Carceri, l’emergenza non rinviabile che diventa un test per il governo di Paolo Carbone Il Mattino, 2 marzo 2021 Il nuovo Governo pare che voglia, anche in materia di Giustizia, sostituire al rituale dei grandi annunci la concretezza del fare. L’obiettivo viene indicato in interventi strutturali e non emergenziali. Era ora, dopo il vorticoso alternarsi di parlamenti e di guardasigilli passati come ombre fugaci. Non si contano le “programmazioni” rimaste insolute, anzi incancrenite. È il caso del ridisegno delle circoscrizioni giudiziarie, dei tempi biblici dei processi, delle intercettazioni telefoniche e ambientali spesso violatrici della privacy e monche di garanzie difensive, della responsabilità civile del giudice, della disparità fra accusa e difesa nel “processo giusto”, e della revisione in radice del Csm al fine di ridurre il condizionamento delle correnti e delle contiguità politiche della magistratura associata rafforzandone una autonomia non di facciata. L’intervento più indilazionabile, però, resta- con la prescrizione e con una rivisitazione dell’abuso di ufficio - la riforma dell’esecuzione penale, che fu malamente abbandonata dal precedente ministro Orlando e, poi, definitivamente buttata “con la chiave” dal Governo Conte. È ben nota la condizione di autentica vergogna in cui sono stipati negli istituti di pena i detenuti. Già dal gennaio 2013 si è inutilmente abbattuta, sull’ingolfato ed inefficiente “sistema”, la scure della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con un giudizio senza appello e con la intimazione all’Italia di ricondurre “entro un anno a standard di accettabilità” una situazione carceraria indegna di un Paese civile, le cui carenze permangono con carattere strutturale. Senza scomodare la Colonna Infame e il pensiero di Mario Pagano, il malessere della popolazione dietro le sbarre (circa 60.000, fra cui molti immigrati ed emarginati) manifestatosi con sommosse anche violente è stato finora affrontato con i pannicelli caldi di fumose architetture para-sociologiche e di discutibili provvedimenti ad personam, sull’onda dei periodici provvedimenti clemenziali dei primi anni novanta e della legislazione dell’emergenza, spesso di rozza impronta inquisitoria. Il processo accusatorio non è del tutto realizzato. E non è mutato molto, nel tempo, il concetto di colpa e di pena. La carcerazione preventiva è quasi sempre una condanna anticipata, esasperata dalla durata dei processi. Allo strumento di una differenziazione del trattamento sanzionatorio andrebbe affiancata una compiuta depenalizzazione dei reati minori, con il taglio di molte previsioni normative, ordinarie e speciali. Vanno realizzate nuove strutture penitenziarie per una accoglienza meno promiscua e più civile ed umana; ed estese le tipologie alternative di espiazione, come la messa alla prova e permessi domiciliari con la frequentazione di controllati centri di qualificazione per lavori di pubblica utilità, così da assicurare un autentico recupero individuale e la effettività della sanzione. La riforma penitenziaria, non meno che la lotta alla pandemia e alla crisi economica, è il banco di prova del nuovo Governo e, soprattutto, della sua Guardasigilli. Marta Cartabia non a caso è una costituzionalista, già presidente del supremo Consesso e docente alla Bocconi con vasta esperienza internazionale. È la persona giusta per la grande svolta che qualche commentatore ha definito illuministica, avendo incrociato ripetutamente - come lei stessa ha scritto nel prezioso libro a quattro mani con il saggista Ceretti “Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione” - le riflessioni sulle idee di pena e di recupero di Carlo Maria Martini. Un’altra giustizia, ma possibile. È l’auspicio, questo, non per una riforma copernicana, ma di una chiara volontà politica e di una nuova cultura per l’umanizzazione della pena nel solco della Costituzione. No ai bimbi in carcere, sì alle case-famiglia: proposta di legge Pd di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 marzo 2021 La commissione Giustizia della Camera ha iniziato l’esame della proposta di legge a prima firma del deputato del Pd Paolo Siani in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori. L’obiettivo dell’intervento è quello di eliminare i profili problematici emersi in sede di applicazione della legge n. 62 del 2011, al fine di impedire che i bambini varchino la soglia del carcere, valorizzando l’esperienza delle case famiglia. Al 31 gennaio risultano ancora 29 bambini dietro le sbarre. La proposta di legge si prefigge l’obiettivo di vietare per sempre la custodia cautelare in carcere per detenute madri con prole di età inferiore ai 6 anni. Solo dove sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza il giudice potrà disporre la custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Quindi solo come extrema ratio. Saranno invece le case famiglia ad essere privilegiate con l’obbligo del ministero di individuare le strutture adatte. Il deputato del Pd Walter Verini, relazionando la proposta di legge, fa presente che il comma 1 modifica l’articolo 275 del codice, sopprimendo al comma 4 la clausola che consente la carcerazione in ragione di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Viene in tal modo attribuita natura assoluta al divieto di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere per donna incinta o madre di prole di età non superiore a 6 anni con lei convivente (ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole). Secondo la giurisprudenza di legittimità, la ratio del divieto legislativo di applicazione della misura cautelare carceraria in presenza di minori di età inferiore ai sei anni, risiede nella necessità di salvaguardare la loro integrità psicofisica, dando prevalenza alle esigenze genitoriali ed educative su quelle cautelari (entro i limiti precisati), garantendo così ai figli l’assistenza della madre, in un momento particolarmente significativo e qualificante della loro crescita e formazione. Verini evidenzia che, contemporaneamente, il comma 2 dell’articolo 1 del provvedimento in esame interviene sull’articolo 285-bis del codice di procedura penale, che disciplina la custodia cautelare negli Icam, che hanno caratteristiche strutturali diverse rispetto alle carceri tradizionali, pur restando strutture detentive. Si stabilisce quindi che il giudice possa disporre tale misura cautelare nel caso in cui sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Rammenta che l’articolo 3 del provvedimento infine interviene sulla citata legge n. 62 del 2011. In particolare il comma 1 incide sulla disciplina dell’individuazione delle case famiglia protette, i cui requisiti sono stati definiti con decreto del ministro della Giustizia 8 marzo 2013, sostituendo il comma 2 dell’articolo 4 della citata legge con due nuovi commi volti a prevedere: l’obbligo (e non più la facoltà) per il ministro della Giustizia di stipulare con gli enti locali convenzioni volte a individuare le strutture idonee a essere utilizzate come case famiglia protette; rispetto al testo vigente viene meno altresì la clausola di invarianza finanziaria; l’obbligo per i comuni ove siano presenti case famiglie protette di adottare i necessari interventi per consentire il reinserimento sociale delle donne una volta espiata la pena detentiva, avvalendosi a tal fine dei propri servizi sociali. Sempre Verini precisa che il comma 2 dell’articolo 3, aggiungendo il nuovo comma 1-bis all’articolo 5 della legge n. 62 del 2011, prevede che alla copertura degli oneri derivanti dalla realizzazione delle case famiglia protette, si provveda a valere sulle disponibilità della cassa delle ammende istituita dall’articolo 4 della legge 9 maggio 1932, n. 547, recante disposizioni sulla riforma penitenziaria. La cassa delle ammende ha, tra i suoi scopi istituzionali, il finanziamento di programmi di reinserimento in favore di detenuti ed internati, programmi di assistenza ai medesimi ed alle loro famiglie e progetti di edilizia penitenziaria finalizzati al miglioramento delle condizioni carcerarie. Ricorda da ultimo che il comma 322 dell’articolo 1 della legge di bilancio 2021 (legge 30 dicembre 2020, n. 178) istituisce, nello stato di previsione del ministero della Giustizia, un apposito fondo, dotato di 1,5 milioni di euro per ciascuno degli anni del triennio (2021- 2023), al fine di garantire il finanziamento dell’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case-famiglia protette ed in case-alloggio per l’accoglienza residenziale dei nuclei mamma-bambino. Ora non resta che auspicare una rapida approvazione. La Consulta deciderà sul “no” ai colloqui Skype dei detenuti al 41bis coi figli di Alfonso Naso Gazzetta del Sud, 2 marzo 2021 La questione sollevata dal tribunale per i minorenni di Reggio Calabria con due ordinanze di analogo contenuto. È legittimo il decreto “antiscarcerazioni”, approvato la scorsa primavera, nel punto in cui esclude per i detenuti al 41bis durante l’emergenza Covid la possibilità di avere colloqui via Skype con i propri figli minorenni? A deciderlo sarà la Corte costituzionale nell’udienza del 9 marzo prossimo, sulla base di una questione sollevata dal tribunale per i minorenni di Reggio Calabria con due ordinanze di analogo contenuto, nell’ambito di un procedimento riguardante i colloqui tra un detenuto sottoposto al regime speciale e la propria figlia di 5 anni. Nelle ordinanze, il tribunale denuncia, in primo luogo, la “disparità di trattamento” dei figli minorenni dei detenuti sottoposti al regime speciale rispetto a quelli di detenuti in regime ordinario, con la “lesione di diritti inviolabili dei minori stessi”, come quelli di “intrattenere rapporti affettivi con i familiari detenuti, idonei a garantire un corretto sviluppo della loro personalità e una condizione di benessere psico-fisico del minore”. Inoltre, il tribunale evidenzia che la previsione di un divieto assoluto rappresenterebbe una misura “sproporzionata”, in contrasto anche con l’articolo 27 della Costituzione, perché la pena deve consentire “trattamenti idonei al recupero sociale del reo” e, tra questi, “indiscussa importanza va attribuita al mantenimento dei rapporti familiari e soprattutto al recupero di quelli genitoriali”. Infine, secondo il giudice rimettente, la valorizzazione dei rapporti tra genitori e figli minorenni sarebbe anche tutelata dai principi sovranazionali contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vietano pene inumane e degradanti e garantiscono il rispetto alla vita familiare. Prescrizione e confusione di Alessio Lanzi* Il Dubbio, 2 marzo 2021 Il principio riguarda il reato e la sua punibilità. Anziché tentare di rimediare alla norma Bonafede con limiti di tempo alle fasi del giudizio, si deve solo cambiare quella legge. Il linguaggio, si sa, è convenzionale. Vale a dire si esprime con termini che, appunto per convenzione di quella comunità che lo usa, hanno un determinato significato. I termini sono pertanto i “significanti”, e dunque utilizzarli e richiamarli sta a “significare” una certa cosa. Ciò vale per tutti i linguaggi, anche per quelli tecnici e, fra questi, quello giuridico (qui i significanti sono - di regola - elementi descrittivi o normativi, ma non vorrei complicare troppo il discorso). Quello che è sicuro, è che un qualunque termine, inserito in una disposizione di legge, convenzionalmente ha un suo significato. Parliamo allora della prescrizione. È, se si vuole per convenzione giuridica, una causa estintiva del reato (art. 157 c. p.). Attiene alla punibilità (penale) di un soggetto per ciò che ha fatto o che non ha fatto dovendolo fare (lo ha confermato parecchie volte la Corte Costituzionale, da ultimo anche in relazione al cosiddetto “caso Taricco”). Qualora si realizzi il suo completo decorso, prima che intervenga un predefinito termine processuale, si determina l’estinzione del reato, quindi viene meno la punibilità di chi lo ha compiuto. In particolare, con la recente riforma cosiddetta Bonafede (art. 159, 2° comma, c. p.), si è stabilito che con la sentenza di primo grado il corso della prescrizione rimanga sospeso sine die (rectius: bloccato). È dunque chiaro, pur nella attuale situazione di grande limitazione della sua efficacia come causa estintiva, che essa riguarda in ogni caso il reato e la sua effettiva punibilità. Si è talvolta discusso, in passato (prima delle decisive pronunce della Corte Costituzionale), se una tale causa estintiva - pur così strutturata - potesse eventualmente avere una valenza processuale. Vale a dire se incidesse più sulla procedibilità (come fa la querela) che non sulla punibilità; in pratica determinando che sarebbero non procedibili i reati prescritti. La tesi in realtà era strumentale a poter dare alla prescrizione un minor rilievo, anche di carattere costituzionale. Se avesse avuto valenza processuale, infatti, (forse) non sarebbe stata assistita dalle regole della retroattività favorevole, della conoscibilità e via dicendo. Peraltro, come detto, l’attuale interpretazione è pressoché unanime nel ritenerla un istituto di carattere penale sostanziale, con tutte le caratteristiche che ne conseguono. Del resto, considerarla un utile istituto penalistico è opinione che affonda le sue radici nei fondamenti di un diritto penale umano, liberale, di matrice illuministica. Basti ricordare le parole di Cesare Beccaria, espresse nel fondamentale lavoro Dei delitti e delle pene, che costituisce ancora il caposaldo dell’illuminismo giuridico; fatti salvi quei delitti di tale gravità da non meritare l’oblio e la prescrizione (nel nostro codice quelli puniti con l’ergastolo: art. 157, ultimo comma, c. p.), il grande Maestro così si esprimeva per gli altri reati: “devono togliere colla prescrizione l’incertezza della sorte di un cittadino, perché l’oscurità in cui sono stati involti per lungo tempo i delitti toglie l’esempio della impunità e rimane intanto il potere al reo di divenir migliore”. Nel solco di tali principi, si è così affermata l’opinione che col passare del tempo dalla data di commissione del reato, ad un certo punto debba cessare la “pretesa punitiva dello Stato”, in quanto, sul piano general- preventivo, perde ragionevolezza lo stesso senso della risposta sanzionatoria, anche in relazione alla funzione rieducativa della pena (art. 27, 3° comma, Costituzione); segnalandosi altresì che decorso troppo tempo dal fatto, perde efficacia la stessa garanzia di un effettivo diritto di difesa. Si può anche non concordare con simili opinioni di stampo liberale, ma una cosa comunque è certa: la prescrizione è una causa estintiva del reato, che incide sull’effettiva punibilità di chi lo ha commesso, e che riguarda la sua sfera soggettiva: diritto all’oblio, efficace diritto di difesa, ragionevolezza della eventuale sanzione. E veniamo ai giorni nostri. In un tale scenario si sente parlare, come riforma che consentirebbe di superare gli attuali scenari di una prescrizione ridotta al lumicino (con l’ovvia conseguenza di giudizi quasi eterni), senza però urtare eccessivamente gli artefici di quella drastica disciplina, di una “prescrizione processuale”. In pratica, dalla sfera soggettiva dell’autore del fatto, si passerebbe a considerare unicamente il processo, e i suoi tempi, senza considerare il momento in cui il reato è stato commesso. La proposta è assolutamente irricevibile, perché illogica e in contrasto con gran parte delle regole del Sistema penale (quello che consta di un insieme organico e razionale di elementi costanti e di opzioni variabili, alterativo al caos, e non certo quel tragico “sistema giudiziario” evocato nel volume di Sallusti e Palamara). Illogica, perché a questo punto il tema sarebbe sganciato dal momento della consumazione del fatto e dalle peculiarità del suo autore, come visto la sua difesa, la sua personalità, la funzione rieducativa della sanzione e, in sintesi, da tutto ciò che concerne la “punibilità” e la pretesa punitiva. Confliggente col Sistema penale, perché bisognerebbe modificare tutte le norme che la disciplinano come istituto sostanziale, rivisitando a questo punto anche quelle relative al ne bis in idem processuale. La decorrenza dell’istituto dall’inizio del