È il momento propizio per affrontare le questioni dell’esecuzione penale di Alessandro Domenico De Rossi Il Dubbio, 4 marzo 2021 La nomina della ministra Cartabia e le minori polemiche ideologiche dei partiti. Nonostante le obiettive difficoltà lascia bene sperare la nomina di Marta Cartabia al ministero della Giustizia che necessita di urgenti riforme di grande importanza. Vedremo. Non va dimenticato peraltro che in più occasioni la Guardasigilli ha rivelato una spiccata sensibilità verso temi poco popolari ma comunque molto delicati. Non a caso tra i primi atti anche simbolici, è particolarmente significativo l’incontro col Garante nazionale dei Diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. Negli anni passati alla Corte costituzionale, la professoressa Cartabia ha avuto il merito di operare una vera e propria rivoluzione nel meccanismo di giudizio, aprendo le porte anche a pareri esterni al perimetro della Consulta, dando così ufficialità alla partecipazione della società civile nei giudizi. Sarebbe perciò auspicabile che la vasta problematica dell’esecuzione penale riguardante la non rinviabile riflessione su cosa significhi oggi la “funzione-della-detenzione” e delle sue finalità, direttamente connessa anche ai problemi dell’edilizia penitenziaria, possa avvalersi non solo del contributo di magistrati e giuristi presenti nel ministero, ma anche dell’apporto di un più largo perimetro culturale e professionale. Grazie al momento favorevole che vede la maggioranza dei partiti abbassare finalmente la polemica ideologica e di schieramento è forse giunto il momento perché si apra un dibattito di maggiore respiro intorno alle questioni riguardanti l’esecuzione penale. Un confronto finalmente libero anche dalle rigide maglie correntizie presenti nella magistratura, per assimilare nuovi apporti culturali e multidisciplinari: dall’avvocatura alla sociologia, dalle neuroscienze all’architettura, dall’economia alla scuola. Da tempo il Cesp affronta work in progress una riflessione aperta verso un progetto dinamico europeo in costante evoluzione. Una concezione decisamente “in divenire” che si arricchisce in corso d’opera, grazie ai numerosi contributi aggiuntivi circa il portato del fenomeno detentivo e del suo significato nella cultura contemporanea europea. L’obiettivo da raggiungere si avvale ovviamente di un approccio culturale sistemico in cui molte delle complesse problematiche plurifunzionali che convergono sulla questione dell’esecuzione penale offrono soluzioni nuove intorno al concetto stesso della detenzione validi per i prossimi decenni. È quanto mai necessario che il nuovo Ministero muova verso nuovi modelli interpretativi che riguardino tutte queste problematiche in diretto collegamento con le realtà territoriali di competenza quali sono quelle della Città metropolitane, dei trasporti, dell’urbanistica, dei servizi, dell’assistenza. Eliminando progressivamente l’errata concentrazione di obsoleti megacontenitori di gabbie per umani con graduali sostituzioni di centri di detenzione formazione e lavoro: sistemi opportunamente dimensionati e ripartiti mediante consapevoli concordate scelte urbanistiche al servizio delle realtà urbane e territoriali. Il futuro della riflessione sull’esecuzione della condanna e del suo significato deve passare in primo luogo per la riduzione della recidiva, proponendo assetti organizzativi destinati a supportare le istituzioni, le organizzazioni pubbliche trasformandosi in più utili servizi per il complesso territoriale. L’orizzonte dell’esecuzione penale deve inevitabilmente recuperare il ruolo sociale del cittadino privato della libertà, sviluppando modelli operativi con le conseguenti strutture edilizie in grado di attuare innovativi criteri metodologici, coinvolgendo centri di ricerca e accademici pubblici e privati nell’ambito delle neuroscienze, della neuro architettura, delle scienze antropologiche e psicosociali, oltre che giuridiche e filosofiche. Insomma il “sequestro” del tempo come condanna deve trasformarsi in piena opportunità nel rispetto del dettato Costituzionale nella civile finalità di recupero del detenuto e del corpo sociale tutto. Contiamo molto sull’impegno della ministra Cartabia e ci permettiamo di augurarle, anche a nome del Cesp, buon lavoro. *Vicepresidente Centro europeo studi penitenziari Cartabia: “Il carcere è un luogo di comunità che va protetto anche con le vaccinazioni” vita.it, 4 marzo 2021 La ministra della Giustizia Marta Cartabia che, segnando così con un gesto tutta la distanza dal precedente ministro, incontra per la prima volta nella sala Minervini i vertici del Dap e annuncia che negli istituti penitenziari sono partite le vaccinazioni sia del personale, sia dei detenuti. Per i primi da un paio di settimane, per i secondi da qualche giorno. Secondo l’ultimo bollettino del 2 marzo, gli agenti attualmente positivi al Covid 19 erano 562, di cui otto ricoverati in ospedale su quasi 37mila agenti, i detenuti positivi. sono, invece, 410 su una popolazione carceraria di 52.600. Numeri molto alti, che si sommano ai decessi che dall’inizio della pandemia sono stati otto, a cui si aggiungono le 13 morti avvenute in occasione delle rivolte nel carcere di Modena e su cui ancora si deve fare chiarezza. E sino a poche giorni fa di vaccini nelle carceri ancora non si parlava. Per questo è davvero una buona e bella notizia l’iniziativa della ministra della Giustizia Marta Cartabia che, segnando così con un gesto tutta la distanza dal precedente ministro, incontra per la prima volta nella sala Minervini i vertici del Dap, il direttore Dino Petralia, il vice Roberto Tartaglia e l’intera struttura del Dipartimento della polizia penitenziaria, nella grande sede di Largo Luigi Daga. E dice: “Come scriveva Calamandrei bisogna aver visto le carceri. E anche io, quando le ho viste, non ho dimenticato i volti, le condizioni, le storie delle persone che ho conosciuto durante le visite fatte con la Corte costituzionale”. E le prime parole e il primo minuto di silenzio sono subito per gli agenti morti a Carinola per Covid, ben tre nel giro di pochi giorni, Giuseppe Matano, Angelo De Pari, Antonio Maiello. Inevitabile anche il ricordo - esattamente un anno fa - delle rivolte nelle prigioni. Ma anche la constatazione che oggi la situazione è più tranquilla anche per l’aumento delle videochiamate con i familiari. Ma ovviamente il Covid, oggi come allora, è sempre lì in agguato. E da qui, subito, arriva la prima bella notizia. Negli istituti penitenziari sono partite le vaccinazioni sia del personale, sia dei detenuti. Per i primi da un paio di settimane, per i secondi da qualche giorno. E nell’elenco figurano le carceri siciliane (a Catania), dell’Abbruzzo (a L’Aquila), del Friuli. A questo tema la ministra della Giustizia Cartabia dedica le prime attenzioni. Perché “proteggersi dal virus è indispensabile ed è essenziale e urgente che le vaccinazioni nelle carceri proseguano velocemente”. “Il governo - dice Cartabia - ha fatto tutto quello che aveva in suo potere inserendo tra le priorità del programma vaccinale le carceri insieme agli altri luoghi di comunità”. La ministra ha preso il formale impegno di “seguire con attenzione l’andamento delle vaccinazioni sul territorio nazionale” rendendo pubbliche tutte le notizie e le informazioni che saranno pubblicate sul sito del ministero della Giustizia, proprio come ogni settimana vengono resi noti i dati del contagio. Nel suo breve discorso la Guardasigilli, che già come presidente della corte Costituzionale aveva promosso un viaggio nelle carceri per parlare di Costituzione, definisce il carcere “un luogo di comunità, nel quale di conseguenza la situazione complessiva e il benessere di ciascuno alimenta quello di tutti”. Da qui scaturisce la considerazione che per affrontare la pandemia non si può prescindere dal fatto che il carcere è un insieme di persone, una comunità appunto, nella quale contano ovviamente le condizioni di ogni singola persona, ma la storia di un detenuto diventa poi quella di tutti. La Cartabia è però realista. Ammette che “i problemi e le difficoltà sono moltissime” e dice espressamente “non vi prometto che le risolverò tutte”. Ma, aggiunge, “ogni vostra esigenza non sfuggirà all’attenzione del direttore e alla mia”. Le carceri dimenticate nel primo Dpcm firmato Draghi di Iuri Maria Prado Il Riformista, 4 marzo 2021 Non c’è una misura di contenimento del virus, non una, tra quelle elencate in questo ennesimo decreto, che abbia la possibilità di essere rispettata nel chiuso insalubre e sovraffollato delle nostre prigioni. L’infausto Dpcm con cui Mario Draghi continua la tradizione arbitraria del predecessore dedica sette righe alla situazione delle carceri: una noterella, affogata nel solito mare di comminazioni, che risolve il problema mediante “adeguati presidi” per i nuovi ingressi nelle galere e disponendo che i “casi sintomatici” siano posti in isolamento. In pratica: gli danno la mascherina e con trentasette di febbre li mettono al 41bis. L’idea che si tratterebbe semmai di svuotare le carceri anziché di riempirle ancora (cosa possibilissima liberando i soggetti non pericolosi e smettendola di imprigionarne altri), evidentemente costituisce una bestemmia: persino se in gioco c’è la necessità di apprestare cautele per una malattia di cui ogni giorno si fa terroristica rappresentazione. Non c’è una misura di contenimento. non una, tra quelle elencate in questo ennesimo decreto, che abbia anche la più vaga possibilità di essere rispettata nel chiuso insalubre e sovraffollato di un carcere italiano. Eppure tutto quel che riusciamo a dar fuori è un simulacro di norma che conferisce al concerto dei ministri competenti il compito di assicurare che il modello italiano - quello dell’abolizione dello Stato di diritto con centomila morti - non manchi di applicarsi anche nelle galere. L’assembramento, vietato e deplorato tra i liberi, diventa coatto e ammissibile nella pena doppia del carcere che toglie libertà ed espone al contagio: e l’occhio Stato, inquirente sul metro di distanza davanti ai supermercati, si chiude davanti al carnaio delle galere pur sapendo anche i sassi che i detenuti nemmeno se volessero potrebbero proteggersi osservando quelle cautele. In questa situazione, anche solo sentir parlare di “nuovi ingressi” in carcere (e negli “istituti penali per i minorenni”, aggiunge il Dpcm) è semplicemente osceno. Magari il cambio di passo ci sarà: lì non c’è, e purtroppo conta quello. Perché il 41bis oggi non è più legittimo di Alberto Cisterna Il Riformista, 4 marzo 2021 Era il 1986. Il 10 febbraio a Palermo iniziava lo storico maxiprocesso a “cosa nostra”. A fine anno venne inserito nell’ordinamento penitenziario l’articolo 41bis. Poche righe destinate ad arginare le rivolte nelle carceri, pensate soprattutto per tenere a bada soprattutto i terroristi più irriducibili. La norma prevedeva che “in casi eccezionali di rivolta” o in “altre gravi situazioni di emergenza”, il Ministro della giustizia potesse sospendere l’applicazione delle regole di trattamento dei detenuti. Con una limitazione fondamentale, tuttavia: la sospensione doveva avere “la durata strettamente necessaria” al fine di “ripristinare l’ordine e la sicurezza”. Insomma, si trattava di gestire in via eccezionale situazioni carcerarie fuori controllo. Da allora sono trascorsi 35 anni. Un’eternità nel frullatore impazzito della modernità. Quella norma è ancora lì, anche se è rimasta praticamente inutilizzata. Eppure, la regola a qualcosa è servita. Messo in piedi lo “stato d’eccezione”, a quell’unico comma, se ne sono aggiunti nel tempo altri dieci che hanno regolato minutamente il cosiddetto regime speciale di detenzione per come lo conosciamo. Aperta una breccia nel trattamento eguale dei detenuti e scardinato l’orientamento della pena verso la rieducazione, i carcerati sono stati distinti non più secondo la loro personalità, ma per classi di reati. Da una parte i detenuti ordinari dall’altra quelli speciali perché sono quelli che rispondono di reati speciali. La discussione sul cosiddetto carcere duro è sempre stata al calor bianco. Gli scontri sulla severità delle restrizioni, sull’inumanità di taluni vincoli, sull’asprezza delle condizioni detentive hanno impegnato settori non marginali della pubblica opinione e hanno registrato l’intervento, a più riprese, della Corte di Strasburgo e della Corte costituzionale preoccupate di mitigare alcune evidenti esagerazioni. Non è questo però, o meglio non solo questo, il prisma attraverso cui occorre guardare a questo fenomeno che non può dirsi trascurabile perché mette in fibrillazione le istituzioni e la società civile in quella terra di confine in cui più precario è l’equilibrio tra la funzione rieducativa della pena (per i condannati), la presunzione di innocenza (per i tanti sottoposti a regime speciale, ma in attesa di giudizio) e il divieto di irrogare “trattamenti contrari al senso di umanità” (articolo 27 della Costituzione). Comunque mettiamo pure da parte le singole prescrizioni e le piccole vessazioni su cui in tanti si accapigliano a torto o a ragione. Mettiamo in conto che vada tutto bene e che tutto sia non solo legittimo, ma finanche giusto. Il punto è un altro. Per un attimo non occupiamoci delle minute proibizioni e sforziamoci di osservare lo scenario come fosse decantato dalle grida d’allarme dei supporter della carcerazione dura, sempre pronti a segnalare minacce incombenti che, si dice, qualunque attenuazione del carcere speciale non farebbe altro che accrescere. Per cogliere questa diversa prospettiva non è necessario avere pregiudiziali ideologiche, basta tornare all’ odierno articolo 41bis per come si è innestato su quel piccolo virgulto del 1986: “quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica … il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti … in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento.. che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”. In tanti guardano al dito e trascurano la luna, anche se riluce sotto il riflettore di parole chiare. Perché il carcere duro sia legittimo è indispensabile che “ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”. Occorre cioè che il paese o parti di esso versino