’esercizio delle nostre responsabilità dobbiamo dare, ognuno per la sua parte, il nostro contributo. Non abbiamo più tempo da perdere perché occorre attivare anche dentro le carceri azioni di trattamento con progetti specifici dedicati a chi compie questi reati. Questi uomini devono essere inseriti in percorsi multidisciplinari che possano farli riflettere su come allontanare certi forti condizionamenti culturali. Occorre riuscire a scardinare una cultura patriarcale storica che vede il maschio che prevale sulla donna sottomessa, considerata solo un oggetto da possedere. Bisogna lavorare su due aspetti: da una parte su quello culturale e dall’altra su quella della persona che è come se avesse ‘una bomba innescata nel cervello’ pronta ad esplodere da un momento all’altro. Gli uomini devono essere aiutati ad abbandonare l’idea che gli atti di ribellione al possesso siano talmente offensivi e frustranti da dover essere contrastati con azioni estreme e disperate. Purtroppo i progressi e processi culturali hanno bisogno di tanto tempo e noi non possiamo più permettercelo perché questo tempo significa violenza e morte. La donna, negli anni è andata avanti in tutti gli ambiti, facendo crescere la consapevolezza piena di sé che certi uomini, rimasti indietro, non hanno voluto accettare. Ricorda qualche progetto portato avanti? Sì, quando ero nell’istituto di pena di Castelvetrano (Tp), dove oggi ci sono i sex-offenders per reati di vario tipo, ho portato avanti un progetto di recupero. Si trattava di un percorso dedicato che prevedeva pluricompetenze con interventi specifici di psicologo, psichiatra, assistente sociale ed educatore. Almeno, so che fino a due anni fa, quando sono andata in pensione, di interventi di questo tipo ce n’erano ben pochi. Bisogna sicuramente allora accrescere questi progetti se si vogliono raggiungere precisi obiettivi che vanno a vantaggio di tutta la società. In chiave preventiva, invece, che bisogna fare? Molte tragedie, il più delle volte, sono “cronaca di una morte annunciata”, per i segnali che c’erano stati quasi sempre prima della violenza e che forse, se intercettati immediatamente con strumenti adeguati, anche su denuncia della donna o di persone a lei vicine, avrebbero potuto essere utili ad evitarle la morte. Siamo davanti a episodi di cronaca traversali perché investono tutti i contesti sociali. In chiave assolutamente preventiva occorrerebbe già intervenire subito non appena si manifestano i primi segnali. Già quando una donna si reca al pronto soccorso mostrando segni di percosse sospette bisognerebbe attivarsi. Oltre alla diffida, il questore dovrebbe obbligare la persona a frequentare un centro specializzato per il recupero degli uomini maltrattanti. Solo in questo modo sarebbe auspicabile che questi rifletta per comprendere a poco a poco, la gravità di certi atti compiuti sulla donna. So che in Sicilia ne esiste uno a Caltanissetta. La realizzazione di questi centri sarebbe già un grande passo in avanti per tutto il Paese. La normativa in materia aiuta? Anche le recenti leggi in materia di violenza di genere come il codice rosso, non hanno avuto evidentemente l’effetto deterrente; forse, vorrei speralo, è stato efficace per evitare qualche atto di violenza in più ma, purtroppo la drammatica recrudescenza degli ultimi femminicidi mi hanno profondamente sconfortata, facendomi pensare che non si faccia ancora abbastanza. Si interviene ancora quando è già troppo tardi e si erano manifestati episodi che non avrebbero dovuto essere sottovalutati. Bisogna adoperarsi subito senza aspettare che la donna arrivi alla denuncia che, per tanti motivi, può essere anche un passo per lei molto difficile da fare. È lo Stato, quindi, che in questo caso deve intervenire sostituendosi alla donna, per proteggerla non certo per condannare subito, ma, certamente, in alcuni casi, per evitare il peggio. Sicuramente per un cambio di rotta c’è tanto lavoro ancora da fare a tutti i livelli. Asti. Nuovo padiglione del carcere, interrogazione del senatore Massimo Berruti lavocediasti.it, 6 marzo 2021 Berutti mette in luce le perplessità espresse dal sindaco, Maurizio Rasero, dell’assessore Mariangela Cotto e chiede una serie di informazioni sulla situazione di Quarto. Sul carcere di Asti c’è una nuova interrogazione del Senatore di Cambiamo Massimo Berutti al Ministro della Giustizia in merito alla realizzazione di un nuovo padiglione detentivo nella Casa di reclusione ad alta sicurezza di Quarto Inferiore. “Sul tema del nuovo padiglione - spiega Berutti -circolano notizie da più di un anno, già a gennaio 2020 avevo chiesto informazioni al Ministro della Giustizia. Ora che è avvenuto il cambio al vertice del Ministero e che il Comune di Asti e il Garante dei detenuti hanno espresso ulteriori perplessità, mi è sembrato doveroso chiedere al Ministro Cartabia informazione, dialogo e condivisione, così da capire se ci sono le condizioni per la realizzazione o, come sembra, sia il caso di non ampliare la realtà astigiana”. Nell’interrogazione, Berutti mette in luce le perplessità espresse dal sindaco. Maurizio Rasero e dell’assessore Mariangela Cotto ed anche quelle del Garante delle persone detenute del Piemonte, Bruno Mellano e chiede una serie di informazioni sulla situazione di Quarto d’Asti. “Come avevo evidenziato già un anno fa, sottolinea Berutti, c’è innanzitutto una questione di metodo, per cui su un progetto del genere si deve lavorare con la massima condivisione e concertazione territoriale, a questo si affiancano poi le incognite sul progetto, che è necessario valutare per capire se è sostenibile, cosa che allo stato attuale non sembra. Nell’attesa di ottenere una risposta dal Ministro, mi attiverò anche per avviare un dialogo con i nuovi Sottosegretari. Sono certo avremo quanto prima riscontri puntuali”. La vicenda - Nel 4° Dossier delle criticità strutturali e logistiche relative alle carceri piemontesi presentato lo scorso 30 dicembre, Bruno Mellano, garante Regionale dei Detenuti, aveva segnalato l’adeguamento, ampliamento e