La ricerca di regole minime standard nel trattamento dei detenuti a livello europeo di Enrico Sbriglia* La Repubblica, 31 marzo 2021 La proposta: Gorizia e Nova Goriza diventino la “Strasburgo penitenziaria”, il luogo cioè dove elaborare e sperimentare un’uniforme regime penitenziario continentale. Un gruppo di specialisti nelle diverse discipline legate al mondo delle carceri - formato da docenti universitari, criminologi, sindacalisti della polizia penitenziaria, avvocati, studiosi di prospettive future, filosofi, neuroscienziati, architetti, psicologi, direttori penitenziari - qualche giorno fa ha partecipato ad un webinar organizzato dal Cesp (il Centro Europeo di Studi Penitenziari), per contribuire e condividere l’ipotesi di redigere uno studio per la realizzazione di un “Carcere Europeo”, come prototipo di altri che potranno realizzarsi negli Stati della UE. Lo scopo è quello di omogeneizzare le regole penitenziarie europee e le norme della Mandela Rules, cioè la condotta minima standard per il trattamento dei detenuti, adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 2015, conosciute appunto come le Regole Mandela, in onore dell’ex presidente sudafricano. Nel 2025 il Comune di Gorizia, assieme con quello sloveno di Nova Gorica, saranno Città della Cultura Europea. L’auspicio, dunque, è che per quella data siano anche Città della nuova cultura giuridica penitenziaria condivisa. Alcuni interventi. Dopo la relazione del Presidente del Centro Studi, professor Stango, che è anche presidente della FIDU (Federazione Italiana Diritti Umani - Comitato Italiano Helsinki), il quale ha sottolineato l’esigenza che i temi della pena detentiva debbano far riferimento all’UE, c’è stata la mia relazione con la quale ho sostanzialmente auspicato che il nuovo governo metta davvero tra i suoi punti in agenda l’esplosiva situazione penitenziaria, oggi aggravata dalla pandemia. Nel mio intervento ha anche ricordato come la proposta del Carcere Europeo sia coerente con la costituzione dell’EPPO (European Public Prosecutor’s Office). Assai interessanti sono stati anche le relazioni dell’architetto De Rossi, il quale aveva progettato con i suoi omologhi libici, ai tempi di Gheddafi, la realizzazione di moderne carceri in quel Paese, e del neuroscienziato Pier Luigi Marconi, esperto anche nella lettura sistemica di dati statistici. Di grande interesse anche l’intervento sulla mediazione e la pena riparativa della dottoressa Maria Antonietta Cerbo. I reati previsti nel contesto europeo. Il Centro di Ricerca Europeo per la Sicurezza e Giustizia (CREUSeG), una sorta di cittadella penitenziaria europea, dovrebbe ospitare le persone detenute che hanno commesso reati di natura transnazionale, la cui competenza sarà dell’EPPO. Nello stesso Centro di ricerca si sta perfezionando quel sistema penale europeo che sta gradualmente prendendo vita. I reati previsti dalla Direttiva europea PIF sono quelli di frode, corruzione e riciclaggio, con l’aggiunta della frode nelle procedure di appalto e il reato di appropriazione indebita di fondi europei, da parte di un pubblico ufficiale, nonché la figura della corruzione passiva, estesa anche ai pubblici ufficiali e agli incaricati di pubblico servizio di Stati non appartenenti all’Unione europea. A questi si aggiungerebbero, poi, anche quelli relativi le frodi IVA, quando l’importo dovesse essere supare i 10 milioni di euro e la frode sia transnazionale, cioè che riguardi almeno due paesi dell’Unione (come nel caso delle cosiddette “frodi carosello”). Tutto questo, tanto per iniziare. L’hub di ricerca giuridica di fronte al Parco Basaglia. Attorno al Centro, di fronte il Parco pubblico dedicato a Franco Basaglia, che a Gorizia avviò la rivoluzione per l’abolizione dei manicomi civili, ci sarà un vero e proprio hub di ricerca giuridica, criminologica, sociale, filosofica, di medicina di prevenzione e contrasto alle malattie infettive, nonché per la ricerca e la sperimentazione di nuove tecnologie securitarie, attraverso lo sviluppo della robotica, della dronica, dell’impiego di nuovi materiali, degli strumenti informatici e di telecontrollo. Insomma, una sorta di cittadella della Scienza Securitaria e della cultura penitenziaria, che avrà il compito di aggiornare in standard condivisi i principi, ancora troppo vaghi ed evanescenti, delle regole penitenziarie europee. La “Strasburgo Penitenziaria”. Una realtà che potrà offrire al cittadino europeo un identico “servizio penitenziario”, qualunque sia il Paese europeo ove sia eseguita una condanna o si sia sottoposti ad una custodia cautelare. È evidente che il miglioramento delle condizioni carcerarie si rifletteranno positivamente anche su quelle di tutto il personale penitenziario. Tutto sarà precisato, dalla cubatura di una cella al numero degli occupanti, non mancando di stabilire anche la quantità di ricambio dell’aria all’interno delle stesse, i lux, artificiali e naturali, i colori delle pareti, la tipologia degli infissi e degli arredi, i servizi igienico-sanitari, così come la qualità dei servizi di ristorazione, di quelli medici e la cura del disagio psichico. E ancora: come dovranno effettuarsi i colloqui e le telefonate, gli incontri con i familiari, per assicurarne l’intimità e riservatezza, per l’esercizio delle confessioni di fede, i corredi personali, gli spazi ed i servizi destinati allo studio ed alla formazione professionale, per le necessarie di lavoro dei detenuti affinché non si scivoli nello sfruttamento di manodopera. Una Campagna di comunicazione sociale. Ogni aspetto della vita detentiva dovrà tradursi in istruzioni tecniche, comprese quelle che attengano al rapporto numerico tra detenuti e personale penitenziario, oltre che per quanto attenga agli aspetti lavoristici e retributivi. Un argomento, questo, particolarmente apprezzato dai diversi sindacalisti presenti all’incontro. Significativa è stata la riflessione della giornalista Kenka Lekovic, la quale ha sottolineato l’importanza di una Campagna di comunicazione sociale per una corretta informazione anche di tipo pedagogico, per mettere i cittadini nelle condizioni di conoscere l’importanza di tutto questo. La voce dei sindacati. I responsabili sindacali regionali e nazionali della polizia penitenziaria, nei loro interventi, hanno poi evidenziato come troppo spesso sia descritta una sensibilità sui temi dei diritti umani e della legalità da parte del personale del Corpo non corrispondente al vero, mentre è interesse di ogni agente che le pene detentive costituiscano un’occasione di riabilitazione e di recupero della persona detenuta, piuttosto che una mera sofferenza che nessun vantaggio porterebbe in tema di sicurezza. *Penitenziarista, ex dirigente generale dell’Amministrazione Penitenziaria Ergastolo ostativo, servirebbe onestà intellettuale in attesa della Consulta di Associazione Yairaiha Onlus Il Dubbio, 31 marzo 2021 La strumentalità del pentimento, per la lotta alle organizzazioni criminali, fa il paio con le misure vessatorie come il 41bis e l’ergastolo ostativo. Emile Durkheim, uno dei padri della sociologia, spiegava che la pena non protegge la società perché è buona, bensì è buona perché protegge la società. In altre parole, la somministrazione di un provvedimento penale sortisce l’effetto di rassicurare il corpo sociale, in particolare nei periodi di precarietà politica ed economica, quando la società è attraversata da spinte centrifughe. Capita spesso che sulle paure che attraversano i membri di un aggregato collettivo si innestino le ambizioni di attori desiderosi di ricavarsi una rendita di posizione. Esponenti politici, giornalisti, attivisti, magistrati, sia a destra che a sinistra, hanno gioco facile a costruire le loro carriere a partire dalla loro presunta “durezza” nei confronti della criminalità. Se negli Usa, dove spesso sceriffi e procuratori vengono eletti a suffragio universale, la rendita della paura rappresenta un elemento lampante, qui da noi si ricorre al pretesto dell’emergenza. Terrorismo, mafie, corruzione, e adesso la pandemia, hanno plasmato la scena pubblica italiana degli ultimi 40 anni, producendo da un lato frequenti lacerazioni all’interno della cornice dei diritti civili, dall’altro ponendo nella scena pubblica una folta pletora di imprenditori morali, che hanno fatto della “legalità”, ovvero della riduzione delle libertà civili in nome dell’emergenza, la loro cifra. Nel caso dell’ergastolo ostativo, ci troviamo esattamente in questo contesto. La Consulta è chiamata in questi giorni a decidere della sua abolizione, sulla falsariga di sue precedenti decisioni che consentivano ai condannati per associazione di stampo mafioso di fruire dei permessi. Nella prospettiva di una decisione della Corte Costituzionale in tal senso, si mobilità lo schieramento avverso: editoriali, comitati, interviste a parenti delle vittime, tentano di mettersi di traverso all’abolizione di una misura afflittiva unica nella sua declinazione discriminatoria, nella misura in cui mette in relazione la possibilità di accedere ai benefici di legge alla collaborazione dei condannati. Ovviamente, gli scherani dell’ergastolo ostativo, fanno leva sull’aspetto emozionale, evocando Falcone e Borsellino, in particolare il primo, a cui attribuiscono la paternità del 4bis, che avrebbe introdotto il provvedimento. Alla sua eventuale abolizione già si paventa che si susseguano nuove stragi e nuove proliferazioni di attività illegali da parte delle mafie. A nostro giudizio, è necessario che si stemperi un attimo lo zelo forcaiolo, e ci si prodighi in uno sforzo di onestà intellettuale, per inquadrare la questione in maniera più adeguata. Innanzitutto, se è vero che il 4bis lo introdusse Falcone, non è vero che prevedesse l’ergastolo ostativo. Il magistrato palermitano, nella stesura iniziale del provvedimento, lasciava la valutazione nelle mani della magistratura di sorveglianza, così come avviene negli altri casi. Il meccanismo premiale veniva riservato a chi scegliesse di collaborare. Fu sull’onda delle stragi di Capaci e via D’Amelio, nel contesto di attentati stragisti che avevano luogo in parallelo alla più grave crisi di legittimità registrata dalla Repubblica Italiana sin dalla sua istituzione, che il ministro della Giustizia di allora, Claudio Martelli, introdusse questa variante. Finito il periodo stragista, arrestati alcuni degli esponenti mafiosi più pericolosi, una tale variabile, già discutibile per la disparità che introduce, può essere tranquillamente abolita. In secondo luogo, sarebbe ora che si facesse una disamina accurata della categoria del “pentimento”, che viene spesso usata a sproposito nel dibattito penale italiano. Nei paesi anglosassoni, per esempio, i collaboratori di giustizia vengono definiti supegrasses (origine incerta) oppure, più comunemente, turncoats, ovvero voltagabbana, a sottolineare il carattere strumentale della loro collaborazione. In Italia la subcultura cattolica elude quest’ultimo aspetto, introducendo un elemento di ipocrisia che fa leva su una sorta di ricatto morale. Chi si pente, se si deve lavare la coscienza, deve denunciare tutti, anche quelli con cui magari ha una vaga affinità elettiva ma che non sono stati lontanamente coinvolti nelle sue vicende. In questo modo i collaboratori di giustizia possono avere la possibilità di accrescere i loro vantaggi facendo leva su di un principio quantitativo, ovvero tirando in causa un numero di persone che sia il più elevato possibile, e magari riducendo le loro responsabilità. In cambio i magistrati portano a casa le maxi retate che mettono in evidenza il loro zelo o permette di accentuare l’impronta repressiva dei loro intervento. È stato così nel caso della lotta armata, coi pentiti pronti a chiamate di correo nei confronti di persone che militavano nella loro area ma che non erano direttamente responsabili. È stato così che si sono prodotti mostri giuridici come il 7 aprile e condanne ingiuste. Episodi simili, in alcuni casi, si sono verificati anche nella lotta alla criminalità organizzata. La strumentalità del pentimento, ai fini della lotta alle organizzazioni criminali, fa il paio con le misure vessatorie come il 41bis. Da anni si sostiene che senza la compressione dei diritti dei detenuti, censurata dalle corti internazionali, non sarebbe possibile intraprendere la lotta alle mafie. Se guardiamo bene il contesto attuale, ci rendiamo conto che l’equazione tra repressione ed efficacia è lungi dell’essere effettiva. Se è vero che i principali boss di Cosa Nostra dell’epoca delle stragi sono stati catturati, dall’altro lato nutriamo qualche dubbio sul fatto che la criminalità organizzata siciliana, per quanto indebolita, abbia cessato di essere pericolosa. Gli stessi strenui difensori del 41bis e dell’ergastolo ostativo, indicano nelle camorre campane e nelle ‘ndrine calabresi le organizzazioni criminali più pericolose del momento, oltre alla Sacra Corona, ai Basilischi, alla Quinta Mafia, alle mafie di origine straniera, e a tutto quello che può essere attinto dal bagaglio della mafiologia pop. Se anche per queste organizzazioni vigono l’ergastolo ostativo e il 41bis, o questi provvedimenti sono inefficaci, oppure le organizzazioni criminali costituiscono un pericolo meno grave di quello che si sostiene. Oppure, terza ipotesi, si insiste sul connubio mafie-repressione per spiccare nella ribalta pubblica. In terzo luogo, si tirano in ballo i parenti delle vittime. Anche in questo caso la categoria in questione va esplorata fino in fondo. Se è vero che alcuni familiari esprimono una netta contrarietà all’abolizione del carcere duro, altri esprimono una posizione opposta. Anche perché la giustizia non si amministra in nome delle famiglie, bensì in nome della legge. Di conseguenza, esiste una norma, come l’articolo 27 della nostra Costituzione, che prevede che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato, e l’ergastolo ostativo si pone trasversalmente a questa misura, fornendo una ragione ulteriore per sperare che la Consulta si pronunci in favore della sua abolizione. In quarto luogo, sarebbe necessaria una maggiore accuratezza da parte degli organi di informazione. Tra i condannati per associazione per delinquere di stampo mafioso non figurano soltanto dei calibri come Totò Riina e Bernardo Provenzano, ma anche altri detenuti che sono pronti a fare i conti, scegliendo un percorso proprio, col loro passato, e che negli anni modificano il loro punto di vista rispetto alla realtà. Negare loro una seconda possibilità, oltre a violare la Costituzione, costituisce la cifra di una società ripiegata su se stessa, incapace di formulare prognosi positive sul proprio futuro. Un ex-mafioso che si reinserisce in società, infatti, è una risorsa, oltre che un individuo che ha fruito dei propri diritti, nonché la prova dell’efficacia dei dettami costituzionali. Molti detenuti condannati a pene definitive hanno intrapreso un percorso di studi e di trattamento, attraverso il quale hanno potuto elaborare il loro passato. Ma di loro, gli alfieri dell’ergastolo ostativo e del 41bis, non parlano mai. Infine, se gettiamo uno sguardo negli ordinamenti giudiziari degli altri paesi, notiamo che non esiste, a parte in Italia e in Spagna, una condanna a vita. Nel Regno Unito un detenuto può essere rinchiuso in galera During Her Majesty’s Pleasure, ovvero finché vuole sua maestà. È una formula indeterminata, che però non esclude per i detenuti di fare domanda, ogni 10 anni, per il rilascio condizionale. Un meccanismo simile esiste negli Usa, dove, seppure si può essere condannati a centinaia di anni di galera, ogni 10 anni si può avviare un iter simile a quello britannico, anche se, nei casi anglosassoni, conta il parere de familiari delle vittime. Ad esempio, è dal 1990 che Mark Chapman, l’omicida di John Lennon, inoltra domanda in tal senso. Il parere favorevole di educatori e direzione del carcere, però, sbatte sullo scoglio di Yoko Ono, che ha sempre negato il suo assenso. Le mafie non si combattono inasprendo le misure penali, ma prosciugando il contesto sociale, economico e politico all’interno del quale prosperano. Per esempio, riguardo alle droghe, chiedendosi se non sia il caso di riconsiderare radicalmente le politiche proibizioniste. Oppure ponendosi il problema di quanto le mafie non aiutino a contenere il costo del lavoro e della sicurezza ambientale organizzando il caporalato, o smaltendo i rifiuti tossici per conto dell’imprenditoria del Nord. Ovviamente, un altro aspetto sarebbe quello di rilanciare il Mezzogiorno attraverso politiche pubbliche imperniate sulla tutela dell’ambiente, sulla mobilità dolce, e sulle tecnologie. Ma temiamo di stare parlando al vento. In fondo Gomorra è diventata una fiction televisiva popolare, e le foto di Falcone e Borsellino vengono impropriamente ostentate come un passe-partout da chi vuole farsi strada nel dibattito pubblico. Speriamo che almeno la Consulta ci dia ragione. Ergastolo ostativo. La linea dura giusta per l’Italia di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 31 marzo 2021 Con ordinanza del 18 giugno 2020, la Prima sezione penale della Corte di cassazione aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario e altre norme che escludono la possibilità per il condannato all’ergastolo, per delitti commessi col metodo mafioso ovvero al fine d’agevolare l’attività delle associazioni mafiose, che non abbia collaborato con la giustizia, d’usufruire della liberazione condizionale. La Corte costituzionale ha trattato la vicenda nell’udienza pubblica del 23 marzo 2021 e ha comunicato che la discussione proseguirà dopo le feste pasquali. Alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, della sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, della tendenza delle alte Corti a confermare i propri orientamenti e delle conclusioni dell’Avvocatura dello Stato appare probabile che la Corte costituzionale dichiarerà illegittimo il divieto. La sentenza n. 253 del 2019 ha infatti dichiarato incostituzionale l’art. 4bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordinamento penitenziario, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Ha inoltre esteso la dichiarazione di incostituzionalità a detenuti per reati diversi (sostanzialmente terrorismo) ove ricorrano le stesse condizioni. Per comprendere la decisione della Corte costituzionale occorre considerare che la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sentenza del 13.06.2019 della Prima sezione nel caso Marcello Viola contro Italia, ha affermato i seguenti principi: “137. Alla luce dei principi sopra menzionati, e per i motivi sopra esposti, la Corte considera che la pena dell’ergastolo inflitta al ricorrente, in applicazione dell’articolo 4bis della legge sull’ordinamento penitenziario, detta ‘ergastolo ostativo’, limiti eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità di un riesame della sua pena. Pertanto, tale pena perpetua non può essere definita riducibile ai fini dell’articolo 3 della Convenzione… 143. La natura della violazione riscontrata dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena, il che permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione di quest’ultima, il detenuto si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi tali verso la propria correzione che nessun motivo legittimo in ordine alla pena giustifichi più il suo mantenimento in detenzione, e al condannato di beneficiare così del diritto di sapere ciò che deve fare perché la sua liberazione sia presa in considerazione e quali siano le condizioni applicabili. La Corte considera, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della dissociazione dall’ambiente mafioso, che tale rottura possa esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo attualmente vigente”. La sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale, apprezzabile, conteneva al minimo le conseguenze della giurisprudenza sovranazionale in quanto non ha introdotto un automatismo nella concessione dei benefici, ma anzi ha affermato che: “È certo possibile che il vincolo associativo permanga inalterato anche a distanza di tempo, per le ricordate caratteristiche del sodalizio criminale in questione, finché il soggetto non compia una scelta di radicale distacco, quale quella che - in particolare, ma non esclusivamente, secondo la ratio stessa di questa pronuncia - è espressa dalla collaborazione con la giustizia. Peraltro, per i casi di dimostrati persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta l’apposito regime di cui al l’art. 41bis, che non è ovviamente qui in discussione e la cui applicazione ai singoli detenuti presuppone proprio l’attualità dei loro collegamenti con organizzazioni criminali…Ma …il decorso del tempo della esecuzione della pena esige una valutazione in concreto, che consideri l’evoluzione della personalità del detenuto. Ciò in forza dell’art. 27 Cost., che in sede di esecuzione è parametro costituzionale di riferimento (a differenza di quanto accade in sede cautelare: ordinanza n. 532 del 2002). Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non può che estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti la possibilità di un, sia pur breve e momentaneo, reinserimento dello stesso detenuto, potendosi ipotizzare che l’associazione criminale di originario riferimento, ad esempio, non esista più, perché interamente sgominata o per naturale estinzione”. È ragionevole prevedere che la Corte costituzionale ribadirà tale posizione anche nella futura pronuncia. Allora va tutto bene? Temo di no. Se la strada imboccata dalla Corte costituzionale è, a questo punto, probabilmente obbligata, bisogna domandarsi quanto siano efficaci le difese svolte dall’Italia innanzi alla Corte di Strasburgo. Per altri Stati che hanno avuto fenomeni criminali di particolare gravità la Corte EDU ha ritenuto conformi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo modalità altrimenti non consentite: ad esempio è stato ritenuto legittimo che il Regno Unito usasse testimoni con identità di copertura nel procedimento penale: (Corte europea dei Diritti dell’uomo, 10.04.2012 Quarta Sezione, nel Caso Marcus Ellis e Rodrigo Simms e Nathan Antonio Martin contro Regno Unito; numero del Ricorso: 46099/06 46699/06). Se la difesa dell’Italia ricordasse cosa è accaduto in questo Paese, mostrando, ad esempio, a Strasburgo le immagini della strage di Capaci, e documentasse l’accertata presenza di Cosa Nostra da oltre 150 anni, forse la Corte EDU capirebbe la differenza fra la realtà italiana e quella, ad esempio, dei Paesi scandinavi. Certo che, in via di principio, è preferibile che decida il giudice caso per caso, ma quando si considera che cosa è accaduto a magistrati italiani nonostante le protezioni, sarà possibile far comprendere perché, qui e ora, sia preferibile che in questa materia la discrezionalità del giudice sia sostituita dal divieto di legge, per evitare minacce e pressioni irresistibili su coloro che devono decidere o sui loro familiari. Almeno finché ci saremo liberati dalle mafie. Vaccino anti-Covid, prima i più fragili (detenuti inclusi) di Raffaele Minieri Il Riformista, 31 marzo 2021 La scelta del Governo di cambiare l’ordine di priorità nella somministrazione del vaccino ha spinto molti a domandarsi quale criterio poteva renderli un po’ più uguali degli altri. Se qualcuno, quindi, pensava che il problema potessero essere i no vax, si è dovuto ricredere. Finché la scelta governativa è stata quella di vaccinare per categorie, è evidente che centrale fosse l’individuazione dei servizi essenziali. È stato, quindi, anche comprensibile che ognuno pensasse di essere più essenziale di un altro. Con quel criterio nessun dubbio poteva esserci che la giustizia potesse avere una corsia preferenziale. D’altra parte siamo stati noi avvocati i primi a rivendicarlo, chiedendo che la giustizia non si fermasse o che comunque ripartisse in sicurezza (ma senza compressione dei diritti, pena l’inutilità della ripartenza). Abbiamo sin da subito avvertito il rischio che le immagini dei Tribunali deserti potesse dare l’idea dell’accessorietà del nostro settore rispetto ai bisogni del Paese. In quella fase siamo stati finanche accusati di guardare solo ai nostri interessi di bottega da chi, pur a fronte di una netta riduzione del carico di lavoro, non ha vissuto alcuna riduzione dei propri stipendi. Tuttavia ora con il radicale cambiamento di scenario voluto dal Governo Draghi (che aspetta ad imporlo alle Regioni per legge?) ogni richiesta di anticipare la vaccinazione per alcune categorie appare una forzatura. Abbiamo bloccato il Paese per proteggere i nostri anziani e i soggetti fragili. Lo abbiamo fatto ritenendo il diritto alla vita e alla salute prevalente rispetto alla sopravvivenza economica di migliaia di aziende (e quindi famiglie) e rispetto alle nostre libertà. Ora che la speranza di salvarli è concreta e l’opportunità di non vanificare tutti i sacrifici sostenuti è prossima, non possiamo cambiare rotta. Non possiamo farlo perché all’improvviso ci rendiamo conto che alcuni di noi sono più utili, più importanti, più produttivi. Non mi appartengono valutazioni morali consequenzialiste o utilitariste. È più utile vaccinare uno studente di medicina o un cassiere, un docente universitario in DAD o un riders, un ortopedico con studio privato o un cancelliere? Sono convinto che dobbiamo tutelare la vita dei soggetti fragili, soprattutto se sono in cima alla lista degli esclusi e degli emarginati (leggi - tra i vari - i detenuti). A questo punto non capisco perché non si pretenda che in cima alla lista delle priorità ci sia chi ha combattuto questa guerra in trincea, mentre alcuni prioritari cantavano sui balconi o erano in (very) smart working. Cresciuti con le denunce di Pannella contro l’aborto e l’eutanasia di classe, oggi rischiamo il vaccino di classe. Per questo preferirei poter cedere il mio (più che desiderato) vaccino ad un soggetto fragile, non tanto perché sia un imperativo categorico, ma per potermi guardare allo specchio ogni volta che penso ai morti per covid, ai malati in terapia intensiva e ai miei assistiti detenuti. Se questa è una guerra, vorrei essere Salvo D’Acquisto. Covid nelle carceri: ricorso alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo agi.it, 31 marzo 2021 L’A.I.V.E.C (Associazione Italiana Vittime Emergenza Covid 19), apolitica e apartitica, senza scopo di lucro, continua a prestare particolare attenzione alle voci di coloro che hanno subito e subiscono pregiudizi dalla diffusione del covid-19. Negli ultimi giorni sono pervenute alla richiedente associazione molteplici richieste di intervento, in questo particolare momento storico di pandemia. A tal fine l’A.I.V.E.C. ha aperto le adesioni per partecipare al ricorso innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo allo scopo di garantire i diritti dei detenuti, che con il diffondersi della pandemia affievoliti ancor di più. “Persone vulnerabili” e ad alto rischio proprio per le condizioni di vita all’interno delle carceri, dove le raccomandazioni sullo spazio e la distanza tra una persona e l’altra, e soprattutto quelle riguardanti l’igiene, non possono essere rispettate, esponendo così gli stessi prigionieri a maggiori rischi. Senza considerare le gravi malattie già esistenti. Particolare attenzione va posta ai detenuti anziani e a quelli che si trovano in cattive condizioni di salute. “Diminuire il numero dei detenuti in questo momento è fondamentale per garantire un aumento della sicurezza sanitaria” è quanto affermato dalla commissaria per i diritti umani Dunja Mijatovic. La minaccia da Covid-19 è attuale o imminente, ed è riferita all’intera popolazione nazionale ed alla comunità nel suo complesso. Teniamo presente che il tasso di positività nella popolazione italiana è del 1,26% (dati al 3 dicembre 2020) - nella popolazione detenuta diventa dell’1,82%. Al 9 dicembre se per la popolazione italiana sono scesi al 1,17%, per la popolazione detenuta sono saliti quasi al 2%, all’1,96%. Occorre assolutamente diminuire la popolazione detenuta. Oltre al dato del sovraffollamento, gli istituti devono reperire gli spazi che non ci sono per fare l’isolamento, perché altrimenti si contagia tutto il carcere. I diritti e le libertà fondamentali dell’uomo in riferimento ai detenuti sono ancor di più fortemente limitati, basti pensare alla disciplina dei colloqui con familiari, con modalità a distanza o addirittura esclusi. Occorre assicurare prevenzione e assistenza ai positivi, attività e relazioni affettive alla generalità dei detenuti in condizioni di sicurezza, fare in modo di garantire ai detenuti la garanzia minima dei diritti fondamentali. Occorre vaccinare la popolazione carceraria rapidamente. Purtroppo, tali condizioni non sono garantite e sta accadendo l’esatto contrario, con personale e detenuti positivi che si sono rapidamente moltiplicati, denotando un sistema in piena sofferenza. Lo Stato non è in grado di reagire velocemente né con la somministrazione di vaccini né adottando le cautele necessarie per garantire ai detenuti le loro garanzie fondamentali, prima fra tutte il diritto alla vita, ed è per tale motivo che si ritiene doveroso adottare misure alternative alla detenzione al fine di ridurre le presenze in carcere e creare spazi per una gestione efficace della prevenzione e dell’assistenza per quanti resteranno lì dentro. Il diritto alla vita come garantito dall’art. 2 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali subisce una grave lesione nei confronti della popolazione carceraria e L’A.I.V.E.C. preannuncia l’apertura delle adesioni al fine di tutelare tali diritti innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo gravemente violati dalla mancata predisposizione di vaccini e della concessione di misure alternative alla detenzione costringendo la popolazione detenuta a subire nuovamente quanto verificatosi nel mese di marzo scorso con l’interrompersi di quelle minime relazioni affettive garantite dalle telefonate, dalle videochiamate e dal colloquio mensile, già svolto in condizioni proibitive di distacco e di separazione, e con una percentuale probabilisitica di infettarsi maggiore rispetto alla popolazione libera. Con una significativa riduzione delle presenze in carcere sarebbe più facile affrontare la gestione sanitaria interna della prevenzione e dei focolai, nonché la prosecuzione - in condizioni di sicurezza - delle attività lavorative e formative, di istruzione, culturali o sportive. Covid nelle carceri: “Iniziano a mancare i posti per isolare i detenuti contagiati” di Stefano Pagliarini today.it, 31 marzo 2021 Ormai il Coronavirus si sta diffondendo anche nelle carceri italiane dopo l’ultimo caso in ordine di tempo, cioè quello registrato ieri nel carcere femminile di Rebibbia a Roma, dove risultano positive al tampone molecolare 35 detenute e 3 agenti di polizia penitenziaria. Non ci sono strumenti per isolare le persone negative da quelle infettate e il rischio e che non si riesca porre un argine alla diffusione del virus. A renderlo noto è il sindacato di polizia penitenziaria (Spp) che, per voce del suo segretario nazionale Aldo Di Giacomo, lancia l’allarme: “Siamo preoccupati per la grossa entità del focolaio e adesso potrebbero paradossalmente iniziare a mancare i posti in isolamento sanitario. Dal principio della pandemia abbiamo chiesto alle autorità nazionali competenti che venissero fatti screening periodici a tutto il personale penitenziario, cosa non avvenuta, eppure probabilmente si sarebbero potuti evitare diversi focolai, con più accuratezza e maggiore organizzazione, senza sottovalutare gli effetti del virus e salvaguardando in tal modo sia il personale che i detenuti”. Ma è una preoccupazione che vale per l’intero sistema paese perché nelle ultime ore sono emersi 36 positivi al Covid anche nel carcere di Melfi (Potenza) sono state riscontrati 36 casi di covid-19. Per fortuna qui è intervenuto il sindaco a spiegare come 26 di questi siano ai domiciliari e il focolaio sia circoscritto. Circoscritto è anche il focolaio nel reparto del 41bis del Cerialdo di Cuneo, dove si sono registrati alcuni casi. Contagio contenuto anche perché, in quella sezione del carcere, dove i detenuti sono reclusi per condanne definitive di mafia, terrorismo e traffico internazionale di droga, non vedono volontari o esterni e i colloqui con i parenti sono limitati. Ma in Piemonte ci sono positivi anche nelle celle a Saluzzo (27 detenuti, raddoppiati in 48 ore, 3 agenti, un impiegato) e Cuneo (11 detenuti e 6 agenti), ma ci sono casi anche a Fossano (3 agenti) e Alba (2 agenti). Quattro giorni fa 11 detenuti positivi nel 41bis di Parma e 30 agenti di polizia. Quasi 50 i contagiati nel carcere femminile di Villa Fastiggi di Pesaro, nelle Marche. Focolai di Covid in carcere - In particolare sul Lazio interviene anche la vice-segretario generale Gina Rescigno e responsabile sindacale nazionale Spp del comparto Polizia Penitenziaria femminile: “Lo sforzo messo in atto dalla nuova gestione del carcere è massimo, ma nel Lazio ancora tarda il via alla somministrazione dei vaccini. Sono ormai imprescindibili interventi seri da parte delle autorità competenti perché di risposte apparentemente certe, o che per tali si vestono, non sappiamo più che farcene, non bastano più ai poliziotti dispiegati su tutto il territorio nazionale”. Insomma in Italia, mentre in alcune regioni vengono fatte leggi ad hoc per agevolare il vaccino a chi lavora nel comparto giustizia e mentre l’Anm lancia l’allarme sul rischio di ingolfamento dei processi, suona l’allarme rosso nell’ultimo angolo in penombra del sistema giustizia. Sono mesi che i sindacati di polizia penitenziaria e associazioni per i diritti come Antigone mettono in guardia il Ministero e il Governo dalle conseguenze della diffusione del Covid all’interno degli istituti penitenziari. Se non si prenderanno provvedimenti e se non si correrà con una campagna vaccinale apposita e cadenzata, il rischio, lo avevano detto sia Gonnella che Di Giacomo, è di restare senza agenti e che l’inevitabile crollo del sistema carcerario possa tramortire quello sanitario nazionale. Il carcere: una prospettiva di genere di Debora De Carolis treccani.it, 31 marzo 2021 Quando si parla di detenzione il più delle volte se ne trascura la dimensione femminile, sia a causa del ristretto numero di delinquenti donne, da sempre sensibilmente inferiore a quello dei delinquenti maschi, sia a causa della persistente difficoltà culturale ad affrontare ed inquadrare la problematica della donna-delinquente. Storicamente, la donna deviante, che contravveniva cioè alle regole che la società (maschile) si era data, non è mai stata considerata come portatrice cosciente di ribellione o di disagio sociale, ma, piuttosto, in ragione della sua presunta inferiorità biologica e psichica, come una “posseduta” (ad esempio una strega) o una malata di mente (ad esempio un’isterica); e questo perché non si poteva ammettere, culturalmente, che una donna potesse coscientemente desiderare e decidere, con autonomia di scelta, di infrangere la legge scritta dagli uomini. Cesare Lombroso, universalmente riconosciuto come il fondatore dell’antropologia criminale, fu il primo a tentare una analisi sistematica della problematica della delinquenza femminile, individuando, nel suo testo del 1893 intitolato La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, nella maggiore debolezza e stupidità delle donne rispetto agli uomini la causa della minore diffusione della criminalità femminile. Inoltre, la donna delinquente è sempre stata considerata colpevole non soltanto di aver trasgredito la legge posta dagli uomini, ma anche di aver tradito, commettendo il reato, la propria natura femminile, tradizionalmente dedita alla maternità. La donna delinquente subiva, pertanto, una doppia emarginazione, sia perché colpevole sia perché donna degenere e, eventualmente, anche madre degenere. Secondo quest’ottica paternalistica, le donne, più che punite, dovevano, dunque, essere corrette nella loro personalità, per essere ricondotte al modello femminile dominante, tanto che, fino al 1990, anno della istituzione del Corpo di Polizia Penitenziaria, la custodia delle donne detenute era affidata alle suore che impostavano la vita carceraria non tanto sulla punizione, quanto piuttosto sulla “correzione” dell’errore commesso, utilizzando i lavori domestici, le attività legate ai ruoli femminili tradizionali e la preghiera quali strumenti per agevolare il ravvedimento. Alla donna veniva pertanto proposto di adeguarsi a vivere la casa come proprio mondo di riferimento e di azione e interiorizzare la famiglia come spazio di stabilità affettiva e di realizzazione, secondo l’uso e l’ideologia del tempo. Così, il modello di educazione alla dipendenza, che da sempre è stato alla base della socializzazione delle donne, si è riprodotto a lungo anche in carcere: infatti, se per l’uomo l’istituzione detentiva doveva servire a far sì che il reo accettasse le regole del patto sociale infrante con la commissione del reato, per le donne la carcerazione assolveva piuttosto una funzione rieducativa, il che significava innanzitutto indurle ad accettare la subalternità del proprio ruolo. Tale modello di gestione della vita detentiva femminile, attuato attraverso la vigilanza di suore, è rimasto pressoché invariato fino alle riforme degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. In linea di principio, con le predette riforme, reclusione maschile e reclusione femminile si sono avvicinate: quest’ultima laicizzandosi (alle suore si sono sostituite dapprima le vigilatrici e poi le agenti di polizia penitenziaria), e la prima indirizzandosi verso obiettivi di rieducazione e di reinserimento sociale. Assimilando sempre di più i due modelli di reclusione, però, la dimensione femminile ha finito con l’essere ancor meno visibile, e i problemi organizzativi e di gestione connessi alla detenzione femminile sono divenuti paradossalmente ancora più residuali, fagocitati dalle problematiche che suscita la detenzione maschile. La criminalità e la detenzione femminile sono divenute materia specifica d’indagine e di studio solo in tempi relativamente recenti. Tale accresciuto interesse ha coinciso con l’emergere, negli anni Settanta del secolo scorso, di un nuovo protagonismo sociale e culturale della donna, che si è tradotto, sul piano legislativo, nell’approvazione di una serie di leggi a favore della libertà e dell’emancipazione delle donne (dalla procreazione controllata alla depenalizzazione dell’aborto, dal divorzio all’abrogazione del reato di adulterio femminile). Malgrado la maggiore visibilità delle “questioni femminili”, in ambito criminale e penitenziario si sono registrati tuttavia scarsi mutamenti: gli uomini restano, ancora oggi, i protagonisti quasi esclusivi della realtà e della scena carceraria e criminale. Le donne rappresentano, infatti, una percentuale minoritaria dell’intera popolazione detenuta italiana (rimasta pressoché costantemente attestata intorno al 5% delle presenze complessive). Il ristretto numero di donne in carcere ha comportato una strutturazione del sistema penitenziario fondato sulle esigenze di custodia di uomini, che non tiene conto delle problematiche e specificità della popolazione detenuta femminile. Il carcere, così come concepito e organizzato nella pratica, rappresenta un’istituzione totale maschile, con regole rigide e predeterminate tese al contenimento dell’aggressività e della violenza, in cui non vi è spazio per il profilo emozionale che è proprio dell’esperienza comunicazionale di ogni donna che, conseguentemente, risulta rinchiusa non soltanto in un perimetro fisico, ma anche psicologico e umano, alienata dalla propria identità. Come molti operatori penitenziari osservano, la condizione detentiva è, per la donna, carica di una componente afflittiva ulteriore. Si riscontra, infatti, una particolare insofferenza alla detenzione da parte delle donne detenute, insofferenza che viene accentuata dal distacco dalla famiglia e che colpisce le donne in quanto tali, con disturbi fisici e malattie, tutti prevalentemente di carattere psicosomatico (amenorrea e disturbi mestruali in genere, cefalea, stipsi, anoressia, bulimia, gastriti, depressione), come se esse vivessero sul loro corpo non solo il peso della reclusione e della costrizione in un ambiente ristretto (questo lo vivono anche gli uomini), ma anche il diverso succedersi del tempo, l’angoscia della separazione, la negazione della femminilità e della maternità. È evidente che quella che gli operatori chiamano “particolare insofferenza delle donne verso il carcere” è una condizione legata proprio all’essere donna, e per questo diversa da quella maschile: la perdita del proprio ruolo di moglie/madre/figlia, la lontananza dagli affetti, il senso di colpa per aver “abbandonato” i figli e la mancanza assoluta di controllo sulla propria vita che il carcere, in cui ogni gesto quotidiano è minuziosamente regolamentato, produce sul detenuto, causano maggiore sofferenza alle donne, abituate a “gestire” da sole la vita propria e spesso quella degli altri. In quel piccolo universo chiuso e sospeso, la donna cerca allora di riempire il vuoto e la mancanza di affetto attraverso piccoli gesti rivolti a persone e cose. La cura del proprio corpo, delle proprie cose, della cella, del proprio lettino rispondono al bisogno della donna di ritrovare un proprio spazio, una propria identità: un “ritrovarsi” nella confusione, spersonalizzazione e alienazione che il carcere crea. Forse è anche in questo che rientra la difficoltà delle donne ad accettare le regole, regole che sentono distanti perché declinate sul modello del detenuto maschio adulto: la forza con cui si oppongono a un annullamento della propria persona e della propria femminilità da parte di un’istituzione più forte e maschile. Quando si affronta la questione della detenzione femminile non si può certo sottacere il problema della maternità e della presenza in carcere di figli minori. Quando ad essere confinata è una madre, la carcerazione inevitabilmente riverbera i suoi effetti anche sui figli che ne dipendono emotivamente e materialmente. La legge di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 ha sancito, per le detenute madri di figli di età inferiore a tre anni, il diritto di tenerli con sé in istituto, consentendo così di instaurare con loro quel legame profondo tanto importante nei primi anni di vita. È evidente, però, che il rapporto madre-figlio, considerato alla luce della particolare