in una condizione di insicurezza e di disordine generalizzati. C’è da chiedersi chi sia disposto a fare una simile affermazione quanto meno a partire dagli inizi di questo nuovo secolo e a portare solide argomentazioni a riprova di quanto sostiene. La domanda a cui occorrerebbe dare una risposta equilibrata e fondata su dati oggettivi è se davvero la situazione della criminalità in Italia sia tale da mettere in stato di pericolo l’ordine e la sicurezza collettiva e, per giunta, in modo grave. Sia chiaro non è una conclusione che può trarsi a cuor leggero prendendo in prestito le periodiche denunce di sacerdoti e vestali di una certa antimafia ampiamente screditata da manigoldi di vario genere e che non può neppure essere affidata alle valutazioni di soggetti più o meno interessati al mantenimento dello stato d’emergenza per ragioni a occhio e croce poco commendevoli. È indiscutibile che negli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso associazioni, donne, uomini, case editrici e produttori televisivi hanno svolto, a prezzo carissimo, un ruolo essenziale nel denunciare connivenze, debolezze, assenze dello Stato nella lotta alle mafie. Ma questo, decenni dopo, non può essere il termometro con cui lo Stato definisce uno snodo così fondamentale della propria azione nella materia vitale della sicurezza e dell’ordine pubblico. Qualunque osservatore esterno, volgendo lo sguardo al nostro sistema penitenziario e penale, ne ricaverebbe l’impressione di un paese in stato d’assedio, in cui la vita dei cittadini è resa precaria da orde di criminali invincibili, e soprattutto nel Mezzogiorno. Per carità, può darsi che sia così, ma certo manca da sempre una pacata riflessione sulla giustificazione stessa dell’articolo 41bis ossia se davvero la condizione della sicurezza e dell’ordine pubblico sia oggi gravemente compromessa dalle mafie oppure se si possa convenire sul fatto che centinaia di arresti e di confische hanno fiaccato e indebolito i clan un po’ dappertutto con capi storici che muoiono in cella. Declaring Victory si è solito dire quando una guerra volge irrimediabilmente in favore di uno dei belligeranti. Lo hanno fatto gli Alleati nel 1943 quando mancava ancora tanto per battere le forze dell’Asse. Alla vigilia dell’arrivo di oltre 200 miliardi di euro dai paesi del nord Europa il tema è cruciale. È chiaro che si debba fare il massimo sforzo per impedire che anche un solo centesimo finisca nelle mani delle cosche e dei sodalizi illegali. Quel che non dovrebbe essere consentito, però, è che il solito circuito mediatico-giudiziario scaldi i motori e attraversi in lungo e in largo la penisola e il continente denunciando infiltrazioni, malversazioni, accaparramenti di cui non si abbia prova concreta e per cui non si disponga di evidenze inoppugnabili. Lo si sta facendo persino con i vaccini, da stoccare a meno 80 gradi. Tanto, come diceva un vecchio cronista, finché le mafie non si danno un ufficio stampa non possono smentire. È indiscutibile che i boss siano alla continua ricerca di contatti con l’esterno. È indiscutibile che gli stessi boss intendano riallacciare contatti con i propri affiliati per continuare i propri affari. Quel che, tuttavia, non deve andare smarrito è che una Nazione ha il dovere di chiarire se questi comportamenti, comuni invero a tutte le carceri del mondo, possano giustificare lo stato d’eccezione ovvero se il Paese ha ormai la forza per reprimere ogni devianza, senza necessità di creare tante piccole Guantánamo. Giustizia riparativa, forse è la volta buona che diventi una legge di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 marzo 2021 La proposta di legge per la giustizia riparativa, primo firmatario il deputato del M5s Devis Dori, è limitata nell’ambito del procedimento penale minorile. Si fa sempre più vicina la possibilità che sul fronte carcere si possa varare una legge che inserisca la giustizia riparativa. L’accordo potrebbe essere bipartisan, anche perché da ormai quasi un anno giace la proposta di legge che ha come primo firmatario il deputato del M5s Devis Dori. Tra i firmatari c’è anche l’attuale presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni, appartenente anche lui agli M5S e a seguire la firma di altri deputati del Pd. Il momento è propizio anche perché la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, l’anno scorso ha scritto il libro “Un’altra storia inizia qui, storie di giustizia riparativa”, assieme al criminologo Adolfo Ceretti. La giustizia riparativa prova a “superare” la logica del castigo - Ed è quest’ultimo a spiegare che la giustizia riparativa si tratta di un paradigma che prova a “superare la logica del castigo, muovendo da una lettura relazionale del fenomeno criminoso, inteso primariamente come un conflitto che provoca la rottura di aspettative sociali simbolicamente condivise. Il reato non dovrebbe più essere considerato soltanto un illecito commesso contro la società, o un comportamento che incrina l’ordine costituito, e che richiede una pena da espiare, bensì come una condotta intrinsecamente dannosa e offensiva, che può provocare alle vittime privazioni, sofferenze, dolore e persino la morte e che richiede, da parte del reo, principalmente l’attivazione di forme di riparazione del danno provocato”. Come spiegano i deputati stessi che hanno presentato la legge, dalle parole di Ceretti si comprende la più importante intuizione della giustizia riparativa: il fatto penalmente rilevante non è solo la violazione di una norma giuridica, ma è una violazione della persona e delle relazioni. Il principale obiettivo è quindi la riparazione dell’offesa arrecata alla vittima, ai familiari e alla comunità. La riparazione si differenzia in modo netto dal risarcimento: quest’ultimo compensa il danno materiale e quello morale alla vittima; la riparazione invece restituisce alla vittima fiducia, autostima, senso di sicurezza, legami sociali. La proposta limita il modello nell’ambito del procedimento penale minorile - La proposta di legge però limita il modello della giustizia riparativa solamente nell’ambito del procedimento penale minorile e con esso uno dei suoi principali strumenti operativi, ovvero la mediazione penale. Ma sono nodi facili da sciogliere. Il principio espresso nella presentazione della legge è identico a chi vorrebbe - come contemplava la riforma originaria dell’ordinamento penitenziario - estendere la giustizia riparativa anche per gli adulti. C’è una convinzione collettiva che il crimine sia un’offesa contro lo Stato, che le persone che commettono un reato debbano essere punite esclusivamente con la detenzione carceraria e che le decisioni sul come trattare gli autori di reato debbano essere eseguite da parte di amministratori della giustizia attraverso un procedimento legale formale. Ciò che è incredibile della “giustizia riparativa” è che modifica tutte queste assunzioni: essa vede infatti il crimine non come un’offesa contro lo Stato, ma come un danno alle persone e alle relazioni e, invece di punire gli autori del reato esclusivamente con la galera, si preoccupa di riparare il dolore inflitto dalla commissione del crimine. Non solo viene presa in considerazione la vittima, ma anche tutte le vittime del reato specifico. Pensiamo a chi si è macchiato di violenza sessuale. L’incontro non deve avvenire necessariamente con la sua vittima, ma con un gruppo di persone vittime di tale violenza. Le vittime e l’autore del reato possono così ricoprire un ruolo attivo, così come la collettività, che può sostenere la vittima e aiutare l’autore di reato ad attenersi agli accordi presi per la riparazione del danno. Forse è il momento giusto per poter finalmente progredire: superare l’idea della sanzione come pena e mirare a ricostruire una relazione tra le persone coinvolte, vittime e colpevole. Giustizia, ecco lo staff di Cartabia: avvocati e professori accanto agli ex di Bonafede di Liana Milella La Repubblica, 4 marzo 2021 “Continuità nella discontinuità” è il motto della Guardasigilli che conferma alcune pedine, ma ne aggiunge di nuove. Come primo impegno ufficiale incontrerà il Csm e poi andrà alla Camera. Una piccola rivoluzione ai vertici di via Arenula. All’insegna però delle parole d’ordine “continuità nella discontinuità” e “tenere insieme voci diverse ma senza cancellarne la specificità”. Non si azzera lo staff di Bonafede, ma lo si integra con figure che non arrivano, com’è tradizione del palazzo, solo e sempre dalla magistratura, ma anche dalle altre professioni, dagli avvocati - che sicuramente se ne faranno un vanto - o dalla dottrina giuridica. La neo ministra della Giustizia Marta Cartabia, dopo quasi due settimane di analisi dei suoi dirigenti, e dei vertici, conferma alcune pedine, ma ne aggiunge di nuove, con l’obiettivo, visti i compiti del ministero della Giustizia, di ascoltare tutte le “voci” e non solo quelle dei giudici. Nessuno “schiaffo” al suo predecessore Bonafede, con la stessa logica che ispirerà anche i suoi interventi legislativi. Si parte dai decreti dell’ex Guardasigilli di M5S - processo penale, ordinamento giudiziario, riforma del Csm, processo civile - per adeguarli alla nuova maggioranza e alla realtà introdotta con il Recovery. Ma partiamo dallo staff, cioè la notizia della giornata. Resta al suo posto il capo di gabinetto Raffaele Piccirillo, magistrato di lungo corso al ministero della Giustizia, dove dal 2014 al 2018 - quindi con Andrea Orlando ministro - è stato direttore della giustizia penale e poi capo del Dipartimento per gli affari di giustizia. Ma Piccirillo - di Santa Maria Capua Vetere e cognato del procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho - ha soprattutto una solida esperienza internazionale perché, per l’Italia, è stato il capo delegazione al Greco, il Gruppo di stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa. In via Arenula con Bonafede è giunto dopo le dimissioni di Fulvio Baldi, toga di Unicost finita nelle chat di Palamara che raccomandava colleghi proprio per posti del ministero. Ma nell’ufficio di gabinetto arriva anche un professore, Nicola Selvaggi, docente di diritto penale. Mentre la novità al femminile riguarda l’ufficio legislativo, dove lascia Mauro Vitiello, e s’insedia una donna, Franca Mangano, presidente della sezione famiglie e minori della Corte d’appello di Roma. Una toga rossa, a scorrere gli articoli che ha pubblicato di recente sulla rivista di Magistratura democratica ‘Questione giustizia’. Ecco, a maggior 2018, un intervento sull’assegno divorzile, e nel 2020 due contributi sull’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo e sui permessi umanitari. All’ufficio legislativo però restano anche le nomine di Bonafede, come quella della vice capo Concetta Locurto, mentre anche qui, come al gabinetto, ecco un altro vice, Filippo Danovi, professore di diritto processuale civile all’università Bicocca di Milano. All’ufficio di gabinetto un’altra new entry dal mondo dell’Accademia, Nicola Selvaggi, docente di diritto penale. Con la ministra, dalla Consulta, dove la segue dal 2014, ecco il capo della sua segreteria Alessandro Baro, mentre dal Sole 24 Ore arriva la sua portavoce Raffaella Calandra. Non cambia nulla ai vertici del Dap dove rimangono il direttore Dino Petralia e il vice Roberto Tartaglia, mentre resta ancora vacante il posto di capo degli ispettori di via Arenula. Magistrati al Dap e a via Arenula: cara Cartabia, è ora di sminare il terreno di Tiziana Maiolo Il Riformista, 4 marzo 2021 La prima mina da rimuovere è il clima da leggi speciali. Non è possibile che due magistrati “antimafia” dirigano le carceri. L’altra è l’occupazione manu militari dei fuori ruolo nel ministero, alla faccia della divisione dei poteri. Ci sono due campi che la ministra Marta Cartabia dovrà attraversare in tempi rapidi. Ma prima dovrà sminarli. Il primo riguarda le carceri (che toccano la sua sensibilità) e citi le governa, cioè il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). L’altro è il luogo stesso in cui la Guardasigilli ora dimora, cioè il complesso di via Arenula a Roma dove è la sede del Ministero e che pare un Palazzo di giustizia più che il luogo del governo, tante sono le toghe che vi pullulano indisturbate e riverite. Se Marta Carlabia non vorrà o non riuscirà a disinnescare le mine sepolte in profondità in questi due campi, sarà sempre un ministro dimezzato, se le va bene, oppure il solito non-ministro nelle mani delle toghe, cui siamo da troppo tempo abituati. Sarà colei che scriverà in bella copia quel che i magistrati del ministero le avranno passato (neanche troppo sottobanco). E, per quel che riguarda il carcere, forse riuscirà a far vaccinare in tempi non troppo lunghi un po’ di personale, di agenti penitenziari e di detenuti, ma i vertici del Dap la ridurranno a una specie di assistente sociale. Marta Cartabia ha una spina dorsale d’acciaio e la forza tranquilla di chi non solo ha studiato, ma ha saputo mettere a frutto le proprie competenze. Lo ha dimostrato alla presidenza della Corte Costituzionale con alcune iniziative rivoluzionarie, come le visite nelle prigioni e la sentenza che ha spezzato le reni alla cultura del pentitismo come unica uscita di sicurezza dal carcere ostativo. Ha mostrato una certa capacità di navigazione politica quando è riuscita ad aggirare e rinviare il problema di riformare la legge di Bonafede sulla prescrizione, facendo votare all’unanimità un ordine del giorno che contiene due punti molto chiari: il processo non può essere eterno e la funzione del carcere deve essere di recupero e rieducazione del detenuto. Due punti fermi della nostra Costituzione, gli articoli 27 e 111, quelli che non piacciono ai giacobini e a quelli del “buttare via la chiave” della cella. Un segnale dei suoi primi giorni di governo resta per noi garantisti un punto luminoso. Non è mai capitato di vedere un ministro di giustizia che dedica la sua prima visita non a qualche carceriere ma a colui che sta per definizione dalla parte dei diritti del soggetto debole, cioè il Garante dei detenuti. Mauro Palma è stato il primo a riceverla, il 19 febbraio, e i due insieme avevano posto le basi per una continua collaborazione che possa dare una svolta alla politica sulle carceri. Ma ecco che si presenta