Cartabia incontra i vertici del Dap: “Partite le vaccinazioni di detenuti e personale” di Liana Milella La Repubblica, 3 marzo 2021 La ministra della Giustizia a confronto con i capi dell’amministrazione penitenziaria. Le sue prime parole sono per i tre agenti morti a Carinola. Il Garante del Lazio e Umbria Anastasia: “Adesso si muovano le Regioni”. “Come scriveva Calamandrei bisogna aver visto le carceri. E anche io, quando le ho viste, non ho dimenticato i volti, le condizioni, le storie delle persone che ho conosciuto durante le visite fatte con la Corte costituzionale”. La Guardasigilli Marta Cartabia incontra per la prima volta nella sala Minervini i vertici del Dap, il direttore Dino Petralia, il vice Roberto Tartaglia e l’intera struttura del Dipartimento della polizia penitenziaria, nella grande sede di Largo Luigi Daga. E le prime parole e il primo minuto di silenzio sono subito per gli agenti morti a Carinola, ben tre nel giro di pochi giorni, Giuseppe Matano, Angelo De Pari, Antonio Maiello. Inevitabile anche il ricordo - esattamente un anno fa - delle rivolte nelle prigioni. Ma anche la constatazione che oggi la situazione è più tranquilla anche per l’aumento delle videochiamate con i familiari. Ma ovviamente il Covid, oggi come allora, è sempre lì in agguato. E da qui, subito, arriva la prima notizia. Negli istituti penitenziari sono partite le vaccinazioni sia del personale, sia dei detenuti. Per i primi da un paio di settimane, per i secondi da qualche giorno. E nell’elenco figurano le carceri siciliane (a Catania), dell’Abbruzzo (a L’Aquila), del Friuli. A questo tema la ministra della Giustizia Cartabia dedica le prime attenzioni. Perché “proteggersi dal virus è indispensabile ed è essenziale e urgente che le vaccinazioni nelle carceri proseguano velocemente”. “Il governo - dice Cartabia - ha fatto tutto quello che aveva in suo potere inserendo tra le priorità del programma vaccinale le carceri insieme agli altri luoghi di comunità”. La ministra ha preso il formale impegno di “seguire con attenzione l’andamento delle vaccinazioni sul territorio nazionale” rendendo pubbliche tutte le notizie e le informazioni che saranno pubblicate sul sito del ministero della Giustizia, proprio come ogni settimana vengono resi noti i dati del contagio. Nel suo breve discorso la Guardasigilli, che già a Milano incontrava abitualmente i detenuti di san Vittore per parlare di Costituzione, definisce il carcere “un luogo di comunità, nel quale di conseguenza la situazione complessiva e il benessere di ciascuno alimenta quello di tutti”. Da qui scaturisce la considerazione che per affrontare la pandemia non si può prescindere dal fatto che il carcere è un insieme di persone, una comunità appunto, nella quale contano ovviamente le condizioni di ogni singola persona, ma la storia di un detenuto diventa poi quella di tutti. Cartabia è realista. Ammette che “i problemi e le difficoltà sono moltissime” e dice espressamente “non vi prometto che le risolverò tutte”. Ma, aggiunge, “ogni vostra esigenza non sfuggirà all’attenzione del direttore e alla mia”. Nei prossimi giorni Cartabia incontrerà anche i sindacati. Anastasia, Garante detenuti, “adesso si muovano le Regioni” - Reagisce con soddisfazione il Garante dei detenuti del Lazio e dell’Umbria Stefano Anastasia: “Non avevamo dubbi che la ministra Cartabia avrebbe dato un impulso decisivo alla vaccinazione delle comunità penitenziarie. Ma, a questo punto, aspettiamo un corale e sollecito riscontro da tutte le Regioni, in modo che in poche settimane possano essere vaccinati tutti i detenuti, gli operatori e i volontari impegnati nelle carceri italiane”. Il paradosso delle carceri, meno contagi dove l’assembramento è forzato di Alberto Custodero La Repubblica, 3 marzo 2021 Cala il contagio nel luogo simbolo dell’assembramento coatto, le prigioni. È lo strano paradosso della città di Milano sulla quale torna ad aleggiare, dopo il lockdown della primavera 2020, lo spettro della “retrocessione” in zona rossa con i 303 nuovi positivi al Coronavirus registrati nelle ultime 24 ore in città. Le tre carceri dell’area milanese (San Vittore, Opera e Bollate) potrebbero essere - per numero complessivo della popolazione che ci vive, detenuti e polizia penitenziaria - una cittadina di cinquemila persone. Una cittadina ad alto rischio di contagio, con i detenuti stipati nelle celle, spesso sovraffollate e in condizioni igieniche critiche, e gli agenti pure loro costretti all’interno dell’istituzione carceraria. A segnalare questa anomalia al contrario della pandemia è Rino Raguso, vicesegretario dell’Osapp. “Rispetto a qualche settimana fa - dichiara - si registra una situazione virtuosa di contenimento di contagi”. Il merito di “questi dati in controtendenza rispetto alla diffusione del virus in Lombardia e a Milano - spiega - è la diffusa campagna di vaccinazione che ha riguardato quasi la metà degli agenti del Corpo. E il rigoroso rispetto delle norme sanitarie all’interno delle tre prigioni”. La campagna di vaccinazione all’interno delle carceri subirà ora una accelerazione per volontà della ministra della Giustizia che oggi ha incontrato per la prima volta il Dap, il dipartimento che amministra le carceri. “Oggi - sottolinea Marta Cartabia - è urgente che la somministrazione proceda velocemente”. Un dato, quello del calo del contagio in prigione, che ha sorpreso gli stessi virologi, tra questi Fabrizio Pregliasco, ricercatore universitario e direttore sanitario dell’Irccs Galeazzi. “Complimenti alla struttura penitenziaria per l’attenzione al rispetto delle regole anti-pandemia - dichiara il virologo - questi dati ci suggeriscono di considerare quello carcerario un modello di gestione da esportare all’esterno: se funziona dove l’assembramento è forzato e la libertà privata, a maggior ragione dovrebbe funzionare laddove è possibile applicare le misure del distanziamento sociale”. Ecco la pandemia nelle prigioni milanesi in cifre: a San Vittore quattro agenti in isolamento fiduciario, 8 detenuti (più 10 nuovi giunti) a fronte di 800 ospiti e altrettanti addetti della polizia penitenziaria. A Opera sei agenti, 10 ospiti a fronte di 900 agenti e 1.200 detenuti. A Bollate 9 agenti e 37 ospiti a fronte di 600 addetti di polizia e 700 detenuti. In Italia il dato complessivo dei positivi al Covid è di 401 detenuti e di 603 agenti. Si tratta di una tendenza decisamente in discesa rispetto ai dati di metà gennaio quando era scattato l’allarme nelle strutture carcerarie milanesi: allora a Bollate i detenuti positivi erano 109, a San Vittore 59 mentre in tutto il Paese gli ospiti contagiati erano 718. In carcere un anno dopo di Antonio Maria Mira Avvenire, 3 marzo 2021 Tre giorni terribili quasi un anno fa. Tra il 7 e il 9 marzo scoppiò la rivolta in oltre venti carceri italiane. Tre giorni drammatici, che provocarono quindici morti, in gran parte per overdose da farmaci prelevati dai detenuti nelle infermerie. Erano le prime settimane della pandemia, e il Covid-19 fu proprio la motivazione di quelle gravi proteste. La scintilla era stata il blocco delle visite dei familiari dei detenuti, come misura precauzionale contro il contagio. Una regia comune? Forse. Ma la protesta si inseriva in una situazione carceraria tornata pesante, con molti penitenziari sovraffollati. Quest’anno non è stato facile. Il lavoro in carcere è diminuito, mentre sono aumentate le polemiche per alcune scarcerazioni di boss mafiosi per motivi di salute. Una situazione che aveva portato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede a sostituire i vertici del Dap, chiamando due magistrati esperti come Dino Petralia e Roberto Tartaglia. Ma il Covid non ha certo risparmiato chi vive e chi lavora dentro e attorno alle celle. Tre di loro, tre agenti penitenziari del carcere di Carinola morti nel giro di pochi giorni, li ha voluti ricordare la nuova Guardasigilli, Marta Cartabia. E lo ha fatto annunciando che stanno procedendo le vaccinazioni negli istituti, partite già da un paio di settimane, un riconoscimento dell’impegno del suo predecessore. Ma le parole scelte ieri dalla ministra, nell’incontro proprio coi responsabili del Dap, confermano la sua attenzione e sensibilità per i problemi, le fatiche e i drammi del sistema carcerario. “Come scriveva Calamandrei, bisogna aver visto le carceri. E anche io, quando le ho viste, non ho dimenticato i volti, le condizioni, le storie delle persone che ho conosciuto durante le visite fatte con la Corte costituzionale”. Allora, spiegò che da quegli incontri aveva imparato che “ogni storia e ogni uomo ha alle spalle qualcosa di unico, per questo la pena non deve dimenticare l’unicità di ciascuno”. Perché, come ama ripetere, “la giustizia non è vendetta, ma riconciliazione”. Non a caso, a sorpresa, la prima uscita pubblica da Guardasigilli di Marta Cartabia era stata, lo scorso 19 febbraio, l’incontro col Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Mauro Palma. “Una prima occasione - aveva affermato - per riaffermare la comune volontà di collaborazione e di un avvio del suo positivo sviluppo”. Ieri l’incontro col Dap, assicurando che seguirà “con attenzione l’andamento delle vaccinazioni sul territorio nazionale”, impegnandosi a far pubblicare tutte le notizie e le informazioni relative sul sito del Ministero. Poi, ammettendo che “i problemi e le difficoltà sono moltissime” e che “non vi prometto che li risolverò tutti” ha aggiunto che “ogni vostra esigenza non sfuggirà all’attenzione” sua e del direttore del Dap. Anche il ricordo dei tre agenti è da questo punto di vista significativo. La ministra sa bene che il virus del Covid nelle carceri non fa altro che aggravare altri vecchi virus. Il classico “piove sul bagnato”. Gli attuali detenuti sono circa 53mila, lontani dai numeri record, più di 60mila, di pochi anni fa, ma sempre più dei 50mila della capienza degli istituti. Oltretutto molte carceri sono vecchie e malmesse, proprio quelle dove le rivolte di un anno fa sono state più dure. La Guardasigilli sa anche molto bene, dalla sua esperienza alla Corte, che nel carcere c’è da ricercare un difficile equilibrio tra pena, rieducazione e recupero. Tanto più difficile in un Paese dove le mafie sono ancora forti, anche in carcere malgrado il 41bis, come dimostrano alcune recenti inchieste. Per di più il nostro Paese, ha alcune forze politiche tentate da rigidità da “chiudilo dentro e butta la chiave” e da altre scorciatoie giustizialiste (la riforma della prescrizione ne è un esempio). Su questo Cartabia ha già mandato chiari segnali di saggezza, quella di chi la materia penale la conosce bene e anche gli uomini che ci sono incappati. Persone, dunque. Anche il messaggio di ieri ne è un chiaro esempio. Non solo parole, come aveva annunciato e promesso il presidente del Consiglio, Mario Draghi, nel suo intervento alla Camera. Magari riprendendo la riforma carceraria bloccata nella scorsa legislatura tra troppe timidezza e pulsioni “manettare”. Questo ci vuole per combattere davvero il virus di una giustizia ingiusta. Stragi in carcere e silenzi di Stato di Sergio Segio e Susanna Ronconi Il Manifesto, 3 marzo 2021 Dell’eccidio di persone detenute avvenuto nelle carceri un anno fa sono due le cose che maggiormente colpiscono: il numero senza precedenti delle vittime, 13, e la spessa coltre di silenzio immediatamente calata al riguardo; anch’essa inaudita, quanto meno nell’essere pressoché generalizzata. Eppure, proprio il drammatico numero dei morti e le voci di pestaggi di massa subito circolate avrebbero dovuto mobilitare l’attenzione almeno di una parte dei media, oltre che delle associazioni che sul carcere normalmente sono impegnate. In passato è spesso avvenuto, ma non questa volta. Solo tardivamente, molti mesi dopo i fatti, il mainstream sembra essersi timidamente risvegliato, prima con il quotidiano “Domani”, poi con un’inchiesta de “la Repubblica” e una di “Report” sulla RAI. Occorre chiedersi il perché di quel muro compatto, iniziato dalle non-risposte fornite al Parlamento dall’ex ministro Bonafede. Plausibile chiamare in causa la lettura fornita da ambienti e procure antimafia delle rivolte che hanno preceduto la strage: acriticamente amplificata dai media, indicava una regia e pianificazione da parte della criminalità organizzata. Ipotesi non suffragata da alcun elemento, né al momento né in seguito, eppure capace di allineare la politica, catalizzare l’informazione e intimidire le voci critiche o dubbiose. Segno dei tempi, o, meglio, risultato di decenni di logica e di leggi di emergenza che hanno sedimentato una cultura giuridica e una prassi giudiziaria improntate al “diritto del nemico” e che hanno cristallizzato poteri esuberanti l’alveo costituzionale, godendo di consenso bipartisan ed essendo insuscettibili di contestazione, riserva o anche solo contenimento. Fatto sta che assieme - o forse in conseguenza - a quelle culture e pratiche si è insediato un sentimento pubblico che vede la persona detenuta come priva e privabile di ogni considerazione e cittadinanza. Scarti sociali, la cui incolumità, salute e la stessa vita non sono da considerarsi beni da tutelare, diritti da riconoscere. Voluti e trattati come non-uomini e non-donne, da consegnare per un tempo più lungo possibile alla invisibilità e alla rimozione. Alla vendetta e alla punizione corporale, perché infine di questo si tratta. A chi osa protestare, tocca spesso la rappresaglia fisica, oltre alla sanzione disciplinare e a quella penale. Così per quelle rivolte sono in corso procedimenti e processi contro decine e decine di reclusi, accusati di violenza o resistenza, ma le inchieste sulle 13 morti del marzo 2020 non hanno prodotto alcuna attribuzione di responsabilità, né penale, né politica, né amministrativa. Il muro si è incrinato solo laddove i pestaggi per ritorsione siano avvenuti a distanza di tempo e comprovati da riprese video, come nel carcere di Santa Maria Capua Vetere; la locale procura ha infine messo sotto accusa ben 144 agenti penitenziari nell’inchiesta chiamata significativamente “La mattanza della Settimana Santa”. Ovviamente, giudizi definitivi vanno rinviati all’esito delle sentenze, ma è facile sin d’ora presumere che - al di là di esse - si tratta di un’eccezione, che rischia di vedere confermata la regola dell’impunità. Tanto più intollerabile mentre ci si prepara al ventesimo anniversario della scuola Diaz e di Bolzaneto, dove i massacri e le torture potettero contare sull’esplicita copertura di vertici politici e istituzionali. Per ragionare di tutto ciò, per ricordare, denunciare e proporre, il “Comitato nazionale per la verità e la giustizia sulle morti in carcere” nato all’indomani della strage (cfr. https://www.dirittiglobali.it/coronavirus-morti-carceri-appello), assieme ad altre associazioni, ha promosso un webinar il 9 marzo 2021, dalle 17.30, che potrà essere seguito in diretta sui social. Anche gli agenti penitenziari sono vittime del caos sanitario nel sistema di Luigi Mastrodonato Il Domani, 3 marzo 2021 Continua la pandemia nelle carceri italiane e a subirne le gravi conseguenze non sono solo i detenuti, ma anche gli agenti di polizia penitenziaria. Nelle scorse ore ha perso la vita Angelo De Pari, assistente capo nell’istituto penitenziario campano di Carinola, a causa delle complicanze legate al Covid-19. È solo l’ultimo di una triste lista che sta caratterizzando il carcere casertano nelle ultime settimane: a inizio febbraio era morto l’agente Antonio Maiello, nei giorni scorsi invece è stata la volta dell’ispettore Giuseppe Matano. La situazione nell’istituto è critica a causa di un focolaio esploso nell’ultimo mese. Sono una trentina gli agenti che hanno contratto il virus, mentre anche tra i detenuti il numero dei positivi ha raggiunto la doppia cifra. A causa di questa situazione sono saltati anche i turni di guardia e ci sono reparti completamente scoperti. “Quello che sta succedendo nell’istituto penitenziario di Carinola ha un significato anomalo, non si tratta dei primi decessi tra agenti in Italia a causa del Covid-19 ma tre casi nella stessa struttura in così breve tempo dimostra che c’è qualcosa che non ha funzionato”, spiega Giuseppe Moretti, presidente dell’Unione sindacati di polizia penitenziaria (Uspp). In particolare, sembra che ci siano stati ritardi nell’individuazione dei contagi, un elemento che ha velocizzato la trasmissione del virus e ha portato al decesso dei tre agenti. Oggi la situazione è più sotto controllo, ma permangono diverse criticità. “A preoccuparsi è il fatto che stanno mandando in missione presso Carinola agenti a rotazione da altre strutture penitenziarie”, continua Moretti, “un elemento che potrebbe favorire la circolazione del virus tra i vari istituti”. Sono ore difficili per la polizia penitenziaria italiana, che nei mesi scorsi ha dovuto già fare i conti con un boom di contagi e con la morte di alcuni suoi dipendenti. Dall’inizio della pandemia sono 10 gli agenti che hanno perso la vita dopo aver contratto il virus in carcere, mentre sono stati migliaia i contagiati. Secondo l’ultimo bollettino del 22 febbraio, gli agenti attualmente positivi erano 537, di cui otto ricoverati in ospedale. Numeri molto alti, che si sommano a quelli altrettanto critici relativi ai detenuti: a fine febbraio i positivi erano 431, mentre dall’inizio della pandemia i decessi sono stati otto, a cui si aggiungono le 13 morti avvenute in occasione delle rivolte nel carcere di Modena e su cui ancora si deve fare chiarezza. Quanto sta succedendo a Carinola è insomma lo specchio del caos che ancora regna nel sistema penitenziario italiano di fronte alla pandemia. Al momento i vaccini nelle carceri italiane non sono ancora arrivati. Qualcosa sembrava essersi mosso a gennaio, quando l’ormai ex Commissario Domenico Arcuri aveva dichiarato che dopo gli over 80 sarebbe toccato a detenuti e personale delle carceri. Starà ora al neo-Commissario Francesco Paolo Figliuolo tradurre nei fatti quelle parole, ma un ruolo decisivo sta anche alle regioni e in questo senso tutto va a rilento, a parte nel Lazio. “Qualcosa si sta muovendo, se si pensa che fino a poco tempo fa le carceri erano all’ultimo posto nella scala delle priorità del piano vaccinale”, spiega Claudio Paterniti, ricercatore di Antigone, che parla però di una situazione ancora emergenziale e che non può essere gestita unicamente attendendo le somministrazioni. “Oggi la popolazione detenuta dovrebbe essere ridotta al di sotto del numero di posti disponibili di 47mila, in questo modo ci sarebbero più spazi a disposizione per gestire le situazioni di emergenza”. A beneficiarne sarebbero tutti, tanto i detenuti quanto gli agenti di polizia penitenziaria, che si troverebbero in ambienti più adeguati alla tutela della propria salute. Rispedito al 41bis con una grave demenza: ha senso il carcere duro? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 marzo 2021 È uno dei tre “boss” ai quali furono concessi i domiciliari, dopo il decreto “antiscarcerazioni” fu di nuovo ristretto al 41bis. Non solo ha gravi patologie legate al recente trapianto di reni, ma al 41bis vive lasciato a sé stesso ed è disorientato nel tempo e nello spazio a causa della sua demenza. Parliamo di Vincenzino Iannazzo, uno dei tre uomini al 41bis mandati in detenzione domiciliare per i loro gravi motivi di salute e con l’aggravante del Covid 19 che incombeva e incombe tuttora. Su quelle misure si scatenò una feroce indignazione, cavalcata dai media, tanto che l’allora ministro della Giustizia Bonafede per accontentare gli umori varò un decreto che, di fatto, li fece rientrare subito dopo in carcere. Una ferocia che si scontra contro il buon senso e logica. I fatti sconfessano l’accanimento. Pasquale Zagaria, affetto da tempo da una grave neoplasia, è tornato libero per fine pena. Francesco Bonura, gravemente malato, a breve finirà la pena poiché gli mancano pochi mesi. Il terzo però è tuttora recluso al 41bis nonostante ci sia una perizia delle Consulenze tecniche d’ufficio (Ctu) quando era precedentemente detenuto al carcere di Viterbo, che esplicita l’incompatibilità con il regime duro. Per il Ctu la memoria recente sembra deficitaria - Come ha segnalato l’associazione Yairaiha onlus, che si sta occupando del caso Vincenzino Iannazzo, “la stessa Corte d’Appello di Catanzaro, a seguito di perizia del Ctu, dichiarò che l’uomo è compatibile al regime carcerario esclusivamente in una struttura di medicina protetta come il Belcolle di Viterbo e non già con il regime detentivo ordinario”. Quindi figuriamoci il 41bis. Lo stesso perito del giudice che l’ha visitato - il quale però ha recentemente rigettato l’istanza per il differimento pena -, segnala che l’uomo è “scarsamente curato nella persona e nell’abbigliamento”. Dice che l’attitudine generale è dimessa. La mimica è molto contenuta. La memoria recente sembra deficitaria. I contenuti mnesici non sono sistemati in schemi temporali esatti, correttamente seriati nella susseguenza temporale e storica degli eventi. Ha senso il regime duro, nato con uno scopo ben preciso, per questa persona? I problemi cognitivi lo rendono incapace di dare eventuali ordini all’esterno - La vicenda di Vincenzino Iannazzo rende di difficile comprensione il senso del 41bis. Oltre ad avere gravi patologie dovute dal trapianto di un rene, ha la demenza a corpi di Lewy. Una patologia molto simile all’Alzheimer e che comporta anche delle vere e proprie allucinazioni. Quindi non solo è incompatibile con il 41bis perché gravemente malato, ma anche per i problemi cognitivi che lo rendono incapace di dare eventuali ordini all’esterno: il 41bis nasce perché ha come unico scopo quello di evitare che un boss dia ordini al proprio clan di appartenenza. Se viene meno questo pericolo, il 41bis non può essere giustificato. Ma questa è solo teoria visto che nell’immaginario collettivo il regime duro non è considerato emergenziale e con uno scopo ben specifico, ma un mezzo che va utilizzato a prescindere. Magari fino alla morte. Iannazzo è andato ai domiciliari nel periodo di aprile/maggio scorso, causa emergenza Covid-19 in quanto trapiantato renale e il virus potrebbe essergli fatale. Già nel breve frangente in cui è rimasto a casa, i familiari si sono accorti che non era più in lui avendo dei comportamenti strani: non riconosceva sua moglie, parlava con la televisione, non riusciva a usare correttamente i sanitari. Attualmente Iannazzo è recluso nel carcere di Parma - A seguito del famoso decreto Bonafede, Iannazzo viene tradotto in carcere presso il reparto di medicina protetta Belcolle di Viterbo dove, a seguito di lungaggini infinite, viene acclarata (anche tramite un esame particolarissimo, un Pet-Tac eseguito in ottobre) una patologia neurodegenerativa a livello di sistema nervoso centrale. Parliamo appunto della demenza di Lewy. Viene fatto presente dal reparto di medicina protetta che il permanere in quella struttura “potrebbe contribuire a peggiorare le condizioni neurocognitive e psichiche del paziente” e che tutti gli esami strumentali, visite, e comportamenti del paziente sono compatibili con la patologia indicata in precedenza. Le istanze di differimento pena per gravi infermità vengono però puntualmente rigettate. Tutto dovuto dalle pressioni dell’opinione pubblica che ha indotto il governo a reagire, facendo indirettamente pressione alla magistratura competente. In soldoni, da allora in poi le decisioni non sono più serene. Attualmente Iannazzo si trova recluso nel carcere di Parma. Gli è stato assegnato unicamente un piantone con assistenza in cella per la pulizia della stessa: per contro - si legge nella relazione del medico che l’ha visitato recentemente per conto dei familiari - nelle attività della vita quotidiana il soggetto è “lasciato a se stesso”. Si legge che l’ovvia conseguenza di questo è “una scarsa igiene personale, scarsa attenzione nell’abbigliamento e nella cura del sé con disorientamento tempo spaziale”. Rigettate tutte le istanze per la detenzione domiciliare - L’associazione Yairaiha che, com’è detto segue il caso Iannazzo, nella sua ultima segnalazione al ministero della Giustizia e al Dap, denuncia che non si può “ignorare nemmeno la natura degenerativa della patologia in sé per cui ogni terapia che si andrà a predisporre potrà esclusivamente alleviare il progressivo e inesorabile peggioramento delle sue condizioni fisiche e psichiche”. Osserva che “a questo punto torna forse utile ricordare la preminenza del diritto alla salute sulla potestà punitiva dello Stato che prevede il differimento della pena laddove la persona versi in gravissime condizioni (art. 147 C.P.) o la sua tutela risulti particolarmente a rischio vista la pandemia in atto, come ricordato pochi giorni anche dal Procuratore Salvi”. L’ultima istanza viene rigettata dal magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia, ma rimette la decisione al tribunale di sorveglianza di Bologna. Ci sarà ancora un margine per far rispettare la legalità costituzionale? Oppure, ancora una volta, bisognerà arrendersi alla ferocia dettata da chi pensa che la mafia si combatta accanendosi con chi si ritrova in condizioni di miseria psicofisica? Via dalla riforma penale l’illusione dei tempi brevi prefissati da una legge di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 3 marzo 2021 Sono passate poco più di due settimane da quando il neo premier Mario Draghi annunciava i nomi dei nuovi ministri, dando forma al terzo governo di questa legislatura. L’ex governatore della Bce ha scelto la costituzionalista e già presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia per guidare il ministero della Giustizia. Ed è proprio la riforma della Giustizia - e in particolare la parte che prevede la modifica della disciplina sulla prescrizione, fortemente voluta dal precedente guardasigilli Alfonso Bonafede - il primo e vero banco di prova di questo governo. Sarà interessante vedere nei prossimi giorni come la guardasigilli deciderà di mettere mano alla norma, dovendo necessariamente scegliere una soluzione di bilanciamento non solo giuridica ma, anche, e soprattutto, politica. Stando al brillante curriculum della neo ministra, parrebbe che la sua forma mentis faccia ben sperare in modifiche di stampo garantista che intendano superare tanto la riforma Bonafede così come originariamente ideata, quanto il correttivo disposto dal lodo Conte- bis, sul quale, però, il M5S non pare disposto ad indietreggiare. La stessa tenuta del governo Draghi, dunque, si verificherà anche in base all’esito della votazione relativa alla riforma penale e al modo in cui Cartabia deciderà di intervenire. Al di là di mere questioni politiche, va detto che quella di Bonafede, assai criticata da molti fronti, non solo politici ma anche istituzionali, è una riforma che inserisce la modifica alla disciplina della prescrizione all’interno di un progetto, ad oggi disorganico, ma comunque ampio. Nell’idea dell’ex ministro, il venir meno del termine prescrizionale, susseguente alla sentenza di condanna in primo grado, dovrebbe essere accompagnato da tutta una serie di modifiche al codice di rito, le quali dovrebbero accorciare notevolmente i tempi della giustizia. La ratio sottesa alla riforma, se c’è, dovrebbe essere la riduzione della durata dei processi. Ma la realtà, allo stato, è che la norma sulla prescrizione, non accompagnata da alcun correttivo, crea tutte le condizioni per un “fine pena mai”. È la prospettiva a cui verrebbero inevitabilmente sottoposti coloro che vengono condannati in primo grado - con conseguente sospensione della prescrizione - in un sistema farraginoso, burocratizzato e lento come quello italiano, in attesa del giudizio di appello e della sentenza definitiva. Simile lentezza potrebbe venir meno grazie a tutta una serie di modifiche finalizzate ad alleggerire il carico degli uffici giudiziari come, a titolo d’esempio, un ampliamento delle maglie dell’articolo 444 c. p. p., allargando la casistica dei reati che rendono possibile accedere al rito alternativo. Potrebbe certamente rivelarsi efficace la riduzione, o la divisione dei tempi di svolgimento delle indagini preliminari in tre fasce (6 mesi, 1 anno, 1 e 6 mesi), in relazione alla gravità del reato e non oltre. Così come sarebbe utile attribuire una vera centralità all’udienza preliminare, oggi mera agenda dei Tribunali. Tuttavia, pur volendo digerire la norma che prevede la sospensione della prescrizione, premessa una sua limatura per congruità al dettato costituzionale, è necessario che i correttivi apportati dalla riforma siano realmente efficaci in ordine a un accorciamento dei tempi della Giustizia. Più volte si è fatto presente su queste stesse pagine che solamente interventi strutturali nel settore pubblico della giustizia, che contemplino il massiccio investimento di risorse economiche, possano risolvere carenze da tempo ignorate. Nuove assunzioni, nuovi uffici, ristrutturazione delle strutture già esistenti, più magistrati, più specializzazioni: sono questi interventi auspicabili, in luogo di continue riforme che tentano di non mettere mano al portafoglio, con la conseguenza che la moneta di scambio divengono i nostri stessi diritti. La prescrizione, è bene che si comprenda, non è un problema del nostro ordinamento, e non è la causa primigenia delle lentezze processuali. Contrariamente, è un principio di civiltà fondamentale e attualmente è l’unico pilastro che ancora regge il diritto costituzionalmente garantito a un equo processo, il quale, con il venir meno della prescrizione, verrebbe del tutto demolito, considerata la farraginosità del nostro sistema, lasciando gli imputati prigionieri del loro stesso processo. Dello stesso avviso anche il segretario dei radicali, Maurizio Turco, il quale intende portare la questione dinanzi alla Consulta, nonché il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza, che su queste stesse pagine, commentando la proposta avanzata dall’onorevole del PD Walter Verini di una “prescrizione per fasi”, definiva la riforma Bonafede come “incivile”, auspicando riforme di stampo garantista e rispettose della Costituzione. La riforma Bonafede, insomma, se venisse applicata in toto così come ideata, comporterebbe una notevole capitis deminutio delle garanzie processuali. Pensare di poter accorciare le lungaggini della giustizia tramite semplici accorciamenti dei termini procedimentali, si risolve solamente in un ulteriore affanno per le segreterie e cancellerie degli uffici giudiziari. A nulla può essere considerato poi utile il correttivo disposto dal lodo Conte- bis, il quale, come già evidenziato da più parti, non solo risulta incostituzionale perché prevede una disparità di trattamento tra soggetti condannati e assolti in primo grado, violando la presunzione di innocenza, ma anche perché, pur volendo ammetterne la costituzionalità, risulta di difficile applicazione dal punto di vista procedurale. Si aggiunga a ciò che, come si anticipava, la riforma Bonafede, nel sospendere/ eliminare la prescrizione, otterrebbe il paradossale effetto di rimuovere uno dei motivi più pressanti per le cancellerie e segreterie - uffici già in grave affanno per continui tagli alla spesa e per l’accorciamento dei termini procedimentali - di procedere celermente alla definizione del giudizio pena la scadenza dello stesso. Ad ogni modo, la ministra Cartabia per ora ha guadagnato del tempo, affermando di voler discutere della questione prescrizionale nell’ambito di una riforma più ampia e organica di quella voluta dal predecessore, anche grazie all’aiuto dei partiti. Questi hanno infatti deciso in segno di sostegno e fiducia al neonato governo - e così è stato - di astenersi dal voto di quegli emendamenti presenti nel milleproroghe che contemplavano un congelamento della norma Bonafede, nell’attesa che la guardasigilli esponga un proprio progetto di riforma. Resta dunque da attendere le proposte future, sperando che, se si ha realmente l’intenzione di mantenere l’istituto della prescrizione sospesa a tempo indeterminato, si intervenga come sopra auspicato, con modifiche rispettose dei principi costituzionali, non meramente votate al taglio di termini procedimentali. Perché SuperMario si tiene alla larga dalla giustizia penale di Maurizio Tortorella Panorama, 3 marzo 2021 Archiviata la disastrosa gestione di Alfonso Bonafede, ora tocca alla giurista Marta Cartabia affrontare una delle più gravi emergenze italiane. Ma è quasi una certezza che la sua azione troverà un freno nella parte - decisiva - della magistratura impermeabile a ogni riforma. Così le enunciazioni fatte dal premier al suo insediamento resteranno lettera morta. Volete sapere se davvero Marta Cartabia, presidente emerito della Corte costituzionale e ministro “tecnico” della Giustizia, porrà mano ai disastri della più screditata macchina giudiziaria europea? Sperate risolverà i problemi lasciati dal suo predecessore, il grillino Alfonso Bonafede? Per sapere se ci riuscirà, servirebbe un aggiornamento a oggi delle chat di Luca Palamara, il magistrato farisaicamente radiato dall’ordine giudiziario dopo decenni trascorsi a manovrarne nell’ombra i vertici rimbalzando tra il sindacato di categoria, l’Associazione nazionale magistrati, e il Consiglio superiore della magistratura. In quelle due sedi, per conto della sua corrente Unicost, Palamara trattava con le altre correnti per stabilire nomine e le promozioni in barba alle regole e alle qualità professionali dei candidati. Ecco. Per capire come andrà a finire la Giustizia sotto il regno di Cartabia, basterebbe gettare un’occhiata nel telefonino di chi oggi ha preso il posto di Palamara oppure nei cellulari dei suoi omologhi capi-corrente, che in questo stesso momento sono sicuramente impegnati a brigare per piazzare gli uomini “giusti” attorno al nuovo Guardasigilli. Perché capi e vicecapi di Gabinetto, consiglieri personali del ministro, direttori di dipartimento e capi dei vari uffici legislativi sono tutti magistrati, e vengono nominati da accordi sotterranei tra le correnti, cui rispondono con fedeltà assoluta. Il ministro a volte sceglie, ma il più delle volte crede di scegliere: quel che è certo è che la struttura che l’attornia è molto più forte di lui (o di lei) e segue regole incancrenite che limitano la sua libertà. Vi stupisce? Da decenni oltre 200 magistrati italiani su circa 9 mila non lavorano in tribunale, ma sono collocati a turno “fuori servizio”. A decidere dove debbano andare è il Csm che, in base alle stesse regole correntizie che regolano promozioni e nomine, li designa ai posti di vertice dei principali ministeri, a partire da quello della Giustizia. Questi 200 magistrati “fuori servizio”, in realtà, sono in prima linea: incarnano la fondamentale missione di proteggere la loro corporazione e di evitarle perdite di potere. Sono nei ministeri anche per impedire ogni cambiamento che la magistratura percepisca come “peggiorativo”. Ovviamente per sé. Non è disfattismo, questo: è realismo. Il cellulare di Palamara, intercettato, ha reso evidente soltanto una minima parte degli intrallazzi, delle vendette, delle faziosità della nostra magistratura sindacalizzata, la cui strapotenza fa paura. Non per nulla, gli ultimi due governi che non hanno subìto problemi giudiziari sono stati quelli di Enrico Letta e Paolo Gentiloni, perché non hanno tentato la minima riforma dell’ordinamento. È anche per questo se il programma sulla giustizia che Mario Draghi ha dettato al Parlamento è stato così prudente e laconico. Draghi ha detto, testuale, che vorrebbe “aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile, favorendo lo smaltimento dell’arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro, adottando norme procedurali più semplici, coprendo i posti vacanti del personale amministrativo”. Stop. Quanto al penale, ha detto che intende favorire “la repressione della corruzione” e “tempi ragionevoli per il processo”. Stop. Questo, secondo gli ottimisti, dovrebbe indicare che il suo governo vuole retrocedere dal blocco della prescrizione dopo una sentenza di primo grado, introdotto dallo scorso gennaio dal ministro Bonafede e osteggiato da garantisti e da chiunque abbia un minimo di buon senso perché, togliendo l’unico pungolo ad accelerare i tempi dei procedimenti, decreta non abbiano fine. Sulla giustizia civile, Draghi sa bene che le inefficienze dei nostri tribunali costano all’Italia tra uno e due punti percentuali di Prodotto interno lordo, soprattutto per i mancati investimenti dall’estero: chi si metterebbe mai a investire in un Paese dove una sentenza definitiva per inadempienza contrattuale arriva in media dopo sette anni? Per questo il ministro Cartabia dovrà spendere bene in questo settore alcuni dei miliardi del Recovery fund. Ma sulla giustizia penale il nuovo guardasigilli troverà il fuoco di sbarramento dei grillini e di buona parte del Pd. Sulla prescrizione, per esempio, la grande maggioranza che sostiene Draghi è già in paralisi da conflitto. Tanto che il ministro Cartabia ha appena annunciato che “il nodo della prescrizione va affrontato all’interno delle riforme del processo penale, in un disegno più organico che consenta il bilanciamento dei principi costituzionali”: questo significa che ogni tipo di riforma passerà attraverso una legge-delega del Parlamento al governo, che solo a quel punto potrà legiferare. Quindi servirà molto tempo. E quasi certamente non sarà questo governo a occuparsene. Non sarà facile, insomma, che i prossimi mesi portino con sé la riforma che dovrebbe “tagliare le unghie” alle correnti, tornate attive come prima di Palamara nel Csm e nelle procure della Repubblica, nei tribunali e nei ministeri. Il centrodestra, ma anche molti giuristi che di destra non sono, si sono convinti che per sottrarre il Csm alle correnti ci sia un’unica strada, quasi disperata: quella di sceglierne i 16 membri togati attraverso il sorteggio da un “paniere” di magistrati altamente qualificati. L’estrazione a sorte dovrebbe evitare accordi preventivi e camarille. Chissà che cosa stanno organizzando le correnti, per bloccare anche questo. Annibali (Iv): “Sulla prescrizione i grillini dovranno adeguarsi” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 marzo 2021 Intervista alla deputata di Italia Viva Lucia Annibali: “Distinguere tra assolti e condannati è anche discriminatorio”. Come noto il 29 marzo è il nuovo termine per gli emendamenti alla riforma del processo penale. La commissione Giustizia di Montecitorio ha dovuto allungare i tempi rispetto all’iniziale data dell’8 marzo per permettere alla nuova maggioranza e alla neo ministra della Giustizia Marta Cartabia di sedersi intorno ad un tavolo e far maturare proposte di modifica - si spera il più condivise possibile - al disegno di legge sul processo. Inevitabilmente c’è sempre il nodo sulla prescrizione. Per l’onorevole di Italia Viva Lucia Annibali, membro della Commissione giustizia, “se la Ministra propone delle soluzioni, dà delle indicazioni sarebbe auspicabile che tutta la maggioranza si muovesse intorno ad esse. Poi alla fine il tema diviene quello dei numeri: ora la maggioranza è più larga, qualcuno potrebbe dover adeguarsi”, riferendosi ai possibili malumori dei Cinque Stelle. Onorevole, il 29 marzo è il termine entro il quale andranno presentati gli emendamenti al ddl penale. Italia Viva come si comporterà? Ne presenterà qualcuno? In questi mesi abbiamo svolto diverse audizioni, durante le quali sono emerse tutte le criticità e i limiti delle soluzioni indicate. Quindi sicuramente prepareremo degli emendamenti su cui abbiamo già iniziato a ragionare. Ora però aspettiamo che la Ministra Cartabia venga in Commissione. La data ancora non c’è ma sarà prima della scadenza degli emendamenti: in quel momento cercheremo di capire anche le sue intenzioni rispetto a questa legge delega. Quale sarebbe la direzione da intraprendere? Gli interventi di riforma su cui dobbiamo lavorare devono essere efficaci ed applicabili: il lodo Conte bis è già di per sé molto complicato. Per esempio, a mio parere, distinguere tra assolti e condannati è anche discriminatorio. Mi auguro che si possa ripartire un po’ da zero, con un ragionamento diverso e complessivo. La Ministra ha detto che sta approfondendo e studiando la riforma Bonafede e che si potrebbe partire da quella: che questa sia una riforma che presenta diversi problemi e che non è adeguata agli obiettivi che si pone è evidente. E questo è chiaro anche dalle audizioni che abbiamo svolto: si possono contare sulle dita di una mano quelli che si sono espressi favorevolmente. Nell’ipotesi di un unico emendamento della maggioranza, quale sarebbe la vostra posizione? Andrebbe costruito insieme perché la legge delega riguarda tutto il processo penale. Si tratta di un lavoro abbastanza notevole da fare. Aspettiamo le valutazioni della Ministra della Giustizia, che potrebbe voler ritenere che qualcosa si possa salvare. Secondo Lei il Movimento 5 Stelle è pronto a rassegnarsi