Scambio di saluti al 41bis: nonostante le sentenze della Cassazione si continua a sanzionare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 marzo 2021 L’amministrazione penitenziaria continua a punire in caso di scambio di saluti al 41bis pur in presenza di pronunce della Consulta e della Cassazione. Nonostante ci siano diverse sentenze di Cassazione che dicono chiaramente di non sanzionare un semplice scambio di saluti al 41bis tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, l’amministrazione penitenziaria continua a punire chi lo fa. Ancora una volta emerge l’annoso problema dell’applicazione delle ordinanze emanate dai magistrati di sorveglianza: il Dap puntualmente fa ricorso, i tribunali si ingolfano inutilmente, per poi arrivare in Cassazione che decide su una questione già affrontata in altri casi. A gennaio la Cassazione respinse il ricorso del Dap - A gennaio scorso, su Il Dubbio, è stata data notizia della sentenza di Cassazione del 2020 che ha respinto il ricorso dell’amministrazione contro la decisione della magistratura di sorveglianza che accolse il reclamo proposto da Emanuele Argenti, sottoposto al regime del 41bis del carcere aquilano, sul presupposto che il saluto rivolto ad altro detenuto non integrasse alcuna forma di comunicazione, implicando tale nozione uno scambio di dati, stati d’animo, sensazioni, non ravvisabile nel semplice saluto. Un’altra sentenza che conferma l’ordinanza della magistratura di sorveglianza - Ora c’è l’ennesima sentenza della Cassazione che ha respinto il ricorso del ministero della Giustizia nei confronti dell’ordinanza della magistratura di sorveglianza favorevole a Natale Dantese, recluso al 41bis de L’Aquila e assistito dall’avvocato Vinicio Viola del foro di Roma. Parliamo sempre della sanzione disciplinare per lo scambio di saluti al 41bis. Accade che Dantese ha proposto reclamo davanti al Magistrato di sorveglianza de l’Aquila, avverso la sanzione disciplinare della esclusione dalle attività comuni inflittagli, per la durata di cinque giorni, dal Consiglio di disciplina del carcere aquilano perché aveva salutato un altro detenuto, anch’egli sottoposto al 41bis, appartenente a diverso gruppo di socialità. Con ordinanza del 2017, il Magistrato di sorveglianza de L’Aquila accoglie il reclamo proposto da Dantese, sul presupposto che il saluto rivolto ad altro detenuto non integrasse alcuna forma di comunicazione. Il ministero della Giustizia ha proposto reclamo chiedendo l’annullamento dell’ordinanza impugnata, sul presupposto che il divieto di comunicazione imposto ai detenuti al 41bis, abbia la finalità di impedire i collegamenti del detenuto che vi è sottoposto con il sodalizio criminoso di appartenenza e che anche il semplice saluto, nelle sue varie forme di estrinsecazione, possa celare un messaggio occulto, in quanto l’atteggiamento di riverenza o meno con il quale si esprime potrebbe significare anche una forma di sottomissione verso il soggetto al quale è rivolto, a seconda di chi per primo rivolge il saluto o a seconda anche del tipo di saluto che viene rivolto, trattandosi di forme particolari che possono assumere un preciso significato nella subcultura carceraria. Nel semplice saluto non si può ravvisare una comunicazione - Con ordinanza del 2019, il Tribunale di sorveglianza de L’Aquila ha rigettato il reclamo, ritenendo che nella semplice dichiarazione di saluto, anche qualora accompagnata dalla menzione di un nome proprio di persona, ma non inquadrata nel contesto di una conversazione, non potesse ravvisarsi una comunicazione in senso proprio, richiedendo il relativo concetto la trasmissione di un’informazione da un soggetto ad un altro, nella specie non ravvisabile. A quel punto il ministero ha fatto ricorso in Cassazione. La Corte suprema rigetta il ricorso, motivando per l’ennesima volta che lo scambio di saluti al 41bis non può essere sanzionabile, perché “deve escludersi che si fosse in presenza di una “comunicazione” nel senso indicato, non essendovi stata alcuna trasmissione di informazioni da un individuo a un altro, ovvero un’interazione tra soggetti diversi nell’ambito della quale essi costruivano insieme una realtà e una verità condivisa”. Quella circolare del Dap revocata dopo appena due giorni - Pertanto, sempre secondo la Cassazione, “correttamente il Tribunale di sorveglianza ha rilevato come tale dichiarazione doveva considerarsi di natura neutra, non potendosi in essa cogliere alcuna particolare informazione e non avendo l’atto, in definitiva, un vero e proprio intento comunicativo”. Ma è accettabile, da parte dell’amministrazione penitenziaria, la continua opposizione alle ordinanze della magistratura? In realtà, come rivelato da Il Dubbio, ad ottobre del 2020 è stata emanata una importante circolare che aveva come oggetto i “reclami giurisdizionali (articolo 35- bis OP)” e comunicava l’orientamento assunto dai magistrati di sorveglianza a seguito dei rilevanti interventi della Corte costituzionale e della Cassazione sul 41bis. Nello specifico ha chiesto ai direttori delle carceri che ospitano i 41bis, di conformare l’azione amministrativa ai princìpi e alle ordinanze di accoglimento dei reclami dei detenuti da parte della magistratura di sorveglianza in materia di cottura dei cibi (sentenza Corte costituzionale del 26 settembre 2018 n. 186), di eliminazione del divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità (sentenza Corte costituzionale del 5 maggio 2020 n. 97), di eliminazione delle limitazioni alla permanenza all’aria aperta a una sola ora e di annullamento di sanzioni disciplinari inflitte per condotte consistenti in meri scambi di saluto tra detenuti come motivato da diverse sentenze della Cassazione. La circolare è a firma del direttore generale Turrini Vita. Ma è stata clamorosamente revocata dopo appena due giorni dal capo del Dap Bernardo Petralia e dal vice Roberto Tartaglia. Che senso ha opporsi ai princìpi costituzionali, già oggetto di sentenze delle corti superiori, quando in realtà l’amministrazione stessa è obbligata ad uniformarsi? Lorefice (M5S): “Carceri, servono controlli sui fornitori alimentari del sopravvitto” adnkronos.it, 30 marzo 2021 “Effettuare periodici controlli così da garantire una reale corrispondenza, tra i prezzi dei prodotti alimentari e non in vendita nei sopravvitti e quelli dei supermercati più vicini ai luoghi in cui gli istituti penitenziari si trovano” questa la richiesta avanzata dall’on. Lorefice ed altri del Movimento 5 Stelle, in merito alla situazione delle carceri italiane. Lorefice nella sua interrogazione cita la Saep Spa, una delle principali rifornitrici di prodotti alimentari e non, nelle carceri italiane ricordando che “la Saep Spa è una società che da anni gestisce gli spacci interni di ben 26 carceri italiane, di cui otto in Lombardia. È una delle tredici società controllate dalla Tarricone holding srl, con sede a Balvano in provincia di Potenza e un giro d’affari anche nel gioco d’azzardo: gestisce due sale bingo, una piattaforma telematica per il poker online e la raccolta di scommesse sportive e ippiche, tutte licenze garantite dallo Stato”. “Giustizia più garantista”. Cartabia tratta per l’accordo di Francesco Grignetti La Stampa, 30 marzo 2021 Oggi recepita la direttiva Ue: cautela sulla presunzione d’innocenza, ma sarà scontro tra i partiti sulla pubblicazione delle intercettazioni. Sarà forse una piccola rivoluzione per le abitudini italiane. La giustizia deve abituarsi ad avere un approccio più garantista. Ce lo chiede l’Europa da cinque anni e ora sta per diventare obbligo di legge. Con emendamento del governo, oggi verrà recepita una Direttiva europea del 2016 (“Sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”). Spetterà poi al ministero della Giustizia elaborare le norme di applicazione, ma la ministra Marta Cartabia si è impegnata con i partiti di maggioranza a fare presto. Non dovrebbe accadere, insomma, quel che successe ai tempi del governo Gentiloni, quando la medesima norma fu votata dal Parlamento, salvo poi decadere perché non arrivarono mai gli allegati tecnici. Il problema può sembra neutro, invece è esplosivo. Come considerare, infatti, le conferenze stampa che le procure tengono al termine di complicate inchieste con arresti? I giornalisti potranno ancora dare conto delle intercettazioni, che sono citate nelle ordinanze di un Gip? Secondo un approccio british, questa è informazione di parte, non garantista, che dà conto solo delle posizioni dell’accusa e prefigura un giudizio mediatico inappellabile. Le indicazioni della Direttiva sono esplicite: “La presunzione di innocenza - si legge - sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole”. Ma allora, come raccontare gli arresti? E se non si potranno più citare le intercettazioni inserite in un’ordinanza che oggi è pubblica e pubblicabile, non sarà un bavaglio alla libera informazione? Sono temi che fanno accapigliare i partiti da anni. La Cartabia per il momento ha ottenuto una tregua anche su questa partita. E d’altra parte era ben difficile per qualsiasi partito opporsi a una Direttiva, dato il carattere europeista del governo Draghi. “È un bel segnale politico, questo nostro compromesso”, ha detto nei giorni scorsi ai rappresentanti dei partiti di maggioranza. I problemi politici però sono soltanto spostati un po’ più in là. E ci sarà sicuramente una gran battaglia. La ministra ha dovuto mostrare buona capacità di navigazione per sminare una grana di prima grandezza. Si stavano moltiplicando le spinte dei garantisti - non soltanto Enrico Costa (Azione) o Riccardo Magi (Radicali), ma anche Forza Italia e Italia Viva - e di contro si stavano irrigidendo le posizioni di Cinque Stelle e parte del Pd. “Il garantismo - dice Enrico Costa, che conduce una battaglia su questo tema - cioè il principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva, è iscritto nella nostra Costituzione. Le pratiche però sono spesso diverse. Diffondere spezzoni di intercettazioni, con virgolettati, video o audio, senza che ci sia stato un vaglio al dibattimento, non è più ammissibile”. Miracolo alla Camera: oggi il sì alla direttiva garantista di Errico Novi Il Dubbio, 30 marzo 2021 I partiti di maggioranza voteranno compatti sulla presunzione d’innocenza. I limiti alle dichiarazioni dei pm saranno recepiti nel ddl di delegazione europea come chiesto da Costa e Annibali: secondo successo di Cartabia. Due su due. La percentuale di successo nella gestione dei conflitti è, per Marta Cartabia, già da record, almeno alla voce “crisi di maggioranza sulla giustizia”. Dopo l’ordine del giorno condiviso sulla prescrizione, e scritto dalla guardasigilli dietro le quinte del voto di fiducia a Draghi, oggi sempre a Montecitorio si assisterà, udite udite, al voto unanime dei partiti di governo sulla presunzione d’innocenza. Appuntamento da non perdere: alle 16 in Aula. Sabato scorso la ministra ha riunito per la seconda volta in cinque giorni gli sherpa delle forze alleate e ha suggellato l’intesa (che era stata anticipata dal Dubbio). Si è superata la frizione apertasi ancora una volta fra garantisti e Movimento 5 Stelle, con l’accordo che sarà tradotto nel voto di oggi: via libera all’emendamento, che modifica la legge di delegazione europea, con il quale viene integralmente recepita la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza (la 343 del 2016). Un passo avanti anche sul piano politico? Sì, perché vince un metodo di lavoro: sui principi non si litiga, basta intendersi sulle forme. È premiato l’attivismo di due figure che alla Camera non hanno alle spalle gruppi numerosi: Lucia Annibali di Italia Viva ed Enrico Costa di Azione. Sono loro i firmatari dei principali emendamenti che hanno convinto gli alleati a introdurre la presunzione d’innocenza anche per legge ordinaria (è già in Costituzione all’articolo 27...). L’ex viceministro della Giustizia aveva depositato più proposte, alternative fra loro: oltre al “recepimento secco” della direttiva garantista, sul quale si è trovata l’intesa, aveva ipotizzato anche la declinazione particolareggiata del principio. A partire dal suo effetto più rilevante: i limiti per le Procure nel presentare, sui giornali, la persona accusata come se fosse già colpevole. Ma anche senza la specifica norma invocata da Costa, basta già il puntuale contenuto della direttiva Ue, che mira a colpire proprio la giustizia mediatica, vale a dire la sconcertante abitudine di dare per scontata la condanna, attraverso i media, come se il processo si fosse già celebrato. Secondo Annibali “si ritorna a seguire il dettato costituzionale, un cambio di passo che ci soddisfa pienamente”. Costa parla di “passo avanti sulla strada dello Stato di diritto”, e ricorda che l’iniziativa del suo partito, Azione, era stata sostenuta fin dall’inizio anche da Riccardo Magi di + Europa. Qual è il trucco? Con Bonafede, Costa si era visto costretto alla tecnica del siluro, come per gli emendamenti con cui lui, ma anche Italia viva e quasi l’intero centrodestra, avevano cercato di congelare l’effetto della “nuova” prescrizione. Grazie a Cartabia è passata un’altra logica: se il principio è sacrosanto non lo si elude, ci si deve solo mettere d’accordo sul come e soprattutto sul quando. Il via libera di oggi sarà, per la guardasigilli, “una bella pagina, un accordo su un principio fondamentale, che è un mattone della costruzione a cui stiamo lavorando”, come ha tenuto a dire al termine della riunione di sabato. Si tratterà di capire quali iniziative concrete saranno assunte verso i pm che violassero il principio della direttiva (cosa che però inizia a farsi difficile: verrebbe violato non un precetto disciplinare o deontologico ma una legge dello Stato, quella che sarà approvata oggi e dovrà ripassare in Senato). Con il metodo dei principi costituzionali, e perciò insuperabili, si riesce a trovare un’intesa con lo stesso Movimento 5 Stelle. A cui non erano piaciute le puntualizzazioni degli emendamenti “minori” avanzati da Costa, e che si ritiene soddisfatto per la soluzione del “recepimento secco”. Poi toccherà capire se il metodo sarà seguito anche sulla prescrizione. I partiti potranno emendarla nel ddl penale fino al 23 aprile, Cartabia ha smentito di essere irritata per l’anticipo del termine rispetto all’idea di partenza, inizio maggio. Sarà così possibile “valutare gli emendamenti che saranno presentati e, quindi, tenerne conto nella sintesi che” la ministra “intende fare al termine del lavoro, previsto per fine aprile, dei tavoli appositamente costituiti al ministero”, hanno spiegato fonti di via Arenula. Il terzo banco di prova, la rettifica della norma Bonafede, è ovviamente il più difficile di tutti. Ma oggi, dopo il 100 per cento al tiro dalla distanza, chi è che se la sentirebbe di scommettere contro la ministra? Caiazza: “Non sarà un portale a mandare al macero il diritto di difesa” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 marzo 2021 L’intervento dell’Unione camere penali nel primo dei tre giorni di astensione dalle udienze. Nel primo dei tre giorni di astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria, l’Unione Camere penali ha organizzato ieri la manifestazione nazionale sul tema “Il difensore e il Ppt. Criticità e soluzioni possibili”. In questi mesi in cui si dà priorità all’efficientismo a discapito del rispetto delle garanzie, “l’astensione è l’unico strumento incisivo che abbiamo per comunicare con la politica in un momento drammatico di violazione della difesa”, ha detto in apertura il segretario Ucpi Eriberto Rosso. Tra gli indirizzi di saluto anche quello di Giovanna Ollà, coordinatrice della commissione Diritto penale e procedura penale del Cnf: “In base anche alle segnalazioni che ci arrivano dai vari Ordini, quello che chiediamo, sinergicamente insieme all’Ucpi, è la sospensione dell’obbligatorietà del deposito esclusivo tramite portale per arrivare a una fase di sperimentazione che agli avvocati penalisti non è stata concessa, a differenza di quanto accaduto con il processo civile telematico”. Secondo Alessandro Vaccaro, tesoriere dell’Ocf, “non potevamo non aderire e assicurare sostegno alla delibera dell’Ucpi in quanto ci eravamo occupati già della questione avendo anche noi ricevuto diverse segnalazioni da parte di numerosi colleghi sui gravi disservizi. Questa manifestazione è solo l’inizio di una serie di iniziative che porteremo avanti perché l’inefficienza dei sistemi telematici è ormai acclarata. Mai come in questo momento l’avvocatura deve parlare con voce unitaria. L’obiettivo è quello di un portale unico della giustizia”. A prendere parte all’evento online anche diversi magistrati requirenti, come Giuseppe Amato, procuratore capo di Bologna, Marco Airoldi e Massimiliano Carducci, sostituti rispettivamente presso le Procure di Genova e di Lecce. In particolare per Amato “l’amicizia ormai consolidata e la collaborazione che ho sempre avuto con gli avvocati mi rende proprio felice di partecipare a una manifestazione che è molto importante. Sulle criticità siamo tutti d’accordo: io stesso come procuratore ho fin dall’inizio istituito una fase di sperimentazione del portale del Ppt. Abbiamo rilevato criticità, per esempio l’impossibilità di trasferire gli indirizzi degli avvocati, e trovato poi soluzioni insieme all’Ordine territoriale degli avvocati e alla Camera penale. Inoltre abbiamo una quota di atti che il sistema rifiuta in maniera inspiegabile”. La soluzione per Amato non può arrivare però dal doppio binario Ppt - acquisizione cartacea, perché a suo giudizio se un sistema innovativo nuovo non viene imposto come unica strada, non ci si applica abbastanza: “Quello che invece abbiamo fatto è chiedere un serio contributo tecnico al ministero per dotarci di sistemi appropriati e per formarci adeguatamente”. E proprio da questo punto che si è sviluppata la conclusione del presidente dei penalisti italiani Gian Domenico Caiazza: “Spero che termini presto questa tendenza a rappresentarci come un soggetto resistente all’innovazione tecnologica che bramerebbe, addirittura in tempi di pandemia, di recarsi in tribunale a depositare gli atti. Noi siamo felici di poterlo fare da studio. L’inevitabile ritorno al doppio binario non nasce da una nostra preferenza verso il cartaceo ma dalla circostanza che non funziona il portale”. Caiazza, ricordando che, secondo quanto rilevato dagli avvocati sul territorio, un legale può attendere dai 3 ai 20 giorni per vedere perfezionato l’atto di nomina, ha lanciato un allarme: “C’è un problema enorme di dimensione costituzionale, rispetto al quale sia la pandemia che l’esigenza di informatizzazione devono arrendersi e regredire, perché non hanno alcun valore rispetto a quello costituzionale del diritto di difesa”. Come emerso dagli interventi, dopo l’incontro con l’Ucpi della scorsa settimana, la guardasigilli Marta Cartabia ha attivato subito la direzione ministeriale competente, e il giorno dopo ha convocato, pur non partecipando, una riunione tra diversi procuratori. “La ministra ha tenuto fede a quanto ci aveva detto durante il primo incontro con noi, e per questo esprimiamo apprezzamento, rimanendo fiduciosi per una soluzione che vada verso un regime transitorio del deposito cartaceo degli atti”, ha detto Caiazza che ha concluso: “Tuttavia, alcuni magistrati hanno espresso la contrarietà alla soluzione del doppio binario. E resistenza forte c’è anche da parte delle cancellerie. Evidentemente c’è un problema di messa a fuoco delle priorità”. Vaccini nei tribunali, Cartabia chiude all’Anm. “Ma sarà prorogato il regime emergenziale” di Simona Musco Il Dubbio, 30 marzo 2021 Prima l’invito ai dirigenti degli uffici giudiziari ad “rallentare immediatamente tutte le attività” senza escludere, nei casi più estremi, “anche la sospensione”. Poi il passo indietro di Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, per chiarire che le toghe non hanno minacciato alcuna sospensione, bensì posto il problema della sicurezza nei luoghi della giustizia. In mezzo ci sta il