posizione della madre-detenuta, presenta un’inconciliabilità: da un lato, tutelare il ruolo di madre significa consentire alle detenute di accudire i propri figli; dall’altro, proteggere l’infanzia vuol dire permettere ai bambini di crescere in ambienti adatti al loro sviluppo psicofisico. È facilmente intuibile che un contesto monotono e privo di stimoli come il carcere, delimitato negli spazi da chiavistelli e sbarre, con aria e luce limitati e connotato dall’assenza di autorevolezza della figura genitoriale, non sia idoneo a consentire questo corretto sviluppo e determini, anzi, l’insorgere di gravi disturbi relazionali e comportamentali. È stata proprio l’esigenza di salvaguardare il superiore interesse del minore a ricevere cure materne costanti all’interno di un ambiente idoneo a sollecitare l’intervento del legislatore con la previsione di una ricca e articolata rete di istituti indirizzati alla decarcerizzazione delle donne che accudiscono figli nell’età dell’infanzia. Esemplificativa a tal proposito è la legge 21 aprile 2011, n. 62, la quale prevede per le detenute incinte o madri di prole di età non superiore a sei anni la possibilità che venga disposta nei loro confronti la custodia presso Istituti a Custodia Attenuata per Detenute Madri (cc.dd. I.C.A.M.), allo scopo di preservare la relazione materna e consentire ai figli delle detenute di trascorrere i loro primi anni di vita in un ambiente “familiare” che non ricordi il carcere, riducendo così il rischio d’insorgenza di problemi di sviluppo della sfera emotiva e relazionale dell’infante. Pur riconoscendo i progressi compiuti in questa direzione, ad oggi sono in numero crescente le madri che, a causa della permanenza di alcuni fattori normativi e fattuali, rischiano, tuttavia, di scontare la pena dietro le sbarre, eventualmente insieme ai propri bambini. Quella della detenzione femminile è certamente la storia di una minoranza: rispetto agli uomini, infatti, sono poche le donne detenute, internate, trattenute. Questa loro presenza marginale non deve, tuttavia, far dimenticare che esse sono portatrici di esigenze specifiche, che attendono risposte adeguate. Di questo pare essere consapevole, del resto, la Direzione generale dei detenuti e del trattamento che, nel 2008, ha diffuso una circolare contenente uno schema di regolamento interno-tipo per gli istituti femminili e le sezioni femminili che ospitano detenute comuni, con l’evidente obiettivo di cogliere e tutelare il valore della “differenza di genere”, declinando il senso dell’esecuzione della pena secondo codici, linguaggi e significati congruenti con la specificità dell’identità femminile, in maniera da evitare l’innescarsi di ulteriori meccanismi di marginalizzazione a discapito delle donne detenute. Il quadro che emerge rispetto alla delicata questione della detenzione femminile è chiaro: la storica marginalità del fenomeno della delittuosità femminile ha fatto sì che la condizione delle donne in carcere sia stata per lungo tempo - e, per certi versi, ancora oggi - considerata di scarso interesse, anche tra gli addetti ai lavori, e perciò destinataria di pochissime risorse economiche e culturali, nonostante i costi, non solo personali ma soprattutto sociali, dell’incarcerazione femminile siano evidentemente più gravosi. Una giornata per il carcerato di don Ettore Cannavera volontariatoseac.it, 31 marzo 2021 Lettera al Papa. Caro Papa Francesco, sono un sacerdote di settantasei anni e da oltre mezzo secolo svolgo la mia missione pastorale al servizio degli ultimi, dei rifiutati, dei dimenticati. Di coloro che chiamiamo cattivi e di cui abbiamo bisogno per sentirci buoni: dei carcerati, che Lei incontra in ogni occasione che può. Tanti anni fa, giovane sacerdote, inquieto sulla mia missione sacerdotale, sono entrato in un carcere, quello minorile di Cagliari, quasi per caso - io credo favorito dalla Divina Provvidenza - e da quel momento non ne sono più uscito. Perché tanta è stata la pena per i poverini rinchiusi là dentro, privati non solo della libertà ma anche della dignità di essere umano - in completa contraddizione col nostro credo di cristiani - che ho deciso di dedicare loro tutto me stesso. è la mia missione. Nei successivi cinquant’anni, aiutato da donne e uomini di buona volontà, non certo da solo, ho esplorato molti percorsi per dare ai carcerati la dignità cui hanno diritto per legge e soprattutto per insegnamento evangelico (Mt 25,36). Abbiamo costituito cooperative e associazioni di volontariato; abbiamo lavorato per tentare di alleviare il peso insopportabile della privazione della libertà. Infine, assieme ai tanti amici, abbiamo fondato La Collina, una comunità di recupero per detenuti giovani e adulti. Da venticinque anni accogliamo detenuti colpevoli di gravi reati. Se l’autorità giudiziaria consente loro di usufruire di misure sostitutive o alternative alla detenzione e debbano completare un programma rieducativo e riabilitativo già avviato presso gli istituti di pena, scontano la pena da noi. In campagna, alla periferia di un piccolo paese del cagliaritano (Serdiana), sperimentano una vita comunitaria di lavoro e di serenità. E di cultura. Ci educhiamo tutti assieme: loro imparano a convivere civilmente col prossimo, noi impariamo ad accogliere chi ha sbagliato e a scommettere sulla loro decisione di non sbagliare ulteriormente. Chi termina di scontare la pena da noi, in comunità, smette di delinquere dopo la fine della condanna, al contrario di chi sconta la pena in carcere che ricomincia a delinquere una volta uscito. Noi diamo al carcerato il diritto alla rieducazione, diritto che la nostra stessa Costituzione garantisce (art.27). Ogni mattina, al mio risveglio, chiedo nelle mie preghiere che mi venga concesso di essere un buon sacerdote. Non lo faccio per superbia, piuttosto per insicurezza: perché so che potrei fare di più per chi soffre e non ne sono capace. Ecco perché mi permetto di disturbare il Papa, per pregarlo di aiutarmi ad essere un prete migliore. E per questo avrei una preghiera: non potremmo istituire la Giornata Mondiale del Carcerato? Una delle domeniche dell’anno, durante la Messa, il celebrante potrebbe richiamare l’attenzione dei credenti su Matteo 25,36: [ero] carcerato e siete venuti a trovarmi. Un versetto apparentemente semplice eppure denso di significato e di impegno. Celebriamo giustamente la giornata del rifugiato, del migrante, del povero e del malato. Ma se poi finisce in carcere, e ci finisce spesso, lo si dimentica nonostante il messaggio di Matteo sia così chiaro. Diventa uno degli ultimi cui si aggiunge il peso terribile della sottrazione della libertà, dunque l’ultimo degli ultimi. Una condizione atroce. Perché noi cristiani, condizionati dalla cultura dominante, siamo disponibili ad aiutare il migrante, il povero, il malato… ma non chi finisce in carcere, come se la sua “devianza” fosse totalmente attribuibile a una sua responsabilità. E se dedichiamo tanta attenzione ai poveri e ai malati, se c’è la Giornata Mondiale del Malato, che dire quando vengono imprigionati? Le carceri traboccano di malati - cos’altro sarebbero i drogati di cui le prigioni sono colme, se non malati? - e non smettono di esserlo: sono malati e carcerati. Di nuovo gli ultimi degli ultimi. Caro Francesco, ho letto con gioia immensa il Suo messaggio al nuovo presidente degli Stati Uniti: “…prego che le sue decisioni siano guidate dalla preoccupazione per la costruzione di una società caratterizzata da autentica giustizia e libertà, insieme al rispetto incrollabile dei diritti e della dignità di ogni persona, specialmente i poveri, i vulnerabili e coloro che non hanno voce”. Domando: chi potrebbe essere più vulnerabile e privo di voce di un carcerato? Dell’ultimo degli ultimi? Il reietto gettato con indifferenza in quella pattumiera sociale che è il carcere, senza alcun riguardo per la sua dignità di essere umano? Al mondo ci sono milioni di carcerati, di esseri umani trasparenti e sconosciuti che sommano alla propria condizione di ultimo quella di dimenticato. Sono muti e non possono farsi sentire. Diamo loro voce per un giorno: istituiamo la Giornata Mondiale del Carcerato. Per una volta facciamoli parlare. Glielo chiede un modesto sacerdote che la Provvidenza, imperscrutabile, ha voluto trovare in un paesino periferico della periferia d’Europa (Serdiana, in Sardegna) per mandarlo a svolgere il proprio compitino tra gli ultimi. Un figlio di contadini che coltiva ulivi e viti assieme ai carcerati. Nella speranza che il Papa, che non a caso ha deciso di chiamarsi Francesco, gli faccia la grazia di ascoltarlo. Prego il Signore che voglia conservarLa in salute. Certo, assicuro preghiere come Lei chiede ogni domenica. Presunzione di innocenza, i garantisti vincono la battaglia di Liana Milella La Repubblica, 31 marzo 2021 La Camera dice sì alla direttiva Ue. Cosa succede ora? Dopo un lungo braccio di ferro, via libera pressoché unanime: un solo voto contrario. Dalla maggioranza il ringraziamento alla ministra Cartabia per la sua mediazione. La norma europea richiama al rispetto del principio della non colpevolezza fino alla condanna definitiva. È stata una battaglia durissima, ma alla fine i garantisti l’hanno vinta. E sul principio della presunzione d’innocenza fino alla condanna definitiva, la Camera ha addirittura votato praticamente all’unanimità: 427 i voti favorevoli, uno contrario e 11 astenuti. Entusiasmo alle stelle per chi, come Enrico Costa, l’ex forzista passato con Calenda, ha quasi rischiato la spaccatura della maggioranza pur di far entrare subito, nella legge italiana, la direttiva europea del 2016 che contiene appunto questo principio. Nessuno può essere presentato, all’inizio dell’indagine, come colpevole, di fronte all’opinione pubblica. Toccherà adesso alla Guardasigilli Marta Cartabia concretizzare nelle leggi italiane questo principio. Che sarà inserito nella legge di Delegazione europea. Che, proprio per l’inserimento di questo emendamento, dovrà tornare al Senato per una nuova lettura. La battaglia è durata oltre cinque mesi. Ma poi si è conclusa in meno di mezz’ora. Proprio perché alle spalle, da quando è diventata Guardasigilli Marta Cartabia, e ovviamente con la nuova e ampia maggioranza che mette insieme i garantisti (Forza Italia, Azione, Più Europa) e i giustizialisti (M5S), il clima sulla presunzione d’innocenza è cambiato rispetto al netto diniego di M5S. Ma prim’ancora di passare alla discussione in aula, ai tanti sì che si sono accavallati, compresi quelli dell’unica voce di opposizione al governo, e cioè Fratelli d’Italia, fino all’intera maggioranza, cerchiamo di capire subito cosa significa “presunzione d’innocenza” e dove nasce la necessità di recepire il principio nella legislazione italiana. Ecco uno dei passaggi più importanti della direttiva europea del 2016: “La presunzione d’innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole. Ciò dovrebbe lasciare impregiudicati gli atti della pubblica accusa che mirano a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato, come l’imputazione, nonché le decisioni giudiziarie in conseguenza delle quali decorrono gli effetti di una pena sospesa, purché siano rispettati i diritti della difesa”. Su questo principio si è discusso dall’anno scorso. Da quando Costa, in quel momento di Forza Italia, ha presentato il primo emendamento in commissione Giustizia. Un testo articolato, che, come vedremo, a gennaio lo stesso Costa, alla vigilia del suo ingresso nella maggioranza, ha riproposto pari pari chiedendo di inserirlo nella legge di Delegazione europea. Con una serie di dettagliate imposizioni sul comportamento delle procure e dei procuratori: stop alle conferenze stampa dopo gli arresti, stop alla diffusione di foto e filmati, stop alla “distribuzione gratuita” dell’ordinanza di custodia cautelare, stop alla divulgazione delle intercettazioni. In una parola, stop netto a tutto quello che può radicare nell’opinione pubblica l’idea che l’indiziato o l’arrestato sia, già dall’arresto, un colpevole. Perché, e qui Costa riprende la Costituzione, solo dopo la sentenza definitiva si può diventare “colpevoli”. Quell’emendamento, a novembre 2020, era stato bocciato 23 a 23 in commissione Giustizia con il voto determinante del presidente Mario Perantoni di M5S. Ma a gennaio si è scatenato lo scontro nella maggioranza. Proprio a ridosso del voto sulla legge di Delegazione europea, già approvata al Senato, che recepisce una serie di norme Ue. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Inca era contrario a emendare il testo per non rimandarlo al Senato. Ma Costa per primo, e poi Lucia Annibali di Italia viva, Pierantonio Zanettin di Forza Italia, Roberto Turri della Lega, hanno scatenato una pressione fortissima per introdurre la “presunzione d’innocenza”. Inizialmente più cauto il Pd che però via via si è unito con Alfredo Bazoli alle stesse richieste di Costa. Il quale, pur di chiudere e ottenere almeno l’inserimento del principio di presunzione, ha rinunciato al suo emendamento “lungo” per una versione short, secca, di sole due righe. Questa: nella legislazione italiana entra “la direttiva Ue 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Due righe che compendiano però l’intero testo della direttiva stessa. Che, declinata nelle nostre leggi penali, potrebbe pesare moltissimo. Soprattutto nella vita di tutti i giorni delle procure, alle prese con arresti, ordinanze di custodia, intercettazioni. Una giurista europea come Marta Cartabia non poteva certo non recepire la richiesta di Costa. Credendo profondamente nel principio della presunzione d’innocenza. E alla fine D’Incà ha accettato che il testo della legge di Delegazione, come aveva chiesto anche la capogruppo di Italia viva Maria Elena Boschi, tornasse al Senato per una breve rilettura. Ma soprattutto M5S, di fronte alla richiesta di tutta la maggioranza, ha dovuto accettare l’introduzione del principio. Sabato scorso l’accordo è stato siglato e chiuso, alla presenza del capogruppo alla Camera di M5S Davide Crippa. E siamo a oggi. Ai trenta minuti in cui, a Montecitorio, la partita è stata chiusa. Inutile il tentativo di Fratelli d’Italia, con l’emendamento firmato dal capogruppo Francesco Lollobrigida, di proporre un testo lungo, quello originario di Costa. L’emendamento è stato bocciato nonostante una decina di deputati di FdI l’abbia sponsorizzato in ogni modo, a partire da Carolina Varchi. Che chiede “sanzioni per chi presenta l’imputato come colpevole”, vuole “colpire le fughe di notizie”, vuole “vietare la pubblicazione degli atti d’indagine preliminare e delle intercettazioni”. Si spende Roberto Giachetti di Italia viva, da sempre super garantista, per il quale bisogna essere considerati “non colpevoli fino al terzo grado di giudizio”, mentre “il processo e la condanna mediatica tradiscono l’articolo 27 della Costituzione”. L’ingresso del principio europeo, invece, obbligherà tutti a “un esercizio di responsabilità”. Ma l’emendamento di Fratelli d’Italia non passa, in 370 contro 60 non lo vogliono. Siamo alla proposta Costa, che in modo simile è stata presentata anche dalla renziana Annibali, dal forzista Zanettin, da Bazoli del Pd, ma anche dal leghista Turri. È ormai l’emendamento di tutta la maggioranza. Al quale Costa dà un forte valore per le sue possibili conseguenze future. Parla di “obbligo di non presentare la persona indagata come colpevole”, di “uno stop alle conferenze stampa in cui i magistrati usano termini non neutri e descrivono gli indagati come già responsabili dei delitti, mentre la difesa non tocca palla, non viene coinvolta, mentre le inchieste vengono battezzate con dei nomi, mentre vengono spiattellate le intercettazioni telefoniche”. E ancora: “Dopo anni la persona viene assolta, ma difficilmente potrà riuscire a recuperare la sua vita familiare e il suo lavoro”. Una vera arringa la sua: contro “la logica del buttiamo la chiave”, del “siamo garantisti ma...”, dell’essere “garantisti con gli amici, ma forcaioli con gli avversari”. Sono le convinzioni di un Costa, avvocato nella vita, sostenute da sempre, da quando fa politica. E a Costa giunge il “grazie” di Carlo Calenda che parla di “grande vittoria per Azione e per tutti i garantisti e liberali d’Italia”. Stavolta Costa si ritrova in buona compagnia. Ecco Zanettin, anche lui un avvocato, che esordisce così: “Stiamo scrivendo una bella pagina”. E ancora: “Questo è un momento di svolta, è uno stop alla giustizia manettara”. Arriva da lui invece il “grazie” per la mediazione di Marta Cartabia e per “un traguardo di cui tutti siamo contenti”. Un coro insomma. In cui la parola finale spetta alla responsabile Giustizia di Italia viva Lucia Annibali che dice: “La certezza della pena non è la certezza del carcere”. Ma vedremo, a questo punto, quali saranno le concrete conseguenze, quando i principi dovranno essere tradotti in norme, a cominciare da quelle dell’ordinamento giudiziario su cui sta lavorando proprio Cartabia per “emendare” le leggi del suo predecessore Alfonso Bonafede. Via libera della Camera al recepimento della direttiva sulla presunzione di innocenza di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2021 È stato approvato un emendamento al disegno di legge di delegazione europea, il testo ora torna al Senato in terza lettura. Sì dell’Aula della Camera a larghissima maggioranza all’emendamento alla legge europea sul recepimento nell’ordinamento italiano alla direttiva del 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo penale. Respinto invece, a scrutinio segreto, l’emendamento presentato di FdI che accompagnava il recepimento della direttiva con la regolamentazione e la sanzione della fuga di notizie relative ad indagini giudiziarie. Il tema aveva determinato un dibattito nella maggioranza che aveva spinto il relatore Piero De Luca (Pd) la scorsa settimana ad uno slittamento dell’esame del testo. In tema di giustizia, il M5S aveva in particolare fatto emergere delle rigidità relative proprio alle proposte sulla direttiva relativa alla presunzione di innocenza. A questo punto, la legge europea dovrà tornare al Senato, che l’aveva già approvata in prima lettura. “Il recepimento della direttiva del 2016 sulla presunzione di innocenza, grazie all’emendamento a firma del collega Enrico Costa, che ringrazio per la perseveranza, e mia, votato oggi quasi all’unanimità dalla Camera è un segnale importante in una fase in cui il giustizialismo e il processo mediatico sembrano avere la meglio”. Lo dice Riccardo Magi, deputato di Più Europa-Radicali. “Auspichiamo che il governo sappia cogliere questa occasione per rafforzare le norme a garanzia della presunzione di innocenza, che a parole viene riconosciuta e enunciata da tutti ma nei fatti viene spesso travolta e con essa la vita e la dignità di troppi cittadini”, conclude Magi. “Quella che stiamo scrivendo oggi è una bella pagina. Forza Italia per prima ha sollevato il problema del recepimento della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza di chi è imputato in procedimenti penali presentando un emendamento. C’è stata una battaglia a tratti anche aspra in commissione Giustizia, ma oggi il parere di governo e relatore sul nostro emendamento è favorevole”. Lo ha detto il deputato e capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia Pierantonio Zanettin, intervenendo in aula a Montecitorio nel corso della discussione della legge di delegazione europea. “Vogliamo ringraziare la ministra Cartabia che ha voluto dare una svolta importante su questo tema. Abbiamo davvero apprezzato il suo stile, ma anche le sue parole che si traducono in questo piccolo primo passo rispetto ai tanti problemi del settore della giustizia di cui stiamo dibattendo. Di certo siamo dinanzi a una svolta, a qual famoso punto di discontinuità rispetto a quel giustizialismo manettaro che noi abbiamo contrastato in questi primi tre anni di legislatura”, conclude. Presunzione di innocenza, tre mesi al governo di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 31 marzo 2021 Con un compromesso passa il recepimento della direttiva Ue del 2016 che impone garanzie rafforzate. Ma ora tocca ai decreti delegati che dovranno passare per le commissioni e la maggioranza è ancora divisa. Quasi all’unanimità, la Camera dei deputati ha approvato ieri il recepimento di una direttiva europea, vecchia di cinque anni, che prescrive agli stati membri di rafforzare la presunzione di innocenza. La legge di delegazione europea, così modificata, dovrà tornare al senato dove potrebbe essere licenziata già la prossima settimana. Il voto di ieri è il risultato di una mediazione condotta dalla ministra Cartabia tra chi chiedeva di accompagnare l’adozione della direttiva europea con indicazioni stringenti circa la non pubblicabilità delle intercettazioni o il divieto ai procuratori di battezzare le inchieste con nomi che alludono alla colpevolezza degli indagati (Iv, Fi e Azione +Europa) e chi non voleva nulla di tutto questo (M5S). L’adozione secca delle indicazioni europee, avvenuta con emendamenti di tutti i partiti della maggioranza, è comunque un passo importante perché la direttiva contiene passaggi assai distanti dalla realtà dell’informazione giudiziaria in Italia. Per esempio garantire che “fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole”. Il problema, però, è solo rimandato per la maggioranza, che resta profondamente divisa sulla giustizia. La direttiva Ue è scaduta nel 2018 e in questi casi sono concessi solo tre mesi al governo per adottare i decreti delegati di effettivo recepimento. Decreti che devono passare al vaglio delle commissioni parlamentari. In Cdm proroga emergenza e rimessione in termini per disfunzioni telematiche di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2021 Nel nuovo decreto per fronteggiare la diffusione del contagio da Covid-19 sul tavolo del prossimo Consiglio dei ministri, convocato per oggi, mercoledì 31 marzo alle 17.30, dovrebbe entrare, a quanto si apprende, anche il rinvio del concorso in magistratura attualmente previsto per fine maggio. Inoltre, è prevista la proroga della normativa di emergenza negli uffici giudiziari e la possibilità di fare ripartire i termini nei casi malfunzionamento del portale telematico. Si va dunque verso un rinvio del concorso, per esami, a 310 posti di magistrato ordinario (indetto con Dm 29 ottobre 2019), attualmente previsto nei giorni 25, 26 e 28 maggio 2021 in due sedi (la Fiera Roma, in via Portuense, nn. 1645 - 1647 e la Fiera Milano Rho, strada statale Sempione, n. 28), per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Nel decreto Covid di domani, infatti, entrerebbe una norma che consente delle deroghe alle leggi attualmente vigenti in materia di concorso in magistratura. Sarà poi un successivo decreto ministeriale a regolare tutti i dettagli e dunque anche a fissare le nuove date e le modalità di svolgimento dell’esame. Queste ultime dovranno ottenere prima il via libera del Comitato tecnico scientifico. Mentre per i tempi si ipotizza che i circa 10mila candidati potranno sostenere il concorso prima del mese di agosto. Infine, per consentire le prove in sicurezza, gli esami saranno dislocati su più sedi e le prove si svolgeranno con una modalità più agile, in modo tale da permettere la presenza dei candidati per meno ore. Un altro elemento che sarà presente nel decreto Covid, è la proroga della normativa d’emergenza per uffici giudiziari che verrà procrastinata fino al 31 luglio. La richiesta era arrivata nei giorni scorsi proprio dall’Associazione nazionale magistrati nel corso di un colloquio con la Ministra della Giustizia Marta Cartabia ma poi era entrata come ulteriore elemento polemico nella nota dell’Anm sui vaccini che ha suscitato tanto clamore. Allo stato però la questione sembra destinata a rapida soluzione Infine, il Cdm dovrebbe approvare anche una norma relativa alla rimessione in termini in caso di cattivo funzionamento del portale di deposito degli atti. Un tema molto caro alle Camere penali che hanno proclamato l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria per i giorni 29, 30 e 31 marzo 2021, proprio a seguito delle “reiterate richieste, tutte andate a vuoto di consentire, alla luce di un ‘evidente malfunzionamento dei portali’ (cosa che determina una ‘grave lesione dei diritti dei cittadini sottoposti a procedimento penale e delle persone offese), di accedere anche alle modalità tradizionali di deposito e accesso ai fascicoli”. Altro tema caldo in fase di definizione da parte del Governo, infine, è l’obbligo vaccinale e lo scudo penale per i medici e gli operatori sanitari. Per il Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto: “Sarà una norma innanzitutto corretta sul piano dell’impianto costituzionale, poiché la protezione della salute passa anche attraverso tale scelta. È pure del tutto legittimo proteggere con uno ‘scudo’ chi si impegna nelle vaccinazioni non potendo avere altre responsabilità che vadano oltre il gesto tecnico del vaccinare”. Che gaffe i magistrati! Ma i diritti non possono restare in lockdown di Davide Varì Il Dubbio, 31 marzo 2021 La nota stonata dell’Anm ha avuto un effetto clamoroso: ha messo d’accordo tutti. E, dato ancora più sorprendente, ha messo d’accordo tutti sulla Giustizia: il campo di battaglia politico più virulento degli ultimi trent’anni. La richiesta dei magistrati (richiesta con allegata la minaccia di bloccare tutto) di una via preferenziale per i vaccini ha infatti unito amici e nemici delle procure. I primi, di salda formazione anticasta, hanno immediatamente sentito puzza di bruciato e denunciato il tentativo dei magistrati di reclamare privilegi corporativi; i secondi - che invece aborrono da sempre qualsiasi deriva populista - stavolta non hanno resistito al richiamo viscerale della battaglia contro le procure invocando l’indignazione generale. Insomma, l’Anm è riuscita nel miracolo di riunire il campo populista e quello antipopulista sotto il vessillo dell’anticasta giudiziaria. Ma siamo certi che la nota dell’Anm possa essere liquidata come richiesta di un insopportabile privilegio? Prima di tutto chiariamo un punto: il comunicato del sindacato dei magistrati ha un “sapore” sgradevole e deve essere sfuggito di mano a qualcuno che non ha colto la temperatura di un Paese che in questi anni è stato concimato con manciate di odio e populismo. Ed è singolare che questo errore di valutazione arrivi proprio dalle procure, da chi, cioè, ha partecipato a quella semina. Ma accanto alla sacrosanta indignazione per un comunicato inopportuno - inopportuno nei toni, nei tempi e nella forma - va detto che alcune delle preoccupazioni delle toghe hanno alcuni elementi di verità. E l’incomprensione nasce da una messa a fuoco sbagliata. Qui non si tratta (solo) di tutelare la salute dei magistrati e degli avvocati, né di reclamarne un incomprensibile “privilegio” o una indebita priorità; qui si tratta di tutelare la giustizia. Che altro non è se non le migliaia di persone in attesa di giudizio, spesso in galera, che attendono un’udienza, un permesso o una carta bollata che tarda sempre più ad arrivare ma che per molti di loro può voler dire la libertà: vedi il caso di Napoli, dove i penalisti denunciano ritardi drammatici da parte del Tribunale della libertà che ricadono sui loro assistiti. Un paragone calzante, seppure con i dovuti distinguo e le dovute proporzioni, potrebbe essere quello con la categoria dei medici. La salute dei nostri operatori sanitari è stata giustamente considerata fondamentale e prioritaria perché si tratta di persone che da mesi sono impegnate in prima linea a combattere contro questo virus. Dunque la loro salute è la premessa per la nostra salute; e la tutela del singolo va a vantaggio di tutta la comunità. Poi ci sono i nostri anziani: sono le persone più fragili ed esposte e per questo vanno protette immediatamente. Infine le persone con malattie croniche o tutti coloro che in qualche modo sono più esposti di noi. Ma una volta messa al sicuro la tenuta del nostro sistema sanitario, è plausibile pensare a come mettere al sicuro la nostra giustizia. Perché lì ci stiamo giocando una partita altrettanto importante per la nostra comunità: quella dei diritti, delle garanzie e delle nostre libertà. E allora speriamo di poter tornare a parlare di giustizia con serenità perché, come detto, a pagarne le spese sono soprattutto le migliaia di italiani che sono da mesi e da anni in attesa di giudizio. Che non è grave quanto una malattia, ma poco ci manca. Nordio: “Sì alla separazione delle carriere e sorteggio per il Csm” di Simona Musco Il Dubbio, 31 marzo 2021 “La cosiddetta cultura della giurisdizione è un tavolo a tre gambe, se la intendiamo in senso allargato e proprio. Ed è proprio per questo motivo che credo che nei Consigli giudiziari sia necessario enfatizzare ancora di più la presenza dell’avvocatura, anche per quanto riguarda i giudizi sui magistrati”. A dirlo è Carlo Nordio, già procuratore aggiunto della Procura della Repubblica di Venezia, audito in Commissione Giustizia alla Camera nell’ambito dell’esame dei progetti di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario. Un intervento lucido, favorevole all’elezione tramite sorteggio dei componenti del Csm e alla diffusione di una cultura della giurisdizione che non sia appannaggio di pochi, ma di tutte le componenti del pianeta Giustizia. Perché è questa, secondo l’ex magistrato, l’unica via per evitare le distorsioni vissute con il caso Palamara, punta di un iceberg finora ignorato. Enfatizzare la presenza dell’avvocatura - Allargare le competenze dell’avvocatura, dunque, potrebbe aiutare a correggere le storture. A partire, dunque, dai Consigli giudiziari, dove il ruolo degli avvocati non deve essere quello di semplici comparse. “Quale poi debba essere il diritto di voto è un problema più complesso, anche perché i consigli giudiziari non hanno potere decisionale, spetta al Csm, dove non c’è alcuno scandalo se i voti ai magistrati li danno anche gli avvocati. Ma in linea generale, sono propenso ad aumentare, enfatizzare, a rendere più intenso il ruolo dell’avvocatura anche per quanto riguarda i giudizi al magistrato”. E il giudizio sul magistrato non deve essere omogeneo per i pm e i giudici, i cui ruoli non possono in alcun modo essere sovrapposti. “In Italia il pm è il capo della polizia giudiziaria. Dirige le indagini e tra l’altro nel nome dell’obbligatorietà dell’azione penale, che magari purtroppo qualche volta si inventa lui, perché non è fondata su una notizia criminis qualificata, ha poteri immensi - ha evidenziato -. Quindi la valutazione del magistrato non può essere la stessa. Le caratteristiche di un buon pm non sono quelle di un buon giudice e quelle di un buon giudice non sono quelle di un amministratore”. Ma c’è di più: secondo Nordio è necessario allargare le competenze dell’avvocatura per quella che è la gestione dell’ordinamento giudiziario e la gestione della giurisdizione. “Molti miei colleghi usano questa parola, cultura della giurisdizione, quando si oppongono alla divisione delle carriere - ha evidenziato -. Faccio presente che la giurisdizione o si intende in senso stretto, come ius dicere, e quindi è limitata al giudice, oppure si intende in senso più largo come dialettica tra accusa, difesa e giudicante e allora è un tavolo a tre gambe e gli avvocati hanno e devono avere la stessa dignità dell’altra parte, quella accusatrice”. Sì al sorteggio - Il tema caldo della riforma riguarda, però, l’elezione dei componenti del Csm. Argomento sul quale le posizioni sono diametralmente opposte: da un lato c’è chi invoca il sorteggio, per evitare ogni forma di condizionamento da parte delle correnti, dall’altro chi vuole evitare la compressione del diritto all’elettorato attivo e passivo. Nordio opta per la prima opzione, pur riconoscendo le difficoltà legate alla rigidità della Costituzione. “Sono oltre 20 anni che sostengo che l’unico modo per evitare gli scandali che sono emersi in questi mesi è quello del sorteggio dei membri del Csm, proprio per spezzare il vincolo tra elettori ed eletti - ha sottolineato. Però è vero che la Costituzione anche qui è molto rigida. L’unico modo è quello di unire i due criteri dell’elezione e del sorteggio, in modo da poter non confliggere con la Costituzione e allo stesso tempo allentare, se non spezzare, questo vincolo”. I manager nei tribunali - Per dirigere un tribunale non è sufficiente essere ottimi giuristi. Ed è per questo motivo che sarebbe necessaria la presenza di un manager, così come suggerito, tra gli altri, anche dal Consiglio nazionale forense. “In qualsiasi azienda il personale viene assunto dall’imprenditore e il dirigente di una sezione è responsabile del personale che ha assunto. Nella magistratura non è così - ha spiegato Nordio - il magistrato si trova ad operare con quelle poche risorse, e spesso anche qualitativamente non del tutto omogenee, che gli vengono conferite dall’esterno. Quindi molto spesso si trova a dover rispondere di situazioni di responsabilità che non sono addebitabili a lui, sia perché il suo ufficio è sotto organico, sia perché gli è stato dato del personale di cui magari non ha fiducia e magari ha ragione a non averne”. Serve, dunque, la figura di un manager che diriga i tribunali e che esso stesso sia sottoposto a valutazione, sulla base di criteri distinti da quelli utilizzati per gli altri magistrati. “Nella valutazione manageriale del magistrato, quando deve aspirare a posizioni apicali o dirigenziali, non si tiene conto del fatto che è bifronte: da un lato è un giurista e dall’altro dovrebbe essere un manager. Ma le due categorie non sempre coincidono: un eccellente giurista che scrive eccellenti sentenze, che ha un’ottima cultura giuridica può non rivelarsi un ottimo manager”, ha spiegato. Magistratura e politica - Un’altra criticità evidenziata da Nordio è quella relativa all’ineleggibilità dei magistrati in politica nei territori dove abbiano svolto servizio. Una previsione giusta, secondo l’ex aggiunto, ma sbagliata laddove tale limite non vale per i magistrati antimafia che hanno una competenza nazionale. Una contraddizione, secondo Nordio, “perché in quei delicatissimi uffici che hanno competenza investigativa nazionale” si viene a conoscenza di una mole enorme di informazioni, “e la conoscenza è potere”, ha sentenziato. Una riforma “inutile” - Ma il giudizio dell’ex pm sulle proposte di riforma sul tavolo è tranchant: sono destinate al fallimento. E non perché scritte male o giuridicamente insostenibili, ma per una naturale incompatibilità del sistema penale italiano, quello disegnato dal codice Vassalli, con la Costituzione, la cui impostazione è tuttora improntata sul codice Rocco. “La nostra Costituzione, benché antifascista e del ‘48, è stata costruita avendo in mente il sistema processuale vigente all’epoca, che era il sistema inquisitorio del Codice Rocco e quindi reca con sé tutte le caratteristiche di questa forma di codice, compresa l’unità delle carriere, l’unità della giurisdizione tra il giudice del fatto e il giudice del diritto, l’obbligatorietà dell’azione penale”, ha spiegato. Il codice Vassalli è infatti mutuato da un impianto accusatorio completamente diverso da quello italiano e che comprende la discrezionalità dell’azione penale, la differenza tra il giudice del fatto, che emette il verdetto, e il giudice del diritto, che emette la sentence, nonché la ritrattabilità dell’azione penale. Ma non solo: nel sistema “originale” il pubblico ministero è elettivo, come negli Stati Uniti, oppure indipendente, come in Gran Bretagna, ma non è il capo della polizia giudiziaria. “Questa incompatibilità si è rivelata in concreto quando la Corte costituzionale ha iniziato a demolire il codice di procedura penale - ha evidenziato Nordio - e lo ha demolito anche in modo abbastanza consistente. Tutti gli sforzi che si fanno e si continuano a fare nell’ambito giudiziario e anche nella stessa composizione del Csm sono immensi, e io ne do atto, ma sono inutili o almeno in gran parte inutili, perché la nostra Costituzione e il nostro sistema giudiziario non sono compatibili tra di loro. Quindi o si cambia l’una o si cambia l’altro”. Il Partito Radicale scrive al ministro della Giustizia sulla pubblicità all’udienza preliminare Il Dubbio, 31 marzo 2021 Onorevole Ministro, l’amministrazione della giustizia in sede penale, in uno Stato moderno e liberale, non può prescindere dal controllo garantito dalla trasparenza e dalla pubblicità delle fasi in cui si articola il processo, dopo l’esercizio dell’azione penale ed in ogni momento in cui si sviluppa il contraddittorio tra accusa e difesa, davanti ad un giudice terzo. L’attuale disciplina del codice di procedura penale prevede, agli artt. 418 e ss, che l’udienza preliminare si tenga con le forme dell’udienza in camera di consiglio, disciplinata dall’art. 127 c. p. p. e caratterizzata, quest’ultima, dalla assenza di pubblico, di pubblicità e perciò del controllo dell’opinione pubblica circa il corretto esercizio della giurisdizione. La predetta attuale regolamentazione determina altresì l’impossibilità da parte dei mezzi di informazione, di registrare e trasmettere, ai sensi dell’art. 147 disp. att. c. p. p., lo svolgimento dell’udienza preliminare. L’udienza preliminare, invero, salvo che per i procedimenti a citazione diretta, ha assunto un ruolo sempre più importante nello svolgimento del processo penale, soprattutto in quei processi che vedono coinvolti una pluralità di imputati per una pluralità di imputazioni: è nella fase dell’udienza preliminare, ad esempio, che, a seguito della completa discovery degli atti di indagini, avviene la prima decisiva verifica circa il corretto svolgimento da parte degli organi inquirenti delle attività, segrete, delle indagini preliminari; così come è nella fase dell’udienza preliminare che il processo può trovare la sua definizione in primo grado attraverso la scelta di alcuni riti speciali, come il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena a richiesta delle parti. La fase dell’udienza preliminare, inoltre, rappresenta cronologicamente e temporalmente, il primo momento di confronto tra accusa e difesa, dopo la conclusione delle indagini e dopo l’esercizio dell’azione penale e da questo punto di vista può rappresentare un primo importante momento di bilanciamento, per l’opinione pubblica, delle informazioni veicolate dai media nelle fasi delle indagini preliminari e che danno vita al fenomeno, patologico, ormai comunemente noto con il nome di ‘processo mediatico’. È innegabile, infatti, che la tendenza dei media, cristallizzata nel tempo, è quella di spettacolarizzare le indagini e le inchieste della Pubblica Accusa e della Polizia Giudiziaria, spesso presentando all’opinione pubblica i loro esiti come se fossero caratterizzati dall’avvenuto accertamento delle responsabilità degli indagati, con il conseguente mancato rispetto della presunzione d’innocenza prevista nella Carta Costituzionale, oltre che della Direttiva Europea Ue 2016/ 234 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, dagli artt. 47 e 48 della Carte dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dall’art. 6 della Cedu, dall’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e dall’art. 11 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Da questo punto di vista negare la pubblicità all’udienza preliminare, che rappresenta il primo momento in cui l’imputato può iniziare una effettiva difesa attiva, significa perpetrare nell’opinione pubblica il convincimento della colpevolezza degli indagati già veicolata attraverso il cd. processo mediatico. Per questi motivi abbiamo elaborato un disegno di legge che riteniamo di presentarle con l’auspicio che il Governo possa farlo proprio. Ci permettiamo infine una considerazione: ci troviamo in un momento storico in cui la sfiducia generale dei consociati nei confronti delle Istituzioni è pericolosamente alta, e questo deriva in molti casi dalla distanza che intercorre tra le Istituzioni, i loro riti, le loro segrete stanze e i cittadini. La Giustizia non sfugge a questo paradigma e il Partito Radicale ritiene che il giusto antidoto alla sfiducia che si nutre verso ‘ l’alto’, sia rappresentato dalla conoscenza, da assicurare alla stregua di un diritto, in ogni settore della vita pubblica. In questo caso garantire ai cittadini la conoscenza e la pubblicità di ciò che avviene nelle aule dei Tribunali, o comunque non interporre degli ostacoli normativi alla possibilità che il cittadino conosca e, dunque, abbia la possibilità di controllare la giustizia amministrata in nome del Popolo, significherebbe ridurre le distanze ed aumentare il sentimento di fiducia. Maurizio Turco, Segretario Irene Testa, Tesoriere Giuseppe Rossodivita, Presidente Commissione Giustizia Per il reato di omicidio stradale in 5 anni indagate 2.455 persone di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 31 marzo 2021 Dal 2016 al 2021 i sinistri con vittime sono scesi da 2.129 a 1.718. Gli incidenti avvengono soprattutto nelle metropoli. L’ultimo mazzo di fiori a bordo strada è per una signora 68enne di Montecatini, caduta ieri dalla bici lungo una strada periferica. La Polizia municipale sta indagando per accertare se abbia sbattuto la testa a terra dopo aver sfiorato un furgone parcheggiato o se invece, secondo un’altra ipotesi, possa esser stata urtata da un’auto che poi è fuggita. Saranno i filmati delle telecamere di sorveglianza a confermare o smentire l’ipotesi. Dati alla mano, tuttavia, nell’ultimo quinquennio nelle grandi aree urbane italiane gli incidenti mortali sono scesi da 2.129 a 1.718. E il reato di omicidio stradale (introdotto nel marzo 2016 con l’articolo 589 bis del codice penale e che prevede pene fino a 7 o a 12 anni, in caso di stato di ebbrezza o uso di stupefacenti) conta numeri pesanti, con 2.455 guidatori indagati nelle grandi città per aver ucciso qualcuno, più altri 18.882 finiti sotto inchiesta per il reato di lesioni personali stradali (che scatta d’ufficio in caso di oltre 40 giorni di prognosi). Lo rivelano i dati di un dossier dell’Anci, che rappresenta gli oltre 8mila comuni italiani: “Cinque anni fa abbiamo voluto il reato di omicidio stradale perché è necessario proteggere la sicurezza dei cittadini a cominciare dagli utenti più deboli della strada, come pedoni e ciclisti - ragiona Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci -. I dati raccolti dalle nostre polizie locali dimostrano che è stata una decisione corretta”. Il dossier. Come detto, rispetto