procedimento, anziché dalla commissione del reato, non determina infatti un risultato di “prescrizione” del fatto, ma di estinzione del processo. E qui i “significanti” non sono fra loro fungibili, perché richiamano “significati” ben diversi. Apparente sarebbe poi il superamento della “irragionevole durata del processo”. Perché il termine iniziale sarebbe nella piena ed esclusiva disponibilità di chi inizia il procedimento ed esercita l’azione penale. Il diritto, tutto il diritto, è pieno di fictio iuris; basti pensare all’istituto della persona giuridica, al reato continuato, alla stessa “estinzione del reato” (in realtà il fatto illecito commesso rimane immutato). Ma una cosa è creare delle astrazioni per rendere una disciplina di cui si avverte la necessità; altra è “inventarsi” un istituto del tutto sganciato dalla realtà normativa e dalla speculazione scientifica. In pratica la “prescrizione processuale” non esiste e non può esistere, poiché si tratta solo di una “estinzione” del processo, che nulla ha a vedere con la prescrizione, quella frutto di una elaborazione dogmatica e normativa che affonda le sue radici nell’illuminismo giuridico. C’è solo da sperare che nell’ambito delle tante riforme che è lecito attendersi nel campo della giustizia penale (dalla separazione delle carriere tra giudici e pm, alla rifondazione e ristrutturazione del Csm, al recupero del principio dell’oralità e della formazione della prova, al potenziamento dei riti alternativi e via dicendo), un legislatore frettoloso e timoroso non voglia perdere l’occasione di una riforma delle caratteristiche dell’istituto della prescrizione in termini quantomeno accettabili. *Componente laico del Csm Fiandaca: “Il doppio male della magistratura in guerra o collusa con la politica” di Angela Stella Il Riformista, 2 marzo 2021 Prima di una rivoluzione morale, serve un “riorientamento culturale”, afferma il giurista. “Il cosiddetto governo dei competenti interverrà sulla giustizia penale? Cartabia chiami un gruppo di esperti al capezzale della prescrizione per proporre soluzioni all’altezza”. “Sul 41bis serve un check-up. Il Dap? Fiducia in Petralia, ma perché i capi si scelgono sempre tra i pm?” Per Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale presso l’Università di Palermo e garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, “prima ancora che una rinascita morale, sarebbe necessario un ri-orientamento culturale complessivo della magistratura” e un atto di coraggio della politica il cui “timore di fare riforme sgradite alla magistratura, paventandone reazioni ritorsive” ha bloccato l’affiato riformista. Sul tema della prescrizione invita il nuovo Ministro della Giustizia Marta Cartabia a recuperarne “le ragioni garantiste in chiave di diritto del cittadino a non essere tenuto indeterminatamente in balia della macchina dell’accusa e indeterminatamente soggetto all’afflizione sostanziale del giudizio pubblico sulla propria persona”. Sulla possibile nuova nomina ai vertici del Dap, Fiandaca ci dice: “L’attuale capo Petralia ha capacità ed equilibrio”, ma perché per questi ruoli non scegliere “giudici di sorveglianza piuttosto che ex pubblici ministeri”? Ci siamo lasciati da poco alle spalle l’inaugurazione dell’anno giudiziario: si è parlato di rivoluzione morale nella magistratura, di necessità di riacquisire credibilità. Ma secondo Lei, la magistratura è davvero pronta a fare un atto di mea culpa e a riformarsi? In un mio recente articolo sul Foglio a commento del libro di Sallusti e Palamara ho manifestato una mia ormai risalente opinione che qui ribadisco. Prima ancora che una rinascita morale, sarebbe necessario un riorientamento culturale complessivo della magistratura, relativo non ultimo al modo di concepire e realizzare da un lato il controllo di legalità sul ceto politico e dall’altro di tenere relazione con il mondo politico-istituzionale. Nella magistratura italiana convivono patologicamente forme di pregiudiziale conflittualità oppositiva rispetto al potere politico e alleanze collusivo- clientelari, o comunque tendenze ad un indebito collateralismo con settori del mondo politico, sia di sinistra, di centro, di destra e più di recente con partiti populisti. Tutto questo è molto dannoso per un sistema democratico; ma penso che di questo necessario riorientamento, che per comodità definisco culturale, la magistratura non sia da sola capace, essa ha bisogno di essere aiutata e supportata dall’esterno. Occorrerebbe riaprire un dibattito pubblico diffuso, con diversi protagonisti tra cui l’avvocatura, il mondo universitario, i cosiddetti intellettuali appartenenti a differenti aree disciplinari, inclusi i cittadini sensibili al tema. Ma il nostro è il tempo dei dibattiti pubblici e dei confronti approfonditi? Probabilmente le riforme più temute all’interno della magistratura sono il sorteggio per i membri del Csm e la separazione delle carriere. Qui il problema non è solo la magistratura che farà opposizione ma anche la politica suddita della magistratura che non si metterà contro di essa. Lei che ne pensa? Il timore dei politici di fare riforme sgradite alla magistratura, paventandone reazioni ritorsive mediante l’apertura anche pretestuosa di indagini mirate a mettere sotto accusa o comunque a screditare esponenti dei versanti politici avvertiti contingentemente come avversi, credo sia reale. Sono d’accordo con Galli della Loggia che di recente ha scritto che sta proprio in questa preoccupazione una delle principali cause della timidezza riformistica del potere politico nel campo della giustizia. Mi augurerei che con l’avvento del governo Draghi il tasso di conflittualità anche potenziale tra politica e magistratura scemi, anche se non so se questo nuovo Governo cosiddetto di competenti avrà il tempo o anche l’intenzione di porre mano a tutti i numerosi interventi pure sul terreno della giustizia penale che sarebbero in linea teorica indispensabili. Il professor Vittorio Manes da queste pagine ha detto: “Bisognerebbe prendere atto che l’amministrazione della giustizia è un “servizio”, una “public utility” dove i magistrati sono “civil servant” e i cittadini gli utenti; e che, specie in materia penale, un obiettivo minimo di civiltà impone di assicurare uniformità e parità di trattamento”. Invece il libro di Luca Palamara fa emergere una situazione completamente diversa, dove conta più l’appartenenza ad una corrente che l’amministrazione della giustizia. Chi ne paga le conseguenze sono i cittadini e le loro tutele. Lei che ne pensa? Concordo con Vittorio Manes. Purtroppo è incontestabile che l’appartenenza correntizia abbia a tutt’oggi costituito il principale criterio di scelta preferenziale per i magistrati da porre a capo degli uffici o comunque da promuovere nella progressione di carriera. Le correnti, come ho sperimentato anche io da ex componente del Csm, si sono sempre più trasformate in macchine di potere clientelare, con progressiva diminuzione della loro capacità di elaborazione culturale in una prospettiva di pluralismo virtuoso. Penso, non da ora, che sia necessario recuperare una maggiore omogeneità negli orientamenti di fondo all’interno del potere giudiziario, all’insegna di una cultura giurisdizionale il più possibile condivisa da ogni magistrato. Ma il problema ancora una volta è più di cultura di sfondo e di fondo che di riforme legislative. Dubito che riforme scritte sulla carta possano eliminare da sole il fenomeno della degenerazione correntizia. Legato a questo c’è il tema delle valutazioni dei magistrati. Ormai è chiaro che le promozioni non avvengono per il merito. Il presidente dell’Unione della Camere Penali ha chiesto una riflessione seria su questo al nuovo presidente dell’Anm Santalucia… La questione dei criteri di valutazione per la nomina dei vertici degli uffici è risalente e persistente. E assai bene è intervenuto in proposito Nello Rossi, valoroso ex magistrato e autorevole direttore della rivista Questione giustizia, proprio in un recente articolo sul Riformista. Egli ha ironicamente posto l’interrogativo: “è possibile che sono tutti geni?”. Ha riconosciuto che il sistema di valutazione della professionalità evidentemente non funziona affatto. Condividerei i rimedi che lo stesso Rossi ha suggerito: responsabilizzare di più i controllori e a loro volta controllarli; moltiplicare le fonti di conoscenza cui attingere nella valutazione di professionalità; ampliare le forme di partecipazione dell’avvocatura e del mondo universitario alle procedure di valutazione dei magistrati, rendendole al tempo stesso più trasparenti. C’è molto entusiasmo intorno alla figura della neo-ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Tuttavia un po’ di scontento ha suscitato il suo ordine del giorno in cui ha messo tutte le forze di maggioranza d’accordo procrastinando la discussione. Lei apprezza questo suo tentativo di mediazione o la riforma Bonafede sulla prescrizione va abolita e basta? Guardo con molto favore a Marta Cartabia, perché si tratta di una ex presidente della Consulta e di una studiosa costituzionalista che so ispirarsi a direttrici culturali di fondo, anche in materia penitenziaria, che sono direi agli antipodi rispetto alla demagogia punitivista del precedente Guardasigilli grillino. Mi augurerei che riguardo al tormentato tema della prescrizione il nuovo ministro, in coerenza con la tesi più volte affermata dalla Corte Costituzionale della natura sostanziale e non processuale della prescrizione, non si limiti a guardare a questo istituto nella ristretta ottica processuale dell’accelerazione dei tempi del processo penale, ma ne recuperi le ragioni garantiste in chiave di diritto del cittadino a non essere tenuto indeterminatamente in balia della macchina dell’accusa e indeterminatamente soggetto all’afflizione sostanziale del giudizio pubblico sulla propria persona, come ha efficacemente scritto di recente su questo giornale il mio collega e amico Massimo Donini. Da vecchio professore di diritto penale mi permetterei di consigliare a Marta Cartabia di chiamare al più presto al capezzale della prescrizione un ristretto gruppo di professori, avvocati e magistrati davvero esperti in materia per proporre interventi normativi all’altezza del problema. Il caso Cutolo ha riaperto la discussione sul 41bis. Questa giornale ha parlato di “vendetta di Stato” essendo Cutolo morto da solo al 41bis pur essendo molto malato. Qual è il suo pensiero su questo? Ritengo che sul 41 bis occorra un check up sotto diversi aspetti, non solo per verificare sul piano empirico-criminologico la persistente necessità di sottoporre a questo regime penitenziario speciale una quantità di soggetti che supera a tutt’oggi le 600 unità, ma anche per rivederne in termini di sempre maggiore compatibilità costituzionale la disciplina. Forse sono anche maturati i tempi per ricondurre integralmente alla competenza della magistratura l’applicazione di questo istituto. Un atto di discontinuità del nuovo governo potrebbe essere il cambio dei vertici del Dap, che sono due figure dell’antimafia? Non molto tempo fa l’ex presidente della Consulta Valerio Onida in un articolo sul Corriere della Sera ha sollevato l’interrogativo sulla validità delle ragioni per cui ai vertici dei comparti amministrativi del Ministero della Giustizia debbano essere sempre posti magistrati, e non dirigenti amministrativi di competenza ed esperienza specificamente maturate nei settori coinvolti. Inoltre si potrebbe anche ritenere che se vogliamo che siano proprio magistrati a dirigere il Dap almeno questi capi si scelgano tra i migliori giudici di sorveglianza piuttosto che tra gli ex pubblici ministeri. Detto questo in linea teorica o di principio, la mia personale e risalente conoscenza dell’attuale capo del Dap, dottor Petralia, mi induce a confidare - nonostante si tratti di un ex procuratore generale - che egli possegga le capacità e l’equilibrio necessari per gestire bene l’amministrazione penitenziaria. Spero anche che la nuova ministra Cartabia, di cui mi è nota la spiccata sensibilità per la dimensione costituzionale della pena, dedichi molta attenzione alla realtà penitenziaria che necessita non solo di nuovi interventi riformistici ma anche di efficaci terapie sul piano della gestione amministrativa e della diffusione di buone prassi. Al di là di tutte le singole riforme che si possono proporre in tema di politica giudiziaria, non ritiene che ci sia un problema generale di cultura? Il nostro Paese non soffre ormai da troppo tempo di due gravi mali: giustizialismo e panpenalismo? Sono senz’altro d’accordo. Le due gravi patologie del panpenalismo e del giustizialismo come studioso non mi stanco di diagnosticarle e denunciarle da svariati anni e tento, anche con i miei scritti specialistici, di contribuire a proporre medicine e antidoti per contrastarle o almeno arginarle. “La balla odiosa dell’avvocato complice dell’indagato: noi difendiamo i diritti” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 marzo 2021 Intervista all’avvocato Tullio Padovani, già professore ordinario di Diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e componente dell’Accademia dei Lincei. Diceva il famoso avvocato francese Jacques Verges: “Je ne suis pas l’avocat de la terreur, mais l’avocat des terroristes. Hippocrate disait: “Je ne soigne pas la maladie, je soigne le malade”. C’est pour vous dire que je ne défends pas le crime mais la personne qui l’a commis”. L’assimilazione tra l’avvocato e il suo assistito è una delle tante distorsioni che intaccano il ruolo dell’avvocato nella società. Citiamo Verges perché lo fa per primo in questa colta intervista l’avvocato Tullio Padovani, già professore ordinario di Diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e componente dell’Accademia dei Lincei, con cui abbiamo commentato gli stereotipi che investono molto spesso la figura dell’avvocato visto come un azzeccagarbugli e come qualcuno che non rende un servizio essenziale alla comunità. Professor Padovani, Ettore Randazzo in “L’avvocato e la verità” scriveva: “Secondo i più, gli avvocati sono spregiudicati, arruffoni, intrufolati, di riffa o di raffa, in tutti i centri di potere, e comunque - servili od arroganti - sempre inaffidabili, ma sventuratamente insostituibili nel sistema giudiziario”. È una giusta sintesi? Questa percezione per cui gli avvocati siano personaggi poco raccomandabili, quando non addirittura come scrive Randazzo “spregiudicati” o ambigui sotto il profilo etico e forse anche giuridico, è universale, non riguarda solo l’Italia. Vorrei leggerle quanto ha scritto il noto avvocato statunitense e già professore ad Harvard Alan Dershowitz nel libro “Dubbi ragionevoli. Il sistema della giustizia penale e il caso O.J. Simpson”: “c’è un motivo di carattere generale per il quale i prosecutors sono più amati degli avvocati difensori e una ragione specifica per la quale ciò era specialmente vero nel caso Simpson. Generalmente i prosecutors cavalcano il cavallo bianco, sono i paladini della legge e dell’ordine, rappresentano le vittime, il popolo o lo Stato; mettono sotto accusa i colpevoli, almeno il più delle volte, svolgono un servizio pubblico, sempre dalla parte della verità e degli angeli. Gli avvocati difensori all’opposto generalmente rappresentano imputati colpevoli”. E per fortuna! E grazie al cielo che è così: chi vorrebbe vivere in un Paese dove la maggior parte degli imputati è innocente? Forse in Iran o in Cina la maggior parte delle persone accusate di un crimine è innocente. Ma non è così negli Stati Uniti e in Italia: è lo zelo degli avvocati difensori, insieme ad altri fattori, che fa sì che sia così. Nei Paesi dove gli avvocati non sono liberi, come in Turchia, si processano anche gli innocenti con maggiore estensione e nel solo interesse del regime. Quindi gli avvocati sono una cartina di tornasole della democrazia di un Paese... L’avvocato è un termometro della libertà. Gli avvocati purtroppo vengono percepiti come degli ostacoli alla giustizia, che invocano privilegi, diritti e tecnicismi per escludere prove importanti, per nascondere la verità, e per trarre profitto, ma in realtà hanno una immensa funzione sociale. Infatti, nonostante questa