chiarimento al vetriolo di via Arenula, che con poche parole ha ribadito il proprio niet ai magistrati: il piano vaccinale non sarà rivisto. E, dunque, il comparto giustizia, comprensivo di tutti i suoi attori, non rientrerà in alcuna categoria prioritaria. Storia chiusa, se non fosse che per tutta la giornata di ieri la questione ha tenuto banco, sollevando un vespaio di polemiche, interne anche al mondo stesso della magistratura. Perché se, da un lato, il sindacato delle toghe, parlando a nome dell’intera categoria, ha lamentato una mancata proroga (poi smentita dalla ministra Marta Cartabia) della normativa emergenziale, denunciando i rischi per il comparto giustizia, a causa di udienze che procedono a ritmi frenetici in luoghi poco sicuri, dall’altro Magistratura Democratica, corrente di sinistra delle toghe, ha bollato come “errore” lo scatto in avanti di Anm. “Abbiamo trasmesso, come magistratura, un messaggio sbagliato - si legge in una nota della segretaria generale Mariarosaria Guglielmi -. Non quello della richiesta di interventi urgenti a tutela di tutti coloro che lavorano ed entrano nei palazzi di giustizia, ma voler porre “condizioni” rispetto allo svolgimento del servizio e considerarci come “categoria” che rivendica una tutela prioritaria”. Le richieste delle toghe e la replica di via Arenula - “Si continua a lavorare con le stesse modalità e con gli stessi ritmi del periodo antecedente la pandemia, con l’unico precario e insoddisfacente meccanismo di cautela costituito dalla disciplina emergenziale, che peraltro, seppure limitata ad alcune attività processuali e sostanzialmente insufficiente soprattutto per il settore penale, non risulta neppure prorogata benché ne sia prossima la scadenza”, si leggeva nella prima nota di Anm. Che lamentava, appunto, il depennamento dei lavoratori del comparto giustizia dal nuovo piano strategico. Per il sindacato delle toghe questa scelta avrebbe un unico significato: “Il Governo considera il servizio giustizia con carattere di minore priorità rispetto ad altri servizi essenziali già sottoposti a vaccinazione”. Scarsa tutela, dunque, a fronte della richiesta europea di velocizzare i processi. Le conseguenze, per Anm, sono presto dette: “Il sensibile rallentamento di tutte le attività giudiziarie che devono essere necessariamente svolte in presenza, donde l’inevitabile allungamento dei tempi di definizione dei processi”. Da qui l’invito ai capi degli uffici, in assenza di interventi normativi, “ad adottare, a tutela della salute, energiche misure organizzative al fine di rallentare immediatamente tutte le attività dei rispettivi uffici, senza escludere, nei casi più estremi, anche la sospensione dell’attività giudiziaria non urgente”. Ma la replica di via Arenula non si è fatta attendere. L’Anm, infatti, aveva discusso del tema con la ministra Cartabia lo scorso 18 marzo, incontro dal quale i magistrati erano usciti con la consapevolezza non solo della proroga dello stato d’emergenza per l’attività giudiziaria, prevista per oggi, fino al 31 luglio, ma anche la scelta di proseguire con le vaccinazioni per classi di età. Già allora l’Anm aveva chiesto di ripercorrere le orme del ministro Alfonso Bonafede, che aveva chiesto l’inserimento del comparto giustizia nel piano vaccinale. Ma Cartabia ha ribadito la linea del governo, “in nome del principio di uguaglianza e per evitare la competizione tra le categorie”. Posizioni che, ha fatto sapere via Arenula, “i magistrati sembravano aver compreso”. Da qui la replica di Santalucia, che negando qualsiasi tipo di “minaccia” (“non ne abbiamo il potere”) di sospensione ha ribadito la possibilità, in caso di udienze affollate, di “rallentare” l’attività. Cosa che, di fatto, già avviene: sono diversi gli uffici in Italia che hanno già rimandato ad altra data i processi meno urgenti, organizzando le udienze in modo da evitare il più possibile gli assembramenti. Ma ciò, a causa di tribunali a volte fatiscenti, non sempre è possibile. “I magistrati sono l’unica categoria che in caso di malattia non può essere sostituita. Tutti gli altri, i cancellieri, i carabinieri, i poliziotti, gli avvocati, possono essere sostituiti ma i magistrati no. Se l’attività di un magistrato, in funzione requirente ma ancor più in funzione giudicante, salta questo ha un effetto a catena su tutto il sistema giudiziario che si blocca”, ha ribadito a La Presse Luca Poniz, ex presidente dell’Anm. Un “grido d’allarme” raccolto dal sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, che si è detto preoccupato per i casi in continua crescita nelle aule dei Tribunali (è di pochi giorni fa la notizia della morte del procuratore aggiunto di Napoli Luigi Frunzio). “Credo sia opportuno provare ad aiutare i capi degli uffici con indicazioni tali da consentire che il diritto alla salute venga tutelato al meglio anche nei luoghi della giustizia”, ha dunque affermato. Ma contro le toghe si sono schierati diversi politici: da Matteo Salvini a Maurizio Gasparri, passando per Davide Faraone, il dissenso è stato trasversale, rispolverando la vecchia etichetta dei “furbetti del vaccino”. La reazione dell’avvocatura. Non si è fatta attendere la replica del Consiglio nazionale forense, che sin dal principio, assieme all’Anm, ha sottoposto al ministero i rischi interni ai tribunali per i lavoratori del comparto giustizia. E chiedendo norme certe, ma non a patto di frenare ulteriormente la macchina giudiziaria. Il Cnf ha espresso “preoccupazione e stupore” per “l’invito” dell’Anm a rallentare l’attività giudiziaria. “Rispetto alle considerazioni sulla funzione essenziale della giustizia non possiamo che aderire, ma se l’Anm, così come scrive nel suo documento, considera la giustizia un servizio essenziale non è allora verosimile una richiesta di un ulteriore rallentamento o addirittura una rinnovata sospensione dei processi che arrecherebbe danni come sempre in primo luogo ai cittadini, privati così del loro diritto di tutela, e rischia di apparire come una mera rivendicazione di privilegio”, afferma la massima istituzione dell’avvocatura. Sia, dunque, il ministero a stabilire come risolvere le difficoltà del settore. Senza “disparità territoriali”, ma facendo sì “che la priorità sia da riconoscere alle situazioni di oggettiva fragilità”. Stessa linea quella dell’Organismo congressuale forense, che ha invocato dialogo e non ultimatum. “Un conto è porre il tema - ha dichiarato il coordinatore Giovanni Malinconico - un altro è proporsi in termini così perentori e minacciare di rallentare le udienze”. Tra i primi a reagire anche i giovani avvocati, che hanno subito espresso “sconcerto” per la posizione dell’Anm. “L’Anm dovrebbe prodigarsi per cercare di garantire lo svolgimento di tutte le attività giudiziarie in sicurezza - si legge in una nota di Antonio De Angelis, presidente dell’Aiga - a partire dalla fissazione delle udienze per fasce orarie, anche pomeridiane. Oggi chi rischia di più il contagio nei Tribunali sono proprio gli avvocati”. Magistrati già vaccinati in molte regioni. E non manca nemmeno la replica di Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali. Che prendendo spunto dalle recenti dichiarazioni del procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha posto la questione sotto un altro punto di vista. “La determinazione dei criteri di priorità nelle vaccinazioni deve essere unica a livello nazionale”, ha dichiarato, considerando ovvio che, dopo le categorie più fragili, la giustizia rientri tra quelle prioritarie. “Ovviamente, e sono lieto che Anm lo sottolinei con chiarezza, senza distinzioni al proprio interno, come purtroppo avviene in alcune regioni dove si vaccinano magistrati e personale di cancelleria, ma non gli avvocati. Per esempio: Gratteri ha dichiarato che nel suo ufficio “sono tutti vaccinati”. Possiamo conoscerne le ragioni?”. Vaccini, l’Anm frena: “Nessun ricatto, non chieste priorità per corporazione giudici” di Conchita Sannino La Repubblica, 30 marzo 2021 Parziale marcia indietro del presidente Santalucia dopo le polemiche innescate dal documento inviato domenica sera: “Mai minacciato di sospendere i processi”. Parziale marcia indietro del presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, dopo le polemiche innescate dal tenore del documento targato Anm. “Nessuna minaccia di sospensione dell’attività giudiziaria - ha detto Santalucia a Rai News 24 - l’Associazione non sospende nulla, non ne ha il potere, non ha mai pensato di farlo. Abbiamo rappresentato a chi ha compiti organizzativi di valutare se ruoli stracarichi di procedimenti e udienze affollate possano oggi convivere con il problema drammatico di una recrudescenza del virus”. “Quella nota - ha poi proseguito - non era una richiesta di vaccinazione prioritaria della corporazione dei magistrati. Abbiamo detto che in un periodo in cui si chiude l’Italia di considerare che l’udienza è un luogo di esposizione a rischio. Salutiamo con favore la notizia della proroga dell’attività emergenziale ma può non essere del tutto soddisfacente. Ci sono settori di attività giudiziaria che continuano in presenza fisica in situazioni logistiche non adeguate”. Il braccio di ferro sul funzionamento della giustizia ai tempi del Covid era cominciato domenica. Le prime scintille tra magistrati e governo. Prima il drastico appello dell’Associazione nazionale magistrati, per la quale suscitava “disagio e sconcerto” la decisione di eliminare il comparto di tutti gli operatori dei tribunali “dalle categorie cui offrire il vaccino in via prioritaria”: le toghe avevano quindi rivolto un invito a tutti i dirigenti degli uffici affinché, “senza adeguate tutele sanitarie” e allo scadere delle regole per il processo al tempo della pandemia, venisse “limitata tutta l’attività giudiziaria e sospesa quella non urgente”. Poi, nella tarda serata di domenica, la prima rassicurazione da parte dell’esecutivo di Mario Draghi: nel decreto Covid che arriverà domani, martedì 30, sul tavolo del Consiglio dei ministri, ci sarà anche la proroga fino al 31 luglio delle normative d’emergenza che riguardano i processi. Nessuna corsia già definita, invece, per la profilassi. E dunque, era parso come un aut-aut, e insieme un grido d’allarme, quello lanciato dall’Anm in un documento (nell’aria da settimane) inviato ai vertici degli uffici. Una mossa che ha acceso subito la discussione nel Paese della giustizia-lumaca e degli arretrati già lievitati dopo il primo lockdown, un anno fa. E che aveva ricevuto subito l’assist del sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto. Il quale, a polemica innescata, ha dichiarato a Radio24: “Non vedo nell’allarme lanciato dall’Anm un tentativo di condizionamento quanto, piuttosto, la richiesta responsabile di un approfondimento sui rischi che si corrono nei tribunali italiani: questo vale per i magistrati, per gli avvocati, per il personale di cancelleria così come per i cittadini che si avvalgono del servizio giustizia. D’altra parte, la nostra edilizia giudiziaria molto spesso rende impossibile evitare gli assembramenti”. Il piano vaccinale non è in discussione - ha proseguito - ma pretendere che non si segnalino criticità mi sembra troppo. Solo ieri, a Bari, ho notizia di due magistrati contagiati, di cui uno membro di un collegio, con conseguenze evidenti su tutti i soggetti che hanno avuto contatti diretti. Situazioni come questa, moltiplicate per i vari uffici sul territorio, non possono non generare preoccupazioni di rallentamenti nell’amministrazione della giustizia, servizio primario con un ruolo nevralgico anche ai fini del Recovery Fund. In tale linea credo sia opportuno provare ad aiutare i capi degli uffici con indicazioni tali da consentire che il diritto alla salute venga tutelato al meglio anche nei luoghi della giustizia”. Nei giorni scorsi la Guardasigilli Marta Cartabia aveva ascoltato i vertici della giunta Anm e si era fatta interprete del disagio mostrato dalle toghe a nome di tutti. Ieri, però, forse in assenza di annunci formali e rassicurazioni ad ampio spettro anche sui tempi delle vaccinazioni, ecco l’“avviso” nero su bianco: adottato all’unanimità, hanno assicurato dalla giunta distrettuale. “Il nuovo Piano strategico vaccinale, modificando le linee guida approvate dal Parlamento nel dicembre 2020, non prevede più tra i gruppi target di popolazione cui offrire il vaccino in via prioritaria, i lavoratori del comparto giustizia”, è una delle premesse del documento. Secondo il sindacato delle toghe, il “governo considera il servizio giustizia con carattere di minore priorità rispetto ad altri servizi essenziali già sottoposti a vaccinazione, tanto da non ritenere doveroso rafforzare le condizioni che ne consentano la prosecuzione senza l’esposizione a pericolo per gli operatori”. Una decisione, proseguiva la nota, che “oltre a destare disagio e sconcerto per la totale sottovalutazione dell’essenziale ed improcrastinabile servizio giustizia - si leggeva ancora - appare in assoluta antitesi con gli obiettivi di riduzione dei tempi dei processi imposti dall’Unione europea e richiamati dalla ministra Cartabia nelle linee programmatiche esposte recentemente al Parlamento. Questo perché - aveva argomentato l’Anm - “l’esclusione del comparto giustizia dalla programmazione vaccinale, specie in un momento di grave recrudescenza dell’emergenza pandemica, imporrà fin da subito il sensibile rallentamento di tutte le attività giudiziarie che devono essere necessariamente svolte in presenza, donde l’inevitabile allungamento dei tempi di definizione dei processi”. Le toghe hanno rivolto così un appello ai dirigenti degli uffici e chiesto “con la sollecitudine che la gravità del momento richiede”, ad “adottare energiche misure organizzative al fine di rallentare immediatamente tutte le attività”, senza escludere, nei casi estremi, “anche la sospensione dell’attività non urgente”. La drastica misura si riterrebbe necessaria nel caso in cui “dovessero inspiegabilmente mancare interventi normativi, che l’elevato numero di contagi e di vittime tra gli operatori di giustizia impongono”. Una mossa che rischia di passare come l’ennesima autodifesa corporativa? “Qui non c’entrano gli interessi della presunta casta - spiega a Repubblica Lilli Arbore, giudice a Trani e componente della giunta Anm - Noi serviamo le istituzioni e rispettiamo la scelta della vaccinazione per fasce di età. Però non si può esporre la collettività al rischio che gli uffici si trasformino in focolai diffusi”. Proprio domenica, per quattro ore, la “piazza coperta” del Tribunale di Napoli si è trasformata in camera ardente per l’ultimo saluto al procuratore della Distrettuale antimafia Luigi Frunzio: 62 anni, vicario del procuratore Gianni Melillo, Frunzio, che non soffriva di altre patologie, è stato stroncato dal Covid dopo tre mesi di estenuante lotta. “Una perdita grave che si aggiunge ad altre, è durissimo il bilancio. Ora c’è bisogno di una posizione netta del governo”, aggiunge Arbore. E Paola Cervo, giudice a Napoli, del Comitato direttivo Anm: “I magistrati non si sono mai sottratti. Vogliamo solo continuare a svolgere il nostro lavoro in sicurezza con avvocati, cancellieri e tutti i lavoratori”. Preoccupazioni che, per il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, meritano “un urgente ed utile approfondimento, che mi impegno a sollecitare. Affinché l’emergenza pandemica, che già si è trasformata in emergenza economica, non diventi anche una catastrofe per l’amministrazione della giustizia”. La Domenica delle Palme si era chiusa però con una parziale prova di distensione. A sera inoltrata, fonti di via Arenula avevano deciso di rassicurare, chiudendo varchi alla polemica, annunciando che nel decreto Covid sarebbero state estese tutte le tutele già previste fino al prossimo 31 luglio. Ma nessuna parola sui vaccini. Anzi, era arrivata la precisazione che la ministra Cartabia si era già fatta interprete delle richieste avanzate dalle toghe a tutela di tutto il comparto e aveva già confermato che sarebbe arrivata la proroga della normativa d’emergenza. Se le toghe minacciano di rallentare la giustizia più lenta d’Europa di Giulia Merlo Il Domani, 30 marzo 2021 Dopo la nota minacciosa in cui evocava una sospensione dell’attività, il sindacato dei magistrati si modera. Ma è solo un’altra piccola guerra di potere corporativo in un sistema inadeguato agli standard europei. Dal ministero della Giustizia trapela che l’annuncio che si sarebbe vaccinato solo per età era stato dato all’Anm il 17 marzo, in un incontro coi vertici. È arrivato il primo vero scontro tra il governo di Mario Draghi e la magistratura. Non sulle necessarie riforme del settore giustizia già in cantiere o sull’utilizzo delle risorse del Recovery plan, ma sul diritto delle toghe a vaccinarsi contro il Covid sfruttando una corsia preferenziale. All’indomani della presentazione del nuovo Piano strategico vaccinale, che non prevede più tra i gruppi di popolazione cui offrire il vaccino in via prioritaria i lavoratori del comparto giustizia, l’Associazione nazionale magistrati ha diramato una durissima nota. Il sindacato delle toghe ha invitato “i dirigenti degli uffici giudiziari ad adottare, a tutela della salute, energiche misure organizzative al fine di rallentare immediatamente tutte le attività”, senza escludere “anche la sospensione dell’attività giudiziaria non urgente”. Questo perché la pandemia sta peggiorando e se non si vaccinano i magistrati è impossibile tenere gli stessi ritmi produttivi nei tribunali senza correre rischi per la salute. Segue un’accusa al governo, che “sottovaluta l’essenziale e improcrastinabile servizio giustizia” e si muove in antitesi con “gli obiettivi di ridurre i tempi dei processi imposti dall’Ue e richiamati dalla ministra Cartabia”. Le parole dell’Anm sono suonate quasi come una minaccia, che ha fatto insorgere tutti: politica, avvocatura e anche il ministero. Cartabia non ha commentato in modo ufficiale ma da via Arenula è trapelato fastidio, visto che la Guardasigilli ha incontrato il 17 marzo i vertici dell’Anm e già allora avrebbe anticipato loro sia la proroga dello stato di emergenza al 31 luglio (che sarà domani in consiglio dei ministri) che la scelta di vaccinare per classi d’età e non per categorie. Le toghe, invece, avrebbero interpretato come più interlocutoria la posizione della ministra sui vaccini. La nota dell’Anm, tuttavia, si presta ad alcune constatazioni. Secondo l’ultimo rapporto Cepej, la giustizia italiana è già tra le più lente e ingolfate d’Europa, con un processo civile che dura in media 7 anni e tre mesi per i tre gradi di giudizio. Inoltre la pandemia - come è stato certificato nel corso delle inaugurazioni dell’anno giudiziario in tutte le corti italiane - ha aumentato la durata dei procedimenti e fatto crescere la mole di arretrato. Per smaltirlo ci vorranno anni. Insomma, l’unico modo per procedere ancora più lentamente sarebbe proprio quello di sospendere del tutto l’attività, che comunque rimane contingentata nel rispetto dello stato di emergenza, con cancellerie aperte per fasce orarie e ingressi nei tribunali ridotti per gli avvocati. Del resto era stata la stessa Anm - proprio per ridurre gli assembramenti - a chiedere di incentivare ancora di più il processo telematico sia civile che penale con udienze via computer, nonostante la contrarietà dei penalisti. Inoltre nei tribunali non lavorano solo i magistrati ma anche personale di cancelleria e avvocati, che si sono compattati contro quella che è stata letta come una sorta di minaccia di “sciopero bianco”. Secondo il Consiglio nazionale forense, la posizione dell’Anm “rischia di apparire come una mera rivendicazione di privilegio”, anche perché paventare la sospensione dei processi “arrecherebbe danni come sempre in primo luogo ai cittadini, privati del diritto di tutela”. Tutti contro l’Anm - A polemica ormai esplosa l’Anm ha provato a ridimensionare la portata del comunicato. Il presidente Giuseppe Santalucia ha detto che l’Anm non ha minacciato, ma