adesso il campo minato. La ministra è andata al Dap solo il 2 marzo, due settimane dopo l’incontro con il Garante. E li ha trovato il capo Dino Petralia e il suo vice Roberto Tartaglia, i due magistrati subentrati meno di un anno fa a Franco Basentini, fucilato per una insensata campagna di magistratura e di stampa contro le “scarcerazioni facili” di boss mafiosi in occasione della prima fase dell’epidemia. Ora, è impossibile che la ministra non abbia seguito, quanto meno sui giornali (e se non è così ci penserà la sua eccellente responsabile comunicazione Raffaella Calandra) l’imbroglio di quella campagna stampa. Prima di tutto non era stato scarcerato nessuno, ma alcuni giudici e tribunali di sorveglianza avevano applicato una serie di differimenti di pena. Secondariamente, di detenuti al regime previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, solo tre erano andati in provvisoria detenzione domiciliare. Si trattava di persone gravemente malate, due delle quali vicine al fine pena. Infatti Pasquale Zagaria, quello su cui si erano particolarmente accaniti i laudatores del “fine pena mai’, affetto da gravissima neoplasia, è già libero e Francesco Bonura, gravemente malato, sta per seguirne la sorte, avendo scontato la pena per intero. Quanto al terzo, Vincenzino Iannazzo, ha subito un trapianto di reni e pare abbia gravi problemi cognitivi, come denunciato dalla sua famiglia e dall’associazione Yairaha. Ora è a Parma in regime di 41bis. Ci sembra un caso di cui la ministra, insieme al garante, potrebbe occuparsi da subito. Sono certa che ambedue lo faranno. Ma ci sono le mine. Il presidente del consiglio Mario Draghi ha saputo dissodare il terreno, con qualche cambiamento di vertice, trovando mani sicure cui affidare la nostra salute, in definitiva la nostra sorte. Le mine disseminate nei campi di competenza del ministro Cartabia, e che impediscono di trattare la questione -carcere rendendo concreto ed effettivo il significato dell’articolo 27 della Costituzione, sono le toghe. Due magistrati al vertice del Dap, selezionati appositamente, secondo quanto scritto da tutti i quotidiani dopo le dimissioni di Basentini, per dare una risposta politica alle presunte “scarcerazioni dei boss”. Che cosa di meglio quindi, di due toghe “antimafia”, per dare del carcere e dei detenuti un’immagine di perenne emergenza? Cioè il contrario di quanto previsto dalla Costituzione? È proprio questa la prima mina da rimuovere, il clima da leggi speciali che ci perseguita fin dai tempi del terrorismo, passando poi per i reati legati alla mafia per arrivare fino alla legge detta “spazza-corrotti” contro gli imputati dei reati contro la pubblica amministrazione, quella del ministro Bonafede e dei suoi ispiratori. Non è possibile che due magistrati “antimafia” dirigano le carceri. Niente di personale (come si suole dire), ma la materia è delicata e delicate devono essere le impronte di chi la maneggia. E poi, perché sempre magistrati? Mi vengono in mente alcuni nomi (che non faccio per non mettere nessuno in imbarazzo) di bravissimi direttori (o ex) di istituti di pena o provveditori regionali che non solo sono esperti perché con i detenuti hanno a che fare tutti i giorni, ma che possiedono anche quella rara sensibilità che entrerebbe subito in sintonia con quella della ministra Cartabia, quella di chi sa che la pena non debba necessariamente sempre consistere nella perdita della libertà. Perché la detenzione dovrebbe essere proprio e solo l’ultima spiaggia, non solo per chi è in attesa di processo, ma anche dopo la condanna. Cambiare i vertici del Dap sarebbe un bel segnale, tra l’altro in sintonia con l’impronta rinnovatrice già data dal presidente Draghi. Ma c’è un altro problema, quello dell’occupazione manu militari dei magistrati nel ministero di via Arenula. Il Csm sforna a getto continuo autorizzazioni alle toghe a mettersi fuori ruolo, alla faccia della divisione dei poteri, così ci sono alcuni che rivestono i tre ruoli: un po’ giudicano, un po’ legiferano e un po’ governano. Se qualcuno pensa che il fenomeno non produca conseguenze politiche, e quindi per la vita di tutti noi, si sbaglia. Basterebbe ricorda re, andando molto all’indietro (come ha fatto proprio ieri Francesco Damato sul Dubbio) che cosa successe nel 1988, un anno dopo il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, che li aveva castigati dopo il “caso Tortora”. Guardasigilli del governo Goria era un giurista di quelli di cui non c’è di meglio, Giuliano Vassalli. Il più garanti - sta di tutti fece una legge inutile e opposta a quel che aveva imposto la volontà popolare. Sempre senza fare nomi né attacchi personali, vedo però dal sito del Ministero che, per esempio, nell’ufficio legislativo sia il capo che la vice sono due magistrati. Non sarebbe ora di sminare un po’ e di cambiare regime anche lì? Agenda Cartabia di Carmelo Caruso Il Foglio, 4 marzo 2021 La Guardasigilli alle prese con l’eredità di Bonafede. Pronto un “ufficio del processo” Roma. Non vuole cancellare tutto ma risalire all’errore per correggerlo. È la filologa della giustizia. C’è un verbo caro alla ministra, Marta Cartabia. È il verbo “emendare”. Significa la riscrittura come metodo di lavoro. Ripartire dal buono che si ha per arrivare dove si vuole. Ha iniziato ad allargare la sua squadra ma ha chiesto ad alcune figure di rimanere. È pronta a chiedere al Csm il “fuori ruolo” per Franca Mangano, presidente della sezione Famiglia e Minori della Corte d’appello di Roma e indicarla come futuro capo dell’ufficio legislativo. Da ministra lavorerà cosi: discontinuità e conservazione. Non promette risultati immediati, ma lavoro paziente e lento, ascolta piccoli gruppi di studio che si concentrano in maniera speciale sui temi assegnati e che la aiutano a fare sintesi. Da quando si è insediata a Via Arenula, l’ex presidente della Corte costituzionale, si è dovuta misurare con le emergenze e il calendario. Le vaccinazioni in carcere da accelerare sono un’urgenza ma non la sola urgenza. Sul suo tavolo ha trovato aperto il dossier sul concorso degli avvocati da sbloccare, il concorso per nuovi magistrati, a maggio, da preparare. Si è pubblicamente impegnata “perché si possano svolgere le prove concorsuali per il personale dell’amministrazione penitenziaria”. C’è una collaborazione che si sta intensificando con il ministro dell’Innovazione, Vittorio Colao. Serve a colmare un gap tecnologico che il sistema giudiziario si trascina. L’intenzione è quella di lavorare sul deposito telematico degli atti, favorire un nuovo corso per comunicazioni e notifiche. Ma al ministero della Giustizia si vigila con attenzione anche alle legittime richieste della magistratura onoraria. La ministra sa che “è un’emergenza destinata ad aggravarsi”. È per tutte queste ragioni che ai piccoli tavoli di lavoro, partecipano rappresentanti delle varie categorie coinvolte. Nella “casa della giustizia”, che ha in mente la ministra, si dovrebbe introdurre un “ufficio del processo”. Il giudice rimane ovviamente solo nel formulare il giudizio ma essere supportato da un piccolo gruppo di tirocinanti, studiosi. Lo affiancherebbero sia in una gestione quasi manageriale sia nel lavoro di preparazione della “decisione”. Sulle riforme, l’idea della Cartabia è invece questa: gli articolati di quelle già incardinate in Parlamento sono il punto di partenza per le successive modifiche. Non si smontano. Per aggiungere competenze ha reclutato Gian Luigi Gatta, professore di Diritto penale all’Università di Milano, Filippo Danovi, docente di Diritto processuale civile all’università Bicocca. Questa è discontinuità. Restano Concetta Lo Curto e il capo di gabinetto di Alfonso Bonafede, Raffaele Piccirillo che sono invece la continuità. Come ha segnalato Draghi, per agganciare il treno del Recovery, si deve operare sul procedimento civile. La ministra ha individuato nelle pendenze tributarie arretrate (in Cassazione) il lato debole. Agirà per andare incontro alle richieste dell’Europa. È chiaro che sulla riforma della prescrizione la sua visione è diversa rispetto a quella che ha diviso e generato tensioni politiche. Andrà inserita in un progetto complessivo di riforma del processo penale. C’è una dimensione internazionale di questa ministra che l’Italia ancora poco conosce. In questi giorni ha registrato un videomessaggio per il XIV Congresso della Nazione Unite sulla prevenzione del crimine previsto dal 7 al 9 marzo. Una cosa certa è che non seguiranno annunci. Non è più il ministero della “rivoluzione” ma della riflessione. Prescrizione, un giudizio di costituzionalità? Non prima del 2025 di Simona Musco Il Dubbio, 4 marzo 2021 No del tribunale di Lecce al ricorso del Segretario del Partito Radicale Maurizio Turco. Per conoscere gli effetti della prescrizione così come voluta dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede toccherà attendere più o meno il 2025. Sarà quello, verosimilmente l’anno in cui sarà possibile, nel corso di un giudizio, sollevare la questione di legittimità costituzionale, sperando dunque di avere una risposta sull’effettiva aderenza della norma ai principi della Carta fondamentale, oggi da molti messa in dubbio. Prima di quella data, spiega al Dubbio Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale all’Università di Bologna, appare difficile prospettare la questione, almeno stando alle cadenze del giudizio incidentale, che presuppone sempre la rilevanza della questione nel processo a quo. In mezzo ci saranno le decisioni del ministro della Giustizia Marta Cartabia, che ha già annunciato di voler adottare “le necessarie iniziative di modifica normativa e le opportune misure organizzative volte a migliorare l’efficacia e l’efficienza della giustizia penale, in modo da assicurare la capacità dello Stato di accertare fatti e responsabilità penali in tempi ragionevoli (articolo 111 della Costituzione), assicurando al procedimento penale una durata media in linea con quella europea, nel pieno rispetto della Costituzione, dei principi del giusto processo, dei diritti fondamentali della persona e della funzione rieducativa della pena”. Il tema, come noto, ha rappresentato il casus belli che ha portato alla caduta del governo Conte bis. E oggi che la maggioranza si è allargata e conta tra le proprie fila partiti dalla forte vocazione garantista, l’ambizione “è trovare intese sui valori costituzionali”, come ha sottolineato il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Nel frattempo a rimandare a data da destinarsi la possibilità di sottoporre la questione al giudice delle leggi è il Tribunale di Lecce, che ha rigettato il ricorso presentato dal Segretario del Partito Radicale Maurizio Turco. Il politico aveva chiesto di mandare alla Corte Costituzionale “la legge sul “fine processo mai”“, rivendicando il diritto di ogni cittadino ad un processo dalla ragionevole durata. Una sfida, dal momento che la richiesta è arrivata in assenza di un procedimento in corso. Turco avevo cercato una via alternativa: “È stata di recente la stessa Corte costituzionale sentenza 278/ 2020) a riconoscere che tutti i cittadini hanno diritto a conoscere preventivamente la “tabella” del tempo che manca a proscioglierli da una eventuale accusa”, aveva sottolineato. Il giudice Katia Pinto, però, non è stato dello stesso avviso. “L’azione di mero accertamento è proponibile soltanto quando esiste una situazione attuale di obiettiva incertezza di diritto che determina l’interesse ad agire per accertare la sussistenza di un diritto già sorto e che possa competere all’attore ed evitare, così, il pregiudizio concreto (e non meramente potenziale) che può derivargli dalla descritta incertezza”, ha scritto nella sua ordinanza, citando una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione civile del 1996. “In difetto di prospettazione e/ o allegazione dell’appartenenza al ricorrente del diritto che si assumerebbe leso dalla legge 3/ 2019 sospettata di incostituzionalità, il presente giudizio pare sottoporre a questo Tribunale una questione di legittimità costituzionale in via principale, sottratta al sindacato del giudice ordinario”. Ricorso inammissibile, dunque, e spese di lite a carico di Turco. Che assistito dagli avvocati Giuseppe Talò e Felice Besostri aveva denunciato la violazione degli articoli 3, 24, 25, 27, 111 e 117 primo comma della Costituzione, rivendicando l’esigenza di accertare “il diritto ad una ragionevole durata del processo, così come attribuito e garantito nel suo esercizio dalla Costituzione italiana, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dai vigenti Trattati sull’Unione Europea e il suo funzionamento e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’unione, e di difendersi in ogni stato e grado del giudizio mediante proposizione di ricorso efficace anche nei confronti degli organi dello Stato e della pubblica amministrazione”. In quanto istituto sostanziale, avevano evidenziato gli avvocati, il legislatore non può intervenire sulla norma della prescrizione “in contrasto con i principi costituzionali, convenzionali ed unionali europei che tutelano le parti processuali da un’ottusa applicazione del principio tempus regit actum”. Nulla da fare, per ora. Bisognerà attendere un reato che, sulla base delle vecchie regole, si sarebbe già dovuto dichiarare estinto per prescrizione, cosa che con la nuova norma non sarà più possibile, sottolinea ancora Manes. E il più breve tempo di prescrizione previsto dalle vecchie regole è quello previsto per le contravvenzioni, ovvero quattro anni. “È necessario attendere che la questione sia rilevante nel giudizio a quo conclude - ma deve essere applicabile la riforma Bonafede, in vigore dal primo gennaio 2020”. “Ora confronto e sintesi: sulla prescrizione troveremo la soluzione” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 marzo 2021 Nei prossimi giorni i responsabili giustizia della Camera incontreranno la ministra Cartabia. Ecco la proposta di Federico Conte, deputato di Leu. Per l’onorevole Federico Conte di Leu, colui che ha dato il nome al famoso lodo-Conte bis, in questo momento la parola d’ordine è “sintesi” ma “nel significato hegeliano di unione e elevazione delle posizioni precedenti, tra il lodo Conte dell’ex premier, che