al periodo 2011-2015, nei cinque anni successivi nelle grandi aree urbane è sceso nettamente il numero dei sinistri mortali. Ma dal rapporto emerge pure come, fra il 2016 e il 2021, le polizie locali dei capoluoghi di provincia abbiano rilevato 2.837 incidenti mortali, con 2.932 decessi, più altri 306.746 scontri con feriti. Molto spesso, le vittime sono i pedoni (1.014) o i ciclisti, con 232 deceduti. “Sono ancora tante le vittime, di incidenti spesso provocati dalla distrazione di chi si mette alla guida, dalla scarsa consapevolezza dei rischi collegati alla propria condotta”, osserva ancora Decaro, ricordando il “gran lavoro degli agenti delle polizie locali, presidio fondamentale per la sicurezza delle nostre comunità”. Secondo dati Aci-Istat 2019, gli agenti locali rilevano il 65% dei sinistri stradali mortali e con feriti ogni anno in Italia, con repertamento delle fonti di prova e “ricostruzione della cinematica” (anche attraverso nuove tecnologie e i sistemi di videosorveglianza cittadina) per avviare le indagini anche nei casi di pirateria stradale. Roma ‘covo di pirati’. Fra le città con più di 150mila abitanti e i capoluoghi di regione, la Capitale vanta un triste primato: 622 incidenti con 635 morti. Seguono Milano (197 con 201 deceduti); Napoli (137 con 138); Torino (126 con 129) e Genova (97 con 99 decessi). Le aree urbane con il calo più marcato di decessi rispetto al quinquennio precedente sono state: Roma (da 807 a 635); Milano (da 241 a 201); Firenze (da 86 a 47) e Bologna (da 92 a 73). In totale, come detto, le persone indagate per omicidio stradale sono state 2.455, con casi aggravati da guida alterata da ebbrezza alcolica (160) e da sostanze stupefacenti (135). Nonostante il nuovo reato, la pirateria stradale continua, con 183 casi di fuga e omissione di soccorso a persone poi decedute: episodi avvenuti soprattutto nelle grandi città (57 casi nella Capitale, altri 12 a Milano). I ‘motivi’ addotti dagli indagati per la fuga? Soprattutto la “mancanza di copertura assicurativa o un problema con la patente (mai conseguita, sospesa o revocata)”. Prove robuste, processi più rapidi. Secondo il dossier dell’Anci, “la stragrande maggioranza dei procedimenti penali si conclude già in udienza preliminare” con la richiesta degli imputati “di un rito alternativo con riduzione della pena”. Rispetto alla durata, grazie ai “tempestivi rilievi nei sinistri stradali”, si è notata “una riduzione dei tempi delle sentenze, con decisioni della Corte di Cassazione in molti casi avvenuti nel quinquennio”. Nessuno restituirà ai propri cari le persone perdute, ma almeno molti di quei processi non durano più decenni. La Cassazione torna sul tema della diffamazione commessa a mezzo social network di Fabrizio Ventimiglia e Maria Elena Orlandini Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2021 Nota a sentenza: Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 8898, 4/03/2021. Nella recentissima sentenza n. 8898/2021, depositata il 4 marzo 2021, la Suprema Corte di Cassazione torna sul tema della diffamazione commessa a mezzo social network, soffermandosi, in particolare, sulla valutazione della causa di non punibilità di cui all’art. 599 c.p., nonché sui presupposti richiesti per la configurabilità della scriminante del diritto di critica di cui all’art. 51 c.p. Di seguito, in sintesi, la vicenda processuale. Con la sentenza impugnata, emessa dalla Corte d’Appello di Firenze, venivano condannati due coniugi per il delitto di diffamazione, commesso mediante la pubblicazione di commenti offensivi sul social network Facebook. La Corte di Appello confermava la decisione del Tribunale di Lucca che aveva ritenuto i predetti commenti lesivi dell’onore e della reputazione di un noto ciclista. Entrambi gli imputati proponevano ricorso per cassazione per i seguenti motivi: a) con il primo motivo, denunciavano la violazione degli artt. 599 e 59 c.p. e correlato vizio della motivazione - mancante e contraddittoria - sotto il profilo del mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 599 c.p.; b) con il secondo motivo lamentavano, invece, l’erronea valutazione della scriminante del diritto di critica ai sensi dell’art. 51 c.p. La Quinta Sezione della Suprema Corte di Cassazione ritiene infondato il primo motivo di ricorso in quanto, secondo il condiviso orientamento di legittimità, il comportamento provocatorio, costituente il fatto ingiusto, che dovrebbe causare lo stato di ira e la reazione diffamatoria dell’offensore, deve ritenersi contrario alla civile convivenza secondo una valutazione oggettiva e non in forza della mera percezione negativa che del medesimo abbia avuto l’agente. Ne consegue che non è sufficiente che l’agente si sia sentito provocato, essendo necessario che questi sia stato oggettivamente provocato. Nel caso in esame, le allegazioni prodotte dagli imputati a sostegno della provocazione dai medesimi subita, risultano del tutto inidonee a costituite una valida piattaforma su cui fondare la valutazione della condotta dei ricorrenti in termini di reazione giustificabile ai sensi dell’art. 599 c.p., non essendo ravvisabile un comportamento - univocamente - valutabile come violazione di una regola della civile convivenza. Aggiunge, inoltre, la Suprema Corte come la citata attenuante non fosse prospettabile, nel caso di specie, neppure in forma putativa, non potendosi ravvisare fatti idonei a fondare la ragionevole, anche se erronea, opinione dell’illiceità del fatto altrui. Per quanto concerne il secondo motivo di ricorso, i Giudici di legittimità ricordano, in primo luogo, come il diritto di critica possa essere evocato, quale scriminante ai sensi dell’art. 51 c.p., solo nell’ipotesi in cui sussista il rispetto del limite della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva. Orbene, nel caso di specie, la Suprema Corte ritiene sia stato superato il limite della continenza espressiva. Ricordano, infatti, gli Ermellini come le modalità espressive attraverso le quali si estrinseca il diritto alla libera manifestazione del pensiero postulino una forma espositiva corretta della critica “senza trasmodare nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione”. Nel caso in scrutinio, “i due imputati, lungi dal manifestare una consentita critica all’operato professionale di un’atleta, hanno, piuttosto, preso di mira la persona, nei cui confronti hanno espresso il loro disprezzo con il ricorso a parole inutilmente umilianti e ingiustificatamente aggressive” e, per questo, oggettivamente trasmodanti il limite della continenza espressiva. Rilevano i giudici come le parole utilizzate risultino, infatti, dirette alla persona, più che al comportamento del professionista, e idonee a esporre allo scherno e al ludibrio pubblico il destinatario, risolvendosi in un gratuito argumentum ad hominem, come tale non consentito dal diritto di critica. Conclude, poi, la Suprema Corte enunciando un importante principio secondo cui ai fini del riconoscimento dell’esimente di cui all’art. 51 c.p. “qualora le frasi diffamatorie siano formulate a mezzo social network, il giudice, nell’apprezzare il requisito della continenza, deve tener conto non solo del tenore del linguaggio utilizzato ma anche dell’eccentricità delle modalità di esercizio della critica, restando fermo il limite del rispetto dei valori fondamentali, che devono ritenersi sempre superati quando la persona offesa, oltre che al ludibrio della sua immagine, sia esposta al pubblico disprezzo”. Veneto. Cgil: “Accelerare la somministrazione dei vaccini anti-Covid nelle carceri” today.it, 31 marzo 2021 L’appello arriva da Gianpietro Pegoraro, coordinatore del sindacato Fp Cgil Veneto Polizia Penitenziaria, e da Franca Vento, Segretaria regionale della Fp Cgil. Da alcuni giorni, a macchia di leopardo, sono iniziate le vaccinazioni nelle carceri del Veneto, ma i sindacati lamentano la somministrazione solo parziale delle dosi al personale di polizia penitenziaria e agli altri operatori. “Le somministrazioni vanno a rilento ed in alcuni istituti hanno subito dei stop temporanei, questo in base all’organizzazione dell’Ulss di appartenenza - dicono Gianpietro Pegoraro, coordinatore del sindacato Fp Cgil Veneto Polizia Penitenziaria, e Franca Vento, Segretaria regionale Fp Cgil - Ritardi che stanno mettendo a dura prova il personale, che si vede rinviare il vaccino. Oltre al ritardo si aggiunge la confusione su chi deve fare il vaccino e chi al momento non lo può fare poiché era risultato positivo al Covid e da diverso tempo si è negativizzato. Per quest’ultime persone non vi è una data precisa in cui possono eseguire la vaccinazione, in alcuni istituti si parla di eseguire il vaccino da giugno. In attesa di una accelerazione delle vaccinazioni all’interno delle carceri spuntano nuovi focolai sia tra detenuti che tra il personale di polizia. Come Fp Cgil riteniamo sia fondamentale per la tutela di chi lavora in carcere e di chi in carcere sconta la pena, che i tempi di vaccinazione siano celeri e senza ritardi di nessun genere, poiché non ci si può permettere che con i ritardi nelle somministrazioni possano sorgere fatti che possono mettere a rischio oltre la sicurezza degli istituti ma in particolar modo la sicurezza operatori e detenuti. Per tanto si chiede che le vaccinazioni all’interno delle carceri venete avvengano con rapidità e senza ritardi alcuni rivolte a tutto il personale che lavora all’interno delle stesse” Modena. Tunisino morto nella rivolta in carcere, ecco i fatti non chiariti dalla Procura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 marzo 2021 Per la morte di otto dei nove detenuti nella rivolta di Modena è stata chiesta l’archiviazione, ma i legali di Hafedh Chouchane si sono opposti. Come già riportato da diversi giornali, ai primi di marzo la Procura di Modena ha chiesto l’archiviazione per la morte di otto dei nove detenuti che hanno perso la vita l’anno scorso durante la rivolta di Modena dentro la casa circondariale di Sant’Anna. “A seguito degli accertamenti medico legali e chimico tossicologici l’individuazione delle cause del decesso conduce per tutti alle complicazioni respiratorie causate dall’assunzione massiccia di metadone e altri farmaci. Viene esclusa per tutti l’incidenza concausale di altri fattori di carattere violento”, così in sostanza la procura ha liquidato la questione. In realtà, nessuno ha messo in discussione la causa della morte. Senza dubbio è overdose di metadone e altre sostanze. Ma da sola non basta, anche perché, sia pure prendendo atto che la Polizia penitenziaria si è trovata ad affrontare era complicata e delicata, si tratta di una rivolta all’interno di un carcere: un evento prevedibile e, nei limiti del possibile, evitabile. Ad Hafedh Chouchane mancavano poche settimane per la fine della pena - Ad esempio c’è stata una pronta opposizione alla richiesta di archiviazione per il caso di Hafedh Chouchane. La sua vicenda è stata resa pubblica da Il Dubbio appena qualche giorno dopo i decessi a seguito delle rivolte. Una storia amara, visto che al ragazzo mancavano solo due settimane per finire di scontare la pena. Ma non ha fatto in tempo. Contestualizziamo. L’impatto della pandemia ha generato paura e spaesamento nei reclusi. Ogni giorno su tv, radio, giornali, si chiedeva di mantenere il distanziamento sociale e di evitare assembramenti: due cose inconciliabili nelle nostre carceri. Queste preoccupazioni e la chiusura dei colloqui, hanno portato poi a far esplodere gli animi e alle proteste che ad inizio marzo del 2020 hanno interessato decine di istituti in tutto il Paese. Quattordici morti tra Modena e Rieti - Durante quelle proteste quattordici detenuti morirono nelle carceri di Modena e Rieti. Nove solo nella rivolta di Modena. Tranne il caso di Salvatore Piscitelli, per tutti gli altri è stata chiesta l’archiviazione. Tra di loro c’è, appunto, il tunisino Chouchane.Ma quali aspetti sono stati poco considerati dalla Procura relativamente al caso del ragazzo tunisino, ma che si possono estendere anche nei confronti di tutti gli altri? La richiesta di archiviazione a cui perviene la Procura appare censurabile sia riguardo alle questioni processuali, sia per ciò che attiene alle questioni di merito. Punto primo. Il carcere, come altre strutture pubbliche richiede l’adozione di tutte le misure idonee a evitare qualsiasi tipo di danno o pericolo. Esiste una posizione di garanzia in capo a chi gestisce tali strutture, su cui grava l’obbligo di protezione del diritto alla salute, ancor di più in un luogo come il carcere a forte rischio di situazione di pericolo e la sicurezza. La situazione del carcere di Modena era di sovraffollamento carcerario particolarmente grave, con una percentuale pari al 147%. Era prevedibile uno sviluppo così violento, quello della rivolta, in presenza di parametri fortemente lontani da quelli ordinari? Proprio la posizione di garanzia richiesta a tutto il personale presente in Istituto impone che negli istituti penitenziari i medicinali (quali il metadone) siano messi al sicuro e contenuti all’interno di casseforti o armadi blindati. Si ha quindi il dovere di non lasciare incustodito questo tipo di sostanza poiché l’uso scorretto può portare ad una overdose. È stato fatto tutto ciò? L’armadio blindato che conteneva il metadone era stato chiuso? - L’amministrazione penitenziaria, come suo dovere, ha vigilato affinché il detenuto non compia determinati atti che, soprattutto se tossicodipendente, sono prevedibili in situazioni di rivolta? Il metadone si trovava all’interno di un armadio blindato, trovato aperto e non scassinato, di cui manca la prova che fosse stato chiuso a chiave quella mattina e la cui chiave si trovava, comunque, all’interno di una presunta cassetta di sicurezza. Tra l’altro alla facile portata dei detenuti che in pochi minuti ne sono entrati in possesso. Vi sono poi delle discrepanze temporali tra i racconti delle infermiere presenti durante la rivolta di Modena, che davano contezza della chiusura dell’armadio contenente il metadone fino alle 16 circa, e l’intervento del 118, che già dalle 14 e 30 operava su soggetti in preda ad overdose. Inoltre, come già emerge dalla lettura della richiesta di archiviazione, le due infermiere non hanno mai dichiarato di aver, una volta iniziata la fase concitata della rivolta, messo a riparo il metadone - sul quale stavano lavorando - nell’armadio blindato e chiuso a chiave. Non dicono di averlo fatto durante la fase concitata e nemmeno quando sono uscite pacificamente scortate dai detenuti: danno una descrizione precisa di ogni singolo avvenimento e stato d’animo di quei momenti, ma mai dicono di aver chiuso a chiave l’armadio blindato. Incongruenze tra le dichiarazioni dei detenuti e quelle degli agenti - Altre criticità emergono dalla lettura delle ultime ore di vita di Chouchane, durante la rivolta di Modena. Anche in questo caso, questi elementi si desumono già dalla lettura della richiesta di archiviazione. Infatti dal confronto tra le dichiarazioni dei detenuti, nonostante molti incomprensibilmente non siano stati sentiti (seppur identificati), e le dichiarazioni degli agenti emergono diverse incongruenze, anche molto evidenti, sul luogo, le modalità e l’orario in cui è stato portato il detenuto agli agenti affinché ricevesse le cure del caso. Il comandante Pellegrino, in una prima versione dichiara che il corpo di Hafedh è stato portato al passo carraio alle ore 19.30 da detenuti rimasti non identificati e di averlo poi immediatamente sottoposto alle cure mediche: in realtà, risulta dagli atti che solo alle 20 e 20 il medico del 118 lo hanno soccorso e constatato il decesso. Dunque 50 minuti dopo, seppure la distanza tra il passo carraio interno e l’esterno è di poche decine di metri. In una seconda versione, del 19 marzo, lo stesso Comandante dice che il corpo di Hafedh è stato portato all’attenzione degli agenti penitenziari nel piano terra (dunque all’interno del carcere), nei pressi del sottoscala dell’ingresso 88. Dunque in un posto differente. Il detenuto citato nella richiesta di archiviazione dice invece di averlo portato, insieme ad altri detenuti non sentiti ma identificati, alla rotonda del carcere. Gli orari dei soccorsi al ragazzo tunisino non coincidono - Quindi sempre all’interno del carcere e in un orario che dalle sue dichiarazioni si ricostruisce intorno alle ore 14.30. Gli orari non tornano: parliamo di cinque ore prima delle 19.30 indicate nella prima versione del Comandante e sei ore prima il soccorso del 118. Qual è la versione giusta? Differenze di alcune ore che hanno giocato un ruolo di primo ordine nella morte dello stesso. Infatti, come evidenziato dalla dottoressa Del Borrello nella sua perizia di parte, un intervento maggiormente tempestivo avrebbe potuto salvare la vita al soggetto. Tutto questo non viene affrontato dalla Procura nella richiesta di archiviazione. Eppure sono elementi da approfondire, bisogna dipanare tutte le evidenti contraddizioni. Due sono i temi da affrontare. Il primo tema è la mancata custodia dei detenuti, soprattutto quei soggetti vulnerabili come i tossicodipendenti che sono riusciti ad accedere con facilità al metadone. Il secondo tema è la contraddizione sugli orari e il luogo dove è stato portato il corpo del tunisino in stato comatoso. Senza approfondire ulteriormente le indagini, non si potrà mai chiarire davvero cosa sia successo in quei giorni nel carcere durante la rivolta di Modena. Trento. Il carcere di Spini ai tempi del Covid: “In pochi accettano il vaccino” L’Adige, 31 marzo 2021 La Garante Menghini ha fatto il punto della situazione in Quarta commissione. Sono 294 (dati aggiornati il 22 marzo) i detenuti presenti nella Casa circondariale: 22 donne e 272 uomini. Lo ha detto ieri mattina, 30 marzo, la garante dei detenuti Antonia Menghini illustrando alla Commissione la condizione della Casa Circondariale di Spini di Gardolo a partire dall’inquadramento del settore negli interventi governativi più rilevanti connessi alla diffusione dell’epidemia da Covid19, che hanno comportato una flessione significativa delle presenze negli istituti, in particolare nei mesi di marzo ed aprile. La situazione - Venendo alla Casa Circondariale di Trento Menghini ha rilevato una serie di criticità legate al superamento del numero delle presenze, alla crescita delle presenze di detenuti protetti e alla sospensione dei trasferimenti su richiesta delle persone detenute dal 10 novembre 2020. La Garante ha poi illustrato alcuni dati, rilevando un trend negativo con riferimento al lavoro in carcere, che registra una riduzione del 20% rispetto al 2017. Le criticità legate a questo aspetto sono connesse alla carenza di risorse, al fatto che l’offerta occupazionale per i detenuti “protetti” sia largamente inferiore a quella dei detenuti comuni e alla sospensione delle attività formative per i detenuti protetti, in attesa del nuovo bando dell’Agenzia del Lavoro. Fortunatamente in generale Menghini ha detto che l’emergenza Covid ha inciso solo marginalmente sul versante occupazionale. Tra le criticità connesse all’epidemia la Garante ha sollevato il condizionamento sui corsi scolastici, con la sospensione dell’attività in presenza, cui si è aggiunta la difficoltà della realizzazione della connessione delle aule alla rete Internet per l’attivazione della Dad in modalità digitale, che entrerà presumibilmente a regime entro la fine di aprile. Allo stesso modo, nel periodo di emergenza, sono stati prima sospesi e poi ridotti i contatti con l’esterno, rimpiazzati solo parzialmente con il sistema delle video chiamate WhatsApp, pur avendo purtroppo attualmente a disposizione solo un dispositivo per ognuna delle sei sezioni. Sospese a più riprese anche le attività collettive e l’ingresso degli operatori per i gruppi di confronto e gli sportelli informativi. Situazione del Covid in carcere - Quanto al Covid nella casa di Gardolo, nella prima ondata si registrarono solo 7 casi di contagio, mentre a inizio dicembre si raggiunse la punta massima di 32 casi, fortunatamente asintomatici o paucisintomatici, e al 22 marzo non si registrano contagi né tra la popolazione detenuta, né tra la polizia penitenziaria. Il 15 marzo è iniziata la campagna vaccinale in carcere, ma Menghini ha rilevato un’adesione inferiore alle aspettative nonostante l’attività di informazione e sensibilizzazione svolta dall’area sanitaria, probabilmente collegata al caso Astrazeneca. Gli spunti dei consiglieri: percentuale di stranieri detenuti più alta che altrove, didattica a distanza, carenze di organico, misure di avvicinamento detenuti-famigliari ecc. L’intervento di Alessia Ambrosi - Alessia Ambrosi (Fratelli d’Italia) ha chiesto cosa ci si debba aspettare nel post Covid in termini di presenze e perché in Trentino c’è un’inversione di tendenza rispetto al dato italiano, nell’incidenza di detenuti stranieri sul totale della popolazione carceraria. La richiesta di Ferrari, Marini, Cia e Marini - Sara Ferrari ha sollecitato maggiori informazioni sulla Dad e Paolo Zanella (Futura) ha chiesto se ci sono prospettive a breve termine nell’introduzione di misure per consentire l’avvicinamento del detenuto ai famigliari. Alex Marini (5 Stelle) ha posto la questione dei limiti dell’organico chiedendo se queste limitino la Garante