suggerito ai dirigenti “di valutare se ruoli stracarichi di procedimenti e udienze affollate possano oggi convivere con la pandemia”. Il segretario generale Salvatore Casciaro ha aggiunto che il governo ha il pieno diritto di eliminare i magistrati dal piano vaccinale ma che l’Anm ha solo constatato che “se si vuole garantire la salute, non è possibile continuare a lavorare negli uffici giudiziari con le stesse modalità in presenza”. E tra le diverse forme di tutela va considerato anche “il raffreddamento della macchina giudiziaria cercando, in questa fase di recrudescenza del virus, di limitare le udienze in presenza alle urgenze”. Insomma, quello dell’Anm sarebbe stato solo un invito ai capi degli uffici di valutare come gestire il lavoro, tenendo conto della pandemia e che i magistrati non sono più in cima alla lista per vaccinarsi. Tempesta in un bicchier d’acqua? In realtà la questione ha diviso gli stessi magistrati. Se l’Anm ha provato a minimizzare, alcuni gruppi si sono sfilati. “Abbiamo commesso un errore”, ammette Mariarosaria Guglielmi, segretaria di Magistratura democratica. “Abbiamo trasmesso un messaggio sbagliato: non la richiesta di interventi a tutela di tutti quelli che lavorano nei tribunali, ma voler porre condizioni allo svolgimento del servizio e considerarci come categoria che rivendica una tutela prioritaria”. Eppure in molti territori i vaccini proseguono. Il 27 marzo è stata somministrata la dose a tutto il personale di Padova, compresi i giudici onorari e gli amministrativi: circa 250 persone in 3 giornate. Esclusi, invece, gli avvocati. Nei giorni scorsi, lo stesso annuncio è arrivato anche da Catanzaro. L’Italia rimane ancora la terra dai mille campanili e delle corporazioni: ognuna che rivendica (e minaccia) d’essere più essenziale dell’altra. Ognuna che misura il suo peso rispetto alle altre sulla base dei privilegi ottenuti. Il paradosso della giustizia vaccinata a metà di Salvatore Scuto Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2021 In alcune regioni i magistrati sono stati vaccinati, gli avvocati no: ma nessun processo può essere celebrato senza di loro. Alla chetichella e tra le pieghe del piano vaccinale del governo Conte-bis, scopriamo che la magistratura di questo Paese ha usato due pesi e due misure. Da un lato la posizione ufficiale dell’Anm, politicamente assai corretta, chiede al Governo Draghi di inserire nel piano vaccinale il comparto Giustizia nel suo insieme (magistrati, avvocati e personale amministrativo), considerandolo un servizio pubblico essenziale. Dall’altro la cronaca dell’ultimo mese ci restituisce esempi significativi di come, con una plastica geografia a macchia di leopardo, intere platee di magistrati sono state raggiunte da una campagna vaccinale presidiata da criteri di priorità opachi se non assenti. Come, da ultimo, il caso eclatante del procuratore Gratteri che in evidente difficoltà per essere stato l’autore inconsapevole (ché noi vogliamo proprio credere che quel libro non l’avesse letto) della prefazione di un libro dai contenuti imbarazzanti, sulle colonne del Corriere della Sera del 27 marzo professa la sua ferrea fede nella scienza ricordando proprio come si sia attivato con il dirigente dell’Ats competente per vaccinare l’intero suo ufficio, anche con pedagogie vaccinali idonee a convincere chi fosse recalcitrante. Così come è il caso del giovane pubblico ministero di Siracusa, titolare dell’indagine sulla morte del sottufficiale della Marina subito dopo la vaccinazione che, forse per segnare la sua imparzialità, ha tenuto ad informare l’opinione pubblica di essersi vaccinato proprio con lo stesso vaccino da lui indagato. Insomma un panorama che, costellato anche dai casi di Toscana, Umbria, Sicilia e Friuli Venezia Giulia, rimanda al Paese un problema complesso e un’immagine che non tranquillizza. Alcuni organi di informazioni hanno distorto il problema denunciando come esempio di un privilegio castale il fatto che in Toscana siano stati vaccinati gli avvocati, omettendo nella notizia che anche i magistrati e il personale amministrativo fosse stato vaccinato. Ne è derivata la diffusa ed erronea convinzione che tra i furbetti del vaccino si trovassero in prima fila proprio gli avvocati, ma in realtà la stragrande maggioranza degli avvocati subisce, come tutta la popolazione, i ritardi e le disfunzioni del programma di vaccinazione. Occorre quindi fare chiarezza. È stato senz’altro un errore molto grave quello di permettere che interi comparti della pubblica amministrazione fossero raggiunti dalla campagna vaccinale non rispettando i criteri dell’età e della fragilità, con il risultato che sono state immunizzate intere platee anche di trentenni in perfetta salute. Il comparto dell’Università è a tal proposito emblematico: tutti vaccinati ma con didattica rigorosamente a distanza. E ciò quando la campagna per gli over ottantenni stenta a decollare mentre quella per i settantenni non è ancora di fatto partita se non con qualche eccezione. In questo contesto sembrano proprio poco confacenti ai generali criteri di eguaglianza e priorità riconosciuta per legge, le iniziative che hanno visto in ampie zone del Paese la magistratura destinataria della campagna vaccinale, a volte svoltasi nell’ombra, segnando così un profilo castale e di privilegio difficilmente superabile. In breve. Se il criterio fosse stato quello di includere il comparto giustizia, inteso come servizio pubblico essenziale, tra i criteri di priorità allora, come del resto è accaduto in Toscana ed in Umbria dopo una pronuncia del Tar, si sarebbe dovuto includere nella platea da vaccinare anche gli avvocati. È bene che l’opinione pubblica sappia, infatti, che qualsiasi processo senza l’avvocato non può essere celebrato e ciò fa comprendere bene che di quel servizio pubblico essenziale l’avvocato è parte integrante. La vaccinazione dei soli magistrati, quindi, null’altro è che l’ennesimo riflesso di una categoria che nella propria autoreferenzialità sembra aver smarrito la strada dell’equità e della giustizia. Che errore quell’audizione in Csm di Palamara di Nello Rossi Il Dubbio, 30 marzo 2021 Per quali ragioni si è deciso, in questa fase di una vicenda iniziata nell’ormai lontano maggio del 2019, di ascoltare Luca Palamara? Sentendolo - si badi - non a sua difesa (perché egli, attualmente, non è né sottoposto né sottoponibile ad alcun potere del Consiglio) ma come persona chiamata a riferire di altri. Roma, giovedì 25 marzo 2021. Audizione del dott. Luca Palamara dinanzi alla Prima Commissione del Csm. L’audizione non è pubblica, in conformità alle regole “ordinarie” delle sedute delle Commissioni consiliari. Queste, infatti, svolgono normalmente i loro compiti referenti ed istruttori in assenza di pubblicità, agendo in preparazione delle sedute del Consiglio Superiore della Magistratura che adotta tutte le sue decisioni nelle sedute del plenum nelle quali si riespande la piena collegialità dell’organo e si recupera la piena pubblicità dell’attività consiliare. “In via del tutto eccezionale” la Prima Commissione avrebbe potuto disporre - previa comunicazione al Comitato di Presidenza del Consiglio - che “la stampa o anche il pubblico” fossero “ammessi a seguire lo svolgimento” della seduta “in separati locali attraverso impianti audiovisivi”. Ma non è stata questa la strada imboccata. In luogo della possibile pubblicità si è adottata la soluzione opposta, anch’essa di carattere straordinario: la segretazione dell’audizione. Scelta, questa, che può essere compiuta “quando ricorrono motivi di sicurezza, ovvero quando sulle esigenze di pubblicità prevalgono ragioni di salvaguardia del segreto della indagine penale o di tutela della riservatezza della vita privata del magistrato o di terzi, in particolare nel caso di trattamento di dati sensibili”. In sostanza, tra le tre opzioni praticabili - normale assenza di pubblicità dei lavori della Commissione, eccezionale ammissione del pubblico e della stampa, segretazione - è prevalso il regime del segreto. Si tornerà in seguito su questo peculiare aspetto dell’audizione che si intreccia con la sua assoluta singolarità. Chi scrive è convinto che nei confronti del dott. Palamara debba valere a pieno - come per ogni cittadino imputato o raggiunto da una incolpazione di natura disciplinare o professionale - la presunzione di non colpevolezza e di non responsabilità fino all’esito finale dei giudizi che lo riguardano. Ed è altrettanto convinto che nei suoi confronti, come nei riguardi di altri magistrati coinvolti, sia stata sin qui largamente applicata, nel clamore mediatico che ha scandito l’intera vicenda portata alla luce dalle indagini perugine, la regola - opposta e comunque iniqua - della “presunzione sociale” di colpevolezza e responsabilità. Presunzione sempre fonte di distorsioni e che, anche quando vi siano chiarissime “evidenze” dei fatti, restringe gli spazi - necessari in qualsiasi giudizio - di doverosa valutazione dei profili psicologici delle condotte, delle circostanze in cui sono state poste in essere e delle possibili attenuanti. Ciò soprattutto quando è emerso con chiarezza che nella brutta storia di cui la magistratura italiana sta bevendo il calice fino alla feccia c’è una quota di responsabilità collettiva, ridotta certo, ma tutt’altro che insignificante. Se uno sventurato ha risposto è stato anche perché altri hanno sollecitato, insistito, brigato, premuto, sia pure con un’enorme varietà di gradazioni che andranno verificate con equanimità nelle diverse sedi a ciò deputate. Detto tutto questo, sono molti gli interrogativi di natura procedurale ed istituzionale sollevati dalla scelta di procedere all’audizione del dott. Palamara. Per quali ragioni si è deciso, in questa fase di una vicenda iniziata nell’ormai lontano maggio del 2019, di ascoltare Luca Palamara? Sentendolo - si badi - non a sua difesa (perché egli, attualmente, non è né sottoposto né sottoponibile ad alcun potere del Consiglio) ma come persona chiamata a riferire di altri. Ed ancora: su quali oggetti, su quali argomenti si è deciso di sentirlo, mentre sono già in corso giudizi disciplinari e procedure di trasferimento d’ufficio che dalle voci e dalle illazioni che trapelano da una audizione secretata possono solo essere turbati nella loro regolarità? E, infine, con quali garanzie di veridicità, con quali remore per eventuali affermazioni prive di riscontri o di prove, viene sentito Luca Palamara, dal momento che nella Prima Commissione non è ovviamente previsto alcun giuramento del dichiarante e che la sentenza della Sezione disciplinare dello stesso Consiglio ha rimosso il magistrato dall’ordine giudiziario e quindi anche dalla sfera dei poteri consiliari? Se tali risposte mancheranno o saranno tardive, se le ragioni dell’iniziativa resteranno troppo a lungo segrete e non spiegate o alla fine risulteranno giuridicamente inspiegabili, non ne guadagnerà l’autorevolezza di un Consiglio sin qui già investito da troppe bufere. Anche perché la razionalità giuridica - di per sé sola - non consente di far intuire il “perché” dell’audizione o di dedurre i motivi che l’hanno ispirata e sorretta. In questo contesto non si vede quale contributo di conoscenza l’audizione di Palamara possa aggiungere ai dati raccolti nelle indagini (da sottoporre ora al vaglio dei procedimenti) e alla versione offerta dall’interessato nelle moltissime occasioni che ha avuto per esprimere pubblicamente le sue verità. Anche se si sgombra decisamente il campo da ogni ipotesi di un indirizzo e di un impiego strumentali dell’audizione, il rischio che da essa deriva è amplificato a dismisura dallo stillicidio di indiscrezioni parziali e mirate, o ingannevoli, quando non deliberatamente false, che rappresentano il triste ma prevedibile corollario di una audizione improvvidamente secretata. Secondo chi scrive, la linea di condotta del Consiglio sarebbe stata più lineare e istituzionalmente corretta se la Prima Commissione non si fosse infilata nel vicolo cieco di chiedere lumi e informazioni ad una persona tormentata e amareggiata dal passato e visibilmente protesa alla ricerca di un diverso futuro. E però, una volta tratto questo “dado”, una volta ritenuto che Luca Palamara fosse un parresiasta da cui fosse possibile attingere squarci di verità altrimenti irraggiungibili, allora sarebbe stato coerente scegliere la via dell’audacia, invocando l’assoluta eccezionalità dell’audizione e adottando conseguentemente un regime di pubblicità. La tenuità della guida in stato di ebbrezza non è impedita dal solo elevato tasso alcolemico di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2021 Sono tre i criteri che portano ad ammetterla o meno: la modalità della condotta, l’esiguità del danno o del pericolo e il grado di colpa. La Cassazione prosegue lo zig zag, tra i casi concreti, sulla strada del riconoscimento della tenuità del fatto per il reato di guida in stato di ebbrezza. Con due sentenze coeve, la n. 11655/2021 e la n. 11699/2021, la IV sezione penale della Cassazione, ha in un caso cancellato la condanna e nell’altro l’ha confermata facendo tra l’altro sempre rilevare che i criteri di valutazione per il riconoscimento della causa di non punibilità sono oggetto di valutazione di merito, quindi sindacabile solo per vizi di legittimità, quali la violazione di legge, il difetto o l’omissione della motivazione. E ribadisce, in via generale, l’interpretazione già espressa secondo cui i presupposti di legge per l’applicazione dell’articolo 131 bis del Codice penale non impediscono di ravvisare la tenuità del fatto solo perché la rilevanza penale scatta ed è ragguagliata al superamento di limiti fattuali, quali il grado di alcol nel sangue. La correlazione tra soglie di punibilità e tasso alcolemico non porta a escludere tramite automatismi - come il superamento della soglia minima - il carattere tenue del reato commesso alla guida. La Cassazione ha risolto su tale punto i dubbi della giurisprudenza con decisioni rilevanti delle sezioni Unite penali pronunciate nel 2016 e citate dalle due decisioni in commento. Dice in fondo la Cassazione che il Legislatore non ha anticipato il giudizio “negativo” sulla tenuità del fatto attraverso la fissazione delle soglie di punibilità. Presupposti e criteri della tenuità del fatto - La Cassazione fa notare che rilevano come presupposti per l’applicazione dell’articolo 131 bis del Codice penale: - la previsione per il reato di una condanna non superiore a 5 anni, nel massimo edittale, e che non rileva l’assenza di minimi edittali per la fattispecie per cui si procede; - la non abitualità della condotta che però non va valutata nel perimetro delle condanne subite o con i meccanismi della recidiva, in quanto il comportamento abituale può essere desunto dalla commissione di almeno altri due reati della stessa indole - anche commessi successivamente - e senza distinguo tra processi pendenti e condanne definitive. E rilevano anche se si tratta di reati già giudicati “tenui”. Tre sono, invece, i criteri che devono guidare il giudizio del giudice di merito sulla causa di non punibilità. La Cassazione li indica espressamente nelle sentenze in esame: - modalità della condotta, - esiguità del danno o del pericolo, - grado di colpevolezza. Così la Cassazione, con la sentenza n. 11655, ha cancellato la condanna di chi aveva superato, anche se di poco, il tasso minimo di alcol nel sangue e aveva determinato un tamponamento catena, ma senza provocare feriti o morti. Mentre, al contrario, nel caso affrontato con la sentenza n. 11699, la Cassazione ha respinto la richiesta di applicazione dell’articolo 131 bis del Codice penale da parte del ricorrente che era stato condannato per guida in stato di ebbrezza per essere uscito di strada senza coinvolgimento di altri veicoli o persone, ma al quale era stato riscontrato un tasso di parecchio superiore alla soglia di punibilità integrando l’ipotesi più grave di assunzione di alcol alla guida. In conclusione, in questo secondo caso emerge che la Cassazione ha ravvisato, pur in assenza di danni a terzi, il realizzarsi di un pericolo non esiguo per l’incolumità delle persone e la presenza di un comportamento altamente colpevole per il livello di alcol assunto dal trasgressore. La Cedu condanna l’Italia per l’irragionevole durata del processo in un caso di diffamazione di Fabrizio Ventimiglia e Giorgia Conconi Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2021 Nota a sentenza: Corte Edu, Pretella contro Italia, 18 marzo 2021, ricorso n. 24340/07. Con la decisione in commento la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sancisce, sulla scorta del proprio orientamento consolidato, che la violazione dell’art. 6 par. 1 della Convenzione per irragionevole durata del processo si realizza nei casi in cui “l’estinzione di un procedimento penale e il mancato esame della domanda civile sono dovuti a circostanze imputabili principalmente alle autorità giudiziarie, tra cui eccessivi ritardi procedurali che hanno portato alle prescrizioni del reato”. Questa in sintesi la vicenda processuale. La vicenda portata all’attenzione della Corte Edu aveva ad oggetto l’archiviazione di un procedimento penale per prescrizione del reato (una ipotesi di diffamazione a mezzo stampa) maturata già nella fase delle indagini preliminari. Il 1° giugno 2007 il denunciante decideva di adire la Corte Edu, lamentando la violazione dell’art. 6 par. 1 della Convenzione. Il ricorrente riteneva, infatti, che l’eccessiva durata del procedimento penale gli avesse impedito di tutelare i propri diritti e assumeva che l’archiviazione del procedimento fosse stata causata dall’inerzia del pubblico ministero, il quale aveva, peraltro, impedito allo stesso di costituirsi parte civile, costringendolo ad agire in sede civile. Il ricorrente lamentava, inoltre, l’inefficacia del rimedio previsto dalla Legge Pinto (l. 24 marzo 2001, n. 89) in materia di irragionevole durata del processo e, dunque, la violazione dell’art. 13 della Convenzione, non avendo egli ottenuto alcuna riparazione per il pregiudizio subito a causa dell’impossibilità di costituirsi parte civile nel procedimento penale. Il Governo italiano si opponeva a tale richiesta, affermando che secondo la legge dello Stato la parte lesa non avrebbe potuto, nel caso di specie, contestare l’eccessiva durata del procedimento penale, poiché detta durata viene calcolata dal momento in cui la persona offesa è ammessa al processo come parte civile - ex art. 2 co. 2 bis Legge Pinto - ed essa può costituirsi tale solo in sede di udienza preliminare e non anche in fase di indagini. Inoltre, veniva contestato dal Governo italiano che il ricorrente non avesse esaurito tutti i rimedi interni - requisito previsto dall’art. 35 par. 1 della Convenzione - in quanto la parte lesa aveva la facoltà, sulla base del diritto processuale civile, di chiedere al procuratore generale della Corte d’Appello di revocare l’indagine e di agire, peraltro, in sede civile per ottenere la tutela dei propri diritti. Tuttavia, i Giudici di Strasburgo ritengono che l’art. 6 par. 1 della Convenzione si applichi ai procedimenti relativi alle richieste civili a partire dal momento della loro presentazione, non essendo necessario che la parte offesa si sia costituita parte civile. La Corte respinge, perciò, l’obiezione del Governo italiano, dichiarando violato l’art. 6 par. 1 della Convenzione, in quanto il “tempo ragionevole” entro il quale può essere svolto un procedimento inizia, per la persona danneggiata dal reato, “nel momento in cui esercita uno dei diritti e delle facoltà espressamente conferitele dalla legge”. La Corte osserva, inoltre, che la ragionevole durata deve essere valutata - come, altresì, previsto dall’art. 2 co. 2 della Legge Pinto - alla luce delle circostanze del caso concreto, ovvero la complessità del caso, il comportamento del richiedente, il comportamento delle autorità competenti e la lesione subita dalla persona interessata. Nel caso in esame emerge che la durata delle sole indagini