rappresentazione negativa, l’etimologia latina della parola avvocato, ossia “advocatus” ha l’equivalente greco in “paraclito”, che indica anche lo Spirito Santo. Nel vangelo di Giovanni, Gesù tranquillizza più volte i suoi discepoli dicendo che manderà loro il “paraclito”, il consolatore. Questo dà l’idea di ciò che l’avvocato rappresenta effettivamente da un punto di vista sostanziale. Nonostante questo, perdura la cattiva reputazione degli avvocati nell’immaginario collettivo... Una quindicina di anni fa è stato ripubblicato, con l’introduzione di Giuseppe Frigo, “L’avvocatura - Discorsi” di Giuseppe Zanardelli. In quest’opera l’ex ministro della Giustizia scriveva: “Gli avvocati sono rappresentati come aridi adoratori dei testi che sacrificano la sostanza alla forma, il diritto alla procedura, che hanno il proprio interesse in opposizione all’interesse generale. Di essi si biasima la spregevole e funesta ricerca del cavillo, per sfigurare la verità e far trionfare la menzogna”. In realtà, prosegue Zanardelli, “l’avvocatura può dirsi essere non soltanto una professione, ma una istituzione, che si lega con vincoli invisibili a tutto l’organismo politico e sociale. L’avvocato senza avere pubblica veste, senza essere magistrato, è strettamente interessato all’osservanza delle leggi, veglia sulla sicurezza dei cittadini, sulla conservazione delle libertà civiche, porta la sua attenzione su tutti gli interessi, tiene gli occhi aperti su tutti gli abusi ed è chiamato a segnalarli senza usurpare i diritti delle autorità. Un eminente magistrato ebbe ottimamente a scrivere che l’avvocato deve essere il primo giudice di tutte le contestazioni giudiziari”. Molto spesso l’avvocato rappresenta davvero l’unica speranza per gli indagati o gli imputati... L’avvocato nei momenti drammatici è il consolatore di colui che è schiacciato dal peso dell’accusa ed è solo: spesso ad un accusato resta solo l’avvocato, come ho potuto appurare in 40 anni di carriera. È in quei momenti che allora si scopre la funzione dell’avvocato e la scoprono persino i magistrati, quando si trovano nello scomodo ruolo degli imputati. Mi sono spesso sentito dire: “Avvocato non avevo capito niente, ora so cosa significhi essere un imputato, so cosa significhi fare l’avvocato”. Sono proprio i magistrati a non rispettare delle volte il ruolo del difensore. È vero: i magistrati non sempre rispettano il ruolo dell’avvocato. Purtroppo questo accade perché l’avvocato è un uomo che non ha potere, mentre i magistrati spesso abusano del loro. Chi tratta male un avvocato non è un degno magistrato. Ma quando gli capita di stare dall’altra parte, di essere loro gli accusati, cambiano la loro opinione su noi avvocati e sul nostro lavoro. Bisogna ammettere che in generale ci sono dei magistrati che hanno ben percepito il ruolo dell’avvocato. Per esempio? Consiglio a tutti un bellissimo libro “Difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore” scritto da un signor pubblico ministero che si chiama Paolo Borgna. Nessuno come lui ha interpretato in modo pieno, cordiale, simpatetico, rispettoso e caloroso il ruolo dell’avvocato. Un ex magistrato che ha saputo interpretare perfettamente la figura tipica dell’avvocato è Gianrico Carofiglio: è impressionante il modo in cui ha dato corpo e voce ad un avvocato. Il suo personaggio, l’avvocato Guerrieri, a mio giudizio rappresenta la quintessenza della rappresentazione vera dell’avvocato, in tutte le sue caratteristiche positive e meno positive. Di Carofiglio ricordo un suo contributo sul Sole 24ore nel 2007 che faceva il ritratto di Jacques Verges, un noto avvocato francese che ha difeso i peggiori criminali, e che fu definito da qualcuno l’avvocato del diavolo. Più è grande il crimine, più è complicato il rapporto tra avvocato e verità... In rapporto alla verità, l’avvocato non ha la posizione né del giudice né del pubblico ministero: non è gravato dal dovere di ricercare la verità. Il suo contributo alla verità è nel battersi affinché il metodo della ricerca sia rispettato scrupolosamente perché il risultato che si ottiene sia davvero la verità in base a quanto stabilito dalla legge. Il suo ruolo è quello di guardiano vigile e intransigente del metodo. Questo lo comprende chiunque. Non credo professore... Chiunque abbia intelligenza. Torniamo a Carofiglio che nel 2007 scriveva: “se il difensore di un imputato sicuramente colpevole di reati gravi individua un elemento, una nullità processuale, che può condurre con certezza all’assoluzione è sicuramente obbligato a farla emergere senza porsi il problema delle conseguenze ulteriori”. E ci mancherebbe che non lo facesse perché il suo dovere è assistere l’imputato. Questo dovere è simmetricamente contrario a quello del pubblico ministero che deve preoccuparsi di ottenere la condanna se la persona è colpevole. Ognuno deve rispettare il proprio ruolo: se l’avvocato si sostituisse al pm diventerebbe un collaborazionista. Per cui anche quella vecchia distinzione che un tempo veniva propalata come verità assoluta secondo cui sarebbe disdicevole difendersi dal processo perché ci si difende nel processo è un grande abbaglio: ci si difende prima di tutto dal processo e poi anche nel processo. Questo insegnamento non è dell’avvocaticchio che cerca espedienti, è di Francesco Carrara, il più grande criminalista dell’800, e di Henri-Benjamin Constant de Rebecque quando scriveva le note a “La scienza della legislazione”: lì si insegna che la prima difesa è “dal processo”. Come si capovolge la narrazione negativa dell’avvocato? Le questioni di cui abbiamo discusso sono antiche ma purtroppo ancora attuali. Sul fronte delle soluzioni il discorso si fa complesso: purtroppo manca una coscienza sociale del significato delle garanzie della persona, oggi viviamo il tempo delle esecuzioni sommarie prima che sia iniziato il processo, e combattiamo contro le degenerazioni del circuito mediatico giudiziario. Le ricette sono dunque difficili da elaborare, soprattutto se pensiamo che la professione dell’avvocato si è andata proletarizzando. Gli avvocati, sia perché sono numerosi, sia perché vivono in una situazione economica molto difficile, campano alla giornata. Eppure, se pensiamo ad esempio a coloro che assistono gli immigrati ci accorgiamo che ricoprono un ruolo fondamentale e che danno lustro alla professione nella salvaguardia di valori essenziali. Borsellino e il “ricatto alla palermitana”: perché non ascoltare Palamara? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 marzo 2021 “Io mi sono messo a disposizione della commissione Antimafia, potrebbe essere una occasione per affrontare dei temi che, nell’ambito della mia esperienza consiliare, abbiamo esaminato come i rapporti tra Stato e mafia, i mandanti delle stragi e gli importanti esposti dalla famiglia Borsellino. Penso che sia l’occasione giusta per potermi consentire di parlare”. Così ha dichiarato Luca Palamara durante la trasmissione Non è L’Arena, condotta da Massimo Giletti, a proposito dell’audizione saltata in commissione Antimafia per la mancanza del numero legale. La verifica delle presenze è stata chiesta da Pietro Grasso di Leu, accanto al quale si è schierato non solo il Pd ma anche Forza Italia. Gli unici a muoversi compattamente per l’audizione immediata di Palamara sono stati i componenti leghisti della commissione. Il problema è che se dovesse essere convocato nuovamente, c’è il rischio che venga ascoltato solo per la vecchia storia sulla mancata nomina al Dap del magistrato Nino Di Matteo. Roba già fin troppo sviscerata, ma nulla sulla vicenda delle deviazioni emerse all’interno delle correnti della magistratura e del Csm. Non solo. Il rischio è che non venga nemmeno sentito per i temi che ha annunciato da Giletti. Parliamo soprattutto degli esposti presentati da Fiammetta Borsellino sui depistaggi nelle indagini sulla strage in cui persero la vita suo padre Paolo e gli agenti di scorta. In particolare la figlia del magistrato ucciso in via D’Amelio aveva chiesto di far luce sulle “disattenzioni” da parte dei magistrati che ci sarebbero state sulle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Ricordiamo che il gip ha archiviato l’inchiesta sugli ex pm di Caltanissetta, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, rilevando che “ci furono molteplici irregolarità e anomalie nella gestione del collaboratore Scarantino”, ma non è stata “individuata alcuna condotta penalmente rilevante a carico dei magistrati”. Quindi per il gip, gli allora pm di Caltanissetta non hanno avuto alcuna responsabilità penale nel depistaggio accertato. Ma resta sullo sfondo, come ha scritto recentemente l’avvocata Rosalba Di Gregorio, legale di alcune di quelle persone condannate innocentemente per la strage, che i pm sono stati “scarsamente aderenti ai criteri di valutazione della prova” e che purtroppo non tennero conto neppure dell’instabilità psicologica di Scarantino. Fatti che il Csm non ha voluto esaminare per una eventuale azione disciplinare, nemmeno simbolica tipo come la “censura” che equivale a un buffetto sulla guancia. C’è Luca Palamara che, prima di essere radiato, è stato membro del Consiglio superiore della magistratura. Anche quando in seno alla prima commissione Csm si stava discutendo dell’opportunità di svolgere accertamenti nei confronti dei magistrati coinvolti nell’inchiesta sul depistaggio nel primo processo Borsellino. Forse potrebbe fare chiarezza, capire esattamente quale sia stato il vero motivo per cui si è deciso di non dare seguito all’esposto presentato dalla figlia di Borsellino. La verità ufficiale è che ciò sarebbe stato determinato dal troppo tempo trascorso che toglierebbe ogni efficacia all’intervento disciplinare del Csm. Tutto quindi si è fermato è non sono stati più ascoltati i magistrati che si erano occupati delle dichiarazioni del falso pentito: ovvero Fausto Cardella, Francesco Paolo Giordano, Roberto Saieva e Ilda Boccassini, come aveva deciso invece il precedente Csm, il cui unico atto istruttorio era stata l’audizione del magistrato e ora membro del Csm Nino Di Matteo, oltre che l’acquisizione delle motivazioni della sentenza del Borsellino quater. Se Palamara ha annunciato che ha qualcosa da dire, forse dietro la verità ufficiale si nascondono ben altre motivazioni? Un motivo in più per essere audito in commissione Antimafia, ma forse non basta. Per i temi annunciati ci vorrebbe una commissione parlamentare d’inchiesta ad hoc, altrimenti c’è il rischio che si riveli del tutto inutile. A questo si aggiunge un altro aspetto che dovrebbe essere chiarito sempre per il rispetto dei familiari di Borsellino che chiedono con forza la verità. Uno di quelli è il discorso del procedimento mafia- appalti archiviato dopo la strage di Via D’Amelio. Oramai sono agli atti, per ultimo la sentenza di secondo grado del Borsellino quater, che la causa dell’accelerazione della strage è da ricercarsi nell’interessamento di Borsellino al dossier mafia- appalti, lo scopo è di “cautela preventiva”. Un fatto richiamato in diverse sentenze, ma mai approfondito fino in fondo. Ebbene nelle intercettazioni tra Palamara e il pm Stefano Fava si parla di un “ricatto alla palermitana”. Si tratta dell’informativa della Guardia di finanza relativa ad attività tecniche rit. n 120/ 19 e 175/ 19. Riportiamo i passaggi in causa. Palamara: “Però dopo lo sai che facciamo, facciamo un libro, io faccio un libro, no non sto scherzando…”, Fava: (ride), Palamara: “‘na specie di ricatto tu me dai le co… eh… e tutto… e diciamo quello che cazzo è successo…”, Fava: “Il titolo è Ricatto alla Palermitana…”, Palamara: “Questa adesso è una cosa che va oltre, no? Totalmente”, Fava: “Ma se tu leggi quel libro là di… Gli intoccabili inc. le… cioè tu vedi come tutta la carriera di Pignatone è una fuga di notizie…”, Palamara: “È così!”, Fava: “Dall’indagine mafia-appalti del ‘ 91 in tutti i procedimenti dove c’era lui, gli indagati, lì era Felice Lima (all’epoca pm di Catanaia che raccolse la collaborazione di Li Pera e dove rivelò con precisione tutto il sistema appalti ndr), poi c’era Siino (fonetico), c’era Li Pera (fonetico) sempre avevano le informative, cioè sempre in tutti i procedimenti, poi arriva Cuffaro e Cuffaro nella vicenda Guttadauro, nella vicenda Aiello è andato a dire perché è stato condannato Cuffaro, perché Cuffaro dà un incarico a suo fratello Roberto Pignatone, il mio stesso Roberto Pignatone… perché Cuffaro ha dato la notizia a Guttadauro che era un medico e ad Aiello che era un altro medico che avevano le ambientali”, Palamara: “Eh!”, Fava: “Perciò è stato condannato, giusto?”, Palamara: “Esatto”, Fava: “e questi procedimenti chi c’era, Pignatone, perché all’epoca era braccio destro…”, Palamara: “Secondo me pure per loro se lo mandano in Prima è un boomerang che se io le vado a fa ste dichiarazioni, no ipoteticamente mi chiamano, cioè saltano in area sia Cascini che Manci… cioè quelli che poi si devono dimette…”. Precisiamo che sono solo intercettazioni, scambi privati tra due magistrati. Da sottolineare che Pignatone, in realtà, non è l’unico che si occupò del procedimento mafia- appalti: fu coassegnatario del procedimento soltanto sino alla data del 5 novembre del ‘ 91. Non partecipò nemmeno alla stesura della richiesta di archiviazione inerente gli esponenti della politica e della imprenditoria, oggetto di attenzione da parte del Ros. L’aspetto che più colpisce è il “ricatto alla palermitana”, come se esistessero soggetti ricattabili a causa del loro passato. Sarebbe importante fare chiarezza su tutti questi aspetti, in particolar modo i primi anni 90 e ciò che sarebbe accaduto all’interno dell’allora procura di Palermo. Ricordiamo che la sentenza del Borsellino quater di secondo grado suggerisce di indagare anche su quel versante. La Corte ricorda che “non erano state poche le difficoltà iniziali incontrate dal dottor Borsellino, al quale erano state delegate solo le indagini per le province di Trapani e Agrigento, e non per quella di Palermo”. A tal proposito, richiamando la sentenza di primo grado, la Corte le attribuisce il merito di aver ricostruito “le ragioni del contrasto fra il dottore Borsellino e l’allora procuratore capo della Procura di Palermo, Giammanco, ricordando come tale delega, più volte sollecitata dal dotto- re Borsellino, gli fosse stata conferita solo la mattina del suo ultimo giorno di vita”. Cutolo, i familiari non possono avvicinarsi alla salma: “Presenteremo esposto in procura” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 marzo 2021 Lo ha annunciato l’avvocato della famiglia Cutolo: “La visita di moglie e figlia al defunto è durata solo 5 minuti. Ci sarà un esposto e la competente autorità giudiziaria valuterà se questo è giusto e legittimo”. “Presenterò un esposto denuncia al procuratore di Parma, firmato dalla moglie di Raffaele Cutolo Immacolata Iacone, affinché la Procura valuti se sono stati consumati, come io credo, dei reati nella gestione della vicenda successiva alla morte di Cutolo”. Lo ha annunciato Gaetano Aufiero, avvocato dell’ex boss della Nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo e dei suoi familiari, intervenuto a Cusano Italia Tv. “Due giorni dopo la morte di Cutolo - ha spiegato l’avvocato Aufiero - il magistrato di Parma titolare, che ha disposto l’autopsia sul corpo dell’ex boss, ha individuato i criteri per consentire alla moglie di Cutolo e alla figlia 13enne Denise di porgere l’estremo saluto al congiunto, e ha disposto che le due donne non si avvicinassero alla salma, che non potessero porre sulla salma alcun oggetto, non un fiore, non una corona, non un’immagine sacra, e che la visita fosse realizzata a distanza e alla presenza di più operatori delle forze dell’ordine. La visita di moglie e figlia al defunto è durata solo 5 minuti. Ci sarà un esposto e la competente autorità giudiziaria valuterà se questo è giusto e legittimo. Io trovo tutto ciò abnorme e irragionevole”. L’avvocato Aufiero ha spiegato di avere inoltre “grandissime riserve, per usare un termine eufemistico, sulle eccezionali misure disposte per tumulare il corpo di Cutolo. Un corteo di auto di Polizia e Carabinieri partito da Parma per raggiungere in piena notte il cimitero di Ottaviano, circa 200 uomini impegnati per 700 chilometri: una vera e propria scorta. Gli sono stati negati i funerali pubblici, secondo me giustamente, ma arrivo a essere d’accordo con chi ironicamente dice che alla fine a Cutolo sono stati fatti funerali di Stato. Senza dimenticare la velocissima sepoltura durata pochi minuti alla presenza di una decina di persone vicine alla famiglia. Addirittura il sacerdote che ha officiato quella breve cerimonia è stato prelevato presso la sua abitazione e portato pochi minuti prima al cimitero di Ottaviano. Tutto questo era proprio necessario? Anche perché come eco ha avuto l’effetto contrario rispetto a quello che magari lo Stato avrebbe voluto avere”. Ricordiamo che Cutolo, negli ultimi otto mesi di vita, era affetto di una grave demenza senile. Non si alzava dal letto, non riconosceva la moglie, la figlia e l’avvocato stesso. “L’applicazione del carcere duro in questa vicenda - ha spiegato a Il Dubbio l’avvocato Aufiero - ma anche in altrettanti casi simili, è una barbarie. Chi pensa che il 41 bis debba accompagnare alla tomba una persona che da tempo aveva non solo gravi patologie tanto da non alzarsi più dal letto, ma dei deficit cognitivi certificati da una perizia psichiatrica, per me o è ignorante oppure in malafede. Tralascio il discorso che da decenni non esiste più la sua organizzazione mafiosa, come si giustifica il 41 bis nei confronti di un uomo che non può dare ordini a nessuno visto che non si rendeva conto nemmeno in che giorno e anno si trovava?”