rifunzionalizzazione dei servizi di accoglienza dei parenti, in particolare per quanto riguarda i colloqui con i figli minori che ora si svolgono in condizioni del tutto inadeguate; la costruzione di spazi per i progetti e le attività trattamentali, formative e scolastiche, annunciando la realizzazione di un nuovo padiglione utilizzando una parte dello spazio attualmente occupato dalle aree verdi. Ma il Comune di Asti non ne aveva avuto comunicazione esprimendo perplessità proprio per la natura di massima sicurezza del carcere. Pavia. Caccia ai dottori che possano lavorare all’interno delle carceri: ne servono diciannove Il Giorno, 6 marzo 2021 L’Asst di Pavia cerca 19 medici di sanità penitenziaria ai quali poter conferire un incarico di lavoro autonomo in regime di libera professione. Nello specifico cinque professionisti dovranno lavorare all’istituto penitenziario di Pavia, cinque a Vigevano e cinque in quello di Voghera dal 1° aprile al 30 settembre. Un medico sarà a Pavia dal 2 maggio al 30 settembre e uno a Vigevano dall’8 maggio al 30 settembre, mentre un altro sarà a Torre del Gallo a Pavia dal 1° giugno e uno ancora a Vigevano dal 1° luglio sempre al 30 settembre. Su richiesta dei direttori delle carceri, le funzioni di responsabile sanitario, nei casi di assenza del titolare di incarico, verranno svolte a turno e secondo disponibilità dei medici. La domanda di partecipazione alla selezione pubblica dovrà essere presentata registrandosi al sito: https:asst-pavia.iscrizioneconcorsi.it. La procedura telematica verrà automaticamente disattivata alle 23,59 del 12 marzo, giorno di scadenza per la presentazione delle istanze. Massa Marittima (Gr). Le cure odontoiatriche si faranno direttamente in carcere ilgiunco.net, 6 marzo 2021 Ancora maggiore attenzione per la salute delle persone detenute nella casa circondariale di Massa Marittima con l’avvio del servizio di Odontoiatria messo a disposizione dalla Asl Toscana sud est che, a partire da domani, sabato 6 marzo, sarà effettuato all’interno della struttura. Le cure odontoiatriche di base sono previste dall’attuale normativa sulla salute in carcere che dal 2008 è diventato ambito di responsabilità e gestione in carico alle sole Aziende sanitarie locali, le quali sono chiamate a garantire la copertura di tutti i servizi sanitari previsti dai Lea (Livelli Essenziali di Assistenza). Finora erano erogate, sempre dalla Asl, ma all’esterno della struttura carceraria, condizione che presentava maggiore complessità nell’organizzazione logistica in tema di sicurezza e risorse necessarie. Il progetto in partenza, realizzato grazie alla collaborazione della direzione del carcere, prevede un ambulatorio dotato di un “riunito odontoiatrico” (poltrona e strumenti) all’interno del carcere, dove il dottor Marco Pezzuoli, medico odontoiatra dell’UOC Odontoiatria della Sud Est, diretta dalla dottoressa Alessandra Romagnoli, sarà a disposizione ogni 15 giorni, per fornire un primo livello assistenziale agli ospiti della casa. Oltre alla visita di valutazione e di controllo, sarà possibile eseguire estrazioni, protesi masticatorie, cura di denti e bocca e interventi per urgenze. “Il periodo di pandemia da Covid ha cambiato molte cose e ha influenzato i modelli di assistenza che, in un contesto particolare come il carcere, prevedono già procedure puntuali e predeterminate. A tale riguardo, poter offrire il servizio direttamente in loco e quindi non dover far uscire i detenuti porta numerosi vantaggi in termini di tutela dalle possibilità di contagio da Covid, di tempi di cura che si accorciano, specialmente in caso di urgenze e di dispendio di risorse. In questo modo offriamo un servizio migliore, perché strutturato sulle necessità di queste persone, e indispensabile dal momento che la salute orale è indissolubilmente legata alla salute generale” - spiega la dottoressa Romagnoli. “La presenza frequente di patologie tra i detenuti, riguardanti anche denti e bocca, necessita di particolare attenzione da parte del servizio sanitario, impegnato nell’individuazione di modelli assistenziali adeguati alla realtà carceraria - spiega il dottor Mateo Ameglio, direttore UOC Salute in carcere della Asl Toscana sud est e coordinatore del settore di tutti penitenziari nel territorio aziendale - Il servizio interno di Odontoiatria che viene avviato è la dimostrazione di come dall’unione d’intenti di più soggetti ed enti si riesca a concretizzare un’offerta di cure mirata e pensata sulle esigenze di salute dei pazienti e del sistema che gestisce la struttura. Ritengo che sia stato raggiunto un traguardo importante per l’intera comunità”. “Circa un anno e mezzo fa ho preso servizio presso la casa circondariale di Massa Marittima e fin da subito ho notato una difficoltà nel fornire cure odontoiatriche ai pazienti detenuti dovendo fare riferimento a strutture sul territorio - dichiara la dottoressa Federica Mandarini, responsabile sanitaria casa circondariale Massa Marittima - Il trasporto del detenuto in un luogo esterno di cura richiede infatti uno sforzo di energie e di mezzi anche da parte del personale di polizia penitenziaria, sempre alle prese con carenza di organico. L’utopistica idea di creare un ambulatorio odontoiatrico è stata accolta con entusiasmo dalla direzione del carcere; l’idea ha quindi preso forma in un progetto che che si è poi tramutato in realtà grazie all’appoggio del dottore Ameglio, responsabile della Salute in carcere e della dottoressa Romagnoli responsabile dell’Odontoiatria. Vorrei ringraziare la dottoressa Leonilda Cappelli, mia guida, e i miei collaboratori che con me portano avanti l’assistenza sanitaria all’interno del carcere, sperando che questa iniziativa sia un piccolo punto di partenza nel percorso di innovazione della medicina penitenziaria”. Soddisfatta anche la dottoressa Cristina Morrone, direttrice casa circondariale: “Un grazie speciale e di cuore a tutti coloro che hanno collaborato al progetto di installazione del riunito odontoiatrico all’interno del carcere - In particolar modo voglio ringraziare