preliminari era stata di cinque anni e sei mesi, risultando tale periodo, in virtù della non particolare complessità del caso, eccessivo e lesivo nei confronti della persona offesa, non essendo state, peraltro, acquisite prove in grado di giustificare tale sproporzione. Pertanto, la Corte conclude, affermando che l’impossibilità per il ricorrente di perseguire il proprio diritto sia derivata dal comportamento delle autorità e che “un individuo non può essere obbligato a proporre un’azione per lo stesso scopo nei tribunali civili dopo che il procedimento penale è caduto in prescrizione per colpa del giudice penale”, anche in ragione del principio fondamentale di economia processuale. Infine, i Giudici di Strasburgo ritengono violata anche la disposizione prevista all’art. 13 della Convenzione, non sussistendo un rimedio interno che consenta al ricorrente di ottenere una sanzione per la violazione del proprio diritto a una ragionevole durata del processo - sancito dalla stessa Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo - in quanto la Legge Pinto, che disciplina proprio tale ambito, non trova applicazione nel caso in cui il processo non sia neanche iniziato. Piemonte. Covid al 41bis di Cuneo, la Regione non aveva avviato vaccinazione ai detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 marzo 2021 La Regione è rimasta alle indicazioni, poi smentite, del commissario Figliuolo e del ministro Speranza di vaccinare solo in caso di focolai. Il Covid è entrato anche al 41bis di Cuneo. Risultano, per ora, 11 detenuti positivi, tra i quali nove sono reclusi al carcere duro. A confermarlo a Il Dubbio è Bruno Mellano, il garante dei detenuti della regione Piemonte. Parliamo dell’ennesimo focolaio che coinvolgono i penitenziari piemontesi. Sì, perché nel frattempo ci sono altre due carceri, tutte di alta sicurezza, dove il contagio si è diffuso. C’è la Casa di Reclusione di Asti con 48 positivi su 298 detenuti presenti, a questo si aggiunge un nuovo focolaio attivo al carcere di Saluzzo con 19 detenuti positivi. Ribadiamolo: il contagio coinvolge tutti i detenuti in alta sicurezza, e da poco anche quelli in 41bis. Da segnalare che alla richiesta dell’avvocata Maria Teresa Pintus del foro di Sassari, di sapere se il suo assistito al carcere duro sia positivo al Covid, la Asl le ha risposto che non può dare informazioni senza l’autorizzazione dell’interessato. La regione Piemonte non ha intrapreso la campagna vaccinale per i detenuti - Nasce un problema non da poco che il Garante Mellano ha denunciato. La regione Piemonte, di fatto, non ha intrapreso nessuna strategia di vaccinazioni nei confronti della popolazione penitenziaria. Eppure, proprio l’11 marzo scorso, il Dap ha scritto al Piemonte segnalandole che rimarrebbe la sola regione a escludere la popolazione detenuta fra le categorie eleggibili prioritarie. “Corre l’obbligo evidenziare che la disparità di trattamento rispetto agli altri detenuti potrebbe generare tensioni all’interno degli istituti penitenziari locali, con probabili ricadute sulla tenuta dell’ordine e della sicurezza”, ha sottolineato l’amministrazione penitenziaria. Ma nulla da fare, il garante Mellano denuncia che in Piemonte non si è avviata l’auspicata campagna di vaccinazione mentre, a seguito della riunione della Conferenza Stato-Regioni dello scorso 19 marzo, sono emersi dubbi interpretativi delle indicazioni contenute nel documento di “Raccomandazioni” del ministero della Salute. Dopo i focolai arrivano i vaccini - Come ha segnalato Il Dubbio era emerso che il commissario straordinario per l’emergenza Covid Francesco Paolo Figliuolo e il ministro della Salute Roberto Speranza, avrebbero indicato come non prioritaria la vaccinazione nei confronti dei detenuti, ma di effettuarla solo quando ci sono dei focolai. Subito dopo, tramite lanci di agenzia stampa, le fonti del commissario hanno parlato di errore di interpretazione e che la popolazione carceraria è tra le categorie prioritarie previste dal piano vaccinale. Il commissario alla campagna vaccinale della Regione Piemonte, Antonio Rinaudo, però, era rimasto a ciò che gli sarebbe stato detto durante la conferenza Stato-Regioni sia dal commissario nazionale che dal ministro Speranza. Oramai i focolai sono scoppiati, quindi la vaccinazione andrebbe avviata a prescindere. Infatti, l’unità di crisi - dopo che il contagio è divampato - ha disposto l’immediata vaccinazione a Saluzzo e Cuneo. Ma ha senso attendere che scoppino i focolai, per poi poter vaccinare? Liguria. Garante dei detenuti e Garante delle vittime di reato, la Regione modifica le leggi genova24.it, 30 marzo 2021 Approvate ieri in Consiglio regionale alcune modifiche alle leggi che istituiscono in Liguria le figure del Garante per la tutela delle vittime di reato e del Garante dei detenuti. Con 16 voti a favore (maggioranza di centrodestra) e 12 astenuti ha ricevuto il via libera il provvedimento che adegua la legge sul garante per le vittime di reato alle eccezioni sollevate dal Governo, che ha impugnato la legge davanti alla Corte Costituzionale. In particolare, la nuova formulazione prevede che “la Regione promuova e stipuli apposite intese con altre amministrazioni, anche statali operanti nel settore, comprese le forze dell’ordine, per l’eventuale individuazione di propri rappresentanti quali componenti dell’organismo”. Viene, inoltre, rimossa l’esclusività del rapporto di lavoro del garante. Approvato all’unanimità un emendamento presentato dal gruppo Pd-Articolo Uno che specifica alcune cause di incompatibilità, fra le quali, quella con l’attività di lavoro subordinato a tempo pieno. Confermata l’incompatibilità con ogni carica elettiva pubblica. La legge sul Garante dei detenuti, con 24 voti a favore e 4 astenuti (Lega), è stata aggiornata sulla base della nuova denominazione dei centri permanenza temporanea per stranieri” che sono divenuti “centri di permanenza per i rimpatri”. Vengono specificate meglio le regole di accesso del garante per quanto riguarda le visite negli istituti penitenziari, gli istituti penali per i minorenni, le strutture per il Tso, gli ospedali psichiatrici giudiziari, le comunità terapeutiche, che dovranno ottenere l’autorizzazione della prefettura competente. Rispetto ai poteri del garante, nel caso in cui questi ritenga che una segnalazione sia fondata, può formulare specifiche raccomandazioni all’amministrazione interessata, la quale, in caso di diniego, comunica il dissenso motivato nel termine di 30 giorni. Approvato all’unanimità un emendamento presentato dal gruppo Pd-Articolo Uno che specifica alcune cause di incompatibilità del garante, fra le quali, con l’attività di lavoro subordinato a tempo pieno. Confermata l’incompatibilità con ogni carica elettiva pubblica. “È importante costituire un organismo che vigili e promuova il rispetto dei diritti fondamentali delle persone recluse o comunque in condizione di limitazione della libertà personale - spiega Angelo Vaccarezza, capogruppo di Cambiamo! - Altrettanto imperativa, l’istituzione di una figura che possa diventare un faro istituzionale e imparziale a tutela delle vittime di reato, troppo spesso lasciate sole in un momento emotivamente delicato delle proprie vite. A breve, avremo quindi il compito di identificare le persone adatte a ricoprire tali ruoli, oltre al garante per l’infanzia e al difensore civico, gravato fino ad oggi di tutti i compiti”. Per la consigliera Lilli Lauro “i due provvedimenti che abbiamo approvato oggi vanno nella giusta direzione, quella di avere una figura che vada a vigilare sui diritti fondamentali delle persone che si trovano in condizioni di limitazione della libertà personale e quella di trovare un’altra figura paritetica che si occupi delle persone vittime di reato”. Lombardia. Il Garante: “Che il caso Corona serva a tutti i detenuti, non solo a lui” di Filippo Ciapini mowmag.com, 30 marzo 2021 “Le persone che presentano patologie psichiatriche difficilmente riescono a ottenere trattamenti adeguati in carcere”. Così il garante dei detenuti della Lombardia, Carlo Lio, il quale spera che il “caso Corona” - proprio nel giorno del suo 47esimo compleanno - possa essere d’aiuto a far conoscere la situazione di centinaia (in Lombardia) e migliaia (in tutta Italia) di detenuti con problemi psichici che non dovrebbero stare dietro le sbarre Nel giorno del suo 47esimo compleanno, molti amici, parenti e appartenenti al mondo dello spettacolo stanno mandando messaggi di solidarietà a Fabrizio Corona, adesso nel reparto psichiatrico del carcere di Monza e in sciopero della fame. Oltre a loro, in questi giorni, gli era arrivato anche un appoggio istituzionale. Quello di Carlo Lio, garante dei detenuti della Lombardia, Difensore Regionale - una particolare carica prevista dallo Statuto d’autonomia della Lombardia incaricato di tutelare i diritti e gli interessi dei cittadini e degli altri soggetti della società civile (associazioni, imprese, comitati) nei confronti della Regione Lombardia e delle altre amministrazioni pubbliche rientranti nella sua competenza, ndr - e garante del diritto alla salute di tutti i cittadini. Lo abbiamo intervistato partendo proprio da Fabrizio Corona, perché “attraverso di lui, che ha una grande capacità mediatica, possiamo dare voce a molti casi simili al suo che invece voce non hanno: persone che stanno vivendo momenti sanitari clinici difficoltosi e critici per le quali è necessario valutare misure più idonee rispetto al carcere”. Continua Lio: “Il caso Corona ha messo in risalto un problema che per molti è sconosciuto, perché nelle carceri lombarde e italiane esistono molti Corona, a causa di come è strutturato oggi il carcere - ha spiegato il garante - cioè un luogo con delle condizioni non adeguate per garantire quella assistenza psico-sanitaria che molti avrebbero bisogno quotidianamente”. Anche per questo, il garante dei detenuti ha precisato: “Spero che la risonanza mediatica del suo caso possa far riflettere le istituzioni affinché dal ministro e dal tribunale di sorveglianza possano riconsiderare se tenere nelle carceri lombarde e italiane persone che hanno queste tipo di problematiche”. Dottor Lio, quali sarebbero le giuste indicazioni per i casi simili? Diciamo che esistono alcune strutture che si chiamano Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, nda) che sono adatte a un trattamento di questo tipo, qualificato e assistenziale, quando il carcere al suo interno non ha la capacità i dare questo tipo di assistenza. Oppure la presa in capo di strutture specialistiche, quando il reato di cui si è macchiato il reo non è di pericolosità sociale. In queste situazioni, la pena può essere trasformata in un affidamento domiciliare. Ma questo vale per tutti quei casi dove il carcere può essere un ostacolo ad un recupero medico e psicologico del detenuto. La nostra carta costituzionale, all’articolo ventisette comma secondo, dice che il carcere non deve essere il posto dove si sconta una pena ma dove si riabilita chi ha commesso un delitto. Ma oggi siamo molto lontani dal dettato della carta costituzionale. Allora, il mio auspicio è che tutto quello che sta accadendo a Corona e l’avvento al ministero della giustizia del presidente Cartabia, possa trasformare quei dettati in realtà. Il carcere in cui si trova Corona, a Monza, fra l’altro è sovraffollato. Giusto? Sì, anche se il carcere di Monza è nulla rispetto ad altri dove il sovraffollamento è del del 30-40-50 %, come a Busto Arstizio. Il sovraffollamento è la regola. Ma la drammaticità dei casi, e sono tanti, di questi detenuti con problematiche psicosanitarie è che non sempre esiste nelle carceri un’adeguata assistenza e quindi i medici possono fare un servizio lacunoso per mancanze oggettive. Ma il carcere è l’unica soluzione per un malato? Io dico di no. Crede che sia avvenuta anche disinformazione intorno al caso Corona? Intorno a lui si è alzato un clamore mediatico, ma io come garante parlo a nome di tutti i detenuti. Sto seguendo il dibattito intorno alla vicenda e noto, in alcuni casi, persone che parlano perché vogliono conquistare un titolo di giornale e spesso non fanno il bene dello stesso Corona. A proposito di chi non ha voce, ci sono casi simili che si sente di citare pur mantenendo la privacy? Posso dire con certezza che esistono decine di casi come quello di Corona, molto simili. Se la vicenda Corona ci aiutasse a dare voce ai senza voce sarebbe utilissimo. La commissione speciale carceri ha avviato un’analisi precisa e puntuale per verificare in tutte le carceri quanti casi simili esistono e come sono trattati. Grazie al caso Corona, insomma, il consiglio regionale ha iniziato a fare un punto sulla situazione. Crede sia stata una ingiustizia riportarlo in carcere? Io non posso parlare di ingiustizia, non voglio e non posso discutere delle sentenze perché non si giudicano. Affronto solo il risultato, cioè la persona che viene condannata e va in carcere. E spesso ho trovato persone che hanno problemi importanti. Compio visite quotidiane e fra i detenuti c’è sempre qualcuno che ha un problema di questo tipo più o meno grave. Nessun carcere lombardo ne è esente. E sulla questione vaccini, che preoccupa anche fuori dal carcere? Noi abbiamo un coordinamento in tutta Italia e già in questi mesi, a partire dall’autunno quando si affacciò l’ipotesi, abbiamo chiesto al DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nda) di inserire i detenuti e la polizia penitenziaria nelle fasce prioritarie insieme agli over 80 perché sono i più esposti. Non a caso nella polizia ci sono stati tantissimi contagi e qualche vittima, cosi come fra i detenuti. Ho apprezzato l’iniziativa del provveditore della Lombardia che ha già vaccinato il personale delle carceri e la polizia e già da oggi sarebbero partiti con i detenuti e i volontari che fanno assistenza. Fuori dal carcere, invece, quali errori ha riscontrato su questo tema? Io sono difensore civico della Lombardia, garante dei detenuti e del diritto alla salute, e in questa veste ricevo quotidianamente lettere di cittadini che nonostante l’età avanzata non ricevono il vaccino. Noi siamo intervenuti affinché si perfezionasse la macchina per far sì che la Lombardia torni a essere la locomotiva d’Italia. Purtroppo, abbiamo subito il combinato disposto fra la carenza di dosi e le difficoltà organizzative. Lei si vaccinerà? Sono stato inserito come garante dei detenuti nel piano vaccinale dei detenuti e del personale e ho ricevuto una dose all’ospedale di Baggio la scorsa settimana. Ma ci tengo che la gente sappia che già lo scorso anno quando c’era il blocco nelle visite io ho comunque mantenuto l’impegno di entrare perché volevo che i detenuti sapessero che le istituzioni sono vicine. Con tutti i rischi e le precauzioni del caso, ho sempre mantenuto un rapporto di vicinanza nei confronti di queste persone deboli. Il governatore Attilio Fontana crede che meriti la ricandidatura? Ribadisco che la mia funzione è autonoma e indipendente, non rispondo a nessuno, solo alle leggi e alla mia coscienza. Io sono il difensore di chi vota destra e chi vota sinistra, per cui su questo non posso rispondere. A breve si terrà il riesame per Fabrizio Corona. Che cosa si augura? Che il caso Corona sia quel sasso buttato nello stagno in grado di far riflettere un po’ di più le istituzioni preposte ad affrontare e gestire i casi come quelli Fabrizio Corona che nel nostro paese sono migliaia e nella nostra regione sicuramente qualche centinaia. Mi auguro che alla fine, se Corona troverà una soluzione dignitosa, le leggi permettano che valga per tutti quelli che hanno gli stessi di problemi. Ancona. Morte di un detenuto, nervi tesi a Montacuto Il Resto del Carlino, 30 marzo 2021 A rivelarlo il neo Garante per i diritti Giulianelli intervenuto sugli atti di autolesionismo: “Decesso naturale, ma la Procura indaga”. Proteste in carcere a Montacuto, detenuti applicano atti di autolesionismo dopo la morte di un detenuto. Il fatto è accaduto di recente e sulla vicenda interviene il nuovo Garante regionale per i Diritti, l’avvocato Giancarlo Giulianelli, operativo da circa un mese. L’ombudsman, a proposito dell’accaduto starebbe verificando la situazione attraverso il monitoraggio dopo la protesta da parte di un gruppo di detenuti. n’azione di verifica del Garante a cui sarebbe arrivata anche una segnalazione di attivare, al più presto, il potenziamento di personale sanitario specifico. I fatti risalgono ad alcuni giorni fa con atti di autolesionismo da parte di quattro ospiti dello stesso istituto. La forma di protesta è scattata a seguito della morte nel sonno di un altro detenuto: “In base alle notizie raccolte - ha sottolineato Giulianelli - il decesso sarebbe avvenuto per cause naturali, ma l’esito finale, come ovvio, si avrà al termine delle indagini espletate dalla Procura della Repubblica. Vorrei cogliere l’occasione in questa sede per esprimere le mie condoglianze e la vicinanza alla famiglia da parte mia e di tutto l’apparato”. Il Garante ha aggiunto, inoltre, che nelle ultime ore ci sono stati ulteriori atti di autolesionismo da parte di due dei quattro detenuti che avevano attivato la protesta. Uno di questi si trova attualmente ricoverato nel reparto di psichiatria dell’ospedale Torrette di Ancona, mentre per l’altro sono stati effettuati tutti gli interventi del caso all’interno dell’istituto: “Ci risulta che da parte di tutti e quattro i detenuti - ha precisato Giulianelli - sia stata avanzata la domanda di trasferimento presso il carcere di provenienza, sulla quale è chiamata ad esprimersi ora l’amministrazione penitenziaria competente. La situazione complessiva a Montacuto risulta sotto controllo, ma si renderà opportuno, quanto prima, affrontare il problema dell’autolesionismo, che negli ultimi anni ha annoverato diversi casi. Anche su questo versante la carenza di personale sanitario ed un adeguato coordinamento hanno un peso specifico”. Detto dei fatti in questione, all’interno della struttura carceraria di Ancona, la più capiente delle Marche, al momento non si sarebbero verificati casi di contagio da Covid-19. Per ora, stando a quanto emerso a livello generale, gli unici casi si sono verificati dentro il carcere di Villa Fastiggi a Pesaro meno di un mese fa. In quel caso si è trattato di un vero e proprio focolaio con uno dei detenuti trasferito in terapia intensiva all’ospedale della città. Per ora i due istituti presenti nel territorio anconetano, Montacuto appunto e Barcaglione, sono ancora da considerare Covid-free. Reggio Calabria. Aveva un’infezione ma fu curato con degli antistaminici di Vincenzo Imperitura Il Dubbio, 30 marzo 2021 Così Nino è morto in carcere. Non finirà con un’archiviazione l’indagine sulla morte di Antonio Saladino, il ventinovenne morto per arresto cardiocircolatorio il 18 marzo del 2018 durante il periodo di carcerazione preventiva nel penitenziario di Arghillà, a Reggio Calabria. Il Gip del tribunale dello Stretto ha infatti accolto l’opposizione presentata dall’avvocato Pierpaolo Albanese, rigettando l’istanza d’archiviazione proposta dal pubblico ministero. Serviranno nuove indagini per fare luce sulla morte di Saladino, nel tentativo di capire come sia stato possibile che nessuno - oltre ai detenuti che dividevano con lui la cella - nonostante le numerose visite mediche, si sia accorto di come le condizioni di salute di quel ragazzone di nemmeno 30 anni fossero andate peggiorando di giorno in giorno. Antonino sta male da giorni. Quando la mattina del 18 viene trasportato in infermeria accusa vomito e febbre e non riesce a mangiare niente da più di un giorno senza vomitare. E non è la prima volta che il detenuto fa visita all’infermeria. C’era andato la prima volta dodici giorni prima, il 5 di marzo, accusando i primi segni di un malessere che lo porterà alla morte in meno di due settimane. Misurata la febbre, anche in quella occasione, Saladino viene rimandato in cella ma le cose non migliorano, anzi. Il malessere accusato dal giovane è continuo e cresce