. Intercettazioni inutilizzabili se mancano i verbali di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2021 Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 8045 depositata il 1 marzo. Se mancano i verbali delle conversazioni, le intercettazioni non sono utilizzabili. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 8045 depositata il 1 marzo, accogliendo il ricorso di un imputato in processo per droga. Secondo il ricorrente infatti posto che era risultato illeggibile il supporto che avrebbe dovuto contenere la riproduzione delle conversazioni intercettate, il difensore aveva eccepito l’inutilizzabilità delle richieste di autorizzazione delle operazioni di intercettazioni telefoniche, acquisite dal Tribunale, “in quanto mancano le registrazioni e i verbali delle operazioni compiute e i cd brogliacci”. Verbali e brogliacci, per l’imputato, sono deputati a documentare le operazioni di ascolto e registrazione e non possono avere equipollenti negli atti acquisiti ovvero nei provvedimenti di autorizzazione delle operazioni di intercettazione e negli atti, le informative di polizia giudiziaria, contenenti la sintesi delle conversazioni intercettate e posti a fondamento dei provvedimenti di proroga delle operazioni di intercettazione. La Suprema corte nel dargli ragione ricostruisce così la vicenda. Dalla sentenza impugnata, scrive, risulta che le conversazioni intercettate erano contenute su un cd deteriorato, il cui contenuto era stato ricostruito sulla base di brani riportati tra virgolette contenuti nelle richieste di proroga delle operazioni di intercettazione telefonica, in mancanza dei verbali di cui all’art. 268, comma 1, cod. proc. pen. Ora, secondo il Tribunale, con una valutazione che è stata ribadita dalla Corte di appello, non si era in presenza di inutilizzabilità delle intercettazioni che risultavano ritualmente autorizzate e la distruzione del supporto informatico che le conteneva (un cd risultato non leggibile) non rendeva inutilizzabile il risultato che era compendiato dalla registrazione eseguita e il cui contenuto era stato recuperato attraverso le informative di polizia giudiziaria, redatte per la proroga delle operazioni di intercettazione, attraverso gli estratti riportati e le dichiarazioni rese dal verbalizzante in udienza. Per la Cassazione tale conclusione è erronea. Infatti, prosegue la decisione, l’art. 268 cod. proc. pen. prevede che le comunicazioni intercettate sono registrate e che delle operazioni è redatto verbale nel quale è sommariamente descritto il contenuto conversazioni: la redazione del verbale delle operazioni - che documenta l’attività di polizia giudiziaria - è prescritta a pena di inutilizzabilità. Dunque, per il Collegio “si impone l’annullamento della sentenza che dovrà ricostruire alla luce del complesso iter processuale del procedimento (le intercettazioni di interesse sono state eseguite in procedimento diverso) sia la esistenza dei verbali delle operazioni di ascolto che dei cd. brogliacci - che contengono la sintesi delle conversazioni intercettate - ovvero la eventuale esistenza delle registrazioni, nell’ambito del procedimento nel quale furono eseguite”. “È solo in presenza dei verbali delle operazioni di cui all’art. 268, comma 1, cod. proc. pen. - conclude la Cassazione - che può escludersi la esistenza del radicale vizio di inutilizzabilità potendo così la Corte di appello, ove sussistente tale requisito imprescindibile, procedere alla eventuale ricostituzione del contenuto delle conversazioni di interesse che va esercitato con la massima prudenza dovendo escludersi ogni automatismo”. La mancanza di mezzi di sostentamento familiare non blocca l’interdittiva antimafia di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2021 Non accolto il ricorso contro il mancato rinvio alla Consulta della norma del Codice antimafia. Non è possibile escludere l’adozione del provvedimento interdittivo per mancanza dei mezzi di sostentamento dell’interessato e della sua famiglia. Così il Consiglio di Stato con la sentenza n. 1579/2021 ha respinto il ricorso contro la sentenza del Tar che aveva ritenuto irrilevante ai fini del giudizio in questione la rimessione alla Corte costituzionale del giudizio di legittimità sull’articolo 92 del Codice antimafia (Dlgs 159/2011). Il Consiglio di Stato valorizza il preminente interesse pubblico a evitare infiltrazioni della criminalità organizzata nei rapporti economici con la pubblica amministrazione e, ritiene che, a fronte dell’esistenza degli indizi di “infiltrazione su cui poggia l’interdittiva assunta dal prefetto”, non vi sia ragione di dichiararne l’inefficacia. Neanche a fronte del rilievo di parte secondo cui vi sarebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra il regime interdittivo e quello delle misure di prevenzione che tiene invece conto delle esigenze di sostentamento dell’imprenditore e dei suoi familiari. Rilievo che infruttuosamente era stato speso per rinviare alla Consulta la norma che impedisce il venir meno delle preclusioni e dei divieti per tali esigenze di sostentamento. Quindi per il Consiglio di Stato “non è erronea la sentenza del giudice di primo grado che non avrebbe valutato la sospensione e/o rimessione alla Corte cost. dell’art. 92, d.lgs. n. 159 del 2011, che in materia di interdittive antimafia preclude al Prefetto la possibilità di escludere le decadenze ed i divieti previsti, nel caso di mancanza dei mezzi di sostentamento all’interessato ed alla sua famiglia”. E sul caso specifico afferma che non vi sono elementi per ritenere inficiato il provvedimento interdittivo che - al contrario - appare “giustificato dalla motivata necessità di prevenire il pericolo del fenomeno mafioso, i cui aspetti di perniciosità sono stati da ultimo evidenziati dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 26 marzo 2020, n. 57 quanto alle conseguenti lesioni della libera concorrenza, nonché della dignità e libertà umana”. Campania. Morire di Covid nelle carceri sovraffollate, allarme del ministero di Gigi Di Fiore Il Mattino, 2 marzo 2021 L’ultimo report è di meno di sette giorni fa. Come ogni settimana, il ministero della Giustizia ha reso pubblici i dati sulla diffusione del Covid nelle carceri. Sugli attuali 52.522 detenuti, 431 risultano positivi. Di questi, 40 sono da poco entrati in carcere. Una realtà preoccupante con 389 asintomatici, 18 sintomatici curati nelle strutture sanitarie carcerarie e 24 ricoverati in ospedali esterni. Resta drammatico anche il quadro dei positivi nel personale di polizia penitenziaria: 537 su 36939 dipendenti. Gli ultimi due casi, in Campania, nel carcere di Carinola. Tra loro, l’ispettore Giuseppe Matano, 50 anni sposato con due figli, secondo agente penitenziario morto in dieci giorni in quella struttura. È un vero allarme. Non ha dubbi Barbara Greco, la vedova dell’ispettore Matano. Su Facebook, ha scritto senza esitazione: “Mio marito ha contratto il Covid sul posto di lavoro, privo di adeguate protezioni e senza tutele. Lo Stato lo ha fatto morire. Nei tanti documenti di prevenzione sul Covid, non c’è una riga sulla situazione nelle carceri e su chi vi lavora”. Carinola è l’ultima punta di un iceberg su cui il garante per i diritti dei detenuti in Campania, Samuele Ciambriello, continua a richiamare attenzione. Tre agenti morti in pochi giorni, sono in tutto cinque in Campania da inizio pandemia. Dice Ciambriello: “A Carinola si è sviluppato un focolaio di contagi, con 19 detenuti positivi asintomatici e 30 agenti contagiati. Tra loro, i tre morti degli ultimi giorni. Dopo l’ispettore Matano, l’agente Antonio Maiello che era in terapia intensiva”. L’affollamento nelle carceri, le condizioni di promiscuità e di vicinanza con igiene approssimativa, anche per gli agenti diventano bombe per la diffusione del Covid. Un anno fa, esplose la rivolta. Si iniziava a parlare dell’epidemia e tra il 7 e il 9 marzo i detenuti protestarono un po’ dappertutto contro la restrizione sui colloqui con i familiari, consentiti solo attraverso i cellulari. Foggia, Venezia, Trieste, Napoli, Rieti, Modena, Trani, Milano, Aversa furono alcune delle città dove si svilupparono le proteste carcerarie. Il bilancio fu di 14 detenuti morti, 19 evasi a Foggia. Una protesta diffusa, su cui si è ipotizzata la regia occulta degli esponenti mafiosi rinchiusi. Ma era un’avvisaglia su come una realtà già difficile si faceva più drammatica per il Covid. Il Dap, presieduto da Dino Petralia, ha cercato di correre ai ripari. Più indicazioni in circolari, l’ultima dell’11 novembre, per una serie di prescrizioni ai direttori delle carceri: isolamento per i positivi; socialità solo “tra detenuti ristretti nella medesima sezione detentiva”; limitazione di attività formative, scolastiche e sportive, oltre che ricreative. E poi, stop ai trasferimenti, autorizzati solo per “situazioni indispensabili correlate a gravi motivi di salute e a gravissime e documentate ragioni di sicurezza”. Restrizioni che rendono ancora più gravosa la detenzione. Nella sua relazione, Samuele Ciambriello ha messo nero su bianco la radiografia dell’attuale realtà carceraria campana. Scrive: “Il sistema carcerario si è visto aggravare i problemi di sovraffollamento, la mancanza di cure adeguate, l’approccio carcero-centrico del legislatore e dell’apparato giudiziario. La Campania è la seconda regione, dopo la Lombardia per strutture carcerarie e sovraffollamento di detenuti”. Con i colloqui e i rapporti con l’esterno limitati a causa dell’epidemia, tutti i garanti per i detenuti hanno sollecitato più autorizzazioni dei giudici di sorveglianza a misure alternative alla detenzione. A maggio, i detenuti con misure alternative in Campania erano 6074. Mentre la radiografia sui mesi della pandemia, illustrata dal garante nazionale Mauro Palma, registra, dopo le misure decise dal Dap, “una forte diminuzione delle attività ordinarie di socializzazione e l’instaurarsi progressivo di una logica di “chiusura” da parte del carcere nei confronti delle iniziative di volontariato sociale che sono alla base di un percorso di recupero dei detenuti”. Il sedicesimo rapporto Antigone sul 2020 ha documentato un tasso di affollamento carcerario del 119,4 per cento, che rende “impossibile un’adeguata adozione delle misure necessaria ad evitare la diffusione dei focolai”. I dati aggiornati al 31 gennaio scorso, parlano di una popolazione di 53329 detenuti rispetto a una capienza nelle carceri di 50551 reclusi. Nell’esplosiva realtà delle carceri, sono a rischio anche gli agenti penitenziari e tutto il personale sanitario e amministrativo. Dei 537 agenti risultati positivi nell’ultimo report del Ministero, 518 sono in isolamento domiciliare, 11 in isolamento in caserma e 8 ricoverati in ospedale. Non sono immuni neanche i dipendenti amministrativi: 49 positivi su 4021 dipendenti. Nel carcere di Secondigliano, è morto di Covid il medico sanitario. Nel primo report del Ministero, quello del 22 novembre scorso, venivano contati ben 969 agenti penitenziari risultati positivi e 73 i dipendenti amministrativi. Tre mesi dopo, numeri in calo, ma comunque alti mentre sono diminuiti i detenuti: 52522 rispetto ai 53723 di novembre. E dice Samuele Ciambriello: “Tre agenti morti a Carinola in 10 giorni. In diverse regioni sono partite le vaccinazioni per il personale carcerario, ma non in Campania. Stessa cosa per i detenuti. Da inizio pandemia, abbiamo avuto in Campania 5 agenti, 4 detenuti e il medico del cercare di Secondigliano morti per Covid. Non si può continuare a morire nelle carceri e di carcere”. Il direttore del Dap, Dino Petralia, volle far sentire la sua voce in video in coincidenza con l’avvio dei report settimanali sui positivi nelle carceri. Si rivolse agli agenti penitenziari: “Parlo a chi è sofferente per il virus, per un lavoro che è più difficile e complicato di sempre. Serve passione collettiva in più e solidarietà reciproca, ma bisogna stare attenti ai contatti, ai rapporti”. Una soluzione è sollecitata dal garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma: la maggiore concessione di detenzione domiciliare a chi ha residui di pena inferiori a sei mesi senza impedimenti. Si tratta di 1142 detenuti, cui ne vanno aggiunti 2217 con residui di pena tra sei e diciotto mesi. Ma spiega Palma: “Sono in teoria 3.359 persone, ma ci sono preclusioni disciplinari e tra loro ben 1.157 risultano senza fissa dimora”. La pandemia mette a nudo difficili situazioni sociali. E le carceri restano pericolosi focolai e luoghi a rischio anche per chi vi lavora. Ancora oggi, come un anno fa. Calabria. “Liberi di scegliere”, il progetto arriva nelle scuole di Domenico Marino Avvenire, 2 marzo 2021 L’importanza della testimonianza e dell’esempio. Arriva nelle scuole il progetto “Liberi di scegliere” lanciato negli anni passati dall’allora presidente del Tribunale per i minori di Reggio Calabria, Antonio Di Bella, poi diventato un protocollo sottoscritto dai ministeri della Giustizia, dell’Interno, dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, delle Pari opportunità e della Famiglia; dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, dalla Conferenza episcopale italiana, dal Tribunale per i minorenni di Reggio, dalla Procura presso il tribunale per i minorenni reggino, dalla Procura della Repubblica di Reggio e da Libera. Sostenuto confondi dell’8xmille alla Chiesa cattolica, è pensato per garantire un’alternativa di vita ai minori provenienti da famiglie inserite in contesti di criminalità organizzata, fornendo una rete di supporto (educativa, psicologica, logistica, scolastica, economica e lavorativa). “Dopo anni d’insulti e minacce, arrivano lettere d’incoraggiamento e gratitudine. Anche da detenuti reclusi al 41bis. Non ci sono destini segnati per sempre. La vita criminale provoca sofferenze, all’interno e all’ esterno”, raccontava la scorsa estate ad Avvenire il presidente Di Bella. La speranza “Liberi di scegliere” è diventata prima un film, omonimo, andato in onda su Rai Uno con Alessandro Preziosi nel ruolo del giudice, e poi il documentario “Parola d’onore” della regista reggina Sophia Luvarà. È pure un libro scritto dallo stesso Di Bella con Monica Zappelli per Rizzoli. Nei giorni scorsi il ministero dell’Istruzione ha scritto agli Uffici scolastici regionali, mettendo nero su bianco un’intesa per portare pure in classe la speranza “Liberi di scegliere”. Il ministero ritiene “di grande importanza la promozione di attività di sensibilizzazione, come la visione di film tematici, la lettura commentata di libri, l’organizzazione di incontri con vittime dei reati e imprenditori che sono cadute vittima di estorsione o con ragazzi che sono riusciti ad affrancarsi dalla vita