la dottoressa Romagnoli, il dottor Ameglio, il dottor Pezzuoli, la dottoressa Mandarini e la dottoressa Lucia Gemignani. È stato un risultato corale per cui Asl, che ha fornito la strumentazione, direzione del carcere e provveditorato regionale, che ha finanziato in parte l’operazione, si sono attivati insieme, con entusiasmo e grande sinergia, senza arrendersi davanti a momenti a volte di difficoltà. Spesso il carcere viene concepito come una realtà separata dal resto del territorio, invece in questa occasione ho toccato con mano la volontà di farsi carico delle problematiche della salute in carcere e la costante partecipazione dei protagonisti coinvolti. L’attivazione del servizio è una grande conquista, soprattutto per i detenuti e il personale penitenziario che non dovendosi spostare fuori dal carcere, sono più tutelati in considerazione anche del periodo di emergenza sanitaria che stiamo vivendo”. Paliano (Fr). Il calendario dei detenuti per ricordare che la Costituzione va difesa ogni giorno di Antonella Barone gnewsonline.it, 6 marzo 2021 Conserverà la sua validità ben oltre il 2021, il calendario realizzato dai detenuti della casa di reclusione di Paliano e dedicato ai 12 principi fondamentali della Costituzione italiana. Ogni mese è associato a un articolo, illustrato da opere pittoriche, foto d’archivio e immagini emblematiche dei lavori della Costituente, accompagnato da poesie, citazioni e frammenti letterari. La realizzazione del calendario - curata dal funzionario giuridico-pedagogico Fatima Cesari - rappresenta il prodotto finale, insieme a un video e a targhe artigianali in ceramica, del progetto Ri-Costituzione, un percorso ideato per promuovere la conoscenza e l’acquisizione dei valori della legalità, alla base di qualunque processo di revisione critica dei reati commessi. “I 12 principi fondamentali della nostra Carta, sono il pilastro del nostro sistema giuridico che pone l’individuo, con i suoi diritti inviolabili, al centro di ogni intervento legislativo” spiega la direttrice della casa di reclusione Anna Angeletti. “Un percorso di rieducazione, per apprezzarne la bellezza e l’intensità, deve transitare dall’acquisizione del concetto di legalità”. La scelta di un calendario si è prestata a riflessioni sull’effetto del trascorrere del tempo sui principi costituzionali. Molti dei brani scelti sono dedicati al presente sempre in divenire della nostra Costituzione che, “in parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere “ricordano le parole di Pietro Calamandrei, mentre, in un altro frammento, Sandro Pertini ammonisce: “Spetta ancora a noi fare in modo che certi articoli non rimangano lettera morta, inchiostro su carta. In questo senso, la Resistenza continua”. Il video e tutto il materiale prodotto durante il progetto “Ri-costituzione” sarà presentato lunedì 8 marzo nel Salone Unità D’Italia del carcere di Paliano. Insieme al personale e ad autorità civili locali, parteciperà all’evento una rappresentanza dei detenuti che hanno preso parte alle varie fasi del percorso. Imperia. Il calendario dei detenuti del carcere di contro la violenza sulle donne di Diego David riviera24.it, 6 marzo 2021 Progetto che coinvolge ministero della Giustizia, Fondazione Carige, Regione Liguria, Arci Provinciale e Circolo Parasio. “Dipinti contro la violenza sulle donne”, è il titolo di un calendario realizzato dai detenuti del carcere di Imperia grazie a un progetto che ha coinvolto ministero della Giustizia, Fondazione Carige, Regione Liguria, Arci Provinciale e Circolo Parasio. “Il calendario - spiega la presidente del Circolo Parasio Simona Gazzano - è il prodotto finale di un progetto che è molto lungo che dura da anni. Si tratta di un calendario che viene realizzato tramite un progetto educativo e di assistenza alle ai detenuti, sia chi si è macchiato di questo tipo di reati, sia chi semplicemente è stato coinvolto. Il tema è quello della violenza di genere, ci vedo anche la vicinanza con la ricorrenza molto vicina che è quella dell’8 marzo che ricorda, il ruolo delle donne nella società. I realizzatori di queste opere sono stati spinti a riflettere ad instaurare un dialogo interiore con sé stessi. Di fronte alla violenza sempre più dilagante, mette tutti, informazione compresa, davanti alla responsabilità in quanto vengono spesso fatti passare di messaggi come se la violenza fosse un qualcosa di momentaneo, di non connaturato, invece, purtroppo, è qualcosa di molto radicato”. “Il laboratorio di pittura e attività creativa “Siamo”è presente, già da diversi anni, nella Casa Circondariale di Imperia. è tenuto dall’insegnante di arte Annalisa Fontanin, nell’ambito del progetto “La Rete che unisce - Progetto Ponte” coordinato dall’Arci con fondi della Regione Liguria. Il corso, in coerenza con quanto avvenuto in passato, è stato caratterizzato da un “titolo” attraverso il quale avviare un progetto che oltre ad essere di apprendimento tecnico è voluto essere espressione di tematiche personali, sociali e di vita con finalità anche di trattamento per l’anno 2019, su proposta dei funzionari, la scelta è ricaduta sulla violenza di genere accolta con entusiasmo dalla docente. L’argomento ha trovato apprezzamento nei partecipanti in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Quanto è stato prodotto, frutto di sentita e metabolizzata resipiscenza anche da parte di chi si è reso responsabile di violenza sulle donne”, dice il direttore del carcere del capoluogo Francesco Frontirrè. “Ho appoggiato e promosso questo progetto, consapevole della bellezza e dell’importanza delle azioni creative - sottolinea il vicepresidente di Fondazione Carige Giacomo Raineri - ha come strumento di riflessione sia personale che collettiva e di liberazione dalla gabbia mentale del pregiudizio. In una realtà complessa come quella carceraria, dove i vissuti spesso tragici e difficilissimi sono lo spunto di riflessione è quello di non dimenticare che la violenza di genere è una responsabilità collettiva, tanto nelle sue cause che nelle sue risposte. Dove il