nello svolgimento delle sue funzioni. Infine, Claudio Cia ha chiesto maggiori informazioni sulle poche adesioni al vaccino, ovvero se ci sia maggiore incidenza tra detenuti o personale carcerario. La replica di Menghini - Nella replica, Menghini ha detto che è difficile una valutazione sul post Covid in termini di presenze, perché i provvedimenti varati non possono essere potenzialmente risolutivi della situazione di sovraffollamento delle carceri: se non ci saranno misure specifiche e dedicate, i dati si manterranno probabilmente costanti. Quanto alle presenze straniere Menghini ha osservato che in molti istituti di confine c’è una presenza più significativa di stranieri, però rispetto a Trento probabilmente molto è legato al meccanismo dei trasferimenti da carcere a carcere, perlopiù detenuti stranieri, dal Veneto e non solo. I numeri non entusiasmanti delle adesioni al vaccino riguardano anche gli operatori di polizia penitenziaria, non solo la popolazione carceraria. Sulla Dad, Menghini ha precisato che i tempi per la predisposizione della strumentazione necessaria, la progettazione e i lavori, non sono stati immediati e allo stato attuale la didattica a distanza non è attiva, ma verrà messa a punto entro fine aprile. L’avvicinamento agli affetti e la possibilità di contatto con il nucleo famigliare è fondamentale per il detenuto, ha detto Menghini che ha chiarito di aver posto l’attenzione su questa tematica all’assemblea dei garanti regionali, però le difficoltà non sono poche e le situazioni sono tra le più variegate. Infine, la Garante ha detto che la contingenza epidemiologica ha creato una situazione particolarmente pesante e difficile, dal momento che è la sola a poter entrare in carcere dall’inizio dell’emergenza. A questo si aggiunge il parziale distaccamento dell’unica risorsa formata e capace a sua disposizione: la mole di lavoro dell’ufficio del garante è molto significativa, il numero di colloqui e di adempimenti sono cospicui e le risorse umane in questo senso sono fondamentali. Roma. Focolaio Covid a Rebibbia: “Positive 35 detenute e tre agenti della penitenziaria” romatoday.it, 31 marzo 2021 Il virus è tornato nel carcere femminile di Rebibbia. Da quanto appreso sembra siano risultate positive al tampone molecolare 40 detenute e 3 unità di Polizia Penitenziaria. Il numerico evidenziato pare sia in crescita. A darne notizia è Aldo Di Giacomo segretario generale del sindacato di Polizia Penitenziaria S.PP.: “L’entità del focolaio desta preoccupazione e non poche criticità. Ci siamo confrontati sin dall’inizio con i vertici del carcere ed abbiamo scritto all’autorità sanitaria competente chiedendo prontamente di effettuare un diffuso screening. Ci è stato comunicato in tempi rapidi di aver attivato con diligenza la sorveglianza sanitaria”. “Sono stati effettuati tamponi al personale ed a tutta la popolazione ristretta, ma il dato dei contagi resta allarmante e sembra crescere di giorno in giorno. Vista la grossa entità, potrebbero paradossalmente iniziare a mancare i posti in isolamento sanitario. Dal principio della pandemia - prosegue Di Giacomo - abbiamo chiesto alle autorità nazionali competenti che venissero fatti screening periodici a tutto il personale penitenziario, cosa non avvenuta, eppure probabilmente si sarebbero potuti evitare nelle carceri diversi focolai, con più accuratezza e maggiore organizzazione, senza sottovalutare gli effetti del virus e salvaguardando in tal modo sia il Personale che i detenuti, nonché il mondo esterno tenendo in considerazione che chi lavora nelle carceri o vi fa visita a qualsivoglia titolo, ha poi contatti al di fuori di esse”. Seguono a Di Giacomo le dichiarazioni del vice-segretario generale Gina Rescigno e responsabile sindacale nazionale S.PP. del comparto Polizia Penitenziaria femminile: “Lo sforzo messo in atto dalla nuova gestione del carcere è massimo, lo si denota a cominciare dalla giusta e dovuta distribuzione dei necessari DPI che avviene da diverso tempo, tuttavia anche nel Lazio ancora tarda il via alla somministrazione dei vaccini ed è inconcepibile che ciò avvenga proprio per chi sin dagli albori della pandemia ha lavorato e lavori a tutt’oggi in prima linea, continuando a prestare il proprio servizio sebbene rischi consapevolmente la vita e nel rischio potrebbe coinvolgere anche la sua stessa famiglia”. “Sono ormai imprescindibili interventi seri da parte delle autorità competenti perché di risposte apparentemente certe, o che per tali si vestono, non sappiamo più che farcene, non bastano più ai Poliziotti Penitenziari dispiegati su tutto il territorio nazionale. Esprimiamo la nostra solidarietà e diamo il nostro massimo sostegno a chi presta servizio a Rebibbia - conclude - o in una realtà analoga a quella che si vive in queste ore all’interno delle mura del suddetto carcere romano”. Melfi (Pz). Focolaio Covid nella sezione di Alta Sicurezza di Giovanni Gioioso ilmattinodifoggia.it, 31 marzo 2021 Riscontrate 40 positività tra la popolazione detenuta su 46 tamponi molecolari. Torna attuale la situazione delle carceri, che già soffrivano storicamente di endemici problemi oltre a quelli pandemici. Il “focolaio penitenziario” di Melfi rischia di far sprofondare l’arancione Basilicata anzitempo in rosso. La gravità della situazione era già stata attenzionata da Leo Beneduci (segretario generale dell’Osapp) due settimane fa a seguito del focolaio riscontrato nel carcere di Asti. “Abbiamo più volte indicato l’urgenza che per le carceri Italiane si effettuassero con priorità assoluta le necessarie vaccinazioni sia nei confronti dell’utenza e sia riguardo al personale dipendente, mentre, invece constatiamo che tali iniziative, come detto irrinunciabili, vengono effettuate a macchia di leopardo e con modalità assolutamente dissimili da regione a regione per cui tuttora esistono strutture penitenziarie del tutto prive di interventi”. Erano le parole del sindacalista, il quale sosteneva anche l’importanza di comprendere l’origine, oltre che le modalità di diffusione: “Fermo restando che per quanto riguarda emergenze pandemiche quali quelle che si stanno verificando ad esempio oltre che ad Asti presso gli Istituti penitenziari di Volterra, Pescara, Orvieto, Rovigo, Padova, Pavia e Milano Bollate e San Vittore non si è in grado di comprendere se le stesse siano determinate da inadempienze interne, anche rispetto ai protocolli vigenti ovvero riguardino ritardi ascrivibili al servizio sanitario nazionale ribadiamo, anche richiedendo l’esplicita considerazione della Guardasigilli Cartabia, la necessità di fare il più presto possibile per le carceri Italiane”. Già. Fare il più presto possibile per le carceri italiane, le quali a macchia di leopardo già soffrivano storicamente di endemici problemi oltre a quelli pandemici dell’ultimo anno. A Melfi, in provincia di Potenza, l’ennesimo “focolaio penitenziario” rischia - a ragion veduta - di far sprofondare l’arancione Basilicata anzitempo in rosso, prima del weekend pasquale. Da fonti interne si apprende che nel tardo pomeriggio di ieri sono stati effettuati 46 tamponi molecolari ai detenuti in alta sicurezza e sono state riscontrate 40 positività. Si apprende, inoltre, che la gran parte dei detenuti positivi è al momento asintomatica e non desta preoccupazione, salvo tre o quattro detenuti che, costantemente monitorati, accusano febbre alta. Domani mattina le operazioni di screening saranno intensificate e sarà effettuato il tampone a tutta la popolazione detenuta che supera le cento unità, oltre agli agenti della polizia penitenziaria che ammontano ad una cinquantina. Ad oggi non risultano agenti positivi, i quali con non poche difficoltà, garantiscono con i più alti dispositivi di protezione individuale, il corretto funzionamento della sezione “non Covid free”. Uno screening totale, pertanto, al fine di avere un quadro chiaro della situazione e porre in essere tutti gli strumenti correttivi del caso per mitigare la diffusione del Covid-19. Cuneo. Focolaio Covid tra i detenuti in regime di 41bis lavocetorino.it, 31 marzo 2021 Accade all’istituto di detenzione Cerialdo di Cuneo, dove in totale si registrano 11 positivi tra i detenuti oltre a 6 agenti. Detenuti in regime di “carcere duro” (41bis) positivi al Covid. Accade all’istituto di detenzione Cerialdo di Cuneo, dove si registrano 11 detenuti positivi al virus oltre a 6 agenti. Nelle carceri piemontesi ci sono positivi anche ad Asti (un focolaio con 51 detenuti su 298, oltre a 8 agenti) e Saluzzo, sempre in provincia di Cuneo, con 27 detenuti (su 409 ospiti) e 4 tra agenti e personale positivi. Solo il carcere di Vercelli è “Covid-free”. “Nelle tre carceri piemontesi sono in corso le vaccinazioni anche sulla popolazione carceraria - osserva Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti -. Il Piemonte ha scelto una strategia sbagliata, inseguendo il contagio con le vaccinazioni, senza prevenirlo. Nelle prossime ore il comitato tecnico scientifico nazionale invierà linee guida dettagliate per le immunizzazioni nella popolazione carceraria, che include popolazione, agenti e operatori Napoli. Carcere di Poggioreale: quando la scrittura rende liberi di Annalisa Romano vesuviolive.it, 31 marzo 2021 Lanciato dalla Pastorale Carceraria della Diocesi Arcivescovile di Napoli, il giornale, “Liberi di informare, dentro ma fuori dal carcere” si ripresenta con una redazione nuova, con l’obiettivo di donare sostegno ai detenuti. Protagonisti di scrittura e comunicazione, i detenuti raccontano i pensieri, le storie, e le attività della loro quotidiana vita carceraria. Don Franco Esposito, ministro religioso a cui venne affidata la ufficiatura dell’Istituto penitenziario di Poggioreale, consegnò il progetto nelle mani dell’Associazione Liberi di Volare Onlus, che attraverso l’aiuto di volontari affiancati da un gruppo di professionisti, oggi, organizza attività laboratoriali-espressive. Il giornale vuole soddisfare la necessità di intraprendere una vera e propria opera di sensibilizzazione dell’intera comunità. Lo fa attraverso la promozione di nuove proposte di formazione, e rieducazione come unico fine un completo e sano reinserimento, credendo fermamente che “il mensile può essere per i detenuti un modo per sentirsi ancora parte della comunità ed è anche un modo per far entrare nel carcere la comunità esterna.” Lo racconta lo stesso Don Franco in questo video: Il carcere nella sua enormità non riesce a dare una risposta di miglioramento a tutti coloro che stanno scontando una pena detentiva, ma soprattutto un senso di accoglienza da parte della Società una volta fuori. La scrittura diventa così lo strumento per uscire dal guscio della solitudine e raccontarsi. È Emanuela Scotti a dirigere la testata, che con grande passione e tenacia ha trasformato l’informazione in una vera e propria forma di comunicazione: “Ho partecipato per la prima volta al corso organizzato, nell’anno 2018, presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale a Capodimonte, su incarico del giornale online con cui collaboro, di seguire, tutte le lezioni, e scrivere un reportage. In quell’occasione, mi colpì il legame intenso che esiste tra i detenuti e i volontari carcerari, anch’essi partecipanti al corso. Mi sembrarono, da subito, una sola famiglia, con un grande papà, don Franco Esposito, che era tra gli organizzatori del corso. Capii che per fare volontariato carcerario occorrono competenza, coraggio ma soprattutto un grande cuore e una grande apertura mentale, per essere vicini agli ultimi, “gli esclusi come inclusi”. Nelle parole della giornalista si leggono emozioni forti: un progetto nutrito da un profondo ottimismo, la voglia di far respirare normalità. “Conosco la realtà carceraria attraverso le testimonianze dei detenuti e delle loro lettere. Appena me le ritrovo tra le mani, mi emoziono, mi commuovo nel leggerle. E questo grazie anche alla speranza che traspare dagli scritti, speranza che una volta usciti da quelle mura, si possa realmente rinascere a nuova vita. Ecco, la sofferenza che si conclude in speranza, è il filo conduttore di ogni scritto e ogni loro testimonianza”. Nell’attesa, l’amicizia tra fede e scrittura riesce ad alleggerire “il mondo buio del penitenziario”. Decidendo di uscire fuori dagli schemi, Emanuela Scotti e Don Franco hanno predisposto la stampa dell’intero giornale categoricamente non in bianco e nero: “per colorare, anche solo attraverso le pagine di un giornale, le vite dei principali lettori, i detenuti”. Il coinvolgimento e la partecipazione attiva, sono segnali di un esito fruttuoso, che sicuramente trova le sue radici nella presenza di un uomo di chiesa: “Don Franco è la luce in fondo al tunnel, come il miraggio per i detenuti che in lui trovano guida e sostegno; il prete degli ultimi, il prete di strada per eccellenza, che parla e racconta di fede con coraggio, ponendo il condannato, non solo come colui che va perdonato, ma soprattutto aiutato nella reintegrazione sociale. Io ringrazio don Franco per la fiducia che mi ha dato, affidandomi la direzione di un giornale originale e coraggioso, e sicuramente la sua “presenza” è il sigillo di garanzia alla buona riuscita del giornale. Rappresenta per me che lo dirigo sicurezza e tranquillità… immagino per i “redattori - detenuti” cosa possa rappresentare, a questo punto”. Ma qual è la gratificazione più grande che si possa ottenere da un lavoro che prende piede in un luogo dove il concetto di cultura molto spesso entra in antitesi con il concetto di umanità? “Per la presentazione del giornale ai detenuti, nella cappella del carcere di Poggioreale, il 31 dicembre durante una celebrazione eucaristica presieduta dal cardinale Crescenzio Sepe. Fui accolta dai detenuti presenti con una gioia che non dimenticherò mai più. Mi ringraziavano, applaudivano, cantavano i loro inni di fede, entusiasti del giornale appena nato… il loro giornale, con la voglia di parlare, ascoltare e farsi ascoltare”. 2500 furono le copie stampate per la prima edizione del gennaio 2019. Purtroppo, “in questo tempo di pandemia, dove la distribuzione del giornale è ridotta, la tiratura, resa possibile grazie al contributo volontario della Fondazione di San Gennaro Onlus, è di circa 1000 copie”, testimonia la Direttrice. Questo non è però l’unico danno che ha causato l’arrivo dell’epidemia da Covid-19. Infatti, la mancata possibilità di sentirsi ascoltati, di sentirsi persone, è stata aggravata dalla decisione del governo di sospendere non solo ogni attività di volontariato, ma anche l’incontro con i propri cari, nelle carceri. “A farne le spese in questo modo è stata la socialità dei detenuti, e quindi il loro benessere psicologico e fisico. Posso dire che in questo periodo di vita sospesa per ciascuno di noi, sia vissuto anche per loro come un tempo di sospensione, soprattutto di profonda sofferenza e con scelte di solitudine.” Racconta Emanuela Scotti. Dal laboratorio alla scoperta di nuove forme d’espressione e talenti: “la più grande innovazione è quella di rendere i detenuti redattori, attraverso la pubblicazione integrale dei loro scritti. In particolare, ricordo la pubblicazione di una serie di fumetti disegnati dai detenuti, a valle di un laboratorio creativo tenuto presso il carcere di Poggioreale, da Chiara Ferrara, che è anche redattrice del giornale, sul tema della “cura”, da rappresentare nel fumetto”. Un monito affinché realmente la reclusione smetta di essere nei fatti esclusione. Con l’augurio che Liberi di informare “possa riprendere a pieno regime, non smettendo mai di informare “da fuori a dentro le mura del carcere”. Varese. A lezione di pastiera in carcere, ai Miogni si prepara la Pasqua varesenews.it, 31 marzo 2021 Saranno quattro i detenuti che parteciperanno ad un nuovo corso di cucina organizzato in sinergia con l’Agenzia Formativa di Varese. In carcere a Varese in vista della Pasqua si impara a cucinare la pastiera. Saranno quattro i detenuti che parteciperanno ad un nuovo corso di cucina organizzato in sinergia con l’Agenzia Formativa di Varese. L’idea è nata nei primi mesi del 2021 quando sono intercorsi i primi contatti tra il responsabile dell’Area Pedagogica della Casa Circondariale di Varese, Domenico Grieco, la direttrice dell’istituto penitenziario Carla Santandrea e il responsabile di sede dell’Agenzia Formativa di Varese, Ivan Cardaci, per poter collaborare ad iniziative condivise, tese sia a favorire il reinserimento nel contesto sociale dei detenuti di Varese che a valorizzare la mission istruttivo-formativa dell’Agenzia. Così si è deciso di organizzare la prima iniziativa in favore dei detenuti dell’Istituto penitenziario cittadino, denominata: “Una pastiera per una Pasqua solidale”. Nel corso di tre pomeriggi della settimana Santa sarà realizzato un corso di 8 ore, rivolto a 4 detenuti presenti nell’Istituto, ai quali il professor Stefano Aloe dell’Agenzia Formativa della provincia di Varese - Sede di Varese, coadiuvato dallo studente Marco Soldo, illustrerà la preparazione e realizzerà insieme agli stessi detenuti partecipanti di una pastiera monodose (per 65 porzioni) che sarà consumata per Pasqua. Tale attività rientra nel quadro di successive future collaborazioni che saranno promosse con l’obiettivo di favorire sia il reinserimento dei detenuti, che il perseguimento della dignità della vita detentiva. Il virus mette alla prova le democrazie moderne di Mauro Magatti Corriere della Sera, 31 marzo 2021 La complessità ha bisogno di competenza e livelli adeguati di decisione. Ma questo tende a portare verso una maggiore concentrazione delle facoltà decisionali. La pandemia è a tutti gli effetti uno “stress test” per le democrazie contemporanee che devono simultaneamente gestire l’emergenza medica, alleviare la grave sofferenza sociale ed economica, portare a termine in fretta la campagna vaccinale. Occorre tanto pragmatismo (come ha detto Draghi) ma anche visione: più che una spiacevole parentesi, questi mesi di inaudita complessità sono definiti da ciò che viene demolito, piuttosto che da ciò che si sta costruendo. In un mondo in cui la ricerca e la scienza sono beni essenziali, le istituzioni pubbliche - che pure devono avere un ruolo regolativo - sono apparse spesso in ritardo, qualche volta inadeguate. Gli Stati inseguono l’innovazione servendosi di comitati tecnici e autorità indipendenti - nazionali e internazionali - che però non sono sempre all’altezza, specie quando le questioni hanno scala planetaria (vedi Oms). D’altro canto, le grandi imprese - tecnostrutture sempre più evolute, come le aveva chiamate K. Galbraith - sovrastano le capacità delle burocrazie pubbliche. E in qualche caso persino dei governi. Col risultato che, sempre più spesso, i grandi gruppi privati si trovano a trattare direttamente questioni che hanno un enorme impatto pubblico (vedi ad esempio i vaccini, ma lo stesso si potrebbe dire per l’AI). Un problema che si complica in rapporto al tema della raccolta dei dati: una volta monopolio pubblico (con gli istituti di statistica), al tempo della digitalizzazione la datificazione è diventato un bene diffuso, vero e proprio fattore produttivo. Indubbiamente la grande disponibilità di informazioni è di grande aiuto per il governo dei fenomeni complessi, rendendo possibili decisioni meglio fondate e più tempestive. Ma il dato - che è sempre un costrutto - rimane faccenda delicata: le questioni legate alla privacy, alla accuratezza della raccolta, alla sua trasparenza e alla libera circolazione, alle tecniche di elaborazione sono tutti aspetti molto delicati. In questi 12 mesi - un anno fa con le mascherine, oggi con i vaccini - è stato altresì evidente quanto la logistica e più in generale l’efficienza organizzativa facciano la differenza. Gli inceppamenti che quotidianamente affiorano (si pensi alle tante difficoltà di una regione simbolo come la Lombardia) rivelano quanto lavoro c’è ancora da fare per far sì che i nostri sistemi pubblico/privato raggiungano quegli standard di cui abbiamo bisogno. In un ginepraio di regole contrattuali, logiche autorizzative, rigidità burocratiche. Il fattore comunicativo accresce ulteriormente la complessità. Contemperare il diritto a essere informati con l’esigenza di non finire vittime di psicosi collettive - magari generate da cattiva informazione (se non vera e propria disinformazione) - è impresa tutt’altro che facile. Se, come insegna il “teorema di Thomas”, “cio che è definito come reale, è reale nelle sue conseguenze”, allora è necessaria una gestione molto competente della comunicazione pubblica per ridurre pericolose oscillazioni emotive e percettive dell’opinione pubblica: AstraZeneca docet. Senza dimenticare il piano delle relazioni internazionali che, nella fase della globalizzazione “matura”, contano sempre di più. Sui vaccini, ad esempio, la concorrenza tra i big player mondiali si è giocata prima nella innovazione (con un grave ritardo della Ue), poi nella produzione e infine nella distribuzione: la disponibilità del vaccino è un’arma per il consenso interno quanto per l’influenza internazionale. Da tutto questo derivano almeno due considerazioni. La prima ha a che fare con gli assetti istituzionali e la nostra attuale capacità di governo. Stati, burocrazie, imprese, università, autorità indipendenti, organismi