prevedeva il blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado, e il lodo Conte bis, che distingue tra assolti e condannati”. Nei prossimi giorni i responsabili giustizia della Camera incontreranno il Ministro Cartabia ma nell’attesa il parlamentare e avvocato lancia una proposta: “Se nel caso di condanna in primo grado lo Stato non riesce a concludere l’appello nel termine di fase, che la riforma individua in due anni, deve essere sanzionato per il ritardo: la sanzione potrebbe essere quella che esiste nell’ordinamento tedesco, e cioè una riduzione della pena, ad esempio di un quarto. Nel caso di assoluzione, invece, trascorso il termine di fase senza che sia celebrato il processo di appello, la conseguenza può essere anche la estinzione del processo. È un’ipotesi a cui credo si possa lavorare: abbiamo così mantenuto il doppio binario - assoluzione e condanna - ma garantito il precetto costituzionale di cui all’art.111 con il termine di fase e le relative sanzioni processuali”. Onorevole, Lei ritiene che il lodo che porta il suo nome è destinato ad essere superato? Auspico che venga superato per essere migliorato. Nei prossimi giorni, insieme agli altri responsabili giustizia dei gruppi parlamentari, incontreremo la Ministra Cartabia. In quell’occasione affronteremo il tema delle riforme: credo che si ripartirà dal disegno di legge delega, credo sia ragionevole partire da lì, sarebbe poco sensato sacrificare il lavoro di istruttoria fin qui fatto in Commissione Giustizia. Detto questo, ritengo che sarebbe un bel risultato per la giustizia trovare una sintesi, nel significato hegeliano di unione e elevazione delle posizioni precedenti, tra il lodo Conte dell’ex premier - blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado - e il lodo Conte bis - distinzione tra assolti e condannati -. È l’auspicio che ho espresso alla Ministra nel nostro primo incontro. L’ex Ministro Bonafede al Fatto Quotidiano aveva detto: “Per noi deve restare il punto di caduta citato nel post che ha lanciato il voto su Rousseau, ossia il cosiddetto lodo Conte-bis, che introduce una distinzione tra condannati e assolti. Siamo disposti a muoverci esclusivamente nel perimetro del lodo”... Penso che il perimetro del Lodo Conte Bis possa essere salvaguardato, così come prospettato da Bonafede. Il merito di quella norma fu di mettere d’accordo tutte le forze, con le uniche perplessità di Italia Viva. Il fatto che il Lodo abbia rappresentato il punto di equilibrio più avanzato tra le forze che reggevano il precedente Governo non significa che bisogna difenderlo acriticamente: non è un totem. Ora occorre trovare una nuova mediazione con l’attuale maggioranza. Per fare questo è importante che il metodo del Governo sia quello del confronto aperto e dialettico che abbia come obiettivo non l’affermazione di una tesi a discapito dell’altra ma della migliore sintesi possibile. Questa nuova mediazione può stare all’interno del lodo Conte-bis come dice Bonafede? Secondo me sì, perché ne mantiene il perimetro - distinzione tra assoluzione e condanna - e inserisce presidi di legalità ispirati al giusto processo e alla sua ragionevole durata. Come? Una obiezione è che in appello si è affidati comunque all’incertezza dei tempi, vanificando il diritto alla ragionevole durata del processo... C’è un dato nuovo molto rilevante nel disegno di legge delega che non è stato valorizzato abbastanza: per la prima volta vengono stabiliti i cosiddetti termini di fase: massimo due anni per il primo grado, due anni per l’appello, un anno per la Cassazione. Il tema vero che bisogna affrontare è cosa succede quando la tempistica non viene rispettata. Qual è la vostra soluzione? Fissare degli ancoraggi processuali. Nel caso di sentenza di assoluzione in primo grado si può stabilire che se il processo di appello non si celebra in un determinato tempo interviene la prescrizione processuale, con l’estinzione pura del processo. Nel caso di condanna in primo grado sarebbe poco accettabile che si estinguesse l’azione. Ma se lo Stato non riesce a concludere l’appello in due anni, deve essere sanzionato per il ritardo: la sanzione potrebbe essere quella che esiste nell’ordinamento tedesco, e cioè una riduzione della pena, ad esempio di un quarto. È un’ipotesi a cui credo si possa lavorare: abbiamo così mantenuto il doppio binario dell’assoluzione e della condanna, ma rafforzando l’appello con il termine di fase. Mi scusi, ma invece di fare tutti questi aggiustamenti, che possono sembrare anche complicati, non si può tornare al pre-Conte, rischiando anche di portare i Cinque Stelle fuori dalla maggioranza? Non credo sia una prospettiva né realistica né rispondente allo spirito con cui la Ministra Cartabia ha inaugurato il suo corso: un lavoro di confronto e mediazione per migliorare il sistema. L’onorevole Lucia Annibali di Italia Viva ritiene che sia discriminatorio distinguere tra sentenza di assoluzione e sentenza di condanna... È una distinzione che risponde a una logica di sistema, che può essere resa immune dai rischi denunciati inserendo i presidi processuali delle fasi e delle collegate sanzioni processuali prima ipotizzati. Ciò detto, resto aperto a valutare ogni altra soluzione che tenga in equilibrio le diverse esigenze di certezza dell’accertamento della responsabilità penale e ragionevole durata del processo. Ma se, ad esempio Italia Viva, davanti alla Cartabia dicesse che bisogna superare la distinzione tra assolto e condannato voi come vi comportereste? In ossequio al metodo che ci siamo dati, valuteremo il merito della proposta. Voi comunque presenterete degli emendamenti? All’interno del disegno di legge delega ci sono una serie norme su cui ho già manifestato delle perplessità, come pure hanno fatto alcuni degli auditi. Per cui io stesso mi accingo a fare delle proposte emendative, ad esempio al patteggiamento allargato che, così com’è, non raggiunge le finalità deflattive, all’ipotesi, che non condivido, di generalizzare il meccanismo dell’art. 190 bis cpp, e all’appello monocratico. Inoltre sto scrivendo anche un emendamento significativo per introdurre meccanismi di estinzione del reato mediante giustizia riparativa, immaginando che questo possa riguardare anche alcuni delitti - e non solo le contravvenzioni - quando questi offendono ad esempio il patrimonio, per cui la riparazione possa passare attraverso una attività risarcitoria diretta. Toghe onorarie: “Il Csm ci disprezza, intervenga Mattarella” Il Dubbio, 4 marzo 2021 Il Csm ha deliberato affinché intervenga davanti alla Corte di Giustizia europea la legittimità del trattamento riservato alle toghe onorarie. “Con atto del 24 febbraio, trasmesso all’Avvocatura Generale dello Stato, il Csm ha deliberato affinché il Governo italiano intervenga nella causa pregiudiziale, proposta dal Tar per l’Emilia Romagna, per sostenere davanti alla Corte di Giustizia europea la legittimità del trattamento che lo Stato italiano riserva da oltre due decenni - confermato con la riforma Orlando - a 5mila magistrati onorari, stabili precari senza diritti”. Lo denuncia la Consulta della magistratura onoraria, evidenziando che “l’Organo di autogoverno della Magistratura, anche onoraria, invita così l’Italia a persistere nello sfruttamento di migliaia di lavoratori che quadriennalmente esamina, riconosciuti prima lavoratori e poi magistrati europei dalla sentenza della Corte di giustizia europea dello scorso16 luglio”. “Invocheremo l’intervento del Presidente della Repubblica, a tutela della funzione giurisdizionale e di chi la esercita in un clima di palpabile disprezzo che non è più accettabile in quanto intacca l’onore ed il prestigio della funzione attribuitaci dalla Costituzione” annuncia la Consulta. E aggiunge: “La serenità invocata recentemente dal Presidente della Corte costituzionale Coraggio nell’esercizio della delicatissima funzione magistratuale è fortemente minata non solo dall’assenza di tutele, ma anche dall’immagine che viene fornita dallo stesso organo di autogoverno al cittadino della magistratura onoraria, descritta come un coacervo di volontari senza diritti, immeritevoli di rispetto, di quelle tutele sociali che un giudice ordinario mai si sognerebbe di negare ad altro lavoratore e attribuitaci dalla Costituzione”. Campania. Amnistia, indulto e vaccini: così si evita la strage in carcere di Pia D’Anzi, Gianpiero Pirolo Il Riformista, 4 marzo 2021 Il Carcere Possibile Onlus è da tempo impegnato nella campagna volta a consentire la prioritaria vaccinazione dei detenuti e degli agenti di Polizia penitenziaria attraverso una attività di sensibilizzazione sia dell’opinione pubblica che delle istituzioni. Dopo aver inoltrato lettere di sollecito ai Ministeri competenti, si è provveduto, da ultimo, a inoltrare all’attenzione del presidente della Campania una lettera con la quale si chiedeva di provvedere nel più breve tempo possibile alla redazione del piano vaccinale per i detenuti, già adottato in tutte le regioni italiane a eccezione della Campania. Il ritardo registrato sta mettendo a dura prova la tenuta del sistema atteso che, da un lato, si assiste - come nel caso del reclusorio di Carinola - a un crescendo preoccupante sia del numero di contagi che di decessi (solo negli ultimi giorni, sono morti diversi operatori di polizia penitenziaria) e, dall’altro, non si intravede una via d’uscita dalla situazione di stallo in cui si trovano le carceri. Non si può sottacere, invero, che i penitenziari hanno una struttura fortemente assimilabile alle rsa e, pertanto, non solo è drammaticamente complesso rispettare le norme di prevenzione del contagio, ma soprattutto sarebbe impossibile arrestare la propagazione del virus qualora si creasse un focolaio all’interno delle strutture (oltre alla difficoltà ad approntare efficacemente le cure necessarie). In secondo luogo, non si può confinare nell’angolo il principio di rieducazione della pena che oggi è totalmente obliterato. Sono allo stato sospese quasi tutte le attività trattamentali e con esse la vita e la speranza di tutti i reclusi, costretti a trascorrere l’intera giornata in celle piccolissime e quasi sempre fatiscenti. Ma, come tutti sappiamo, la reclusione non può prescindere dalle attività rieducative e inclusive, dal contatto con gli operatori sociali e con il mondo esterno attraverso la realizzazione di progetti a breve o a lungo termine che attengano tanto alla formazione culturale quanto a quella lavorativa dei soggetti reclusi. Vi è, quindi, la necessità che si proceda quanto prima alla predisposizione e attuazione del piano vaccinale per detenuti e operatori di polizia penitenziaria affinché si scongiuri una eventuale strage sanitaria e, al contempo, si ripristini all’interno degli istituti penitenziari la legalità che passa necessariamente attraverso la riattivazione di tutte le attività finalizzate a rendere costituzionali le pene inflitte. La drammaticità della situazione emergenziale, ovviamente, disvela il cronico (e incivile) problema del sovraffollamento carcerario che impone una serie di ineludibili iniziative legislative ed organizzative. L’immediato potenziamento di tutti gli organici del Tribunale di Sorveglianza e l’adozione di un provvedimento clemenziale di amnistia e indulto appaiono oggettivamente indifferibili, consentendo, peraltro, sia la riduzione della popolazione carceraria entro limiti ragionevoli e sostenibili sia un efficientamento del sistema processuale. Modena. Overdose e nessuna violenza sui detenuti morti, le ragioni dell’archiviazione di Francesco Baraldi modenatoday.it, 4 marzo 2021 La Procura evidenzia come la morte sia dipesa esclusivamente dall’assunzione di farmaci. Non è emersa sottovalutazione delle condizioni di salute dei detenuti morti a seguito del trasferimento. La richiesta di archiviazione per l’inchiesta sulla strage nel carcere di Modena del marzo scorso è motivata da un documento di 76 pagine, nel quali i pm modenesi - Di Giorgio, De Santis e graziano -ricostruiscono il contesto nel quale si sono verificati gli otto decessi, sia di quelli avvenuti presso il carcere di Modena, sia di quelli constatati presso gli istituti di Verona, di Parma e di Alessandria. L’indagine - i cui accertamenti sono stati delegati alla Polizia di Stato - trova il suo principale fondamento negli esami autoptici che hanno accertato la morte per intossicazione da farmaci: “A seguito degli accertamenti medico legali e chimico tossicologici l’individuazione delle cause del decesso conduce per tutti alle complicazioni respiratorie causate dall’assunzione massiccia di metadone, in qualche caso accelerato e aggravato dall’assunzione di altri farmaci o da specifiche condizioni personali. Viene esclusa per tutti l’incidenza concausale di altri fattori di carattere violento”, psiega infatti la Procura. Come noto, la rivolta aveva portato anche all’irruzione nell’infermeria del Sant’Anna: “La disponibilità incontrollata di metadone e di altri farmaci da parte di molti detenuti è derivata dal saccheggio dell’infermeria dell’istituto penitenziario condotta in prima persona anche da alcuni dei detenuti poi deceduti, il cui ruolo è stato ricostruito attraverso testimonianze ed altre indagini. Il metadone, in particolare, risultava correttamente custodito in apposito luogo al quale i partecipanti sono riusciti comunque ad avere accesso - evidenzia la Procura di Modena - farmaci sottratti sono stati poi ritrovati anche nelle sezioni detentive e, in taluni casi, nelle celle o tra gli effetti personali di alcuni deceduti. Per alcuni di essi è stata ricostruita l’assunzione di sostanze dopo il rientro in sezione”. Per i magistrati modenesi le operazioni di soccorso sono state puntuali e corretti: “Nell’immediatezza della rivolta risulta essere stata tempestivamente assicurata assistenza sanitaria a tutti i detenuti da parte del personale sanitario intervenuto. Date le circostanze è stato seguito il protocollo delle maxi emergenze 118, che ha visto coinvolto il personale della medicina penitenziaria, del 118, della Croce Rossa e della Protezione civile. Sul posto sono stati allestiti due Posti Medici Avanzati ed i sanitari si sono prodigati nel prestare l’assistenza necessaria a tutti i pazienti che sono stati loro condotti, nella quasi