criminale”. Tra le attività possibili, già da quest’anno scolastico scatta il concorso di idee “Liberi di scegliere” per “suscitare nelle giovani generazioni momenti di riflessione sul vero valore della vita e della libertà di scelta, dimostrando che il futuro non è già scritto e che si può essere protagonisti della propria vita nella consapevolezza che la delinquenza appare un destino inesorabile a chi nasce e vive in certe realtà familiari”. Gorizia. Covid, focolaio in carcere con 7 positivi: al via i tamponi di Marco Bisiach Il Piccolo, 2 marzo 2021 Si tratta di 4 detenuti, 2 agenti penitenziati e un dipendente amministrativo. Martedì al via la vaccinazione con Astrazeneca. Mentre martedì inizierà anche in via Barzellini la campagna vaccinale della popolazione carceraria, il Covid-19 è tornato a bussare, attraversandola, alla porta della casa circondariale goriziana. Lunedì primo marzo, infatti, risultavano sette nuovi casi di positività nella struttura penitenziaria, di cui quattro detenuti, due agenti di polizia e un dipendente civile dell’amministrazione. Pur alle prese con la febbre, a quanto si è appreso al momento nessuno dei positivi è in condizioni particolarmente critiche: i detenuti si trovano nelle celle riservate ai casi Covid-19 mentre i tre componenti del personale sono ovviamente a casa, in isolamento. A fronte dell’esplosione di questo piccolo “focolaio” nella casa circondariale tutti coloro che si trovano all’interno della struttura - dai carcerati agli agenti, al resto del personale - si sono sottoposti al tampone, e quindi non si può escludere che nelle prossime ore emergano altri casi di positività al coronavirus, magari asintomatici. Martedì 2 marzo inizierà all’interno dell’edificio di via Barzellini (dove ad oggi si trovano una sessantina di detenuti) la vaccinazione con il vaccino Astrazeneca, che quindi potrà essere somministrato a tutti coloro che non hanno superato i 65 anni. Sicuramente un elemento importante, come ricordano anche i sindacati che avevano già scritto al governatore della Regione, Massimiliano Fedriga, per sensibilizzarlo sull’urgenza di far partire quanto prima la campagna vaccinale e di fornire indicazioni chiare e trasparenti al personale del comparto sicurezza. Proprio i sindacati, però, rilanciano preoccupazione e allarme. “Bene che parta la vaccinazione, ma il dato di fatto è che in diverse strutture della regione, così come nel vicino Veneto, i focolai ci sono già, e dunque l’azione è tardiva - sottolinea Leonardo Angiulli, segretario regionale triveneto dell’Uspp -. In tal senso quanto è successo purtroppo nel carcere casertano di Carinola, dove tre colleghi sono morti dopo aver contratto il Covid-19, offre il quadro di una situazione preoccupante. Noi non abbiamo firmato il protocollo Covid proposto dall’amministrazione penitenziaria, ritenendolo troppo carente e inefficace, mancando gli spazi vitali per garantire le distanze di sicurezza adeguate all’interno delle strutture”. Sanremo (Im). Covid, 4 agenti e un detenuto positivi primocanale.it, 2 marzo 2021 Un detenuto e quattro agenti della polizia penitenziaria sono risultati positivi al Covid19 nel carcere di Valle Armea, a Sanremo. A darne notizia è Fabio Pagani, segretario regionale del Uilpa polizia penitenziaria, secondo il quale oggi tutti i detenuti e il personale di polizia saranno sottoposti a tampone. Pagani mette sotto accusa il ritardo con cui è stato deciso di somministrare il vaccino alla categoria. “Gli ultimi dati sui contagi da Covid nelle carceri liguri fanno segnare una nuova inversione di tendenza al rialzo ed è il carcere di Valle Armea a Sanremo a registrare nuovi positivi. Dall’8 marzo, i poliziotti penitenziari della Liguria riceveranno la prima dose di Astrazeneca, ma siamo in ritardo. Ciascun agente dovrà stare a riposo tre giorni, dopo la prima dose e quindi la vaccinazione non potrà essere effettuata contemporaneamente su tutti” ha detto Pagani. Modena. Rivolte al Sant’Anna, detenuti denunciano violenze da parte degli agenti di Giulia Parmiggiani Tagliati modenatoday.it, 2 marzo 2021 Parla il loro difensore. A quasi un anno dai fatti, si torna a parlare delle rivolte al Carcere Sant’Anna del marzo scorso. Lo fa la lista civica Modena Volta Pagina, con un incontro online al quale prende parte, oltre che Claudio Paterniti dell’Associazione Antigone, Alice Miglioli del Comitato Verità e Giustizia per la strage del Sant’Anna, l’On. Stefania Ascari (M5S) e il Sen. Franco Mirabelli (PD); anche l’avvocato Mario Marcuz, difensore di fiducia di due dei cinque detenuti firmatari di un esposto di denuncia nei confronti della Polizia Penitenziaria. Durante il dibattito, l’Avvocato Marcuz rilascia dichiarazioni forti, in merito a fatti che - seppur sommariamente - è bene riepilogare. Era domenica mattina e c’era il sole, l’8 marzo, quando nuvole di fumo denso e scuro hanno iniziato a farsi spazio nel cielo limpido della periferia modenese. Buona parte della Casa Circondariale Sant’Anna stava andando a fuoco: a posteriori, per contare i danni, sarebbero state necessarie cifre a sei zeri. La pandemia era da poco esplosa, il da farsi non era chiaro, e ogni genere di visita nelle carceri era stata sospesa in via precauzionale. Una goccia che ha fatto traboccare il vaso - dicono molti -, una scusa per coprire un’azione coordinata negli interessi delle mafie - sostengono altri -: all’evidenza, una violenta rivolta che è costata la vita a nove detenuti. Durante i disordini infatti, è stata svaligiata la farmacia del carcere, e nove detenuti sono morti (cinque a Modena, gli altri dopo o durante il trasferimento), stando alle perizie autoptiche, per overdose di metadone. Ma ci sarebbe di più. Le settimane passano, le acque si calmano, le indagini prendono il via. I filoni di inchiesta paiono essere tre: il principale, legato ai detenuti rivoltosi per le violenze commesse contro agenti e strutture; uno che potremmo chiamare “mediano”, che partirebbe da una denuncia del maggio scorso; e il terzo - e più recente - che nasce dall’esposto summenzionato. Tale dichiarazione, presentata tra gli altri da i due assistiti dall’avvocato Marcuz, denuncia violenze che i detenuti avrebbero subito da parte degli agenti di Polizia Penitenziaria nel corso delle rivolte e dei trasferimenti, resi necessari dal fatto che il Sant’Anna fosse diventato inagibile. “I miei assistiti hanno detto “ci siamo consegnati alle forze dell’ordine pensando di trovare protezione rispetto a quello che stava succedendo intorno a noi” - dichiara Marcuz - e la risposta è stata di essere stati ammanettati, portati all’interno di una stanza. Una dichiarazione pesante, quella dell’Avvocato, che pensa che “gli scritti di questi detenuti vadano comunque appoggiati, non fosse altro per il coraggio che hanno avuto nel fare questa denuncia”. Coraggio o interesse personale? chiederebbe il malpensante. “La loro è una denuncia disinteressata che non aveva l’obiettivo di ottenere scambi, favori o quant’altro per quanto riguarda la loro posizione personale” risponde il difensore “uno sta per uscire, l’altro ha un fine pena abbastanza breve: credo che questa denuncia sia stata fatta per motivi di solidarietà, solidarietà umana”. Si riferisce alla solidarietà nei confronti di Salvatore “Sasà” Piscitelli, deceduto nel Carcere di Ascoli il giorno seguente le rivolte, compagno di cella di uno dei suoi assistiti. “Il Piscitelli era un detenuto che già stava male, e ciò nonostante è stato trasportato in un carcere lontano centinaia di chilometri, pur avendo palesato il suo stato di grave malessere” afferma, e punta il dito contro gli agenti: “al di là dell’obbligo custodiale, è chiaro che la Polizia Penitenziaria abbia anche un obbligo di tutela della persona, della salute e anche della dignità umana”. Da ex accademico, Mario Marcuz sostiene di aver rilevato una profonda mancanza di preparazione, e forse anche di cultura, da parte delle forze di polizia coinvolte, e introduce un altro grande tema: quello della possibilità di identificazione delle Forze dell’Ordine che violano i loro doveri istituzionali. Per smentire ogni dubbio circa l’identità dei suoi assistiti, l’avvocato Marcuz tiene poi a precisare che siano “completamente estranei ai fatti della prima inchiesta” e che “non appartengono ad alcun circuito organizzato o associazioni”. A verificare la veridicità di questi accadimenti sarà la Magistratura: essendo l’inchiesta ancora in una fase di indagini preliminari, non è possibile, ad oggi, emettere sentenza. Certo è che, come afferma Marcuz, a chiusura del suo intervento, “quella carceraria è una situazione grave, deficitaria sotto molti aspetti, che ha avuto un epilogo drammatico nei fatti di Modena. È chiaro che se non c’è un intervento della politica e non c’è un interesse dei cittadini, situazioni come queste rimangono latenti per poi esplodere in modo tragico”. Lecce. Riparatori di router e antennisti: 13 detenuti assunti dopo il corso di Serena Costa quotidianodipuglia.it, 2 marzo 2021 Il lavoro come forma di reintegro sociale ed emancipazione da un passato che ci si vuole lasciare alle spalle. Tredici vite che riprendono un percorso di speranza che profuma di futuro. È così che, all’interno del carcere di Lecce, è nato il progetto pilota del laboratorio tecnologico di rigenerazione dei router in collaborazione con Linkem, un operatore 5G leader in Italia nel settore della banda ultra-larga wireless. Da qualche mese il posto fisso: 13 detenuti sono stati assunti a tempo indeterminato dall’azienda delle telecomunicazioni con la qualifica di riparatori di router a seguito di un percorso di formazione durato tre mesi e regolarmente retribuito. Alcuni di loro lavoreranno anche come antennisti. Ora i router danneggiati o restituiti dai clienti che hanno cessato il contratto con Linkem passano dal carcere Borgo San Nicola per tornare a nuova vita ed essere reimmessi sul mercato, grazie alle competenze meccaniche e informatiche acquisite dagli ospiti della casa circondariale. Tra gli assunti sono 11 quelli che lavorano all’interno degli spazi allestiti nel carcere, mentre altri due sono stati impiegati all’esterno, nei centri Linkem di Lecce e Taranto. La selezione dei destinatari del progetto sperimentale è stata portata avanti dall’amministrazione penitenziaria di Lecce diretta da Rita Russo: una scelta non casuale, dettata dal percorso di risalita, come si dice in questi casi, di ciascun detenuto e dalle sue propensioni all’apprendimento di nuovi saperi. Eppure, Davide Rota, l’imprenditore di Linkem, assicura di non aver mai letto le schede sulla fedina penale delle persone scelte: “Ho solo cercato di capire quanta voglia ci fosse di cambiare percorso da parte loro e inoltre ho percepito una forte volontà da parte dell’amministrazione penitenziaria di dare loro una chance per cambiare vita”. Il progetto, avviato un anno fa, è partito con una semplice mail dell’ad di Linkem alla direttrice Russo: “Abbiamo scelto la Puglia perché è qui che sono presenti il 70% dei nostri centri gestionali, che servono la maggior parte dei nostri clienti: abbiamo individuato un’area più svantaggiata dal punto di vista occupazionale, in cui portare nuovi posti di lavoro. Solo in Puglia negli anni abbiamo occupato 520 persone a tempo indeterminato. E abbiamo puntato su una delle professioni più richieste, i tecnici installatori, affinché risolvessero uno dei problemi più grossi per noi, ovvero i router di ritorno: invece di smaltirli, abbiamo affidato a questi ragazzi il compito di rivitalizzarli, coniugando conoscenze meccaniche, elettroniche e di software. Questi ragazzi sono nostri dipendenti e alcuni di loro non sono lontanissimi dal percorso di uscita dal carcere. Una grande soddisfazione, che non è un semplice investimento economico, ma anche emotivo: una volta che hai iniziato un progetto simile, non puoi lasciarlo a metà, ma lo porti avanti con il cuore”. Qualche cifra, dunque. “Ogni settimana escono dalla casa circondariale 200 router rigenerati aggiunge la direttrice Rita Russo e il fatto che i nostri ospiti siano stati assunti vuol dire che, non appena avranno terminato di scontare la pena e dopo i sei mesi di prova, potranno continuare a costruire una propria vita fuori da qui. Il laboratorio è stato visitato qualche giorno fa dal capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, e sarà un punto di riferimento a livello nazionale. Loro stessi hanno creato un’app per le videochiamate tra detenuti e familiari”. Senza dimenticare che, in tempi di lockdown, sono stati gli stessi detenuti a installare le nuove antenne del carcere per incrementare la connessione. Siena. La formazione in carcere come occasione per ripartire La Nazione, 2 marzo 2021 Al via, nella Casa circondariale senese, un progetto per favorire il reinserimento delle persone detenute attraverso nuove competenze professionali. Dotare i detenuti di nuove competenze professionali per favorire il loro reinserimento una volta tornati in libertà. È l’obiettivo del progetto formativo IN.SI.d.E - Interventi e soluzioni idraulici ed edili, realizzato nella Casa circondariale di Siena (il carcere di Santo Spirito) con il concorso finanziario dell’Unione Europea, della Repubblica Italiana e della Regione Toscana. A presentare il progetto è stata Toscana Formazione (come da avviso pubblico, positivamente valutato con apposita graduatoria) attraverso la sede territoriale di Chiusi (Siena) che per l’occasione si è avvalsa del partenariato con l’Istituto statale di istruzione superiore “G. Caselli” di Siena. Il progetto, inoltre, è stato fortemente sostenuto dall’area pedagogica della direzione della Casa circondariale. Il corso è rivolto a 8 detenuti della Casa circondariale (di cui 4 di nazionalità straniera) i quali parteciperanno a un percorso di 250 ore riguardanti la manutenzione di impianti termoidraulici e la realizzazione di lavori edili. È inoltre previsto uno stage di 80 ore presso aziende di settore del territorio che si sono rese disponibili a contribuire alla buona riuscita dell’attività. Milano. Il carcere minorile per ora è Covid-free: proseguono Dad e attività di Nicolò Rubeis agenziadire.com, 2 marzo 2021 L’Istituto Beccaria, che ospita al momento 29 ragazzi, ha avuto solo due falsi positivi e sta continuando con colloqui, lezioni e momenti ricreativi. “La criticità maggiore che riscontriamo nel carcere minorile Beccaria di Milano è legata ai ritardi del sistema sanitario relativi ai disagi psicologici, spesso connessi alla dipendenza di sostanze stupefacenti. È su questi interventi, preclusi dalla mancanza di adeguati supporti terapeutici, che dobbiamo lavorare”. L’allarme viene lanciato durante la commissione consiliare Carceri-Pene-Restrizioni del Comune di Milano da Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale dei Minori meneghino. Per il resto l’istituto, che ora ospita 29 ragazzi (la metà di questi appellati o imputati), come sottolinea la direttrice del carcere minorile Beccaria e della casa circondariale di Bollate Cosima Buccoliero, ha retto bene all’urto della pandemia: “Non abbiamo registrato troppi problemi, né casi di contagio, se non per due falsi positivi e un numero ridotto di persone che hanno contratto il Covid-19 tra il personale”, assicura Buccoliero. Gli accorgimenti più importanti, l’istituto ha dovuto prenderli dal punto di vista della logistica. Al momento infatti, sono ancora due le stanze destinate all’isolamento di eventuali positivi. “Abbiamo dovuto bilanciare le esigenze di tutela della salute con la necessità di mantenere un minimo di attività all’interno del carcere minorile- prosegue- nel periodo più duro dell’emergenza sanitaria abbiamo subito attivato, per esempio, le lezioni scolastiche da remoto”. La scuola, anche grazie all’utilizzo di tablet arrivati appositamente all’istituto, è proseguita senza mai interrompersi, così come i colloqui in presenza tra i ragazzi e i familiari, “ma ci siamo organizzati però - sottolinea Buccoliero - anche per quelli da remoto”. Non si sono mai fermate nemmeno le altre attività, come i laboratori di musica, cinema e teatro. Intanto proseguono i lavori di ristrutturazione dell’istituto che porterà la casa circondariale a una capienza