a delle modifiche importanti sulla questione della prescrizione? Se la Ministra propone delle soluzioni, dà delle indicazioni sarebbe auspicabile che tutta la maggioranza si muovesse intorno ad esse. Poi alla fine il tema diviene quello dei numeri: ora la maggioranza è più larga, qualcuno potrebbe dover adeguarsi. Tra le proposte c’è la cosiddetta prescrizione per fasi, che proprio l’onorevole del Pd Walter Verini ha illustrato su questo giornale. Qual è il suo parere in merito a questo? È una proposta che va valutata: bisogna innanzitutto capire in quale disegno complessivo andrebbe inserita. Ripeto: la legge delega presenta comunque, per quanto ci riguarda, dei grossi limiti. Occorre capire pertanto su quale tipo di testo lavoriamo. Poi le soluzioni occorre calarle nel concreto: la prescrizione processuale, che estinguerebbe il processo ma non il reato, non esiste al momento. Insomma occorre fare opportune valutazioni perché si tratta di un argomento complesso su cui discutere in maniera approfondita. La stessa obiezione mossa dal Presidente dell’Unione delle Camere Penali, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, che si chiede anche quale sarebbe la sanzione processuale qualora i tempi di fase non venissero rispettati... Si tratta di una giusta obiezione. Sempre la legge delega prevede una serie di termini entro i quali si devono concludere le indagini preliminari, immaginando in casi di ritardi delle sanzioni disciplinari. Noi abbiamo rilevato subito la debolezza e l’insufficienza di questa soluzione: sarebbe più auspicabile ipotizzare sanzioni processuali, che quindi intervengano sul processo invece che nei termini disciplinari che restano aleatori. Come risponde a coloro che ritengono che l’odg Cartabia abbia significato un po’ buttare la palla in tribuna? Noi resteremo sempre contrari alla riforma Bonafede: mi auguro che quando si deciderà di rivedere il processo penale si intervenga anche sull’istituto della prescrizione, magari modificandolo direttamente. L’ordine del giorno è servito un po’ come punto di partenza per gestire questo momento di insediamento del nuovo Governo. Si tratta di un odg che richiama importanti principi costituzionali che credo siano stati messi da parte in questi ultimi mesi. Una cornice costituzionale è fondamentale e all’interno di essa ragioneremo. All’interno dell’Odg Cartabia c’è un passaggio in cui si mira ad assicurare al procedimento penale una durata tale da non compromettere la funzione rieducativa della pena. Il principio del fine rieducativo è contraddetto da condanne inflitte a 20 anni di distanza dal fatto. Una premessa simile rappresenta un limite forte alla norma Bonafede... Come spesso abbiamo sottolineato, la funzione rieducativa è uno dei principi cardine che con la riforma Bonafede è venuto meno, perché dà vita a processi infiniti. Con quella riforma veniva meno proprio il diritto di difesa, quello all’oblio dell’imputato. Il metodo migliore è quello dunque di guardare insieme alla riforma del processo e della prescrizione. Crediamo che questo sia il metodo migliore. Questo principio non sarebbe contemplato nella prescrizione a fasi: essa eviterebbe che un reato si estingua solo perché scoperto tardi. Quindi una persona sarebbe comunque mandata a processo ma con le garanzie che duri tempi ragionevoli. Anche in questo caso ci troveremmo dinanzi a una persona diversa... Certamente. E poi aggiungo: se stabiliamo che un processo duri cinque anni, a maggior ragione allora non avrà più senso bloccare la prescrizione dopo il primo grado. Inoltre sarebbe importante intervenire sulle fasi iniziali - indagini e primo grado - che sono quelle in cui si prescrivono maggiormente i reati. Torniamo al discorso di prima: una cosa è la prescrizione del reato, altro è la prescrizione del processo. Lunghe schiere di magistrati fuori ruolo affollano le stanze del ministero di Francesco Damato Il Dubbio, 3 marzo 2021 Marta Cartabia, la nuova ministra della Giustizia, e al diavolo chi sostiene che se ne debba scrivere come del ministro, al maschile, è giustamente attesa alla prova, anche dagli estimatori, col problema spinosissimo della prescrizione. Che la guardasigilli ha già avuto il merito di sottrarre allo strumento, o all’arma assai impropria del decreto legge delle “mille proroghe”, cui i sostenitori di una modifica garantista ed equilibrata erano stati costretti a ricorrere dal predecessore Alfonso Bonafede. Costretti, perché il convoglio più attrezzato era ed è quello del disegno di legge di riforma del processo penale, tuttavia reso praticamente inagibile da Bonafede perché messo sul binario nemmeno di un accelerato, ma di un omnibus. Se ancora ne esistono in circolazione, esso si ferma ad ogni stazione e sfinisce i viaggiatori anche più pazienti.A rallentarne ulteriormente il viaggio si era messa anche la pandemia, o il pretestuoso uso fattone dagli interessati a lasciare il più a lungo possibile in vigore la norma attuale. Che, introdotta come una supposta da Bonafede nella legge nota come “spazza-corrotti”, di fatto ha abolito la prescrizione facendola valere sino alla sentenza di primo grado. Emessa la quale, anche per gli assolti il procedimento promosso dall’appello della pubblica accusa potrebbe sulla carta proseguire all’infinito, e l’imputato rimanere tale a vita. Incredibile ma vero, alla faccia della “ragionevole durata” del processo imposta da una modifica all’articolo 11 della Costituzione introdotta nell’autunno del 1999. La nuova ministra col prestigio accresciuto da giudice e poi anche presidente della Corte Costituzionale ha fatto scendere i riformatori dal convoglio improprio delle mille proroghe e ha restituito loro l’agibilità vera del convoglio del processo penale, dando anche un supplemento di tempo, sino a fine mese, per la presentazione dei cosiddetti emendamenti. E tutti aspettano ora di vedere come si tradurrà davvero in ragionevole la durata del processo penale rendendo persino superflua la vecchia prescrizione, e pure l’abuso fattone da imputati e anche da uffici giudiziari - perché negarlo? - esercitando a velocità assai discrezionale la cosiddetta, e un po’ ipocrita, obbligatorietà dell’azione penale. Forza, ministra, ci faccia sognare, anche a costo di portare alla disperazione quelli che il buon Carlo Nordio, ormai in pensione, scrivendo di certi suoi colleghi definisce “giacobini”, anziché giustizialisti o manettari, secondo certo linguaggio giornalistico. Ma ci faccia sognare, signora ministra, anche su un altro terreno, che chiamerei di bonifica del dicastero della Giustizia. Dove la presenza dei magistrati è alquanto sproporzionata rispetto all’organico, per quantità e qualità di posti, sino a dare l’impressione -magari a torto, per carità, ma in certe situazioni, come diceva la buonanima del presidente Sandro Pertini parlando proprio della giustizia, ciò che appare vale più della realtà- che il Ministero sia praticamente nelle mani delle toghe. Che finiscono spesso per trovarsi in conflitti anche inconsapevoli d’interesse, sia pure con distacchi regolarmente concessi dal Consiglio Superiore della Magistratura. Dove peraltro i togati sono già sufficientemente tutelati dai rapporti numerici con i cosiddetti “laici” nella difesa della loro indipendenza, autonomia e via dicendo, e rivendicando. Potremmo anche pubblicare l’elenco completo, aggiornato a meno di un mese fa, dei 162 magistrati fuori ruolo, distaccati in buona parte proprio al Ministero della Giustizia, ma non lo facciamo per ragioni di stile, ritenendo anche questo, come altri di cui ci siamo occupati, un problema non di nomi, bensì di metodo. Dobbiamo dire con tutta onestà che questa storia del Ministero della Giustizia sovraffollato di magistrati, se non da loro occupato, come si dolgono i non magistrati che vi lavorano e debbono poter fare carriera dopo avere vinto i loro bravi concorsi, è abbastanza vecchia per attribuirne colpe e responsabilità un po’ a tutti quelli che si sono avvicendati politicamente al vertice del dicastero, tra prima, seconda, terza e quarta Repubblica, se veramente siamo davvero arrivati alla quarta rappresentata in alcune trasmissioni televisive. Ne sono rimasti vittime più o meno inconsapevoli anche fior di giuristi diventati ministri della Giustizia, come la buonanima di Giuliano Vassalli. Ai cui tempi risale, precisamente all’inizio del 1988, quando egli era guardasigilli del primo e unico governo del democristiano Giovanni Goria, quella legge sulla responsabilità civile dei magistrati elaborata nell’ufficio legislativo del dicastero, il più affollato abitualmente di toghe, con cui fu praticamente vanificato il risultato positivo di un referendum promosso per fare rispondere davvero dei loro errori anche quanti amministrano la giustizia. Fu proprio puntando su quello strumento di intervento sostanzialmente demolitorio che il Pci e la sinistra democristiana, allora alla guida della Dc, si schierarono nell’autunno del 1987 nel referendum a favore dello scontato esito positivo, dopo averlo ostacolato in ogni modo nella primavera precedente, sino a provocarne il rinvio col ricorso alle elezioni anticipate. Quel referendum, già indetto per aprile, era stato lo scoglio, insieme al referendum sull’energia nucleare, contro il quale s’era infranto il secondo governo di Bettino Craxi, sostituito dal sesto e ultimo governo di Amintore Fanfani. Era un monocolore democristiano per la cui bocciatura nell’aula di Montecitorio, propedeutica allo scioglimento anticipato delle Camere, la Dc di Ciriaco De Mita era arrivata ad una clamorosa astensione, vanificando il voto di fiducia accordato dal Psi nel tentativo di salvare legislatura e referendum. Marta Cartabia a quell’epoca aveva solo 25 anni, beata lei, ancora fresca di laurea con lode in giurisprudenza all’Università di Milano, ma già ben attrezzata per leggere appropriatamente fatti e sottintesi, e ora ricordarsene, alla testa del Ministero di via Arenula, per cambiare registro. La giustizia civile tra ripresa, equità ed efficienza di Antonio de Notaristefani Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2021 L’intervento a firma di Antonio de Notaristefani, presidente dell’Unione Nazionale Camere Civili, in merito ad alcune considerazioni sul Governo Draghi e sull’opportunità di una riforma della giustizia civile, uno dei primi dossier che il governo si troverà a gestire - anche in ottica di un accesso al Recovery Fund. Parlando al Senato, il Presidente Draghi ha ricordato l’importanza della giustizia civile per agevolare la ripresa, precisando che bisogna puntare a un processo giusto e in tempi ragionevoli, e sottolineando poi le esortazioni UE all’efficienza. Un equilibrio, quello tra equità ed efficienza nei procedimenti civili, difficile da trovare. La business community ha una visione improntata al pragmatismo: se l’offerta di giustizia è limitata e non può essere incrementata per carenza di fondi, bisogna ridurre la domanda aumentando i costi di accesso, comminando sanzioni, scoraggiando cause inutili. Per le imprese - non del tutto a torto - quel che conta è l’efficienza del sistema giustizia, e l’eventuale ingiustizia che dovesse verificarsi in singoli casi è il costo sociale da pagare nel prevalente interesse di tutti. Noi avvocati, invece, la giustizia la misuriamo in termini umani. Per noi, ogni processo racconta la storia della vita (familiare, lavorativa, sociale) di una persona reale: quando si perde, soffriamo insieme a lei e, se avvertiamo che la sconfitta è stata ingiusta, la sofferenza si trasforma in indignazione. Per dirla con Papa Francesco, “nessuna sentenza può essere giusta, nessuna legge legittima, se ciò che genera è più diseguaglianza”. Tuttavia, convinti che il PIL non possa misurare l’equità dei nostri Tribunali, abbiamo talvolta ricercato la giustizia del caso singolo a scapito dell’effettiva tutela di tutti, tollerando che si accrescesse la diseguaglianza tra chi può aspettare anni per avere una sentenza e chi no. Che fare, oggi che è chiaro a tutti che, per ripartire, occorrono processi civili non solo giusti ma anche rapidi? Innanzitutto bisogna che la giustizia trovi davvero quest’equilibrio tra equità ed efficienza. Non è impossibile: l’afflusso di risorse europee permetterà di aumentare l’offerta di giustizia, e lo slancio, anche solidaristico, che si accompagna a qualsiasi ripresa, potrà moltiplicarne gli effetti. A guidare la ricerca di tale equilibrio sarà poi un Presidente emerito della Corte costituzionale: quella sintesi di etica, politica e diritto in cui si sostanzia il giudizio di costituzionalità è ciò di cui abbiamo bisogno per riformare la giustizia civile. Per la prima volta, infine, si discute di abbandonare i vincoli del patto di stabilità e di sostituirli con la valutazione della sostenibilità di un investimento. Si ipotizza, cioè, non più di regolamentare il presente, ma di progettare il futuro, liberando la giustizia civile dagli errori del passato e contemperando le esigenze di tutela della dignità e indipendenza del cittadino, con quelle di efficienza delle imprese. Draghi avrà le risorse economiche e il consenso per farlo: se non ora, quando? Video-colloqui tra i boss al 41bis e i figli minori: lo deciderà la Consulta il 9 marzo di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2021 Il divieto per i detenuti al 41bis, mafiosi e terroristi, di avere, in tempo di Covid, colloqui con i figli minori via Skype sarà al vaglio della Corte costituzionale il g marzo. Il ricorso è del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, che ha accolto l’eccezione di incostituzionalità presentata dalla difesa di un boss sottoposto al carcere duro, a cui era stato vietato un video-colloquio via Skype con la figlia di 5 anni. A causa della pandemia, per quanto riguarda i colloqui dei detenuti al 41bis, il decreto Bonafede del 10 maggio 2020 prevede che quelli in presenza siano sostituiti da colloqui telefonici. Invece, per i detenuti comuni, al posto delle visite ci possono essere colloqui-video. Secondo il tribunale reggino il divieto di video-colloqui per i detenuti al 41bis, esteso anche a quelli con i figli minori, sancisce una disparità di trattamento con i figli sotto i 18 anni dei detenuti comuni. Ci sarebbe anche una “lesione di diritti inviolabili dei minori stessi, come quello di intrattenere rapporti affettivi con i familiari detenuti, idonei a garantire un corretto sviluppo della loro personalità e una condizione di benessere psico-fisico del minore”. I giudici denunciano perciò la violazione di una serie di norme della Costituzione (articoli 2, 3, 30 e 31 oltre che l’articolo 27), perché fondamentale “per il recupero sociale del reo è il mantenimento dei rapporti familiari e soprattutto genitoriali”. Sarebbe leso anche l’articolo 117 della Costituzione, in riferimento agli articoli 3 e 8 della Carta europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che vietano pene inumane e degradanti e garantiscono il rispetto alla vita familiare. La questione è molto più complessa di quanto possa apparire, proprio perché si parla di minorenni e della loro tutela. Ma in questi anni ci sono stati alcuni casi in cui, durante colloqui dal vivo, figli minori anche molto piccoli sono stati usati senza alcuno scrupolo per passare “pizzini” ai padri detenuti al 41bis. È vero che in questo caso si parla di video-colloqui, ma diversi inquirenti sostengono che sarebbe impossibile per gli agenti della polizia penitenziaria controllare che eventuali conversazioni via Skype con i figli minori non servano a qualche boss detenuto per dare e avere messaggi con i segni, magari grazie al genitore o qualcun altro che sta accanto al minore. Violenza sessuale procedibile d’ufficio se l’autore è incaricato di pubblico servizio di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 3 marzo 2021 E se la vittima riveste la medesima qualifica ha rilevanza la posizione di supremazia dell’accusato del reato. La violenza sessuale se è esercitata da un incaricato di pubblico servizio diventa procedibile d’ufficio e il fatto che la vittima sia anch’essa un incaricato di pubblico servizio non determina una parità in grado di annullare la contestabilità del reato ex officio. La Corte di cassazione con la sentenza n. 8213/2021 ha accolto il ricorso della Procura che affermava l’esistenza di tale qualità pubblica per il dipendente della Croce Rossa che si occupava della gestione dei lavoratori interinali, chiamati anche a svolgere attività di volontariato, direttamente gestita e organizzata dall’imputato. La procedibilità d’ufficio è quella stabilita dall’articolo 609 septies del Codice penale. Il responsabile cui era affidata la turnazione degli interinali di fatto era accusato di aver esercitato pressioni psicologiche - con il ricatto di non venir richiamate a svolgere il proprio lavoro - sulle sue vittime di violenza sessuale. Il ricatto era necessario all’uomo, accusato degli illeciti atti sessuali, al fine di mitigare le reazioni delle vittime e di farle tacere in ordine ai fatti subiti. E l’aggravante di aver commesso il reato sfruttando il proprio ruolo è sostenuta dalla Procura anche tenuto conto che le stesse volontarie vittime degli abusi fossero degli incaricati di pubblico servizio al pari dell’imputato. Nonostante questo, infatti il ricorrente individua l’esistenza della sovra-ordinazione dell’imputato rispetto alle donne che aveva costretto a subire le sue attenzioni sessuali. La posizione di sovra-ordinazione - chiarisce la Cassazione - non deriva da una percezione soggettiva della vittima su tale circostanza, bensì da un criterio oggettivo. Tale oggettività della sovra-ordinazione e quindi dell’abuso di tale posizione se non si esprime attraverso il possesso di qualifiche superiori è desumibile in concreto. Come, nel caso specifico, dove di fatto l’imputato nel gestire i volontari esprimeva una concreta supremazia sulla possibilità di rinnovo dei contratti per tali lavoratori interinali. Ferrara. Detenuto si suicida in cella, avrebbe dovuto essere in tribunale ieri per un processo Il Resto del Carlino, 3 marzo 2021 Ieri mattina avrebbe dovuto collegarsi in videoconferenza con il tribunale per un processo a suo carico. L’udienza, però, non si è tenuta. L’imputato - un 31enne marocchino - si era infatti tolto la vita poche ore prima nel carcere di Modena, dove era detenuto. Stando alle prime ricostruzioni, lo straniero si sarebbe ucciso inalando il gas della bombola del fornelletto per cucinare. Quando gli agenti della Polizia penitenziaria lo hanno trovato, per lui non c’era ormai più nulla da fare. Un gesto che ha suscitato incredulità anche nel suo difensore, l’avvocato Salvatore Mirabile, che ha riferito di averlo sentito nel pomeriggio lunedì, alla vigilia del processo, e di non aver sospettato di nulla. Il 31enne era imputato a Ferrara per resistenza a pubblico ufficiale e inosservanza del divieto di far rientro in città. Sul corpo del detenuto è stata disposta l’autopsia, che farà chiarezza sulle cause del decesso. Modena. Morti in carcere nelle rivolte di marzo. La procura: “Indagini da archiviare” di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 3 marzo 2021 L’overdose è la causa di morte ipotizzata dai consulenti dei pm. Restano aperti altri tronconi dell’inchiesta: quelli sui reati commessi dai detenuti durante le rivolte e su pestaggi e maltrattamenti denunciati da alcuni di loro. A quasi un anno dalle rivolte carcerarie di marzo 2020, e dalla fine tragica di tredici detenuti, la procura di Modena chiede l’archiviazione delle indagini sul decesso di otto dei reclusi che ci hanno rimesso la vita, i cinque spirati nel carcere della cittadina emiliana e tre dei quattro morti durante o dopo il trasferimento negli istituti di altre località. A confermare le indiscrezioni ufficiose, circolate in mattinata, è nel primo pomeriggio il procuratore capo pro tempore Giuseppe Di Giorgio. “Stiamo notificando la richiesta in queste ore, al gip e alle persone offese. Si tratta di un provvedimento articolato - tiene a precisare il coordinatore dei pm - con motivazioni approfondite in una settantina di pagine. Abbiamo esplorato tutto quello che c’era da esplorare, denunce ed esposti compresi, senza trascurare nulla”. L’inchiesta modenese era stata avviata con le ipotesi di reato di omicidio colposo plurimo e morte come conseguenza di altro reato, lo spaccio. L’overdose è la causa di morte ipotizzata, perlomeno dai consulenti della procura. “I filoni sui decessi di otto persone