col passare dei giorni. Ne sono certi i detenuti che dividevano con lui la stessa cella del carcere reggino e che, sollecitati durante le indagini difensive, hanno dichiarato di come, in quei giorni lo stesso Saladino si fosse recato in infermeria numerose volte senza peraltro ricevere altra assistenza che una bustina di antistaminici. La mattina del 18 le cose ormai sono precipitate. Antonino Saladino fa avanti e indietro tra la cella e l’infermeria altre tre volte quel giorno. Alle 15.30 prima e poi di nuovo alle 19.30, prima dell’ultimo viaggio, quando manca poco a mezzanotte e quando ormai risulta vana anche la telefonata al 118, con i medici del pronto soccorso che non possono fare altro che constatare la morte del ragazzo. Alla base di quel malessere c’era un’infezione che è degenerata provocando la morte del detenuto (in tempi brevissimi sostiene il perito dell’accusa, in tempi più dilatati e convergenti con le testimonianze dei compagni di cella, secondo il perito di parte nominato dal legale dei familiari della vittima). Forse una disattenzione, forse una sottovalutazione, ma nessuno, nel periodo in cui Saladino lamenta sempre gli stessi sintomi - febbre e vomito - pensa di fargli un semplice emocromo. La diagnosi è sempre la stessa: influenza. Non si accorgono nemmeno delle numerose chiazze scure provocate dalle emorragie interne che sono comparse sul corpo del ragazzo e che vengono invece notate dai suoi compagni di cella che raccontano tutto all’avvocato. Una morte che forse poteva essere evitata e che invece si va ad aggiungere alle tante tragedie che si susseguono nelle carceri italiane e su cui si è mossa anche la magistratura che, su quella morte, aveva aperto un fascicolo. L’indagine, tra mille lungaggini, ci mette comunque quasi due anni a fare il suo corso e alla fine, l’unica cosa di cui si è certi, è un buco nel diario clinico di Saladino che va dal 6 marzo, giorno del suo secondo viaggio in infermeria a causa dei primi sintomi del malessere, al 18, giorno in cui si chiude il suo calvario. Su questo punto, le testimonianze dei detenuti, accolte come veritiere dal Gip che ha disposto un supplemento d’indagine, sono concordi. Antonino Saladino stava male da giorni e più volte si era recato in infermeria per farsi visitare, ma di quelle visite, sui registri ufficiali della struttura medica del penitenziario, non c’è traccia. Tanti i non ricordo registrati dagli investigatori della penitenziaria (che hanno svolto in questa indagine le funzioni di polizia giudiziaria) tra i sanitari che hanno prestato servizio nei giorni in cui Saladino avrebbe fatto la spola tra il suo letto a castello e la brandina dell’infermeria. “Noi abbiamo fiducia nella giustizia - racconta l’avvocato Albanese - ovviamente si spera di recuperare il troppo tempo perso finora. Bisognava mantenere alta l’attenzione su questa morte e forse non lo si è fatto fino in fondo, ma sono certo che si possa ancora raggiungere la verità dei fatti sia per quanto riguarda le cause della morte, sia per fare luce sul buco nel diario clinico e sulla mancata reazione dei medici del carcere all’aggravarsi del quadro clinico di Saladino”. Imbianchino da anni e molto conosciuto nel quartiere, nel carcere di Arghillà Antonino Saladino c’era arrivato in seguito al suo arresto di un anno prima. Una storia di droga che lo vedeva coinvolto con un ruolo minore e per cui era in attesa di giudizio. “Nino era un ragazzo come tanti - ha detto durante un convegno sulla sanità nelle carceri la madre della giovane vittima, da quel 18 marzo in prima linea nella ricerca della verità e in questi giorni impegnata in una dura lotta contro il Covid - lavorava come imbianchino e si dedicava a me e alla sorella. È entrato in carcere perché sospettato di un reato, ma non era un criminale, ancora doveva svolgersi un processo. Quando lo hanno arrestato era in piena salute, è morto il 18 marzo del 2018 in solitudine, con tanta sofferenza e lontano dai suoi cari. Non conosco le leggi ma penso che se lo Stato arresta una persona perché sospetta che abbia commesso un reato e lo trattiene prima ancora di giudicarlo, allora è responsabile della sua persona e deve fare in modo che riceva tutte le cure, perché anche se ha sbagliato deve avere la possibilità di curarsi. Spero di cuore, come madre e come cittadina, che quello che è capitato a Nino non succeda mai più a nessun altro detenuto, perché non riesco ad accettare che la vita di una persona detenuta abbia un’importanza diversa rispetto a quella di qualunque altra persona”. Salerno. Fuorni, allarme suicidi nelle celle piene di Federica D’Ambro La Città di Salerno, 30 marzo 2021 I dati del Garante regionale: escalation di violenze nel 2020 e 37 detenuti in più rispetto alla capienza. Mancano 28 agenti. Mancanza di agenti di polizia penitenziaria, episodi di autolesionismo e tentativi di suicidio. Ma pure sovraffollamento nelle celle rispetto alla capienza reale del penitenziario. È la fotografia sul carcere di Fuorni (e, più in generale, di tutte le strutture campane) del report annuale 2020 del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione. Tra i numeri più rilevanti emersi dalla relazione, la capienza regolamentare della casa circondariale diretta da Rita Romano: a fronte di una disponibilità di 388 posti, si registra un sovraffollamento di 37 persone con presenza reale di 425 detenuti (387 uomini, 38 donne e 58 stranieri). Inoltre dalla relazione emergono anche alcuni episodi critici avvenuti in quest’anno: se nel report non viene annoverata la rivolta avvenuta lo scorso marzo per il blocco delle visite parentali causa coronavirus, si evidenziano i tanti tentativi di suicidi e di autolesionismo. Emergenza polizia penitenziaria. Dal report emerge come la problematica più grande del carcere di Fuorni riguardi il personale. Dovrebbero essere 243, infatti, gli agenti di polizia penitenziaria in pianta organica all’interno della casa circondariale di via del Tonnazzo ma l’organico conta solo 215 agenti. Una mancanza di circa 28 unità che, sommata al sovraffollamento nelle celle, crea delle problematiche non indifferenti. Una situazione che è diventata più critica a causa del Covid. Molti agenti, infatti, sono risultati positivi, altri hanno dovuto fronteggiare l’emergenza con maggiori tutele e garanzie. Stando al report annuale del garante della Regione Campania, gli uomini della polizia penitenziaria sono stati quelli più a rischio durante la pandemia: nel 2020 sono 33 gli agenti risultati positivi, rispetto ai cinque detenuti contagiati. Allarme autolesionismo. Il carcere di Fuorni è un penitenziario che punta alla rieducazione dei detenuti fornendo loro corsi di formazione e diplomi di scuola media e superiore. Nonostante questo, però, i numeri riguardanti gli “eventi critici” non fanno ben sperare. Nel 2020, infatti, a Fuorni sono stati registrati 14 tentativi di suicidio, un suicidio, 93 scioperi della fame e della sete. Inoltre 45 detenuti hanno rifiutato l’assistenza sanitaria e 122 sono stati gli atti di autolesionismo. Una situazione che porta la casa circondariale di Salerno al quarto posto in Campania per eventi critici, subito dopo gli istituti di Benevento, Poggioreale e Santa Maria Capua Vetere. All’interno del report annuale non si fa cenno alla rivolta dei detenuti avvenuta lo scorso marzo e tantomeno alla morte del giovane rapper Giovanni Cirillo, in arte Jhonny. Il 23enne scafatese di origini somale, arrestato per una rapina e portato in cella dopo alcune evasioni dai domiciliari, decise di togliersi la vita all’interno della sua cella scorsa estate. E proprio in estate, visto il numero crescente di atti autolesionisti, il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria Regionale, in accordo con l’ufficio del Garante e dell’Osservatorio sulla Sanità penitenziaria, ha dato il via ad un tavolo tecnico mirato alla prevenzione del fenomeno. Quello che emerge è come questi atti “determinano un sentimento di solitudine e impotenza negli agenti che finiscono vittime di un’ingiustizia”. Lo scenario in altri penitenziari salernitani. Situazione ben diversa è emersa nella casa circondariale di Vallo della Lucania dove la capienza regolamentare è di 41 unità e sono presenti 39 detenuti - di cui uno solo straniero - e gli unici eventi critici riguardano tre atti di infrazioni disciplinari. Anche in questo caso si registra una mancanza di agenti di polizia penitenziaria con 23 in servizio su una pianta organica ipotizzata di 26. Un’altra fotografia emerge dall’Icatt di Eboli dove non si registra un sovraffollamento - 45 detenuti per 51 “spazi” - e solo una mancanza in pianta organica in termini di polizia penitenziaria. Gli unici numeri critici riguardano 13 atti di infrazioni disciplinari e tre scioperi della fame e della sete. Milano. Nel carcere di Bollate vaccinati contro il Covid 354 detenuti su 1.100 milanotoday.it, 30 marzo 2021 Procede la vaccinazione anti Covid dei detenuti nelle carceri milanesi. Lunedì 29 marzo sono stati resi noti i dati relativi al penitenziario di Bollate attraverso un’audizione del direttore, Giorgio Leggieri, nel corso della sottocommissione carceri di Palazzo Marino, convocata in video conferenza. Secondo i dati diffusi, finora sono stati vaccinati contro il Covid 354 detenuti su 1.163 presenti. Leggieri ha spiegato che si sta procedendo con una media di circa 50 somministrazioni al giorno dopo una “brevissima interruzione iniziale” dovuta allo stop precauzionale di qualche giorno del vaccino AstraZeneca. Nel settimo reparto del carcere è stata predisposta un’area dedicata alla vaccinazione. “Cerchiamo di garantire un flusso continuo di vaccinati, per evitare che le dosi vadano perse”, ha commentato il direttore. L’area sanitaria del carcere ha preselezionato i detenuti in modo da stabilire chi può fare AstraZeneca e chi, invece, deve fare Pfizer. Samuele Cuccolo, comandante del reparto di Bollate, ha fatto sapere durante la stessa sottocommissione che le rinunce dovute alle notizie allarmistiche su AstraZeneca ci sono state, ma non sono state molte. I vaccini Covid nel “mondo carceri” riguarderanno non solo i detenuti ma anche il personale e i volontari. Pietro Buffa, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, ha detto che la vaccinazione coinvolgerà chiunque entri nelle carceri, compresi “il personale della mensa e i manutentori delle caldaie”. Nel carcere di Bollate vi sono attualmente 33 detenuti positivi al Covid, di cui la maggior parte provenienti da altre carceri lombarde; ma la situazione è in miglioramento, dato che il “picco” era stato di 430 persone positive (e migliaia in isolamento) in un giorno. Asti. Carcere, Comunità e Covid-19 di Domenico Massano lavocediasti.it, 30 marzo 2021 Il Covid-19 è, purtroppo, recentemente entrato nella Casa di Reclusione di Asti contagiando un numero rilevante di persone ristrette e di agenti. La tempestiva somministrazione dei vaccini e l’assunzione di specifiche misure sanitarie sembrano avere contenuto la diffusione del virus che, tuttavia, ha contribuito ad alimentare timori e ad amplificare preesistenti criticità con inevitabili ricadute negative sull’intera comunità penitenziaria. In particolare in relazione alla prevenzione della diffusione del virus, per cui il distanziamento fisico assume un’importanza determinante, la questione del sovraffollamento degli istituti penitenziari rappresentava sin dall’inizio della pandemia un diffuso elemento di preoccupazione, come emergeva già un anno fa anche dal richiamo di Papa Francesco: “Ho letto un appunto ufficiale della Commissione dei Diritti Umani che parla del problema delle carceri sovraffollate, che potrebbero diventare una tragedia. Chiedo alle autorità di essere sensibili a questo grave problema e di prendere le misure necessarie per evitare tragedie future”. Tali parole erano sottolineate dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Mauro Palma: “Ponendo l’accento sulla gravità dell’ingresso del virus in un mondo chiuso, del rischio per chi qui vive e lavora, della situazione esplosiva negli istituti di pena, il Papa ha voluto ricordare che anche il carcere è parte di tutti noi e della società nella sua complessità”. Con l’arrivo della pandemia era ben chiaro, quindi, che il tema del sovraffollamento delle carceri da condizione oggettiva di trattamento degradante (per cui l’Italia è stata in passato condannata dalla Corte Europea dei diritti umani), era diventato anche una questione di salute pubblica. A livello nazionale si è cercato di agire immediatamente sbloccando percorsi di accesso a misure alternative alla pena detentiva che prima erano negati e/o non presi in considerazione (elemento su cui sarebbe opportuno fare qualche riflessione). Le persone detenute in carcere in Italia sono così passate da 61.230 a febbraio 2020 a 53.697 a febbraio 2021, con una parziale ma insufficiente diminuzione del tasso medio di affollamento che è rimasto al 106,2%, rendendo difficilmente comprensibile, come affermato sul recente Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, il fatto che continuino ad essere ristrette 19.040 persone con un residuo pena inferiore ai tre anni, dunque potenzialmente ammissibili a una misura alternativa alla detenzione, quando “se solo metà di loro ne fruisse si risolverebbe in gran parte del problema dell’affollamento carcerario italiano” (senza dover così assecondare il presunto bisogno di nuove costruzioni). Concentrando lo sguardo sulla situazione astigiana, sempre dal rapporto di Antigone emerge come la Casa di Reclusione di Quarto registri un tasso di sovraffollamento del 146,3% (ben al di sopra della soglia da rispettare, il peggiore in Piemonte e tra i peggiori in Italia). La presenza media di 300 persone detenute a fronte di una capienza massima di 205 posti ha, infatti, determinato il protrarsi di una situazione preoccupantemente pericolosa nel corso della pandemia, in cui l’indice di affollamento dell’istituto è rimasto costantemente sopra ogni prudente soglia di sovraffollamento, nonostante le indicazioni degli organismi di garanzia e sanitari, internazionali e nazionali, come ha evidenziato il Garante regionale Bruno Mellano. Il problema del sovraffollamento dell’istituto astigiano (e di tutte le sue conseguenze umane, sociali e sanitarie) forse avrebbe dovuto essere affrontato da tempo, ma ad oggi, anche in relazione alla recente diffusione del virus, è ormai chiaro come sia necessario considerarlo una questione non più rimandabile. Purtroppo, però, tale aspetto sembra quasi scomparire nelle dichiarazioni istituzionali e nel dibattito pubblico, rischiando di alimentare il diffondersi, come stigmatizzato dal Garante nazionale Mauro Palma, di fenomeni “di richiesta populista di penalità, di diminuzione della pietas e di irrazionalità nell’intervento penale”. Il tema del sovraffollamento, seppur prioritario, non è certo l’unico da affrontare ma si affianca (sovente con ripercussioni negative), ad altre problematiche come la sospensione a tempo indefinito delle attività formative e lavorative, le carenze di personale, …, e, più in generale, la possibilità di garantire la finalità rieducativa della pena, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. È importante tener conto della complessità di tale quadro e delle sue croniche criticità che si ripercuotono sull’intera comunità penitenziaria, per non correre il rischio di limitarsi a letture securitarie, spesso parziali, e senza dimenticare mai, come sottolineato nelle recenti e promettenti dichiarazioni della Ministra della Giustizia Cartabia nel suo discorso al Dap, che “Il carcere è davvero un luogo di comunità, dove il benessere di ciascuno alimenta quello di tutti e dove il disagio, la paura, la malattia di uno si riverbera su tutti. Anche sotto questo profilo la pandemia ha operato come una lente di ingrandimento portando in evidenza ciò che il carcere è, ciò che lo contraddistingue in tutti i suoi aspetti. Non trascuriamo mai questa dimensione comunitaria che lega profondamente tutti e ciascuno”. Benevento. Carcere, conclusa l’immunizzazione del personale canale58.com, 30 marzo 2021 È terminata la campagna vaccinale anti Covid-19 nell’hub dell’Asl all’interno della Casa circondariale di Benevento. La comunicazione giunge proprio dal direttore Gianfranco Marcello. “La campagna - spiega il direttore - iniziata il 13 marzo - può definirsi sostanzialmente conclusa (l’ultima giornata in istituto è prevista il 31 marzo per le ultime 15 unità rimaste più un ‘recupero’ per chi in un primo momento ha rifiutato). In accordo con l’Asl nelle giornate in cui non è stato possibile organizzare l’hub interno il personale è stato inviato presso un sito esterno, ma sempre con gestione centralizzata dall’istituto. Ciò ha consentito di non gravare minimamente sui servizi, dall’altro di ottimizzare la distribuzione del vaccino potendo contare su un numero maggiore di candidati. Forti, infatti, del vaccino potendo contare su un numero maggiore di persone possibile senza sprecare dosi. Onde far fronte, nel modo migliore possibile, a tale esigenza si è anche data l’autorizzazione su richiesta dei sanitari, all’ingresso di personale esterno non dipendente, come da linee guida nazionali, per evitare di dover sciupare dosi rimaste eventualmente non utilizzate: il posizionamento all’esterno della zona detentiva consentiva tale ultima iniziativa senza il minimo problema di interferenza con le normali attività penitenziarie e senza alcun danno per la sicurezza. Del resto il funzionamento dell’hub vaccinale Asl, seppur interno, non poteva non soggiacere alle regole previste in generale dal sistema sanitario”. “Ache per i soggetti ritenuti non idonei qui in istituto si è tuttavia, innescato un circuito virtuoso perché sono stati formalmente presi in carico dal sistema sanitario e verranno chiamati per il vaccino più adatto in un luogo consono”. In accordo con l’Asl nelle giornate in cui non è stato possibile organizzare l’hub interno il personale è stato inviato presso un sito esterno, ma sempre con gestione centralizzata dall’istituto. Ciò ha consentito di non gravare minimamente sui servizi, dall’altro di ottimizzare la distribuzione del vaccino potendo contare su un numero maggiore di candidati”. Il direttore plaude “al personale, primo fra tutti il comandante di reparto che ha brillantemente applicato le direttive dello scrivente consentendo che l’organizzazione si dipanasse senza inconvenienti di rilievo e rendendo possibile implementare all’esterno una immagine positiva dell’Amministrazione della Istituzione penitenziaria”. Vaccinati con la prima dose: 168 unità del personale penitenziario; 7 personale di supporto; esterni 19. 35 risultati non idonei. 