sovranazionali costituiscono un’ampia gamma di soggetti dotati di competenza e autorevolezza che si muovono su ambiti e spazialità diverse. Il problema è la coerenza e il coordinamento di tali soggetti. Non solo perché gli ordinamenti sovranazionali rimangono fragili e farraginosi; ma anche perché le distinzioni a cui siamo abituati (privato/pubblico, nazionale/sovranazionale) sono sempre più sfumate. Al di là dell’emergenza, l’inadeguatezza degli assetti di governo e di governance rispetto alle grandi questioni contemporanee (riscaldamento globale, approvvigionamento idrico, migrazioni, contrasto alla criminalità, etc.) rimane un nervo scoperto su cui si dovrà cercare di lavorare. La seconda questione riguarda la verticalizzazione dei processi decisionali: la complessità ha bisogno di competenza e livelli adeguati di decisione. Ma ciò verosimilmente porterà verso una maggiore concentrazione di potere. In un pianeta interdipendente e digitalizzato abbiamo bisogno di più Stato e più mercato. In effetti, la pandemia ha messo fuori gioco i populismi che hanno cercato di sfruttare il semplicismo definito come “l’attribuzione non ambigua di cause e rimedi singoli per fenomeni a più fattori”. Le ricette dei populisti si sono rivelate inadeguate e ciò ne ha (provvisoriamente) fatto scemare il consenso. Ma il fuoco cova sotto la cenere, dato che la sfiducia verso le élite rimane molto alta. L’attesa per il vaccino ha ridotto la tensione con l’opinione pubblica. Ma, di nuovo, superata l’emergenza (vedremo come) la mediazione tra le esigenze di efficienza dei sistemi - che guardano i grandi numeri - e la concreta esperienza di molti tornerà a farsi sentire. Reclamando nuove risposte. Che le democrazie non potranno eludere. Così, nel portare alla luce la complessità del mondo che abbiamo costruito, la pandemia è lo stampo in cui si vanno formando e sperimentando i modelli sociali e istituzionali del futuro. Il tribunale di Ancona nega il suicidio assistito di Ferruccio Pinotti Corriere della Sera, 31 marzo 2021 “I sanitari non possono essere obbligati, anche se il paziente ne ha diritto”. Un 42enne marchigiano, immobilizzato da dieci anni, aveva chiesto di essere accompagnato alla morte in base alla sentenza “Dj Fabo”. La rabbia dell’associazione Coscioni (che annuncia ricorso): “I giudici disconoscono la Consulta”. Cappato: “Serve subito una legge organica”. Nonostante abbia tutti i requisiti legali per avere una fine dignitosa e per smettere di soffrire, un 42enne marchigiano tetraplegico, immobilizzato da dieci anni a seguito di un incidente stradale si vede negato il proprio diritto a porre termine alla sua esistenza. Il tribunale di Ancona ha infatti sancito che “ha i requisiti stabiliti dalla Corte Costituzionale sul “caso Cappato” per poter accedere all’aiuto al suicidio assistito, ma non il diritto ad esigere in concreto l’esercizio della propria libertà”. “Non si può obbligare l’Asl ad aiutarlo a morire” - Così l’Associazione Luca Coscioni riassume la decisione del Tribunale di Ancona sul ricorso - presentato tramite i legali del Collegio giuristi per la libertà - del 42enne contro il diniego dell’Azienda sanitaria alla sua richiesta di accedere al suicidio assistito previa verifica delle sue condizioni come previsto dalla Sentenza Cappato della Consulta (n. 42 del 2019). “Il Tribunale di Ancona - riferisce l’avvocatessa Filomena Gallo del collegio di legali - ha negato con la decisione, la possibilità per Mario (nome di fantasia, ndr), di accedere alla morte assistita in Italia. Il Tribunale, pur riconoscendo che il paziente ha i requisiti che sono stati previsti dalla Corte Costituzionale nella sentenza 242/19 sul cosiddetto Caso Cappato/Dj Fabo, afferma che “non sussistono [...] motivi per ritenere che, individuando le ipotesi in cui l’aiuto al suicidio può oggi ritenersi lecito, la Corte abbia fondato anche il diritto del paziente, ove ricorrano tali ipotesi, ad ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la sua decisione di porre fine alla propria esistenza”; “né può ritenersi - prosegue - che il riconoscimento dell’invocato diritto sia diretta conseguenza dell’individuazione della nuova ipotesi di non punibilità, tenuto conto della natura polifunzionale delle scriminanti non sempre strumentali all’esercizio di un diritto”. L’accusa - “Con questo provvedimento - continua Gallo - il Tribunale di Ancona disconosce la sentenza della Consulta sul “caso Cappato”. Contrariamente alla decisione assunta dal giudice del Tribunale di Ancona, si sono espressi i giudici della Corte Costituzionale che il 25 settembre 2019, nella sentenza 242/19, hanno scritto al punto 7 del considerato in diritto”. Cappato : “Urge una legge organica” - Marco Cappato (che ha assistito Dj Fabo, subendo poi un processo da cui è uscito assolto con una sentenza che costituisce un importante precedente) tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni e promotore della campagna Eutanasia Legale commenta così con il Corriere la battaglia del 42enne marchigiano: “La vicenda dimostra quanto sia urgente una legge che regolamenti nel nostro Paese l’aiuto a morire e l’eutanasia. In Europa e nel mondo, nonostante la pandemia in corso, i legislatori continuano a discutere e approvare leggi sull’eutanasia, i capi dei partiti italiani, invece, continuano a ignorare le urgenze dei malati e di tutti coloro che continuano a soffrire e a vedere i propri diritti calpestati” Aiuto al suicidio, disatteso l’atto della Consulta di Eleonora Martini Il Manifesto, 31 marzo 2021 Eutanasia. Ancona, il tribunale respinge il ricorso di un uomo tetraplegico che chiede di accedere alle procedure dettate dalla Corte Costituzionale. L’avvocata Gallo, Associazione Coscioni: “La Asl non lo ha mai visitato”. “Ma perché?” Perché - chiede Mario (nome di fantasia) - “se la Corte costituzionale ha stabilito che è legale, a me viene invece vietato? Perché posso sottopormi alle cure palliative che mi uccidono lentamente e non posso invece prendere un farmaco letale? Qual è la differenza? Spiegatemelo”. Ha reagito così, il signor Mario, - secondo il racconto riferito al manifesto dalla sua avvocata Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni che lo ha supportato - alla sentenza con la quale lo scorso 24 marzo (notificata lunedì) il Tribunale di Ancona ha respinto il suo ricorso contro l’Azienda sanitaria unica delle Marche che si è rifiutata di applicare il dispositivo della Consulta emesso in merito al caso Cappato/dj Fabo. “Per me questa non è più vita, ma pura sopravvivenza. Per questo ho fatto la richiesta di accesso al suicidio assistito. E ho scelto di farla in Italia, per poter essere circondato dai miei affetti, fino alla fine”, scrive in una lettera l’uomo, 42 anni, tetraplegico e in condizioni disperate e irreversibili. Mario ha tutti i requisiti richiesti dai giudici costituzionali per accedere alla procedura disposta con la sentenza 242 del 25 settembre 2019 che ha dichiarato illegittimo punire chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Mario vorrebbe solo che la sua Asl di riferimento verificasse le sue condizioni, adeguandosi a questa ordinanza emessa dalla Consulta dopo una prima disposizione (del settembre 2018) che dava tempo 11 mesi al Parlamento per colmare il vuoto legislativo in materia di eutanasia e suicidio assistito. “Ma nessun medico dell’Azienda sanitaria ha mai visitato Mario, quindi ha disatteso le verifiche previste dalla Consulta”, denuncia l’avvocata Gallo, coordinatrice del Comitato dei giuristi per le libertà dell’Associazione Coscioni. Il tribunale di Ancona però, pur riconoscendo al signor Mario tutti i diritti, afferma che “non sussistono motivi per ritenere che, individuando le ipotesi in cui l’aiuto al suicidio può oggi ritenersi lecito, la Corte (Costituzionale, ndr) abbia fondato anche il diritto del paziente, ove ricorrano tali ipotesi, ad ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la sua decisione di porre fine alla propria esistenza”. Né si può ritenere, secondo il giudice di Ancona, che la non punibilità dell’aiuto al suicidio implichi direttamente il sussistere di un nuovo diritto. Filomena Gallo, che annuncia l’impugnazione del provvedimento concordato con lo stesso signor Mario, spiega invece che il diritto all’aiuto al suicidio è stato riconosciuto dagli stessi “Giudici della Corte Costituzionale che nella sentenza 242/19 hanno scritto al punto 7 del considerato in diritto”. Nel punto citato, infatti, la Consulta precisa che “i requisiti procedimentali dianzi indicati (verifica della Asl e del Comitato etico, ndr), quali condizioni per la non punibilità dell’aiuto al suicidio prestato a favore di persone che versino nelle situazioni indicate”, “valgono per i fatti successivi alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale”. E invece per l’aiuto fornito a persone già suicidatesi, bisogna assicurarsi che “l’agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti”. Insomma, spiega l’avvocata Gallo, nella sentenza “la Corte costituzionale si pronunciava non solo sul caso concreto dell’aiuto fornito da Marco Cappato a Fabiano Antoniani” accompagnandolo in Svizzera dove ha potuto essere assistito durante il suicidio, “ma anche, in assenza di un intervento legislativo da parte del Parlamento, integrava l’ordinamento con una specifica regolamentazione alla luce delle norme in vigore che stabiliva come e chi poteva accedere alla morta assistita in Italia”. L’associazione Coscioni sta seguendo altri due casi di persone che si sono viste opporre un diniego alla richiesta di aiuto al suicidio. In quei casi “il Comitato etico - conclude Gallo - ha rilevato che le Asl non hanno effettuato le verifiche”. A questo punto, per far rispettare le sentenze della Corte costituzionale, sarebbe auspicabile almeno un intervento del ministro della Salute. Droghe, il peso di una Convenzione arcaica di Susanna Ronconi Il Manifesto, 31 marzo 2021 Dopo 60 anni di fallimenti globali, sembra arrivato il tempo di invertire la direzione di marcia. Il 30 marzo 1961 a New York, l’Onu approvava la Single Convention on Narcotic Drugs, la convenzione in tema di droghe che da allora - integrata da altre due convenzioni, del 1971 e del 1988 - orienta le politiche globali sulle droghe illegali a guida Unodc. L’approccio penale e proibizionista sancisce l’illegalità delle sostanze elencate nelle tabelle della Convenzione per eliminarne produzione e consumo al di fuori del controllo medico. I primi obiettivi erano azzerare le produzioni illegali di oppio in 15 anni e quelle di cannabis e coca in 25. Sappiamo che non è avvenuto. Ma, nonostante anno dopo anno i dati di produzione e consumo rendessero gli obiettivi via via sempre meno credibili, nel 1998 la Sessione Speciale dell’Assemblea Generale Onu sulle droghe, a guida di Pino Arlacchi, azzarda l’obiettivo di “un mondo senza droghe” entro il 2008. Inutile dire che la Commission on Narcotic Drugs (Cnd) riunita a Vienna nel 2009 non farà che registrarne il fallimento e che così farà anche quella del 2019. Gli stessi dati Unodc dicono che in vent’anni chi consuma droghe illegali è aumentato del 54%, e che in dieci anni la produzione di coca è aumentata del 25% e quella di oppio del 125%, e la cannabis non ha registrato flessioni. I rapporti a cura delle Ong aggiungono dati su dati, a colmare i troppi silenzi dell’Onu in tema di valutazione delle proprie politiche. Tuttavia, anche nel 2019 la strategia globale non cambia, la potente inerzia del sistema globale Onu, gli interessi geopolitici e quelli interni dei governi tengono duro nonostante le evidenze. Eppure, non si può dire che le acque siano stagnanti. Ci sono due diverse correnti che le agitano. La più potente è certamente quella che scorre fuori dagli auditorium di Vienna e di New York, quella degli ormai numerosi stati che, pure aderenti alle Convenzioni, esercitano la propria autonomia riformando le politiche nazionali nella direzione di una regolazione legale delle droghe. Gli Stati che hanno legalizzato la cannabis hanno potuto farlo senza essere estromesse dalle Convenzioni, e questo significa che la flessibilità del sistema è una via praticabile: sono lontani i tempi in cui l’Olanda veniva messa sotto processo (per altro senza poi conseguenze) per le Stanze del consumo, cioè per una misura di Riduzione del danno. La seconda corrente, certo più debole, è quella che punta a modificare il sistema stesso, sotto la spinta della società civile e di alcuni stati: sono aperture - come alcuni passaggi del documento finale della sessione Ungass del 2016 o la Common position a cura di diverse agenzie Onu - che spingono verso una parziale depenalizzazione (ma non decriminalizzazione) e per un maggior rispetto dei diritti umani. E sono cambiamenti di processo, come il “movimento degli indicatori” che preme per una valutazione indipendente dell’impatto della strategia Onu, o la spinta per sottrarre all’Unodc l’esclusiva delle politiche sulle droghe, per includervi le agenzie che hanno a che fare con diritti umani, salute, sviluppo sostenibile. Tra i cambiamenti importanti c’è anche il recente voto sulla cannabis terapeutica, dopo anni di blocco imposto alla ricerca scientifica: sebbene dimezzate e a maggioranza risicata, le raccomandazioni dell’Oms sulle proprietà mediche della cannabis sono passate, cosa che per 60 anni non è stata possibile. Va preso come un buon segno. Dopo 60 anni di fallimenti globali, sembra arrivato il tempo di invertire la direzione di marcia. Ieri si è svolto un seminario internazionale, “Un fallimento epico”, per ricordare una data che ha condizionato le scelte della politica e per rinnovare l’impegno per la riforma. *Presidente del Comitato Scientifico Forum Droghe Nella Grecia dei manganelli di Elena Kaniadakis La Repubblica, 31 marzo 2021 La guerriglia seguita al pestaggio di un giovane da parte della polizia è solo l’ultimo episodio. Ad Atene lo scontro è sempre più radicale e la società più divisa. Come negli anni Settanta. “Chi semina vento raccoglie tempesta”. La signora Diamantoula legge la scritta che brilla per la vernice fresca sulla facciata dell’edificio e prova a scherzarci su: “Ci siamo trasferiti dal centro per non avere più la casa ricoperta dai graffiti, ma non è servito”. Intorno a lei il quartiere residenziale di Nea Smyrni, Sud di Atene, si risveglia dopo una notte di inedita guerriglia urbana. Alcuni abitanti si fanno strada per andare a comprare il giornale tra le barricate dei cassonetti dati alle fiamme, mentre altri attendono il taxi sotto le palme e gli alberi di mandarino risparmiati dalle molotov. Numerose le scritte sui muri apparse nella notte, tipo “Fuori gli sbirri dal nostro quartiere” e la firma “Panthers” degli ultras antifascisti della squadra di calcio del Panionios. Nella piazza principale, abitualmente frequentata da famiglie con bambini, la sera del 9 marzo si è consumato uno degli scontri più violenti degli ultimi mesi tra forze dell’ordine e manifestanti. Nel pomeriggio oltre cinquemila persone avevano protestato contro la polizia, responsabile di avere picchiato un ragazzo durante un controllo anti-assembramenti. Quando la manifestazione ha lasciato il posto agli scontri un agente, disarcionato dalla moto su cui stava fuggendo inseguito dal lancio delle molotov, è stato preso a calci e ferito alla testa. La pattuglia di poliziotti responsabile di aver pestato il ragazzo del quartiere aveva dichiarato, in un primo momento, di essere stata attaccata da un gruppo di anarchici ma è stata presto smentita dalle riprese con i cellulari fatte dai passanti. Il video dell’aggressione è diventato virale su internet accompagnato dall’hashtag #Ponao, l’espressione utilizzata dal ragazzo aggredito che in greco significa “Mi fa male”. La violenza delle forze dell’ordine non è un problema nuovo per la società greca, ma Amnesty International ha registrato un incremento degli abusi della polizia da quando, nell’estate del 2019, si è insediato il governo conservatore di Kyriakos Mitsotakis. Secondo il Difensore civico - autorità indipendente che si occupa dei reclami dei cittadini - nell’ultimo periodo le denunce di questo tipo di violenze sono cresciute del 75 per cento. Un dato che coincide anche con l’aumento delle manifestazioni: dal febbraio scorso il centro semideserto di Atene si è trasformato nel luogo di scontro tra poliziotti e dimostranti, e sotto le finestre del Parlamento, in piazza Syntagma, lo scoppio dei lacrimogeni della polizia e delle molotov degli antagonisti è tornato a scandire lo scorrere della giornata. I cortei, inizialmente organizzati contro una nuova legge che istituisce un apposito corpo di polizia universitaria, si sono poi allargati al cosiddetto MeToo greco: il direttore del Teatro nazionale di Atene, scelto dall’attuale governo, è stato arrestato con l’accusa di avere abusato di due minorenni. L’agente autore del pestaggio del 9 marzo a Nea Smyrni è stato sospeso dal servizio, ma secondo l’avvocato Thanasis Kampagiannis, che da settimane si raduna assieme a centinaia di persone fuori dal Parlamento, resta il fatto che “le forze dell’ordine sono abituate ad agire nell’impunità garantita dal governo”. Kampagiannis è stato arrestato nel dicembre scorso, assieme ad altre sessanta persone, per avere infranto le norme anti-Covid mentre deponeva un fiore in ricordo di Alexandros Grigoropoulos, un quindicenne ucciso dalla polizia nel 2008. Il “ripristino dell’ordine” è sempre stato un tema caro al governo Mitsotakis: poco dopo essere stato eletto ha assunto mille nuovi agenti e abolito la legge sull’asilo universitario che impediva alla polizia di entrare nei campus. La norma, approvata dopo l’irruzione dei carri armati nel Politecnico al tempo della dittatura dei colonnelli, era da molti considerata intoccabile. Da allora gli abitanti dei quartieri intorno all’Università e al Parlamento si sono abituati ai poliziotti in tenuta antisommossa che perlustrano le strade, con il volto coperto dal passamontagna e la granate stordenti sopra il giubbotto antiproiettile. Durante gli scontri, il rumore degli elicotteri della polizia che sorvola quartieri come quello universitario di Exarchia è diventato familiare quasi quanto il traffico cittadino. Le proteste di queste settimane hanno coinvolto anche il mondo dell’informazione: dopo gli episodi di Nea Smyrni un altro quartiere, nella notte, è stato svegliato dallo scoppio di alcune molotov, questa volta dirette verso l’emittente televisiva privata Skai. Su internet, infatti, il video delle violenze della polizia è stato spesso accompagnato dall’invito a “boicottare i media greci”, ritenuti responsabili, in larga parte, di coprire gli abusi della polizia. Fino ad oggi il governo e l’opposizione si sono accusati reciprocamente di fomentare gli scontri che stanno avvenendo nel Paese. Nel mese in cui festeggia il bicentenario della sua guerra di indipendenza e la nascita dello Stato moderno, la Grecia si scopre un Paese sempre più diviso. Per Tasos Gaitanis, portavoce di Nea Dimokratia, il partito di Mitsotakis, “la sinistra sta cercando di convertire la stanchezza dei cittadini per la pandemia in rabbia contro il governo”. Il Paese è stretto nella morsa di un confinamento che va avanti da novembre, mentre le terapie intensive dell’Attica hanno esaurito i posti letto disponibili. Alcuni cartelli tra quelli esposti dai manifestanti di fronte al Parlamento recitavano “Polizia ovunque, terapie intensive da nessuna parte”. Gli scontri più violenti sono avvenuti durante le manifestazioni a sostegno di Dimitris Koufontinas, terrorista di estrema sinistra, condannato a 11 ergastoli e responsabile dell’uccisione, nel 1989, del giornalista e deputato Pavlos Bakoyannis, marito della sorella del premier Mitsotakis e padre dell’attuale sindaco di Atene. Per più di un mese il detenuto ha portato avanti uno sciopero della fame per chiedere il trasferimento in un’altra prigione accusando il governo di aver scritto una legge ad personam per tenerlo in un carcere più duro. E quando l’esecutivo ha detto di non essere disposto “ad assecondare il ricatto di un condannato per terrorismo” decine di bombe incendiarie sono state indirizzate verso vari commissariati della polizia da parte di simpatizzanti del terrorista. Il caso Koufontinas sembra appartenere a un passato troppo recente per essere archiviato. Secondo Mary Bossis, docente dell’Università del Pireo ed esperta di terrorismo greco, rappresenta la vivida fotografia della Grecia contemporanea. “Il dibattito politico si sta radicalizzando di nuovo e la società è sempre più polarizzata. Il lascito della guerra civile e della dittatura degli anni Settanta, quando esplose il terrorismo in Grecia, rappresenta ancora un nodo irrisolto per i partiti, abituati ad attribuirsi l’un l’altro la responsabilità delle violenze ogni volta che si ripresentano”. A Nea Smyrni, intanto, la calma sembra essere tornata nella piazza: le scritte sono ancora lì ma i cittadini hanno ripopolato le panchine. Il signor Michalis legge il giornale non lontano dal punto in cui il ragazzo è stato aggredito dalla polizia. “Nessuno di noi aveva mai assistito a una cosa del genere” commenta. “Il governo ha lasciato che alcuni poliziotti si comportassero come uno Stato nello Stato, ma i greci sono stanchi. Quando il vento