sono stati riuniti. Sono rimasti fuori gli approfondimenti sulla morte di Salvatore “Sasà” Piscitelli, di competenza di un’altra procura. Le indagini - ricorda sempre il procuratore Di Giorgio - erano partite contro ignoti e contro ignoti si sono concluse. Non sono emerse responsabilità di singoli, non rispetto alle morti. Restano aperti altri tronconi dell’inchiesta, quelli sui reati commessi dai detenuti durante le rivolte e su pestaggi e maltrattamenti denunciati da alcuni di loro”. Il fascicolo sul decesso di Piscitelli è rimbalzato da Ascoli a Modena, con un doppio giro di rimpalli, ed è tornato delle Marche dopo l’esposto e l’audizione di cinque compagni di viaggio e di cella. I detenuti testimoni hanno denunciato botte e manganellate, abusi e un colpevole ritardo nei soccorsi, così come altri avevano fatto prima di loro. Il dirigente dell’ufficio Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, è fuori sede per una missione istituzionale e non ha ancora visto la richiesta di chiudere il caso. “So che è in arrivo. Mi è stato preannunciato dall’avvocato che ci rappresenta a Modena, dove ci siamo costituiti come persone offese. La leggerò con attenzione, valutando il da farsi”. L’idea è quella di tenere la stessa linea seguita a Bologna, per il detenuto morto alla Dozza: chiedere l’accesso agli atti depositati, per verificare se e quanto l’inchiesta modenese sia andata a fondo, e opporsi formalmente all’archiviazione. L’avvocato dei familiari di uno degli otto morti modenesi sembra invece intenzionato a tentare una manovra diversiva: chiedere la proroga delle indagini per il suo caso, alla luce della “contro autopsia” stilata dalla sua consulente di parte, una tossicologa forense. La decisione della procura di Modena rischia di surriscaldare ancora di più gli animi di familiari e associazioni di base e movimenti, da quasi un anno senza risposte e senza certezze, proprio mentre si stanno preparando iniziative di piazza e sul web per commemorare i morti e tornare a chiedere verità e giustizia. Il 6 marzo 2021 gli anarchici hanno convocato un presidio pomeridiano davanti alla casa di reclusione di Modena, con lo slogan “Strage di Stato nelle carceri”. La mattina del 7 marzo 2021 è in programma una analoga iniziativa, sempre fuori dai muraglioni dell’istituto, promossa dal Consiglio Popolare - Sciopero Italpizza di Modena. L’8 marzo gli anarchici si sono dati appuntamento alle 11 fuori dalla sede romana del ministero di Giustizia, in via Arenula. Il 9 marzo 2021 il Comitato per la verità e la giustizia sulle morti in carcere “rompe il silenzio” con un webinar, alle 17.30. Bologna. Fu primo detenuto vittima Covid: “Non ci furono negligenze”, archiviata l’inchiesta di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 3 marzo 2021 Vincenzo Sucato, 76 anni, imputato nel processo “Cupola 2.0”, era spirato nel carcere Dozza di Bologna ad aprile. Era affetto da varie patologie e risultò poi positivo al virus. Dopo tante istanze, i domiciliari gli furono concessi solo tre giorni prima del decesso. La famiglia aveva presentato una denuncia. Vincenzo Sucato, boss di Misilmeri, è stato il primo detenuto a morire per Covid in Italia ad aprile dell’anno scorso e sul suo caso, dopo la denuncia della sua famiglia, la Procura di Bologna aveva aperto un’inchiesta per omicidio colposo. Inchiesta che ora è stata archiviata: non ci sarebbero state infatti negligenze né da parte del personale che si occupò di lui nel carcere della Dozza né da parte dei sanitari che lo ebbero in cura quando venne ricoverato in ospedale. Sucato, 76 anni, già condannato per mafia anni fa, era tornato in cella con il blitz dei carabinieri “Cupola 2.0”, che a dicembre del 2018 aveva sventato il tentativo da parte dei boss di ricostituire la Commissione provinciale di Cosa nostra. Era cardiopatico, diabetico ed era affetto da problemi polmonari e dunque un soggetto estremamente a rischio in caso di contagio da Covid. Il suo avvocato, Domenico La Blasca, per questo aveva chiesto più volte che gli fossero concessi gli arresti domiciliari per motivi di salute. Un’istanza mai accolta, se non tre giorni prima del decesso del detenuto in ospedale, avvenuto il primo aprile. Sucato era infatti risultato positivo al virus proprio nei giorni più bui della pandemia. I suoi problemi di salute pregressi erano stati peraltro cristallizzati proprio in una perizia disposta dal gip per valutare la richiesta di scarcerazione e dunque, questo sosteneva la famiglia di Sucato nella denuncia, le sue condizioni sarebbero state ben note al personale in servizio nel carcere bolognese, quando a fine febbraio era scoppiato l’allarme Coronavirus anche in Italia. Una settimana prima che Sucato morisse, il 24 marzo scorso, l’avvocato La Blasca aveva nuovamente sollecitato i domiciliari per il detenuto e nei due giorni successivi il gip di Palermo, Filippo Serio, aveva a sua volta sollecitato la relazione da parte della Dozza per capire quali fossero le condizioni del recluso. Il 27 marzo Sucato aveva partecipato all’udienza del processo “Cupola 2.0” ed era stato poi accompagnato dalla polizia penitenziaria all’ospedale Sant’Orsola. Proprio nella struttura sanitaria si ebbe la conferma che aveva contratto il Covid, tanto che poi era finito in terapia intensiva. Il 30 marzo il gip gli aveva concesso i domiciliari, ma Sucato era spirato il primo aprile. Al termine delle indagini svolte dalla Procura, però, non sarebbero emersi elementi per addossare la responsabilità del decesso a qualcuno. Da qui l’archiviazione del fascicolo. Pisa. Rivolta in carcere, in dieci rischiano il processo di Pietro Barghigiani Il Tirreno, 3 marzo 2021 Rivolte in simultanea come se “Radio carcere” avesse messo in onda un messaggio di chiamata alle armi ricevendo una risposta immediata, in tempo reale. Era il 9 marzo 2020, agli albori del Covid nelle sue forme già mortali, e nelle prigioni italiani esplosero una serie di disordini con danneggiamenti e aggressioni agli agenti della penitenziaria. Anche al Don Bosco gli animi non restarono pacifici. E adesso, a distanza di quasi un anno, la Procura chiede il rinvio a giudizio di dieci detenuti accusandoli, a vario titolo, di essere in concorso istigatori ed esecutori materiali danneggiamenti e lesioni aggravate, violenza e resistenza a pubblico ufficiale. Tra i dieci imputati figura un nome di cui “Il Tirreno” si è occupato nelle scorse settimane. È quello di Luca De Angeli, 45 anni, originario di Pietrasanta e residente a Massa. Ex ciclista professionista nella squadra di Marco Pantani, De Angeli è in carcere per scontare una condanna a 8 anni e 10 mesi per tentato omicidio. Nel luglio 2020 è arrivato un altro verdetto: 3 anni e 4 mesi per maltrattamenti contro la ex moglie. E proprio per il rancore maturato nei confronti della donna che ha rimediato un’altra denuncia. Pur stando nelle carceri ormai da tempo, tra Massa, Pisa e ora Verona, De Angeli avrebbe continuato a minacciare l’ex moglie. Attraverso la corrispondenza, affidando a messaggeri esterni le missive cariche di odio e con minacce di morte. Pure di un cellulare si è servito nel suo disegno intimidatorio. La richiesta di rinvio a giudizio dei dieci detenuti sarà esaminata dal gup Giulio Cesare Cipolletta. Quel giorno di marzo in varie carceri scoppiarono rivolte concluse anche con vittime. A Pisa vennero incendiate suppellettili e masserizie. Lenzuola a fuoco, oggetti lanciati contro gli agenti. Lo stop agli incontri con i familiari a causa del Covid fu uno dei detonatori della protesta poi degenerata in aggressioni e danneggiamenti. Un agente della polizia penitenziaria rimase ferito. Un pomeriggio di violenza con una situazione di allarme che aveva portato all’esterno del carcere una cinquantina di agenti tra poliziotti e carabinieri pronti a intervenire in caso di necessità all’interno della casa circondariale. Alle 20 i rivoltosi rientrarono nelle celle. Quello che era successo nelle ore precedenti è diventata una richiesta di rinvio a giudizio. Napoli. In carcere 21 anni dopo il reato. La moglie: “punito uomo onesto” ansa.it, 3 marzo 2021 47enne finisce in cella per reati commessi nel 1999. “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, ma mio marito già molti anni fa ha capito di avere sbagliato. Quello che ha fatto durante questi 22 anni lo dimostra ampiamente. Metterlo in cella ora significa punire una persona onesta e la sua famiglia”. A parlare è Leonide Marziale, la moglie di Giuseppe Marziale, chiuso in carcere qualche mese fa per dei reati commessi nel 1999 e per i quali era stato giudicato colpevole. Deve scontare una pena di 11 anni, 11 mesi e 16 giorni di reclusione per associazione mafiosa e spaccio di droga, anche se nel frattempo ha cambiato totalmente “pelle”. La donna, che già aveva lanciato un video-appello affinché venisse presa in considerazione la vicenda del marito, ci tiene a mostrare tutte le lettere di assunzione che Giuseppe ha firmato in questi anni, anche i tesserini di riconoscimento che gli erano stati consegnati. Tutto per testimoniare che Giuseppe Marziale, con la criminalità, non ha più niente a che fare da decenni. “Ha commesso degli errori quando aveva 26 anni ma poi ci siamo sposati. Lui è diventata un’altra persona, gli ho dato tre figli e durante tutti questi anni ha lavorato sempre onestamente”. Giuseppe Marziale militava in un gruppo camorristico dei Quartieri Spagnoli di Napoli e per conto di quella camorra ha commesso dei reati per i quali è stato condannato. Da moltissimi anni non è più quell’uomo ma un marito e padre amorevole che adesso è ripiombato nel buio del quale si era già liberato molto tempo fa. “Anch’io ho dei sentimenti”. Le detenute si raccontano sul web di Thomas Pistoia iltaccoditalia.info, 3 marzo 2021 Detenute, ex-detenute, compagne di detenuti. Le testimonianze di donne che hanno conosciuto l’esperienza del carcere sono al centro di un progetto che, associando le parole alle emozioni, mira a evidenziare sogni e bisogni di chi sconta una pena, a beneficio di un percorso di recupero che deve essere sempre l’obiettivo primario di ogni restrizione. Lo Stato deve perseguire la rieducazione, non la vendetta. È un dettato costituzionale, oltre che morale, che da lungo tempo viene ripetuto come un mantra dalle istituzioni e, più in generale, dalla società cosiddetta “sana”. Ma, al netto di fatti di cronaca divenuti tristemente famosi, che ancora non cessano di popolare trasmissioni televisive e tribunali, evidenziando la molta strada che resta da percorrere, il problema fondamentale continua ad essere quello della conoscenza. Quanto conosciamo le persone che vivono l’esperienza carceraria, cosa sappiamo delle loro necessità, dei loro sentimenti, della loro vita quotidiana? A queste domande ha provato a dare una risposta il seminario online dal titolo “Anch’io ho dei sentimenti - Le donne ex-detenute si raccontano sul web”, che si è svolto mercoledì primo marzo nell’ambito di “Archiviazioni”, la rassegna di incontri virtuali a cura dell’”Archivio di Genere” (Adg). Il seminario, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della comunicazione, psicologia e formazione dell’Università di Bari (For.Psi.Com) e con il Centro di cultura e documentazione della stessa città, ha avuto come moderatrice e relatrice la Professoressa Rosita Maglie. La Professoressa Maglie ha introdotto l’argomento illustrando l’attività dell’Archivio di genere (Adg). Si tratta di una delle cinque sezioni da cui è costituita la biblioteca del For.Psi.Com. Si pone l’obiettivo di conservare e condividere il patrimonio documentario relativo alle questioni di genere, riconoscendosi nel pensiero delle donne e mirando a far emergere quei materiali cui la cultura totalizzante occidentale (oppure patriarcale e maschilista?) non dà la giusta importanza. Rosita Maglie ha fatto esempi pratici del modo in cui l’attività dell’Adg si concretizza nel caso specifico, presentando alcuni volumi concernenti la tematica. Ha poi illustrato il progetto di ricerca sulla realtà carceraria che ha coinvolto il suo dipartimento e ha elencato le attività fin qui intraprese: - Ristretti Orizzonti: una sezione contenente esperienze e racconti vissuti da chi è stato in carcere. - L’Università va in carcere: una sperimentazione che ha visto docenti e studenti frequentare i propri corsi insieme a i detenuti, all’interno delle strutture penitenziarie. - Spazi aperti: un progetto nato a causa del Coronavirus. Uno spazio virtuale nel quale i detenuti condividono i propri pensieri con chi, fuori, non può uscire di casa a causa della pandemia. - Una delle tappe più importanti si è concretizzata nel panel “Carcere, salute mentale e cura delle parole, oltre le sbarre”, tenutosi presso l’ultimo Forum delle Giornaliste del Mediterraneo, ideato e fondato da Marilù Mastrogiovanni, che si svolge ogni anno a novembre (quest’anno sotto forma di webinar a causa dell’emergenza Covid). Sensibilizzare i giornalisti, farli riflettere sulla necessità deontologica di una resa comunicativa rispettosa e corretta nei confronti dei detenuti, questo è stato il filo conduttore del panel. - Un altro interessante momento sarà il paper “Women and prison in Italy: Wor(l)ds and (E)motions”, che si svolgerà durante la giornata di studi “Storie di donne in carcere tra sopravvivenza e creazione” presso l’Università di Montréal il 24 e 25 marzo prossimi. La Professoressa Maglie è entrata poi nel dettaglio della ricerca “Parole e emozioni”. Partendo da 678 testi ricavati dalle testimonianze di detenute italiane e straniere, ex-detenute e compagne di detenuti - per un totale di 34.348 lemmi - sono state estrapolate, e analizzate nel contesto, le parole che esprimono le differenti emozioni provate (rabbia, paura, disgusto, gioia, tristezza, ecc.). A ogni emozione è stato assegnato un colore. Tramite uno schema a forma di fiore, alle detenute è stato poi chiesto di associare a una tappa del loro percorso carcerario (entrata - soggiorno - uscita) l’emozione provata e il colore corrispondente. La ricerca ha evidenziato, ad esempio, delle “linee di concordanza” tra il lemma “tossico” utilizzato nei racconti di donne compagne di detenuti e il dolore causato dal pregiudizio: “per le persone che conosco il mio compagno ha una sola sfaccettatura: è un tossico”. Oppure la speranza disillusa: “come può un uomo reinserirsi nel mondo di fuori, se viene emarginato e visto comunque come uno che è stato dentro perché tossico?” Le testimonianze dirette di Aurelia, ex-detenuta e Teresa, attualmente ristretta in carcere, hanno confermato le problematiche evidenziate dalla ricerca. Aurelia, che è detenuta da più tempo, ha raccontato senza remore la sua esperienza di malasanità carceraria, di piccoli e grandi abusi subiti e ha quindi individuato le emozioni provate nel colore rosso della rabbia. “Posso dire di provare un sentimento di gioia durante i colloqui” ha detto, quando le è stato chiesto di indicare un’emozione positiva “ma in carcere di positivo non c’è nulla, non è un luogo in cui si possano provare emozioni positive. L’unica cosa positiva forse, è che si impara l’importanza della libertà”. Più serena la testimonianza di Teresa (detenuta da minor tempo), la quale ha esternato anche emozioni positive, sottolineando l’utilità che sta avendo per lei il carcere. La rabbia provata a inizio detenzione è mutata in maggior fiducia nel futuro. Una fiducia che le viene dall’esperienza lavorativa che sta vivendo all’interno della struttura: “nella vita si sbaglia per scelta o per disperazione. In entrambi i casi se ne pagano le conseguenze. Molto dipende da come ti poni. La detenzione può diventare anche speranza nella possibilità di un riscatto. Non dico che sto bene, in carcere non si sta bene. Ma non ho perso la speranza, vedo una luce in fondo al tunnel”. Entrambe le detenute hanno indicato nel lavoro lo strumento fondamentale in cui trovare questa speranza. Il seminario si è chiuso con l’intervento del Professor Ignazio Grattagliano, docente di criminologia presso il For.Psi.Com: “stiamo cercando di creare un polo universitario tra Puglia e Basilicata per detenuti” ha detto Grattagliano “Nella nostra società c’è ancora una cattiva percezione del detenuto, che viene emarginato e considerato un elemento di serie B. Il carcere deve essere invece un percorso di cambiamento che consenta il reinserimento. L’investimento nella cultura deve diventare un sistema”. Ragionevolezza e proporzionalità, così si riequilibra il diritto di Michele Corredino Corriere della Sera, 3 marzo 2021 L’analisi di Villanacci individua gli strumenti utili al politico e al giurista per limitare iniquità e abusi. La legislazione degli ultimi decenni - confusa, troppo spesso difficile da decifrare e comunque incompleta per il costante rinvio a normativa secondaria inattuata - non sempre è stata capace di regolare i fenomeni economici e sociali della modernità, né a rispondere alle esigenze di tutela che derivano dall’affermarsi nella coscienza sociale di istanze solidaristiche e dalla necessità di garantire sicurezza e sviluppo in un periodo di prolungata recessione, oggi più che mai aggravata dall’emergenza Covid 19. Ciò ha dato impulso crescente ad interpretazioni adeguatrici di dottrina e giurisprudenza che hanno cercato risposte ben al di là della lettera della legge fondandosi su clausole generali quali affidamento, buona fede, abuso del diritto, ragionevolezza, proporzionalità. In questo modo si sono raggiunti approdi apprezzabili nella protezione di valori emergenti ma spesso è mancata un’approfondita elaborazione teorica. Clausole generali ontologicamente differenti ma utilizzate in modo promiscuo o a volte sovrapposte con esiti caratterizzati talora da un “eccesso solidaristico” che ha condotto spesso la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato a perimetrare l’azione giudiziaria ed evitare il determinarsi di forme di disparità altrettanto ingiustificate. In questo quadro il libro di Gerardo Villanacci, “La ragionevolezza nella proporzionalità del diritto” (Giappichelli editore) ha la grandezza di sapere ricondurre ad unità il sistema scandagliando l’essenza dei principi di ragionevolezza e proporzionalità che non sono più confinati, come in passato, a parametro di legittimità delle leggi nei giudizi di fronte alla Corte Costituzionale ma hanno ormai assunto un ruolo centrale nella selezione dei beni giuridici da parte del legislatore, nell’interpretazione di norme incongrue o contraddittorie, nel bilanciamento di diritti in conflitto e nel superamento degli automatismi legislativi più volte censurati dal giudice costituzionale. Fattispecie queste per nulla neutrali sotto il profilo delle scelte ideologiche e però indispensabili perché capaci di “scongiurare l’obsolescenza del sistema giuridico attraverso l’enucleazione dei valori che in un determinato momento storico si intende porre in risalto”. E così il libro di Gerardo Villanacci snoda la sua analisi nelle diverse fasi in cui i principi di ragionevolezza e proporzionalità sono in grado di esplicare la loro funzione riequilibratrice. Prima fra tutte la fase più delicata, quella dell’individuazione degli interessi meritevoli di tutela, in cui la ragionevolezza si pone come argine all’arbitrarietà delle decisioni. Terreni di sperimentazione fertili, esplorati da Villanacci, sono quelli della salvaguardia dell’ambiente - lacerata nell’incessante ricerca di equilibrio tra la concezione ecocentrica e quella antropocentrica e nel “tentativo di lasciare ai nascituri almeno le stesse opportunità di chi li ha preceduti” - del divieto di maternità surrogata e dell’esigenza di rinegoziazione di patti contrattuali iniqui. Viene poi analizzato il ruolo assunto dal principio di proporzionalità nel diritto amministrativo ove è divenuto strumento di contenimento del potere della pubblica amministrazione a garanzia di diritti e libertà fondamentali nonché mezzo a disposizione del giudice per evitare interpretazioni formalistiche che potrebbero altrimenti trasformare il processo in un fattore di freno dello sviluppo economico. È infine nel settore del diritto dei contratti che il principio di proporzionalità dà i suoi frutti più maturi consentendo al giudice di “controllare l’autonomia negoziale evitando la produzione di risultati illogici” ed impedire abusi nell’esercizio dei diritti. Il libro di Gerardo Villanacci è prezioso perché, restituendo la dimensione poliedrica dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, dà al