In carcere mille positivi per Covid, è ora di fare i vaccini di Riccardo Polidoro Il Riformista, 5 marzo 2021 In Sicilia, in Abruzzo e in Friuli, le Regioni stanno eseguendo i vaccini negli istituti di pena, sia per il personale che per i detenuti. In Campania, allo stato, non si hanno notizie nemmeno di un’organizzazione finalizzata a tale iniziativa. Eppure, nel solo carcere di Carinola, vi sono stati, in pochi giorni, ben tre decessi per Covid tra gli agenti della polizia penitenziaria. L’emergenza sanitaria che ha colpito, ormai da un anno, il nostro Paese sta mietendo vittime, com’era più che prevedibile e come più volte denunciato dall’Unione Camere Penali Italiane, anche in carcere. Dove la parola “emergenza” era ed è pronunciata, da sempre, per molteplici aspetti della vita quotidiana: non solo quello sanitario, ma anche quello igienico, trattamentale, lavorativo, educativo, mentre l’unico reale interesse era ed è quello della sicurezza. I detenuti morti sono stati, nel 2020, 154. Era da dieci anni che non si raggiungeva una cifra così alta, pari a circa un morto ogni due giorni. Gli ultimi dati forniti dal Ministero della Giustizia sul numero dei contagiati fanno prevedere un aggravamento della situazione, se non s’interviene immediatamente con i vaccini e con idonee misure per diminuire il sovraffollamento. Al primo marzo i positivi erano 410 tra i detenuti, 562 tra il personale della polizia penitenziaria e 49 tra gli amministrativi. Oltre mille persone, costrette a vivere, nella maggior parte dei casi, in situazioni dove non è semplice rispettare il distanziamento, parzialmente possibile solo se si sacrificano fondamentali ed essenziali diritti dei detenuti come i colloqui con i familiari e le attività trattamentali. I primi passi mossi dalla neo-ministra della Giustizia Marta Cartabia sono importanti perché dimostrano una concreta volontà d’intervenire per affrontare l’emergenza e per tentare quella “svolta” costituzionalmente orientata, nell’esecuzione delle pene, per la quale i tempi non saranno brevi, ma è pur necessario cominciare. L’emergenza, invece, non può attendere. L’aver varcato prima la soglia dell’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e poi quella della sede del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è una scelta simbolica di grande rilievo. Cartabia ha mostrato finalmente interesse per un “mondo dimenticato” e ci sono tutti i presupposti per la pianificazione di quella “rivoluzione culturale” che, all’epoca degli Stati generali dell’esecuzione penale e della mai attuata riforma dell’ordinamento penitenziario, fu sbandierata a livello ministeriale ma ben presto ammainata. A 73 anni dalla nascita della Costituzione, senza che i suoi principi fossero applicati all’esecuzione penale, possiamo attendere che la guardasigilli prenda il tempo che riterrà utile per raggiungere l’obiettivo che sappiamo esserle caro, ma sono necessarie misure urgenti per diminuire il sovraffollamento, per consentire la stessa sopravvivenza dei detenuti e di chi nel carcere ci lavora. Unitamente a tali provvedimenti, è essenziale intervenire con i vaccini e bene ha fatto Cartabia a spronare le amministrazioni locali perché, sono parole sue, “proteggersi dal virus è indispensabile ed è urgente che le vaccinazioni nelle carceri proseguano velocemente”. Ci auguriamo che questo autorevole invito sia raccolto anche in Campania, dove il Garante regionale dei diritti dei detenuti lancia quotidiani allarmi sulla situazione degli istituti di pena del territorio, senza che vengano prese adeguate iniziative per la tutela delle persone ristrette e dei lavoratori. E dove il Garante della città di Napoli ha dichiarato di non aver mai incontrato il sindaco dal giorno della sua nomina, datata dicembre 2019. Rivolta nelle carceri, ecco le foto e i documenti dell’inchiesta sugli 8 morti di Modena di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 5 marzo 2021 La procura ha chiesto l’archiviazione del procedimento: “Morti di overdose, chi è intervenuto ha lavorato in situazioni di estrema precarietà”. I parenti delle vittime e le associazioni pronti a presentare opposizione al gip. Richiesta di archiviazione per reato commesso da persone ignote (omicidio colposo e morte come conseguenza di altro delitto). Numero 1030/2020 del registro notizie di reato, modello 44. Ecco le carte ufficiali e la manciata di fotografie che raccontano che cosa successe un anno fa nel carcere di Modena, la strage del Sant’Anna. Durante e dopo la rivolta dell’8 marzo 2020 - detta in sintesi - Polizia penitenziaria, medici e infermieri della struttura e sanitari del 118 avrebbero fatto del loro meglio per soccorrere, assistere e curare “tutti” i detenuti. E se qualche smagliatura ci fu, quella domenica e nella notte successiva, lo si dovrebbe “solo” all’eccezionalità della situazione, alle condizioni di caos e di emergenza, alle limitazioni imposte dal Covid. Discorso analogo per il personale dei penitenziari di Parma, Alessandria e Verona, la destinazione di decine dei 417 detenuti trasferiti. Servono 76 pagine, alla procura cittadina, per chiedere al gip di mandare in archivio l’inchiesta sulla morte dei cinque reclusi deceduti nella struttura terremota dalla sommossa (Hafedh Chouchane, Erial Ahamadi e Slim Agrebi la sera della rivolta, Lofti Ben Mesmia e Alì Bakili due giorni dopo) e di tre dei quattro compagni spirati nelle città di destinazione (Ghazi Adidi a Verona, Artur Iuzu a Parma e Abdellha Rouan ad Alessandria, con il fascicolo su Salvatore Piscitelli rimandato ad Ascoli). Questi otto uomini e ragazzi - è la tesi delle due pm titolari del fascicolo, supportata dalle conclusioni di medici legali e tossicologi di parte - sono stati stroncati da overdosi di metadone e/o di psicofarmaci, razziati e distribuiti da alcuni di loro e da altri. Non si sono trovate tracce o evidenze che facciano pensare ad altre cause oppure a concause. Non sono emerse responsabilità di terzi, nemmeno dopo l’esposto presentato da cinque scampati e le denunce di altri sopravvissuti, firmate e anonime. Eppure. Scorrendo i capitoli della ricostruzione -premesse generali e approfondimenti per ciascun morto - più di un passaggio induce a riflettere, interrogare e interrogarsi, individuare i possibili passaggi su cui gli avvocati in campo faranno leva per evitare l’archiviazione e chiedere altre indagini. Chi ha visto il provvedimento, tra gli addetti ai lavori, non nasconde dubbi e perplessità. Un punto centrale è il rispetto (o meno) dell’obbligo i sottoporre a visita medica i reclusi da trasferiti e quelli coinvolti in azioni in cui venga usata la forza fisica, legittimamente. Fuori dal carcere di Modena, per provvedere, furono allestiti due posti medici avanzati. “Tutti i detenuti che man mano venivano portati fuori dal muro interno venivano tutti visitati dal personale sanitario dell’istituto e dal personale del 118”. Ad alcuni furono somministrati farmaci salvavita, per sette si dispose il trasferimento in ospedale. Ma non si ebbero tempo e modo - visto lo “scenario estremamente complesso” - di registrare tutto ciò che venne fatto per applicare le norme in materia, non nelle prime fasi. “Si è dovuto intervenire in condizioni di estrema precarietà - parole dei camici bianchi, in quello che viene paragonato a un campo da guerra. I pazienti venivano assistiti all’aperto sul prato e sull’asfalto, dove erano presenti le forze dell’ordine con i loro numerosi automezzi, impegnate a sedare le rivolte”. Dunque, in “un tale contesto di grandissima criticità”, “non è stata prodotta alcuna documentazione scritta che potesse avere il valore di nulla osta al trasferimento- in quanto avrebbe determinato una significativa perdita di tempo e di risorse preziosissime per assistere quante più persone possibile. Non c’era tempo di chiedere nemmeno il nome”. Sarebbe stato impossibile compilare una certificazione - altra giustificazione data da medici e collaboratori, avallata dalle pm titolari dell’inchiesta - anche perché i detenuti non avevano addosso documenti, i fascicoli personali erano andati distrutti nell’assalto all’ufficio matricola (e nessuno deve aver pensato a chiedere nome e cognome a chi passava dai due tendoni del triage). Risultato? Degli accertamenti sulle condizioni di salute effettuati nelle prime ore non c’è alcun riscontro documentale, cosi come non esistono nulla osta sanitari scritti per i trasferimenti. Complessivamente vennero spostate altrove 417 persone, su 546 presenti, a fronte di un numero di medici e infermieri non precisato. Tuttavia, secondo la procura di Modena, “può ritenersi acquisita prova certa del fatto che tutti i ristretti siano stati visitati”. L’ordinamento penitenziario impone l’obbligo di visita c’è anche al momento dell’ingresso in carcere. Artur Iuzu, uno degli otto morti, finì a Parma con altri 15 compagni. I trasferiti arrivarono in carcere alle 22.30. Vennero perquisiti e collocati in celle d’isolamento, come previsto a causa del Covid. Quasi tutti “davano segni evidenti di abuso di sostanze”. Per questo, accanto ai reclusi “con occhi semichiusi, rallentati nelle reazioni e alcuni con eloquio incerto”, nelle celle vennero messi compagni “lucidi e orientati”. Per uno del gruppo si rese necessario l’accompagnamento in ospedale e il personale fu impegnato per organizzare il trasferimento fino alla 1 di notte. Sollo alle 2 di notte, così è scritto nelle carte, la dottoressa di turno avrebbe potuto iniziare i controlli medici. Ma i detenuti per cui andavano verificate le condizioni di salute, testuale, “nel frattempo si erano già addormentati”. Si preferì non insistere per svegliarli e non aprire le celle. La dottoressa li vide da fuori. Fece le visite senza entrare dentro” le celle, “ma solo colloquiando attraverso la grata della porta blindata, dopo essersi fatta accendere le luci all’interno ed aver visto che erano tutti a dormire”. Provò a destarli “per farsi dire come stavano”, però “nessuno aveva inteso di parlare con lei”. Possibile? Accertamenti clinici dal corridoio? Paura di rovinare il sonno a qualcuno? “Di norma - è la risposta che si dà nelle carte - le celle non possono essere aperte se non in corso di emergenza e comunque non da un unico operatore e solo su autorizzazione della sorveglianza generale” Artur Iuzu non ha più riaperto gli occhi, soccorso quando era troppo tardi. La dottoressa ha dichiarato, a verbale: “Ho sinceramente fatto del mio meglio”. Per Abdellha Rouan la fine è arrivata ad Alessandria. Si è accasciato mentre scendeva dal bus appena entrato nel cortile del carcere, alle “4.30 circa”. La dottoressa di turno ha tentato inutilmente di rianimarlo con un defibrillatore semiautomatico. L’equipe del 118 ci ha messo 40 minuti per raggiungere l’istituto penale, in una città deserta (le 5.10 l’ora riportata nelle carte). Dopo la sommossa, e un primo esame dei cadaveri, fonti ufficiali dissero che sui morti non c’erano segni di ferite. In realtà sui copri sono state trovate lesioni, tutte ritenute di modesta lesività e senza influenza sui decessi. Per Hafedh Chouchane, ad esempio, ecchimosi alla schiena, alle braccia e a una gamba vengono spiegate con “azioni natura contusiva verificatesi durante la rivolta”. Le escoriazioni ad un braccio sono risultate essere precedenti, correlate a tagli autoinflitti. Era uno dei cinque deceduti nel carcere di Modena. L’avvocato scelto dal padre si opporrà all’archiviazione. Così faranno, per tutti i morti, i legali dell’associazione Antigone e probabilmente anche il penalista nominato dal Garante nazionale dei detenuti. Vecchio e malato, scarcerato solo quando ha preso il Covid di Fausto Malucchi Il Riformista, 5 marzo 2021 Moreno ha 70 anni, un tumore alla prostata. Ha bisogno di assistenza costante. Eppure gli è stata negata la detenzione domiciliare. È rimasto in cella finché il virus non si è impossessato di lui. Ora è in un letto d’ospedale a lottare contro la morte. Il momento più duro è quando esci e non hai dato sostanza a quanto ti ha chiesto, con insistenza, quasi con supplica, un condannato, un condannato anziano. Moreno M. è un uomo minuto che ho conosciuto diversi mesi fa in carcere dove stava espiando una pena di tre anni e mezzo per un reato di bancarotta, bancarotta fraudolenta. Non è alla prima esperienza di questo tipo; per molti anni ha sentito il rumore metallico delle porte, la chiave che sigillava la sua notte. Nella sua vita è stato più bancarottiere che imprenditore ma non l’ha mai fatta franca, nel senso originale della frase e non come va dicendo in giro qualcuno. Bastano però pochi minuti, il tempo necessario per il racconto dei suoi malanni per capire che il carcere forse non è proprio il luogo più adatto per un uomo come lui. Moreno ha un tumore alla prostata, l’ipertensione, l’iperlipidimia mista, l’edentulia grave e soprattutto non è più in grado di gestire le sue urine. Per questo indossa per tutto il giorno e per tutta la notte, in pratica a vita, un pannolone. Per le sue funzioni, anche quelle minime, avrebbe bisogno di