36 rifiuti (espliciti o impliciti). Sant’Angelo dei Lombardi (Av). In Irpinia un’eccellenza nella rieducazione dei detenuti di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 30 marzo 2021 Il deputato Generoso Maraia in visita al carcere di Sant’Angelo dei Lombardi. “Stamattina, insieme al mio collega deputato del Movimento 5 Stelle Pasquale Maglione, ho visitato la casa circondariale di Sant’Angelo dei Lombardi, un carcere all’avanguardia per i suoi progetti di reinserimento sociale dei detenuti.” Ad affermarlo in una nota, il deputato irpino Generoso Maraia. “Ho potuto constatare, accompagnato dalla direttrice Marianna Adanti, che i detenuti sono impegnati in molti progetti lavorativi e formativi, perché la pena detentiva possa davvero avere la funzione rieducativa che la Costituzione le assegna. All’interno della Casa circondariale sono presenti una carrozzeria con annessi officina meccanica e lavaggio, una tipografia che produce il materiale di cancelleria per l’amministrazione penitenziaria in tutta Italia, una produzione agricola con trasformazione di pomodori, marmellate e miele e una piccola produzione di vino fatta in collaborazione con una cantina sociale locale. Il progetto più ambizioso è probabilmente quello della “Sartoria Borbonica Penitenziaria”, grazie al quale i detenuti vengono formati per la realizzazione di capi in seta di alta sartoria. Nel corso della mia visita - continua Maraia - ho insomma trovato una struttura penitenziaria attiva, che rispetta la dignità e i bisogni dei detenuti, attenta al reinserimento nella società dei detenuti stessi. Una struttura che può essere presa a modello per tutti gli istituti penitenziari italiani, che è anche aperta al territorio nel quale opera grazie alla partecipazione di cooperative e aziende locali. Sarà mio impegno - conclude Maraia - attivarmi con il Ministero della giustizia perché l’istituto possa avere una classificazione corrispondente alle attività di alto livello messe in campo. Sarebbe opportuno, inoltre, dare all’istituto la possibilità di avere una Partita Iva, in modo da poter vendere al pubblico i prodotti realizzati dai detenuti.” Torino. Storie di vita in carcere: e se per molti fosse l’unica casa? italiachecambia.org, 30 marzo 2021 Raul Bucciarelli è un medico che ha prestato servizio in carcere. Oggi ci racconta il rapporto con i suoi pazienti, interrogandosi sul vero significato di “casa”. Vi proponiamo la sua testimonianza nell’ambito del progetto “Chi ha Varcato la soglia” di Cascina Macondo, che racconta storie dal carcere dando voce a coloro che, a qualunque titolo, hanno vissuto un’esperienza all’interno delle sue mura. Era il 1995 ed ero davvero ancora agli inizi della mia professione di medico. Il lavoro di sanitario presso una struttura carceraria durò un paio di anni. Un periodo breve, ma che mi ha insegnato molte cose. Lui lo ricordo ancora molto bene, anche dopo venticinque anni, fra i tanti volti passati, visti e rivisti tante volte da dietro l’austera scrivania della infermeria della Casa Circondariale. Quella scrivania era divisa dalla libertà da otto solerti porte automatiche e centocinquanta passi. Lui era alto e magro, con una barbetta brizzolata ruvida e rada, gli occhi vivissimi e guizzanti, i capelli incolti e lunghi. Il suo volto scavato raccontava con trasparenza un infinito dolore e rassegnazione. Il cognome declinava con certezza le sue origini siciliane. Il suo dialetto inconfondibile e schietto raccontava sicuramente Palermo. Lui era uno dei tanti detenuti che al mattino faceva la fila nell’ambulatorio del carcere. Non ho mai voluto sapere, naturalmente, perché fosse finito in un penitenziario. E alla fine non l’ho mai saputo. Questo era per me un principio fondamentale ed imprescindibile per poter esercitare con serenità il lavoro di medico in un posto non facile come quello. Ogni tanto gli agenti di custodia mi raccontavano qualche cosa sul passato dei miei pazienti ma io cercavo di glissare sempre. I miei pazienti erano solo dei malati. Lui era un paziente abituale, e passava in infermeria abbastanza spesso. Si sedeva appoggiando il gomito destro sulla scrivania, mi guardava fisso negli occhi e mi ripeteva: “Dottore, non mi funziona bene il cervello”. Lo diceva con tono accorato e anche un po’ teatrale con gli occhi rivolti verso il cielo, quasi a cercare una sorta di benedizione o quanto meno di approvazione divina. Gli chiedevo di spiegarmi bene, ma non c’era molto da dire. Si prendeva la testa fra le mani e mi diceva: “Il cervello dottore… il cervello”. La sua cartella clinica raccontava innumerevoli valutazioni psichiatriche con variopinte diagnosi: “stato depressivo, note di delirio persecutorio, disturbo schizotipico di personalità”. Nessuna di queste definizioni raccontava chi era. Lui si recava in infermeria più per chiacchierare o per chiedere di aumentare il dosaggio già altissimo degli psicofarmaci per alleviare chissà quale disagio profondo. Gli agenti di custodia lo consideravano un tipo bizzarro ma nella sostanza non particolarmente pericoloso. Una mattina però arrivò più agitato del solito e finalmente riuscì a dirmi qualcosa di più. Era molto preoccupato, perché tra qualche giorno avrebbe concluso la detenzione e come si suole dire: “si sarebbero aperte le porte del carcere”. Con la testa tra le mani continuava a ripetermi: “Dottore adesso dove andrò? Non ho nessuno che mi aspetta, dovrò tornare a Torino”. Non avevo mai riflettuto su una situazione del genere. Non si pensa mai che per molti esseri umani il carcere rappresenta una sorta di casa. Fuori mancano spesso affetti, amicizie, legami familiari. Molti hanno la residenza nell’istituto di pena e non sanno neanche dove dormire. Fuori manca il lavoro, non si è più nessuno. Il carcere per molti rappresenta una sorta di identità e il dopo è solo insicurezza. Ho avuto un colloquio non facile. Cosa si può dire oltre qualche ovvietà? La direzione da me interpellata mi ha assicurato che sarebbe stato in qualche modo comunque affidato ai servizi sociali di Torino. Dopo tre giorni, è uscito. Mi hanno detto che aveva uno scatolone legato col cordino e un sacco nero dell’immondizia con tutte le sue cose. Aspettava l’autobus per la stazione. Finalmente libero. Palermo. Cotta in Fragranza (in carcere), la colomba pasquale prende il volo di Ornella Sgroi Corriere della Sera, 30 marzo 2021 Se non li gusti non li puoi giudicare. Che siano biscotti e colombe pasquali, o ragazzi in carne e ossa, il senso non cambia. Bisogna conoscerli, per poter dire se sono buoni oppure no. In questa considerazione, diventata slogan, si concentra il senso del progetto Cotti in Fragranza, il laboratorio artigianale di prodotti da forno che dal 2016 si svolge nel Carcere minorile Malaspina di Palermo e che è diventato nel tempo “un’impresa sociale a forte governane partecipata, che si regge su un’intelligenza collettiva, per cui tutte le scelte vengono prese con i ragazzi che ne sono parte e protagonisti, per costruire insieme una nuova identità contro quella stigmatizzata del carcere” spiega Nadia Lodato, responsabile del progetto insieme a Lucia Lauro. Frollini agli agrumi, snack salati, biscotti croccanti, cioccolato, cantucci. E “cicireddi” rigorosamente fatti Adesso anche colombe pasquali gustosissime, e a Natale arriveranno persino i panettoni, grazie al nuovo forno e all’impastatrice professionale a bracci tuffanti donati dall’Ufficio Speciale del Garante dei diritti dei detenuti della regione Sicilia, guidato dal prof. Giovanni Fiandaca. Sapori che profumano di sicilianità nelle materie prime di alta qualità impiegate nelle ricette messe a punto dai ragazzi di Cotti in Fragranza. Come nella novità pasquale, la colomba. Con farina di Maiorca bio, cioccolato fondente, arancia candita, mandorle e miele di ape nera sicula, ingredienti di “una nostra ricetta originale che fa eco a quella dei nostri biscotti più amati, i Coccitacca, da cui prende il nome anche la nostra colomba” spiega Nadia. L’obiettivo iniziale era “definire percorsi professionali stabili per i ragazzi ristretti nell’istituto penale” e nel giro di cinque anni Cotti in Fragranza è arrivato oggi a “formare e contrattualizzare 33 ragazzi tra area penale e migranti a rischio fuoriuscita dai sistemi di tutela”. Anche al di fuori del carcere, nel secondo nucleo operativo inaugurato nell’ex convento seicentesco di Casa San Francesco e nel bel giardino bistrot “Al fresco”, “per ampliare la gamma di prodotti e servizi e dare maggiori possibilità di inserimento lavorativo ai ragazzi che hanno finito la pena detentiva e devono espiare un residuo di pena con misure alternative, ai ragazzi in affidamento in prova ai servizi sociali e ai ragazzi migranti a rischio”. Tanti giovani che “hanno sete e desiderio di trasmettere a se stessi e agli altri l’idea che possono fare cose buone, anzi eccellenti, con una forte voglia di agire, soprattutto contro il silenzio e i tempi lasciati vuoti dalla pandemia” conclude Nadia. “Così acquisiscono una professione, ma anche la consapevolezza che c’è una possibilità di riscatto. Attraverso il pensiero e l’azione dentro un gruppo che li valorizza come possessori di una dignità dimenticata”. Bergamo ricorda don Resmini, per più di 30 anni cappellano del carcere di Marco Belli gnewsonline.it, 30 marzo 2021 Ormai il suo nome è tutt’uno con quello dell’istituto penitenziario dove per oltre trent’anni anni è stato il cappellano. E così, per onorare la memoria di don Fausto Resmini nel primo anniversario della sua scomparsa, in tanti si sono ritrovati venerdì scorso per partecipare alla Santa Messa officiata dal Vescovo di Bergamo, Monsignor Francesco Beschi. C’era il Sindaco Giorgio Gori, una rappresentanza di cittadini e una piccola delegazione della casa circondariale, guidata dalla direttrice Teresa Mazzotta e dal comandante del reparto di Polizia Penitenziaria Aldo Scalzo. La notizia della sua morte, avvenuta nella notte fra il 22 e il 23 marzo 2020, a 68 anni, per le complicanze causate dal Covid-19, scosse profondamente non solo il microcosmo del carcere ma i sentimenti dell’intera cittadinanza, dalla quale si levò subito una sentita richiesta per associare al nome di don Fausto a quello del luogo dove il suo impegno ne aveva fatto un vero e proprio punto di riferimento per il personale e per i detenuti. Richiesta prontamente accolta e condivisa dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria - Dap che, alla memoria di don Fausto Resmini, provvedeva a intitolare la casa circondariale di Bergamo, con decreto firmato il 5 giugno 2020 dal capo del Dap, Bernardo Petralia. In tanti, fra personale di Polizia Penitenziaria e detenuti, hanno continuato a testimoniare, anche in forma scritta, l’umanità e la straordinaria umiltà espresse da don Fausto e quella sua naturale predisposizione a porsi al servizio del prossimo, indipendentemente dalla fede religiosa del suo interlocutore, tanto nel bisogno spirituale quanto in quello materiale. Bergamo. “Volontari Crivop pronti a collaborare con il carcere” di Monica Gherardi L’Eco di Bergamo, 30 marzo 2021 Nella casa circondariale di Bergamo è stata avviata una collaborazione con la Crivop Italia Odv (Cristiani volontari penitenziari), organizzazione di volontariato penitenziario presente nelle carceri dì diverse città italiane dove porta sostegno ai detenuti. Il fondatore e presidente nazionale della Crivop Michele Recupero viaggia peri il Paese in camper con la moglie per raggiungere i diversi luoghi in cui operano i gruppi di volontari. In questi mesi è a Bergamo dove è stato avviato un progetto dedicato alla sezione femminile e ai soggetti protetti. In vista della Pasqua la Crivop ha invitato nel teatro del carcere il gruppo musicale dell’Assemblea evangelica di Seriate “Altare di adorazione”. “Un messaggio di amore e dì speranza durante la pandemia - racconta Recupero. La casa circondariale di Bergamo ha permesso che sette detenute della sezione femminile potessero assistere a questo momento di musica e di festa”. “Dopo la firma del protocollo d’intesa da parte della Direzione generale dei detenuti e del trattamento con Crivop Italia anche qui a Bergamo abbiamo avviato la collaborazione - spiega la direttrice del carcere Teresa Mazzotta. Cerchiamo di proseguire nella direzione di un distanziamento anti-Covid che non sia distanza dal territorio. Qui costruiamo progettualità che identificano la casa circondariale di Bergamo come un quartiere della città, un luogo dalle porte aperte in entrambi i sensi perché lo scambio umano, sociale e culturale possa avvenire continuamente”. Sono circa 120 i volontari della Crivop che operano in Italia con progetti creati su misura per ogni realtà carceraria: dallo sportello d’ascolto ai laboratori tematici, da iniziative culturali e musicali ai colloqui di sostegno. “Ci auguriamo - aggiunge il presidente - che anche a Bergamo possa presto nascere, con un’adeguata formazione, un gruppo di volontari”. Napoli. “NisidArte - Officine creative”, nuovi laboratori per i giovani detenuti di Giuliana Covella Il Mattino, 30 marzo 2021 La speranza parte, ancora una volta, da Nisida: dall’istituto penale minorile arriva un nuovo laboratorio per i giovani detenuti. A sostenerlo il progetto “NisidArte-Officine creative” della Fondazione “Il meglio di te - Onlus” sarà il Soroptimist. Un progetto che, in piena pandemia, assume un significato educativo e formativo ancor più simbolico, coniugando opportunità di riscatto e rispetto per l’ambiente. Lo stesso nome del progetto è stato proposto dagli stessi ragazzi, a sottolineare non solo il legame con l’isola ma anche l’ambizione di produrre oggetti, utilizzando materiali ecologici e riciclati (principalmente rame e ottone). L’idea e la realizzazione del progetto è della Fondazione “Il meglio di te - Onlus”, presieduta da Fulvia Russo, organizzazione attiva da 16 anni nel carcere dell’isola e nei contesti a rischio della città di Napoli e in ambito internazionale, con il supporto del Soroptimist International d’Italia (la cui presidente è Mariolina Coppola), un’associazione mondiale di donne impegnate nel sostegno all’avanzamento della condizione femminile nella società, che già da tempo porta avanti centinaia di iniziative con le strutture carcerarie femminili, grazie a un protocollo con il Dap. Per questa startup il Soroptimist ha donato materiali e attrezzature per realizzare numerose spille a forma di ape disegnate dall’artista Bruno Fermariello, per festeggiare il progetto ambientalista in occasione del centenario dell’associazione. Tre giorni a settimana alcuni ospiti del penitenziario minorile frequentano il laboratorio in cui il maestro Francesco Porzio, con la supervisione organizzativa di Raffaele Zocchi, volontario della Fondazione, insegna loro i processi produttivi e le modalità di collaborazione per la formazione di un gruppo di lavoro sano ed efficiente. Un know-how indispensabile in vista di un ritorno in società. Partendo dalla fantasia, i ragazzi hanno già iniziato a produrre oggetti dal notevole valore artistico, mettendo in pratica il percorso creativo che porta l’idea a svilupparsi prima sul foglio di carta e, poi, a realizzarsi in concreto. “L’ambizione - spiega la presidente Russo - è che questo progetto possa evolversi quanto prima in un’attività produttiva e di vendita che permetta l’autosostentamento, come già avvenuto in passato per il laboratorio delle ceramiche griffate “Nciarmato a Nisida” che la Fondazione ha attivato, attrezzato e poi affidato alla cooperativa sociale Nesis - gli amici di Nisida Onlus che, dopo un primo periodo con il sostegno economico della Fondazione, ora cammina con le proprie gambe, autofinanziando le attività per i ragazzi riuscendo ad assumere anche alcuni di loro al termine del loro periodo di detenzione”. Garantire l’equità anche con interventi differenziati di Nicola Lacetera* Il Domani, 30 marzo 2021 L’articolo 3 della Costituzione italiana sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini. Nei due paragrafi che lo compongono si percepisce il delicato lavoro di compromesso fra le varie anime politiche che contribuirono alla nostra legge fondamentale. Il primo paragrafo esprime il concetto di uguaglianza formale, tipicamente associato alla cultura liberale e conservatrice: la garanzia di pari dignità di fronte alla legge di tutti i cittadini. Il secondo è più vicino all’idea socialista di uguaglianza sostanziale, che riconosce la presenza di ostacoli diversi al raggiungimento di traguardi economici e sociali, e implica un ruolo di riequilibrio per lo stato. Nel corso degli anni, tuttavia, e soprattutto dopo la caduta dei regimi comunisti in Europa, la parte politica che più si era riconosciuta nel principio di uguaglianza sostanziale ha adottato un approccio meno interventista, e più fiducioso delle capacità del mercato di garantire uguaglianza dei punti di partenza. Questione di talento - Un assunto più o meno implicito della teoria economica classica è che le forze di mercato per loro natura premino il talento attraverso la competizione e gli incentivi delle imprese (per esempio) ad assumere chi più meritevole; questo processo genera sia crescita sia giustizia sociale perché offre a tutti, indipendentemente dalle loro origini, le stesse opportunità. Facendo propria questa visione, il pensiero dominante nella sinistra dagli anni Novanta in poi ha individuato in alcuni correttivi, per esempio nella garanzia formale di pari accesso all’educazione e alla sanità, gli interventi necessari per livellare i punti di partenza. Il mercato, il cambiamento tecnologico, e la crescita economica avrebbero fatto il resto. In una recente raccolta di saggi sulla disuguaglianza, Olivier Blanchard, già professore al Massachusetts Institute of Technology e capo economista al Fondo monetario internazionale, e Dani Rodrik, professore ad Harvard, classificano questi interventi come relativi alla fase di “pre-produzione”, cioè riguardanti lo stadio precedente l’attività economica vera e propria. E tuttavia, proprio da forze quali la rivoluzione digitale e la globalizzazione, sono emerse sfide e contraddizioni ai quei principi di pari opportunità diventati di comune accettazione, e limiti alla capacità degli interventi pre-produttivi di correggere distorsioni. La transizione digitale ha portato con sé sconvolgimenti nella struttura produttiva e nella natura del lavoro. Da un lato, sono state premiate professioni che richiedono alti livelli di educazione. La velocità del cambiamento tecnologico, inoltre, è tale che il sistema educativo fatica a integrare le nuove conoscenze nei programmi. Questa “gara” fra educazione e tecnologia, come la hanno definita Claudia Goldin e Larry Katz (entrambi ad Harvard), genera scarsità delle competenze necessarie, e un aumento dei compensi per i pochi che le posseggono. Inoltre, il crollo dei costi di comunicazione grazie alle tecnologie digitali consente, per esempio, a pochi “super” manager o banchieri di gestire divisioni o imprese sempre più grandi e servire mercati più ampi. I proventi per questa classe di “superstar”, come già l’economista di Chicago Sherwin Rosen aveva teorizzato quaranta anni fa, sono cresciuti a dismisura. Dall’altro lato, l’automazione di molte attività, dalla manifattura a certi servizi, ha ridotto la domanda di lavori qualificati, ad alto valore aggiunto, ma che non richiedono alti livelli educativi. Per chi era impiegato in questi settori, l’alternativa oggi sono spesso lavori con condizioni salariali e contrattuali meno attraenti. La caduta della domanda di quei lavori “intermedi”, specie nel mondo occidentale, è stata ulteriormente accelerata dal processo di globalizzazione e spostamento della produzione in altri paesi. Ma macchine sempre più “intelligenti” si stanno sostituendo al lavoro umano ovunque nel mondo. Le analisi di studiosi come Daron Acemoglu (Mit) e Pascual Restrepo (Boston University) fanno temere che i “nuovi” lavori che la digitalizzazione ha creato non basteranno a compensare quelli persi. L’aumento delle diseguaglianze - La polarizzazione del mercato del lavoro, a sua volta, ha fatto aumentare le diseguaglianze di reddito e ricchezza. Gli stessi principi economici sempre più condivisi dallo spettro politico e ideologico, tuttavia, attribuiscono un valore positivo alla disuguaglianza in una economia di mercato: se la disuguaglianza è il risultato di differenze di merito una volta garantite condizioni minime di pari opportunità, ci sarà più crescita e, soprattutto, più mobilità sociale e opportunità diffuse, perché il talento non dipende dalle condizioni di partenza o dal retroterra socioeconomico di origine. Ricerche recenti mostrano però una realtà diversa. Miles Korak (University of Ottawa) ha evidenziato che la mobilità sociale è in realtà inferiore in paesi con maggiori disparità: maggiore è la disuguaglianza, più essa tende a perpetuarsi di generazione in generazione. Raj Chetty (Harvard) ha mostrato come il luogo di nascita e l’estrazione socioeconomica dei genitori sempre più determinino le opportunità economiche dei figli, in termini di reddito e ancor prima di accesso a certe attività particolarmente lucrative perché traggono vantaggio dalle nuove tecnologie. Sembra, insomma, che da una società meritocratica si stia in qualche modo tornando a una società “patrimoniale”. Lucas