politico e al giurista gli strumenti per la comprensione della complessità contemporanea e per il suo governo attraverso scelte, normative e giudiziarie, consapevoli ed orientate a perseguire sviluppo e ricchezza in un quadro di giustizia sociale. C’è molto altro da dire su SanPa, ma non è quello che crediamo di Ginevra Lamberti Il Domani, 3 marzo 2021 La docuserie Netflix parla di un tempo lontano e di un luogo simbolo, ma molti dei temi toccati da SanPa riguardano anche le resistenze culturali del nostro presente. Dall’ambito psichiatrico a quello delle dipendenze a quello dei penitenziari si sceglie sempre la strada più economica, come se non valesse la pena investire. A neanche due mesi dal debutto della docuserie SanPa sembra passato già un anno, due, cinque. Per me è stata l’occasione di raccontare una storia famigliare, aprire un faldone e richiuderlo. Ma sgonfiatosi l’hype, ai margini della storia collettiva, sono rimaste delle note appuntate a matita, altre cose da raccontare. L’8 febbraio Vanessa Roghi ha scritto sulle pagine di Domani come la più grande pecca di SanPa sia stata forse quella di relegare il tema delle droghe a una sorta di mondo novecentesco, chiuso nella scatola delle immagini di repertorio. È vero, ha raccontato i passaggi più tetri e irrisolti di un luogo con un nome e una localizzazione così precisi da risultare, infine, scollati dall’oggi, ma è vero anche che quelle note appuntate a matita con l’oggi hanno molto a che fare. Per questo ho contattato due dei testimoni che hanno prestato voce e volto al documentario. Paolo Negri, entrato a San Patrignano nel 1989, nella sua testimonianza esprime un giudizio netto: il metodo applicato in quegli anni, in quel luogo, è il manuale di tutto ciò che nella stragrande maggioranza dei casi non va fatto. Negri non è solo un ex ospite, è anche un educatore che lavora nel campo delle dipendenze da ventisette anni. La seconda voce è quella di Paolo Severi, che nel documentario spiega di venire da Sassuolo e che lì, all’epoca, “o facevi piastrelle o ti drogavi”. Severi però non è solo un ex ospite, è anche una persona che nel 1996 è passata per il carcere e lì ha scritto un diario, divenuto poi il libro “231 giorni” (pubblicato nel 2000 da Frontiera con prefazione di Dario Fo). Paolo Negri è arrivato a San Patrignano quando le presenze erano incrementate da cento a un migliaio nel giro di quattro anni. Da piccolo borgo a cittadella nel giro di niente. Allo stato attuale delle cose, nonostante le intemperie legali del passato, San Patrignano continua a essere una realtà caratterizzata dalla grandezza nel senso più ampio. Grandi gli spazi, grande il numero degli ospiti, grande la produzione di beni agroalimentari e artigianali venduti all’esterno. Quella che fin dai primi tempi si affermò come “Comunità più grande d’Europa” continua a occupare questo primato a quarant’anni di distanza. Oggi, Negri lavora in un centro di pronto intervento con una capienza massima di diciotto ospiti per volta, e dopo decenni di esperienza sul campo spiega il suo punto di vista sulle falle di una realtà centrata su espansione, quantità, numeri. “Gestire mille o più persone non è possibile se non con un sistema basato sulla disciplina di massa. Il rischio è di dare per scontato che tutti quegli individui siano caratterizzati da una sorta di “identità tossica” riprogrammabile con la linea comune dell’ordine millimetrico, dei ritmi di lavoro, del letto rifatto, della tovaglia da apparecchiare seguendo i quadratini della trama. Ma non tutte le persone che utilizzano sostanze sono uguali. Per alcuni con la tossicodipendenza subentrano nevrosi e comportamenti compulsivi, e potrebbero avere addirittura bisogno di essere educati al disordine”. Anche le tempistiche proposte per un percorso completo, a San Patrignano, sono peculiarmente lunghe. Secondo Negri “quando una persona ha fatto tre anni di percorso chiuso all’interno di un mondo iper-organizzato, è facile che il primo fallimento vissuto al di fuori finisca con l’essere devastante”. Tuttavia neanche il fallimento va stigmatizzato, e la stessa bandiera del successo terapeutico a tutti i costi ha poca attinenza con la realtà di chi soffre di disturbi da uso di sostanze, o incorra in altre forme di dipendenza. “Nel mio lavoro incontro persone passate da diverse comunità, e che magari ne escono dopo la terza o quarta esperienza. Non è semplice né immediato trovare la situazione ideale per il proprio caso. Ad esempio alcuni hanno bisogno di gruppi di psicanalisi, e non di una comunità a base lavorativa, le risposte devono essere molteplici come lo sono gli individui”. “Infine” conclude Negri “non trovo sana la retorica delle ragazze e dei ragazzi “salvati”. L’educatore non è un santo, è un professionista che mette a disposizione informazioni e competenze. In altre parole io sono il vigile urbano che incontri quando ti sei perso, posso indicarti delle vie possibili, ma non è che otto anni dopo aver ritrovato la strada devi persistere in uno stato di adorazione per quel vigile urbano. La linea dirimente è dare protagonismo alle persone anziché alle strutture che le ospitano, impegnarsi affinché recuperino se stesse e non affinché diventino ciò che qualcun altro desidera”. Di quello che succede nelle carceri si parla poco, a meno che l’accaduto non meriti il bollino di evento estremo, e come tale si propaghi nel mondo esterno sotto forma di notizia. Nell’ultimo anno “l’estremo” e le sue molte sfumature sono state un po’ la base della vita umana sulla terra e, forse anche per questo, di quel che accade dentro i penitenziari si è parlato di più. Ci sono state le rivolte di marzo, i contagi esponenziali dovuti in buona parte al sovraffollamento, c’è stata la sospensione di qualsiasi attività formativa e l’impossibilità di portare il concetto di Dad ai reclusi. Nel libro-diario di Paolo Severi i temi attuali si sprecano: entrare innocenti e uscire colpevoli, il diritto alla salute negato, la sospensione dei diritti civili, la burocrazia in cui si rischia di perdere tutto, l’importanza di attività connesse con la formazione, la sensazione di essere trattati come animali da allevamento intensivo. Mentre leggevo 231 giorni mi chiedevo, ma allora che cos’è cambiato dal 1996? Secondo Severi, che tuttora collabora con associazioni impegnate nel settore, praticamente niente. “Mentre il mondo fuori è cambiato rapidamente, ad esempio con internet e i social network, all’interno del sistema carcerario vige l’impermeabilità al contemporaneo. È un mondo arcaico con in più il carico di tutti i suoi problemi strutturali. Tuttora si entra neofiti e si esce potenzialmente esperti. La prima volta che entrai era il 1986, ero un ragazzino finito lì per cose da poco. Nella cella di fianco alla mia c’erano un Badalamenti, due pusher della Camorra, un rapinatore. Dopo tre mesi sono uscito con ogni tipo di contatto in ogni settore della malavita”. Per Severi, all’inizio, San Patrignano è stata l’occasione di uscire dal carcere anzitempo per seguire un percorso di recupero nella comunità. Poi la polizia è tornata a prenderlo. Lui racconta che dalla comunità fu “espulso” a causa di una storia clandestina con una ospite. Eppure nel suo libro ripete che indietro non sarebbe mai voluto tornare, anche se sarebbe bastato chiederlo con la giusta dose di pentimento. Perché? “Ho fatto il colloquio per entrare a San Patrignano nel 1992 insieme a “77”, proprio il 77 che viene menzionato dai CCCP nella canzone “Emilia paranoica”. Muccioli fissò la sua data di ingresso per il 18 settembre, ma lui si alzò e disse che non poteva perché aveva il concerto dei Guns N’ Roses. Alla fine lo convinsero, ma scappò nel giro di qualche mese. Si chiamava Marco Trascendi, anche lui era di Sassuolo. Io non sono scappato, ma un giorno mi hanno portato via lo stesso. All’inizio è stato un trauma, soprattutto perché pensavo a mia madre. Ma quando mi hanno messo nella cella spoglia la prima cosa che ho fatto è stato infilare le mani tra le sbarre e aprire la finestra. A Sanpa non potevi neanche aprire le finestre senza chiedere il permesso, ho provato una grande sensazione di libertà. Mi stavo esprimendo attraverso un gesto semplicissimo”. Quindi hai deciso di non tornare? “Quindi ho deciso che avrei cercato in ogni modo possibile di esprimere la mia personalità. Il fatto è che quando penso a Sanpa non penso tanto a una comunità quanto a un luogo in cui, utilizzando una categoria sconfitta e colpevolizzata, si va a creare un modello di società normato, con le donne da una parte e gli uomini dall’altra, a ognuno il suo ruolo come da tradizione, non ci sono obiezioni e va bene anche lavorare gratuitamente”. Paolo Negri racconta che nel suo pronto intervento il rapporto donne e uomini ha sempre visto una netta minoranza delle prime, “a livello di presenze parliamo di un quarto o addirittura un quinto. Oggi abbiamo un boom di donne, sono oltre la metà, quasi tutte con un profilo da alcolista e quasi tutte con compagni violenti e situazioni ulteriormente esacerbate dalla chiusura in casa. Per quanto riguarda la reperibilità delle sostanze da parte dei consumatori, anche durante il primo lockdown, quello è stato un problema relativo. Dobbiamo sempre tenere presente che la persona in sofferenza un modo per raggiungere ciò di cui sente di avere il bisogno tendenzialmente lo trova”. Ma, a prescindere dalla pandemia, va considerato l’apparato legislativo e il clima culturale in cui ci muoviamo. Negri spiega che “in Italia abbiamo un problema di istituzioni ampiamente emerso già con la legge Basaglia. Non è che quel progetto sia fallito, è che non è stato realmente costruito perché ci sono troppe resistenze culturali. Lo stesso principio vale per le dipendenze, dove abbiamo avuto le terribili leggi Jervolino-Vassalli e Fini-Giovanardi, per poi trovarci con operatori dei Serd in difficoltà perché mancano auto aziendali, sistemi operativi, computer. Sia nell’ambito psichiatrico che in quello delle dipendenze si sceglie sempre la strada più economica, come se non valesse neanche la pena investire”. A dispetto di quanto si possa pensare, specie in un’epoca di protagonismo collettivo, esporsi non è facile. A chiusura di una videochiamata di due ore, in cui mi sono confrontata con i due Paolo e troppe cose abbiamo dovuto tagliare, Negri ha raccontato che partecipare a SanPa ha significato innanzitutto parlare con il figlio e con i colleghi, raccontando loro questa sua storia antica e molto privata: “mettere la faccia in questo racconto è stata una scelta forte per tutti”. Ci sono delle persone con storie e vissuti diversi che, a un certo punto di trent’anni fa, sono passate dalla stessa collina senza però incontrarsi davvero. Oggi Paolo Severi, Paolo Negri e molti altri (tra cui Giuseppe Maranzano e Sebastiano Berla, rispettivamente figlio di Roberto Maranzano e fratello di Natalia Berla) collaborano attivamente per mantenere la memoria di quanto accaduto. Tutti i materiali da loro raccolti sono consultabili sul sito lamappaperduta.com. Speravano che la docuserie Netflix aprisse al dibattito su questioni rimosse o ignorate, che non hanno certo a che fare solo con quella struttura e solo con quel tempo. In fondo lo sperano ancora. Arcipelago Covid di Fabrizio Pezzani L’Opinione, 3 marzo 2021 Il presente articolo si richiama all’opera “Arcipelago Gulag” scritta da Aleksandr Solzenicyn sul sistema dei campi di lavoro forzato nell’Urss. Durante il regime comunista, l’utilizzo sistematico della giustizia politica disseminò l’Unione Sovietica di campi di concentramento e di isolamento. Il Gulag descritto da Solzenicyn (Direzione generale dei campi e dei luoghi di detenzione) era un’istituzione penitenziaria volta a rieducare il prigioniero spesso tramite il lavoro. Oggi con la parola “Gulag” si intende spesso, oltre alla narrazione storica in senso traslato, qualsiasi contesto strutturale che genera una limitazione delle libertà personali, in virtù di fatti o disposizioni normative che creano una sorta di segregazione non solo fisica ma anche sociale ed interpersonale. La situazione attuale sociale e sanitaria determinata dalla pandemia Covid sembra riprodurre, a suo modo, una sorta di “Arcipelago Covid” in cui le misura di deterrenza della forma virale toccano le libertà personali, le possibilità relazionali e creano con le misure di blocco coercitive una sorta di società sotto scacco, in una sorta di controllo normativo-burocratico lontano dalla realtà, assolutamente asettico di fronte all’emozionalità in crisi della società ed incapace di risolvere i problemi. Questo controllo “legale” non sembra in grado di mediare le forme di proibizioni relazionali con la necessaria attenzione alla piaga del disagio sociale dell’isolamento e dalla lontananza di istituzioni, che sembrano eteree; l’isolamento forzato senza forme compensative diventa una forma di offuscamento dell’individuo come persona. In questo modo, l’equilibrio e la stabilità sociale vengono messi in crisi e con esse l’identità delle singole persone, che sembrano essere perse tra le infinite righe, commi, articoli, Dpcm. di una burocrazia che nasconde con una complicazione ottusa la sua incapacità di dare una risposta ai problemi veri, che sono la tutela non tanto della libertà personale ma dell’equilibrio psichico delle singole persone, come dimostrano i tanti casi giornalieri di autodistruzione. In questo Arcipelago Covid le persone sembrano muoversi in una sorta di deserto kafkiano in cui non vi sono certezze ma solo paure, disagi sociali e domande a cui non sembrano esistere risposte ed una sostanziale mancanza di empatia sociale, che distrugge il senso di essere persona. A fronte di questo dramma, non solo sanitario ma di sistema e di equilibrio sociale, si affianca in modo parallelo un circo Barnum di giornalisti autoreferenziali e supponenti, epidemiologici illustri, politici persi in una bolla soffocante e distruttiva... tutti a promuovere se stessi ma non il bene comune. Sono tutti a difendere punti di vista molto diversi e talvolta contraddittori tra di loro, sia sulle misure da adottare, sia sui possibili nuovi rimedi per rispondere all’emergenza. Tutte queste controversie hanno introdotto dubbi, paure, incertezza nella mente dei cittadini, che rimangono senza risposte in una sorta di alienante isolamento dalle istituzioni, che dovrebbero essere preposte a tutelare i cittadini e non a sopravvivere a se stesse. La decadenza del nostro modello culturale ha trovato con il Covid la massima evidenza del suo fallimento, della sua incapacità di costruire un benessere comune ma funzionale a favorire interessi particolari da realizzare, anche illecitamente. L’Arcipelago Covid ci mette a contatto con l’incertezza della vita che sembrava allontanata dalle scoperte scientifiche, la tecnica innalzata a virtù suprema ha ingannato l’uomo portandolo a sognare un mondo inesistente. Forse questa situazione può fare riflettere sul senso dell’economia che deve essere un mezzo e non un fine nella società, sulla necessità di riscoprire il senso di solidarietà ed il ritorno a produzioni locali, all’abbandono di una finanza illusoria e fallimentare, alla ricostruzione di una classe dirigente che abbia, come nel Dopoguerra, il senso sociale e veda la politica come una virtù umana e non solo come la realizzazione di fatui interessi particolari. Forse allora l’Arcipelago Covid potrà portare, dopo il dolore, la saggezza. Perché come scriveva Eschilo con il suo “pathei mathos” (“conoscere soffrendo”) sembra che solo con il dolore l’uomo riacquisti la saggezza. Deepfake e riconoscimento facciale: la libertà minacciata dagli algoritmi di Andrea Daniele Signorelli Il Domani, 3 marzo 2021 Dalla manomissione di foto e video privati poi diffusi in rete come materiale porno, fino all’utilizzo spregiudicato di tecnologie che ha provocato l’arresto di persone innocenti. Sono questi i rischi concreti dell’intelligenza artificiale. Potrei dirvi che Donald Trump è uno str*nzo”, afferma Barack Obama in un video visto su YouTube da oltre 8 milioni di persone. Eppure, l’ex presidente degli Stati Uniti non ha mai pronunciato quelle parole. Assieme a Vladimir Putin, Mark Zuckerberg e perfino Matteo Renzi, Obama (il cui video è stato però creato a scopi educativi) è infatti una delle vittime più note del deepfake: la tecnologia che sfrutta l’intelligenza artificiale per sovrapporre, nelle foto o nei video, il volto di una persona al corpo di un’altra, ricreandone anche la voce e sincronizzando il labiale. Uno strumento di cui negli ultimi anni si è parlato soprattutto per il timore che desse vita a una nuova forma di fake news, in cui affermazioni di ogni tipo potevano essere messe in bocca a personalità del mondo politico o economico. Eppure i deepfake hanno un’origine molto diversa e le vittime principali di questa tecnologia non sono certo i politici. È il dicembre 2017 quando la giornalista statunitense Samantha Cole scopre che un utente di Reddit - nascosto proprio dietro lo pseudonimo “deepfakes” - ha progettato e reso disponibile a tutti i frequentatori del sito un algoritmo di intelligenza artificiale specializzato in quello che in gergo si chiama face swapping (scambio dei volti), e che viene utilizzato su Reddit quasi esclusivamente per sostituire il volto di attrici di film porno con quello di celebrità del mondo dello spettacolo. Il rischio che si cela dietro uno strumento di questo tipo viene subito individuato dalla reporter: chiunque potrebbe trasformare una qualunque persona nella protagonista di un video porno, basta possedere un numero di fotografie sufficienti ad addestrare l’algoritmo di intelligenza artificiale. Ci aveva visto giusto: le vittime di questa tecnologia sono oggi principalmente persone comuni, nella quasi totalità dei casi donne, che si ritrovano contro la loro volontà protagoniste di filmati porno manomessi e disseminati in rete. Secondo uno studio compiuto dalla società di ricerca Sensity AI, tra il 90 e il 95 per cento dei video deepfake scovati su internet dal dicembre 2018 a oggi rientrano nella categoria del porno non consensuale. Di questi, nel 90 per cento dei casi la vittima è una donna. Ad alzare il velo su questa forma ancora più subdola di revenge porn - la diffusione online di foto sessualmente esplicite senza il consenso della persona ritratta - è recentemente stata la poetessa e conduttrice britannica Helen Mort, che ha raccontato alla Bbc e ad altre testate come pochi mesi fa abbia casualmente scoperto in rete la presenza di immagini pornografiche manomesse, assolutamente verosimili, realizzate a partire da alcune sue normalissime fotografie, pubblicate da lei stessa sui social network tra il 2017 e il 2019. Dopo aver compiuto qualche ricerca e scoperto dell’esistenza della tecnologia dei deepfake, Helen Mort ha chiamato la polizia per denunciare l’accaduto, sentendosi però rispondere dagli agenti che non avrebbero potuto farci niente. Nonostante il revenge porn sia ormai un reato in moltissimi paesi (compresa l’Italia), a oggi nessuna nazione si è dotata di strumenti legislativi per impedire la manomissione non consensuale di fotografie prive di diritto d’autore. Un vuoto legislativo che ha permesso all’autore delle finte immagini pornografiche con protagonista Helen Mort di sfuggire a qualsiasi indagine e quindi di non venire mai identificato. E che soprattutto ha favorito la moltiplicazione dei software per la creazione di deepfake, facilmente reperibili online e scaricabili anche sotto forma di applicazioni per smartphone. Sempre secondo le ricerche di Sensity AI, per esempio, circa 100mila persone, incluse ragazze minorenni, sono state vittime del bot di Telegram noto come DeepNude. A differenza delle immagini photoshoppate che circolano in rete fin dagli albori del web, le immagini e i video creati con deepfake non solo sono difficilmente riconoscibili in quanto falsi, ma possono essere creati anche da chi non possiede nemmeno una rudimentale competenza informatica. Basta un click sul software giusto per disseminare su internet immagini che, inevitabilmente, continueranno ciclicamente a riemergere e a perseguitare le vittime. Ma l’utilizzo di immagini scaricate anche dai social network e inserite in software di intelligenza artificiale usati con colpevole leggerezza non è solo all’origine dei deepfake. Un meccanismo simile è infatti anche la causa dell’arresto e della temporanea detenzione, negli ultimi 12 mesi, di almeno tre cittadini statunitensi innocenti. In