un piantone e nell’attesa, mosso a compassione, svolge il ruolo, con merito, il suo compagno di cella. Già, la cella. Io non l’avevo mai vista una cella prima che mi ci facesse accedere il Partito Radicale in una visita organizzata quattro o cinque anni fa al carcere di Pistoia, quello vero, quello che inizia nello stesso posto dove noi avvocati in genere ci congediamo dal cliente per ritornare fuori. E la cella di Moreno è grande all’incirca come un ripostiglio ma ora vi vivono in due, non più in tre come avveniva in tempo di super-sovraffollamento. Oggi per fortuna la situazione è migliorata ed il sovraffollamento è sovraffollamento e basta, grazie al cielo, e la cella di Moreno, da dividersi con l’improvvisato piantone, per le sue dimensioni, volendo sembra quasi un nido e non più un luogo di espiazione. Comunque, ad un’istanza di detenzione domiciliare per motivi di salute non ho saputo rinunciare, nella quasi certezza che anche i magistrati ad un uomo anziano e malato, criminale sì ma da strapazzo, non avrebbero detto di no. Ed invece il Magistrato di Sorveglianza in prima battuta (15 febbraio 2020) ed il Tribunale nel successivo giudizio (4 giugno 2020) hanno ritenuto che le condizioni cliniche del condannato fossero “discrete” e di conseguenza non incompatibili con il regime carcerario. Ho aspettato il 4 novembre, il giorno in cui il Moreno compiva settanta anni, per regalare al mio assistito un nuovo ricorso. Questa volta ai sensi dell’art. 47 ter, comma I°, O.P. “la pena della reclusione per qualunque reato... può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza, quando trattasi di persona che... abbia compiuto i settanta anni”. A giugno era fallito il tentativo di Fratelli d’Italia, Lega e Cinque Stelle di innalzare a 75 la soglia di quel beneficio e quindi Moreno avrebbe potuto certamente usufruirne. C’erano anche due nuovi elementi che sembravano favorire la sua richiesta: la sua salute ancor più pregiudicata e il Covid che stava minacciando non soltanto i detenuti ma anche le persone sane di libertà. E proprio facendo leva anche sul Covid e su qualche provvedimento di Giudici che avevano avvertito il pericolo, pensavo che stavolta non ci sarebbe stata questione e men che meno rifiuto. All’udienza del 9 febbraio 2021 il P.G. chiedeva il rigetto dell’istanza ed il Tribunale di Sorveglianza rinviava al 20 aprile per avere un supplemento di relazione dal carcere. Mogio mi son recato da Moreno per dare conforto morale visto che comunque foro alla calda stagione non si sarebbe più parlato della sua storia e a quella data forse saremmo stati anche nella condizione di poter chiedere la detenzione domiciliare ordinaria. Ma appena arrivato all’ingresso sono stato cortesemente informato che Moreno non era più li. Il rinvio questa volta non l’aveva concesso il virus e Moreno stava lottando con la morte nel relativo reparto dell’Ospedale San Iacopo di Pistoia. Carissimo Moreno questa volta ce l’ho fatta, ti ho tirato fuori dal carcere per motivi di salute e con largo anticipo sulla prossima udienza fissata alle di d’aprile. Spero che anche tu ce la possa fare. Io nel frattempo continuerò a sbirciare nel Parlamento, nelle aule di Giustizia, nelle carceri, alla ricerca dell’uomo. Cartabia e il “sociale” come idea per seppellire vent’anni di conflitti di Errico Novi Il Dubbio, 5 marzo 2021 Esami da avvocato, vaccini ai detenuti, toghe onorarie: priorità con cui la ministra vuol ricordare che la Giustizia non è vendetta. È una piccola rivoluzione culturale. Piccola perché dovrà passare in modo quasi impercettibile nella coscienza diffusa. La giustizia di Marta Cartabia è servizio, risposta alle urgenze, soluzione di problemi concreti. Sembra ordinaria amministrazione. Ma è un messaggio politico. Ed è la strada che la nuova guardasigilli ha scelto per lasciarsi il giustizialismo alle spalle. Appena arrivata a via Arenula, la ministra si è trovata a dover sciogliere diversi nodi. L’esame da avvocato innanzitutto: c’è l’urgenza di rispondere alle attese di 26mila praticanti. Ed è impossibile che la loro prova di abilitazione, in programma il 13, 14 e 15 aprile, si svolga con la tradizionale scrematura dello scritto. È ormai assodato che si procederà a un orale in due fasi, uno preselettivo e un secondo impostato con lo schema consueto. Servirà un decreto legge. Al momento di mandare in stampa il giornale, non risultava ancora formalizzato il parere del Cts, a cui via Arenula ha chiesto se sia del tutto da escludere il tentativo di svolgere gli scritti. Non risulta ancora pervenuto il documento ufficiale, ma la ministra sembra darne per intesa la sostanza: non si può fare. E così lavora all’ipotesi riferita ieri su queste colonne: un primo orale con la commissione che potrebbe anche collegarsi da remoto, ma con il candidato tenuto a presentarsi in sede, in una cornice controllata. Ordinaria amministrazione? Sì, ma anche una sottintesa priorità del “sociale”. Stesso discorso per la campagna vaccinale nelle carceri, di cui Cartabia ha parlato tre giorni fa con i vertici del Dap e che considera indifferibile. Si occuperà a breve di magistratura onoraria, anche perché non affrontare il problema, ha spiegato, vuol dire esserne travolti. E pensa a un modello di riforma imperniato su managerialità e organizzazione. Uno schema molto vicino alla proposta trasmessa dal Cnf al governo quando a Palazzo Chigi c’era ancora Giuseppe Conte e a via Arenula Alfonso Bonafede. Cartabia sembra molto in sintonia con l’istituzione forense sull’idea di un sistema giudiziario costruito sulla centralità della persona. Sulla domanda di giustizia come attesa dell’individuo. Una chiave da cattolica che non intende limitarsi alla burocrazia del potere. Ma l’approccio non esclude affatto la resa dei conti su processo penale e prescrizione. A fine marzo si dovrà emendare il ddl Bonafede, e superare il lodo Conte bis. Cartabia non eluderà la prova. Ma intanto vuole dare alla politica giudiziaria una connotazione diversa: non la prescrizione, non il rigorismo general preventivo da infliggere agli “impuniti”, non la bulimia penitenziaria che Bonafede avrebbe voluto placare con nuove carceri, ma precedenza alle persone, ai diritti, a un accesso alla giurisdizione non regolato dal censo eppure coniugato con l’efficienza. Tutto questo serve in realtà a battere proprio il giustizialismo. A rassicurare una parte dell’opinione pubblica, corrosa dal rancore, sul fatto che la giustizia non è vendetta, ma vittoria del diritto, soluzione dei conflitti, risposta ai bisogni. Un’idea di riconciliazione, una chiave imprevedibile per vincere la deriva giustizialista. Ne parla anche Francesco Paolo Sisto, sottosegretario di estrazione forense e berlusconiana che condivide l’incarico a via Arenula con la pentastellata Anna Macina. Sia nell’intervista alla Stampa di ieri che in un colloquio con Radio Campus (e nella lunga conversazione pubblicata in altra parte del Dubbio di oggi, ndr), Sisto conferma l’impostazione concreta di Cartabia come via per superare i conflitti. Certamente ne è emblema l’ottimo rapporto che, confermano a via Arenula, si è stabilito fra lui e la collega 5 stelle Macina. Una sintesi che sublima quella a cui Cartabia punta nel Paese. Dopo anni in cui via Arenula è stata il simbolo di una distanza distruttiva. “Grazie alla Costituzione salveremo la Giustizia dal populismo” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 marzo 2021 Intervista al sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto: “Basta veti, sulla prescrizione modifiche dettate dalla Carta”. Il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto in questa intervista al Dubbio traccia una road map su due direttrici: rispetto dei principi costituzionali e semplicità. E aggiunge: “Noi abbiamo l’obbligo di riportare la giustizia nell’ambito del diritto e non delle volubilità della politica del consenso: potrebbe sembrare una banalità ma ahimè non è così. Mi auguro che il diritto del consenso venga cancellato per sempre”. La ministra Cartabia ha delineato un perimetro costituzionale sul “lodo prescrizione”. Al di là di questo specifico tema, il richiamo alla Carta può essere l’antidoto per spegnere ogni impennata giustizialista? La Costituzione in questa fase della legislatura è un vero e proprio ritorno al futuro. Si tratta di riprendere princìpi che sono stati molto spesso ignorati e qualche volta addirittura intaccati dalle scelte dei precedenti governi. Non dimentichiamo che i provvedimenti Bonafede nascono nella joint venture con la Lega, per poi dipanarsi in modo assolutamente decisivo nella fase di matrimonio con il Partito democratico. La Costituzione era invocata ad usum, tanto è vero che molto spesso qualcuno iniziava a soffrire di improvvise amnesie in merito ai princìpi della Carta. Oggi tornare sulla Costituzione, come la ministra Cartabia ha fatto opportunatamente nell’ambito della sua prima uscita davanti ai gruppi parlamentari, mi sembra un segnale molto incoraggiante. Gli articoli 27 e 111, come il richiamo alla giurisprudenza europea, sembrano parametri di discussione nuovi ma in realtà è grave che per troppo tempo non siano stati tenuti in considerazione. Provando a tradurre in concreto: con questa ministra sarebbe stato possibile quello che è accaduto un anno fa in commissione Antimafia, quando si è ipotizzato di limitare con legge ordinaria gli effetti della sentenza della Consulta secondo cui è illegittimo subordinare alla collaborazione del recluso la concessione dei benefici? È come chiedere se una maestra possa commettere gli errori che sono propri degli alunni. La ministra Cartabia ha un livello di cultura ineccepibile, il livello della discussione si è elevato moltissimo, tanto da mettere in difficoltà tutti coloro che anteponevano le ideologie e le relative bandierine alla riflessione giuridica. Noi abbiamo l’obbligo di riportare la giustizia nell’ambito del diritto e non delle volubilità della politica del consenso: sembra una banalità ma ahimè non è così. Mi auguro che utilizzare il diritto per il consenso occasionale sia stata solo una momentanea cattiva pratica e che venga cancellata per sempre. Ma il nostro Paese è affetto da tempo dal virus del giustizialismo... Nel nostro Paese vige la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva, principio di matrice costituzionale. Si tratta di un principio che non si può invocare o ignorare a piacimento, a seconda dell’effetto voluto. Al processo va così restituita la funzione di accertamento neutro della verità: non si può considerare inutile un processo che non giunge a una condanna e leggere con sospetto un processo che invece assolve, come se questa scelta fosse un insulto alle logiche inquisitorie di certi mai domi Robespierre. Riportiamo al centro del processo il cittadino, assicurandogli le naturali garanzie, recuperiamo la giusta dimensione per l’accertamento della verità processuale, e soprattutto chi scrive le leggi in materia, come il chirurgo che entra in sala operatoria, abbia le adeguate conoscenze da coniugare all’esperienza, nel rispetto delle decisioni del Parlamento. Può sembrare una banalità ma ho l’impressione che nell’ultimo periodo il know how nella giustizia non sia sempre stato all’altezza di un Paese che storicamente è stato tra i primi per civiltà giuridica. Secondo l’ex ministro Bonafede ogni azione giudiziaria si conclude con una condanna... Al di là delle citazioni e degli strafalcioni, questo è il momento della legislatura in cui occorre cercare di dialogare e ragionare, insieme: e tutti devono rinunciare a qualche cosa. La migliore transazione è sempre quella che lascia tutti un po’ scontenti. Se però qualcuno pensasse che in una fase di questo genere si possa solo immaginare un immobilismo per veti reciproci tradirebbe l’impegno a rispondere alle necessità del Paese che abbiamo assunto con questa compagine di governo. Io sono convinto che questo non accadrà, sicuramente troveremo delle soluzioni per modificare, termine utilizzato sia dal presidente Draghi sia dalla ministra Cartabia, alcune norme che indubbiamente manifestano una qualche mancanza di aderenza ai cardini della Carta costituzionale. Il 29 scade il termine per gli emendamenti al ddl penale. C’è chi ritiene insuperabile il lodo Conte-bis, chi propone la prescrizione a fasi. Come se ne esce? Dinanzi a tutto questo adoperiamoci per soluzioni semplici e che non siano frutto di prese di posizione ideologiche. Il diritto è semplicità. È chiaro che bisogna conoscerne la complessità di strutture ed elaborazioni, ma poi occorre individuare la soluzione, chiara ed efficace. Credo che, su questa scia, la ministra Cartabia vorrà individuare percorsi che consentano di raggiungere obiettivi consensualmente costituzionali. Lei è il relatore sulla proposta di legge per la separazione delle carriere. Non a caso, appena nominato, l’Unione Camere penali le ha scritto un messaggio pubblico: “È stato sempre al nostro fianco in difesa dei valori del diritto penale liberale e del giusto processo”. Pensa che la