Chancel della Paris School of Economics evidenzia che oggi non è più tanto il paese di residenza a determinare le opportunità economiche di un giovane, quanto il suo retroterra familiare indipendentemente dalla nazionalità. Puntare tutto sull’educazione - Le dinamiche economiche che la digitalizzazione e la globalizzazione hanno accentuato aiutano a spiegare questa relazione tra disuguaglianza e mobilità sociale. In particolare, la polarizzazione del lavoro, con da una parte professioni di alto livello che richiedono educazione di élite, dall’altra lavori a basso valore aggiunto, spinge le famiglie a investire sempre più nella formazione dei figli. L’educazione formale, anche quando garantita a tutti, è tuttavia solo una parte di questi investimenti. Chi può permetterselo avvia i propri figli alla lettura di libri, alla conoscenza delle lingue, ai viaggi studio, ad attività extra-curricolari che aumentano non solo le loro conoscenze, ma anche le capacità “non cognitive”, come l’abilità di lavorare in gruppo e gestire situazioni complesse. Garey e Valerie Ramey della University of California definiscono questi processi una gara senza fine (“rat race”, in inglese). Gara che, oltre a essere impari e inaccessibile alla maggior parte delle famiglie, è sempre più incerta anche per le classi agiate: se a metà del secolo scorso, la stragrande maggioranza dei figli poteva aspettarsi di ottenere una condizione economica migliore di quella dei genitori, questo non è più vero oggi. Daniel Markovits (Yale University) chiama questa dinamica “Trappola della meritocrazia”. Indipendentemente dalle loro capacità innate, quindi, chi viene da famiglie benestanti accumula un vantaggio rispetto a chi non ha i mezzi in partenza. Non solo questo perpetua le disuguaglianze invece di bilanciare i punti di partenza, ma comporta anche uno spreco di tanto potenziale talento; Raj Chetty e i suoi collaboratori concludono che la società potrebbe perdere tanti potenziali “Einstein” a causa di queste dinamiche. Insomma, sembra proprio che per garantire effettive pari opportunità, agire politicamente sui punti di partenza richiede di andare oltre la fase “pre-produttiva” con la garanzia di alcuni servizi come l’educazione formale. I saggi raccolti da Blanchard e Rodrik discutono interventi che, in alcuni casi, sono volti a garantire uguaglianza oltre allo stadio iniziale, e se non proprio fino al punto di arrivo, quanto meno per un percorso più lungo. Queste politiche, secondo alcuni, includono stabilire un salario minimo dignitoso e un reddito universale. Altri suggeriscono politiche industriali e tributarie che favoriscano la creazione e il mantenimento di lavori accessibili a molti, ad alto valore aggiunto, e dignitosi nel salario e nelle condizioni: ad esempio, supporto pubblico di certi settori, una tassazione che dissuada le imprese dall’eccessivo investimento in automazione che sostituisce il lavoro, e un rafforzamento del ruolo dei lavoratori attraverso la contrattazione collettiva o la compartecipazione nelle decisioni aziendali. Altri ancora individuano in una tassazione più progressiva, che riguardi anche il patrimonio e le eredità, un meccanismo di riequilibrio delle condizioni di partenza per le future generazioni. In un video che Kamala Harris ha pubblicato pochi giorni prima delle elezioni presidenziali, la futura vicepresidente descrive la differenza tra uguaglianza ed equità. Secondo Harris, il principio di uguaglianza, intesa come parità dei punti di partenza, non è più sufficiente per garantire effettive pari opportunità. Bisogna invece riconoscere che certe disparità - di condizione economica, ma anche di genere o razza - sono ormai così radicate che un’agenda progressista deve andare oltre, e promuovere piuttosto l’equità attraverso interventi anche differenziati. Senza arrivare all’egalitarismo, c’è ampio spazio, e oggi meno imbarazzo di trent’anni fa, per sostenere politiche che accompagnino le persone oltre il punto di partenza per garantire loro adeguate possibilità future. Si tratta, sia chiaro, di una posizione tutt’altro che universalmente accettata, soprattutto da settori più conservatori e moderati dell’opinione pubblica, come dimostra un recente intervento critico del politologo Charles Lipson sul Wall Street Journal. Una disuguaglianza, questa di vedute e proposte politiche, che è quanto mai benvenuta dopo un lungo periodo di eccessiva somiglianza tra destra e sinistra. *Economista Droghe. Dopo 60 anni, è tempo di cambiare fuoriluogo.it, 30 marzo 2021 Nell’anniversario della firma della Convenzione Unica sugli stupefacenti la società civile fa il bilancio di 60 anni di fallimenti del proibizionismo. Oggi ricorre il sessantesimo anniversario della firma della Convenzione Unica sugli stupefacenti, siglata a New York il 30 marzo 1961, il testo che è alla base del sistema proibizionista e della “war on drugs”. La rete italiana della Società civile ha promosso un webinar internazionale, dal titolo “La convenzione unica sugli stupefacenti: 60 anni di un epic fail?”, che si terrà proprio stasera, dalle 18 alle 20 (info e iscrizioni su https://www.fuoriluogo.it/epicfail). Per Leonardo Fiorentini, segretario nazionale di Forum Droghe “non è un caso il silenzio assoluto delle Istituzioni mondiali e nazionali su questo anniversario. Il fallimento delle politiche globali sulle droghe è acclarato, e da qui l’imbarazzo e la scelta di non ricordare al mondo gli errori e i danni provocati. Il sistema delle convenzioni e l’azione degli Stati membri dell’Onu dovevano eliminare completamente la produzione e uso illegale di droga entro 25 anni. Ne sono passati 60 di anni e produzione, traffico e consumo non sono mai stati così vari e ampi: non lo dico io, lo hanno detto i Governi stessi riuniti a Vienna nel 2019”. “Quegli stessi governi nel 1998 - ricorda Fiorentini - avevano rilanciato, annunciando un mondo senza droghe in 10 anni. 20 anni dopo, nel 2018, il World Drug Report dell’Unodc attestava l’esistenza di 269 milioni di consumatori di sostanze nel mondo. Un aumento del 54% rispetto al 1998: le persone che usano sostanze sono dunque aumentate a velocità esattamente doppia rispetto all’aumento della popolazione mondiale (+27%) nonostante politiche pesantemente repressive, eradicazioni forzate e fumigazioni aeree con glifosato, carcerazioni indiscriminate e in alcuni casi torture e pena di morte. Tra il 2009 e il 2018 la produzione di oppio e coca è aumentata rispettivamente del 125% e del 30%, mentre nessun segno di riduzione si è avuto per la cannabis. Un quarto delle entrate complessive della criminalità organizzata proviene dal narcotraffico. Nel 2018 il fatturato del mercato globale della droga è stato stimato tra i 426 e i 652 miliardi di dollari. Ben oltre la metà dei profitti vengono riciclati, e di questi meno dell’1% viene sequestrato. “A questo punto - conclude il Segretario di Forum Droghe - è tempo di cambiare rotta. Lo hanno già fatto Uruguay e Canada e 16 stati Usa (questa settimana potrebbe essere il turno di New York) legalizzando la cannabis, lo ha fatto il Portogallo e lo sta facendo la Norvegia puntando sulla decriminalizzazione. In Italia invece siamo fermi alla legge Jervolino-Vassali, concepita oltre 30 anni orsono sulla spinta proibizionista degli Usa di Reagan e della San Patrignano di Muccioli”. Droghe. In Italia un morto per overdose ogni due giorni affaritaliani.it, 30 marzo 2021 Sono già 41 i morti per overdose in Italia dall’inizio dell’anno. Nonostante i lockdown, la pandemia, non si ferma il mercato dell’eroina. Sono i dati di Geoverdose, sito di monitoraggio quotidiano. “L’idea ci è nata scoprendo un sito americano, LostLove, creato da un ragazzo che aveva perso per overdose la propria fidanzata. Abbiamo creato uno strumento aperto a tutti per monitorare il fenomeno delle overdosi da sostanze nel nostro paese perché i rapporti ufficiali escono anno dopo anno mentre per monitorare il fenomeno serve uno strumento che dia informazioni quasi in tempo reale. Perché il mondo del consumo di droghe è veloce, muta in fretta, ed è importante per noi capire cosa succede sul territorio, dove si verificano dei picchi di crisi, dove si sposta il mercato. Analizziamo e pubblichiamo tutte le notizie per morti dovute a eccesso e abuso di sostanze, utilizziamo notizie che compaiono sulla carta stampata o sul web. Certamente non abbiamo tutti i dati, nelle grandi città in particolare spesso una morte per overdose non è nemmeno una notizia da pubblicare, ma possiamo dire che il nostro grado di affidabilità è all’80-90%. Siamo diventati una fonte credibile anche per le istituzioni. La nostra mappa non è solo importante per gli eventi in se, ovvero il conto delle vittime, ma raccogliamo dati anche sulle circostanze. Dove è avvenuto l’episodio (vicino a una stazione, in auto, in un albergo, da soli o in compagnia, se c’è stato un mix di sostanze e, se possiamo, indichiamo quali etc.). In questo modo disegnano una mappa che fa riferimento anche alle circostanze del decesso e questo è importante per la prevenzione”. Perché l’eroina continua a diffondersi, specialmente tra i giovanissimi? “Il mercato dell’eroina - continua Giancane - si è modificato molto negli ultimi anni. Partiamo dalla produzione di oppio che negli ultimi dieci anni si è decuplicata. Solo nel 2018 la produzione di oppio in Afghanistan è cresciuta dell’87%, 9mila tonnellate pronte a essere immerse sul mercato. Vuol dire tantissima merce di ottima qualità da smerciare a prezzi sempre più bassi. Negli ultimi anni il delta tra il costo della cannabis e quello dell’eroina è stato spaventoso: se 20 anni fa con quello che serviva per 1 grammo di eroina potevi comprarti 15/20 grammi di cannabis oggi il rapporto è quasi alla pari. Le rotte dello spaccio sono cambiate. Mafia e Ndrangheta hanno abbandonato l’eroina per concentrarsi sulla cocaina. In particolare è la Ndrangheta oggi a gestire e a decidere il prezzo della cocaina, l’unica organizzazione al mondo in grado di non dover pagare ai produttori il materiale sequestrato perché già compreso nel prezzo di acquisto come voce di ‘rischio’. L’eroina segue rotte diverse: dalla Nigeria, dai Balcani. Il prodotto che arriva dai Balcani, in mano a slavi e albanesi, subisce più passaggi, più tagli, quindi è meno puro. Il prodotto nigeriano arriva direttamente nel nostro paese, con un tasso di purezza molto più alto. I quantitativi sono generalmente piccoli. Difficilmente un carico di eroina supera i 10kg, mentre per la cocaina parliamo di tonnellate. L’eroina viaggia su mezzi più piccoli, spesso con ‘passatori’ che la ingeriscono. Insomma tutta la catena è meno costosa, più leggera, e questo contribuisce alla riduzione del prezzo. Le piccole e medie organizzazioni sul territorio, generalmente di nordafricani, che gestiscono lo spaccio al dettaglio come nel caso di Rogoredo o San Donato a Milano non danno particolare fastidio alle grandi famiglie della Ndrangheta o della camorra. Lasciano fare. E poi l’eroina viene sempre più fumata o mischiata con la coca, sempre meno iniettata. L’allarme sociale è sceso anche perché sono oggettivamente diminuiti i ‘tossici’ nei centri urbani. Ma certo il fenomeno tra i giovanissimi è in aumento perché con soli 5 euro puoi farti una tirata”. Migranti. L’anno orribile dei braccianti immigrati di Enrico Pugliese Il Manifesto, 30 marzo 2021 La loro regolarizzazione annunciata di fatto non c’è stata. Il lockdown è un grave peso per chi è costretto a restare a casa. Ma per chi la casa non ce l’ha è una vera tragedia. È passato un anno da quando grazie a un manifesto della Flai Cgil si cominciò a parlare di una regolarizzazione per i lavoratori stranieri occupati in agricoltura e privi di permesso di soggiorno. E ancor prima dell’iniziativa sindacale c’erano state richieste da parte di grandi e piccoli imprenditori agricoli che - vedendo approssimarsi mesi di intensa domanda di lavoro per le semine e altre operazioni primaverili e per le raccolte estive - si erano resi conto che la manodopera disponibile era drasticamente ridotta rispetto agli anni precedenti. Ma a queste probabili assenze corrispondeva una sicura presenza di immigrati privi di permesso di soggiorno oppure con permesso scaduto comunque in condizione di irregolarità : persone intrappolate in Italia e a rischio di rimpatrio forzato. Attingere ulteriormente in maniera legale a questo bacino era l’interesse dichiarato e in larga misura effettivo di molti imprenditori agricoli. Risultava dunque evidente che la sanatoria (o regolarizzazione che dir si voglia) era una buona opportunità non solo per i lavoratori. E a questo punto l’interesse per la regolarizzazione si estese riguardando lavoratori e datori di lavoro di vari settori ed ambienti. In particolare il lavoro domestico e quello di cura (colf e badanti). Alla fine la regolarizzazione fu approvata rientrando come parte integrante del Decreto Rilancio del 16 maggio 2020 tuttavia con una serie di paletti e di vincoli volti a renderne il percorso difficile e costoso per tutti e praticamente impraticabile per i braccianti. Le domande furono poco più di duecento mila per il complesso delle categorie ma quelle dei lavoratori agricoli furono circa quindicimila: una cifra veramente irrisoria se si considera il notevole e crescente numero di lavoratori stranieri occupati al nero. E questo merita una spiegazione specifica che chiama in causa il meccanismo cardine delle regolarizzazioni in atto nel nostro paese: un procedimento secondo il quale l’immigrato non è un soggetto che richiede di regolarizzare la propria posizione e ottenere un permesso di soggiorno. Al contrario egli è l’oggetto di una richiesta presentata da un datore di lavoro che decide di regolarizzare una persona alle proprie dipendenze. Con la legge Bossi-Fini e relativa sanatoria questo principio fu codificato con l’infame norma del ‘contratto di soggiorno’, che lega il permesso a uno specifico rapporto di lavoro rendendo strutturalmente insicura la condizione del lavoratore ‘oggetto’ del contratto sempre a rischio di perdere il permesso di soggiorno. Ma la maggior parte dei braccianti che lavorano ora al nero non hanno un rapporto di lavoro certificabile. In agricoltura la domanda di lavoro è estremamente irregolare con concentrazione in alcuni periodi e con la durata dell’occupazione presso un’azienda spesso molto breve. A volte il bracciante conosce solo il caporale e non ha alcun contatto con il titolare dell’azienda agricola. Ed è comprensibile la scarsa disponibilità di questi ultimi. Ma anche nel caso di disponibilità i requisiti personali dell’imprenditore e relativi all’azienda richiesti per dar corso alla regolarizzazione sono talmente stretti da disincentivare ogni buon proposito. Per questo i braccianti la battaglia l’hanno persa ancora prima di cominciarla. Chi non voleva che se ne facesse nulla ha vinto la partita in anticipo. E i lavoratori si sono trovati nelle stesse condizioni di prima aggravate dall’epidemia. Questo è l’aspetto più doloroso. La costrizione a restare chiusi in casa - il lockdown come si dice - è una gran bella seccatura, che rende la vita difficile a chiunque. Ma questa è una seccatura per chi una casa dove stare ce l’ha. Il che non è il caso di una larga parte dei lavoratori agricoli immigrati. Un alloggio di fortuna per quanto terribile è più sopportabile se usato solo per riposarsi di notte. I ghetti, le baraccopoli, e le stesse tendopoli sono forme di degrado abitativo comunque. Ma diventano una insopportabile prigione quando non se ne può uscire. Uscire dalle precarie sistemazioni nei ghetti e altrove per gli irregolari non implica solo una contravvenzione alle norme del lockdown ma anche il rischio delle sanzioni per l’assenza di permesso di soggiorno. Inoltre le agglomerazioni, anche le più precarie e malsane, sono comunque un luogo di socialità e solidarietà. La giusta paura del contagio ha determinato un’ulteriore dispersione degli immigrati, costretti a cercarsi nel freddo nei mesi autunnali e dell’inverno un tetto un tugurio o una casa di campagna abbandonata per ridurre il rischio di contagio. Lo stesso accesso al tampone è stato difficile e in alcune situazioni del Mezzogiorno è stato reso possibile dall’impegno di associazioni del volontariato. Infine in qualche caso si è dovuto rinunciare a progetti di sistemazione in strutture più o meno attrezzate di numeri significativi di braccianti per i rischi connessi all’affollamento, con il risultato di un ulteriore aumento della loro solitudine e precarietà. Insomma è stato un anno, e soprattutto un inverno, orribile. Colombia, Italia. La verità su Mario Paciolla “è un diritto che riguarda tutti” di Gianpaolo Contestabile e Simone Scaffidi Il Manifesto, 30 marzo 2021 Nel giorno in cui il lavoratore dell’Onu morto in Colombia avrebbe compiuto 34 anni il Festival Internazionale di Giornalismo Civile dà voce ai familiari, agli amici e alle legali che seguono il caso per ricordare il suo lavoro e rileggere le sue parole. Domenica 28 marzo il lavoratore delle Nazioni Unite Mario Paciolla, morto in Colombia il 25 luglio scorso durante la Missione di Verifica degli Accordi di Pace, avrebbe compiuto 34 anni. La piattaforma “Imbavagliati”, che coordina il Festival Internazionale di Giornalismo Civile, ha dato voce ai familiari, agli amici di Mario e alle legali del caso per ricordare il suo lavoro, rileggere le sue parole e ribadire la determinazione nella ricerca della verità e della giustizia. In occasione della “Giornata mondiale per il diritto alla verità per gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime”, istituita dalle Nazioni Unite nella data simbolica del 24 marzo, il giorno in cui monsignor Oscar Romero veniva assassinato in Salvador nel 1980, il Centro Regionale di Informazione delle Nazioni Unite (Unric) ha condiviso il video-messaggio di Alessandra Ballerini, legale del caso Paciolla, oltre che difensora della famiglia di Giulio Regeni e di Andy Rocchelli, in cui l’avvocata sostiene quanto la verità rappresenti una parte fondamentale della riparazione per i familiari e gli amici e dunque uno dei passi fondamentali verso la giustizia. Domenica scorsa, in occasione del compleanno di Mario Paciolla, Alessandra Ballerini ha ribadito che il diritto alla verità “è un diritto di ciascuno di noi, non solo della famiglia” e ha aggiunto che “è curioso che proprio l’Onu abbia istituito la giornata per il diritto alla verità, quella verità che noi cerchiamo anche da parte dell’Onu”. Parole a cui si sommano quelle di Emanuela Motta, l’altra legale del caso, che insieme al collega colombiano, la Procura di Roma e gli investigatori dei Ros sta lavorando incessantemente perché venga fatta giustizia. Emanuela Motta ricorda che le vicende come quelle di Mario “non sono affari di altri, sono affari che ci riguardano tutti”, sottolineando come questo modo di pensare fosse caratteristico proprio di Mario. Durante l’incontro sono intervenuti anche Claudio Silvestri, segretario del Sindacato Unitario dei Giornalisti della Campania, e Giuseppe Giulietti, presidente della Federazione Nazionale Stampa Italiana, che hanno ricordato la professionalità di Mario Paciolla come giornalista. Mario aveva infatti ottenuto il patentino di giornalista pubblicista dell’ordine della Campania e aveva iniziato a scrivere per un giornale di quartiere, Chiaia News, raccontando la realtà napoletana e denunciando le sue ingiustizie. Grazie ai suoi viaggi, gli studi e il suo impegno in progetti sociali in Italia e all’estero, e all’esperienza di Café Babel, aveva sviluppato capacità analitiche profonde che lo hanno portato a scrivere articoli per le più importanti testate italiane di geopolitica, come Eastwest e Limes, dove, tra le altre cose, raccontava la Colombia all’indomani degli Accordi di Pace e l’aumento degli omicidi di difensori dei diritti umani. Le dichiarazioni di impegno per la ricerca della verità sul caso di Mario Paciolla da parte delle istituzioni sono state tempestive, all’indomani