questo caso, però, il porno non c’entra e la responsabilità non è degli utenti di Reddit o di Telegram, ma di agenti delle forze dell’ordine delle città di Detroit e dello stato del New Jersey e di uno strumento per la sorveglianza noto come riconoscimento facciale: un algoritmo che confronta le persone riprese da una videocamera di sicurezza con un database di foto personali, allo scopo di identificare un sospetto. Come ha più volte dimostrato l’American Civil Liberties Union, questa identificazione è però tutt’altro che accurata. In un noto studio della ACLU del 2018, il software di riconoscimento facciale Rekognition, di proprietà di Amazon e venduto per lungo tempo alle polizie di tutto il mondo, ha per esempio scambiato per comuni criminali 28 rappresentanti del Congresso statunitense. Una ricerca commissionata dal NIST, agenzia governativa statunitense specializzata in tecnologia, ha invece mostrato come il software di riconoscimento facciale della società Rank One Computing fosse da 10 a 100 volte meno accurato quando doveva riconoscere volti di persone afroamericane o asiatiche rispetto ai volti di persone bianche. Non è quindi un caso se, nel corso del 2020, le tre persone erroneamente arrestate negli Stati Uniti a causa di uno sbaglio del software di riconoscimento facciale - Robert Williams, Michael Olivier e Nijeer Parks - fossero tutte di colore. Una gravissima anomalia che ha portato la deputata statunitense Alexandria Ocasio-Cortez a denunciare il “razzismo degli algoritmi”, causato con tutta probabilità dal fatto che per l’addestramento di questi sistemi vengono usate immagini stock - scaricate dagli archivi delle agenzie fotografiche - composte in larghissima parte da uomini bianchi. Il risultato è che, inevitabilmente, gli strumenti di riconoscimento facciale sono accurati quando si tratta di riconoscere uomini bianchi, meno accurati quando si tratta di uomini di etnie diverse e per niente accurati quando le persone da riconoscere sono, per esempio, donne nere. È anche per questa ragione che in città come San Francisco od Oakland le tecnologie di riconoscimento facciale sono state messe al bando, e che colossi come Ibm, Microsoft o Amazon hanno sospeso la vendita dei loro software alle forze dell’ordine. Allo stesso tempo, però, società meno note e dai nomi come Vigilant Solutions, Cognitec, Rank One Computing e Clearview AI continuano a fornire i servizi di facial recognition che si stanno nel frattempo diffondendo in Europa e anche in Italia. Dalle videocamere dotate di riconoscimento facciale installate nel parco di Como (e di prossima installazione anche a Firenze) alla sorveglianza eseguita per strada dalle forze dell’ordine londinesi, fino in Francia, dove il riconoscimento facciale è stato usato nelle scuole superiori e anche per identificare i manifestanti: questi casi, riportati dall’organizzazione italiana Hermes Center, fanno temere non solo che si usino con superficialità strumenti che penalizzano proprio le fasce della popolazione già discriminate, ma anche che la cittadinanza venga sottoposta a sorveglianza di massa senza nemmeno avere voce in capitolo. I deepfake e il riconoscimento facciale mostrano quindi quali siano i rischi concreti posti oggi dall’intelligenza artificiale e quali siano i temi a cui la politica e la società civile dovrebbero prestare più attenzione. Da questo punto di vista, però, qualcosa si muove: nel Regno Unito e negli Stati Uniti, per esempio, sono state depositate nuove proposte di legge, o emendamenti a leggi già esistenti, allo scopo di ampliare il reato di revenge porn anche alle immagini manomesse tramite sistemi di deepfake o simili. Per quanto invece riguarda il riconoscimento facciale, il 17 febbraio la coalizione Reclaim Your Face - sostenuta dall’Hermes Center con il supporto dell’Associazione Luca Coscioni, di Privacy Network e altre realtà - ha lanciato un’iniziativa che mira a raccogliere un milione di firme in sette paesi Ue nel corso dei prossimi 12 mesi, con lo scopo di “vietare l’uso di algoritmi di intelligenza artificiale che possono arrecare danni alla cittadinanza, come la sorveglianza biometrica di massa”. Una raccolta firme organizzata all’interno del programma Eci (Iniziativa cittadini europei) dell’Unione europea e che quindi, se avrà successo, obbligherà la Commissione europea ad aprire un dibattito sul tema con gli stati membri del parlamento europeo. Un Podcast racconta l’autolesionismo: storie di ragazze interrotte, dalle ferite alla rinascita di Valeria Pini e Anna Silvia Zippel La Stampa, 3 marzo 2021 Per la giornata mondiale “Self-injury Awareness Day”, pubblichiamo “Niente più cicatrici”, di Sara Sartori: un racconto in prima persona, un’immersione nel mondo interiore di due giovanissime che hanno sofferto e poi curato le proprie ferite grazie a un profondo percorso terapeutico. E un’intervista alla neuropsichiatra che le ha aiutate. “La prima volta è stato un graffio, fatto quasi senza pensarci. Avevo trovato un modo per dire: ecco, io sto soffrendo”. Angela e Franca non si conoscono, ma hanno entrambe appena 13 anni quando iniziano a ferirsi. Sole, chiuse in bagno, di nascosto. Spesso quando i genitori sono fuori, senza che ci sia ogni volta una precisa causa scatenante. Gesti inizialmente inconsapevoli che a poco a poco diventano rituali. Parliamo di autolesionismo, atti compiuti con l’intento di farsi male e affrontare il dolore dell’anima. Un rituale che dà al tempo stesso dipendenza, sicurezza e la momentanea illusione di sentirsi meglio, di emergere dal buio. Un autolesionismo che spesso include anche gravi disturbi alimentari. I corpi sotto assedio di Angela e Franca diventano il diario esteriore del male che provano dentro, il campo di una battaglia che le conduce entrambe, poco più che tredicenni, a tentare il suicidio. Questo è il loro racconto. Nell’audio documentario “Niente più cicatrici” ascoltiamo le voci di Angela e Franca, raccolte da Sara Sartori, giornalista e autrice radiofonica, in collaborazione con la dottoressa Arianna Terrinoni, dirigente medico nel reparto di Neuropsichiatria Adolescenti dell’Ospedale Policlinico Umberto I di Roma, che ha seguito e sostenuto le due ragazze nei loro percorsi di guarigione. Un podcast che racconta in prima persona, con sensibilità, cos’è l’autolesionismo, fenomeno in crescita che sempre più spesso conduce i giovanissimi a ricercare la morte. Ma le voci di Angela e Franca ci dicono soprattutto come entrambe, oggi, possano raccontare quel che hanno attraversato da una prospettiva diversa, raggiunta dopo aver fatto un profondo percorso di terapia durato diversi anni, grazie all’aiuto di specialisti fra i quali la dottoressa Terrinoni, che ci spiega: “Angela arriva in reparto ricoverata d’urgenza a soli 13 anni e mezzo, con una prima diagnosi di grave disturbo d’ansia. Anche Franca è ancora una bambina quando viene ricoverata per tentato suicidio, ma in un’altra struttura. E quando ne ha 17, viene portata nel mio studio per iniziare una nuova terapia”. “Quando ho parlato con la dottoressa Terrinoni della mia idea di fare questo audio documentario - racconta l’autrice del podcast, Sara Sartori - lei ha individuato queste due pazienti poiché le riteneva in grado di esporsi e raccontare con la giusta distanza il loro trascorso, anche perché ne sono ormai fuori. E quando ho incontrato Angela e Franca, mi sono resa conto che per loro era molto naturale parlare di ciò che avevano attraversato. La cosa che mi ha colpito è che entrambe fossero consapevoli del fatto che queste cose possono succedere a tutti, che non ci deve essere un tabù. Parlarne era per loro anche una forma di riscatto, come dire “Ecco, io esisto”. Per questo non ci sono esperti o narratori, volevo renderle completamente protagoniste, volevo provare a fare immergere l’ascoltatore nel loro mondo. Le storie di queste due ragazze ci accompagnano in riflessioni e pensieri che sembrano indicarci una strada da percorrere”. Come è stato per Angela e Franca, tantissimi adolescenti hanno bisogno di aiuto e assistenza specialistica, ma in tutta Italia ci sono solamente fra gli 80 e i 92 posti letto di Neuropsichiatria infantile e adolescenziale. Molte regioni non li hanno proprio e si appoggiano ai reparti di pediatria o, peggio ancora, ai reparti psichiatrici per adulti. Lo stesso Ospedale Policlinico Umberto I di Roma è in attesa da quattro anni che venga finalmente reso operativo il nuovo reparto di Neuropsichiatria Adolescenti, già esistente ma ancora chiuso, con il quale si potrebbero aggiungere otto posti letto agli otto già operativi. Angela oggi ha 21 anni e, come sentiamo nel podcast, ama molto cantare. Franca di anni ne ha 19, si è trasferita negli Stati Uniti e vuole diventare medico. Entrambe seguono tuttora una terapia di supporto, ma stanno bene e possono raccontarlo. Perché uscirne è possibile se si viene curati e per questi ragazzi e ragazze in difficoltà c’è un modo per costruirsi un futuro. L’importante è trovare la terapia giusta. Il reparto di Neuropsichiatria Adolescenti dell’Ospedale Policlinico Umberto I di Roma, ogni anno aiuta decine di giovani ad affrontare questi disturbi. Professoressa Terrinoni come aiutate questi ragazzi “fragili”. Che tipo di terapia avete scelto? “Per questa tipologia di pazienti diamo indicazione e adottiamo la DBT-A (Dialectical Behavoiur Therapy for Adolescents), la più usata nei casi di autolesionismo. Il paziente viene inizialmente ‘addestrato’ a seguire comportamenti non disfunzionali che lo inducano a contrastare l’impulso che lo spinge a farsi male. Il format standard è una terapia individuale con il ragazzo accompagnata da quella di gruppo multifamiliare. Per noi l’obiettivo è mettere il giovane paziente in una situazione di protezione e sopravvivenza imparando a riconoscere le sue emozioni, successivamente se lo vorrà potrà seguire seguire anche altri percorsi psicoterapeutici”. Quali sono i fattori di rischio in questo tipo di patologia? Come accorgerci che l’adolescente sta male? “Sono malattie subdole e aspecifiche, spesso difficili da riconoscere. Tutte le condotte autolesive costituiscono un serio segnale d’allarme e possono essere o non accompagnate da alterazioni dell’umore improvvise o da un mancato controllo delle emozioni, come dell’impulsività. Ma anche un declino scolastico o un progressivo ritiro sociale vanno tenuti d’occhio”. A volte i genitori non si accorgono delle condotte autolesive “Spesso i ragazzi nascondono sapientemente il loro corpo con magliette a maniche lunghe in piena estate o con elastici o bracciali sui tagli. Tengono in posti segreti della stanza strumenti contundenti o lasciano pigiami o lenzuola con macchie di sangue. Tutto va osservato e potrebbe essere un indizio di un attacco al corpo. I ragazzi in questa condizione si chiudono a lungo in bagno e rifiutano qualsiasi tipo di incursione dei genitori nelle loro camere”. C’è una definizione scientifica di questo attacco al corpo. In fondo anche nei disturbi alimentari si aggredisce il proprio corpo non mangiando o mangiando troppo. “Nel 1990, lo psichiatra italo-americano Armando Favazza definì le condotte autolesive (Self-Injurious Behavoiur oggi NSSI) come atti distruttivi e intenzionali rivolti verso diverse parti del corpo, senza intento suicidario. Possono essere distinte in forme dirette, ad esempio, attraverso una lametta o un coltello, oppure in indirette mediante abuso di sostanze o farmaci. Anche il vomito autoindotto può far parte di queste”. Come fate a conquistarvi la fiducia di questi ragazzi che spesso vogliono nascondersi? “Non li giudichiamo. Accettare il sintomo è parte della cura. Se un ragazzo resta completamente in silenzio durante la visita, cerchiamo di fargli capire che siamo lì per aiutarlo, che lui/lei non è una perdita di tempo. È il suo punto di vista che ci porta, ed è un momento che va onorato. Ci capita così di aprire lentamente un varco e di riuscire a dialogare dopo lunghi silenzi”. Covid ha peggiorato le cose o ha solo portato a galla problemi già presenti? “Il coronavirus è sicuramente stato un potente acceleratore e ha anche peggiorato alcune situazioni. La prima ondata è stata meno problematica. Molti ‘ritirati sociali’ erano molto felici di stare a casa, ma tanti ragazzi lentamente non hanno accettato la mancanza di socialità. Il secondo lockdown è stato molto più pesante. Gli adolescenti hanno bisogno di Regolatori mentali, quindi la famiglia, le relazioni, le associazioni sportive, che aiutano i ragazzi a costruirsi le giornate e a strutturarsi. Il Covid li ha strattonati dentro ritmi nuovi e alterati, ha abbassato ancora di più le aspettative per il futuro, è aumentata la precarietà e l’incertezza, e per molti quelli più vulnerabili c’è stato anche il problema di una minore possibilità di accesso alle cure”. Come si strutturano le giornate dei ragazzi nel vostro reparto? “In genere i pazienti arrivano tramite il pronto soccorso al nostro reparto dopo un episodio di autolesionismo o in caso di un TS o di un’acuzie psichiatrica. Cerchiamo di favorire le loro risorse personali che saranno il terreno per una cura. In genere un ricovero dura una media di 15 giorni. Le loro giornate sono scadenzate da varie attività perché non li trattiamo solo come pazienti. Restano innanzitutto adolescenti. Seguono le lezioni scolastiche, vanno in biblioteca, fanno esercizio fisico e vanno anche in piscina. Poi ci sono le passeggiate nel quartiere, i giochi con la Wi e, seguiti da un operatore, possono navigare in rete. Nascono amicizie a volte profonde. Ma ci sono anche le crisi, impetuose, protratte; i momenti difficili. In ogni caso cerchiamo di creare un’alleanza con i ragazzi”. Fra i problemi nei casi di autolesionismo c’è quello dell’emulazione… “È spesso un fattore d’innesco a cui bisogna fare attenzione ed è un effetto che conosciamo bene anche in reparto. Se arriva un ragazzo che si taglia sappiamo che potrebbe influenzare seriamente anche gli altri. Cerchiamo di spiegare ai ragazzi il pericolo di questi gesti, ma sempre con un approccio non giudicante”. In questo tipo di disturbo psichico si parla molto di familiarità… “C’è una componente genetica, una maggiore vulnerabilità biologica, ma non è solo questo. Contano diversi fattori e in modo particolare l’ambiente in cui il ragazzo vive. Se al bambino non viene fornito un corretto rispecchiamento emotivo, tra lui e l’ambiente si innescheranno disfunzioni sempre maggiori fino alla strutturazione di un vero disturbo psichico. Anche i traumi hanno un ruolo importante. Va inoltre ricordato che gran parte delle malattie psichiatriche esordiscono proprio in adolescenza. Prima si accede alle cure e prima si può sempre gestire questa malattia”. Quando un ragazzo cerca di togliersi la vita o si provoca volontariamente una lesione si parla spesso di atto dimostrativo. Cosa ne pensa? “Secondo la mia opinione non esistono atti dimostrativi. Spesso quando gli adulti catalogano in questo modo un episodio di questo tipo, il ragazzo lo ripete e si danneggia anche di più. Bisogna fare attenzione e interpretare queste azioni comunque come un bisogno autentico di attenzione. Non vanno sottovalutate. Bisogna stare accanto a questi adolescenti curarli e sostenerli in un momento critico della loro vita”. Si parla molto anche dell’effetto dei social su questi gesti… “In passato si diceva che i giovani self-harmer emulassero gli emo, per il loro look particolare, o volevano identificarsi con un Johnny Depp o una Amy Winehouse. La malattia psichiatrica, il personaggio sopra le righe, il “dannato”, hanno sempre avuto un fascino perverso sui ragazzi. Oggi la rete offre di tutto: grandi opportunità ma anche modelli ‘sbagliati’ da seguire, strade pericolose. Gli adulti devono monitorare tutto questo, incuriosirsi con loro verso questo mondo sconosciuto. Gli adolescenti non vanno dimenticati nelle loro stanze, perché la rete può essere insidiosa”. Come aiutate i genitori? “I genitori vanno educati e supportati. Va data loro una restituzione diagnostica e fornite tutte le informazioni sull’utilità dei farmaci che restano comunque sempre una cornice della cura. Devono interpretare l’atto autolesivo del figlio secondo molteplici significati. Può rappresentare un’autopunizione del ragazzo, l’incapacità di tollerare gioia o tristezza o semplicemente, l’impossibilità di fare i conti con la noia. È difficile fronteggiare il vuoto in una società in cui tutto è organizzato. Spesso svincolarsi dall’infanzia e crescere può causare un grande disorientamento. Quando un adolescente tenta il suicidio lo fa perché ambisce forse ad una seconda vita o ad un’altra possibilità. Devono capire che possono immaginare un futuro possibile anche nelle loro vite. Inoltre va combattuto il fascino del disturbo mentale. L’identità negativa dà uno stigma ma può dare comunque una forma: è attraente sì ma alla lunga è solo distruttiva”. “Mai più schiavi”. Operai pakistani in lotta contro lo sfruttamento di Riccardo Chiari Il Manifesto, 3 marzo 2021 Diritti negati. Da 40 giorni in sciopero e da 20 in presidio permanente i lavoratori immigrati, costretti dalla proprietà cinese della stamperia tessile Texprint di Prato a turni di 12 ore per 7 giorni la settimana. Li sostiene il Si Cobas, sabato manifestazione in piazza del Comune. “Mai più schiavi”. Lo striscione appeso alla cancellata della Texprint, stamperia a conduzione cinese nel Macrolotto industriale di Prato, spiega meglio di tante parole l’ennesimo caso di sfruttamento della manodopera immigrata e l’illegalità diffusa nel settore tessile. A protestare da quasi un mese sono operai in maggioranza pakistani, costretti a turni di 12 ore giornaliere per 7 giorni la settimana, più del doppio del monte ore previsto dai contratti di lavoro del settore. Va da sé che non ci sono straordinari, tutto quanto è di fatto imposto dai titolari della stamperia come turno ordinario. Una situazione intollerabile, venuta a galla quando i lavoratori hanno intrapreso uno sciopero a oltranza con presidio permanente davanti alla fabbrica, giorno e notte, con il sostegno del sindacato di base Si Cobas. A scioperare sono una ventina di operai sui circa 50 addetti della Texsprint, dove lavorano anche una ventina di impiegati per un totale di 70 dipendenti complessivi. Una lotta che ha già portato per due volte all’intervento delle forze dell’ordine, assai sollecite a strattonare, immobilizzare, e anche ammanettare per qualche minuto i lavoratori sdraiati a terra per impedire carichi e scarichi dei tessuti stampati per diverse committenze. “Questi operai chiedono la regolarizzazione dei rapporti di lavoro - spiegano Luca Toscano e Sarah Caudiero dei Si Cobas - cioè la fine dell’utilizzo illecito dei contratti di apprendistato, un classico escamotage per pagare meno e mantenere la precarietà, con la trasformazione in rapporti a tempo indeterminato. Poi il rispetto del contratto collettivo nazionale e quindi degli orari di 8 ore per 5 giorni la settimana. E ancora il riconoscimento di due giorni di riposo, la possibilità di avere le ferie, e la regolarizzazione del personale che lavora senza contratto”. Un fatto quest’ultimo certificato a gennaio dall’Ispettorato del Lavoro di Prato, che non ha impedito però all’azienda cinese, convocata in Prefettura per un tentativo di mediazione, di alzare un muro, rifiutando ogni trattativa sulle posizioni contrattuali dei lavoratori. “Come unica possibilità di soluzione della vertenza - puntualizzano Toscano e Caudiero - la Texprint si è detta disposta a riconoscere dei soldi a tutti gli iscritti al sindacato, in cambio della risoluzione dei rapporti di lavoro. È evidente la volontà di far fuori il sindacato e i lavoratori che hanno avuto il coraggio di denunciare lo sfruttamento. Un operaio recentemente ha perso una falange delle dita, e ci sono altri infortuni gravi nascosti dall’azienda che, accompagnando i feriti al pronto soccorso, ha fatto pressioni perché dichiarassero diverse circostanze dell’infortunio”. In questo patologico contesto, l’anno scorso la Texprint ha comunque avuto un finanziamento pubblico di 354mila euro per la produzione di mascherine antivirus, con un investimento dell’azienda di 472mila euro. Ma anche questa produzione, ricordano i lavoratori, si è basata sullo sfruttamento. Mentre in autunno, appena ricevute le deleghe, tutti i lavoratori sindacalizzati sono stati posti di cig. Con causale Covid. Sabato il Si Cobas manifesterà in piazza del Comune: “Dopo 40 giorni di sciopero e 20 di