ministra Cartabia possa dare anche un apporto tecnico alla questione? Secondo le tracce indicate dalla ministra, ci sono diversi quadranti di intervento in tema di giustizia: la prima necessità è individuare le modalità di spesa e intervento conseguenti al Recovery fund, unitamente alla questione degli esami per gli avvocati, con una possibile prova orale rafforzata, prodromica a quella tradizionale, e quella degli esami per gli aspiranti magistrati. Solo successivamente a tali emergenze sarà possibile affrontare le questioni del processo civile e di quello penale, partendo da quello che già esiste in Parlamento, quindi con attività emendative ma soprattutto di aula parlamentare, finalmente recuperata. Apro parentesi: la novità di questo governo è che si ritornerà certamente in Aula per discutere delle leggi, per vendicare, diciamo così, l’affronto che abbiamo subìto grazie all’autarchia del precedente governo e all’autoritarismo-mou dell’ex presidente del Consiglio, una satrapia dolce ma molto insidiosa. Il Parlamento, ora, tornerà centrale. Quindi, recuperando la sua domanda, le riforme ordinamentali sono certamente importanti quanto le altre ma, visto il tempo che residua, corrono a mio avviso il serio rischio di essere di difficile realizzazione. Credo profondamente nella necessità di separare le carriere: è la stessa natura del processo che esige ci sia diversità tra parti e giudici. È vero, tema decisivo: occhio però a non caricare troppo l’agenda. È preferibile una road map più scarna, minimalista ma più sicura per percorsi e traguardi. Lei sente su di sé la responsabilità di mostrare che il garantismo di Forza Italia è slegato dalle vicende di Silvio Berlusconi? Silvio Berlusconi ha patito tanto e questo costituisce per noi di Forza Italia un dato esperienziale che rafforza il convincimento che abbiamo sempre avuto: le garanzie sono una bandiera che deve sempre restare issata. Quando noi sosteniamo che al centro del processo c’è il cittadino, e non il pubblico ministero et similia, ripetiamo solo quello che è scritto nella Costituzione: non si può rendere un processo più efficiente a mezzo della decimazione delle garanzie. Se qualcuno pensa che per fare più in fretta si debbano tagliare le mani agli imputati sbaglia. Nel libro di Luca Palamara si discute di possibile persecuzione nei confronti di Berlusconi... Il libro del dottor Palamara non è il Corano, è un racconto, indubbiamente poco rassicurante, e come tale va preso. I tanti, troppi processi nei confronti del presidente Berlusconi non hanno bisogno di chiosatori o interpreti ufficiali e parlano da sé. Il libro in questione invece offre uno spaccato, gli spunti per una riflessione profonda su quelli che possono essere rapporti non lineari all’interno di certe istituzioni. Ma questo non diventi un tormentone o diversivo: il vero problema è che nel nostro sistema la sanzione è il procedimento-processo, e non la sentenza, che spesso arriva a giochi fatti. Se a questo aggiungiamo il moltiplicatore perverso del processo mediatico, l’indagato è spacciato fin dall’inizio e a prescindere. Provare a raccogliere le forze parlamentari su queste “sensibilità senza colore” può essere certamente proficuo e utile per iniziare a scrivere una nuova stagione in cui chi non ha commesso alcunché possa sentirsi garantito da un processo giusto. Come scrive la Costituzione. L’appello dei penalisti: “Il deposito telematico non comprima il diritto di difesa” di Errico Novi Il Dubbio, 5 marzo 2021 La Giunta dell’Unione delle Camere penali scrive alla guardasigilli Marta Cartabia: “La situazione attuale mette a repentaglio la possibilità di garantire agli assistiti il corretto rispetto dei termini e delle scadenze processuali”. Un “intervento diretto” per “definire quanto prima, in via transitoria, il ripristino anche delle modalità tradizionali di deposito degli atti difensivi e di accesso ai fascicoli processuali” e un “incontro ove illustrare le proposte per una più efficace organizzazione delle modalità di accesso da parte dei difensori ai portali telematici”. È quanto chiede la Giunta dell’Unione delle Camere penali alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, sottolineando, in un documento, che “la situazione attuale genera una crescente incertezza ed una progressiva e sempre maggiore disomogeneità degli strumenti a disposizione nei diversi territori e, come segnalato dalle Camere penali territoriali, mette concretamente a repentaglio l’esercizio del diritto di difesa e la possibilità di garantire agli assistiti il corretto rispetto dei termini e delle scadenze processuali”. Secondo i penalisti, infatti, “le continue problematiche collegate ai depositi telematici”, quali “limiti al caricamento dei files, blocchi del sistema, intoppi della procedura di deposito”, e la “grande incertezza sulla legittimità del ricorso al deposito degli atti brevi manu - si legge nel documento della Giunta Ucpi - ricadono inevitabilmente sul corretto esercizio delle prerogative difensive che devono essere sempre garantite, in ossequio ai principi costituzionali e che impongono la salvaguardia delle tradizionali modalità di deposito per un periodo di tempo sufficiente a consentire, da un lato, l’adeguamento del sistema alla nuova disciplina telematica, dall’altro la perfetta organizzazione dell’attività professionale. Ora più che mai - concludono i penalisti - occorre garantire la vigenza di un doppio binario”. Provocazione come attenuante della diffamazione se prevarica la civile convivenza di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2021 Le offese veicolate su Facebook possono avere “giustificazioni” se contenute ai fatti attribuiti e non se mirano al pubblico disprezzo. La provocazione come attenuante o causa di giustificazione del reato di diffamazione scatta solo se si concretizza in un’azione che prevarica “oggettivamente” la forma della civile convivenza. Non scatta cioè la provocazione - come prevista dal Codice penale - per la sola percezione soggettiva di essere stati destinatari di atti al di fuori della civile convivenza. Stessa cosa va detta per l’attenuante di aver agito in stato d’ira, che non rileva sempre e comunque, ma solo se oggettivamente si è vittima del “fatto ingiusto” altrui. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 8898/2021 ha escluso le giustificazioni di due coniugi condannati per diffamazione ai danni di un ciclista del team che dirige il marito. Entrambi tramite Facebook avevano utilizzato frasi offensive al riguardo dello sportivo considerandolo un bluffatore in ordine a un caso di sua assenza dalle gare per malattia certificata, cui seguiva - tra l’altro - un ricovero. I ricorrenti pretendevano fosse loro riconosciuto lo stato d’ira indotto dal tenore di una telefonata occorsa tra il padre dello sportivo e il responsabile della squadra ciclistica. Ma la Cassazione ritiene congruo il ragionamento dei giudici secondo cui la violenza verbale del padre del ciclista era giustificata dall’affermazione del ricorrente che nel criticare l’assenza per malattia del figlio aveva aggiunto che lo avrebbe escluso anche da una seguente e importante gara a prescindere dal suo stato di salute. Quindi la minaccia di una ritorsione che ben poteva giustificare la reazione verbale dell’interlocutore. Mentre, al contrario, la reazione offensiva espressa dai due ricorrenti successivamente su Facebook spezza quella contestualità tra offesa e reazione che può giustificare quest’ultima. La Cassazione coglie anche l’occasione per spiegare quando affermazioni oggettivamente offensive possano essere giustificate. Nel caso concreto non sarebbe stato diffamatorio che i ricorrenti si appellassero all’organo di disciplina per manifestare le loro critiche al comportamento tenuto dallo sportivo e che loro, a torto o a ragione, ritenevano inaccettabile o contrario alla deontologia sportiva. In tale sede anche una critica sferzante o un’accusa specifica sarebbero rientrate nel perimetro dell’esimente dell’articolo 51 del Codice penale. Il caso di Facebook pone poi un problema di insita maggiore offensività per l’ampia platea di chi viene a conoscenza delle opinioni espresse contro qualcuno. Sulla piazza virtuale, dice la Cassazione rileva - ai fini dell’inquadramento delle espressioni usate nella fattispecie della diffamazione - l’aver esposto non solo al pubblico ludibrio, ma addirittura al pubblico disprezzo, la persona messa nel mirino da chi scrive. Inoltre, nel caso specifico, oggetto dei post dei ricorrenti - al di là del limite della continenza delle espressioni nel caso concreto ampiamente superato - non era il fatto che aveva originato il disappunto cioè l’assenza per malattia, ma la persona stessa del ciclista, definito “suonato”, “uomo di merda” e “ubriaco in bicicletta” con diretta lesione della reputazione e della considerazione sociale nei suoi riguardi. Sicilia. Primo passo per la nascita dei poli universitari penitenziari ? di Serena Termini redattoresociale.it, 5 marzo 2021 Saranno dentro le sedi di Palermo, Catania, Messina ed Enna. In Italia sono 80 gli istituti in cui viene garantita l’istruzione universitaria, con la collaborazione di 37 atenei (compresi i 4 siciliani). Il garante Fiandaca: “La nascita dei poli universitari permetterà ai detenuti di rimanere nelle carceri dell’Isola”. Anche in Sicilia verrà presto offerta alle persone detenute degli istituti di pena e a coloro che sono in esecuzione penale esterna la possibilità di potere accedere agli studi universitari. Si tratta del riconoscimento dei poli universitari penitenziari stabilito da un accordo-quadro di collaborazione, firmato giovedì scorso, a Palazzo Orleans tra il garante dei diritti dei detenuti della Regione Siciliana Giovanni Fiandaca, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria in Sicilia Cinzia Calandrino insieme al presidente della regione Nello Musumeci e l’assessore regionale alla formazione e istruzione Roberto Lagalla con i delegati degli atenei delle Università di Palermo, Catania, Messina ed Enna “Kore”. In Italia sono 80 gli istituti penitenziari in cui viene garantita l’istruzione universitaria, con la collaborazione di 37 atenei (compresi i quattro siciliani), per un totale di circa 1000 studenti detenuti iscritti. Per il 60% si tratta di detenuti in regime di media sicurezza, per il 34% di alta sicurezza, per l’1,5% di detenuti con il 41 bis. Solo il 2% degli studenti universitari detenuti è rappresentato da donne. In particolare le attività svolte dai poli in Sicilia offriranno alle persone detenute percorsi formativi universitari utili alla riabilitazione psico-sociale, con ricadute positive nel percorso di recupero, sia durante che dopo la detenzione. Alle attività formative dei poli, il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e le università dedicheranno risorse e professionalità, coinvolgendo enti e istituzioni presenti sul territorio, comprese le associazioni di volontariato e terzo settore che operano nelle carceri dell’Isola. Nello specifico, la regione si impegnerà a contribuire alle spese necessarie attraverso gli strumenti finanziari che daranno il supporto operativo al raggiungimento delle finalità del progetto. In Sicilia esistono 23 istituti penitenziari per un totale di 6 mila persone detenute. A parlare su come si articoleranno a livello organizzativo i quattro poli è il garante dei detenuti dell’Isola Giovanni Fiandaca. “Essendo stato anche un professore universitario di lungo corso, questo accordo, certamente, realizza un desiderio che avevo da tempo - afferma il garante Giovanni Fiandaca - che in questo caso interagisce anche con il mio ruolo di garante dei diritti. E’ giusto che anche in Sicilia, così come avviene già nelle carceri di altre città italiane, si possano attivare i poli universitari dentro le realtà carcerarie. Tra l’altro è lo stesso ordinamento penitenziario che riconosce l’istruzione come primo elemento del trattamento rieducativo volto al reinserimento sociale delle persone detenute. In questo caso la promozione di un più elevato livello di cultura costituisce un presupposto importante per generare nella persona detenuta maggiore disponibilità al trattamento rieducativo. Sappiamo anche che le persone che potranno accedere a questi studi sono un numero limitato perché, statisticamente, rispetto all’istruzione media dei detenuti del nord Italia, nelle regioni meridionali, la popolazione carceraria presenta un livello di istruzione e di scolarità più basso”. “La nascita dei poli universitari permetterà soprattutto ai detenuti di rimanere nelle carceri dell’Isola. In passato, infatti, ho ricevuto richieste di detenuti di trasferirsi in altre carceri dove erano presenti dei poli universitari per potere continuare gli studi. In particolare, già due anni fa, in seguito ad una mia richiesta alle direzioni delle carceri siciliane di appurare il numero dei detenuti che volevano continuare gli studi, si erano registrate circa 160 persone. Certamente sarà nostra cura, non appena si concluderà l’emergenza