dell’accaduto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, il presidente della Camera Roberto Fico, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e il senatore Sandro Ruotolo hanno da subito comunicato il loro impegno nella ricerca della verità e della giustizia. Recentemente il Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, Erasmo Palazzotto, è intervenuto per sollecitare azioni decise e trasparenti. Abbiamo provato in varie occasioni, attraverso comunicazioni telefoniche con l’ufficio stampa, ad ottenere informazioni e dichiarazioni da parte del Ministero degli Esteri senza successo. “Le istituzioni si sono palesate all’inizio ma non abbiamo avuto più grandi contatti”, ricorda Alessandra Ballerini durante l’incontro. “Non era uno sprovveduto” ripetono da mesi gli amici di Mario, non si trovava in Colombia per caso, e contro ogni retorica semplificatoria ribadiscono quanto Mario fosse invece “l’esempio di una generazione, che si è trovato al posto giusto nel momento giusto per risolvere una problematica delicatissima”. Hanno chiuso l’incontro i genitori, Anna Motta e Giuseppe Paciolla, accompagnati dalla figlia Raffaella, condividendo alcuni ricordi di gioventù di Mario e leggendo una sua poesia. Lo hanno descritto come un bambino curioso, sempre pronto a esprimere solidarietà, anche agli sconosciuti, un ragazzo perseverante che si dava sempre da fare. “Lui correva sempre, questa è l’immagine che ho di lui - ricorda la madre - di uno che corre, di uno che va sempre alla ricerca di qualcosa”. Gran Bretagna. La riforma della giustizia penale è una Brexit dei diritti di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 30 marzo 2021 “She was just walking home” (“Stava solo tornando a casa”). Con questo slogan il 13 marzo scorso centinaia di persone si erano radunate, per una veglia a lume di candela, nel parco di Clapham Common a Londra. La manifestazione era stata indetta in memoria di Sarah Everard, una ragazza scomparsa dieci giorni prima e poi ritrovata il 10 marzo, con il corpo smembrato, in una zona boscosa della città di Ashford, nel Kent. L’assassinio di un serial killer? Forse sì. Ma il fatto che l’omicida sia stato rapidamente individuato e riconosciuto come un agente di polizia (Wayne Couzen del Comando di protezione parlamentare e diplomatica) ha ben presto fatto assumere alla vicenda una valenza diversa da quella di un tragico fatto di cronaca. Con il pretesto del divieto di assembramento per le restrizioni anti Covid, le forze dell’ordine sono intervenute in forze e si sono scontrate con i dimostranti e la manifestazione ha avuto un epilogo tumultuoso; 4 donne sono state arrestate provocando però lo sdegno generalizzato, anche a livello politico. In molti hanno visto lo spropositato intervento come il segno dello sgomento che attraversa la polizia e la diffidenza o ostilità manifesta che sempre di più si sta condensando contro i suoi appartenenti. Tutto questo mentre in Parlamento sta andando in scena una battaglia legislativa su un gigantesco disegno di legge che a metà di marzo è passato, in seconda lettura, alla Commissione preposta all’esame con 359 voti a favore contro 263. Il provvedimento, fortemente voluto dal Ministero dell’Interno e dal Segretario generale del Dipartimento alla sicurezza, la dura Priti Patel, va sotto il nome di legge su “polizia, crimini, condanne e tribunali, 300 pagine che includono le proposte del governo Johnson per riformare l’intero sistema di giustizia penale. In realtà si tratta di un dispositivo che mette insieme aree disparate, dai crimini violenti fino alle proteste di piazza. Così i giudici potrebbero aumentare le pene per gravi reati introducono nuove regole di libertà su cauzione, prendere in considerazione la possibilità di incarcerare a vita anche i bambini protagonisti di omicidio, raddoppiare gli anni di prigione per le aggressioni ai danni degli operatori d’emergenza. Ma è il punto 3 che promette di scatenare l’opposizione a livello sociale in maniera macroscopica. Attualmente infatti la polizia prima di imporre qualsiasi tipo di restrizione ad una manifestazione deve dimostrare fattivamente che una protesta può determinare “gravi disordini pubblici, gravi danni alla proprietà o gravi interruzioni della vita della comunità”. Con la nuova legge invece esisterebbero specifici percorsi alle marce, cosa che solitamente viene discussa settimane prima con gli organizzatori, toccando anche le manifestazioni statiche. Regole inerenti anche per sit in composti da una sola persona. Chi si rifiutasse di seguire le indicazioni della polizia potrebbe essere multato fino a 2.500 sterline. Diventerà anche un crimine non seguire le restrizioni di cui i manifestanti ‘ avrebbero dovuto’ sapere, anche se non hanno ricevuto un ordine diretto da un ufficiale. Verrebbe introdotta anche una nuova fattispecie di reato e cioè di ‘ provocare intenzionalmente o incautamente molestia pubblica’. Una norma evidentemente diretta ad impedire l’occupazione di spazi pubblici. Una parte sembra fortemente desiderata dalla polizia metropolitana sconfitta dalle azioni dell’organizzazione ambientalista Extinction Rebellion nel 2019. Ma probabilmente il punto più contestato è quello che riguarda la pena prevista per chi danneggia statue o memoriali, 10 anni di carcere. Non a caso la città dove si sono svolte le manifestazioni più partecipate e violente contro il disegno di legge è stata Bristol dove è nato il movimento “Kill the Bill” e dove lo scorso anno è stata divelta la statua del mercante di schiavi Edward Colston. Se è vero che contro la norma sono schierati i Laburisti, le organizzazioni femministe, i movimenti sociali, avvocati per i diritti umani e diversi intellettuali, anche il fronte della Polizia non è compatto. Se la Federazione della Polizia si è detta soddisfatta, così non è per l’Associazione dei Commissari che proprio sul tema delle proteste ha rilasciato una posizione ufficiale tramite il proprio presidente Paddy Tipping: “Penso che i politici farebbero bene a lasciare le decisioni alle persone responsabili... devono lasciare che le persone prendano decisioni locali in circostanze locali”. Germania. La Caritas rinnova il sito web che aiuta i figli dei detenuti nelle carceri agensir.it, 30 marzo 2021 Da questa settimana è online un nuovo servizio multilingue della Caritas, rivolto ai figli dei detenuti nelle carceri tedesche. Sostituisce una precedente offerta, poiché le restrizioni nate dalla pandemia del Covid-19 hanno reso più complicati i contatti genitori detenuti-figli in ambito carcerario. In tempi di pandemia le visite in carcere sono spesso proibite e i contatti con i detenuti sono estremamente limitati, e per i bambini coinvolti le informazioni sulla vita dei loro genitori incarcerati divengono sempre più preziose e rare. Sono circa 100mila i bambini che in Germania hanno un genitore in carcere. La Caritas tedesca e l’Associazione federale cattolica per l’aiuto ai detenuti lanciarono nel 2014 il sito http://besuch-im-gefaengnis.de con l’obiettivo di informare in bambini sulla vita in carcere. Giochi e tutorial psicologici preparavano i bambini all’incontro coi genitori. Ma dal 2020, con la pandemia, le visite dei parenti avvengono principalmente in streaming, se le strutture lo permettono, e la videochiamata non sostituirà mai una visita dal vivo. “Se un genitore è in custodia, i bambini sono spesso turbati, si preoccupano, possono anche vergognarsi, e la pandemia non fa che intensificare questi sentimenti. Una visita a mamma o papà in prigione fa male ai tempi del coronavirus, perché il contatto personale diretto è spesso impedito da uno schermo protettivo. Molti bambini e giovani hanno domande che non possono porre a nessuno nel loro ambiente familiare”, afferma don Peter Holzer, cappellano della prigione di Bruchsal. Il sito è stato ripresentato completamente rinnovato, con i servizi nelle lingue più parlate nelle carceri tedesche: inglese, francese, turco, arabo e russo. Stati Uniti. Processo per la morte di George Floyd, alla sbarra c’è il razzismo di Stato di Marina Catucci Il Manifesto, 30 marzo 2021 Stati uniti. Iniziato ieri il processo all’ex agente di polizia Chauvin, accusato dell’omicidio che ha acceso le città Usa al grido “Black lives Matter”. Interviene anche la Casa bianca: l’agenda Biden cambiata dopo il caso, serve equità. A Minneapolis è iniziato, in un tribunale blindatissimo per via della pandemia e del timore di proteste, il processo a Derek Chauvin, l’ex agente di polizia che ha ucciso George Floyd, soffocandolo, il 25 maggio 2020. Per la prima volta un processo dell’era Black Lives Matter viene trasmesso in diretta televisiva nella sua interezza, ogni giorno dalle 9 alle 16, per quattro settimane. “Questo è un processo a un singolo agente, non al corpo di polizia”, ha detto nella sua dichiarazione iniziale il procuratore Jerry Blackwell ed ha esposto il caso contro Chauvin. Ha presentato alla giuria le prove video del giorno in cui George Floyd è stato ucciso: si vede Chauvin inginocchiato sul collo di Floyd che dice “Non riesco a respirare”. “Potete vedere con i vostri occhi che si tratta di omicidio - ha detto Blackwell - Potete sentire la sua voce diventare più profonda e pesante, le sue parole più distanti, il suo respiro più superficiale. Lo vedete quando perde conoscenza e scuotersi senza controllo quando non respira più”. Dopo aver visto ancora una volta il filmato è evidente che il compito dei difensori dell’ex agente non è semplice. Nella stessa deposizione hanno affermato che schiacciare Floyd al terreno per otto minuti era necessario perché l’uomo era grande e forte, ma anche tanto debole e fragile da morire a causa “di un uso di routine della forza da parte della polizia”; e che il loro assistito, come gli altri tre poliziotti presenti, ha reagito stando sulla difensiva perché “si sono sentiti in pericolo, la folla che aveva assistito al soffocamento di Floyd diventava via via più cattiva”. Durante la conferenza stampa quotidiana che si è svolta in contemporanea a una parte del processo, l’addetta stampa della Casa Bianca Jen Psaki ha detto: “Il presidente Biden sta osservando da vicino l’udienza, così come gli americani di tutto il Paese. Al momento della morte di George Floyd, il presidente ne aveva parlato come di un evento che ha davvero aperto una ferita nel popolo americano e che ha portato alla luce il dramma di molte persone in questo Paese, vissuto solo a causa del colore, l’ingiustizia e la disuguaglianza che molte comunità vivono ogni singolo giorno”. Psaki ha sottolineato come la morte di Floyd abbia avuto un impatto sull’agenda di Biden. L’uccisione e le proteste che ne sono derivate “hanno sicuramente influenzato il modo in cui ha formato il suo governo, rendendo l’equità il centro di ciò che facciamo”, ha detto Psaki osservando che l’ingiustizia razziale è una priorità per Biden e una delle “crisi chiave che crede di avere di fronte”, e che la Casa bianca sta spingendo il Congresso a lavorare a una legge che riformi la polizia, chiamata espressamente “legge George Floyd”. L’avvocato della famiglia Floyd, Ben Crumb, prima di entrare in aula ha dichiarato: “Questo è un referendum su due sistemi di giustizia in America, uno per bianchi e uno per neri. L’obiettivo oggi è giustizia equa per gli Usa”. Fuori la famiglia, insieme a tanti manifestanti Blm, si inginocchiava, il gesto che ha accompagnato le proteste esplose pressoché ovunque nell’ultimo anno. Russia. Navalnyj: “Rischio l’isolamento per una maglietta. Ed è una tortura” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 30 marzo 2021 L’oppositore politico russo sostiene di aver ricevuto sei ammonizioni per piccole infrazioni compiute nelle due settimane di detenzione in una colonia penale. Tra i comportamenti censurati aver indossato una t-shirt all’incontro con i legali ed essersi alzato dieci minuti prima della sveglia. L’oppositore russo in carcere Aleksej Navalnyj ha scritto di aver ricevuto “sei ammonizioni in due settimane” nella colonia penale Ik-2 di Pokrov, a circa 100 chilometri da Mosca, dove sta scontando una pena detentiva di due anni e mezzo. E rischia perciò di essere rinchiuso in una cella d’isolamento. “Nelle carceri russe, ci sono due tipi principali di sanzioni: ammonizione e posizionamento in una cella d’isolamento. E con due ammonizioni, puoi essere mandato lì. E questa cosa non è conveniente: le condizioni di detenzione sono vicine alla tortura lì”, ha scritto l’attivista anti-corruzione in un messaggio pubblicato sul suo profilo Instagram, accompagnato dalla prima foto dalla prigionia. Benché non abbia accesso a Internet, Navalnyj pubblica regolarmente sui suoi profili social, ma i suoi avvocati si rifiutano di spiegare come riesca. Nell’ultimo messaggio, l’avvocato spiega di essere stato oggetto di “venti denunce disciplinari”, in particolare per essersi “alzato dal letto 10 minuti” troppo presto, aver indossato una maglietta per incontrare i suoi avvocati o essersi “rifiutato di partecipare” agli esercizi fisici mattutini obbligatori. La scorsa settimana aveva spiegato di essere svegliato “otto volte a notte” dai suoi carcerieri e aveva paragonato la privazione del sonno a “tortura” e lamentava dolori alla schiena e alla gamba destra. I suoi collaboratori, gli avvocati e la moglie Julija Navalnaja avevano espresso timori per la sua “vita e salute”. Vittima lo scorso agosto di un avvelenamento con l’agente nervino Novichok e trasferito in Germania in stato di coma, dopo cinque mesi di convalescenza, è rientrato in Russia lo scorso gennaio ed è stato arrestato subito dopo l’atterraggio. In febbraio è stato condannato a due anni e mezzo di prigione per un caso di frode del 2014 che la Corte europea dei diritti umani ha definito “politicamente motivato”. Somalia, Kenya: il terrorismo, i metodi spesso duri per contrastarlo di Carlo Ciavoni La Repubblica, 30 marzo 2021 In una terra di povertà estrema, diffusa e minacciosa. Nel mirino il gruppo jihadista di Al-Shabaab, i cui metodi per contrastarlo da parte del governo keniano sono analizzatati da Human Rights Watch con la lente “omogenea” del rispetto dei diritti basilari. La lotta al terrorismo nel Corno d’Africa, che ha come principale obiettivo il gruppo jihadista armato di Al-Shabaab, viene analizzata da Human Rights Watch (Hrw) con la lente giustamente “omogenea” del rispetto dei diritti umani basilari, oltre che del della legalità e della trasparenza. Un approccio ineccepibile, non c’è dubbio, ma che purtroppo, come spesso accade, si scontra con la durezza incorreggibile di alcuni contesti politici, sociali, culturali, geopolitici. Il Daily Maverick - un quotidiano online sudafricano, fondato nel 2009, curato da Branko Brkic, pubblicato da Styli Charalambous e gestito da una società privata indipendente - ha pubblicato recentemente (poi rilanciato da Hrw) i risultati di un’inchiesta di Declassified UK, un media investigativo online, sul ruolo dei servizi di intelligence degli Stati Uniti e del Regno Unito nella campagna antiterrorismo in corso. Campagna considerata da HRW “altamente abusiva” da parte del Kenya, Paese confinante della Somalia, dove Al Shabaab imperversa ormai da anni, contribuendo a mantenere in stallo ogni possibile superamento della condizione di anarchia e insicurezza per la popolazione civile, in endemica estrema povertà. Il ruolo crescente del Kenia nella regione. Alcune delle accuse documentate dalle organizzazioni per i diritti umani negli ultimi anni evidenziano un problema di fondo: quello della pericolosa mancanza di trasparenza nel sostegno straniero alla battaglia antiterrorista del Kenya. Un Paese da anni oggetto di critiche da parte di organizzazioni in difesa dei diritti e di alcuni Paesi partner per i suoi metodi di contrasto decisamente contrari ai principi e ai valori della legalità e della trasparenza. Va comunque ricordato come gli attacchi di Al Shabaab, alcuni dei quali risalenti a molti anni fa, siano stati cruenti e destabilizzanti. Ne accenniamo solo un paio: la bomba nel 1988 di Al-Qaeda (organizzazione affiliata ad Al Shabaab) alle ambasciate statunitensi a Nairobi e nella vicina città di Dar es Salaam, in Tanzania; l’attacco missilistico del 2002 su un hotel di proprietà israeliana a Mombasa, anch’esso sospettato di essere stato compiuto da Al-Qaeda. Il ruolo del Kenya, dunque, è andato acquisendo valore strategico e influenza costante in appoggio agli Stati Uniti e ad altri Paesi occidentali uniti contro la minaccia terroristica nell’Est e nel corno d’Africa. Il terrore nella povertà e nella disuguaglianza. Ma gli Al-Shabaab somali hanno messo a segno anche una serie di attacchi mortali e rapimenti in Kenya contro turisti. Tra i più sanguinosi c’è quello al centro commerciale Westgate a Nairobi, nel settembre 2013, in cui rimasero uccise almeno 68 persone. Altre aggressioni armate con armi leggere e granate ci sono state a Mpeketoni, nella contea di Lamu, nel giugno 2014, dove ci furono 87 vittime, altri morti all’Università di Garissa, nell’aprile 2015, dove persero la vita 148 persone. Lo scorso gennaio, infine, Al-Shabaab ha attaccato una base militare che ospitava truppe statunitensi a Manda Bay, ancora una volta nella città costiera di Lamu, in Kenya, dove hanno trovato la morte tre agenti di sicurezza statunitensi. Tutto questo avviene in due Paesi dell’Africa orientale dove, come nel caso della Somalia, il 73% della popolazione vive in condizione di povertà assoluta, con meno di 2 dollari al giorno, e dove le frequenti carestie uccidono persone a centinaia di migliaia, come avvenuto nel 2011. Ma anche in Kenya che, pur essendo una delle più vivaci economie dell’Africa centrale e orientale, registra spaventose disparità nella distribuzione della ricchezza e segrega la metà della popolazione a vivere sotto la soglia di povertà. I mali endemici dell’Africa orientale. Sono così la malnutrizione, la malaria, le patologie trasmesse dall’acqua inquinata i principali, gravissimi sintomi di una povertà diffusa e minacciosa, in due Paesi con un numero enorme di esseri umani coinvolti in questo stato di cose. Povertà, dunque, disuguaglianze, malattie, conseguenze pesanti e dirette dei cambiamenti climatici in atto: il tutto aggravato da sistemi politico-istituzionali evanescenti, fragili, autoreferenziali, corrotti e sistemi sanitari inesistenti, come in Somalia oppure, seppur altrettanto inesistenti, super-selettivi appannaggio solo di pochi abbienti, come in Kenya. L’Ong Azione contro la Fame - ad esempio - è da molti anni impegnata nella realizzazione di programmi di nutrizione, sicurezza alimentare, accesso all’acqua potabile, ai servizi sanitari e all’igiene nell’area. La terribile situazione sanitaria in Somalia ha inoltre subìto un crollo ulteriore dal 2011, l’anno in cui una siccità spaventosa e la conseguente scarsezza di cibo hanno ucciso migliaia di persone e messo in pericolo la vita e i mezzi di sopravvivenza di quasi 4 milioni di esseri umani. Il ruolo di Human Rights Watch. L’organizzazione che ha sede a New York, indaga e riferisce sugli abusi che avvengono fin negli angoli più remoti del mondo. Si avvale del lavoro di circa 450 persone di oltre 70 nazionalità, tutti esperti tra avvocati, giornalisti e di altre categorie per proteggere i più a rischio, dalle minoranze vulnerabili e ai civili in tempo di guerra, ai rifugiati e ai bambini che hanno bisogno di assistenza e cura. Indirizzano i loro stimoli ai governi, ai gruppi armati, alle imprese, invitandoli a cambiare condotta, a rispettare e far rispettare le loro stesse leggi. Per garantire la sua indipendenza, Hrw rifiuta finanziamenti governativi e assicura di controllare le donazioni ricevute per assicurarci che siano coerenti con le nostre loro politiche, la missione, i valori. Frequenti sono le collaborazioni con altre organizzazioni che hanno la stessa missione, sia grandi che piccole in tutto il mondo, per proteggere gli attivisti in guerra e indurre gli autori di abusi a rendere conto, per rendere giustizia alle vittime.