massima a regime di 60-70 giovani detenuti, come ha annunciato Francesca Perrini, dirigente del Centro per la Giustizia Minorile della Lombardia, con la speranza però “di non dover mai arrivare” a quelle cifre di presenze registrate. Volterra (Pi). Educazione alla legalità per gli studenti dello Jacopone iltamtam.it, 2 marzo 2021 Gli studenti delle classi quinte, martedì 2 marzo incontrano Armando Punzo, il regista che ha portato il teatro nelle carceri. Il Liceo “Jacopone da Todi” è lieto di annunciare che, martedì 2 marzo 2021, le classi quinte degli indirizzi classico, linguistico, scientifico e scienze umane parteciperanno ad un incontro con Armando Punzo, drammaturgo e regista teatrale italiano. Direttore artistico del Teatro di San Pietro di Volterra e del Festival “Volterra Teatro”, è noto soprattutto per l’attività teatrale svolta con i detenuti nel carcere di Volterra. L’incontro, che si terrà in modalità esclusivamente telematica su piattaforma Meet, va a coronare un progetto, “Giovani, legalità e cittadinanza”, intrapreso da qualche anno dall’insegnante di religione, Prof.ssa Silvia Massetti, e mirato a sensibilizzare i giovani all’educazione alla legalità. Si parte dall’esame della parola “carcere”, da cosa significhi non rispettare la legge e perdere la propria libertà. Gli studenti visionano film e/o documentari, realizzano elaborati di scrittura creativa e visitano, alla fine, il carcere per incontrare i detenuti e accogliere la loro testimonianza. Quest’anno non è stato possibile condurre gli studenti nel carcere, ma avranno la possibilità di incontrare e confrontarsi con questo autorevole personaggio che è stato intervistato da Domenico Iannacone nel programma televisivo di approfondimento giornalistico “I dieci comandamenti”. “Mi ha colpito - afferma la Prof.ssa Silvia Massetti - quando ha detto che occorre prendere consapevolezza delle possibilità di libertà che abbiamo come essere umani. Questo non vale solo per i detenuti, vale anche per tutte le persone che intendono fare un processo di consapevolezza. E queste parole mi hanno fatto pensare ai miei studenti, alla necessità di far capir loro che, anche quando si sbaglia, possiamo attingere alle nostre attitudini interiori”. Armando Punzo ha fondato nel 1988 la “Compagnia della Fortezza”, uno dei primi progetti di teatro in carcere in Italia, e ha scritto un libro, “Un’idea più grande di me. Conversazione con Rossella Menna”, nel quale racconta il primo approccio con la fortezza del carcere di Volterra, più di trenta anni fa, quando propose all’istituzione penitenziaria un laboratorio di alcune centinaia di ore che poi si moltiplicò fino a presentare uno spettacolo inatteso. “Punzo non era uno psicologo, un terapeuta, un operatore, un esperto di quello che poi si sarebbe chiamato teatro sociale, Punzo voleva fare ricerca teatrale e aveva intuito le potenzialità delle persone che forzatamente abitavano quel luogo” (“Teatro e Critica”). Nell’incontro di martedì prossimo, il regista racconterà la sua esperienza agli studenti, essendo impegnato da alcuni anni nel progetto di creare un teatro stabile all’interno del carcere di Volterra, e si confronterà con loro sul concetto di libertà e sulla possibilità di viverla nonostante il carcere. Una possibilità data dal teatro, che è arte, spettacolo, ma è anche salvezza. Varese. Alle carceri dei Miogni di un attimo di libertà varesepress.info, 2 marzo 2021 Una coraggiosa iniziativa per unire con la radio detenuti e famiglie. Domenica 28 febbraio 2021, è stato un momento di grande commozione per gli ascoltatori, quando alcuni detenuti della Casa Circondariale di Varese, alle ore 17,30, si sono collegati sulle frequenze di R.M.F. 91.7 e 94.6. All’altro capo le radio di mogli, figli, parenti, amici, ma non solo, ad ascoltare come si vive in carcere ai tempi del Covid-19. Cinque racconti fatti da sei detenuti, due di loro hanno lavorato insieme allo stesso racconto, che narrano di come quello che è un momento difficile per tutti e una tragedia per molti, in carcere si sia trasformato in qualcosa quasi di surreale. Alla lontananza da propri cari si unisce un profondo senso di incertezza e di attesa. Se tutti si sentono prigionieri di questa pandemia, immaginiamo come si debba sentire chi in prigione ci sta davvero, con l’unico contatto che si ha all’esterno, solo tramite la televisione. Visite sospese, i detenuti che temono sia per le proprie famiglie sia per se stessi. La televisione, quell’unico contatto col mondo che spesso al posto di rassicurare ingigantisce le notizie. Sarà tutto vero quanto succede fuori, o forse non è così grave, ma forse è molto peggio di quanto dicono. Tra un racconto e l’altro brani di musica classica e brevi letture dalla pacata voce di Marita Viola. Una bella iniziativa, frutto di collaborazione tra le operatrici dell’Associazione Auser di Varese, Gisella Incerti e Giovanna Ferloni, della stessa Marita Viola, interprete e lettrice, della Direttrice della Casa Circondariale di Varese, Dott.ssa Carla Santandrea e del Funzionario Giuridico Pedagogico Domenico Grieco sempre della Casa Circondariale di Varese. “Con questa iniziativa si è voluto dare voce ai sentimenti, alle paure, alle emozioni di persone altrimenti invisibili, maturati in un lungo anno segnato da una doppia sofferenza: da un lato l’esecuzione della pena della reclusione e dall’altro il disagio e l’angoscia per le notizie mediatiche sulla pandemia.” Scrivere di iniziative come questa è facile, capirle e condividerle meno, anche se il Covid 19 sta insegnando un po’ a tutti cosa vuol dire poter essere liberi. Leggi, non soltanto sospetti di Marco Demarco Corriere del Mezzogiorno, 2 marzo 2021 Un saggio dello studioso napoletano Giovanni Verde sull’attuale crisi della giustizia. Da dove origina la crisi della giustizia? Dal conflitto con la politica, d’accordo; e qualcosa di determinante è sicuramente successo in Italia negli anni di Tangentopoli. Ma come e perché si arrivò a quel punto? Per caso? Per un capriccio della storia? Giovanni Verde, magistrato per dodici anni, avvocato e docente universitario, vicepresidente del Csm e tra i massimi esperti del processo civile, nonché editorialista prima de “Il Mattino” e poi del “Corriere del Mezzogiorno”, ha scritto un libro per dire che così non è. E per chiamare in causa la cultura giuridica e politica di questo Paese. In “Giustizia, politica, democrazia. Viaggio nel paese e nella Costituzione” (Rubbettino), Verde spiega infatti che sì, ora c’è anche il caso del Csm, esploso come una bomba nella vetrina buona dello Stato, ma che non tutto si può ricondurre, semplificando, oggi a Palamara e ieri a Mario Chiesa e Bettino Craxi. La crisi della giustizia viene da un accumulo di idee, compromessi e pregiudizi, più che da singoli eventi. E viene, a dirla tutta, da una cultura “del sospetto” che ha contaminato in parte anche la Costituzione, ad esempio quando ipocritamente, non fidandosi delle scelte del pm, ha previsto l’obbligatorietà dell’azione penale. Una cultura che successivamente si è fatta scudo proprio della Costituzione per autoaffermarsi. Un esempio? Il fenomeno del giustizialismo (“nostra camicia quotidiana”), tema che Verde affronta a partire da un fatto concreto che riferisce con evidente emozione: la sofferenza a lungo patita dall’amico Roberto Racinaro, arrestato quando era rettore a Salerno, tenuto sotto processo per quindici anni e infine assolto. La crisi della giustizia di cui Verde parla comincia a manifestarsi quando il diritto oggettivo “torna” in scena evocando i valori e non le leggi. E la differenza tra i primi e le seconde è abissale, perché nell’antico regime i valori venivano gestiti dai sapienti in rapporto fiduciario con il potere, mentre le leggi, cioè “lo stampo in cui cola il magma dei valori”, vengono amministrate da tecnici esperti e imparziali. Non a caso, si ricorda che “a differenza di altre Costituzioni, nella nostra non è mai menzionato il diritto obiettivo; si parla sempre della legge e delle norme di legge, mentre il termine diritto viene adoperato solo per indicare posizioni soggettive meritevoli di tutela”. I guai, insomma, vengono dopo, quando per il cedimento dei guardiani della Costituzione, per ragioni storiche legate alla fine della Guerra fredda e alla globalizzazione, e per il progressivo ritirarsi della politica, lo Stato non è più in grado di esercitare in maniera effettiva la sovranità. È a questo punto che il giudice accede a una nuova dimensione, diventa il mediatore tra le libertà e le dignità dei singoli, cerca il consenso per farsi forza, e si legittima appellandosi direttamente ai valori. Tuttavia è proprio nel momento in cui va oltre la legge - sottolinea Verde - che la giustizia si espone al rischio di una pericolosa involuzione. Quella “di tipo autoritario, quale è tipica dello Stato etico”. Ecco il punto centrale del libro. Non a caso, Biagio de Giovanni, che firma la prefazione (la postfazione è di Gerardo Bianco), lo segnala con particolare enfasi. “Ah, i valori! Non dimenticherò mai - scrive - come li definiva, nella testimonianza di Antonio Labriola, un professore di storia e filosofia dei licei napoletani parlandone ai propri studenti in un divertente dialetto che non oso riprodurre. I valori? Tanti ‘caciocavalli appesi’, ognuno ne sceglie uno e si acquieta la coscienza”. Per de Giovanni come per Verde è impossibile nutrire dubbi in proposito. I valori vanno esclusi dalle valutazioni del giurista, perché “interpretare testi è altro da intuire valori, per quanto sociali e costituzionali si vogliano dichiarare”. Movimentato da continue incursioni nell’attualità (le polemiche sulla responsabilità penale per colpa, sugli effetti paralizzanti dell’abuso d’ufficio, sul ruolo della difesa nel processo e sui vari aspetti dei progetti di riforma in discussione in parlamento) il libro di Verde è tutt’altro che un pamphlet. È un saggio - se non addirittura un manuale, ma scritto con grande finezza - che va ben oltre l’emergenza. Indica strade, suggerisce proposte. E la conclusione è questa: “Dobbiamo soltanto prendere atto di ciò che è avvenuto e chiederci se, essendo inevitabile che la magistratura partecipi al governo del paese sempre più condizionando le scelte e le decisioni del potere esecutivo, si possa continuare a ritenere che essa possa essere un corpo del tutto autonomo e indipendente”. Tuttavia, se questo sarà il punto di arrivo, diverse sono le traiettorie per arrivarci. E il primo a saperlo è proprio Verde. “Sociologo detenuto”, di Alessandro Limaccio recensione di Maurizio Bolognetti ufficiostampabasilicata.it, 2 marzo 2021 “Se dovessi suggerire la lettura di un libro in questo tempo di Quaresima e con l’approssimarsi della Pasqua, non esiterei a dire leggete “Il sociologo detenuto”. Inizia così Maurizio Bolognetti la recensione del libro autobiografico con il quale Alessandro Limaccio racconta la sua storia: detenuto dal 1995, insignito nel 2018 del premio nazionale alla cultura “Sulle ali della libertà” patrocinato dalla Presidenza della Repubblica. “Il libro di Limaccio - afferma Bolognetti - apre una finestra su un mondo rimosso, dimenticato, in cui quotidianamente viene assassinata la Costituzione: quelle patrie galere, per dirla con Marco Pannella, assurte da troppo tempo a luoghi di tortura ma senza torturatori, perché ad essere torturata da uno Stato criminale sul piano tecnico-giuridico è l’intera comunità penitenziaria. Le parole di Enrico Rufi, autore della splendida prefazione, ci ricordano quanto sia urgente occuparsi di una giustizia in bancarotta che a volta diventa giustizia del pentito dire. Rufi, storica voce notturna di Radio Radicale, - aggiunge Bolognetti - ha tra l’altro scritto: “Presumo che più d’uno siano i sociologi finiti nelle patrie galere, non necessariamente nei cosiddetti anni di piombo, ma uno solo è diventato sociologo in carcere. Prima con la laurea, poi con un dottorato, rilasciato nel 2017 dall’università di Roma “La Sapienza”. E adesso, sociologo “embedded”, con questo reportage dai vari gironi del mondo carcerario italiano […] Alessandro Limaccio, è siciliano, classe 1971, quattro ergastoli per cinque omicidi. A scanso di equivoci, la sua non è una edificante vicenda di riscatto o di riabilitazione attraverso lo studio. Lui non deve restituire niente alla società. È la società che deve restituire tutto a lui: l’onore e venticinque anni di vita, che gli sono stati tolti in nome del popolo italiano. Ma siccome sulle sue condanne c’è scritto “fine pena mai”, il debito nei confronti del sociologo detenuto diventa più pesante ogni giorno che passa”. Non so se Alessandro riuscirà a passare all’incasso e se il debito contratto verrà un giorno saldato, ma - afferma Bolognetti - so che sfogliando le pagine di questo libro, leggendo la prefazione di Enrico e l’introduzione di Mauro Palma, Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà, inevitabilmente penso al monito che Marco Pannella rivolgeva alle istituzioni di questa nostra sgangherata Repubblica: “Interrompere la flagranza di reato contro i diritti umani e la Costituzione”. Scrive ancora Rufi: “La via crucis del Sociologo detenuto non è fatta solo di telefonate anonime, ma anche di “voci confidenziali”, oltre che di pentiti e pseudo pentiti. Si badi bene: i collaboratori protagonisti dei processi di Alessandro Limaccio non si autoaccusano mai, non sono mai presenti sui luoghi dei delitti, ma riferiscono voci e accuse raccolte qua e là nella migliore delle ipotesi. È una voce confidenziale, ad esempio, quella secondo cui il killer - un certo Sandro diventato attraverso una serie di progressivi aggiustamenti di tiro Alessandro Limaccio - era stato visto salire in macchina con un boss mafioso poco prima che quest’ultimo venisse assassinato. Con una dinamica ufficiale del delitto così rocambolesca, con tanto di salto dalla macchina in corsa un attimo prima che finisse in un dirupo e un attimo dopo che la vittima ricevesse un colpo di pistola alla tempia, da lasciare perplesso anche uno stuntman”. “Dopo più di cinque lustri, il Sociologo embedded in quella periferia del mondo che è l’universo carcerario italiano - aggiunge il giornalista di Radio Radicale - ha bruciato ogni record di durata di un’inchiesta etnografica sul campo, tutta vissuta in comunione con la sua gente, come facevano certi missionari-antropologi dei secoli scorsi. È ora di chiudere il capitolo, perché c’è un tempo per ogni cosa. Con questo libro, offerto alla comunità scientifica, agli addetti ai lavori, ai suoi compagni e alla società civile, missione compiuta”. Chiudo questa mia breve e probabilmente inadeguata (ma no! - n.d.r.) recensione citando l’autore, Alessandro Limaccio: “Dal 1995 vivo rinchiuso in carcere da innocente, mescolando la mia vita a quella dei detenuti colpevoli, in mezzo a personaggi e situazioni dove norma e devianza coabitano dentro un crogiolo di esistenze bruciate, frutto e testimonianza di una società popolare sempre più contaminata dall’illegalità. Una realtà estremamente complessa come il carcere non può essere conosciuta se non guardandola dall’interno di una cella, dal lato oscuro dove diventano leggibili le sue regole occulte e si fa permeabile il mistero della sua vita. Quindi a parlare sono i detenuti, che con semplicità e senza giri di parole raccontano la loro esperienza di vita, descrivendo la realtà del carcere in cui vivono e che conoscono bene […] Mi piacerebbe che sulle mura d’ingresso di tutte le carceri italiane vi fosse posta la scritta “Il lavoro rende liberi”. Niente a che vedere con il macabro e beffardo “Arbeit macht frei” che campeggiava all’ingresso dei campi di sterminio nazisti, ma promessa di riscatto, concreta possibilità di imparare un mestiere per potersi guadagnare la vita in modo onesto e dignitoso sia in carcere che fuori, e rendersi così liberi dal giogo della devianza”. Sì, “questa storia etnografica”, se volete questa storia di resistenza, resilienza e azione, questa storia che racconta una vita che non si lascia spezzare e travolgere, merita - conclude Bolognetti - di essere letta, divulgata, fatta conoscere. È tempo di Quaresima ed io non posso che tornare una volta di più ad esprimere l’auspicio che la