sanitaria, andare nei diversi istituti di pena, insieme ai delegati universitari per informare e sensibilizzare sul progetto tutta la popolazione carceraria”. “Per il momento, tra i corsi che verranno offerti, ci saranno quelli di tipo umanistico: giurisprudenza, scienze politiche e lettere - continua Giovanni Fiandaca -. I delegati universitari nominati dal rettore sono, rispettivamente due a Catania, uno a Palermo, uno a Messina e uno ad Enna. La firma dell’accordo quadro - che ha la durata di 3 anni - rappresenta l’atto costituente del progetto. Dopo questo, successivamente si dovrà procedere alla stipula degli accordi specifici tra le singole università e il provveditorato che stabiliranno che cosa insegnare e dove insegnarlo”. “Per evitare duplicazioni e dispersione di risorse ci si organizzerà in relazione alle richieste. Per esempio se si accertasse che in Sicilia 30 detenuti volessero studiare giurisprudenza, si deciderebbe che uno dei quattro poli universitari verrebbe dedicato alla giurisprudenza - aggiunge ancora il garante -. Il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria penserà a trasferire i detenuti interessati nel carcere dove sarà presente il corso universitario. I quattro poli saranno impegnati, quindi, in ambiti disciplinari diversi. Le università, dal canto loro, metteranno a disposizioni personale amministrativo e docenti dei corsi di studi specifici. Nei prossimi giorni contatterò i delegati universitari per procedere alla fase attuativa del progetto”. Toscana. Covid, da metà marzo iniziano le vaccinazioni nelle carceri di Clara D’Acunto intoscana.it, 5 marzo 2021 La conferma nel corso della firma del protocollo per la tutela dei diritti dei detenuti tra il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria e i garanti della Toscana. Partiranno da metà marzo le vaccinazioni nelle carceri della Toscana. Ad annunciarlo il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Carmelo Cantone. “Ormai è ufficiale, partiremo a metà mese con la somministrazione ai detenuti e al personale. Gli istituti sono fortemente penalizzati dalla pandemia, è stato difficile. Ci auguriamo che questo sia un deciso passo in avanti per il superamento dell’emergenza”. La conferma dell’avvio delle vaccinazioni è arrivata oggi nel corso della firma di un accordo, in Consiglio Regionale, volto a tutelare i diritti dei detenuti e a migliorare la qualità della vita negli istituti, oltre che a potenziare i percorsi di reinserimento sociale. Hanno firmato, alla presenza del presidente dell’Assemblea toscana, Antonio Mazzeo, oltre al Provveditore, il Garante dei detenuti per la Regione Toscana, Giuseppe Fanfani, e i garanti dei comuni di Firenze, Livorno, Lucca, Prato, Porto Azzurro, Pisa, San Gimignano e Siena. Un protocollo per migliorare la qualità della vita negli istituti - “Con questo atto diamo piena attuazione ai principi e alle garanzie costituzionali - ha detto il Garante - Rinnoviamo dunque l’impegno di leale collaborazione tra poteri dello stato”. Grazie a questo accordo ci sarà maggiore comunicazione e coordinamento, oltre a un più continuo scambio di informazioni, tra garanti e istituti anche per incentivare azioni comuni volte al miglioramento della qualità degli standard di vita nelle carceri. “Vorrei che il Consiglio regionale fosse sempre più il luogo per dare voce a chi ha meno voce - ha ricordato il presidente Antonio Mazzeo - In visita a Sollicciano, ho chiesto di valutare la possibilità di vaccinare da subito polizia penitenziaria e detenuti. Sono contento che questa strada sia stata intrapresa. Questa firma è un inizio di un percorso che faremo insieme. Ci sarà sempre il nostro appoggio”. Campania. Quaresima, Don Grimaldi (cappellani): “Peregrinatio Crucis nelle carceri” agensir.it, 5 marzo 2021 La Croce della Misericordia benedetta da Papa Francesco il 14 settembre 2019 si fa “pellegrina di speranza” nelle carceri della regione Campania dal 1° marzo al 4 aprile. “Questo evento di grazia e di fede - afferma don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane - vuole aiutare il mondo penitenziario a vivere nella gioia il tempo della Quaresima e a non sentirsi né solo né abbandonato specialmente in questo tempo di distanziamento e di angoscia”. La Peregrinatio Crucis vuole toccare le “periferie esistenziali” affinché “il carcere non sia solo una periferia da emarginare. La Croce è un segno di vicinanza della Chiesa, verso i ristretti privati della loro libertà personale a causa di errori commessi. Essa rappresenta, inoltre, un incoraggiamento verso gli operatori pastorali che offrono il loro servizio nelle carceri e una sollecitudine a spalancare il cuore per guardare con speranza la sfiducia sociale che il mondo sta vivendo”. “La Croce, segno dell’amore di Dio che varca le prigioni, è un invito a non cedere alla disperazione di fronte alle miserie e cadute umane. Gesù, dalla Croce, rivolge il suo sguardo e la sua attenzione ai disperati - ricorda il sacerdote -, agli smarriti di cuore e, dalla Croce ‘cattedra silenziosa di Dio’, Egli parla all’umanità di perdono, di misericordia, di accoglienza. Da quella stessa Croce Gesù tende la sua mano e salva il Ladrone pentito accogliendo il suo estremo atto di pentimento perché nulla è impossibile a Dio”. Anche “davanti ai macigni del peccato - aggiunge don Grimaldi - Dio non ha paura di perdonare e rischia con la sua infinita Misericordia. Perciò, Gesù, il condannato a morte, pur essendo innocente ci dona uno sguardo nuovo e indica la direzione della nostra vita. Il Suo sguardo è anche l’invito a rivolgere attenzione all’altro e a non dimenticare gli innocenti imprigionati e ingabbiati che, a causa di errori e accanimenti giudiziari, sono in fiduciosa attesa. L’errore umano del giudicante, oltre a distruggere la vita sociale di alcuni di essi, rischia di marchiare a vita molti uomini e donne”. Pertanto, la Croce della Misericordia che nella prima tappa toccherà le carceri della Campania per proseguire il suo pellegrinaggio negli istituti di pena di altre regioni d’Italia, “vuole far rifiorire la pace e la fiducia riconciliando il cuore dei detenuti come un invito a porre dinanzi al Crocifisso la propria vita con la sincerità di cuore, consegnando con la fiducia dei figli il proprio peccato e il male seminato nel passato”. La Croce che entra in carcere “vuole liberare il condannato della giustizia umana indicando la strada per non lasciarsi imprigionare nella cella buia della disperazione”. La Peregrinatio Crucis è, dunque, “un pellegrinaggio simbolico nei luoghi della pena, ma anche di riconciliazione, per affermare che tutti hanno diritto alla speranza”. Firenze. Violenze nel carcere di Sollicciano, altre tre segnalazioni per presunti pestaggi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 marzo 2021 Stesso modus operandi a Sollicciano, denuncia l’associazione “L’Altro diritto”, dove 9 agenti sono stati raggiunti a gennaio da una misura cautelare. È notizia recente che nove agenti penitenziari, tra i quali un’ispettrice, sono stati raggiunti dalle misure cautelari perché avrebbero pestato due detenuti in momenti differenti nel carcere di Sollicciano. Uno nel 2018 e l’altro a maggio del 2020. Ora però emerge, grazie alla segnalazione alla procura di Firenze da parte dell’associazione L’Altro Diritto, che si sarebbero verificati altri tre casi di abusi con lo stesso modus operandi che confermerebbe il clima di terrore perdurato nel tempo a Sollicciano. Parliamo di casi che ovviamente saranno vagliati dalla magistratura inquirente, ma colpisce il fatto che a compiere i presunti pestaggi e umiliazioni, con tanto di minaccia per ottenere il ritiro della denuncia, sarebbero state le stesse persone raggiunte dalla custodia cautelare. Il ruolo fondamentale dell’associazione “L’Altro Diritto” - Ma andiamo con ordine. L’Altro Diritto, fondata nel 1996 presso il Dipartimento di Teoria e storia del diritto dell’Università di Firenze, si occupa principalmente dei diritti delle persone in esecuzione penale. Grazie alla Convenzione firmata con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, da anni ha esteso la sua attività all’intero territorio nazionale. La convenzione con il Dap ha l’obiettivo di consentire che “ogni detenuto possa esercitare i diritti stabiliti dalle vigenti leggi” e autorizza tutti gli operatori del Centro a mettere in atto ogni forma di sostegno utile a tal fine. Non è un caso che è la prima associazione chiamata a ricoprire un incarico di Garante dei detenuti, per il carcere di San Gimignano. Ora, a seguito della notizia dell’inchiesta relativa a fatti qualificati come tortura nel carcere di Sollicciano, l’associazione ha segnalato alla procura competente tre casi di cui è venuta a conoscenza nel corso dei colloqui settimanali con le persone detenute nel carcere di Sollicciano. Il primo caso l’8 ottobre scorso “invitato” a rimettere la querela - Il primo caso riguarda un detenuto che, l’8 ottobre scorso, a colloquio con Giuseppe Caputo, coordinatore del Centro di Informazione giuridica de L’Altro Diritto, ha raccontato di un episodio avvenuto il 12 agosto. Ha riferito di essere stato vittima di un “pestaggio” da parte di agenti di polizia penitenziaria e ha mostrato copia della denuncia-querela da lui sporta. Cosa gli sarebbe accaduto? Dopo aver ricevuto notizie negative circa la propria istanza di trasferimento al carcere di Massa (per riavvicinamento con la famiglia e in particolare con il figlio minore), è andato in escandescenze ribaltando un tavolo. Subito dopo, però, si è calmato e ha messo a posto il tavolo e terminato tranquillamente il colloquio. Dopodiché, i due agenti che lo stavano riaccompagnando in sezione lo avrebbero portato in bagno e cominciato a colpirlo per punirlo. Nel corso dello stesso colloquio con Caputo, ha mostrato una copia della propria cartella clinica da cui si desume che, il giorno del presunto pestaggio, il detenuto si è recato in infermeria dove ha chiesto di essere sottoposto a visita medica riferendo di essere stato percosso. Il referto, però, ha riportato la dicitura per la quale “allo stato degli atti non è possibile esprimere una valutazione circa la compatibilità della lesione con le circostanze di tempo, modo e luogo riferite”. Il medico stesso ha prescritto i raggi x da cui è risultata una frattura delle ossa nasali. A seguito della denuncia, il detenuto però racconta che avrebbe subito pressioni volte a fargliela ritirare. Secondo quanto segnala L’Altro Diritto, sembra che al detenuto venisse prospettato, in mancanza di remissione di detta querela, il rigetto della nuova istanza di trasferimento. Di fronte ad agenti e ufficiali di Polizia giudiziaria all’interno dell’Istituto di Sollicciano, ha rimesso la querela dichiarando testualmente: “nelle condizioni in cui ero, non escludo che possa avere avuto anche io una reazione scomposta verso operatori della polizia penitenziaria”. “Denudato e obbligato a fare delle flessioni” - Il secondo caso riguarda un detenuto italiano il quale, sempre in un colloquio con lo Sportello Documenti e Tutele di L’Altro Diritto, ha raccontato di un pestaggio avvenuto il 12 dicembre del 2019: sarebbe stato sottoposto a colpi, calci, schiaffi e sputi durante il trasferimento verso la sezione Transito in seguito a un colloquio con “l’ispettrice del reparto Penale” in cui il detenuto affermava di non voler essere collocato in cella con detenuti non italiani (“di etnia nordafricana”), stante anche le condizioni di sporcizia e abbandono della cella.In particolare, il detenuto sarebbe stato convocato nell’ufficio dell’Ispettrice dove ha riferito di non voler essere trasferito al reparto Penale e ha chiesto di essere accompagnato in reparto Accoglienza o Isolamento, minacciando atti anticonservativi nell’ipotesi di trasferimento in reparto Penale e nella cella a lui assegnata. A quel punto, il detenuto sarebbe stato allontanato dall’ufficio e fatto attendere nell’atrio, dove successivamente lo avrebbero perquisito, fatto denudare e obbligato a fare flessioni sulle gambe alla presenza dell’ispettrice e di 4 agenti di polizia penitenziaria. A quel punto due agenti lo avrebbero preso sotto braccio e trasferito al Transito: durante il tragitto lo avrebbero preso a calci, schiaffi e sputi. Arrivato alla sezione Transito, lo hanno accompagnato in infermeria dove ha riferito al medico di guardia di essere stato sottoposto a percosse e lesioni durante il tragitto. Il medico ha riscontrato le lesioni e le ha ritenute compatibili con quanto riferito. Dopodiché, il detenuto sarebbe stato richiamato nell’ufficio dell’Ispettrice che ha provveduto ad informarlo del rinvenimento, durante la perquisizione degli effetti personali, di un telefono cellulare. Il detenuto ha riferito all’operatore de L’Altro Diritto di aver provveduto, il 27 gennaio scorso, a sporgere denuncia presso un ispettore che gli avrebbe però consigliato di astenersi dal farlo per evitare di “avere ulteriori problemi all’interno dell’istituto”. Ammanettato “mani e piedi” e messo in posizione prona - Il terzo caso riguarda un altro detenuto straniero che ha riferito all’operatrice dello Sportello Documenti e Tutele di L’Altro Diritto di essere stato oggetto di maltrattamenti il 28 dicembre scorso. Nello specifico, il detenuto ha riferito che durante una perquisizione della propria cella (perquisizione motivata dalla presenza di alcool in un detersivo) sarebbe stato fatto uscire per recarsi al piano inferiore davanti alla Sezione, ossia in un luogo di passaggio per agenti, detenuti e operatori. Il detenuto racconta che si è rifiutato di entrare nella stanza dell’ispettrice In ragione della mancanza di telecamere. In seguito a tale rifiuto, gli agenti avrebbero proceduto alla perquisizione personale in luogo aperto al passaggio di persone, quindi inadatto all’operazione di perquisizione stessa. Il detenuto è stato spogliato dei propri abiti. A quel punto, dietro pretesto del rinvenimento di una lametta nei vestiti del detenuto (lametta che il detenuto non ha riconosciuto come propria), lo stesso sarebbe stato ammanettato “mani e piedi” e messo in posizione prona. Un agente di polizia penitenziaria si sarebbe seduto sulla sua schiena. A quel punto, due agenti lo avrebbero sollevato e trasportato in reparto isolamento. Durante questo trasferimento, al detenuto gli sarebbero stati inferti calci nelle parti intime. Sarebbe rimasto in isolamento per otto giorni. Come se non bastasse, il detenuto è stato messo a conoscenza, dal proprio educatore, del fatto che era stata sporta denuncia-querela nei suoi confronti per gli eventi del 28 dicembre da parte degli agenti coinvolti. Non è stato convocato per il consiglio di disciplina ed è quindi ignaro del contenuto della denuncia. Il detenuto, vittima del presunto pestaggio, ha riferito all’associazione L’Altro Diritto di avere parlato dei fatti con il Comandante, e di averli comunicati al proprio legale tramite lettera. Tre casi da vagliare, ma molto simili a ciò che emerso dalle indagini della Procura per quanto riguarda due detenuti dello stesso carcere di Sollicciano. Nel frattempo, per quanto riguarda i morti del carcere di Modena durante la rivolta di marzo, giunge notizia che la Procura ha chiesto l’archiviazione. Secondo la magistratura, i decessi sono da attribuire a overdose da metadone e altri farmaci dopo il saccheggio dell’infermeria del Sant’Anna. Resta aperto, invece, il fascicolo sulla morte di Salvatore Piscitelli, il 40enne deceduto in carcere ad Ascoli Piceno dopo essere stato trasferito già in condizioni critiche da Modena, in merito al quale cinque detenuti hanno presentato, lo scorso novembre, un esposto in cui si denuncia un’omissione di soccorso nei suoi confronti. Padova. Un boss garante dei detenuti, il caso finisce in Procura di Luca Preziusi Il Mattino di Padova, 5 marzo 2021 Indignazione bipartisan per il voto a Messina Denaro dato in segreto da un consigliere Alain Luciani (Lega): “Faremo una segnalazione all’Antimafia”. Bisognerà aspettare ancora per avere un garante dei diritti dei detenuti a Padova. Non il tempo che ci vorrà a catturare il latitante Matteo Messina Denaro, ma almeno un’altra settimana per riprovare ad eleggerlo dopo l’esito negativo del voto di mercoledì sera. Il nome del boss mafioso ha creato un caso in consiglio comunale. Il garante non è stato eletto infatti per un solo voto, che qualche consigliere ha pensato di dare proprio a Matteo Messina Denaro, condannato a più ergastoli e ricercato dal 1993, lasciando così agli atti di Palazzo Moroni un sarcasmo del tutto fuori luogo. E senza l’attenuante della superficialità, considerando la delicatezza del tema affrontato in consiglio comunale. Quando il nome del latitante siciliano è stato letto in aula, dai banchi il dissenso e il malcontento si è sentito. Ma il voto di lunedì era segreto, e quindi nonostante non sia complicato farsi due conti, il “colpevole” rimarrà impunito. Le reazioni però il giorno dopo sono arrivate da tutti i fronti: “Perché a Padova dobbiamo avere sempre il deficiente di turno? - si chiede il pentastellato Giacomo Cusumano senza mezzi termini - Paragonare la figura di un mafioso al garante per i diritti dei carcerati è semplicemente da deficienti, non ci sono altri termini per descrive l’ignoranza e l’incapacità di pesare i propri gesti di alcune persone. Ma è stato facile per lui scriverlo perché tanto il voto era segreto. Se ha il coraggio delle sue azioni esca allo scoperto”. Ancora più dura è la consigliera della civica di Arturo Lorenzoni, Stefania Moschetti: “Dopo mesi il consiglio comunale si è riunito in presenza per nominare il garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale. Un consigliere ha votato, scrivendo il nome di Matteo Messina Denaro: un mafioso italiano, legato a Cosa nostra, tra i latitanti più pericolosi e ricercati al mondo. Imbarazza avere colleghi di tale miseria morale”, scrive sulla sua pagina Facebook. A condividere il post è il leghista Alain Luciani, solitamente su posizioni decisamente contrapposte a quella di Moschetti: “Non solo concordo con la collega, ma sinceramente io sto valutando un esposto alla Procura della Repubblica, oltre che all’Antimafia”. Nel frattempo la designazione del Garante dei detenuti slitta probabilmente alla prossima settimana. La frattura emersa nei giorni scorsi in maggioranza ha avuto i suoi effetti, e quindi non sono bastati i 21 voti per raggiungere i due terzi dei voti dei consiglieri, necessari ad incaricare Antonio Bincoletto. Ne servivano 22. Quando si tornerà in aula servirà ancora la maggioranza qualificata (i due terzi del consiglio), mentre qualora fossero inevitabile una terza convocazione basterà quella semplice. Aosta. Carceri, su Brissogne confronto Regione - Provveditore ansa.it, 5 marzo 2021 Lavevaz, importante stabilizzare direzione casa circondariale. Un confronto sul nuovo Protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia e la Regione Valle d’Aosta relativo alla gestione della casa circondariale di Brissogne: alla riunione hanno partecipato, tra gli altri, il Presidente della Regione Erik Lavevaz, l’Assessore alle Politiche sociali Roberto Barmasse e il Provveditore regionale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Pierpaolo D’Andria. Il nuovo Protocollo - come spiegato in una nota - “andrà a prendere il posto di quello sottoscritto nel 2007 e ridefinisce il quadro dell’azione su alcuni dei temi centrali della vita dell’istituto carcerario valdostano: tra questi figurano la gestione della sanità carceraria, che è in capo alla Regione, il lavoro sul reinserimento sociale e lavorativo (formazione, alfabetizzazione linguistica e informatica), il benessere delle persone detenute e di tutto il personale coinvolto nella gestione della struttura”. “Il nuovo Protocollo - commenta Lavevaz - pone le basi per un rilancio della collaborazione tra il Ministero e gli enti del territorio, a partire dalla Regione, consentendo di costruire un dialogo costante che possa essere fruttuoso per tutti i soggetti coinvolti. Lavoriamo per fare in modo che la complessità del sistema della Casa circondariale possa armonizzarsi con il contesto valdostano”. “Credo sia importante lavorare - aggiunge - al fine di ottenere una stabilizzazione della direzione della casa circondariale e un organico dell’istituto adeguato alle esigenze di rieducazione e di sicurezza del medesimo. Una certa stabilità e omogeneità della popolazione carceraria potrà costituire un’importante garanzia per la buona riuscita delle iniziative di istruzione, formazione e avvio di attività economiche e lavorative sostenute dalla Regione. Sarà centrale, in questo senso, il ruolo del Garante dei detenuti, così come l’azione fondamentale del volontariato carcerario”. Verona. Convenzione con il carcere per attività a favore dei detenuti primadituttoverona.it, 5 marzo 2021 Il rinnovo della convenzione prolungherà di altri tre anni la collaborazione già avviata. Dal servizio di guardiania nei palazzi comunali, alla manutenzione del verde o delle strade. Prosegue la collaborazione tra il Comune e la Casa circondariale di Montorio per l’inserimento lavorativo delle persone ex detenute o soggette a misure alternative alla detenzione. Un progetto nato anni fa dall’impegno della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Margherita Forestan e portato avanti assieme a Udepe-Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna, Ufficio di Sorveglianza, Fondazione Esodo della Caritas Diocesana e Consorzio Sol.Co. Rinnovo della convenzione - Il rinnovo della convenzione, che rientra nel Progetto Esodo, è stato firmato in Municipio e prolungherà di altri tre anni la collaborazione già avviata. L’accordo prevede l’attivazione di tirocini retribuiti, di attività di pubblica utilità o di lavori gratuiti e volontari da prestare in favore della comunità. Tra questi, ad esempio, la guardiania di Palazzo Barbieri. L’inserimento di nuove persone è preceduto da interventi formativi e di accompagnamento sulle modalità di svolgimento delle attività richieste, al fine di garantire la piena autonomia nelle mansioni affidate. È la direzione del Carcere, insieme all’Udepe, sulla base delle esigenze comunali, ad individuare le persone idonee e la collocazione più opportuna per valorizzarne le risorse, previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria. Inclusione - L’accordo è stato illustrato, in diretta streaming, dall’assessore ai Servizi sociali Maria Daniela Maellare, insieme alla Garante Margherita Forestan, alla direttrice della Casa circondariale di Montorio Maria Grazia Bregoli, alla responsabile Area Servizio Sociale Uepe di Verona Adele Lonardi, ad Alessandro Ongaro di Caritas e a Matteo Peruzzi di Sol.Co. Maellare ha spiegato: “Un progetto che ha come obiettivo principale l’inclusione nel tessuto sociale delle persone che sono state in esecuzione esterna e interna. E, allo stesso tempo, un modo per garantire servizi utili e preziosi per la comunità. Un collegamento fortissimo con il mondo del terzo settore che ci dà una visione a 360 gradi sulle diverse problematiche che affrontano coloro che escono dal carcere. Ringrazio la Garante Forestan per il grande lavoro fatto negli ultimi anni, così come per l’impegno e la passione messa a servizio della città e della realtà carceraria. Il suo mandato sta per concludersi, ma speriamo di averla sempre al nostro fianco”. Bregoli ha spiegato: “Anche da parte nostra e della popolazione detenuta il ringraziamento alla dottoressa Forestan, è merito suo se esiste tutto questo. Lei ha saputo dare una svolta decisiva e importante sull’esecuzione della pena, trasformandola in una occasione di reinserimento e riscatto sociale. Come questo accordo che rinnoviamo oggi”. Forestan ha aggiunto: “Insieme, facendo rete, questi progetti sono possibili e funzionano. Progetto Esodo, divenuto poi Fondazione, è un modello a livello regionale che ci rende davvero orgogliosi. La stessa Regione ha preso da esempio questa iniziativa per le attività da promuovere su tutto il territorio. Una soddisfazione per la città e il Comune”. Lonardi ha sottolineato: “Queste persone si sentono riconosciute e orgogliose di quello che fanno. Siamo tutti esseri umani e questo servizio non è solo un modo per dare un’occupazione ma anche un motivo di grande gratificazione”. Ongaro ha aggiunto: “All’interno dei territori sui quali operiamo, ben 5 province venete, quello di Verona è l’unico Comune che ha attivato una convenzione, prendendo un impegno specifico e oneroso. Questa sinergia assume un valore concreto per la vita di tante persone”. Peruzzi ha concluso: “La rete deve continuare ad operare, un quarto delle persone seguite in questo progetto hanno trovato uno sbocco lavorativo”. Pistoia. Stabat Mater, il pianto di Maria messo in scena dai detenuti di Antonio Sanfrancesco Famiglia Cristiana, 5 marzo 2021 Il progetto dell’associazione culturale Electra Teatro rallentato dal Covid. “Abbiamo concluso le riprese a dicembre e ora siamo nella fase della post-produzione”, spiega il regista Giuseppe Tesi, “per questo abbiamo lanciato una campagna di raccolta fondi per poter concludere il nostro progetto. I tempi sono difficili e abbiamo bisogno di aiuto”. Dare voce al dolore della Vergine Maria attraverso i detenuti del carcere di Santa Caterina di Pistoia. È il progetto dell’associazione culturale Electra Teatro impegnata in un progetto approvato dal ministero della Giustizia che prevede la realizzazione di un cortometraggio i cui attori-protagonisti sono i detenuti del penitenziario toscano, affiancati da attori professionisti, tra i quali Melania Giglio e Giuseppe Sartori, con la regia di Giuseppe Tesi. L’iniziativa prevede la messa in scena dello Stabat Mater, dramma poetico tratto dall’opera Madri (Oèdipus ed.) di Grazia Frisina dove Maria è rappresentata nella sua più terrena e struggente maternità; una madre dunque che avrebbe ben volentieri rinunciato ad essere beata di fronte alla morte violenta e ingiusta del Cristo, suo figlio. “Il lavoro e le riprese, che hanno avuto inizio a gennaio 2020, sono stati interrotti a inizio marzo dell’anno scorso a causa del lockdown”, spiega Tesi, “sono stati nuovamente ripristinati, nel mese di settembre e conclusi a dicembre. Ora siamo nella fase della post-produzione e abbiamo lanciato una campagna di raccolta fondi per poter concludere il nostro progetto. I tempi sono difficili e abbiamo bisogno di un aiuto economico”. Come Frisina ha dato voce a Maria, donna del silenzio, così, spiegano dall’associazione, “il lavoro teatrale e cinematografico che Electra sta realizzando con i detenuti della Casa circondariale di Pistoia, ha tra i suoi obiettivi quello di dar parola a chi è impossibilitato a far udire la propria voce”. L’obiettivo cardine e? unire la valorizzazione della persona allo sviluppo della sua autonomia, coerentemente con la vocazione dell’articolo 27 della Costituzione, andando nella direzione di un re- inserimento sociale che superi una logica strettamente assistenziale. “Il testo di Grazia Frisina”, spiega il regista Tesi, “ben si presta a compiere un articolato percorso altamente formativo, sotto il profilo culturale, artistico, pedagogico e disciplinare: una crescita linguistica anche utile ai detenuti di lingua straniera, essenziale per la loro integrazione sociale. Partendo dal presupposto che, per garantire maggiore sicurezza e prevenire la recidività a delinquere, sono necessari percorsi formativi ed educativi atti a promuovere l’autostima, il linguaggio cinematografico, ancora una volta, ha lo slancio affettivo e professionale atto a svolgere un efficace percorso di “educazione alla legalità?”