picchetto permanente - chiudono Caudiero e Toscano - abbiamo avuto il sostegno di decine di cittadini, che hanno portato aiuti concreti: cibo, tende, mascherine, disinfettante, gazebo, batterie, legna, ombrelloni, frutta, brandine e coperte. Dimostrando che i lavoratori non sono soli nella loro battaglia per la dignità, e il rispetto delle leggi sul lavoro e del contratto nazionale”. Corridoi umanitari, una buona pratica che dobbiamo rilanciare di Paolo Naso Avvenire, 3 marzo 2021 Cinque anni fa - era il 29 febbraio 2016 - arrivavano in Italia i primi beneficiari dei Corridoi Umanitari promossi dalla Federazione delle Chiese Evangeliche (Fcei), dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Tavola valdese: 24 famiglie per quasi cento persone, uomini, donne e bambini che in poche ore erano passati da un campo profughi in Libano alla richiesta d’asilo all’aeroporto di Fiumicino. In cinque anni oltre duemila profughi, in massima parte siriani, hanno potuto beneficiare di questa procedura grazie a protocolli sottoscritti dagli enti promotori con i Ministeri dell’Interno e degli Esteri. A seguire, iniziative analoghe sono state realizzate ancora in Italia promosse dalla Cei attraverso la Caritas, ma anche in Francia, Belgio e Andora. Un esperimento esplicitamente ispirato al modello dei corridoi umanitari ‘italiani’ è stato avviato in Germania. In Italia i promotori dei Corridoi Umanitari sono stati evangelici e cattolici che, insieme, hanno cercato di reagire alle ripetute notizie delle stragi in mare. La data del 3 ottobre 2013 quando a largo di Lampedusa morirono 368 migranti era ancora ben impressa nella mente, così come l’immagine delle centinaia di bare ordinatamente disposte nell’hangar dell’aeroporto dell’isola. In quell’occasione il cordoglio fu più unanime di quanto non sarebbe oggi, e i Corridoi Umanitari furono una delle risposte più concrete e immediatamente praticabili che si potessero immaginare. Il regolamento visti del Trattato di Schengen, infatti, prevede il rilascio di ‘visti umanitari’ che consentono a persone in condizione di documentata vulnerabilità di accedere a uno dei Paesi dell’Area di libera circolazione. Grazie alla collaborazione dei Ministeri interessati, ricorrendo per la prima volta a questa procedura, si attivò un meccanismo che coinvolgeva attori istituzionali ed espressioni della società civile. Gli operatori delle Chiese evangeliche e della Comunità di Sant’Egidio si attivarono in Libano per individuare casi di evidente vulnerabilità che venivano segnalati alle autorità consolari che, dopo le verifiche di sicurezza, concedevano il visto che consentiva ai beneficiari di imbarcarsi su un aereo e di arrivare legalmente in Italia. Ma questa è solo la prima parte del modello dei Corridoi; l’altra, forse la più importante, è quella dell’inserimento in Italia, un vero e proprio processo di integrazione che prevede, tra l’altro, l’apprendimento dell’italiano, la formazione al lavoro, l’inserimento dei figli a scuola. Le storie di beneficiari che hanno aperto attività commerciali, che si sono laureati nelle nostre università, che hanno trovato lavoro sono molte e ben documentate: vite spezzate che si sono ricomposte, persone uccise dalla disperazione che sono risorte grazie a una mano che è stata tesa loro da gruppi locali, parrocchie, chiese, associazioni anche laiche che si sono messe insieme per sostenere il progetto dei Corridoi Umanitari. Concluso anche il secondo protocollo, superati i problemi determinati dalla pandemia, ora è tempo di ripartire con un’iniziativa più coraggiosa da attuarsi a livello sia nazionale che europeo: un nuovo accordo che preveda l’accoglienza di beneficiari provenienti anche da altri Paesi oltre al Libano e la possibilità di iniziative umanitarie di emergenza: ad esempio accogliendo con la stessa procedura profughi dalla Bosnia. Ma anche un’azione in sede europea per aprire un corridoio umanitario dalla Libia a difesa dei diritti umani e per attuare un serio contrasto allo human trafficking. La retorica anticostituzionale e disumana dei respingimenti in mare non ci ha portato lontano. E neanche quella degli accordi capestro con Paesi che non garantiscono diritti umani fondamentali. Occorre altro, certamente piani di cooperazione e di stabilizzazioni dei Paesi dove si raccolgono i migranti, ma anche vie d’accesso sostenibili, legali e sicure per i Paesi dell’Unione Europea. Probabilmente non è una proposta popolare né politicamente remunerativa. Ma, come diceva Martin Luther King, alcune cose non vanno fatte né perché vantaggiose né perché ci portano consenso, ma semplicemente perché sono giuste. Siria. Decine di migliaia di detenuti scomparsi nel corso del conflitto di Piera Laurenza sicurezzainternazionale.luiss.it, 3 marzo 2021 Un rapporto delle Nazioni Unite ha rivelato che decine di migliaia di siriani, detenuti “arbitrariamente” nel corso del conflitto, sono scomparsi e il loro destino è al momento ignoto. Il rapporto, che si prevede verrà presentato al Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu l’11 marzo prossimo, si basa su più di 2500 interviste condotte nel corso degli ultimi dieci anni. Il quadro presentato, definito “orribile”, include violazioni dei diritti umani, torture sistematiche, stupri e altri crimini perpetrati all’interno di circa 100 strutture di detenzione in Siria sin dallo scoppio del conflitto, il cui inizio risale al 15 marzo 2011. A detta degli autori della relazione, ovvero “investigatori” delle Nazioni Unite, molte di queste violazioni sono paragonabili a crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Quanto raccontato è stato poi definito un “trauma” che influenzerà la società siriana per decenni. Stando a quanto riferito da un membro della commissione onusiana, Hanny Megally, la detenzione arbitraria ha rappresentato una forma di punizione impiegata contro oppositori e voci critiche legate ad entrambe le parti belligeranti, sebbene sia stata utilizzata soprattutto dal governo di Damasco affiliato al presidente siriano Bashar al-Assad. Come precisato da Megally, scopo delle autorità siriane era intimidire e terrorizzare la nazione e, per fare ciò, i siriani detenuti sono stati vittima di “trattamenti brutali”. Sono migliaia i cittadini scomparsi con la forza, per mano del governo damasceno, i quali si pensa siano morti o giustiziati, mentre altri sono tuttora trattenuti in condizioni definite “disumane”. Tali azioni, è stato poi affermato, sono state perpetrate nonostante gli alleati e gli attori terzi che sostengono le parti impegnate nel conflitto fossero a conoscenza di quanto accaduto. Motivo per cui, secondo Megally, sono proprio tali Stati terzi a doversi impegnare per scoraggiare comportamenti simili, dalla tortura alla detenzione arbitraria, all’uccisione o sparizione forzata di detenuti, fino alla violenza di genere contro prigionieri. Al contempo, è stato evidenziato come dovrebbero essere gli stessi sostenitori a porre fine alle forme di sostegno, sia finanziario sia in termini di armi, contro i diversi gruppi armati. “Le sofferenze di centinaia di migliaia di familiari devono terminare” è stato ribadito, esortando le parti coinvolte a rivelare il destino dei prigionieri, al momento ignoto, attraverso la creazione di un meccanismo internazionale, con cui localizzare le persone scomparse e i loro resti. Parallelamente, è stata messa in luce la necessità di rilasciare coloro che sono ancora detenuti, viste le minacce derivanti dalla diffusione della pandemia di Covid-19 in prigioni sovraffollate, altresì caratterizzate da condizioni igienico-sanitarie precarie. Il rischio è che il virus si diffonda, in un secondo momento, anche nelle aree circostanti, divenendo, in tal modo, una seria minaccia per l’intero Paese. Alla luce di un quadro simile, è stato chiesto che gli autori dei crimini denunciati siano portati dinanzi alla giustizia e che gli Stati membri delle Nazioni Unite mettano in atto quella legislazione che consenta loro di perseguire i singoli responsabili, così come accaduto di recente in Germania. Sebbene sia stato messo particolarmente in rilievo il ruolo del governo di Damasco nel perpetrare quelli che sono stati definiti crimini, anche altri gruppi armati attivi in Siria sono stati ritenuti responsabili di sparizioni forzate e abusi. Tra questi, le forze congiunte di Free Syrian Army (FSA), Syrian National Army (SNA) e le Syrian Democratic Forces (SDF). Non da ultimo, sono state incluse le azioni perpetrate dai gruppi terroristici quali Hay’at Tahrir al-Sham e lo Stato Islamico. Il perdurante conflitto siriano è oramai in corso da circa dieci anni. L’esercito del regime siriano è coadiuvato da Mosca, mentre sul fronte opposto vi sono i ribelli, i quali ricevono il sostegno della Turchia. Sono diverse le regioni tuttora oggetto di un clima teso. Tra queste, il governatorato Nord-occidentale di Idlib, il quale rappresenta l’ultima roccaforte posta ancora sotto il controllo delle forze di opposizione, al centro di una violenta offensiva fino al 5 marzo 2020. In tale data, il presidente russo, Vladimir Putin, e il suo omologo turco, Recep Tayyip Erdogan, hanno concordato una tregua, volta a favorire il ritorno degli sfollati e rifugiati siriani. Tuttavia, le violazioni, seppur sporadiche, hanno spesso fatto temere il riaccendersi di tensioni. L’Ue contro la Polonia: “Minata l’indipendenza della magistratura” di Simona Musco Il Dubbio, 3 marzo 2021 La pronuncia della Corte di giustizia europea, che critica le riforme polacche. Il meccanismo di nomina dei giudici presso la Corte suprema polacca “è passibile di violazione del diritto comunitario”. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia europea, secondo cui le modifiche legislative relative all’ordinamento giuridico nazionale polacco avrebbero privato un giudice della propria competenza a decidere su ricorsi proposti da candidati a posti di giudice presso la Corte suprema, avverso le decisioni con cui il Consiglio nazionale della magistratura, che non ha presentato la loro candidatura, ha sottoposto quella di altri candidati al Presidente della Repubblica polacca, escludendo la prosecuzione dell’esame dei medesimi o la possibilità di riproporli. Secondo la Corte di Giustizia, i giudici in corsa per la Corte suprema polacca dovrebbero poter fare ricorso contro i pareri dell’organo che valuta i candidati, ovvero il Consiglio nazionale della magistratura (Krs). La sentenza è stata criticata dal viceministro della giustizia Sebastian Kaleta, secondo cui la Corte ha stabilito che “i giudici possono bypassare l’ordine costituzionale polacco con il pretesto di una mancanza di indipendenza, benché in linea con la costituzione questa sia preservata”, ha scritto su Twitter. “Lo ha stabilito nonostante i trattati non diano all’Ue nessuna attribuzione in merito all’organizzazione dell’ordinamento giudiziario”, ha continuato il viceministro. “Sotto i nostri occhi sta avvenendo un tentativo di federalizzazione europea da parte dei giudici della Cgue in violazione dei trattati e un tentativo di distruggere la sovranità degli Stati membri”. La sentenza riguarda questioni preliminari sollevate dalla Corte suprema nel novembre 2018, mentre era in corso l’esame dei ricorsi dei giudici che hanno presentato domanda per ricoprire alcuni posti vacanti presso la Corte suprema. Il tribunale polacco ha chiesto alla Corte di Giustizia se vi fosse una violazione dei principi costituzionali laddove era di fatto impossibile prendere in considerazione i ricorsi contro le risoluzioni del Consiglio nazionale della magistratura. Secondo alcune modifiche legislative introdotte nel 2018, affinché la nomina dei candidati proposti dal krs non fosse giudicata definitiva era necessario che tutti gli altri partecipanti impugnassero la delibera. Un suo eventuale annullamento, in ogni caso, non avrebbe comportato una nuova valutazione del singolo candidato escluso, che in ogni caso non avrebbe potuto contestare un’eventuale erronea valutazione del rispetto, da parte dei candidati, dei criteri. Un regime, secondo il giudice del rinvio, che escludeva qualsiasi effettività del ricorso, motivo per cui ha interrogato la Corte sulla conformità con il diritto dell’Unione. La legge, però, è stata ulteriormente modificata nel 2019, rendendo, di fatto, impossibile proporre ricorsi contro le decisioni del Krs, privando così il giudice del rinvio della propria competenza a pronunciarsi, nonché di ottenere una risposta alle questioni pregiudiziali che aveva sottoposto alla Corte di giustizia. Con una domanda di pronuncia pregiudiziale supplementare, il giudice ha quindi chiesto ai giudici europei se tale nuovo regime sia conforme al diritto dell’Unione. La risposta è stata negativa: tali modifiche, secondo la Corte, sarebbero contrarie al principio di leale cooperazione del Trattato sull’Unione, in quanto escludono qualsiasi possibilità che un giudice nazionale ripresenti in futuro questioni analoghe e che la Corte si pronunci su questioni pregiudiziali. “Simili modifiche - ha affermato la Corte - potrebbero condurre a una mancanza di apparenza di indipendenza o di imparzialità di detti giudici, tale da ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare ai singoli in una società democratica e in uno Stato di diritto”. E ciò in quanto minerebbero i principi di indipendenza e di imparzialità, soprattutto nei confronti del potere esecutivo. Proprio per questo “l’esistenza di un ricorso giurisdizionale a disposizione dei candidati non selezionati risulterebbe necessaria per contribuire a preservare il processo di nomina dei giudici interessati da influenze dirette o indirette ed evitare, in definitiva, che possano sorgere i dubbi summenzionati”. Infine, la Corte ha dichiarato che, se il giudice del rinvio dovesse giungere alla conclusione che l’adozione delle modifiche legislative del 2019 è avvenuta in violazione del diritto dell’Unione, il principio del primato di tale diritto impone a quest’ultimo giudice di disapplicare tali modifiche, siano esse di origine legislativa o costituzionale, e di continuare ad esercitare la competenza, di cui era titolare, a pronunciarsi sulle controversie di cui era investito prima dell’intervento di dette modifiche. Caso Khashoggi, bin Salman denunciato in Germania come mandante di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 3 marzo 2021 L’iniziativa di Reporters sans Fronieres. Il principe ereditario e quattro suoi consiglieri dovranno rispondere anche alla Corte suprema di Karlsruhe dell’omicidio del giornalista saudita e della persecuzione di altri 34 reporter. Denunciato penalmente alla Corte suprema di Karlsruhe per l’omicidio di Jamal Khashoggi e la persecuzione di altri 34 giornalisti. Reporter senza Frontiere trascina alla sbarra del più importante tribunale tedesco il principe ereditario Mohammad bin Salman (Mbs), capo del regime wahabita di Ryad, e quattro suoi stretti collaboratori: il primo consigliere, il numero due dell’intelligence, il console generale in Turchia e il comandante dei killer che fecero letteralmente a pezzi l’oppositore del monarca nell’ambasciata saudita a Istanbul. “L’avvio in Germania di un’indagine per i crimini contro l’Umanità di Mbs rappresenta una “prima” a livello mondiale. Gli accusati sono tutti responsabili, perciò chiediamo al procuratore generale di procedere con i mandati di arresto” riassume Christian Mihr, portavoce nazionale di Rsf, che lunedì ha depositato l’atto in tribunale. Ai sensi della legge federale i giudici tedeschi possono perseguire i reati previsti dal diritto internazionale (tra cui omicidio, tortura, violenza sessuale e rapimento) anche se commessi fuori dai confini e senza collegamenti con la Germania, come dimostra la recente sentenza di condanna della Procura di Coblenza contro l’agente dei servizi segreti siriani Eyad A. “Finora c’è stata completa impunità per i crimini contro i giornalisti. La nostra denuncia svela un sistema che minaccia la vita e la libertà di chi osa esprimersi pubblicamente contro il governo saudita. Se l’azione legale avrà successo sarà il segnale per Ryad, ma non solo, che i criminali possono sottrarsi alla giustizia nel loro Paese ma ci sono altri mezzi per inchiodarli alle loro responsabilità penali” sottolinea Rebecca Vincent, direttrice delle campagne internazionali di Rsf. Vale per il mandante Mbs, come per il suo consigliere Saud al-Kathani, pianificatore dell’omicidio Khashoggi, Ahmad Moahammed Asiri, vice capo dell’intelligence, Mohammad al-Otaibi, console generale in Turchia, e Maher Abdulasis Mutreb, ufficiale del commando che uccise l’oppositore e ne fece sparire il cadavere nell’ottobre 2018. Dal punto di vista strettamente giuridico i magistrati di Karlsruhe devono stabilire se gli accusati sono colpevoli di “crimini commessi nel corso di un attacco sistematico contro i civili”: il capo di accusa previsto dalla legge tedesca. Per Rsf i giornalisti detenuti in Arabia Saudita “rappresentano a pieno titolo un gruppo della popolazione perseguitato per l’attività che svolge. Il numero di professionisti imprigionati da Ryad resta tra i più alti al mondo. In pratica ai media viene impedita la funzione di controllo indipendente” spiega Mihr. E l’omicidio Khashoggi resta il caso più sintomatico. “Non solo è stato attirato in una trappola, torturato e smembrato, ma il crimine è stato commesso in una sede diplomatica. Se nemmeno un reato così grave verrà perseguito allora i cronisti rimarranno un facile bersaglio per i dittatori senza scrupoli” avvertono a Rsf. Russia. Navalny trasferito in una colonia penale, Usa e Ue decretano sanzioni per Mosca di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 3 marzo 2021 L’oppositore russo è rinchiuso nel campo Ik-2: sveglia alle 6 e lavori forzati. Bruxelles ha decretato nuove sanzioni per 4 funzionari coinvolti nell’arresto, Washington ha colpito 7 persone e 13 entità economiche. La decisione delle autorità russe di trasferire il dissidente Aleksej Navalny in una durissima colonia penale ha forse spinto Europa e Stati Uniti ad accelerare i tempi. L’Ue ha decretato ieri le sanzioni per quattro alti funzionari dell’amministrazione statale coinvolti nell’arresto e nella condanna del principale oppositore di Vladimir Putin. Gli Stati Uniti hanno deciso di colpire sette persone che in parte potrebbero essere le stesse prese di mira dalla Ue visto che le misure adottate sulle due sponde dell’Atlantico sono state coordinate. Nella lista potrebbero esser finiti anche alcuni oligarchi, come aveva chiesto a gran voce lo stesso Navalny. Washington ha anche messo nel mirino 13 entità economiche coinvolte nella fabbricazione illecita di agenti biologici e chimici. Si tratta del primo atto della nuova amministrazione nei confronti del Cremlino, segno che i rapporti sono decisamente cambiati dai tempi di Donald Trump e della sua luna di miele con Vladimir Putin. All’epoca il presidente americano era arrivato al punto di dare più credito alle affermazioni del leader russo che a quelle dei capi dei suoi servizi di sicurezza. Il campo Ik-2 nella cittadina di Pokrov si trova a 110 chilometri da Mosca ed è costituito da un assieme di edifici isolati in mezzo alla campagna. Non è di quelli destinati a criminali pericolosi, ma è riservato a prigionieri “normali”. Però è uno dei più duri di tutto il paese, secondo le testimonianze di chi c’è passato. Di primo mattino, in qualsiasi giorno dell’anno, con la pioggia e con la neve, con il freddo che può raggiungere facilmente i 25 gradi sotto zero, si ripete una scena che fa pensare a un viaggio nel tempo. Fa tornare in mente i lager del famigerato arcipelago Gulag di staliniana memoria, se non addirittura i campi tedeschi. Sull’attenti, in fila con le mani dietro la schiena, tutti i reclusi partecipano all’appello, che può durare anche un’ora, secondo i racconti raccolti dal quotidiano britannico The Independent. Gli uomini sono in piedi già dalle sei, si sono lavati e vestiti, sono già stati fuori per ascoltare l’inno nazionale. Poi, dopo la colazione, di nuovo all’aperto per l’appello. Quindi tutti al lavoro, in falegnameria, nel reparto meccanico o in sartoria. All’arrivo Navalny è stato posto in isolamento per due settimane, come da norma (la chiamano “quarantena”). E lì non si parla con nessuno e bisogna tenere gli occhi sempre bassi. Lui poi è stato classificato come detenuto “propenso alla fuga” secondo i giornali russi. E quindi ogni due ore una guardia lo fa mettere sull’attenti e