totalità dei casi in condizioni ricollegabili ad abuso di sostanze farmacologiche. Risultano essere stati fatti quindi, nel contesto emergenziale, pure gravati dall’emergenza legata al Covid-19, tutti i necessari controlli, con interventi terapeutici di contrasto in loco, ove possibile, o con invio ai presidi sanitari cittadini nei casi più gravi”. Ricordiamo che dei nove detenuti morti, cinque persero la vita tra le mura del Sant’Anna durante quel concitato e drammatico pomeriggio, mentre altri quattro morirono a seguito del trasferimento in atre strutture. I danneggiamenti al penitenziario, infatti, resero inagibile gra parte della struttura, costringendo la Polizia penitenziaria a spostare un gran numero di carcerati verso altre città quali Parma, Verona, Alessandria e Marino del Tronto (Ascoli Piceno). Nell’inchiesta modenese rientravano anche le posizioni di tre dei quattro detenuti morti dopo il trasferimento (escluso Salvatore Piscitelli), per i quali si doveva effettuare una valutazione complessa. In altre parole: il trasferimento è avvenuto nel rispetto delle condizioni di salute di chi aveva assunto le sostanze stupefacenti? Il procuratore facenti funzioni Di Giorgio chiarisce: “Ciascuna posizione viene ricostruita nel dettaglio nel provvedimento redatto dalle colleghe De Santis e Graziano che giungono alla conclusione che l’involuzione delle condizioni psicofisiche a seguito dell’assunzione di metadone e di altri farmaci si presentasse pressoché imprevedibile, perché dipendente dalle risposte soggettive o da altri fattori variabili, quali le quantità assunte, l’interazione con altri farmaci, e si sarebbe potuta verificare anche indipendentemente dal trasferimento. In tal senso l’Ufficio, a conclusione di questo primo filone di indagini, ritiene di non poter individuare responsabilità negli otto decessi ricollegabili ai fatti dell’8 marzo 2020”. Questa dunque la valutazione espressa dai magistrati, che nello specifico erano chiamati ad accertare eventuali precise responsabilità per la morte delle otto persone. Responsabilità che non sono emerse. Altro capitolo, invece, riguarderà la dinamica stessa della rivolta e i possibili profili di colpevolezza, così come l’accertamento delle presunte violenze denunciate da alcuni detenuti. Si tratta quindi di una prima importante risposta, ma non certo dell’ultima. Nella speranza che i tempi delle inchieste si accorcino per dare certezze su una domenica davvero drammatica. Modena. Tutti i dubbi sulla morte dei detenuti nella rivolta in carcere di Enrico Cicchetti Il Foglio, 4 marzo 2021 La procura ha chiesto l’archiviazione per i casi di otto reclusi deceduti per overdose. “Una vicenda complessa sulla quale restano molti interrogativi”, dice Simona Filippi, avvocato di Antigone. A quasi un anno dalle rivolte carcerarie del marzo scorso, nelle quali hanno perso la vita tredici detenuti in tutt’Italia, la procura di Modena ha chiesto l’archiviazione per le morti di otto dei nove detenuti avvenute durante la rivolta dentro la casa circondariale di Sant’Anna. La richiesta di archiviazione è per cinque persone morte all’interno del carcere modenese e per tre delle quattro morte durante o dopo il trasferimento in altri penitenziari. Secondo la magistratura, tutti gli otto decessi sarebbero da ricondurre a overdose di metadone e benzodiazepine, dopo il saccheggio della farmacia del Sant’Anna. È stata invece esclusa dalla richiesta d’archiviazione la morte di Salvatore Piscitelli, il 40enne trasferito nel carcere di Ascoli Piceno, in merito alla quale cinque detenuti hanno presentato un esposto in cui si denuncia anche l’omissione di soccorso nei suoi confronti. “Restano molti interrogativi su quella che è una vicenda molto complessa, a cominciare dal fatto che si tratta di tre situazioni distinte”, dice al Foglio Simona Filippi, l’avvocato dell’associazione Antigone che si occupa del caso. “La prima: tre detenuti muoiono nel corso della rivolta. In quei momenti il carcere è nel caos totale e tornerà nelle mani dello stato solo nei giorni successivi. I tre vengono portati dai compagni davanti ai cancelli dell’istituto, per essere soccorsi. Secondo caso: altre quattro persone muoiono nel corso del trasferimento o appena arrivate negli istituti di altre località. Terzo scenario: due detenuti muoiono il 10 di marzo al Sant’Anna, quando la struttura era già tornata nelle mani dello stato”. Secondo Antigone - che si opporrà alla richiesta di archiviazione per alcuni di questi casi e che ha visto il fascicolo con le autopsie e ha sentito il parere di medici esperti - il problema è soprattutto questo: una persona che è in overdose non va trasferita ma va curata. In fretta, se possibile. “Il metadone, in particolare”, continua Filippi, “è a lento rilascio rispetto all’eroina. E il suo effetto è anche piuttosto soggettivo. E ci sono protocolli medici per intervenire in caso di overdose. Si può intervenire, con un ricovero e poi mantenendo il paziente in osservazione per almeno 48 ore. Se i detenuti fossero stati ricoverati forse sarebbe stato possibile salvarli. Tanto più che davanti al Sant’Anna era stato allestito - dai medici del carcere, dalla polizia penitenziaria, dalla croce rossa e dalla protezione civile - un ‘pronto-soccorso’ d’emergenza, dove arrivavano i reclusi intossicati. Uno di loro, per esempio, è stato trasferito e sarebbe dovuto andare nel carcere di Trento ma già a Verona stava talmente male che è stato fatto scendere insieme ad altri. Lì è morto”. Per andare da Modena a Verona, se si prende l’autostrada del Brennero, si impiega circa un’ora e mezza. Quel tempo non sarebbe potuto essere dedicato diversamente? È vero che la pandemia, con tutto lo scompiglio che ha portato nel sistema sanitario, era solo all’inizio e che la situazione nelle carceri era di caos assoluto. Invece di pensare ai trasferimenti non si poteva però pensare a salvare la vita di un uomo in overdose? Anche se si tratta di un recluso, di un criminale, ma in quel momento era affidato alla custodia dello stato. “Tutto avviene la notte tra l’8 e il 9 marzo”, dice Filippi, che ricostruisce la vicenda affidandosi alle carte della procura. Alcuni dei detenuti che sarebbero poi morti sono stati portati ad Alessandria (circa due ore e mezza percorrendo l’A1), un altro a Parma (un’oretta di viaggio sulla stessa autostrada) ed è morto la mattina seguente. “La legge penitenziaria prevede un controllo sanitario prima del trasferimento e uno all’ingresso nelle nuove strutture. Queste persone erano già in overdose: altri detenuti hanno raccontato che barcollavano, che avevano gli occhi semichiusi. Ci chiediamo se sia stato fatto tutto il possibile per salvarli”. Milano. La lezione dei penalisti: “Vaccinate prima i detenuti” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 marzo 2021 La replica della Camera penale di Milano dopo la notizia che la Lombardia non ha inserito gli avvocati nella seconda fase del Piano vaccinale. “Se non vaccinate noi avvocati, allora vaccinate i detenuti”, ha fatto sapere oggi la Camera penale di Milano, presieduta dall’avvocato Andrea Soliani. La Regione Lombardia non ha inserito gli avvocati, a differenza del personale degli uffici giudiziari, nella seconda fase del Piano vaccinale. Solo a Milano gli avvocati sono circa 23mila. Altre Regioni, invece, stanno provvedendo in maniera differente. Alla decisione della Regione di escludere gli avvocati, ha subito risposto la Camera penale del capoluogo lombardo con una lettera inviata al presidente della Regione, il leghista Attilio Fontana, anch’egli avvocato, e all’assessore al Welfare Letizia Moratti. “Non vi è alcun dubbio in ordine al fatto che un servizio essenziale, quale quello della giustizia, debba essere assicurato in questo periodo di pandemia”, esordiscono i penalisti. “Non siamo, tuttavia, in grado di valutare se tale individuazione di priorità - proseguono - possa andare a detrimento di altri soggetti, che magari svolgono attività, anch’esse di vitale importanza, in situazioni di maggior pericolo sanitario”. “La funzione dell’avvocato penalista è quella di assicurare ai propri assistiti il pieno esercizio dei loro diritti, impedendone ogni ingiusta compressione”, puntualizzano gli avvocati, ricordando che “in questo momento di crisi sanitaria mondiale non vogliamo togliere ad altri il diritto di vaccinarsi, laddove nella scala di priorità questi soggetti vengano prima di noi”. La proposta formulata, allora, è che venga data precedenza a coloro che, in questo periodo, “trascorrono la loro vita negli istituti penitenziari, con ciò intendendo sia i soggetti privati della loro libertà, sia coloro che prestano servizio all’interno di tali strutture”. Nelle carceri, notoriamente, sovraffollate il contenimento della pandemia tramite il distanziamento sociale è di fatto irrealizzabile. Per tale ragione, da mesi, per evitare la diffusione del virus, sono fortemente contingentati gli ingressi e le uscite dalle carceri, il che ha limitato (se non azzerato) l’attività rieducativa che in via prioritaria deve essere svolta, a vantaggio di coloro che sono ristretti (e della collettività). Sempre per evitare rischi di ingresso del virus in carcere, i soggetti detenuti partecipano alle udienze che li riguardano in video conferenza, il che determina anche in ragione delle insufficienti dotazioni informatiche e telematiche una significativa compressione dei diritti di difesa. La decisione della Regione Lombardia, quindi, non ha considerato che Palazzi di giustizia, frequentati ogni giorno da diverse migliaia di utenti, fra magistrati, avvocati, personale amministrativo, forze di polizia, testimoni, sono stati nell’ultimo anno i luoghi di diffusione per eccellenza del virus. Il Tribunale di Milano, ad esempio, è stato uno dei primi focolai del Covid in Italia. Le prime avvisaglie si erano avute a metà febbraio dello scorso anno, un mese prima del lockdown nazionale. Il 22 febbraio, per l’esattezza, il giorno dopo l’estensione della zona rossa in diversi comuni della provincia di Lodi, i presidenti della Corte d’Appello e del Tribunale del capoluogo lombardo emanarono le prime di una lunga serie di disposizioni interne per tentare di contenere la diffusione del virus. E sempre ieri è stato bocciato al Pirellone l’emendamento del consigliere regionale Franco Lucente (Fd’I) che puntava ad inserire gli avvocati proprio nella seconda fase del Piano vaccinale lombardo. Pesaro. Il Covid irrompe anche in carcere: chiuse due sezioni con sette detenuti positivi Corriere Adriatico, 4 marzo 2021 Due sezioni della casa circondariale di Villa Fastiggi sono state chiuse per Covid. Un’emergenza sanitaria che si è evidenziata alla fine della scorsa settimana, a cavallo tra sabato e domenica, e al momento, sono sette i detenuti che sono stati trovati positivi e sono stati posti in isolamento. Non è chiaro come i detenuti, tutti uomini, abbiano potuto contrarre il virus, considerato che fino a questo momento il sistema di prevenzione all’interno del carcere aveva retto bene l’onda d’urto del contagio. E invece, pochi giorni fa, sette sono stati trovati positivi e sono immediatamente scattate rigide misure di contenimento sanitarie con le due sezioni interessate poste in isolamento e con i contagiati che non possono avere nessun contatto con l’esterno. Sono state sospese tutte le attività previste dal regolamento interno, i positivi non possono lasciare le loro celle e naturalmente le precauzioni sono state estese anche al personale di polizia penitenziaria che per effettuare i controlli di sorveglianza di routine deve indossare tutti i dispositivi di protezione sanitaria necessari. L’emergenza Covid con le due sezioni chiuse riporta d’attualità la situazione delle carceri nel Pesaresi peraltro recentemente evidenziata dal report della corte di Appello di Ancona dove venivano evidenziati problemi legati al sovraffollamento, alle aggressioni e all’autolesionismo. Secondo il report a Villa Fastiggi il sovraffollamento è di circa il 50% (214 presenze a fronte di 143 posti regolamentari). E sempre a Pesaro “non sono peraltro in grado di garantire ad ogni detenuto più di 3-4 metri quadrati”. Al contrario Fossombrone ha tutte stanze singole che offrono uno spazio di circa 9 metri quadrati a detenuto, superiore dunque al limite di 7 metri quadrati identificato dal Cpt (Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura e delle pene e trattamenti inumani o degradanti) come la superficie minima auspicabile per una cella di detenzione. Pesaro ospita anche 3 detenuti con problemi psichici ed è proprio di poche settimane fa la polemica dei sindacati dopo che un detenuto con turbe psichiche ha sferrato schiaffi e distrutto la cella due volte in tre giorni. Tanto che i sindacati Sappe e Osapp sostengono che l’istituto pesarese “non è idoneo a gestire tale tipologia di detenuti”. Sono 192 gli atti di autolesionismo concentrati in massima parte nell’istituto di Ancona Montacuto e Pesaro (87 e 78), un dato “che può esser messo in relazione alla situazione di sovraffollamento”. Sono invece 211 gli episodi di aggressione concentrati soprattutto ad Ancona e Pesaro. Padova. Garante dei detenuti, il caso torna in aula di Luca Preziusi Il Mattino di Padova, 4 marzo 2021 Non è bastata la prima seduta del Consiglio comunale per nominare il Garante dei detenuti al Due Palazzi. La frattura emersa nei giorni scorsi in maggioranza ha avuto i suoi effetti, e quindi ieri sera non sono bastati i 21 voti per raggiungere i due terzi dei voti dei consiglieri per incaricare Antonio Bincoletto. Ne servivano 22. Si torna in aula la prossima settimana con le stesse regole, e qualora non ci fossero nuovamente 22 voti su 32, si procederà ad una terza convocazione. In quel caso però basterà il voto a favore di un terzo del consiglio. Il consigliere “giordaniano” Luigi Tarzia nei giorni scorsi aveva sponsorizzato la candidatura di Maria Pia Piva (1 voto ieri), opponendola a Bincoletto (ma ci sono anche altri 5 candidati), su cui invece si era accordata la maggioranza e parte dell’opposizione. Una scelta provocatoria dopo lo scontro di un mese fa sul tema della parità di genere, che Tarzia ha usato contro Coalizione Civica per sfidarla ad eleggere una donna. Milano. Dal carcere di