soffia, devi sempre sapere come ammainare le vele”. Nella nuova Libia potere a suon di soldi, come con Gheddafi di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 31 marzo 2021 Per superare la frammentazione localistica il nuovo premier Abdul Hamid Dbeibah sta comprando l’alleanza dei libici a suon di dollari, regalie, assistenza sociale e posti lavoro ben pagati. Non è affatto strano che a Tripoli siano oggi in tanti a parlare di un’era “neo-gheddafiana”. E non è solo per la ricomparsa in pubblico di personaggi che sino all’estate del 2011 costituivano i meccanismi di funzionamento economico e amministrativo del vecchio regime. L’essenza del nuovo corso si riassume nell’idea centrale del neopremier, il 59enne uomo d’affari misuratino Abdul Hamid Dbeibah, per cui la frammentazione localistica si supera comprando l’alleanza dei libici a suon di dollari, regalie, assistenza sociale e posti lavoro ben pagati. Dbeibah è stato chiaro nella sua intervista al Corriere due giorni fa: divisioni tribali, campanilismi, persino la miriade di milizie diverse, possono essere più o meno battuti se lo Stato centrale è disposto ad assicurare congrui stipendi a tutti, con tanto di pensioni a pioggia e assistenza medica gratuita. A ben vedere, è la stessa logica clientelare che garantì a Muammar Gheddafi quattro decenni al potere: lui era il dispensatore unico di prebende e ai suoi fedelissimi si doveva fare ricorso per ottenere ciò che si desiderava. Il dissenso si batteva con il welfare state calibrato ad hoc per generare dipendenza ed elidere le forze centrifughe. Non mancano però sostanziali differenze. Dbeibah non ha cercato e non cerca di ricostruire gli apparati repressivi della vecchia dittatura. Le farneticazioni demagogiche del “libro verde” teorizzate dal leader della Jamaria non hanno nulla a che fare con la sua visione del business senza pregiudiziali e con il suo pragmatismo manageriale nel condurre la politica. La Jallabia beduina è stata appesa al chiodo. Tende e cammelli sono riservate ai turisti. Dbeibah veste in giacca e cravatta. Il suo linguaggio è perfettamente comprensibile a Washington, come a Roma, Parigi, Ankara, Dubai, Il Cairo, Mosca o Pechino. “Potremmo avere qualche problema con le milizie ideologiche”, ammette riferendosi ai jihadisti, che però considera minoritari. Anche Khalifa Haftar, il militare della Cirenaica che voleva conquistare Tripoli, sembra un problema in via di superamento. “Un isolato”, osserva. Ma, per fare tutto ciò, servono montagne di soldi, che implicano commercio, export energetico, giganteschi lavori pubblici, crediti esteri, finanziamenti: insomma apertura al mondo. Ed è proprio in questo contesto che l’Europa, con in testa l’Italia, gioca un ruolo centrale. Se fino a ieri le armi russe e turche sembravano dettare legge, oggi sono vitali i rapporti economici. Mosca è al verde. Le casse di Ankara sono vuote. Ma non quelle europee. “Mi attendo grandi sviluppi dall’incontro con Mario Draghi il 6 aprile”, dice. C’è da credergli. L’invivibile vita quotidiana nella Palestina a pezzi di Michele Giorgio Il Manifesto, 31 marzo 2021 La frammentazione del territorio e dell’esistenza per milioni di civili sotto occupazione spiegata in “Una vita in isolamento”, la prima di tre serie di rapporti della ong italiana Cospe. Nawal non riesce a dimenticarlo. Due anni fa, come in questi giorni, in Israele si festeggiava la Pasqua ebraica. È un periodo dell’anno in cui la chiusura dei Territori palestinesi occupati è più rigida del solito. E l’esercito israeliano aggiunge altre restrizioni ai movimenti dei palestinesi. “Mio figlio - racconta - tornava da Ramallah ma a un posto di blocco (israeliano) è stato bloccato e obbligato ad aspettare fino al giorno seguente”. Anche Majida ha memorie legate a quei giorni. “Ero all’ospedale e un amico voleva farmi visita. Ha lasciato il villaggio in macchina, ha percorso quasi tutta la strada e a un certo punto non solo gli è stato impedito di attraversare un posto di blocco ma ha anche dovuto passare accanto a un gruppo di coloni (israeliani) che gli hanno tirato sassi”. Episodi non isolati quelli che raccontano Nawal e Majida. Sono solo un aspetto delle molteplici conseguenze della frammentazione del territorio palestinese e della quotidianità per milioni di civili sotto occupazione militare israeliana. Una ragnatela di arterie stradali costruite a beneficio dei coloni, posti di blocco permanenti o occasionali, “aree di sicurezza” attorno agli insediamenti israeliani e il Muro di separazione, complicano ogni anno di più l’esistenza dei palestinesi. Un percorso a ostacoli che lascia indifferente la comunità internazionale. Lo denunciano gli autori di “Una vita in isolamento”, la prima di tre serie di rapporti della ong italiana Cospe (Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti) - scritti in collaborazione con Giuristi Democratici, Operazione Colomba, Isgi, Aveprobi e realizzati insieme a Palestinian Youth Union e Acad, nell’ambito del progetto “Terra e diritti” finanziato dalla Aics, l’agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo - che riferiscono storie di comunità circondate da colonie e basi militari israeliane e di civili costretti a fare i conti non di rado anche con l’umore dei militari incaricati della loro “sorveglianza”. Storie che però riflettono anche la resilienza dei palestinesi, decisi a vivere e a restare nella loro terra. Nawal e Majida sono di Beit Iksa e Nabi Samwil, piccoli villaggi appena fuori Gerusalemme eppure così lontani dalla città santa a causa delle restrizioni ai movimenti messe in campo dalle autorità israeliane. La condizione di questi due centri traccia, in un piano più ampio, il rigido perimetro in cui si svolge l’esistenza dei palestinesi, 28 anni dopo la firma degli Accordi di Oslo. Quelle intese del 1993-94 che fecero sognare agli occupati un futuro di indipendenza e di libertà, dopo la suddivisione della Cisgiordania in zone A, B e C - controllo amministrativo palestinese; controllo misto israelo-palestinese; controllo pieno di Israele (del 60% del territorio) -, non hanno prodotto altro che cantoni palestinesi, invivibili e insostenibili, gestiti in apparenza dall’Anp del presidente Abu Mazen e che restano saldamente nelle mani di Israele. La costruzione del Muro, la confisca progressiva delle sue terre e l’espansione delle colonie circostanti, hanno trasformato Beit Iksa (1900 abitanti) in una zona chiusa e isolata. Lo stesso vale per Nabi Samwil. Non è diverso il destino di Tuba, a Sud di Hebron. Un tempo la lontananza di questo piccolo villaggio dai centri urbani era una benedizione, oggi è un rischio. I suoi abitanti fanno i conti con le restrizioni imposte dalla presenza di aree di addestramento militare e devono affrontare anche le intimidazioni dei coloni. Cospe perciò esorta all’applicazione del diritto e delle risoluzioni internazionali. “Le Nazioni Unite - spiega Giorgio Menchini, presidente della Ong - da un lato ogni anno certifica con rapporti puntuali la condizione dei palestinesi e dall’altro non traduce tutto questo lavoro in posizioni e politiche forti nei confronti di Israele. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è uno strumento poco efficace. I palestinesi sono diventati ostaggio della diplomazia internazionale che nel loro caso non prende le decisioni che dovrebbe mentre lo fa in altre situazioni”. L’obiettivo di “Una vita in isolamento”, aggiunge Gianni Toma, uno degli ideatori della serie di rapporti, “è contribuire a una attività di sensibilizzazione presso le varie parti internazionali, incluso il governo italiano, affinché prendano iniziative a favore dei diritti dei palestinesi. Su ciò, e lo abbiamo registrato in venti anni di lavoro nei Territori occupati, insistono con forza i palestinesi”. Mali. Strage al matrimonio, anche l’Onu accusa la Francia di Stefano Mauro Il Manifesto, 31 marzo 2021 Un rapporto redatto dalla Minusma conferma la denuncia delle associazioni: 22 civili uccisi in un bombardamento. Nuovi attacchi di gruppi jihadisti, in espansione verso il Golfo di Guinea, nel nord della Costa d’Avorio. Parigi sempre più nell’occhio del ciclone in Mali, dopo la recente accusa di aver ucciso 6 cacciatori inermi lo scorso giovedì, ma soprattutto in seguito alla pubblicazione ieri di un rapporto Onu su un bombardamento della forza Barkhane - 5mila militari francesi sul terreno - dello scorso gennaio. L’indagine delle Nazioni Unite, redatta dai responsabili della missione Minusma, ha concluso che “l’attacco aereo effettuato dai francesi ha ucciso 22 civili riuniti per celebrare un matrimonio e non solo jihadisti”, come affermato finora da Parigi. L’attacco, effettuato a Bounti lo scorso 3 gennaio, aveva creato un acceso dibattito tra le autorità francesi e maliane che affermavano “di aver colpito un gruppo di jihadisti” e numerose associazioni che invece denunciavano come sotto le bombe fossero finiti “numerosi civili inermi”. Gli autori del rapporto hanno accertato la presenza quel giorno “di cinque persone armate, di cui almeno una portava in modo visibile la propria arma, arrivate al villaggio con tre motociclette e membri della Katiba Serma”, gruppo jihadista appartenente al Gruppo di sostegno per l’Islam e i musulmani (Gnim), affiliato ad Al Qaeda. Secondo Minusma “almeno 22 persone sono state uccise, di cui 3 sospetti jihadisti (…), il gruppo era composto in modo schiacciante da civili inermi, protetti dal diritto internazionale umanitario”. Dure le reazioni di Parigi che, attraverso un comunicato ufficiale della Difesa ribadisce la propria versione indicando che “le forze francesi hanno effettuato un attacco aereo contro un gruppo jihadista armato identificato come tale da informazioni di intelligence” e ponendo dubbi “sulla metodologia e sull’utilizzo di testimonianze non verificabili”. Il terrorismo di matrice jihadista intanto continua a flagellare l’Africa da est a ovest. Lunedì è stato il turno della Costa d’Avorio: una postazione militare a Kafolo e una della gendarmeria a Tehini, vicino al confine con il Burkina Faso, sono state oggetto di un duplice attacco che ha causato 3 morti e 10 feriti tra i militari. Un attacco che si aggiunge a quello dello scorso giugno contro due avamposti che causò la morte di 12 soldati ivoriani. Il capo delle forze armate ivoriane, Lassine Doumbia sul quotidiano online Abidjian.net accusa “gli uomini della Katiba Macina, guidata dal maliano Amadou Koufa, numero due dello Gnim, venuti in Costa d’Avorio con l’obiettivo di reclutare uomini e installarsi nel nostro paese”. Un segnale che desta grande preoccupazione visto che la Costa d’Avorio è il “nuovo bersaglio dei gruppi jihadisti”. Preoccupazioni cresciute dallo scorso febbraio, quando Bernard Emié, capo dell’intelligence estera francese, aveva affermato che lo Gnim, stava sviluppando un “progetto di espansione verso il Golfo di Guinea, in particolare verso Costa d’Avorio e Benin”. Come aiutare i guardiani della rivoluzione sudanese di Cyrille Louis* La Repubblica, 31 marzo 2021 A due anni dalla destituzione del dittatore Omar al-Bashir, il paese è alle prese con una crisi economica che non ha precedenti. A Khartoum, i “comitati di resistenza” sono tuttora mobilitati per impedire che il malcontento popolare sfoci in un colpo di stato militare. Si considerano i guardiani di una rivoluzione a rischio: venerdì sera, in un sobborgo popolare della capitale, uomini di tutte le età si sono accalcati sui banchi della scuola al-Humeira sistemati in cortile. Come spesso accade, anche quel loro incontro si è svolto alla luce delle stelle. Secondo voci non controllate, i sostenitori dell’ex presidente Omar al-Bashir, allontanati dai posti di potere ma ancora assai influenti nel settore energetico, starebbero provocando ripetute interruzioni della corrente elettrica per scatenare il malcontento popolare. “La vita è davvero molto difficile” dice Mohammed Ibrahim Mohammed, un operaio di 33 anni che lavora per un’azienda pubblica che sfrutta i giacimenti d’oro del Paese, “ma rifiutiamo di arrenderci.” Il “comitato di resistenza” del quartiere si riunisce una volta alla settimana per rispondere alle esigenze più immediate. Approvvigionamento d’acqua, funzionamento delle scuole, lotta contro la carenza di pane, gas da cucina o benzina. La priorità assoluta è attenuare gli effetti di una crisi economica che si va aggravando dalla destituzione del tiranno, per scongiurare che la popolazione insorga contro il potere civile. “Nonostante le avversità - sorride Mohammed Ibrahim Mohammed - è importante esultare per quello che abbiamo conseguito: per la prima volta in trent’anni siamo liberi di prendere in mano le nostre vite”. A due anni di distanza dalla destituzione di Omar al-Bashir, il Sudan cammina dunque sul filo del rasoio. È incontestabile che i cambiamenti si siano succeduti a un ritmo straordinario. Chi, nel dicembre 2018, avrebbe potuto prevedere che alcune manifestazioni tranquille e pacifiche contro l’aumento dei prezzi sarebbero sfociate in meno di sei mesi nella destituzione e nell’arresto del tiranno che da trent’anni teneva il Sudan sotto il suo giogo? E chi avrebbe immaginato che, dopo averlo allontanato affinché si salvasse la pelle, le forze armate avrebbero accettato sotto le pressioni popolari di condividere il potere con un governo civile? Da allora, le liberà civili sono state ripristinate. L’onnipotente Partito del congresso nazionale è stato ostracizzato e i suoi dirigenti più importanti marciscono ancora in prigione. Numerose leggi liberticide imposte nel nome dell’Islam sono state abrogate. Il Paese è stato cancellato da Washington dall’elenco di quelli che appoggiano il terrorismo. Un accordo di pace è stato stretto con varie milizie armate per mettere fine a una guerra civile finora interminabile, e nel 2023 dovrebbero svolgersi le prime elezioni libere. La transizione, che i nuovi dirigenti di questo Paese disgraziato e sfigurato da una storia tragica vorrebbero che fosse considerata un nuovo inizio, è però ancora disseminata di trappole. Davanti alle rare stazioni di servizio rifornite di carburanti, file interminabili di automobili, camion e risciò sono la prova evidente di un caos dilagante. Quella sera, gli automobilisti in coda nelle automobili sono esplosi esasperati in un concerto di clacson. “Sto aspettando da più di otto ore” si lamenta Ihab Abdoulaye, tassista arrivato dal vicino Stato di Gezira e costretto a questa trafila almeno due volte alla settimana. Di chi è la colpa? “Non ne ho idea - risponde con un ghigno - ma una cosa è certa: sotto il vecchio regime la vita era meno complicata”. Il primo ministro Abdallah Hamdok, economista, si adopera come meglio può, malgrado le casse sudanesi pressoché vuote e un debito schiacciante. All’indomani della caduta di al-Bashir, quando la transizione era sotto il severo controllo dei militari, le monarchie del Golfo hanno annunciato un importante programma di aiuti al Sudan, poi congelato quando l’esercito ha passato il testimone al governo civile. Quanto agli appoggi a khartoum dall’Occidente, stanno aspettando. Apparentemente decisi a sostenere il nuovo potere, i governi occidentali si sono rifiutati di spalancare i cancelli fino a quando in Sudan non si concretizzeranno le riforme economiche. Le sovvenzioni ai prodotti di prima necessità, che rappresentano fino al 70 per cento del budget sudanese, da allora sono state parzialmente rimosse, e a questo provvedimento si sono accompagnati un’impennata dei prezzi, un incremento dei traffici al mercato nero e manifestazioni sempre più frequenti contro il carovita. Alla fine di febbraio, i tassi di cambio sono stati unificati a forza nella speranza di fermare l’inflazione. Un diplomatico europeo a khartoum, tuttavia, ammette che “la situazione potrebbe degenerare e diventare pericolosa se, a fronte di questo deterioramento dell’economia, la piazza tornasse a mobilitarsi contro il governo. A quel punto, infatti, i militari avrebbero il pretesto ideale per riprendere in mano le sorti del Paese”. Non siamo ancora a questo punto. L’esercito, pur in posizione di forza, muove le sue pedine con grande cautela. I più alti gradi, un tempo strettamente associati al regime militare islamista di Omar al-Bashir, nella primavera del 2019 hanno sentito tirare una brutta aria quando immense folle di sudanesi hanno invaso i dintorni del loro quartiere generale. Da allora, due di loro contribuiscono a guidare la transizione e si dice che si guardino in cagnesco. Il generale Abdel Fattah al-Burhan, che ricopre la carica di capo di Stato, dice di voler ridare il potere ai civili e giura che il Sudan ha chiuso una volta per tutte con la sua lunga storia di colpi di stato militari. Il suo collega Mohammed Hamdan Dagalo, alias Hemedti, invece, non perde occasione per sottolineare le carenze del governo Hamdok. Alla testa delle Forze di supporto rapido, una potente struttura paramilitare che aggrega milizie un tempo implicate nella sanguinaria repressione in Darfur, Hamdok è considerato da molti come l’uomo forte in questi tempi di incertezza. Le sue ambizioni mal dissimulate affascinano e preoccupano. Farah Abbas Farah, professore d’inglese che risiede nel quartiere di al-Riyad, esclude a priori qualsiasi ipotesi di una riconquista del potere da parte dei militari. Padre di un ventottenne rimasto ucciso il 6 giugno 2019, durante la dispersione violenta del sit-in organizzato davanti al quartiere generale delle forze armate, presiede un “comitato di martiri della rivoluzione” e si adopera affinché i soldati e gli ufficiali implicati in quel massacro siano giudicati colpevoli e condannati. Sotto le pressioni dell’opinione pubblica, è stata costituita una commissione incaricata di condurre un’inchiesta sulle centinaia di sudanesi ammazzati quel giorno. Farah Abbas Farah però giudica tropo lenti i lavori della commissione. “L’esercito tira le cose per le lunghe, nella speranza che noi si finisca per cedere” deplora questo padre a lutto, avvolto nella sua djellaba bianca e sfiduciato. “Il loro rifiuto di rendere conto delle loro azioni fa intendere che siamo ancora molto lontani dagli ideali di libertà, giustizia e pace per i quali sono caduti i nostri figli”. L’Avvocato Nabil Adib, che presiede la commissione d’inchiesta, vede le cose da una prospettiva un po’ diversa. “La gente non capisce che un’inchiesta penale richiede tempo e che non basta formulare accuse contro questo o quel militare per ottenerne la condanna davanti a una giurisdizione indipendente”, dice. Più in generale, questo veterano della difesa dei diritti umani valuta che il bilancio di questi due anni di transizione debba essere analizzato senza ingenuità, ma con indulgenza. “È stato facile scendere in strada al grido di “Tasgut Bas” (in arabo “basta con il regime”, NdR), ma accordarsi su come ricostruire il Paese è di gran lunga più complicato. In ogni caso, non si deve dimenticare che la rivoluzione è servita a liberarci di un regime che controllava ogni aspetto della nostra esistenza”. Più critico è il caporedattore del quotidiano indipendente al-Tayas, Osman Mighrani, che mette sull’avviso: “Le forze civili, impantanate nelle loro divergenze, purtroppo non sono all’altezza delle responsabilità affidate loro. Benché l’esercito sappia perfettamente di non potersi permettere di far scorrere ancora altro sangue, ogni giorno in più rende maggiormente credibile lo scenario di una riconquista del potere come avvenuto in Egitto”. Nel quartiere di Was Noubawi, roccaforte della rivoluzione nel centro storico di khartoum, il comitato di resistenza vigila. Gli affreschi celebrativi della rivolta popolare si sovrappongono sulle pareti di una strada in terra battuta. Un uomo, con le spalle curve e gli occhi bassi, si allontana a passi rapidi. “È un islamista”, commenta ironizzando Fadl Abdallah, e indica il muro della casa dell’uomo sul quale, a caratteri neri, campeggia la scritta “collaborazionista”. “Abbiamo l’elenco di tutti i ‘kaizan’ (sostenitori di Omar al-Bashir, NdR) e non li perdiamo di vista” confida Hatim Imad, diplomatosi da poco all’università sudanese di scienze e tecnologia. I sostenitori del vecchio regime che non sono stati arrestati cercano di mantenere un basso profilo, ma continuano a farsi sentire sui social network. Denunciano di continuo l’accordo di normalizzazione firmato con le autorità israeliane e accusano il governo civile di aver girato le spalle all’Islam, non senza incontrare qualche reazione nella società perlopiù conservatrice. “Detestavo il regime di al-Bashir” ci dice l’imam Moussa al-Nour in una moschea di Omdurman. Racconta di essere stato discriminato spesso per le sue origini darfuriane, “ma il regime che lo ha rimpiazzato mi piace ancora meno”. Il religioso è particolarmente indignato per la recente legalizzazione della vendita di alcolici ai non-musulmani (ancora teorica, in questa fase) e rimpiange che la legge che puniva l’adulterio sia stata attenuata. Contrariamente a molti suoi conoscenti, tuttavia, assicura di non volere un ritorno al passato. “Per la prima volta da quando esercito le mie funzioni, sono libero di dire quello che voglio nella mia predica del venerdì. E posso addirittura parlare male del governo, cosa da cui non mi astengo di certo” dice. *Traduzione di Anna Bissanti