linguaggio delle parole è spesso insufficiente per esprimere un dialogo interiore demotivante, l’espressione artistica dà voce al rifiuto di un crimine tanta orrendo”. “SanPa” amorosa e crudele ti salva dall’arte spericolata di mettersi nei guai di Luigi Ciotti La Stampa, 6 marzo 2021 “Sanpa, madre amorosa e crudele”, di abio Cantelli Anibaldi (Editore Giunti). Nel tunnel della tossicodipendenza. Dall’adolescenza inquieta all’incontro con Muccioli, il diario di un ragazzo uscito dalla droga in anni epici Un libro sulla dimensione avventurosa di una comunità, il suo essere laboratorio di relazioni e pratiche. Ricordo bene il giorno in cui Fabio mi portò il suo libro, quando uscì la prima volta 25 anni fa. Me lo porse con aria emozionata, imbarazzata, quasi volesse chiedere scusa. Temeva che i riferimenti alle vicende di San Patrignano potessero creare fastidi a me o al Gruppo Abele, dove lavorava ormai da qualche mese. Il testo mi riservò molte sorprese, come credo che ne regalerà ai nuovi lettori. Perché è un libro che parla di droga, certo, e di un percorso umano appassionante quanto travagliato. Ma è soprattutto un piccolo, ragionato e ragionevole trattato sull’arte di mettersi nei guai. Fabio in quest’arte è stato maestro, e lo stesso direbbe probabilmente di me. È forse in questa comune propensione ai guai che ci siamo anzi riconosciuti simili, costruendo un legame stretto e duraturo. Lui i primi se li è andati a cercare nell’adolescenza, come capita a tanti, non però con la tipica leggerezza dell’età, bensì con un livello di consapevolezza incredibile, frutto della capacità fin da giovanissimo di ascoltarsi, interpretarsi e infine abbandonarsi con spericolata fiducia agli impulsi della vita. Emerge del resto dal libro che si è anche sempre assunto la responsabilità dei guai che combinava, incluso il disastroso rapporto con le droghe. Non si è mai nascosto né vittimizzato. Perciò, credo, ha vissuto con particolare amarezza il venir meno di questo atteggiamento di responsabilità e trasparenza proprio da parte di chi lo aveva accompagnato fuori dagli anni bui della dipendenza: la comunità. L’avvento delle comunità terapeutiche per persone tossicodipendenti fu un’esperienza pionieristica e avventurosa, a cui, insieme al Gruppo Abele, ebbi la fortuna di partecipare. In quel momento aiutare chi era nei guai con la droga significava mettersi a propria volta nei guai. E non solo perché non esistevano “metodi” né terapie riconosciute, ma perché accogliere un tossicodipendente senza denunciarlo voleva dire, per la legge di allora, diventare complici di un reato. Affrontammo il problema quando nel 1973 fondammo a Torino il primo centro droga in Italia, con la collaborazione di giovani medici e farmacisti, e l’anno dopo una fra le primissime comunità, a Murisengo nell’alessandrino. Nel 1975 la nostra mobilitazione “morire di fame, non di droga”, con dibattiti pubblici e uno sciopero della fame, catalizzò attenzione in tutto il Paese, contribuendo in modo decisivo all’approvazione di una nuova legge, non più punitiva ma centrata sui percorsi di prevenzione e cura. Non è vero che in quegli anni l’unica alternativa alla solitudine delle famiglie era San Patrignano. C’erano tanti soggetti del pubblico e del privato sociale che si mettevano in gioco, segmenti di Chiesa, percorsi animati da idee spesso diverse, ma che avevano appunto in comune la disponibilità a “mettersi nei guai”, esponendosi all’incontro con questi ragazzi visti da molti come “lo scarto” della società, accogliendoli senza giudizi e senza promesse, se non quella di tenerli legati alla vita finché non fossero tornati capaci di vivere in maniera autonoma e autentica. Fabio ce lo spiega con profondità e con grazia, confutando i luoghi comuni: chi usa droga non cerca la morte, ma la vita. Vuole vivere al di sopra delle miserie dell’esistenza umana, e si illude di trovare nelle sostanze la scorciatoia per la felicità. Neppure è vero che la droga sia sempre legata a situazioni di marginalità sociale: quanti figli della borghesia abbiamo accolto, che prima di ritrovarsi per strada a sbattersi per una dose, avevano incontrato la strada come fatica esistenziale, povertà affettiva e smarrimento. Io non ho condiviso tante scelte di San Patrignano, a cominciare da certe forme di costrizione e violenza, e ho contestato con fermezza le norme repressive ispirate a quel modello di comunità. Tuttavia di fronte alle pagine di Fabio, e di fronte a lui come amico e collaboratore prezioso, non posso che constatare l’impotenza dei dogmi davanti all’irriducibile varietà di situazioni in cui si manifesta la vita. Non posso che dire: per fortuna c’era anche San Patrignano, per fortuna anche Vincenzo Muccioli si è accollato la sua quota di storie da accompagnare... e la sua non piccola quota di guai. Il libro piacerà ai lettori giovani, perché racconta bene l’epica di quegli anni: la dimensione avventurosa della comunità, il suo essere laboratorio di relazioni e pratiche che, nell’incertezza del momento, sembravano giustificare azzardi dei quali solo col tempo si è colta la natura ambigua. Oggi quell’epica si è persa, anche se il consumo di droghe non è certo scomparso. Le mafie hanno colto i cambiamenti di contesto e adeguato il mercato: gli stupefacenti si trovano ovunque a prezzi irrisori. Il consumo si è così normalizzato, burocratizzato, è diventato una declinazione fra le tante del consumismo, mentre vediamo crescere altre forme di dipendenza, come quelle dal gioco o dal web. Meno morti, meno crimini violenti, meno allarme sociale. La stessa sofferenza ma non la stessa urgenza ahimè, per tanti, di tirarsi fuori dai guai... A burocratizzarsi è stato anche il mondo dell’impegno e della cura. Anche noi abbiamo in parte perso quella capacità di “metterci nei guai” che è stata la nostra ricchezza, la nostra forza profetica. Anche noi siamo sommersi dai protocolli, dalla coazione a ripetere “buone pratiche” che quando va bene tamponano il male dei singoli, raramente sono capaci di graffiare la realtà e promuovere il