. Il progetto si prefigge di poter sviluppare le personali potenzialità creative e culturali, ristrutturando l’identità sociale e rispondendo al necessario reinserimento della persona nella cittadinanza attiva”. Perché la scelta è caduta proprio sullo Stabat Mater? “Si tratta di un testo di grande impatto spirituale ed emotivo”, prosegue il regista, “consente uno sviluppo e una trasposizione in chiave contemporanea. Il pianto della Madre di Cristo e? il pianto di tutte le madri di fronte al sacrificio e all’abbandono, ai troppi e recenti fatti di cronaca cui, ancora oggi, purtroppo assistiamo. Il Coro e la Corifea suggeriti dal testo quale controcanto all’azione, permettono di accogliere un numero multiplo di “attori” ai quali è stato proposto il lavoro, anche considerando l’attuale presenza in carcere di ottanta detenuti. Nell’ambito dello sviluppo drammaturgico e analitico dello scritto, ognuno ha avuto l’opportunità di manifestare il proprio grido, il proprio disagio, la propria essenza, realizzando la concreta opportunità di ascolto e di rinascita. Il momento apice della rappresentazione del lavoro all’esterno costituisce infine la sintesi e la conferma dei risultati, ottenuti attraverso un duro percorso disciplinare, grazie al riconoscimento e all’apprezzamento del pubblico”. Il progetto è sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia, Fondazione “Un Raggio di Luce”, Ordine degli avvocati, Società della Salute Pistoiese e numerosi benefattori privati con donazioni. Per info: ufficiostampa.electra@gmail.com. Pandemia sociale, un milione di poveri in più in un solo anno di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 5 marzo 2021 Istat: Ci sono 335 mila famiglie in più in grave disagio. Mai così male da quindici anni. Crollo record della spesa per consumi, siamo tornati ai livelli del Duemila. La povertà assoluta torna a crescere e tocca il record dal 2005, mentre i consumi sono crollati a un livello mai visto da ventuno anni a questa parte. È la stima preliminare fatta ieri dall’Istat del primo anno della pandemia del Covid: il 2020. Sono i numeri crudi che offrono un’idea di cosa è accaduto, davvero, in questo paese. Eccoli: le famiglie in povertà assoluta sono oltre 2 milioni, 335 mila in più. In totale gli individui censiti in questa condizione sono 5,6 milioni, oltre un milione in più rispetto al 2019. Gli effetti economici e sociali innescati dalle quarantene intermittenti decise per contenere la diffusione del virus hanno cancellato gli effetti modesti prodotti da un anno di “reddito di cittadinanza” introdotto in Italia nel 2019. Allora in povertà assoluta erano 4,6 milioni di persone, all’incirca mezzo milione in meno rispetto al 2018. Le famiglie più colpite in misura più rilevante sono quelle con un maggior numero di componenti, con un solo genitore, le coppie con un figlio o con due. La presenza di anziani in famiglia - per lo più titolari di almeno una pensione che garantisce entrate regolari - ha ridotto il rischio di rientrare in povertà. Il contraccolpo colossale prodotto da questo evento su una società già gravemente impoverita e precarizzata ha fatto precipitare tutti gli indicatori a un livello mai visto anche dopo la crisi del 2008, quando la povertà è esplosa. Da allora non ha mai smesso di crescere, tranne per il breve periodo seguito all’introduzione del “reddito”. Un simile aumento dimostra come la misura introdotta sia stata parziale e utile solo in minima parte per contenere l’ondata che continuerà a crescere anche nei prossimi anni. Questo dramma ha colpito più il nord del paese dove la crisi economica sta diventando sempre più forte. Qui l’incremento della povertà assoluta riguarda 218 mila famiglie per un totale di 720 mila persone. I più colpiti in assoluto sono i nuclei che vivono con il salario di un operaio, o lavoratori cosiddetti “assimilati”. L’incidenza passa dal 10,2 al 13,3%). E tra le partite Iva è un dramma: la crisi ha colpito i lavoratori autonomi (dal 5,2% al 7,6%). Questa situazione va inquadrata nel contesto di un calo impressionante della spesa per consumi delle famiglie (su cui si basa l’indicatore della “povertà assoluta”). Secondo l’Istat la spesa media mensile è ai livelli del 2000, 2.328 euro, con un calo del 9,1% rispetto al 2019. Dal legale alla colf, la fila per il cibo: “Il virus ha azzerato tutti i risparmi” di Niccolò Zancan La Stampa, 5 marzo 2021 Da Torino a Vicenza, i timori dei volontari e delle associazioni: “Rischiamo una guerra”. E ancora: “Padri di famiglia e uomini sui 45 anni vogliono da mangiare e ci chiedono di aiutarli con un lavoro” Chi c’è, oggi, a ritirare il sacchetto con dentro un piatto di pasta al sugo? C’è un avvocato penalista con le scarpe inglesi comprate nove anni fa, quando tutti gli pronosticavano una carriera brillante. C’è un ingegnere marittimo di 54 anni che si è rotto un ginocchio, così da tempo non può più imbarcarsi per fare ispezioni. C’è una badante polacca, si chiama Eva: “Ho lavorato 25 anni per voi. Sempre in nero. Quando è scoppiato la pandemia ho spedito 9 mila euro a casa. E adesso guardami qui”. C’è un’estetista con un mutuo insormontabile: “Le donne fanno la ceretta a casa. Ho dovuto chiudere”. Poi un ex bancario, che si trascina dietro un trolley rosso: “Dopo 22 anni da impiegato alla Bnl, mi sono bruciato la vita facendo trading on line”. Ecco una pensionata da 490 euro al mese, e dietro di lei un padre di famiglia che non può più contare sulla pensione dei suoi genitori perché sono entrambi morti di Covid: “Senza quel sostegno non stiamo in piedi”. Un decoratore con la partita Iva. Un migrante della Costa d’Avorio. Un padre separato. Una donna che parla da sola e maledice qualcuno. Davanti alla mensa cittadina di Genova, quella gestita dalla Caritas con la Comunità di Sant’Egidio in piazza Santa Sabina, oggi ci sono anche due fidanzati di vent’anni. Lei tira per la mano lui, e lui ogni volta che si avvicina a tutta quella gente in coda, la strattona via: “Andiamocene! Non voglio stare qui”. Invece, un altro ragazzo di nome Luis aspetta paziente il suo turno. Ha origini peruviane, ma è in Italia da quando era bambino. Adesso ha 26 anni, è iscritto al terzo anno della Facoltà di Lingue e porta sulle spalle lo zaino di Deliveroo. “Studiando riesco a fare poche consegne. Divido i soldi con mia madre e prendo il pranzo qui”. Il pranzo, per la verità, è anche la cena. Un solo pacco al giorno: pasta, carne, pane, un’arancia. Consegna dalle 16 alle 19. “Erano in media 450 sacchetti al giorno, adesso siamo a 900”, dice il condirettore della Caritas di Genova Franco Catani. “C’è un aumento esponenziale della povertà. Rispetto alla crisi del 2008, questa sembra avere punte più alte. Perché incrociamo storie che un tempo sarebbero state impensabili. Ristoratori che hanno investito tutto prima della pandemia, baristi che non riescono a pagare le rate. Molte persone sono andate sotto perché non hanno ricevuto la cassa integrazione o l’hanno ricevuta troppo tardi”. La metà di questi poveri non si era mai rivolta prima alla Caritas. Al centro d’ascolto c’è la signora Lucia Foglino: “Sono lavoratori fra 40 e 50 anni. Sentiamo spesso dire questa frase: “Ero in prova”. Hanno contratti a termine, subappalti. Impieghi a chiamata. Molti ce la facevano perché arrotondavano con altri lavoretti. E così è emerso il peso del lavoro nero nella nostra economia”. In coda ci sono anche altri studenti universitari. Il Nord sta soffrendo. In Piemonte il 6,1% delle famiglie ha dovuto chiedere il reddito di cittadinanza, il dato più alto del settentrione. Secondo i dati di Eurostat, il 4,2% dei piemontesi vive in condizioni di “grave deprivazione materiale”. Anche a Torino i pacchi di sostegno alimentare distribuiti dal Comune sono passati da 17 mila a 28 mila in questi primi mesi del 2021. E tutti hanno visto la coda infinita di persone in attesa di prendere del cibo davanti alla sede di “Pane Quotidiano” a Milano. Una coda che fa il giro dell’isolato. “Le persone stanno aumentando. Temiamo quello che potrebbe succedere nei prossimi mesi, quando verrà tolto il blocco dei licenziamenti”. Luigi Rossi è il vicepresidente di questa associazione che da più di cent’anni distribuisce cibo a chi ha fame: “Negli ultimi mesi arrivano più italiani. Segno che i risparmi stanno finendo. Uomini di mezza età che ormai, purtroppo, sono andati oltre alla rabbia e al risentimento. Uomini rassegnati, vinti dallo sconforto. L’impatto psicologico di questi mesi è devastante, dalle conseguenze ancora incalcolabili. Vediamo persone che non hanno più la forza di reagire. È molto difficile tornare in sella quando si arriva a questo tipo disperazione”. Persino a Como, una delle città più ricche d’Italia, ci sono delle avvisaglie. “In coda per del cibo ora si trovano persone con problemi estremamente diversi”, spiega Alessio Cantalupi della Caritas. “Migranti usciti dal percorso di protezione, accanto agli alcolisti, ai senza tetto, a persone che non avevano mai visto prima. Italiani di mezza età, che hanno perso il lavoro quando non erano lontani dalla pensione. È questa differenza di bisogni a preoccuparmi. C’è tensione. Dobbiamo evitare che scoppi una guerra fra poveri”. Anche a Vicenza, nel profondo Veneto, sono in aumento le richieste d’aiuto. “Padri di famiglia, uomini sui 45 anni che vogliono da mangiare ma ancora di più ci chiedono di aiutarli a trovare un lavoro”, dice don Enrico Pagliarin. I dati della Confindustria della città: “Reggono e tirano le imprese che hanno saputo puntare sulle esportazioni, soffrono le poche altre. In particolare il settore orafo e quello dell’abbigliamento di lusso”. Così tutti guardano al caso del marchio “Pal Zileri”, una storica azienda tessile con 400 operai acquistata sette anni fa da un fondo del Qatar. Il Covid è stata l’ultima mazzata. “La produzione non è più sostenibile”, hanno già fatto sapere i proprietari. Cosa succederà appena verrà revocato il blocco dei licenziamenti? Chi sta fuori capisce bene l’aria che tira. Per esempio, il direttore della filiale del Carrefour di corso Lodi a Milano. Quando si è trovato davanti un uomo anziano e spaventato che aveva rubato del pane, ha pagato di tasca sua e l’ha lasciato andare: “Se hai fame, la prossima volta vieni da me”. I nostri sacrifici per un traguardo di Venanzio Postiglione Corriere della Sera, 5 marzo 2021 Ci serve la riappropriazione del tempo. Dopo dodici mesi in cui la vita è stata scandita dai Dpcm e dai lockdown, e ancora di più dalla tragedia delle vittime e dei ricoveri, ora dobbiamo immaginare un unico, grande orologio nazionale. Soltanto due parole. Dire di più diventava superfluo. “Rapido peggioramento”. A quel punto si è capito: un anno dopo, marzo allora e marzo adesso, l’orologio segna la stessa ora. La Regione ha messo la Lombardia in arancione rafforzato, tutte le scuole chiuse e niente più visite ai parenti, le famiglie strette di nuovo tra il lavoro e i figli a casa. Mentre mezza Italia si avvia verso la fascia rossa. Il termine lockdown è già fuori moda, ma la sostanza non appare così lontana. Le sfumature di colore addolciscono, non cambiano, la realtà. Fermare le scuole in presenza è una sospensione della vita. Di tutti. Anche di chi non è alunno e non è insegnante. Le giornate stesse sono scandite dallo spettacolo (spettacolo, certo) dei ragazzi che si avviano a piedi verso le classi o salgono sui bus o arrivano in bicicletta e dopo le lezioni se ne tornano a casa tra