gli fa ripetere una specie di litania: nome, cognome e patronimico; articolo penale in base al quale è stato condannato; data di inizio pena e data di fine pena. Il blogger è stato mandato in carcere perché non si era presentato ai controlli penitenziari mentre si trovava in libertà condizionale per una condanna subìta nel 2014. Solo che quella pena è stata definita ingiusta dal Tribunale europeo per i diritti umani che ha obbligato lo Stato a pagare più di 70 mila euro di danni (e la Russia li ha versati). Lui poi ha saltato i controlli perché era ancora in Germania trattenuto per i postumi del terribile avvelenamento con il Novichok col quale avevano tentato di ucciderlo in Siberia ad agosto. A tutto l’Occidente è quindi sembrato totalmente pretestuoso il fatto che Navalny sia stato arrestato appena tornato in patria e abbia subìto una condanna a scontare in carcere due anni e mezzo di quella vecchia e ingiusta sentenza. L’Europa, su fortissima pressione del governo di Berlino, ha però deciso di non colpire Mosca nei suoi interessi economici, andando a bloccare il progetto che oggi sta più a cuore al Cremlino; il raddoppio del gasdotto Nord Stream che porta il metano russo direttamente in Germania. Si è preferito sanzionare quattro funzionari: il capo del Servizio carcerario Kalashnikov, quello del Comitato investigativo Bastrikhin, il procuratore generale Krasnov e il comandante della Guardia nazionale Zolotov. Si tratta in ogni caso di personaggi che appartengono all’élite governativa russa e che da tempo, secondo le direttive del numero uno, evitano di andare all’estero o di avere proprietà e conti in banca oltrefrontiera. Almeno ufficialmente. Gli Stati Uniti hanno annunciato di aver approvato una lista di sanzionati, ma non hanno ancora comunicato i nomi delle persone coinvolte. Le 13 entità economiche, più forse un istituto statale di ricerca, sono state colpite in base alle norme stabilite dalla legge degli Stati Uniti sul Controllo e sull’eliminazione delle armi chimiche e biologiche. Il ministro degli Esteri Lavrov ha già fatto sapere che Mosca risponderà per le rime. Ma anche in questo caso è difficile che funzionari del governo Usa possano avere intenzione di recarsi in Russia o in paesi “amici” di Mosca. E tanto meno che posseggano conti in banche russe o proprietà in questo paese. Per Washington questa è la prima di una serie di misure volte a rispondere a quelle che sono state definite “azioni di destabilizzazione” compiute dalla Russia. A cominciare dalle interferenze nelle elezioni presidenziali. Dal Sahel al Congo, così gli islamisti si prendono l’Africa di Pietro Del Re La Repubblica, 3 marzo 2021 Centrafrica, Mozambico, Nigeria: lo Stato islamico e Al Qaeda stanno colonizzando il Continente. Le ultime nazioni dove stanno espandendosi sono il Benin e la Costa d’Avorio. C’è chi li considera responsabili anche dell’agguato nel Parco Virunga. Nelle inchieste sull’agguato contro il nostro ambasciatore a Kinshasa, Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista Mustapha Milambo, c’è già chi punta il dito contro un gruppo jihadista affiliato allo Stato islamico, che con quel gesto dimostrativo avrebbe rivendicato la sua fedeltà alla più importante e sanguinaria organizzazione terrorista del pianeta. È l’Islamic State Central Africa Province, sempre più potente in Congo Orientale dove, approfittando del caos che regna nella regione, da qualche mese ha moltiplicato gli attacchi sia contro le città dove svaligia le banche sia contro le caserme per rubare armi. Ma è ormai l’Africa intera preda ambita della Jihad, dalla Somalia, dove da oltre un decennio imperversano gli shabab, alla regione mozambicana di Cabo Delgado con le più recenti infiltrazioni dello Stato islamico in Nigeria, Camerun e Ciad che dagli anni Novanta subiscono le sanguinarie razzie di Boko Haram. Ora, mentre gli shabab del Mozambico hanno giurato fedeltà alla branca centrafricana dello Stato islamico, piccole cellule jihadiste sono apparse alle Isole Comore, in Madagascar, in Ghana, Togo e Sierra Leone. Adesso le feroci milizie di Al Qaeda nel Sahel sono impegnate in un progetto espansivo verso il Golfo di Guinea, in particolare verso la Costa d’Avorio e il Benin. A lanciare l’allarme di questo nuovo piano di conquista africano è il capo dei servizi segreti francesi, Bernard Émié, pubblicando un video che mostra riuniti i leader dei principali gruppi armati di quella regione desertica, grande una volta e mezzo l’Europa. “Il meeting s’è tenuto nel centro del Mali nel febbraio 2020, e li ritrae mentre stanno preparando offensive militari di grande portata verso Sud”, dice Émié. “Cercano uno sbocco destinato ad alleggerire la pressione che manteniamo su di loro. In quei Paesi, i terroristi stanno già investendo per piazzarvi i loro uomini”. Nel video si riconoscono gli eredi diretti di Bin Laden, da Abdelmalek Droukdel, capo storico di Al Qaeda nel Maghreb islamico, a Iyad ag-Ghaly, leader del Gruppo del sostegno all’Islam e ai musulmani e ad Amadou Koufa, capo della milizia Macina. Ora, dopo la morte di Droukdel, ucciso lo scorso giugno dalle forze francesi in Mali, è Iyad ag-Ghaly a incarnare la strategia di Al Qaeda nel Sahel. “Non si tratta soltanto di un uomo che pensa il terrorismo: lo pratica anche, quotidianamente, e non esita a imbracciare lui stesso il kalashnikov”, aggiunge il capo degli 007 d’Oltralpe, sottolineando come nel progetto politico dei jihadisti vi sia anche la preparazione di attentati in Europa, soprattutto in Francia. Secondo un recente rapporto dell’Unione africana, i loro effettivi complessivi avrebbero raggiunto sul continente le 15mila unità, il che significa che, se avessero un comando centralizzato, sarebbero il primo esercito jihadista del pianeta. Per Jacob Zenn, che per conto della Fondazione Jamestown di Washington studia da anni le ramificazioni jihadiste in Africa, “finché lo Stato islamico conquista nuove regioni sul continente nero, il sogno di un “califfato” non muore”. Nella Repubblica democratica del Congo, i jihadisti lanciano offensive sempre più incisive anche grazie a una maggiore sinergia con la filiale somala dell’Isis, che avrebbe fornito alla “sorella” congolese finanziamenti e addestratori militari. Il che ha consentito al gruppo centrafricano di attaccare quattro mesi fa il carcere di Beni, liberando più di 1300 detenuti 240 dei quali avrebbero rinforzato le fila del gruppo. Lo sconfinato Sahel è invece preda di una miriade di gruppi estremisti, legati sia ad Al Qaeda sia allo Stato islamico, che funestano regioni abbandonate dalle autorità e dai poteri centrali. Le popolazioni locali di quelle terre senza Stato non li amano ma quando questi forniscono una sia pur elementare forma di amministrazione sono anche disposte a pagare loro le tasse. In quell’area la Francia è presente dal 2014 con l’Operazione Barkhane che conta oltre cinquemila uomini a Gao, in una base militare del Mali orientale. Un dispiegamento molto dispendioso che, al summit G5 del Sahel (Mauritania, Mali, Niger, Burkina Faso e Ciad) s’è tenuto due settimane fa a N’Djamena, il presidente Emmanuel Macron ha promesso di mantenere, pur sperando nell’aiuto di altri partner europei. È vero, nel corso della missione “Eclipse” lanciata tra il 2 e il 31 gennaio dalle forze di Barkhane sono stati “eliminati” circa 200 jihadisti. Ma trovandosi con le spalle al muro, i nemici cambiano strategie, ricorrendo sempre di più ai “campi di battaglia immateriale”, ossia alle guerre d’informazione e propaganda. Aumentano i loro video, sempre più sofisticati, come quelli diffusi in Siria e in Iraq tra il 2014 e il 2017. La strategia del terrore in Africa consiste nel controllare il più gran numero di province e regioni, apparendo il meno possibile, nell’intento di amministrarle apertamente in un prossimo futuro. Anche perché, sebbene le forze francesi pattuglino tutti i Paesi del G5 avventurandosi talvolta fino alla Libia, all’Algeria e al Nord della Nigeria, i risultati sul terreno rimangono modesti, mentre il mostro islamista continua a condurre la sua efferata guerriglia asimmetrica. Al momento, in Costa d’Avorio e Benin i jihadisti possono trovare rifugio e rifornirsi in armi e carburante. Ma oltre all’espansione territoriale, un corridoio aperto sul mare avrà un grande vantaggio logistico per ogni tipo di traffico. Il Benin è già sotto attacco jihadista dal maggio 2019, quando furono rapiti due francesi e uccisa la loro guida in un parco al confine con il Burkina e il Niger. Quanto alla Costa d’Avorio, per via dei numerosi interessi francesi, dal porto di Abidjan alla telefonia e alle banche, è il luogo ideale dove colpire. Perché le scuole in Nigeria sono sempre più terreno di caccia per i rapitori? di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 3 marzo 2021 Più che l’ideologia, alimentata dal fondamentalismo islamico, hanno pesato i nostri tweet se gli attacchi agli studenti si sono intensificati dopo il caso di Chibok. Ora che anche le studentesse di Zamfara sono state liberate (l’annuncio del governo è di stamattina, dopo le indiscrezioni di domenica), la domanda, purtroppo, è: chi saranno le prossime vittime? Perché nel Nord del Paese gli attacchi alle scuole con convitto si sono intensificati in questi mesi e l’”industria dei sequestri” è in crescita: uno ogni tre settimane, indica un rapporto sull’economia dei rapimenti in Nigeria. La settimana precedente all’attacco di Zamfara, si era verificato un altro sequestro a un collegio in una regione vicina, Niger: poi la (buona) notizia del rilascio di quei ragazzi era arrivata mentre si diffondeva quella (brutta) del sequestro a Zamfara. Ogni rapimento di massa è di ispirazione per i colpi successivi, ma a fare da modello e come da apripista è stato sequestro delle 300 studentesse di Chibok, considera il rapporto. Con quel colpo, nel 2014 il mondo si è accorto dei jihadisti di Boko Haram e della loro avversione all’”educazione occidentale”. Ma più che l’ideologia, alimentata dal fondamentalismo islamico, hanno pesato i nostri tweet se da allora gli attacchi alle scuole si sono intensificati. Questo è in sintesi quello che sostengono Joe Parkinson e Drew Hinshaw nel libro “Bring Back Our Girl”, fresco di pubblicazione (in inglese): la pressione internazionale indusse il governo a pagare milioni di euro per il loro rilascio, un ministro lo avrebbe pure ammesso, scrivono. Come molti governi, anche le autorità nigeriane spesso negano di aver pagato, salvo poi essere smentiti dai rapiti e dagli stessi banditi. Anche in questo caso: il governatore locale di Zamfara ha escluso passaggio di soldi: “Oggi abbiamo ricevuto le ragazze che erano ostaggio da venerdì - ha detto Bello Matawalle - Ho avviato un negoziato, che si è concluso positivamente. Non è stato pagato alcun riscatto, ho insistito perché non si desse nulla” ai rapitori, ha assicurato. Almeno 18 milioni di dollari sono stati pagati ai rapitori fino allo scorso marzo, stima il rapporto. Molti nigeriani ovviamente preferirebbero che quei soldi fossero spesi per proteggerli piuttosto che per i riscatti. “Con questi sequestri di bambini su larga scala, il riscatto è alto a causa della pressione internazionale a salvarli” ha detto al New York Times Confidence McHarry, analista della sicurezza che ha lavorato al rapporto. Così come le vittime dei sequestri non sono più soltanto i ricchi e famosi, allo stesso modo non sempre gli aggressori sono identificabili come gruppo jihadista: a volte sono semplici banditi a caccia di soldi. Cinque anni senza Berta Cáceres, l’ambientalista che lottava contro i signori delle dighe di Luca Martinelli La Repubblica, 3 marzo 2021 La leader indigena, premio Goldman per l’ambiente, fu uccisa cinque anni fa in Honduras. In un libro inchiesta la giornalista inglese Nina Lakhani indaga sui mandanti. Il ricordo di un giornalista che la conosceva bene. Giovedì 4 marzo Berta Cáceres compie cinquant’anni. Tempo presente, perché per tanti la leader indigena hondureña è viva, nonostante sia stata assassinata nella sua casa nella notte tra il 2 e il 3 marzo del 2016, cinque anni fa. “Berta no murió, se multiplicó”, Berta non è morta, si è moltiplicata è lo slogan che viene scandito durante le manifestazioni per chiedere giustizia, per “esigere” (il verbo che usano le figlie, Bertita e Laura) di individuare i mandanti del suo omicidio. “Berta fue semilla”, dicono anche: Berta come un seme interrato a primavera e destinato a dar nuovamente frutti meravigliosi durante l’estate. Cinque anni fa, alle 12.17 del 3 marzo 2016, ero seduto alla mia scrivania, di fronte al laptop, nella redazione di Altreconomia. L’icona di Messanger si accese: “Luca, mi spiace molto contattarti con questa orribile notizia... querida Berta… se me parte el corazon, Luca... no tenemos mas info por el momento”. Daniela scriveva dalla Spagna, dove lavora per l’Atlante della giustizia ambientale, un progetto dell’Università di Barcellona. Condivideva il link di un articolo di TeleSur, tra i media internazionali il primo a dare la notizia: “La coordinatrice de Consiglio civico dei Popoli Indigeni di Honduras (Copinh), Berta Cáceres, è stata uccisa nella notte di giovedì da soggetti sconosciuti”. Gli sconosciuti erano entrati in casa sua, a La Esperanza, nel dipartimento di Intibucá, la cittadina dov’era nata e cresciuta. Violando la sua intimità, l’avevano sorpresa in camera da letto e uccisa con tre colpi di pistola. La notizia avrebbe fatto il giro del mondo: in Italia il giorno dopo finì in prima pagina su Il manifesto e l’Unità, mentre la Repubblica dedicò alla vicenda un lungo articolo di Daniele Mastrogiacomo e l’Amaca di Michele Serra. Nello scrivermi su messanger, però, Daniela sapeva che quella storia mi avrebbe toccato non solo come giornalista: per me, e per tanti in Italia, Berta era un’amica e non solo la leader indigena lenca, l’attivista per i diritti umani, premio Nobel alternativo per l’ambiente nel 2015. Dopo aver aperto il link telefonai subito a Thomas Viehweider, presidente del Collettivo Italia Centro America, l’associazione cui avevamo dato vita con una decina di anni prima, quando molti di noi erano tornati da esperienze di lavoro e volontariato internazionale nel Sud-est del Messico, in Guatemala, in Nicaragua, in Honduras. Piangemmo insieme, pensando a lei, ai suoi figli, al Copinh e all’Honduras. Senza nemmeno bisogno di esplicitarlo ci dicemmo qualcosa di terribile: “Questo omicidio è un messaggio”, perché “si matan ella, pueden llegar a matar quien quieran” ci dicemmo: se hanno ucciso lei, possono arrivare a uccidere chi vogliono. Ammazzando Berta - che l’anno prima aveva vinto il Goldman Environmental Prize ed era riconosciuta in tutto il mondo - vogliono cancellare ogni speranza per un Honduras più equo e meno razzista, per un Paese capace di riconoscere e tutelare i diritti umani e l’ambiente, annichilendo le lotte. La giornalista inglese Nina Lakhani descrive magistralmente questa condizione in un passaggio del libro Chi ha ucciso Berta Cáceres?, uscito finalmente in Italia a metà febbraio grazie a un prezioso lavoro di Capovolte, piccolo editore di Alessandria. Lo fa ricostruendo quella che è nei fatti la biografia di uno Stato criminale e raccontando un episodio che vede protagoniste Berta e l’amica Miriam Miranda, leader di Ofraneh, l’organizzazione del popolo garifuna, afrodiscendenti che vivono sulla costa caraibica dell’Honduras. Era il 2009 e una settimana prima un colpo di Stato aveva messo fine alla presidenza di Manuel Zelaja, “Mel”. L’uomo aveva tentato di tornare nel Paese ma l’aereo presidenziale non era potuto atterrare all’aeroporto di Toncontín, nei pressi di Tegucigalpa, la capitale del Paese. Miriam e Berta erano lì, insieme, e piansero: non erano sostenitrici di Zelaja (nel novembre del 2005, quando venne eletto, ero in Honduras, in visita al Copinh e a Ofraneh, e le due organizzazioni non appoggiavano senz’altro un presidente espressione di una famiglia di latifondisti, grandi proprietari terrieri), ma sapevano che quel momento avrebbe marcato un prima e un dopo nella storia dell’Honduras. E così è stato. Lakhani, oggi inviata negli Stati Uniti per il quotidiano The Guardian dopo anni in Messico e Centro America ha incontrato Berta solo una volta, nel 2013. Da quell’incontro annota nel libro la sua frase di commiato: “L’esercito ha una lista di persone da uccidere, contenente i nomi di sedici difensori dei diritti umani, e il mio è in cima. Io voglio vivere, ci sono tante cose che voglio ancora fare in questo mondo. Prendo precauzioni, ma in fondo in questo Paese, dove l’impunità è totale, sono vulnerabile. Quando vorranno ammazzarmi, lo faranno” Quando Berta è morta, per me è stato naturale tornare all’ultima notte che avevamo passato insieme, a Milano, a casa mia. Era la fine di ottobre o l’inizio di novembre del 2014. Pochi giorni prima lei era a Città del Vaticano, invitata a prender parte al primo Incontro mondiale dei movimenti popolari voluto da Papa Francesco. Quando ci incontrammo in stazione era felice di aver potuto avvicinare il Santo Padre. Sul desktop del mio laptop da quella sera c’è un file, “La Palabra del Pueblo Lenca ante el Papa”: è la lettera che a nome del Copinh Berta presentò a Francesco. “La criminalizzazione delle lotte sociali, dei lottatori e delle lottatrici è una politica sistematica del governo dell’Honduras, come lo sono anche le persecuzioni giudiziarie in uno stato di completa impunità [...]. Santo Padre, stiamo parlando per conto degli invisibili della storia. Il potere dei mezzi di comunicazione nega e rende invisibile l’esistenza dei popoli indigeni e negri dell’Honduras. Stanno cercando di far sparire per sempre i nostri popoli, giustificando così la mancanza di volontà politica di rispettare i nostri diritti umani e collettivi”. Berta firma la lettera con affetto e rispetto. La mattina dopo la accompagnai a Linate, dove avrebbe preso un aereo per l’Argentina: andava a trovare i figli, Laura e Salvador, che grazie ad alcuni amici solidali aveva mandato in quel Paese adolescenti, dopo il colpo di Stato del 2009. Temeva che non la lasciassero partire: aveva un biglietto di sola andata da Milano a Buenos Aires e in fondo era una donna, una donna indigena, una donna indigena e povera nata in un piccolo Paese del Centro America da cui ogni anno fuggono centinaia di migliaia di persone. Mi faranno entrare in Argentina?, si chiedeva. Nel suo libro Nina Lakhani cita un’amica d’infanzia di Berta, Ivy, compagna di scuola a La Esperanza: “Berta era popolare, felice e amava la vita, e questo non è mai cambiato negli oltre trent’anni in cui siamo stare amiche, anche quando alla fine le cose diventarono davvero difficili”. È così: la ricordo nel 2006, in una delle sue prime visite in Italia, con una delegazione di quattro attivisti hondureñi (due uomini, due donne) che poi accompagnammo a Vienna, all’incontro tra la società civile europea e quella latino-americana. Incarnava l’idea dell’alegre rebeldia, una ribellione giocosa, capace di sorridere e di non prendersi sempre sul serio. A cinque anni dal 2 marzo 2016, mentre è ancora in corso il processo nei confronti di colui che è stato individuato come il mandante dell’omicidio, sette persone sono state condannate per la morte di Berta e per aver ferito Gustavo Castro, l’amico che era in casa con lei, attivista e ambientalista messicano, arrivato a La Esperanza per partecipare a un seminario sulle energie rinnovabili promosso dal Copinh, unico testimone oculare del delitto. Sono tutte persone legate a DESA, l’impresa che stava costruendo una centrale idroelettrica in territorio lenca, sul fiume Gualquarque. Le dighe per Berta e “Gus” erano da tempo oggetto di campagne: dalla fine degli anni Novanta avevano iniziato a far pressione sulle istituzioni finanziarie internazionali per denunciare il furto dei beni comuni, lo sfruttamento idroelettrico e quello minerario del Sud del Messico e dell’America Centrale. Nel 2003 avevano portato decina di migliaia di indigeni da tutto il Centro America a Cancun, per protestare contro il vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Berta morì tra le sua braccia. Ci aveva avvisati, in un certo modo, nel discorso con cui a San Francisco nell’aprile del 2015 aveva ricevuto il Goldman Prize, dedicato “ai martiri che danno la propria vità per difendere le risorse naturali”. O forse no, Berta non è morta: si è moltiplicata e la sua voce risplende in tutto il mondo, un invito a scuoterci.