cambiamento sociale. E se non sempre riusciamo a dare risposte al disagio che ci viene incontro, è perché non sappiamo più farci le domande giuste, quelle scomode, quelle che ti obbligano a sperimentare perché la risposta te la insegna soltanto la strada. Spero di avere ancora tanta strada da fare insieme a Fabio, e a chi come lui non ha mai smesso di rischiare, di lasciarsi provocare e sorprendere dalla vita. La seconda vita offerta a questo libro ne è un esempio. Oggi come allora, vorrei dirgli: non preoccuparti, non sarà un bel libro a procurarci grane! O forse sì, perché i libri migliori sono quelli che mettono nei guai chi li legge, e chi li scrive. Milioni di vecchi e nuovi poveri: non possiamo abbandonarli di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 6 marzo 2021 È indispensabile trovare il modo di dare coraggio alle persone in grave difficoltà, magari spiegando loro in quale modo sarà possibile riuscire a portarle in salvo. I numeri sono importanti, come e più delle parole. Ma scappano via. Capita di leggerli e poi dimenticarli, scaricando la mente, e qualche volta la coscienza, da quello che provano a dirci. Per esempio, un numero come questo: 5 milioni 600 mila. È la stima dell’Istat sui poveri assoluti in Italia, un milione in più di quanti fossero nel marzo scorso, quando il Covid era ancora una minaccia. Vuole dire che oggi quasi un italiano su dieci (il 9,4 % della popolazione) fatica moltissimo a fare fronte ai bisogni essenziali: mangiare, curarsi, coprirsi se è freddo. Li vedi, gli ultimi arrivati nel girone dei retrocessi, cominciare a mettersi in fila nei posti dove ti danno un sacchetto di cibo gratis, tipo i centri organizzati dalla Caritas, o dei vestiti, delle medicine che ormai sono fuori dalla loro portata economica. Forse, o anzi certamente, provano anche vergogna a ritrovarsi lì, con la mano tesa, obbligati a chiedere, incapaci di procurarsi il minimo, scivolati quasi senza accorgersene sotto la soglia che li divide da quelli che arrancano ma ancora resistono: gli italiani del gradino appena sopra, classificati nella categoria della “povertà relativa”. Una fascia in allargamento, tra i 7 e i 9 milioni di persone, dove la battaglia per una vita dignitosa è quotidiana e non sempre la si vince. In trincea con loro, sia con i poveri “assoluti” sia con i “relativi”, convivono anche 1 milione 346 mila tra bambini e ragazzi (209 mila in più dell’anno scorso), un altro numero che se lo vedi scritto magari non impressiona ma che trasformato in un’immagine corrisponde a 17 grandi stadi di calcio completamente esauriti, pieni fino all’orlo di minori che, tra l’altro, rischiano di non finire le scuole, nemmeno quelle dell’obbligo, candidati a un futuro senza futuro. La pandemia ha accelerato brutalmente il processo di sganciamento dei vagoni di coda del treno Italia. Redditi decurtati, o già scomparsi, o in via di estinzione (quando a luglio terminerà il blocco dei licenziamenti). Salto in basso dal precariato alla disoccupazione. Gente che non riesce nemmeno a pagare le spese per seppellire i propri morti. Sempre più indigenti che si presentano ai servizi sociali per chiedere un aiuto: lavoratori irregolari, lavoratori in nero che non hanno percepito cassa integrazione né ristori, rider in fila per ritirare la busta con i viveri per sé, indossando lo zaino che da lì a poche ore conterrà il buon cibo da consegnare a chi può ordinarlo. Vecchi e nuovi poveri che affollano le ultime carrozze, per i quali il governo Draghi ha appena stanziato un miliardo di euro. Ma non basteranno questi soldi per impedire che il convoglio si spezzi in due. E non basterà l’impegno forsennato delle associazioni non profit, cioè l’arcipelago delle buone azioni, che a vario titolo stanno facendo l’impossibile per alleviare il confinamento ai margini. Come non basterà sommare redditi di cittadinanza e di emergenza, per quanto finora salvifici ma inevitabilmente a tempo. C’è una frase di Ermanno Olmi, regista degli umili e degli ultimi, più facile da ricordare di una cifra: “Bisognerebbe andare a scuola di povertà per contenere il disastro che la ricchezza sta producendo”. Sommare alla ricchezza, intesa come bulimia di guadagno sterile, che cioè non produce né valore né frutti, i guasti profondi che sta scavando la pandemia, dà un’idea dell’emergenza che le stime dell’Istat hanno appena radiografato. Un’infezione sociale che sta interessando e affollando troppa Italia e troppi italiani. L’agenda delle priorità, in vista dei fondi sperabilmente in arrivo dall’Europa, dovrebbe includere un capitolo che ancora non c’è: “Progetto dignità: per non abbandonare una parte del Paese alla deriva”. Il Sud certamente, ma ormai non solo. Anche la pandemia dell’indigenza ha rotto gli argini geografici, e non esistono più zone bianche. Finché è una statistica, per quanto allarmante, la povertà indigna ma non impegna. Ma quando prende corpo e rischia di esondare, allora il problema non è più soltanto umanitario. Diventa (o non diventa) l’orizzonte delle scelte di un governo. Tenere insieme il treno Italia whatever it takes, a ogni costo, oppure accettare la perdita dei vagoni di coda, attutendo il distacco con misure tampone: tra un’opzione e l’altra, passa il confine dell’Italia che verrà. Se prima o poi il capo del governo concedesse uno strappo alla sua regola del silenzio e decidesse di dire qualcosa in pubblico, guardando negli occhi questo Paese smarrito e spiegando la rotta che dovrebbe portarlo in salvo, i primi a essergliene grati sarebbero proprio quelli che la rotta temono di averla già persa, che si sentono abbandonati, che hanno smesso di crederci. Sono un numero, 5 milioni 600 mila. Un numero enorme, composto di singoli addendi, e ogni addendo è un cittadino, con gambe, testa e cuore. La disperazione di questi tanti è, per ora, muta e invisibile. La terza ondata del coronavirus peggiorerà ulteriormente le aspettative che ancora nutrono dalla vita. Dare loro coraggio, farli sentire parte del piano, non è una buona azione. Non essere ignorati sarebbe un