Opera il corpo di Cristo arriva in tutto il mondo di Giangiacomo Schiavi Corriere della Sera, 4 marzo 2021 Le ostie che i detenuti di Opera (Milano) producono da anni ora arrivano in 500 chiese, da Gaza all’Argentina. L’iniziativa avviata dalla “Casa dello Spirito e delle arti” di Arnoldo Mosca Mondadori in continua espansione. È stato un lampo, come i tanti che accendono la fantasia di Arnoldo Mosca Mondadori e diventano idee che si traducono in progetti. O meglio: in misteriose alchimie che trasformano la disperazione in speranza. Così un giorno di cinque anni fa, nel carcere di Opera, gli ultimi degli ultimi sono diventati protagonisti di una storia che dalla periferia di Milano si allarga alle periferie del mondo e coinvolge volontari, giovani, suore, preti, missionari, laici devoti e non devoti, una catena solidale che mette il bene davanti a tutto. “In carcere vengono prodotte le ostie per la messa - spiega Mosca Mondadori- che poi vengono donate a tutte le parrocchie che ne fanno richiesta. È una forma di riscatto e di lavoro per persone detenute che si erano macchiate di gravi colpe e che hanno seguito un percorso di presa di coscienza del male commesso. Dalle loro mani, un tempo sporche di sangue, nasce quello che diventerà il corpo di Cristo. Un paradosso, un segno che cerca di dire qualcosa del mistero dell’amore, che è sempre paradossale rispetto al nostro pensiero”. Quando papa Francesco, all’Angelus, ha benedetto le ostie e abbracciato i detenuti che le fabbricano, il lampo, l’idea e il progetto si sono messi insieme fino a diventare un’impresa che raccoglie adesioni da tutto il mondo. Le ostie prodotte in carcere hanno iniziato a viaggiare. I detenuti ne hanno prodotte artigianalmente più di 4 milioni. E sono arrivate in 500 chiese sparse per il mondo. Il progetto ha questo nome: “Il Senso del pane”. Ma è molto di più: dà un senso alle vite che papa Francesco chiama di scarto. Aiuta uomini e donne a recuperare la dignità con il lavoro. Il carcere di Opera è il campo base, il laboratorio pilota. Che si è esteso al Mozambico e all’Etiopia, dove sono impegnati ex ragazzi di strada; allo Sri Lanka e alla Turchia, dove lavorano ragazze per non entrare nel mercato della prostituzione; a Pompei e Betlemme, dove sono attivi i giovani con disabilità fisica e psichica; fino alla Striscia di Gaza, dove vengono chiamate a lavorare le persone più povere. La novità è lo sbarco in Sudamerica. A Buenos Aires, racconta Mosca Mondadori, è nato un laboratorio dove producono le ostie ragazzi e ragazze che escono dal mondo della droga, seguiti da don Adrian Bennardis. “Con ognuno di loro, come per ciascuna delle persone impegnate nei diversi laboratori, si pensa a un progetto per il futuro, che tenga conto dei talenti di ciascuno e che possa portare alla dignità e all’autonomia”. È la Casa dello Spirito e delle Arti a coordinare una rete che in pochi anni si è estesa alle periferie esistenziali del mondo. “La pandemia - spiega ancora Arnoldo Mosca Mondadori - ci sta ricordando uno dei bisogni più grandi di questo tempo: il bisogno di relazione umana, la necessità di affidarci a qualcuno che è più grande di noi. E prosegue: “Il vaccino naturalmente è importante, fondamentale per uscire dall’emergenza della pandemia. Ma non può salvarci dall’egoismo”. Il Senso del Pane è come un antidoto, un sogno realizzato grazie alla generosità di alcune persone. “Una di queste, Marisa Baldoni, ci ha lasciato in questi giorni. Con lei è nata la nostra Fondazione. Era una persona di pura generosità, che ha donato più dell’85 per cento dei suoi beni ai poveri”. C’è un mistero in ogni progetto, secondo Mosca Mondadori, “che non nasce dal nostro merito, ma è benedetto dal cielo”. Lui cerca solo di far atterrare i sogni, renderli concreti. Qualche anno fa ha ideato la Croce di Lampedusa, con il legno dei barconi di migranti affondati nel Mediterraneo: oggi è un simbolo di accoglienza. Prima ancora aveva creato l’Orchestra dei popoli, al Conservatorio di Milano, un progetto di integrazione culturale con giovani musicisti di 60 nazionalità diverse. “Penso che in ogni essere umano ci sia la scintilla, il mistero dell’infinito. Paradossalmente dobbiamo prendere atto di aver ricevuto un dono folle: siamo esseri che hanno dentro l’infinito”, spiega. Con l’associazione Apac, in un carcere del Brasile si è avviato un nuovo laboratorio dove lavoreranno persone che hanno commesso crimini e si sono pentite: “Alcuni dei detenuti hanno ucciso, e hanno chiesto liberamente di lavorare con noi senza nessuno sconto di pena. Il loro è un percorso è spirituale, i laboratori sono dei luoghi ponte dove le persone possono ritrovare la propria dignità, al di là della loro religione”. C’è una bontà rivoluzionaria, diceva Ermanno Olmi. E questa lo è. “Credo che in quel piccolo pezzo di pane consacrato - si avvia a concludere Mosca Mondadori - si nasconda la vera rivoluzione. In quel pane c’è il misterioso cibo che offre da mangiare alla nostra sete d’infinito. E quando l’uomo è dissetato in questa sua sete fondamentale non ha più bisogno di fare le guerre, di invidiare, di accumulare ricchezze. Vuole solo comunicare la meraviglia che sente dentro di sé, e allora inizia a condividere, a dare, non perché abbia un merito, ma perché ha assaporato la vera felicità”. Quante vite si possono aiutare così? Palermo. Le parole del carcere viaggiano in rete di Antonella Barone gnewsonline.it, 4 marzo 2021 Dal 5 marzo ogni venerdì i podcast che raccontano l’avventura della compagnia teatrale Evasioni con gli attori detenuti del carcere Pagliarelli Lo Russo. Dopo la scrittura, la voce. Il potere evocativo della parola si fa suono nella Fase 2 del progetto “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso cultura e bellezza” che vede protagonisti gli attori detenuti alla Casa Circondariale Pagliarelli - Lo Russo. Da venerdì 5 marzo sarà disponibile sulle maggiori piattaforme digitali e sulla pagina Facebook dell’Associazione Baccanica il primo dei podcast prodotti e realizzati dalla compagnia Evasioni, diretta dalla regista Daniela Mangiacavallo. L’appuntamento sarà ogni venerdì dalle ore 21 per sette storie sonore che raccontano il lavoro poetico e drammaturgico della compagnia Evasioni dentro e fuori la casa circondariale, in attesa di potere riprendere l’attività in presenza. Gli attori della compagnia sono già entrati in sala d’incisione per realizzare le sette puntate sonore. E toccherà alla regista Daniela Mangiacavallo alzare il sipario sulla nuova avventura con il primo dei podcast “Da dove tutto ebbe inizio...” che ripercorre storie, ricordi, emozioni all’interno della sezione maschile dell’istituto Pagliarelli-Lo Russo in rete da venerdì 5 marzo. Il secondo appuntamento è con Oriana Billeci, che indaga “Gli universi della parola”, poi è la volta di Marzia Coniglio con “Invenzione: una creazione dal caos”. Floriana Cane cura “Dentro un dipinto”, come entrare e raccontare un’immagine, mentre Fabiola Arculeo, per il podcast numero 5 curerà “Tutti i Mondi possibili”. Chiudono il progetto l’artista Piriongo che “anima” le sue illustrazioni in “Segnali positivi” e la costumista Roberta Barraia con “Dal filo di un’idea alla trama di un costume”. Il secondo step del progetto “Per Aspera ad Aspra” continua a lavorare sulla costruzione drammaturgica del nuovo spettacolo della compagnia “Evasioni”, il quarto dopo gli applauditi Enigma, La Ballata dei Respiri e Transiti, tutti messi in scena dai detenuti- attori in questi quattro anni di attività con l’associazione Baccanica, fondata dalla regista Daniela Mangiacavallo. Nella Fase 1 “Corrispondenze” gli attori detenuti e gli altri artisti della compagnia si sono scambiati lettere per creare un dialogo tra il carcere, luogo apparentemente chiuso oltre le sbarre, e il mondo fuori. Adesso saranno le voci dei compagni da fuori ad entrare in carcere e raccontare l’evolversi della drammaturgia: gli spunti e le suggestioni sono le stesse lettere spedite dal carcere che stanno tracciando la rotta della nuova drammaturgia. Un percorso artistico e poetico che sarà condiviso anche con il pubblico che potrà ascoltare i podcast sulle piattaforme digitali: un filo che attraversa la compagnia e arriva a chi sta dentro e anche oltre le sbarre. “Parole, immaginari, vite reali e mondi inventati. Una distanza forzata che sta trasformando il progetto teatrale di quest’anno in un’occasione davvero unica - spiega Daniela Mangiacavallo -. Un limite apparentemente insuperabile può metterci in crisi, ma possiamo decidere se stare fermi e subire il limite o superarlo, trasformandolo in una grande opportunità. E per noi è stato così - conclude la regista. È davvero straordinario come la forza del teatro possa sviscerare nuove possibilità”. “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” vede in rete dodici compagnie teatrali italiane che operano negli Istituti penitenziari, tra cui la Compagnia della Fortezza, che ne è partner capofila. Il progetto è promosso da Acri e sostenuto da Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo, Fondazione Carispezia, Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, Fondazione Con il Sud, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Fondazione di Sardegna. Vigevano (Pv). Teatro-carcere. “Una madre in carcere pensa sempre ai suoi figli” di Valeria Vignale Grazia, 4 marzo 2021 Teresa è stata condannata per un grave reato e ha scontato la sua pena con delle donne di mafia. Ma è anche tra le protagoniste di uno spettacolo teatrale sul dolore nascosto di queste detenute. “Riviviamo ogni giorno lo stesso lutto”, dice a Grazia. “E cioè: aver lasciato soli i nostri ragazzi” Prove teatrali nel reparto di Alta Sicurezza femminile del carcere di Vigevano. Teresa inizia il suo monologo. Racconta in prima persona la storia di un’altra detenuta che ha perso un figlio ed è stata colpevolizzata dai famigliari. A un certo punto si ferma: “Non mi ricordo più niente, neppure come finisce... Mi si è bloccata la mente”. E il drammaturgo Mimmo Sorrentino le risponde: “Lo sai perché è difficile per te ricordare queste parole? Perché fanno male. Perché voi, qui dentro, rivivete lo stesso lutto ogni giorno: ogni madre si sente responsabile per aver lasciato i figli lontani”. È una delle scene iniziali di Cattività, il documentario di Bruno Oliviero che segue il percorso di Sorrentino, autore e teorico del teatro partecipato, nell’ambito del progetto Educarsi alla libertà (dal 12 marzo su Chili, CG Digital e iTunes, successivamente su altre piattaforme). Una dozzina di donne, in carcere per reati associativi spesso legati a mafia, camorra e ‘ndrangheta, hanno raccontato al drammaturgo la loro vita e, dopo che lui ne ha tratto un testo teatrale, hanno interpretato ognuna la storia di un’altra. Specchiandosi, hanno elaborato episodi di violenza e sofferenze iniziate nell’infanzia o molti anni prima, spesso con padri e mariti sposati alla malavita. Ne è nato uno spettacolo corale che, grazie a permessi speciali e alla scorta, hanno portato in teatri e scuole, a cominciare dall’Università Statale di Milano dove Nando Dalla Chiesa insegna Sociologia e metodi di educazione alla legalità. Uno studente chiede: “Avreste potuto avere una vita alternativa, con biografie come le vostre?”. Difficilissimo, risponde una di loro. Ma tra prove ed esibizioni, confronti con il gruppo e con il regista, le si vede passare attraverso un cambiamento profondo. “Fare teatro mi ha dato un grande sostegno e mi ha fatto crescere”, racconta Teresa Napolitano, 45 anni, che nel 2020 è tornata dai suoi tre figli a Napoli dopo aver scontato una condanna a nove anni per traffico di stupefacenti (di cui sei alla Casa di reclusione di Vigevano). “Non può certo mancarmi il carcere, ma alcune compagne sì. Sono stata fortunata, ho conosciuto tante persone squisite. Belle dentro”. Belle dentro, doppio senso involontario perfetto per la loro storia. Come è iniziata la sua esperienza teatrale? “Sono arrivata a Vigevano nel 2014 e dopo pochi mesi gli educatori mi hanno proposto il progetto di Mimmo Sorrentino. Ero curiosa ma essendo timida inizialmente non volevo partecipare, è stata una compagna a incoraggiarmi. Facevo fatica a esprimermi e avevo così vergogna che ho detto a Mimmo: “Posso dire solo poche parole”. Invece poi, a poco a poco, mi sono sciolta. Lui è così generoso e umile, e lo senti così vicino nei momenti di sconforto, che ti viene naturale parlarci e aprirti completamente. Con il tempo sono riuscita anche a imparare un intero monologo”. È stato terapeutico? “Direi di sì. Ed è terapeutico scambiarsi le storie sul palcoscenico: vedi un’altra persona che racconta la tua, ne diventi spettatrice e la accetti. Quando poi ho raccontato al pubblico quella di una compagna, mi ci sono calata dentro e immedesimata totalmente, ne parlavo davvero come se fosse la mia. È stato un modo per conoscere le altre, sentirci unite, stare dentro la sofferenza con loro sapendo che anche loro sono con te”. Perché era difficile, all’inizio, ricordare le parole del monologo? “Perché era la vicenda di una detenuta che ha perso un figlio, come me. Io ero rimasta incinta a 18 anni di una bambina, ma all’ottavo mese ho avuto una gestosi, la piccola ha avuto un infarto e anch’io ho rischiato di morire. È stata durissima. Ma il monologo era tosto anche per un altro motivo: in quel momento soffrivo per i figli che crescevano lontano da me. Ne ho avuti tre, dopo aver perso la prima, e sono diventata pure nonna mentre scontavo la pena: due femmine di 23 e 18 anni, la prima con un figlio di 6 anni, e un maschio di 16. L’ho lasciato che era un bambino, l’ho ritrovato alto un metro e 80”. Non l’aveva più rivisto? “Solo in foto, e non le dico che colpo era guardarle quando mi arrivavano. Quando ci consegnavano la posta avevo il batticuore perché non aspettavo altro che le loro lettere, visto che non potevano venire da Napoli a farmi visita. Ci sentivamo al telefono una volta alla settimana: avevo dieci minuti per parlare con tutti. Mi sono sempre battuta per veder riconosciuta la mia innocenza (è stata condannata per traffico di droga, ndr), appartengo a una famiglia lontanissima dalla vita di strada ma con i ragazzi mi sentivo comunque in colpa. Loro mi hanno sempre