risate e inseguimenti: differenza tra una città viva e una città morta. Le famiglie di Milano, ieri, raccontavano che molti adolescenti sono arrivati a pranzo più tardi: un saluto agli amici, ci vediamo su Zoom. La politica del lamento non dorme mai, lasciamola sveglia. Ma c’è un’intera generazione di ragazzi che sta costruendo il proprio futuro davanti allo schermo, in condizioni mai viste, con l’aiuto di professoresse e professori che (in buona parte) ce la mettono tutta. Massimo rispetto. Le varianti del virus sono aggressive, l’età dei contagiati si abbassa, le scuole stesse possono diventare focolai. Purtroppo. Si parla sempre di “sacrifici necessari”: non è una frase fatta. La Lombardia ha visto ancora aumentare i ricoveri e, in particolare, gli ingressi nelle terapie intensive, quel numero che abbiamo imparato a guardare da un anno. Il passaggio in arancione scuro sembrava scritto da giorni. In altre regioni non va meglio. La stanchezza collettiva è un dato di fatto, la sofferenza di intere categorie si fa drammatica (e va capita e risarcita), la didattica a distanza diventa pesante, si aggiunge il problema (enorme) dei genitori che lavorano con i bambini che restano a casa: ma a breve termine continueranno le chiusure, i divieti, le limitazioni. La Germania stessa è semi-prigioniera fino al 28 marzo. Il nuovo governo di Mario Draghi ha due obiettivi su tutti. Il piano dei vaccini e i fondi europei. Il sostegno parlamentare è molto ampio e la maggioranza sembra destinata a reggere, nonostante le battaglie all’interno del Pd e dei Cinque Stelle e una Lega rumorosamente in bilico tra populisti e popolari (i partiti a volte si dimenticano che c’è la pandemia, un dettaglio). Sembra marzo 2020 e invece la differenza è evidente. Un governo solido, un premier che ha salvato l’euro, un programma per i vaccini che potrebbe proteggere le vite e il Paese stesso. È il punto chiave, al di là delle chiusure che tornano e dei colori che si susseguono: quando arrivano le dosi, quali saranno le scadenze e i criteri, come si rispetterà l’anagrafe e chi va inserito nei “servizi essenziali”. Parleranno gli scienziati senza protagonismi e poi magari deciderà la politica senza tentennamenti. Se negli ultimi dodici mesi la nostra vita è stata scandita dai Dpcm e dai lockdown, e ancora di più dalla tragedia delle vittime e dei ricoveri, ora dobbiamo immaginare un unico, grande orologio nazionale. “Nulla ci appartiene, solo il tempo è nostro”, ha scritto Seneca. Ecco: ci serve la riappropriazione del tempo. Con le tappe dei vaccini. Con le caserme o le tende o le piazze o quello che sarà per accogliere le persone. Con un sistema di prenotazioni civile in un Paese civile, visto che il web ha conquistato il mondo ma non ancora il sistema sanitario (e le burocrazie locali). Con un clima di concordia generale che non è buonismo ma soprattutto convenienza. I contrasti tra Stato e Regioni si sono rivelati inutili e avvilenti, hanno anche offuscato l’immagine delle autonomie: se è così che funzionano, nessuno riuscirà a fermare la nostalgia del centralismo. Sulle vaccinazioni non si potrà andare in ordine sparso. Le macerie si tolgono assieme, poi ognuno avrà il suo progetto per ricominciare. Stamattina, senza i ragazzi che si trascinano gli zaini e ridono con gli amici, Milano tornerà a svegliarsi in una favola al contrario. Dove arriva la primavera e scompaiono i bambini. Posso andare al parco? La mia bicicletta? E i nonni? Una società stremata, ma nella stragrande maggioranza dei casi rispettosa delle regole e ancora fiduciosa, aspetta il giorno del vaccino e della ripartenza. La famosa fiaccola che bisogna scorgere alla fine della galleria, fosse pure lunga e sconnessa. Anche il marciatore più forte del mondo ha bisogno di vedere il traguardo. Regolarizzare i migranti, ora cresce il pressing di Ilaria Sesana Avvenire, 5 marzo 2021 I dati emersi dal rapporto di “Ero straniero” ci spingono a dire che provvedimenti straordinari come le sanatorie sono importanti, ma non sufficienti. E sempre più urgente e improcrastinabile una riforma organica della legge sull’immigrazione che superi la Bossi-Fini. Non possiamo continuare a negare dei diritti fondamentali a centinaia di migliaia di persone che vivono e lavorano nel nostro Paese”. È il commento di don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità, una delle associazioni che fa parte della campagna “Ero straniero”, alla pubblicazione del dossier in cui si fotografa la situazione di grave ritardo in cui versa la campagna di regolarizzazione degli immigrati irregolari lanciata dal Governo a maggio 2020. Di situazione “inaccettabile” di fronte ai ritardi con cui sta procedendo l’iter di regolarizzazione dei cittadini stranieri che hanno presentato domanda di emersione parlano anche Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini, rispettivamente segretario e tesoriera di Radicali Italiani. “La situazione appare grave anche per altri aspetti - aggiungono. C’è un tema sanitario: per la campagna vaccinale anti-Covid in corso nel nostro Paese è fondamentale che il maggior numero di persone esca il prima possibile dall’invisibilità in modo da poter garantire l’accesso alle cure e una quanto più ampia copertura della popolazione”. Di fronte a questa situazione, “Ero straniero” rilancia la sua legge di iniziativa popolare depositata in Parlamento il 27 ottobre 2017, con oltre 90mila firme e ora all’esame della Commissione affari costituzionali della Camera. Cardine della proposta di legge è la possibilità di prevedere una regolarizzazione su base individuale degli stranieri “radicati” sui territori. E cioè una procedura sempre accessibile che dia possibilità a chi è senza documenti di mettersi in regola a fronte della disponibilità di un contratto di lavoro o della presenza stabile sul territorio. Inoltre, la proposta di legge prevede l’introduzione di canali legali di ingresso per lavoro, che facilitino l’incontro tra i datori di lavoro italiani e i potenziali lavoratori dei Paesi terzi. Senza costringere chi migra ad affidarsi a trafficanti e a percorrere rotte irregolari sempre più pericolose. Migranti. Attacco giudiziario alle Ong, la solidarietà nel mirino dei pm di Simona Musco Il Dubbio, 5 marzo 2021 Per le Procure, i salvataggi dei disperati che attraversano il Mediterraneo avverrebbero a seguito di cospicui pagamenti. Ma gli elementi a supporto di tali tesi scarseggiano. Sembra di fare un tuffo nel passato. A quando, per intenderci, le ong venivano viste come il male assoluto. L’ultimo capitolo della guerra alla solidarietà è quello scritto dalla procura di Ragusa, che ha deciso di indagare su quanto accadde nel Mediterraneo l’11 settembre scorso. Ma non per chiarire come sia stato possibile tenere la vita di 27 persone sospesa per più di un mese, dopo il terrore di un viaggio verso la salvezza. Ma per criminalizzare chi quelle persone le ha portate in salvo, a dispetto di leggi ciniche e contraddittorie. La procura ha iscritto sul registro degli indagati l’ex assessore di Venezia Beppe Caccia, l’attivista Luca Casarini, il regista Alessandro Metz e il comandante Pietro Marrone, destinatari di un decreto di perquisizione e sequestro, con l’accusa, a vario titolo, di trasferimento dei migranti dalla nave Etienne Maersk alla ong Mare Jonio, sulla base di un “accordo commerciale” tra le società armatrici. La vicenda riguarda il soccorso di quei naufraghi rimasti bloccati per 38 giorni in mezzo al mare tra Malta e Lampedusa, a bordo della portacontainer che li aveva tratti in salvo. Un abbandono ribattezzato la “vergogna d’Europa”. Gli atti d’accusa sono poco chiari. In attesa di avere pieno accesso agli atti, spiega Serena Romano, difensore di Mediterranea Saving Humans, ciò su cui ci si può basare sono dei brogliacci, utilizzati dai pm per contestare un passaggio di denaro che, in teoria, costituirebbe l’aggravante del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma che in realtà rappresenta il centro dell’accusa. “L’accusa di favoreggiamento spiega Romano al Dubbio - viene affrontata solo nelle pagine finali, dando per scontato il reato, ma non si comprende sulla base di quali elementi, dal momento che l’ingresso dei migranti in Italia è avvenuto sulla base dell’assegnazione del pos (Place of safety, ndr) da parte delle autorità. Mi chiedo, data questa premessa, come sia configurabile il reato, dal momento che nel decreto di perquisizione e sequestro non viene indicato”. Il decreto, infatti, si focalizza interamente sul presunto accordo economico, del quale comunque, spiega ancora Romano, “non c’è prova”. La procura di Ragusa, guidata da Fabio D’Anna, si affida infatti ai tabulati telefonici e non alle intercettazioni, che sono successive al salvataggio dei migranti. La procura individua un numero di telefono danese, contattato da Caccia tra l’ 8 e l’ 11 settembre, senza individuarne, però, l’intestatario. L’assunto della procura è che quel numero sia riconducibile alla Etienne Maersk, per una pura questione di bandiera. Ma quel numero, in realtà, è riconducibile alla Danish Shipping, organizzazione che raggruppa oltre 90 armatori e società offshore. Il quadro descritto dalla procura è dunque incerto: il teorema è basato su un presunto profitto legato al salvataggio dei migranti, “che sappiamo essere aggravante del favoreggiamento - spiega ancora Romano - ma non punto costitutivo. Ma chi ci dice che c’è stato favoreggiamento? Questo dato, nel decreto, non emerge”. Così come non vengono affrontate, in nessun passaggio, le condizioni dei migranti salvati dall’ong Mare Jonio. “Si tratta di elementi assolutamente non secondari per contestare il reato - spiega ancora Romano. Si trattava di persone in condizioni di vulnerabilità estrema, provenienti da Eritrea, Sudan, Ciad, quindi tutti potenziali richiedenti asilo, che avevano attraversato la Libia, dove è noto che i migranti vengono seviziati e torturati in veri e propri campi di concentramento. I segni di violenza sui loro corpi erano evidenti e non si può pensare che abbiano trascorso in condizioni di sicurezza più di un mese sul ponte di una petroliera, senza assistenza medica e dopo un viaggio così traumatico. Ci sono stati ben tre tentativi di suicidio: non si trattava di certo di una crociera”. La difesa della ong presenterà, nei prossimi giorni, istanza di Riesame. “Speriamo di avere un quadro più chiaro attraverso una visione completa del fascicolo - ha aggiunto Romano - per poter evidenziare quelli che, già adesso, appaiono come macroscopici errori”. La procura, dal canto suo, contesta l’esistenza di un bonifico di 125mila euro da parte della Etienne Maersk a favore della Mediterranea, “una donazione”, si legge in una nota a firma di Kis Soegaard, portavoce della compagnia danese di navigazione. “Mesi dopo l’operazione di salvataggio (a novembre, ndr), Maersk Tankers ha incontrato i rappresentanti di Mediterranea per ringraziarli della loro assistenza umanitaria. In seguito a questo incontro, abbiamo deciso di dare un contributo di 125 mila euro a Mediterranea per coprire alcuni dei costi sostenuti in seguito all’operazione”. La compagnia, ad oggi, non è stata contattata dalla procura di Ragusa, un altro punto oscuro dell’intera vicenda, secondo l’avvocato Romano. “Il 5 agosto 2020 l’equipaggio della Maersk Etienne - ha spiegato la compagnia danese - ha salvato 27 persone in difficoltà in mare su richiesta delle autorità maltesi. Una volta tratti in salvo, migranti ed equipaggio sono stati lasciati in situazione di stand- off per un periodo senza precedenti: 38 giorni, senza che nessuna autorità fosse disposta a permettere alla nave di fare scalo né autorizzasse lo sbarco sicuro delle persone salvate. Dopo diverse richieste di assistenza rimaste senza risposta, la situazione è diventata terribile dal punto di vista umanitario”. Mediterranea, dopo una valutazione sanitaria effettuata dal proprio team medico, ha quindi trasferito le persone a bordo della propria nave. “Era una situazione umanitaria - continua la nota di Soegaard - e vogliamo chiarire che in nessun momento prima o durante l’operazione è stato discusso o concordato un compenso o un sostegno finanziario”. Il contributo di 125 mila euro, da parte della società danese, è stato versato alla ong “mesi dopo”. Ma quella della Mare Jonio non è l’unica vicenda giudiziaria che riguarda l’accoglienza. L’avvocato Romano non vuole sbilanciarsi. “Ma non posso fare a meno di osservare una serie di notizie simili, in questi giorni, relative a procedimenti aperti, a vario titolo, in diverse città d’Italia sull’accoglienza”, commenta. Mercoledì, Medici senza frontiere ha ricevuto un avviso di conclusione delle indagini per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina insieme ad altre navi umanitarie, e dal Gup di Catania la decisione di rinvio a giudizio per traffico illecito di rifiuti. “Si apre un altro lungo periodo di fango e di sospetti sull’operato delle organizzazioni in mare, insieme all’ennesimo inaccettabile attacco al diritto al soccorso”, ha