diritto. Migranti. “Se aiutare chi scappa dalla tortura è reato allora sì: sono colpevole e lo sarò sempre” di Simona Musco Il Dubbio, 6 marzo 2021 Lo sfogo di Casarini dopo l’inchiesta sulle ong. “Sono colpevole”. Luca Casarini, l’attivista delle ong, riprende possesso del suo account Facebook a pochi giorni dal sequestro di telefoni e pc deciso dalla procura di Ragusa. L’inchiesta che lo vede coinvolto si basa sull’accusa più infamante per chi, come lui, si avventura in mare per salvare le persone che scappano da fame e guerra: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. “Un reato - scrive - che già per il nome che porta non riconosco e non accetto, né davanti allo Stato né davanti a nessuno. Sono accusato di aver aiutato degli esseri umani a raggiungere un luogo dove non li attendessero campi di concentramento, torture, sevizie, morte. Lo rivendico davanti a chiunque, sono colpevole fino in fondo di questo”. Lo dice a gran voce e senza paura, parlando di “accuse false” e di uno scandalo “di quelli che piacciono tanto agli odiatori di professione”. Ma tutta la sua vita, dice, ruota attorno a questo, il soccorso in mare. Non si sente un eroe, né una vittima, piuttosto un privilegiato: per l’amore della sua famiglia, per aver conosciuto cosa può l’amore verso gli altri e perché è circondato da persone che, come lui, salvano vite. “Le cose infamanti messe in piedi per distruggere cadranno, come cadono le cose costruite sul fango”, aggiunge. “Volete impedire il soccorso in mare e in terra, ma non avete il coraggio di dirlo chiaramente, e per questo vi inventate di tutto”. Ma Casarini rifarebbe ogni cosa. E appena potrà ricomincerà a farlo, “con più forza, con ogni mezzo, con tutti gli aiuti che troverò per farlo, costi quel che costi. Perché ne vale la pena”. Perché il pensiero va sempre lì: “Alle donne, uomini e bambini che sono ancora nei campi di concentramento in Libia. Penso a come si può fare per aiutarli a fuggire, per salvarli, per impedire che li uccidano o che li torturino. Se questo è un reato, sono colpevole. Lo sarò sempre”. Iraq. Il Papa prega fra droni e cecchini: “Basta massacri, siate artigiani di pace” di Domenico Agasso La Stampa, 6 marzo 2021 Una capitale super-blindata ha accolto Francesco. Dopo la tappa al palazzo presidenziale, la visita alla cattedrale. Oggi l’incontro con Al-Sistani. Sui tetti dell’Hotel Babylon, lungo Karada Street, dove alloggiano i giornalisti di tutto il mondo a seguito del Papa, alcuni cecchini tengono lo sguardo puntato in basso verso l’ingresso, mentre altri passeggiano armati scrutando l’orizzonte di questa surreale giornata irachena. Francesco, il primo Pontefice a camminare in Mesopotamia sulla terra di Abramo, giunge in una Baghdad blindatissima e in lockdown. Militarizzata e spettrale. Attorno al Pontefice appena atterrato volteggia un drone, mentre la banda suona la “Sinfonia n. 9” di Beethoven. Bergoglio si sposta dall’aeroporto al palazzo presidenziale con una vettura anti-proiettile, “una Bmw 750, auto di sicurezza speciale”, riferiscono fonti dell’intelligence locale. È la prima volta che in una visita internazionale Francesco la accetta, rinunciando all’abituale utilitaria. La dice lunga sul livello di allerta, che però non preoccupa più di tanto l’84enne Vescovo di Roma: “Questo è un viaggio emblematico, un dovere” verso una regione “martoriata da molti anni”. Il primo carro armato pronto all’azione lungo il tragitto papale sembra un’eccezione dimostrativa, invece è la regola: un chilometro, massimo due, ed eccone un altro, e un altro ancora. Si alternano i modelli dei veicoli da fuoco come le divise: esercito e polizia, polizia e militari. Posti di blocco. Mitra sempre rigorosamente spianati. Ovunque. E chi si sofferma per qualche secondo in spazi troppo aperti, dove si può diventare facili bersagli, ecco il “caloroso” invito a circolare. Gli agenti in borghese sono riconoscibili, anche perché la “folla” non c’è e non può esserci. Ci sono solo alcuni capannelli festanti di persone, con bandierine irachene e vaticane e cartelli di “Benvenuto”, ma non si può stare troppo assembrati. Il resto è deserto, quasi tutti i negozi sono chiusi, gli unici colori sono il verde delle palme e il bianco e giallo del Vaticano sui cartelloni di accoglienza. In lontananza tre ragazzini giocano e si rincorrono, indifferenti al convoglio e alle restrizioni anti-contagio. La prima meta di Bergoglio è il palazzo presidenziale, già luogo preferito da Saddam Hussein per incontrare i capi di Stato. Nel corso degli anni è stato anche residenza di Saddam, sede dell’amministrazione provvisoria a guida americana, Ambasciata statunitense. Ieri ha sentito risuonare il primo discorso del Papa. Davanti ai politici Francesco dice di “venire come penitente che chiede perdono al Cielo e ai fratelli per tante distruzioni e crudeltà”. Grida al mondo: “Tacciano le armi! Se ne limiti la diffusione, qui e ovunque!”. E poi, la stilettata contro “gli interessi di parte”, in particolare “quegli interessi esterni”, di attori evidentemente non iracheni, “che si disinteressano della popolazione locale”. Già ai tempi di Buenos Aires Bergoglio aveva organizzato preghiere per la pace in Iraq, perplesso di fronte all’invasione americana. Al contrario si deve “dare voce ai costruttori, agli artigiani della pace! Basta violenze, estremismi, fazioni, intolleranze!”