Pasqua che si avvicina diventi anche Pasqua di resurrezione di diritti umani violati e di rispetto di quella Costituzione scritta sostituita, in questo settantennio di metamorfosi del male e di banalità del male, dalla Costituzione materiale. Gli uomini che non vogliono perdere di Dacia Maraini Corriere della Sera, 2 marzo 2021 Clara Ceccarelli ha pagato il suo funerale mentre stava benissimo, cercando anche di trovare una persona che dopo la sua morte, si occupasse a pagamento, del vecchio padre e del figlio minorato. Subiva i maltrattamenti di un compagno violento. Ma perché non denunciarlo? Capisco che oggi sia difficile parlare d’altro, ma devo sollecitare l’attenzione di chi legge sulla pericolosa china che sta prendendo la violenza contro le donne. Per tutte vorrei soffermarmi sul caso di Clara Ceccarelli che ha pagato il suo funerale mentre stava benissimo, cercando anche di trovare una persona che dopo la sua morte, si occupasse a pagamento, del vecchio padre e del figlio minorato. Subiva i maltrattamenti di un compagno violento. Ma perché non denunciarlo? Possiamo immaginare che Clara avesse paura di peggiorare la situazione. Il compagno, Renato Scapusi, non tollerava di essere abbandonato e la intimidiva con minacce continue. Ma, oltre la paura, Clara probabilmente non lo denunciava sapendo che spesso le donne non vengono credute. E se lei mente? Se si tratta di mania di persecuzione? Non sarà che lei lo vuole mettere in cattiva luce? Clara è stata uccisa con trenta furibonde coltellate che le hanno trapassato il fegato, il cuore, la gola, i polmoni. L’uomo prima è scappato, poi si è presentato alla polizia. “Voleva lasciarmi e io non lo sopportavo”. Il solito argomento. Come se un abbandono giustificasse quella morte orrenda. Ma se le storie si ripetono sempre uguali, non dovremmo prevedere il disastro e aiutare queste donne prima che perdano la vita? Succede così: i due si sono amati, magari hanno anche dei figli insieme. Ma ad un certo punto lui comincia a essere geloso della autonomia di lei e a maltrattarla. Lei reagisce, lui aumenta la violenza verbale; lei minaccia di andarsene; lui inizia con le botte. Qualche volta (ma non quanto si vorrebbe) lei lo denuncia. In questo caso lui si tiene alla larga per un poco e poi ricomincia la persecuzione. Infine finge di pentirsi, le dà un appuntamento fuori casa e in quella occasione la uccide. Qualcuno si chiede perché, mentre nel paese diminuiscono gli omicidi, i femminicidi aumentano ogni anno. L’ho già scritto ma lo ripeto: a ogni conquista di autonomia femminile corrisponde una perdita di privilegio maschile. Quegli uomini, e sono la maggioranza, che dispongono di un minimo di equilibrio e saggezza, accettano i cambiamenti anche se ci perdono. Altri, i più deboli e impauriti, che identificano la virilità col possesso, non tollerano le nuove autonomie femminili e piuttosto che perdere il controllo e il dominio sulla donna che considerano propria, preferiscono ucciderla. Migranti. Salvini: “Con la Lega al governo occorre cambiare la strategia dei porti aperti” La Repubblica, 2 marzo 2021 Il leader della Lega è tornato sul suo cavallo di battaglia: “Quando ero al ministero dell’Interno c’erano stati 260 sbarchi di immigrati, ora nello stesso periodo ce ne sono stati quasi cinquemila: è chiaro che bisogna arginare questo fenomeno”. Incassata la sostituzione del commissario Arcuri, Matteo Salvini torna alla carica sull’altro suo cavallo di battaglia: gli sbarchi. “Come si è cambiata strategia sull’emergenza sanitaria e il piano dei vaccini, con la Lega al governo occorrerà cambiare la strategia anche su porti aperti e porti spalancati” ha detto il leader della Lega ospite di ‘Quarta Repubblica’ in onda su Rete 4. E ha aggiunto: “Il primo gennaio 2019 quando ero al ministero dell’Interno c’erano stati 260 sbarchi di immigrati, ora nello stesso periodo ci sono quasi 5000 sbarchi e 10 poliziotti positivi al Covid nel centro di Lampedusa. È chiaro che bisogna arginare” questo fenomeno. “Venerdì sarò a Catania e il 19 marzo sarò a Palermo” per le udienze dei processi nei suoi confronti in cui è imputato per sequestro di persona per non aver consentito lo sbarco di migranti ha spiegato il leader della Lega che ha indicato le altre sue priorità: “Sorteggio per il Csm”, poi “ci sono 5 milioni di processi che attendono di essere svolti, bisogna assumere cancellieri, stabilizzare i magistrati ordinari e decidere che chi indaga indaga e chi giudica giudica. Sarà questo il governo che farà la riforma? Difficile vista la composizione ma noi ci proveremo, così come ci proveremo sulla pace fiscale”. Salvini ha inoltre ribadito la necessità di sbloccare “i circa 700 cantieri fermi in tutta Italia”, aggiungendo un altro sblocco da fare: “quello degli sfratti per circa 4 milioni di proprietari che non si vedono pagare l’affitto da tempo e che continuano a pagano le tasse sulle case”. “Soldi per prendere i migranti”. Mare Jonio nel mirino dei pm di Alfredo Marsala Il Manifesto, 2 marzo 2021 Inchiesta della procura di Ragusa per lo sbarco dei naufraghi che si trovavano da un mese sul mercantile danese Etienne. L’accusa della Procura di Ragusa è gravissima: la nave italiana Mare Jonio della ong Mediterranea saving humans avrebbe preso a bordo migranti in cambio di denaro. Tanti soldi. A pagare sarebbe stato l’armatore della petroliera danese Maersk Etienne con lo scopo di “liberarsi” dei naufraghi che aveva soccorso e che teneva a bordo da 38 giorni perdendo centinaia di migliaia di euro perché Malta non concedeva il porto sicuro per l’approdo. Gli inquirenti sostengono di avere le prove documentali che dimostrerebbero lo “scambio”. Quattro le persone indagate per il ruolo che avevano nella nave Jonio rispetto ai fatti contestati dalla Procura: l’ex disobbediente Luca Casarini, l’ex assessore comunale di Venezia Beppe Caccia, Alessandro Metz e il comandante Pietro Marrone. Sono accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violazione delle norme del codice della navigazione. Ieri guardia di finanza, guardia costiera e polizia - coordinati dal procuratore Fabio D’Anna - hanno eseguito perquisizioni e sequestri nei confronti della società armatrice del rimorchiatore e dei quattro indagati: i blitz sono scattati a Trieste, Venezia, Palermo, Mazara del Vallo (Tp), Augusta (Sr), Bologna, Lapedona e Montedinove nelle Marche. Sequestrati smartphone e pc. Estranea all’inchiesta la ong. Che però non ci sta e reagisce in modo netto: “È un vero e proprio ‘teorema giudiziario’, in cui si ipotizza che le attività di soccorso e salvataggio siano preordinate allo scopo di lucro”. Per Mediterranea “la macchinazione ipotizzata è talmente surreale da rendere evidente quale sia il primo e vero obbiettivo di questa operazione: creare quella ‘macchina del fango’ che tante volte abbiamo visto in azione nel nostro Paese, dal caso di Mimmo Lucano alle inchieste di questi giorni contro chi pratica la solidarietà ai migranti che attraversano la rotta balcanica, e sparare ad alzo zero contro chi come noi non si rassegna al fatto che da inizio gennaio ad oggi siano già centinaia le donne, gli uomini e i bambini lasciati morire nel Mediterraneo, e si contino già a migliaia i catturati in mare e deportati nei campi di concentramento libici, finanziati con i soldi dell’Unione Europea e dell’Italia”. Al centro dell’inchiesta c’è lo sbarco di 27 migranti, avvenuto il 12 settembre del 2020 nel porto di Pozzallo, dalla Mare Jonio: il giorno prima la nave aveva trasbordato i naufraghi dalla Maersk Etienne. Subito dopo l’attracco scattarono i controlli di routine: gli investigatori analizzarono il diario di bordo della Mare Jonio da cui sarebbero emersi contatti, ritenuti sospetti, tra il rimorchiatore italiano e il cargo danese avvenuti nei giorni precedenti. Per la Procura, da indagini “corroborate da intercettazioni telefoniche, finanziarie e riscontri documentali”, è “emerso che il trasbordo dei migranti” sarebbe avvenuto “senza nessun raccordo con le autorità” maltesi e italiane e “apparentemente giustificato da una situazione emergenziale di natura sanitaria, ‘documentata’ da un report medico stilato dal team di soccorritori imbarcatosi illegittimamente sul rimorchiatore”. Il trasbordo, sostiene l’accusa, sarebbe stato “effettuato solo dopo la conclusione di un accordo di natura commerciale tra le società armatrici delle due navi”, con “la Mare Jonio che ha percepito un ingente somma quale corrispettivo per il servizio reso”. Per il procuratore la vicenda non riguarda la gestione delle ong nei soccorsi in mare, ma “soltanto un episodio in cui sono coinvolte due società commerciali”. Secondo Mediterranea con le perquisizioni gli inquirenti hanno cercato prove “perché in realtà l’accusa, nonostante migliaia di ore di intercettazioni telefoniche e ambientali, si fonda solo su congetture che si scioglieranno presto come neve al sole”. E ricorda che “fu definito la vergogna d’Europa quel disumano abbandono, il più lungo stand-off che si ricordi per dei naufraghi che in teoria, secondo ciò che impongono le convenzioni internazionali, avrebbero dovuto raggiungere tempestivamente un porto sicuro”. “Idra social shipping non ha mai fatto nulla di illegale e lo dimostrerà presto nelle sedi competenti - rilancia la Ong. E Mediterranea non si fermerà a causa di questo attacco, triste e prevedibile, e continuerà ad essere in mare, lì dove i crimini che vengono commessi e sono quelli di strage, tortura, stupri, sevizie”. Francia. Aumentano i detenuti in cella, in mille sono senza posto per dormire di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 2 marzo 2021 Il dramma del sovraffollamento nonostante il lockdown. In Francia è in aumento il numero di detenuti nelle carceri, provocando un sovraffollamento pari al 105% di occupazione dei posti disponibili, un dato in controtendenza rispetto ai mesi di calo durante il lockdown della scorsa primavera. Le scarcerazioni dello scorso anno, dovute a ragioni sanitarie e di semplice buon senso davanti alla pandemia di Covid 19 sembrano oggi in ricordo del passato, Con la macchina penale transalpina che è tornata a fabbricare nuovi detenuti e a riportare alla ribalta il drammatico tema del sovraffollamento carcerari. Secondo i dati diffusi ieri dal ministero della Giustizia di Parigi, nel mese di gennaio altre 1.129 persone sono state incarcerate, per un totale al 1 febbraio di 76.999 individui agli arresti, di cui 13.197 sotto sorveglianza elettronica o trattenuti in altre strutture detentive. Il tasso di occupazione delle 188 carceri su scala nazionale, per un totale di 60.7883 posti, è quindi passato al 105%, contro 103,4% registrato il mese precedente. Di conseguenza dallo scorso primo febbraio almeno 740 detenuti sono stati costretti a dormire su un materasso per terra, letteralmente privi di un posto letto. Tra i dati più significativi riscontrati c’è la crescita del numero di donne arrestate e incarcerate - + 4% a gennaio - e di minori, in aumento del 2,2%. Nell’analizzare le statistiche ministeriali, i media d’Oltralpe hanno sottolineato il costante aumento della popolazione carcerale a partire da giugno 2020, dopo il calo significativo registrato durante il confinamento per la pandemia di Covid- 19, tra marzo e maggio. La diminuzione dei detenuti è stata la conseguenza di un’inflessione dei reati ma soprattutto delle misure di scarcerazione anticipata varate dal governo per evitare il propagarsi del virus in prigione. Il 16 marzo 2020, all’inizio del lockdown, c’erano 72.575 detenuti, passati a ‘ solì 59.463 due mesi dopo, la diminuzione più rapida e significativa degli ultimi decenni nel paese che conta il più alto numero di persone dietro le sbarre tra quelli dell’Unione europea. Medio Oriente. Omicidio Khashoggi, pressing su Biden: “Punire Bin Salman” di Paolo Mastrolilli La Stampa, 2 marzo 2021 L’ex compagna del giornalista e il Washington Post. “L’America non rinunci alla difesa dei propri valori”. “Non sono solo gli elettori americani che stanno guardando strettamente se Biden mantiene le sue promesse. Amici e nemici in tutto il mondo monitorano con attenzione le sue azioni, giudicando la forza delle sue convinzioni e calcolando le circostanze in cui la convenienza potrebbe spingerlo a rinunciare ai nostri valori e abbandonarli”. È il monito che Fred Ryan, editore del “Washington Post” per cui lavorava Jamal Khashoggi, ha lanciato al capo della Casa Bianca, chiarendo come la sua stessa credibilità sia già in gioco per il trattamento del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Perché “se altri tiranni del Medio Oriente, o altrove, vedranno Mohammed sfuggire a questo comportamento brutale senza conseguenze, non solo la sua mano verrà rafforzata, ma anche gli altri si sentiranno incoraggiati a fare altrettanto”. Governare è più complicato di fare campagna elettorale, e il nuovo presidente lo sta già toccando con mano. Mentre correva per la Casa Bianca, accusava Trump di aver barattato i valori della democrazia americana con l’appoggio di Riad. Ossia abbandono dell’accordo nucleare con l’Iran, e occhi chiusi sulle brutalità di MBS contro gli oppositori, in cambio del sostegno al ritiro americano dal Medio Oriente, e al piano di pace tra israeliani e palestinesi scritto dal genero Jared Kushner. Biden invece prometteva di rimettere i diritti umani al centro della politica estera, e quindi di fare i conti con l’Arabia, che definiva un “pariah”. Ora che è presidente, ha mantenuto la promessa di pubblicare il rapporto dell’intelligence americana che accusa il principe ereditario di aver ordinato il barbaro omicidio di Khashoggi a Istanbul, ma ha evitato di punirlo. Perché vuole “ricalibrare” il rapporto con Riad, parlando col re Salman invece del figlio, ma non può permettersi di perdere un alleato così importante, come aveva quasi fatto Obama. Gli Usa hanno bisogno dei sauditi, non solo per le forniture di energia, ma soprattutto per gli equilibri regionali. Stabilizzare il Medio Oriente, tenere a bada i terroristi, favorire la ripresa del dialogo tra israeliani e palestinesi per tornare alla soluzione dei due stati, sarebbe impossibile senza di loro. Così come maneggiare la Siria dopo la sostanziale vittoria di Assad nella guerra civile, e soprattutto l’Iran. È vero infatti che Washington vuole riaprire il discorso sull’accordo nucleare, ma Teheran frena, e per avere successo Biden ha bisogno di inserire nel negoziato altri punti come le ingerenze degli ayatollah nella regione o il programma missilistico. Il presidente è rimasto colpito dalle accuse di ipocrisia, lanciate ora anche dalla compagna di Khashoggi Hatice Cengiz, col messaggio in cui ha chiesto agli Usa di punire MBS. Quindi aveva annunciato nuove iniziative per ieri, ma la Casa Bianca ha chiarito che si riferiva solo ai dettagli per l’applicazione delle misure già decise dal dipartimento di Stato. Tre nomi, nel frattempo, sono stati misteriosamente cancellati dal rapporto dell’intelligence Usa. Ora Biden dovrà trovare il modo di far convivere principi e realismo. Bielorussia. Quelle donne di Minsk che non si fermano davanti alla prigione di Jacopo Iacoboni La Stampa, 2 marzo 2021 Violenze e arresti contro le oppositrici bielorusse. I detenuti politici sono 258. Ma la protesta va avanti. C’è una cosa impressionante che va molto oltre la “rivolta delle donne”, in Bielorussia. Ha a che fare con un numero, quante leader donne siano in carcere a Misk, e un mood: quello che queste donne stanno insegnando, in termini di modalità di lotta contro Lukashenko. Completamente un altro angolo visuale, rispetto all’autocrate, vecchio, maschio, triste, fotografato a Sochi assieme a Vladimir Putin, come due tiranni destinati al tramonto. Nel giorno in cui l’amministrazione Biden comunica alla Cnn di esser pronta a emettere sanzioni mirate alla Russia per l’avvelenamento di Alexej Navalny (saranno decise in coordinamento con l’Ue), La Stampa è in grado di raccontare un pezzo della rivolta in Bielorussia attraverso le lettere dal carcere di un gruppo di giornaliste che stanno lottando contro il regime. I detenuti politici (reporter e attivisti) salgono di ora in ora: sono arrivati a 258. “Ogni giorno mi dedico 4-5 ore alle