tranquillizzato, mi raccontavano le loro giornate. Sono stati i miei genitori e i miei suoceri a seguirli: mio marito è ancora in carcere. Quando ci siamo sposati avevo 21 anni e lavorava in un’impresa di pulizie, ma una decina di anni dopo ha iniziato a frequentare un brutto giro”. I ragazzi l’hanno vista recitare? “Sì, in un video. Si sono commossi, mi hanno detto: “Sei forte, sei la nostra regina”. Mi ha aiutata molto ad andare avanti”. Com’è stato portare lo spettacolo fuori dal carcere? “La prima volta, alla Statale di Milano, ci sentivamo come delle star: ci avevamo messo tanto impegno e ci hanno accolto tutti così calorosamente. Eravamo eccitate come ragazzine alla loro prima festa. Ma soprattutto il teatro, in questi anni, mi ha distolto da altri pensieri e mi ha aiutato a crescere: oggi mi sento più sicura. Ogni istante di quell’esperienza è stato prezioso”. Quando è tornata a casa? “Esattamente un anno fa, in febbraio. Sono partita in treno ma, ci crede? Non ricordo nulla del viaggio, solo la grande emozione di riabbracciare i ragazzi. In questi anni mi sono chiesta spesso per che cosa vivo e la risposta è stata sempre: “per i figli”. Ho un legame quasi morboso con loro, come se non avessero mai tagliato il cordone ombelicale”. Che cosa desidera ora per il suo futuro? “Cose semplici, lavorare e vivere serenamente. Per il momento mi arrangio facendo le pulizie. In carcere avevo fatto anche la cuoca. Il teatro? Mi piacerebbe continuare ma qui non saprei come”. Scuola e governatori, le parole di una sconfitta di Marco Imarisio Corriere della Sera, 4 marzo 2021 Bisogna fare i conti con la cultura che si intravede dietro certe dichiarazioni quasi compiaciute. Con una sottostima ormai consueta della funzione svolta dalla scuola. La scuola è il primo luogo dove si impara l’importanza delle parole. Che possono essere pietre, ma sono sempre e comunque indicatrici di una visione del mondo. Non è neppure questione di chiudere o non chiudere, per quello ormai ci sono parametri rigidi come il nuovo inverno pandemico che stiamo vivendo. Quando Vincenzo De Luca definisce “Ogm” e “cresciuta con latte al plutonio” una bambina evidentemente considerata strana perché ha voglia di stare in classe, quando Giovanni Toti sostiene che battersi per la presenza in aula significa “tenere fede a una idea elitaria della cultura”, riducendo così un tema universale a una scelta di campo, destra o sinistra, pesto o ragù, diventa chiaro che il problema non è solo tenere a casa un altro mese gli alunni. Magari fosse così. Invece bisogna fare i conti con la cultura che si intravede dietro certe dichiarazioni quasi compiaciute per quella che è una sconfitta dell’intera società. Con una sottostima ormai consueta della funzione svolta dalla scuola. Con la tendenza a considerare l’istruzione un valore aleatorio e fungibile, ordinaria merce di scambio al mercato della politica. E non una linea del Piave da difendere a ogni costo, come invece avviene in altri Paesi a noi vicini, dove il mantenimento della didattica in presenza è considerato una questione di principio. Al punto che quando si è obbligati a rinunciarvi, lo si fa con sincera preoccupazione. Senza prendere sottogamba una scelta destinata ad avere comunque pesanti conseguenze. La scuola continua a essere un retro-pensiero, per i nostri presidenti di Regione, che ormai da un anno si spendono con generosità per la causa di ogni categoria purché in possesso di certificato elettorale. E nelle loro richieste hanno sempre tenuto sullo stesso piano la necessità di chiudere le aule e quella di riaprire le attività commerciali. Contribuendo così a far percepire l’istituzione più importante per il nostro futuro come una sorta di nemico del fatturato. Nelle sue dirette su Instagram, Matteo Salvini attaccava spesso l’ex ministra Lucia Azzolina dicendo che certo, la scuola è una bella cosa “ma prima viene la produttività”. Non esprimeva solo una opinione personale, ma dava voce a una corrente ben presente nella nostra società, per quanto carsica. Altrimenti non si spiegherebbe il nostro ultimo posto nella spesa pubblica destinata all’istruzione tra i 37 Paesi dell’Ocse e l’esaltazione spesso strumentale della didattica a distanza, quando appare evidente che quella in presenza è molto più efficace. Chi ha responsabilità istituzionali dovrebbe avere un orizzonte più vasto. I danni e le disuguaglianze prodotte da questa situazione sui nostri ragazzi sono sotto gli occhi di tutti. Se le parole hanno davvero un peso, quelle sulla scuola di gran parte della nostra classe dirigente rivelano una leggerezza imperdonabile. La minaccia cibernetica secondo i Servizi di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 4 marzo 2021 Pubblicato il rapporto annuale del Dis, Aise e Aisi. Gli attacchi informatici nel 2020 sono aumentati del 20%. Pubbliche amministrazioni, Banche, Tlc e Farmaceutica tra i settori più colpiti. Gli hacktivisti sono tra i maggiori responsabili degli incidenti scoperti. Nella Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza 2020 redatta dai nostri servizi segreti per il Parlamento ci sono notizie belle e brutte per l’Italia cibernetica. Nel Documento di Sicurezza Nazionale allegato alla relazione si legge che dalla data della sua entrata in funzione il 6 maggio 2020 lo Csirt italiano (il Computer Security Incident Response Team) ha gestito 3.558 incidenti informatici, 117 dei quali critici, 273 vulnerabilità gravi, e ricevuto 25.845 segnalazioni. E si tratta solo delle notifiche di aziende e pubbliche amministrazioni che l’hanno fatto volontariamente. Scenario che cambierà a breve adesso che le notifiche saranno obbligatorie per le realtà incluse nel Perimetro Nazionale di Sicurezza Cibernetica. Se lo Csirt è stato in grado di mitigare questi incidenti la consideriamo una buona notizia. Quella brutta è che le aggressioni sono aumentate complessivamente del 20%. Ecco i dati. I soggetti pubblici attaccati, con un incremento complessivo di 10 punti rispetto al 2019, sono per il 38% amministrazioni statali, per il 48% enti regionali, provinciali e comunali (hanno subito un aumento del 30% degli attacchi), e i Ministeri titolari di funzioni critiche (+ 2% rispetto all’anno prima). Anche le banche sono state colpite 11%, (un +4 sull’anno scorso), insieme al settore farmaceutico/sanitario (+7%) e ai servizi IT (11%). Nel rapporto non sono indicate per nome tutte le realtà attaccate ma una cosa è certa: sono diventate un bersaglio privilegiato di spie, cybercriminali e hacktivisti che hanno sfruttato la debolezza strutturale di aziende e PA italiane, approfittando della congiuntura pandemica per penetrare le loro difese anche in seguito all’aumento della cosiddetta “superficie d’attacco” ingigantita dal lavoro remoto e dall’uso di strumenti come le Vpn che non hanno garantito la protezione promessa. Stupisce il grafico che attribuisce all’hacktivism circa il 70% degli attacchi di cui sono citati alcuni bersagli, e incuriosisce “il preponderante ricorso a tecniche di SQL Injection per violare le infrastrutture informatiche delle vittime (60% del totale)”. Un tipo di tecnica usata da Anonymous nelle sue declinazioni italiane: LulzSec Italia, Anonymous Italia. Nel 32% dei casi gli attacchi hanno la finalità di gettare discredito sulle vittime. Fra le altre tecniche di attacco si cita lo “spear-phishing” (il furto mirato di credenziali e dati personali), per inoculare nei computer bersaglio i Remote Access Trojan-RAT e acquisire il controllo remoto delle risorse compromesse. Che però è una tecnica usata da aggressori esperti e motivati, al pari degli attacchi “ransomware” che l’anno scorso hanno devastato il Made in Italy di scarpe, occhiali, bevande e agroalimentare. La relazione dell’intelligence nostrana ha rilevato anche campagne di spionaggio: “Le più insidiose per il Sistema Paese, in termini di informazioni esfiltrate, perdita di operatività e competitività, nonché dispendio di risorse economiche per la loro mitigazione”. Avrebbero colpito aziende di Telecomunicazione e l’industria del petrolio. Una citazione ad hoc poi è riservata alla società texana SolarWinds, per il potenziale impatto che la scoperta delle backdoor nel suo software Orion può aver causato su reti e sistemi nazionali. Ah, le altre due buone notizie sono che per fine anno dovremmo avere il centro di ricerca e sviluppo per la cybersecurity chiesto dal Parlamento e l’adesione alla proposta di sanzioni per gli autori di attacchi informatici riconosciuti come una minaccia esterna alla sicurezza nazionale. Migranti. Come l’Europa può contribuire a porre fine alle morti nel Mediterraneo di Judith Sunderland hrw.org, 4 marzo 2021 L’impegno dei governi UE può alleviare la crisi nelle rotte migratorie mortali. Mentre la pandemia assorbe tutta l’attenzione dell’Europa, nel Mediterraneo centrale la lotta per la sopravvivenza continua. Dall’inizio del 2021, almeno 185 persone sono morte nelle acque tra il nord Africa e l’Italia. Le politiche italiane e dell’Unione Europea (UE) stanno costando vite in mare, e condannano molte altre persone all’agonia in Libia. Il Mediterraneo centrale è stato a lungo la rotta migratoria più letale del mondo, con oltre 17.400 vite perse tra il 2014 e il 2020. Il mese scorso, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha rilevato che l’Italia non ha risposto a una barca in difficoltà nel 2013, causando la morte di almeno 200 persone, tra cui 60 minori. Mentre l’Italia ha avuto una responsabilità diretta in quel caso, è l’UE nel suo complesso ad essere responsabile dell’enorme numero di morti in mare. Le istituzioni e gli stati dell’UE hanno progressivamente abdicato alla responsabilità della ricerca e del salvataggio nel Mediterraneo centrale. La missione navale dell’UE pattuglia deliberatamente lontano dalle aree in cui potrebbe incontrare barche in difficoltà. Le organizzazioni di soccorso non governative che cercano di colmare il vuoto subiscono campagne diffamatorie, ostacoli amministrativi e persino procedimenti giudiziari. L’Italia, Malta e l’agenzia di frontiera dell’UE, Frontex, sembrano più interessate ad aiutare le forze libiche a intercettare le barche di migranti che a garantire salvataggi tempestivi e il loro sbarco in un porto sicuro. Negli ultimi due mesi, la guardia costiera libica ha intercettato almeno 3.700 persone e le ha riportate in Libia, dove vanno incontro alla detenzione arbitraria a tempo indeterminato e al rischio concreto di violenze sessuali, tortura, lavoro forzato ed estorsioni. Il numero è significativamente più alto di quelli ripresi durante lo stesso periodo nel 2020. Tutti concordano sul fatto che la Libia non sia un luogo sicuro, ma questo non ha impedito all’UE di fornire denaro e supporto tecnico alle unità abusive della guardia costiera che sono nominalmente sotto le autorità della Libia occidentale. Negli ultimi cinque anni, questo sostegno ha permesso alle forze libiche di intercettare e riportare in Libia oltre 66.000 persone. Questo ciclo di morte e sofferenza può essere evitato. La Commissione europea e i paesi dell’UE dovrebbero garantire una solida capacità di ricerca e salvataggio dei governi dell’UE nel Mediterraneo e sostenere, anziché ostacolare, altri sforzi di salvataggio. Dovrebbero anche promulgare accordi di cooperazione internazionale per ridurre al minimo il numero di persone riportate in Libia, ed evacuare un maggior numero di persone direttamente dalla Libia per evitare che queste tentino un viaggio possibilmente mortale. Alla fine, il modo migliore per salvare delle vite è quello di espandere i canali sicuri e legali per i rifugiati e gli altri migranti. Francia. Il Senato inizia a discutere la “legge sulla sicurezza globale” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 marzo 2021 Dopo il voto dell’Assemblea nazionale del 24 novembre, inizia oggi al Senato francese la discussione sulla cosiddetta “legge sulla sicurezza globale” che secondo Amnesty International presenta numerosi elementi di preoccupazione riguardo ai diritti alla riservatezza, alla libertà di espressione e di manifestazione pacifica. Nel dettaglio, l’attuale proposta di legge prevede all’articolo 21 l’aumento delle telecamere “dal basso” e all’articolo 22 l’uso pressoché illimitato dei droni salvo che all’interno delle abitazioni e la possibilità per le forze di polizia di accedere alle immagini in tempo reale. Queste disposizioni, insieme alla circostanza che il testo non vieta espressamente l’uso di immagini rilevate attraverso il riconoscimento facciale, trasformerebbero la Francia in un luogo distopico basato sulla sorveglianza di massa. Un articolo molto preoccupante è il 24. Stabilisce fino a un anno di carcere e una multa di 45.000 euro per la diffusione di immagini in cui agenti di polizia o gendarmi siano identificabili e l’intenzione sia quella di minacciare la loro “integrità fisica”, una nozione vaga che potrebbe impedire ai giornalisti e ai cittadini di riprendere comportamenti meritevoli di accertamento giudiziario: come nel caso del produttore musicale Michel Zecler, picchiato da agenti di polizia che, in assenza di immagini come quelle mostrate nella foto di apertura, non avrebbero potuto essere chiamati a rispondere del loro operato. Due giorni fa la commissione del Senato incaricata di presentare emendamenti alla proposta di legge ha raccomandato di emendare l’articolo, introducendo il reato di incitamento a identificare agenti di polizia o gendarmi, sempre con l’obiettivo di minacciare la loro “integrità fisica” e anche psicologica, persino se le immagini non vengano diffuse. Siria. L’Onu: migliaia di civili torturati e uccisi nelle carceri L’Osservatore Romano, 4 marzo 2021 Dieci anni dopo lo scoppio delle violenze armate in Siria, decine di migliaia di civili risultano ancora “scomparsi”, moltissimi dei quali uccisi, dopo essere stati detenuti in maniera arbitraria sin dal 2011. È quanto emerge da una dettagliata relazione preparata da inquirenti internazionali incaricati dall’Onu di far luce sulle violazioni umanitarie nel conflitto siriano. Secondo lo studio, diffuso nelle ultime ore ai media e che cerca di far luce su presunti crimini contro l’umanità commessi da tutte le parti coinvolte nel conflitto siriano, migliaia di altre