. Il Pontefice ha nel cuore un piccolo popolo perseguitato da sempre: “Tra i tanti che hanno sofferto, gli yazidi, vittime innocenti di insensata e disumana barbarie, perseguitati e uccisi a motivo della loro appartenenza religiosa, e la cui stessa identità e sopravvivenza è stata messa a rischio”. Il Papa lancia anche un appello “alla comunità internazionale” perché svolga un ruolo di pacificazione nel Medio Oriente, ma “senza imporre interessi politici o ideologici”. Il rumore degli elicotteri militari che sorvolano Baghdad è la “colonna sonora” della giornata. La Cattedrale di Sayidat al-Nejat (Nostra Signora della Salvezza) il 31 ottobre 2010 fu attaccata dall’Isis durante la messa. I miliziani uccisero 48 persone, tra loro due preti, oggi sepolti nella cripta. Restarono a terra anche 70 feriti. Il Papa percorre il tappeto rosso simbolo del sangue del martirio, e poi parla a vescovi e preti. Ricorda i “nostri fratelli e sorelle morti nell’attentato terroristico. La loro morte ci ricorda con forza che l’incitamento alla guerra, gli atteggiamenti di odio, la violenza e lo spargimento di sangue sono incompatibili con gli insegnamenti religiosi”. E rammenta “tutte le vittime di violenze e persecuzioni, appartenenti a qualsiasi comunità religiosa”. Monsignor Paul Richard Gallagher, “ministro degli Esteri” vaticano, quasi mai rilascia dichiarazioni. Eppure, non esita a definire i giorni iracheni “tra i più importanti del pontificato, che sarà ricordato anche per questo viaggio”. Congo. Attanasio, ucciso il magistrato dell’indagine sull’attentato di Francesco Battistini Corriere della Sera, 6 marzo 2021 Indagava sulla morte di Luca Attanasio. La versione ufficiale: l’uccisione rientra nelle rivalità fra reggimenti di soldati. L’inchiesta sulla morte del diplomatico italiano e del carabiniere Iacovacci trova un muro di gomma nel paese dove le reti criminali sono colluse con il potere. Si spara come se niente fosse. Si spara su chiunque abbia un’auto ufficiale. Si spara su chi dovrebbe riportate la legge. Soprattutto, si spara su chi sta cercando una difficile verità. Sulle alture del Kivu, la regione del genocidio infinito, poco lontano dal luogo in cui sono stati uccisi il 22 febbraio Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista, Mustafa Milambo, proprio lì è stato assassinato martedì sera uno dei magistrati che indagano sull’agguato all’ambasciatore italiano. Il maggiore William Mwilanya Asani, revisore dei conti alla Procura militare di Rutshuru, è morto mentre tornava da una settimana trascorsa a Goma, al termine d’una serie d’incontri con altri investigatori congolesi. Il suo convoglio, scortato dal colonnello Polydor Lumbu del 3409° Reggimento delle Fardc, le forze armate, stava percorrendo al buio la strada verso Kaunga ed era arrivato all’altezza del villaggio di Katale, qualche decina di chilometri dalla località in cui è stato ammazzato Attanasio. Asani è morto all’istante, il colonnello Lumbu è ricoverato per ferite gravi. Secondo la versione ufficiale - e questo è a prima vista singolare, anche per la rapidità con cui sono state condotte le indagini - a sparare non sarebbero stati i “soliti” miliziani ruandesi delle Fdlr, in genere accusati dal governo di qualsiasi delitto (compreso quello dell’ambasciatore). No, stavolta l’agguato sarebbe stato teso dai militari in abiti civili d’un altro reggimento congolese, il 3416°: “Avevano messo un posto di blocco sulla Rn2 e si stavano accanendo sulla popolazione locale - riferisce un portavoce della polizia -, quando hanno visto le jeep militari e hanno iniziato a sparare”. La prova verrebbe dai documenti trovati su uno degli assalitori, ucciso nello scambio di colpi: il sergente Okito Longonga, che appunto appartiene al 3416° Reggimento. L’uccisione di Asani rientrerebbe dunque nelle rivalità fra soldati con la stessa divisa, piuttosto frequenti in questa parte di Congo: un anno fa, sette militari furono uccisi da commilitoni mentre trasportavano 100mila dollari, destinati agli stipendi. Non è chiaro che ruolo avesse il maggiore, nell’inchiesta Attanasio. La procura militare di Rutshuru è uno degli uffici incaricati d’investigare. E dai vertici che si sono tenuti a Goma, poco è trapelato: la task-force inviata nel Kivu dal governo centrale, per ora, ha deciso soltanto che ogni spostamento d’organizzazioni internazionali sulla Rn2 e nella regione dev’essere prima comunicato alle autorità. Una misura evidentemente insufficiente, su un territorio dove s’è quasi perso il controllo: stando ai rapporti del Kivu Security Tracker, un servizio gestito da varie ong, fra le 122 milizie che si muovono in zona spiccano gli abusi, gli affari, la corruzione, le violenze dello stesso esercito. A parole, la solidarietà e la collaborazione sono garantite: nelle ore dell’agguato al maggiore Asani, a Kinshasa si celebrava in cattedrale una messa in suffragio d’Attanasio e Iacovacci, alla presenza del presidente Felix Antoine Tshisekedi Tshilombo e del cardinale Fridolin Ambongo, con la lettura d’un messaggio speciale del Papa affidato al nunzio apostolico Ettore Balestrero. Nella sostanza, però, sono pochi gli elementi forniti ai Ros dei Carabinieri, inviati sul luogo. Tanto che martedì in commissione Esteri, alla Camera, s’è ipotizzato di classificare il caso Attanasio come crimine di guerra: in questo modo, ha spiegato il segretario della rete Pga (Parliamentarians for Global Action), David Donat Cattin, “l’Italia avrebbe i mezzi giuridici per incriminare coloro che finanziano, armano e dirigono il gruppo armato che ha attaccato il convoglio Onu, a prescindere dall’esistenza di ordini specifici a subordinati che sarebbe imprudente ridurre al rango di meri banditi”. L’agguato ad Asani è collegabile alle indagini che stava conducendo? “In Nord Kivu sono attive varie reti criminali e mafiose, alcune anche legate ai militari”, denunciava qualche giorno fa un attivista per i diritti umani nel Nord Kivu, Jimmy Kamate Kighoma: difficile entrare nelle strategie legate agli attacchi, alle minacce. Lo stesso Kighoma, consigliere municipale, s’è trovato l’auto danneggiata, la casa devastata e il cane avvelenato solo per aver parlato dei fondi all’esercito che si volatilizzano nelle corruttele. Non sempre il confine fra terroristi e rappresentanti dello Stato è chiaro. Ed è anche per questo che le indagini sulla morte di Attanasio e Iacovacci, in Congo, stanno trovando un muro di gomma. “Se hanno avuto il coraggio d’uccidere un ambasciatore - dice Kighoma -, riuscite a immaginare che cosa fanno a noi cittadini?”