lettere, scrivo, le lettere provengono da tutto il Paese. Faccio l’esercizio di leggere i nostri stessi lettori, i veri eroi delle pubblicazioni. Ricevo lettere non solo dalla Bielorussia, dalla Svezia, dall’America. In generale, non preoccuparti. Con questo sostegno, andrà tutto bene”. Chi scrive è Katerina Borisevich, la reporter investigativa di Tut.by arrestata il 19 novembre a Minsk per aver fatto il suo lavoro: non credere alle verità di regime. La accusano di aver smascherato le bugie di Lukashenko sulla morte di Roman Bondarenko, un giovane manifestante di Minsk, 31 anni, morto in ospedale dopo esser stato picchiato a sangue da sconosciuti a volto coperto, probabilmente uomini dei servizi segreti oppure “tikhar”, para-milizie civili che appoggiano la polizia del regime. Bondarenko era intervenuto per difendere alcuni manifestanti dagli uomini dei servizi, che volevano rimuovere dei simboli della protesta. Il regime, alla sua morte, disse: era ubriaco, quando è morto. Borisevich dimostrò, con i referti medici e testimonianze, che era falso: non c’era traccia di alcol nel suo sangue. Era stato picchiato e assassinato senza aver fatto nulla di male. In questi giorni è in corso il processo: Kateryna Borisevich è in galera, come Katerina Bakhvalova e Daria Chultsova, condannate a due anni per aver filmato le proteste. In carcere leggono Dovlatov, il maestro di ogni resistenza post-sovietica. Si fanno brevi passeggiate come in un kindergarten. Ci si trucca per sopravvivere. Si sogna Roma (l’Italia è amatissima). Si dipinge. Si preserva l’essere donne contro un potere maschio e stolto. “Durante le pulizie - scrive Borisevich - è venuto fuori spontaneamente una specie di piano. Abbiamo discusso che avremmo potuto lanciare un giornale locale, abbozzato l’indirizzo del mittente di volodarka.net. Continuate a scriverci”. L’indirizzo è quello della prigione del Kgb dove sono tenute. C’è un manuale di resistenza ideologica e pratica: “Ora posso essere presa in qualsiasi campagna di protesta, sul serio. Posso insegnare a tagliare una pagnotta e il burro con un filo, a fare una cipolla “delicata” da una cipolla “aggressiva”, ad asciugare le cose con una bottiglia. Non una donna, ma una scoperta”. Il movimento bielorusso chiede a tutta Europa di scrivere a queste detenute, attraverso “Viasna”. L’Europa può scegliere se esserci, o disertare. Bielorussia. “Scrivo, leggo, imparo e piango poco: il mondo è con me e tutto andrà bene” di Katerina Borisevich** La Stampa, 2 marzo 2021 Il mio viaggio di lavoro (in prigione) è nobile, ovviamente. Davvero inaspettato, un percorso così ripido, ma andiamo avanti. L’importante è rimanere realistici. E io lo sono. Contatto con la realtà. Ogni giorno dedico 4-5 ore alle lettere. Scrivo e, se arriva qualcosa, è una domanda. Le lettere provengono da tutto il Paese. E non solo dalla Bielorussia, ma anche dalla Svezia, dall’America. Leggo i miei stessi lettori, i veri eroi delle pubblicazioni. Con questo sostegno - penso - andrà tutto bene. Le immagini intorno stanno cambiando, le persone vicine si spera di no. Sono sicura che i ragazzi sono fantastici, e presto ci riabbracceremo. Oggi, durante le pulizie, a me e alle altre è venuto in mente un piano. Abbiamo discusso della possibilità di lanciare un giornale locale, abbozzato l’indirizzo del mittente di volodarka.net (indirizzo della prigione del Kgb). Ora posso essere presa in qualsiasi campagna di attivismo. Insegnerò a tagliare una pagnotta con un filo, a fare una cipolla “delicata” da una cipolla “aggressiva”, ad asciugare gli oggetti con una bottiglia. Non sono una donna, ma una scoperta. Piango al massimo venti minuti. Per il resto sorrido. Non preoccupatevi per me, non ho iniziato a fumare, ma faccio sport. Oggi è stata una giornata felice: abbiamo camminato per due ore. Durante la passeggiata puoi stare in piedi, ballare e fare esercizio. Sembra come in kindergarten. La vita è movimento. Finalmente comincio a mangiare. Ho apprezzato la zuppa di cavolo. Volevo correre a Roma. Cosa mi ha fermato? Ora immagino con la testa. Sicuramente nella mia città preferita la mattina inizierei con la colazione al bar. In Italia c’è sempre un’atmosfera di rumore, musica ad alto volume, caffettiere che sibilano, gente che grida. Supero la folla al bar e mi butto sulla vetrina dei dolci. Bene, cosa ordiniamo? Cappuccino, succo d’arancia o un piatto di croissant? Mi siedo a un tavolino per strada, indosso gli occhiali da sole e la “dolce vita” ha inizio. Il pubblico in cella è diverso, alcune detenute leggono Cechov e Dovlatov, altre “Schiavo della passione”. Ma leggono lo stesso! In questo momento c’è un silenzio totale: tutte scrivono lettere, leggono, disegnano, risolvono problemi. Ma poi inizierà un tale casino che ogni pagina andrà riletta dieci volte. Qualcuno ha cercato di citare i testi di “Schiavo della Passione”, ma abbiamo protestato. *Giornalista bielorussa Libia. Il conflitto senza fine fra bande armate e la scoperta di fosse comuni a Tarhouna di Sara Creta La Repubblica, 2 marzo 2021 I volti del caos libico. La città governata dal clan dei Kanyat, una sorta di impresa familiare del terrore, che obbedisce a dinamiche locali responsabile di crimini brutali. Sono passati più di otto mesi da quando le forze affiliate al Governo di Accordo Nazionale (Gna) di Tripoli hanno riconquistato la città di Tarhouna, ultima roccaforte del generale Khalifa Haftar, capo militare e politico della Cirenaica. Centinaia di corpi sono stati trovati accatastati nell’obitorio dell’ospedale locale, compresi quelli di donne e bambini. Le fosse comuni trovate a Tarhouna negli ultimi mesi illustrano alcune delle dinamiche meno discusse della Libia ed incarnano una verità importante su questi anni di conflitto in Libia. Base strategica di Haftar. Diventata una base strategica per le forze fedeli al generale Khalifa Haftar, comandante del sedicente Esercito nazionale libico, per anni, Tarhouna é stata governata dal clan dei Kanyat. Una sorta di impresa familiare del terrore, che obbedisce a dinamiche locali ed é oggi responsabile di una serie di crimini brutali tra cui torture, uccisioni e sparizioni forzate. Circa 16.000 persone sono fuggite da Tarhouna, per cercare rifugio nella capitale, e dai suoi dintorni. I racconti dei familiari degli scomparsi sono inquietanti. Nell’ultimo rapporto di Human Rights Watch, si parla di almeno 338 residenti dati per dispersi dalle autorità locali in seguito al ritiro delle forze di Haftar. “Le persone sono state sepolte vive. Intere famiglie sono state eliminate “, racconta Tareq Ibrahim Mohamed Dhaw Al-Amri, un padre di 48 anni che è stato detenuto per oltre sette mesi in una cella angusta nella prigione di al-Daam, la sede della Direzione generale della sicurezza centrale, un luogo controllato dalla milizia Al-Kanyat, oggi abbandonato. Sono state trovate fosse comuni anche nella prigione di Al-Daam. “Di tanto in tanto prendevano le persone dalle celle e le uccidevano. Sentivamo il suono degli spari”, racconta Tareq Ibrahim. Centanaia i residenti scomparsi o rapiti. Sono 139 i corpi ritrovati in 27 fosse comuni secondo Kamal Al-Siwi, capo dell’Autorità pubblica per la ricerca e l’identificazione delle persone scomparse. Ma i numeri non raccontano la vera storia di ciò che è accaduto dentro e fuori la città, dove i fratelli del clan dei Kanyat sono accusati di aver riservato un trattamento crudele a coloro che opponevano al loro governo. I residenti di Tarhouna raccontano come parenti e familiari siano stati rapiti e uccisi, “presi di mira perché si opponevano alle logiche infernali del clan dei Kanyat, o perché la loro famiglia aveva sostenuto la rivoluzione del 2011”, dice Ahmed. Nessun sostegno. Mohammed Ali al-Kosher, è stato incaricato di gestire un Consiglio comunale temporaneo. “Senza alcun sostegno finanziario dal bilancio di emergenza dello Stato e le mie richieste di sopporto del consiglio direttivo rimangono senza risposta”, ribadisce. E mentre gli esperti forensi continuano a recuperare i resti umani, i parenti delle vittime forniscono il Dna per l’identificazione, ma l’Autorità pubblica per la ricerca e l’identificazione delle persone scomparse fatica a trovare i fondi per realizzare le analisi delle tracce biologiche nel laboratorio di Tripoli. Dei 139 corpi ritrovati a Tarhouna, solo 23 sono stati identificati, grazie ai vestiti o altri segni sui corpi delle vittime. Verità e giustizia non possono aspettare. I combattimenti sono in gran parte terminati, ma la violenza a Tarhouna ha costretto alla fuga almeno 16mila persone, secondo le stime missione Onu in Libia. “Ho bisogno di trovare il corpo di mio marito”, ha detto Zainab al-Ganouti, una madre di 35 anni di 6 bambini che vive in una casa improvvisata a Tarhouna. “È stato rapito davanti a casa nostra. Mia figlia aveva solo 4 mesi”, racconta. “I miei figli mi chiedono ogni giorno se sono orfani. Cosa dovrei rispondere loro?”, Ha aggiunto. Il conflitto armato, le spaccature politiche e la divisione del paese, hanno impedito i processi di costruzione delle istituzioni. L’impunità di massa. Secondo gli esperti, cercare di voltare pagina senza maggiori sforzi per riconciliare con il passato è un errore. Ogni processo futuro, “deve includere un impegno chiaro per cercare i responsabili di questi gravi crimini; il mancato rispetto della giustizia ostacolerà le prospettive di una pace duratura”, conclude Hanan Salah, ricercatrice di Human Rights Watch. L’effetto è devastante sui civili. “Le persone accusate di crimini di guerra dovrebbero essere sospese da posizioni di autorità in attesa dell’esito di indagini indipendenti ed efficaci”, ha sottolineato Eltahawy di Amnesty International. Egitto. Altri 45 giorni in cella per Zaki. Il Cairo intende inasprire la legge anti-terrorismo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 2 marzo 2021 Lo studente dell’Università di Bologna si è visto prolungare ancora la detenzione cautelare. La protesta in Italia. Intanto il regime pensa a nuove modifiche della famigerata normativa che ha permesso l’incarcerazione di migliaia di prigionieri politici: nel mirino ci sono le sedi e le case di ong, attivisti e oppositori. “La detenzione di Patrick si rinnova per altri 45 giorni e la visita di sua madre a lui oggi è stata agrodolce”. Così la pagina Facebook “Patrick Libero” ha comunicato l’esito dell’udienza di domenica per il giovane studente egiziano dell’Università di Bologna. Zaki è ormai detenuto in custodia cautelare da 13 mesi con le accuse di diffusione di notizie false, istigazione alla protesta e propaganda sovversiva. Non si è ancora andati a processo. Ieri Zaki ha ricevuto la visita della madre nel carcere di Tora (dove sono detenuti migliaia di prigionieri politici in condizioni disumane). Le ha chiesto delle condizioni del padre, ricoverato per un peggioramento delle sue condizioni di salute, una situazione che i suoi avvocati avevano presentato alla corte sperando nella clemenza. Alla madre Patrick ha raccontato di non ricevere mai dalle autorità carcerarie notizie sull’esito delle udienze: “Sa solo che la sua detenzione si è rinnovata quando arrivano a prendere quelli che erano stati rilasciati senza bussare alla sua cella”, aggiungono gli attivisti. Immediata la reazione in Italia: da Amnesty che parla di accanimento crudele e teme che Zaki possa restare detenuto un altro anno (in Egitto la custodia cautelare ha un limite di 24 mesi, sebbene sia spesso violato) a Leu e il Pd con Erasmo Palazzotto che accusa il Cairo di non mostrare “nessun barlume di umanità”, Nicola Fratoianni che ribadisce la necessità di interrompere i rapporti con l’Egitto e Filippo Sensi che chiede di andare avanti con la mozione che propone la cittadinanza italiana per Patrick. Intanto nell’Egitto di al-Sisi si starebbe lavorando a emendamenti alla famigerata legge anti-terrorismo, tra le prime volute dall’ex generale dopo il golpe del 2013 e che ha permesso al regime di impedire di fatto le proteste e gli scioperi, di chiudere giornali e siti web, di congelare i beni delle ong e di incarcerare migliaia di attivisti, oppositori, giornalisti. Stavolta nel mirino ci sarebbero i contratti di affitto e di proprietà che potrebbero finire sotto il controllo dei servizi segreti: i proprietari avrebbero l’obbligo di comunicare alla polizia informazioni sugli affittuari mentre alla Procura generale verrebbe riconosciuto il potere di confiscare proprietà immobiliari se dovesse ritenere che vengono usate a fini terroristici. Una mossa che secondo i critici della legge darebbe ancora maggiore spazio al governo per prendere di mira le sedi di ong, giornali o partiti o le abitazioni di attivisti e prigionieri politici. Siria, “Urgente il rimpatrio e il reinserimento sicuri dei bambini nel campo di al-Hol” La Repubblica, 2 marzo 2021 Il richiamo dell’Unicef. Dopo 10 anni di guerra civile (e non solo) sono quasi 12 milioni le persone che sopravvivono con l’assistenza, tra queste più 5 milioni sono bambini. La guerra civile (che ormai ha dimensione regionale, con la presenza di forze armate straniere) in Siria si protrae da 10 anni ed è tra quelle del nostro tempo ad aver creato una delle più gravi e disastrose crisi umanitarie. Il rigido embargo economico imposto dell’Unione Europea, che impone alla popolazione civile di fare la fila per il pane, s’aggiunge dunque la sciagura prolungata della guerra. Sono quasi 12 milioni le persone che hanno urgente bisogno di assistenza, tra queste più 5 milioni sono bambini, secondo stime recenti di diverse organizzazioni umanitarie che operano sul terreno. Lo stigma dei bambini “figli” dell’IS. Tra gli ultimi episodi tragici prodotti da questa situazione c’è quello che ha provocato la morte di 3 bambini e il ferimento di altri 15 in un incendio scoppiato nel campo affollato di al-Hol, città nel governatorato di al-Hasakah orientale, nel Nord-Est della Siria, dove vivono 22mila ragazzini di 60 nazionalità. Lo ricorda il direttore regionale dell’Unicef, Ted Chaibanper, responsabile dell’organizzazione umanitaria per il Medio Oriente e il Nord Africa. Nel campo di Al-Hol e dintorni, quei bambini non hanno più le forze per andare avanti e si trovano ad affrontare non solo la stigmatizzazione soprattutto per il fatto che molti di loro sono figli di appartenenti al cosiddetto stato islamico (IS). Sopravvivono in condizioni molto difficili, dove i servizi di base sono scarsi o in alcuni casi non disponibili, che rappresentano con la guerra, l’occupazione della Turchia, la pandemia e le strumentalizzazioni geopolitiche sulla pelle di milioni di civili i fardelli da sopportare di chi ha già subito un conflitto che dura ininterrottamente dal 15 marzo del 2011. Lo status dei “senza patria”. Ancora difficili sono gli ingressi degli aiuti umanitari in tutto il Nord Est siiriano. E questo sta compromettendo l’arrivo di medicinali e cibo necessari a circa 3 milioni di persone. In quell’area Un Ponte Per è presente dal 2015 e s’impegna ogni giorno per portare cure e medicine a tutte e a tutti. “La detenzione dei bambini nel campo di al-Hol - si legge in una nota diffusa da Unicef - è una misura di ultima istanza e dovrebbe durare il più breve tempo possibile. I bambini non dovrebbero essere detenuti solo per sospetti legami familiari con gruppi armati o per l’appartenenza di membri della famiglia a gruppi armati”. Le autorità locali nel Nord-Est siriano e gli Stati membri dovrebbero fare tutto il possibile per riportare i bambini a casa loro i siriani rinchiusi nel campo e il rimpatrio dei bambini stranieri nei loro Paesi di origine in modo sicuro e dignitoso. Il lavoro di Unicef. “Chiediamo - è l’appello di Unicef -a tutti gli Stati membri di fornire ai bambini - loro cittadini o nati da loro cittadini - la documentazione civile per prevenire l’apolidia. Questo è in linea con il superiore interesse del bambino e in conformità con gli standard internazionali”. Nel campo di Al-Hol, l’Unicef continua a fornire assistenza umanitaria ai bambini e alle famiglie. Chiediamo a tutte le parti in conflitto in Siria di permettere l’accesso umanitario senza ostacoli per fornire assistenza e cure ai bambini e alle famiglie, compresi coloro in luoghi di detenzione”.