persone sono state torturate o uccise in diverse carceri siriane. Vittime e testimoni hanno descritto agli inquirenti “sofferenze inimmaginabili”, compreso lo stupro di ragazze e ragazzi minorenni. Secondo la relazione, prodotta dagli investigatori della Commissione internazionale indipendente di inchiesta sulla Siria, formata nel 2011 su mandato del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, questi crimini costituiscono ormai “un trauma nazionale, che prima o poi dovrà essere affrontato” se il Paese vuole arrivare alla pace e alla stabilità sociale. Va ricordato che in dieci anni di guerra, si stima che in Siria siano morte dalle 380mila alle 500mila persone, mentre circa metà dei 20 milioni di abitanti del 2011 hanno dovuto abbandonare le loro case come sfollati interni o profughi nei paesi all’estero. La relazione delle Nazioni Unite si basa su oltre 2.650 interviste e indagini in più di 100 strutture di detenzione e prigionia in varie parti della Siria. Lo studio documenta violazioni da parte di quasi tutte le parti in guerra: forze governative e ribelli. “La detenzione arbitraria da parte delle forze governative di oppositori politici, giornalisti, attivisti per i diritti umani e manifestanti è stata un fattore scatenante del conflitto”, ha detto il presidente della commissione, Paulo Pinheiro. “Gruppi armati e organizzazioni indicate dall’Onu come terroriste, come Hayat Tahrir ash-Sham (Hts) e il sedicente stato islamico (Is), hanno in seguito cominciato a privare le persone della loro libertà, commettendo atroci violazioni contro di loro”. La commissione d’inchiesta non è finora riuscita a indicare il numero esatto di prigionieri civili uccisi durante la loro detenzione nelle carceri siriane. Ma stime “prudenti” citate nella relazione parlano di “decine di migliaia di persone uccise durante la prigionia”. Moltissime vittime sono state sepolte in fosse comuni, tra cui alcune alla periferia di Damasco. La cronaca quotidiana, intanto, conferma la drammaticità della situazione. Ieri un operatore di Medici senza frontiere (Msf) è stato ucciso e altri tre sono rimasti feriti nel campo profughi di al-Hol, nel nordest della Siria. “I due separati e tragici incidenti sono una dimostrazione delle condizioni di vita non sicure nel campo” si legge in una nota di Msf, che esprime “profonda preoccupazione per l’insicurezza che devono affrontare i residenti del campo, due terzi dei quali sono bambini”. Palestina. Parte l’indagine della Cpi sui crimini di guerra di Michele Giorgio Il Manifesto, 4 marzo 2021 Netanyahu: “giudici dell’Aia antisemiti”. Il Procuratore Fatou Bensouda ha spiegato che saranno analizzati crimini che si suppone siano stati commessi dal 13 giugno del 2014, in particolare a Gaza. Sotto inchiesta ci sarà anche Hamas per i lanci di razzi sui civili israeliani. È incontenibile la rabbia di Israele per la decisione del Procuratore Fatou Bensouda, della Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aia, di aprire un’inchiesta formale per crimini di guerra nei Territori palestinesi occupati dalle truppe israeliane quasi 54 anni fa. Il premier Netanyahu è arrivato al punto da accusare la Cpi di aver “adottato una decisione che è l’essenza dell’antisemitismo”. Dure anche le dichiarazioni rilasciate dal capo dello stato Rivlin e dal ministro degli esteri Gabi Ashkenazi, un ex generale e capo di stato maggiore. Ashkenazi ha parlato di “un atto di bancarotta morale e legale”, quindi ha avvertito che Israele “intraprenderà ogni passo necessario per proteggere i suoi cittadini e soldati” e chiederà il sostegno di altri Stati per fermare il procedimento avviato da Bensouda. La Cpi era già stata sanzionata da Donald Trump. E pressioni su di essa sono in corso da quando i giudici dell’Aia, il mese scorso, su richiesta del Procuratore avevano confermato la competenza giuridica della Cpi - alla quale Israele non ha mai aderito e di cui invece dal 2015 fa parte la Palestina - nei Territori occupati di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme. Ma non sono servite a congelare almeno di un anno l’avvio ufficiale dell’indagine. A fine 2021 avrà termine il mandato di Bensouda durato nove anni e Israele, secondo alcuni giornali, ritiene che il suo sostituto, l’avvocato britannico Karim Khan, avrà una linea meno rigorosa rispetto a quella del procuratore in carica. Il rispetto dei tempi previsti da parte di Bensouda complica il quadro per Israele. Con l’inchiesta già avviata, per Khan sarà più difficile frenarla, ammesso che il futuro Procuratore intenda davvero farlo. Fatou Bensouda ha spiegato che saranno analizzati crimini che si suppone siano stati commessi dal 13 giugno del 2014. “Le sfide operative che dovremo affrontare - ha sottolineato - a causa della pandemia, delle risorse limitate di cui disponiamo e del nostro pesante carico di lavoro attuale non possono impedirci di adempiere alle responsabilità che lo Statuto di Roma attribuisce all’Ufficio”. Ci sono “basi ragionevoli”, ha proseguito, per ritenere che siano stati commessi crimini di guerra dalle forze armate israeliane ma anche dal movimento islamico Hamas e da varie fazioni armate palestinesi durante l’offensiva Margine Protettivo, la guerra del 2014 a Gaza. In quelle settimane furono uccisi dai bombardamenti circa 2300 palestinesi (in buona parte civili, tra 551 bambini), feriti altri 11mila e distrutte o danneggiate decine di migliaia di abitazioni. Israele ricorda le decine di morti causate dai razzi lanciati da Hamas sulle sue città e nega di aver preso di mira intenzionalmente i civili palestinesi. Bensouda dovrebbe concentrarsi anche sulle colonie costruite da Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme Est dal 1967 in poi e sulla politica di insediamento di popolazione civile israeliana nei territori palestinesi in violazione della Convenzione di Ginevra. I palestinesi applaudono alla mossa della Cpi. “È un passo lungamente atteso - ha commentato il ministero degli esteri dell’Anp a Ramallah - funzionale alla incessante ricerca palestinese di giustizia e responsabilità, pilastri indispensabili della pace che il popolo palestinese cerca e che merita”. Si dice soddisfatto anche il movimento Hamas che pure sarà indagato per crimini contro i civili israeliani. “È un passo avanti sulla via del raggiungimento della giustizia”, ha commentato un suo portavoce a Gaza. “La nostra resistenza - ha affermato - è legittima e si tratta di difendere il nostro popolo. Tutte le leggi internazionali approvano la resistenza legittima”. Myanmar. I generali scelgono la tattica stragista: almeno 38 morti di Emanuele Giordana Il Manifesto, 4 marzo 2021 La giornata peggiore dall’inizio della protesta per la democrazia. Scioperano anche i giornalisti. E all’Onu il nuovo ambasciatore rifiuta l’incarico. Ma stavolta non è più un affare interno: l’Asean inizia a muoversi. La terza giornata di protesta dopo la domenica di sangue del 28 febbraio si trasforma, nel pomeriggio di ieri, in un mercoledì di sangue che supera per numeri quella maledetta bloody sunday. Così che quei numeri che rimbalzano per tutta la giornata - otto, nove, ventidue - salgono, dicono le nostre fonti, ad almeno 24 vittime accertate. In serata diventano - scrive il quotidiano birmano Irrawaddy - 28, per la Bbc 38. Ma, ci dicono ancora, potrebbe essere un bilancio molto per difetto. Non potendo confermare il numero dei morti la macabra aritmetica si ferma ma fa intanto lievitare a oltre 60 le vittime a un mese dal colpo di stato del primo febbraio. Una tattica stragista. L’epicentro delle violenze di ieri si accende nel Nord Okkalapa (Myauk Okkalapa) - quartiere orientale di Yangon - che vede scontri per tutta la giornata fino che attorno alle 5 e mezzo del pomeriggio parte il fuoco con armi automatiche, finora sembra mai usate. È una mattanza: Voice of Myanmar conta 13 vittime e almeno una cinquantina di feriti. Incidenti sono segnalati un po’ ovunque nell’ex capitale: nella downtown, al Railway Bridge, a Kyoegone (Insein) a ancora a Tamwe, residenza del presidente in carcere Win Myant. Ma tutto il Paese brucia: Monywa, Mandalay, Myingyan, Magway, Myawaddy (c’è chi fa notare questa ricorrenza della M riconducibile a qualche disegno esoterico, un’ossessione di Tatmadaw, l’esercito birmano). La protesta però continua: ieri, beffa delle beffe, a incrociare le braccia sono oltre cento lavoratori dei giornali - tra cui il Global New Light of Myanmar in inglese - e dell’agenzia stampa di Stato Myanmar News Agency. Succede mentre il vice ambasciatore del Myanmar all’Onu, U Tin Maung Naing, si è dimesso dopo che il regime militare gli aveva imposto di sostituire il suo numero 1, U Kyaw Moe Tun, dimissionato dalla giunta per un discorso contro il golpe al Palazzo di Vetro mentre alzava le tre dita, simbolo della protesta. I generali birmani non sembrano comunque aver ascoltato i moniti, seppur blandi, appena arrivati dall’Asean, l’associazione regionale di 10 Stati del Sudest di cui il Myanmar fa parte. Il comunicato congiunto del 2 marzo, nel politichese più diplomatico possibile, non diceva praticamente nulla ma singole dichiarazioni di diversi ministri dopo la riunione virtuale di ieri confermavano invece che l’Asean, se non proprio con una sola voce, chiede ai militari non solo di limitare l’uso della forza ma di liberare i leader politici imprigionati e ripristinare lo status quo. Equilibrismo politico: un comunicato sbiadito ma singole prese di posizione dure; singole ma avallate dal summit tra capi della diplomazia come escamotage per chiarire che questa volta il golpe non è solo un “affare interno”. Niente sanzioni e niente espulsione, forse una missione di mediazione ma comunque il sostegno all’inviato Onu. Il più esplicito, a sorpresa, è Vivian Balakrishnan, a capo della diplomazia - solitamente cauta - di Singapore: fermare subito la violenza e ricerca immediata di un compromesso negoziato…per “una soluzione politica pacifica a lungo termine che includa un ritorno al percorso democratico”: il sollecito forte è al “rilascio immediato del presidente Win Myint, di Aung San Suu Kyi e degli altri detenuti politici”, con la specifica chiarissima che la Città Stato “sostiene fermamente la visita dell’inviato speciale Onu in Myanmar” che Naypyidaw deve facilitare “il prima possibile”. Sorpresa anche per le Filippine che, dopo aver inizialmente bollato il dossier birmano come affare interno, alla vigilia del summit cambiano rotta: il ministro Teodoro Locsin ha detto che la politica di non ingerenza negli affari interni dei membri “non è un’approvazione globale o un tacito consenso per compiere torti” e che Manila chiede il rilascio immediato di Aung San Suu Kyi e un “completo ritorno” allo “stato di cose preesistente”. Si associa Giacarta anche se con parole più prudenti. Se il comunicato all’acqua di rose salva chi non si vuole esporre (Laos, Vietnam e Cambogia, regimi a partito unico) e i più prudenti - Malaysia e soprattutto Thailandia - il messaggio ai generali ora è chiaro. Ma per ora le verdi uniformi birmane sembrano non volerlo ascoltare. Afghanistan. Uccise tre giornaliste: gli estremisti non vogliono reporter donne di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 4 marzo 2021 Due attentati separati, quasi alla stessa ora, sono costati la vita alle tre ventenni, mentre una quarta è rimasta ferita: la polizia ha arrestato il presunto omicida, ma i talebani negano ogni addebito. Sono oltre 30 i giornalisti uccisi dal 2018. Si chiamano Mursal Hakimi, di 25 anni, Sadia, 20, e Shanaz, 20: tutte e tre assassinate perché giornaliste donne. Non è affatto la prima volta in Afghanistan. Da sempre i talebani, Isis, e comunque le forze legate all’universo jihadista, prendono di mira la stampa, con particolare accanimento contro le donne. Ma nell’ultimo anno la campagna di intimidazione violenta si è fatta ancora più pressante e crudele. Questa volta l’assassinio in serie è stato pianificato con particolare attenzione. I sicari intendevano lanciare un messaggio preciso e diretto: non vogliamo giornalisti, soprattutto non vogliamo giornaliste donne. Le foto delle tre vittime le mostrano riverse sul selciato, completamente coperte dal burka, rivoli di sangue arrossano il velo e l’asfalto. Neppure da morte si possono vedere i loro volti. Sono state uccise in due attentati separati quasi alla stessa ora. Sono state colpite da proiettili di pistole munite di silenziatore. È avvenuto a Jalalabad, a est di Kabul, nel cuore delle regioni pashtun, dove si transita per raggiungere il passo Kiber e le regioni tribali pachistane. Qui una volta dominavano le roccaforti di Al Qaeda. Le tre donne lavoravano per la radio e televisione locale Enikass e avevano il compito di tradurre i programmi stranieri. Dunque, agli occhi dei loro nemici avevano una colpa particolare: si facevano portavoce dell’invasione occidentale. Una quarta donna è rimasta ferita e al momento si trova ricoverata nell’ospedale locale. I media afghani ricordano che soltanto tre mesi fa era stata uccisa con le stesse modalità la giornalista 26enne Malalai Maiwand. Isis aveva rivendicato la responsabilità allora. Cosa che non ha fatto adesso. Il capo della polizia della provincia di Nangarhar, il generale Juma Gul Hemat, sostiene per contro che è stato catturato uno degli assassini, che sarebbe un talebano. Ma i portavoce talebani negano ogni addebito. La tensione in ogni caso cresce. L’ex presidente americano Donald Trump aveva raggiunto l’accordo di pace con i talebani nel febbraio 2020, per cui si impegnava a ritirare il contingente Usa entro il primo maggio di quest’anno. I talebani si sentivano vincenti, avevano quindi intensificato le loro operazioni in tutto il Paese. Di recente la nuova amministrazione Biden sta invece valutando di rivedere quegli accordi e comunque di ritardare il ritiro delle truppe. Da qui la ripresa della guerriglia e degli omicidi mirati. Ma la guerra ai media è di lunga data nel Paese. Secondo un recente rapporto Onu, sono più di una trentina i reporter uccisi dal 2018, di cui almeno una decina negli ultimi sette mesi. Isis ha inoltre rivendicato la paternità del raid contro il campus nell’università di Kabul che in novembre ha causato la morte di una ventina tra professori e studenti.