. Congo. Nelle guerre di ieri la spiegazione delle violenze di oggi di Fabrizio Floris Il Manifesto, 6 marzo 2021 Cronologia di sangue. La verità senza giustizia del “Rapporto Mapping”, redatto 10 anni fa dalle Nazioni unite sui crimini commessi nella Repubblica democratica del Congo tra il marzo 1993 e il giugno 2003. La tragica morte dell’ambasciatore Attanasio ha portato al centro delle cronache il Congo, le sue risorse e i suoi drammi. Ma se si vuole onorare la memoria dell’ambasciatore Luca, come lo chiamavano affettuosamente, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo il Congo dovrebbe rimanere al centro dell’agenda politica europea. Punto di partenza rimane il “Rapporto Mapping” redatto 10 anni fa dalle Nazioni unite sulle violazioni dei diritti umani commesse nella Repubblica democratica del Congo tra il marzo 1993 e il giugno 2003. Un documento decisivo che denuncia la violenza nei confronti di oltre 40mila donne, definisce i contorni in cui sono avvenute un numero imprecisato di morti e la fuga di oltre 3 milioni di persone. È un punto di verità che si dipana negli anni e include le cause delle violenze odierne. Infatti, dieci anni non sono bastati per assicurare alla giustizia i responsabili dei crimini. Nel Rapporto lungo 581 pagine viene descritto il massacro di Ntoto (Nord Kivu), in cui dozzine di contadini hutu Banyarwanda (“gente che viene dal Ruanda”) furono uccisi da gruppi armati Mai-Maî hunde e Nyanga in seguito a discorsi di odio da parte di politici locali che chiedevano di “sterminare i banyarwanda”, in un contesto in cui le popolazioni Hunde e Nyanga del territorio di Walikale credevano nell’imminenza di un attacco da parte degli hutu. Le tensioni si erano create a seguito di contestazione da parte delle altre popolazioni dei diritti politici e fondiari dei Banyarwanda, il cui peso demografico era significativamente cresciuto negli anni. Il tutto è amplificato dagli effetti del conflitto nel vicino Ruanda fino al genocidio che ha spinto circa due milioni di hutu ruandesi a rifugiarsi nel vicino Zaire (l’attuale Repubblica democratica del Congo). Tra loro vi erano anche genocidaires, inclusi molti Interahamwe, membri della milizia responsabile della maggior parte dei massacri. L’effetto è stato uno spostamento del conflitto hutu-tutsi in territorio congolese, dove gli Interahamwe hanno iniziato ad attaccare i tutsi congolesi a partire dal 1996, con incursioni anche in Ruanda. Questo a sua volta ha provocato la diffusione di armi tra i tutsi congolesi e il sostegno militare del Fronte patriottico ruandese (il movimento rivoluzionario ruandese di Paul Kagame) In questo contesto l’Uganda decide di appoggiare con l’invio di militari i tutsi congolesi minacciati dagli Interahamwe. Anche se l’obiettivo pare essere quello di assumere il controllo del Congo Orientale per sfruttare le sue risorse naturali e cogliere altresì l’occasione per rovesciare il regime di Mobutu. Per quest’ultimo obiettivo i presidenti dell’Uganda Museveni e del Ruanda Kagame fondano con Laurent Désiré Kabila l’Alliance of Democratic Forces for the Liberation of Zaire (Afdl): è l’inizio della prima guerra del Congo. Tra l’ottobre 1996 e il maggio 1997 cresce la spirale di violenze l’Afdl smantella i campi profughi hutu. L’esercito zairese non combatte, i soldati sono senza stipendio e disorganizzati, commettono saccheggi e stupri sulle popolazioni locali. A maggio 1997 Mobutu fugge in Marocco e Laurent Désiré Kabila si autoproclama presidente della Repubblica del Congo. L’Onu stima che 200.000 hutu siano stati uccisi. Fine primo atto. A partire dall’agosto 1998 c’è una rottura tra i tutsi congolesi e il regime di Kabila. I tutsi ribelli fondano il Rassemblement Congolais pour la Democratie (Rcd) sempre con il sostegno di Ruanda e Uganda. In breve i ribelli prendono il controllo dell’est del Paese. Kabila per non essere sopraffatto chiede e ottiene il sostegno di Angola, Namibia, Zimbabwe e Ciad. È la seconda guerra del Congo, che dura tre anni. Nel 2003 si crea un governo di transizione ma ad est milizie armate e soldati congolesi continuano ad agire: la Regione resta in una condizione di insicurezza permanente. Per dieci anni, tutte le parti coinvolte si sono rese colpevoli di gravi e massicce violazioni dei diritti umani. L’Onu ha avviato un processo per individuare i responsabili e tra mille difficoltà è stato istituito un team di specialisti sotto la supervisione dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Ohchr), con oltre 2,7 milioni di euro di budget. Per sette mesi, da ottobre 2008 a maggio 2009, 33 esperti congolesi e internazionali di diritti umani hanno raccolto documenti e intervistato testimoni e nonostante i tentativi di bloccare il Rapporto da parte di Ruanda e Uganda l’Ohchr ha reso pubblico il documento in data 1 ottobre 2010. Evidenziando violazioni che “presentano schiaccianti elementi di genocidio”, ma senza rivelare l’identità delle circa 200 personalità di spicco coinvolte nei crimini. Nel marzo 2016, il dottor Denis Mukwege ha presentato all’Ohchr una lettera firmata da quasi 200 ong in cui si chiedeva la pubblicazione del database che identifica i principali responsabili dei crimini descritti nel “Mapping Report”, ma l’Alto commissariato ha risposto che “la divulgazione al pubblico di queste informazioni potrebbe mettere in pericolo le vittime e i testimoni delle suddette violazioni”. Mukwege è tornato sul tema durante la cerimonia in cui gli è stato conferito il Nobel per la Pace (10 dicembre 2018), ma i nomi non escono. E così da 25 anni la Regione dei Grandi Laghi è in balia del binomio violenza-sfruttamento. Eppure Mukwege continua a chiedere “la creazione di un tribunale internazionale per il Congo, che non deve restare un bastione dell’impunità”. Lo stesso Papa Francesco nell’ultima enciclica Fratelli Tutti afferma che “gli accordi di pace sulla carta non saranno mai sufficienti. Occorrerà andare più lontano, includendo l’esigenza di verità sulle origini di questa crisi ricorrente. Il popolo ha il diritto di sapere che cosa è successo”. Senza questo diritto senza l’arresto dei responsabili non ci sarà pace in Congo e la morte dell’ambasciatore italiano svanirà come un fatto di cronaca.