commentato Msf. “Le decisioni della magistratura, arrivate a poche ore di distanza, allungano l’elenco dei numerosi tentativi di criminalizzare il soccorso in mare, che a oggi non hanno confermato alcuna accusa, ma che insieme alle ciniche politiche dell’Italia e dell’Europa hanno pericolosamente indebolito la capacità di soccorso nel Mediterraneo centrale, al drammatico costo di migliaia di vite umane”. Iraq. Un ponte con l’islam e pace nel Paese delle guerre permanenti di Luca Kocci Il Manifesto, 5 marzo 2021 I messaggi di Papa Francesco, in arrivo oggi in Iraq, dove incontrerà la comunità cristiana caldea ma anche l’ayatollah al-Sistani. L’obiettivo finale è un documento comune con la massima autorità sciita come fu nel 2019 con i sunniti. “Fratellanza” e “pace” sono le parole chiave del viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq che comincia oggi (arrivo a Baghdad previsto alle 14) e si concluderà lunedì 8 marzo: la prima volta di un pontefice in Iraq, il primo viaggio da quando è esplosa la pandemia, oltre un anno fa. I cristiani sono una minoranza: meno di 400mila, su una popolazione di quasi 40 milioni di abitanti (vent’anni fa erano il triplo). Il papa va in Iraq sì a incontrare i cristiani, a cominciare dai caldei guidati dal patriarca Louis Sako, che ha spiegato all’agenzia Fides: “Il papa non viene a difendere e proteggere i cristiani, non è il capo di un esercito”. Ma soprattutto va a gettare ponti verso il mondo islamico, a maggioranza sciita: sabato a Najaf, dove è sepolto Alì - secondo la tradizione, genero del profeta Maometto, quarto califfo e primo imam degli sciiti - ci sarà l’incontro con il grande ayatollah Sayyid Al-Sistani, la più alta autorità dell’islam sciita. Una “visita di cortesia”, precisa il programma ufficiale diffuso dalla sala stampa della Santa sede. L’intento però - ma per questo ci vorrà ancora del tempo - è quello di arrivare alla firma di un documento comune, come quello sulla “fratellanza umana” sottoscritto ad Abu Dhabi nel febbraio 2019 con l’egiziano Ahmed Al-Tayyeb, grande imam di Al-Azhar e massima autorità dell’islam sunnita: un’alleanza fra i capi dei più grandi monoteismi per mettere al bando ogni legittimazione religiosa di violenze e conflitti. La pace è l’altro tema forte del viaggio del papa. L’Iraq è la terra delle due guerre del Golfo volute dagli Usa, la prima terminata esattamente trent’anni fa (il 28 febbraio 1991), la seconda nel 2003 che il cardinale Fernando Filoni - nunzio apostolico a Baghdad fra il 2001 e il 2006 e che ora accompagna Francesco in Iraq - definisce “fondata sulle bugie delle armi chimiche e batteriologiche” in possesso di Saddam Hussein; ma anche dell’Isis, della distruzione di Mosul (dove il papa andrà domenica, attraversando il Kurdistan iracheno), dei missili e delle bombe che piovono ed esplodono anche in queste settimane. Il viaggio di papa Francesco, in dubbio fino all’ultimo minuto causa Covid ma anche per la situazione “calda”, “riporta all’attenzione del mondo la lunga lista di violenze e guerre che hanno colpito le comunità in Iraq, provocando morti e migliaia di profughi - spiega una nota di Pax Christi International - Inoltre le sanzioni economiche che alla lunga hanno finito col danneggiare soprattutto le persone comuni, le bombe all’uranio impoverito e il fosforo bianco, la devastazione ambientale, la distruzione delle infrastrutture, le tante uccisioni e i tanti rapimenti da parte dell’Isis che hanno reso e rendono ancora oggi le donne vittime di schiavitù e violenze sessuali. Ci auguriamo che il viaggio di papa Francesco rappresenti una vera svolta nell’impegno per la pace così come una decisa denuncia della guerra”. La sintesi del viaggio ci sarà domani, con l’incontro interreligioso presso la Piana dell’antica città sumera di Ur da dove, secondo la tradizione, Abramo, il “patriarca di tutti i credenti” - a lui si rifanno ebraismo, cristianesimo e islam - iniziò la sua lunga marcia verso la terra promessa. “Vengo come pellegrino di pace in cerca di fraternità - ha detto il papa in un videomessaggio inviato ieri al “popolo dell’Iraq” -, animato dal desiderio di pregare insieme e di camminare insieme, anche con i fratelli e le sorelle di altre tradizioni religiose, nel segno del padre Abramo, che riunisce in un’unica famiglia musulmani, ebrei e cristiani”. Grecia. Ex terrorista in sciopero della fame da 56 giorni rischia di morire in carcere di Carmine Di Niro Il Riformista, 5 marzo 2021 La sua storia sta spaccando in due la Grecia, tra manifestazioni di solidarietà e chi invece non molla sulla linea dura. Parliamo di Dimitris Koufodinas, ex terrorista greco e leader del gruppo armato di estrema sinistra “17 Novembre”, in sciopero della fame da 56 giorni come forma di protesta per il trasferimento in un carcere di massima sicurezza a Domokos. Koufodinas, come rivelato del suo avvocato Ioanna Kourtovik, è “tra la vita e la morte” nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Lamia. L’ex terrorista 63enne in caso di decesso sarebbe il primo detenuto politico europeo a morire di fame mentre è sotto la custodia dello Stato dal 1981: all’epoca morì in cella Bobby Sands, militante dell’IRA irlandese, come forma di protesta contro il governo inglese ultraconservatore di Margaret Thatcher. La storia di Koufodinas è quella di un terrorista mai pentito e per questo in Grecia è folta la pattuglia di chi, a destra, non vuole fare ‘sconti’ all’ex leader di “17 Novembre”. L’organizzazione terroristica si è macchiata della morte di 23 persone tra il 1975 e il 2000: il nome del gruppo faceva riferimento alla notte del 17 novembre del 1973, quando il regime “dei Colonnelli” greco mandò i carri armati al Politecnico di Atene contro la protesta degli studenti, provocando oltre venti morti e centinaia di feriti. I terroristi di “17 Novembre” agivano sotto la ‘bandiera’ del marxismo e dell’anticapitalismo, contro la Nato, gli Stati Uniti e le loro basi militari sul suolo greco: non a caso la prima vittima del gruppo fu nel 1975 Richard Welch, ai tempi il capo della sezione greca della CIA. Koufodinas, che nel 2002 si consegnò spontaneamente alla polizia mettendo di fatto la parola ‘fine’ all’esperienza del gruppo terroristico, è stato condannato a undici ergastoli per altrettanti omicidi. Uno di questi omicidi, secondo i sostenitori di Koufodinas che da giorni scendono in piazza per protesta, sarebbe la causa del suo trasferimento nel re di massima sicurezza di Domokos, nella Grecia centrale. Tra le vittime di Dimitris Koufodinas c’è stato infatti Pavlos Bakoyannis, deputato di Nuova Democrazia, il partito del centrodestra ancora oggi al governo della Grecia: Bakoyannis era però anche il cognato dell’attuale primo ministro Kyriakos Mitsotakis, mentre il figlio Costas Bakoyannis è sindaco di Atene. Insomma, il sospetto è che la scelta di trasferire Koufodinas dalla struttura agricola nelle campagne di Volos, dove stava scontando la sua pena, al carcere di Korydallos, sia di fatto una “vendetta” della destra. A non reggere è anche l’accusa da parte dei partiti e degli ambienti di centrodestra di una scelta per ribaltare un “rilassamento” dei vecchi governi di sinistra nei suoi confronti: effettivamente nel 2018, quando al governo della Grecia c’era la sinistra di Alexis Tsipras, Koufodinas venne trasferito per “buona condotta” dal carcere di massima sicurezza alla struttura agricola di Volos, ma come lui anche diversi altri ergastolani erano detenuti in questo tipo di carceri, che non comportavano comunque alcuna possibilità di riduzione della pena. Contro il “rilassamento” di Syriza quindi il governo di centrodestra nel 2020 approvò una legge che negava ai condannati per terrorismo alcuni diritti riconosciuti ai detenuti per altri reati, come appunto la possibilità di scontare la pena nelle carceri agricole. A causa della legge quindi Koufodinas venne trasferito a Domokos, noto per “sovraffollamento e pessime condizioni di detenzione”, come raccontato su Il Manifesto dal giornalista di origine greca Dimitri Deliolanes, e difficilmente raggiungibile da moglie e figlio dell’ex leader di “17 Novembre”. Di fronte alla protesta di Koufodinas, che aveva iniziato l’8 gennaio scorso lo sciopero della fame, e successivamente quello della fame, il governo di centrodestra si è dimostrato fermo sulle sue posizioni. Per la portavoce dell’esecutivo ellenico, Aristotelia Peloni, “Koufodinas chiede un trattamento privilegiato ma lo Stato non negozia con i detenuti e non rinuncerà al proprio diritto sovrano di decidere come trattenerli. Ha la capacità di porre fine allo sciopero della fame ed esercitare le opzioni legali a sua disposizione”. Non la pensano così movimenti di sinistra, avvocati, intellettuali e organizzazioni per i diritti umani che hanno scritto e firmato petizioni per chiedere di rispettare i diritti di Koufodinas. In favore dell’ex terrorista si è speso anche Alexis Tsipras: “In uno stato di diritto, la vita umana è un bene supremo, anche se è quella di un condannato”. Italiano ucciso in Turchia, silenzio e dolore: “Dopo tre anni la giustizia ha fallito” di Pier Giorgio Ruggeri Il Giorno, 5 marzo 2021 Il viaggio improvviso del manager Alessandro Fiori e il cadavere col cranio sfondato nel Bosforo. L’amarezza di papà Eligio: lo so già, i magistrati non faranno più nulla. Tre anni sono passati senza Alessandro Fiori e senza che i suoi carnefici siano stati assicurati alla giustizia. La scomparsa del manager di Soncino, avvenuta il 12 marzo 2018 a Istanbul, è destinata a restare ancora a lungo un mistero. Il professionista, 33 anni, aveva preso un volo per la grande città turca all’improvviso, senza avvertire nessuno. Le sue tracce si erano perse già il giorno successivo al suo arrivo: il tempo di passare per un hotel e salire su un taxi. Il padre Eligio, non riuscendo a mettersi in contatto con lui, era volato in Turchia con il fratello Sergio e avevano avviato le ricerche, chiedendo l’aiuto anche a un programma televisivo locale e ricevendo alcune segnalazioni, sempre disattese, fino al 28 marzo, quando il cadavere di Alessandro era stato trovato nelle acque del Bosforo. Era apparso subito chiaro che il giovane non era morto annegato e che difficilmente si sarebbe potuto trattare di un incidente. Solo dopo molti ritardi, un’autopsia era stata eseguita e il medico legale aveva trovato una profonda lesione in testa, provocata da una sbarra di metallo. Omicidio, dunque. E per motivi non chiariti. Le indagini in Turchia, nonostante le pressioni esercitate dall’ambasciata italiana, non sono mai approdate a nulla e neppure in Italia la Farnesina è stata in grado di imprimere la giusta accelerazione per trovare i colpevoli. A Istanbul, poi, aveva peggiorato la situazione un paradossale continuo cambio di magistrati incaricati dell’inchiesta. E poi tanto, troppo silenzio Eligio Fiori, padre di Alessandro, il manager 33enne scomparso in Turchia e trovato morto il 28 marzo 2018, vorrebbe conoscere la verità sulla morte del figlio e vedere assicurati alla giustizia i suoi assassini. Perché di omicidio si tratta, confermato anche dall’autopsia eseguita in Italia e ammesso dalle stesse autorità turche che però, in pratica, non hanno mai fatto partire seriamente le indagini. “Troppo tardi - dice Fiori. Tutto troppo tardi. Le indagini avrebbero dovuto partire subito. Invece…”. Invece un tourbillon di procuratori, ben quattro cambiati in pochi mesi, non hanno portato risultati. Cosa si sa finora? “Mio figlio ha incontrato qualcuno che lo ha derubato. Abbiamo trovato il suo cellulare nel bidone della spazzatura davanti al suo albergo. Ci è stato riferito che un tassista è salito in camera sua e gli ha preso il portafoglio. Ci sono i prelievi fatti dal ladro con la sua carta di credito e poi ci sono le segnalazioni che vedono Alessandro vagare in città. Fino alla sua scomparsa”. Ma consolato e Farnesina si sono mossi... “Per la verità, senza troppa convinzione. Solo qualche gentile lettera di sollecito. Forse la situazione politica in Turchia non era facile. Fatto è che tutto è stato fatto in modo poco convincente”. Le indagini proseguono? “Il mio avvocato turco mi ha appena riferito che è stato convocato dalla procura che gli ha comunicato il solito nulla di fatto. Le indagini non sono chiuse, ma a differenza di quanto accaduto in Italia, secondo la legge turca, il delitto andrà in prescrizione allo scadere del quindicesimo anno. Ma francamente è impensabile che nel frattempo avvenga qualcosa”. Lei spera ancora di arrivare a una soluzione? “No, ho capito subito che in quella situazione non si sarebbe arrivati a nulla. Eppure è stato subito chiaro che da una parte Alessandro era stato ucciso e dall’altra non si volevano trovare i suoi assassini. Forse per una questione di immagine era meglio lasciare tutto nel dubbio. A nulla, in Italia, sono valsi gli interventi della politica. L’europarlamentare Angelo Ciocca è andato a Istanbul, Lega e Movimento 5 Stelle hanno presentato interrogazioni in Parlamento. Ma il risultato è stato nullo”.