Un’altra vita possibile. L’omicidio, il carcere, la rinascita di Luca Mantiglioni La Nazione, 29 marzo 2021 Nel 2011 Matteo uccise un militare, oggi ha due lauree e fa l’educatore di comunità mentre sconta la pena. Il 25 aprile di dieci anni si macchiò di un delitto che avrebbe potuto sancire l’addio alla vita sociale. Oggi, pur ancora nel pieno del suo percorso di recupero, è un punto di riferimento per i ragazzi difficili che, come lui, sono finiti nelle tenebre. Matteo Gorelli oggi di anni ne ha 29 e nel 2011 era poco più che maggiorenne quando aggredì i carabinieri che lo fermarono per un controllo tra Pitigliano e Sorano mentre insieme a tre amici minorenni stava andando ad un rave party. Antonio Santarelli morì l’11 maggio, il collega Domenico Marino perse un occhio. Gorelli fu condannato all’ergastolo e poi la pena è stata ridotta a 20 anni. In carcere - a Bollate - si è laureato (prima in Pedagogia, poi in Economia) e adesso è diventato educatore nella comunità Kayròs di Milano guidata da don Claudio Burgio. Segue minorenni complicati, già passati nelle aule del tribunale, e ha un progetto che si chiama “Atacama”, come il deserto cileno più arido del mondo. Il percorso di rieducazione Matteo lo ha iniziato grazie a sua madre, Irene Sisi, e a Claudia Francardi, la vedova di Santarelli. Hanno lavorato insieme perché da quella tragedia potesse nascere una speranza. “Conosco il progetto di Matteo, anche se questa è una cosa alla quale io non partecipo direttamente - dice Claudia Francardi. Credo però che questo sia l’emblema di come dovrebbe essere la giustizia: riparativa. A chi è in carcere devi dare anche la speranza e la possibilità di capire gli errori commessi per non commetterli più. Matteo adesso fa anche questo: sa cosa provano i ragazzi che segue e loro sanno che lui può capirli, perché era come loro”. Con la madre di Matteo porta avanti anche lei progetti sociali ma nessuna delle due ha mai avuto atteggiamenti troppo protettivi: “Con Irene - dice - non diciamo mai che non condanniamo ciò che ha fatto Matteo, perché ha sbagliato e ha commesso un reato gravissimo. Però diciamo che indietro non è possibile tornare e che allora è giusto provare a fare qualcosa perché il futuro sia migliore. Questo diciamo quando facciamo incontri nelle scuole o nelle carceri”. Magistrati, braccio di ferro col governo sui vaccini di Conchita Sannino La Repubblica, 29 marzo 2021 Dopo la protesta dell’Anm, la rassicurazione sullo stato di emergenza. Ma del resto per ora non si parla. Un braccio di ferro che ruota intorno al funzionamento della giustizia ai tempi del Covid. Prime scintille tra magistrati e governo. Prima il drastico appello dell’Associazione nazionale magistrati, per la quale suscita “disagio e sconcerto” la decisione di eliminare il comparto di tutti gli operatori dei tribunali “dalle categorie cui offrire il vaccino in via prioritaria”: le toghe rivolgono quindi un invito a tutti i dirigenti degli uffici affinché, “senza adeguate tutele sanitarie” e allo scadere delle regole per il processo al tempo della pandemia, vada “limitata tutta l’attività giudiziaria e sospesa quella non urgente”. Poi, nella tarda serata di ieri, la prima rassicurazione da parte dell’esecutivo di Mario Draghi: nel decreto Covid che arriva domani, martedì 30, sul tavolo del Consiglio dei ministri, ci sarà anche la proroga fino al 31 luglio delle normative d’emergenza che riguardano i processi. Nessuna corsia già definita, invece, per la profilassi. È un aut-aut, e insieme un grido d’allarme, quello che lancia l’Anm guidata da Giuseppe Santalucia, in un documento (che era nell’aria da settimane) inviato ai vertici degli uffici. Una mossa destinata a far discutere nel Paese della giustizia-lumaca, e degli arretrati già lievitati dopo il primo lockdown, un anno fa. E che riceve subito l’assist del sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto. Ma già la Guardasigilli Marta Cartabia aveva ascoltato i vertici della giunta Anm, nei giorni scorsi, e si era fatta interprete del disagio mostrato dalle toghe a nome di tutti. Ieri, però, forse in assenza di annunci formali e rassicurazioni ad ampio spettro anche sui tempi delle vaccinazioni, ecco l’“avviso” nero su bianco: adottato all’unanimità, assicurano dalla giunta distrettuale. “Il nuovo Piano strategico vaccinale, modificando le linee guida approvate dal Parlamento nel dicembre 2020, non prevede più tra i gruppi target di popolazione cui offrire il vaccino in via prioritaria, i lavoratori del comparto giustizia”, è una delle premesse del documento. Secondo il sindacato delle toghe, il “governo considera il servizio giustizia con carattere di minore priorità rispetto ad altri servizi essenziali già sottoposti a vaccinazione, tanto da non ritenere doveroso rafforzare le condizioni che ne consentano la prosecuzione senza l’esposizione a pericolo per gli operatori”. Una decisione, prosegue la nota, che “oltre a destare disagio e sconcerto per la totale sottovalutazione dell’essenziale ed improcrastinabile servizio giustizia - si legge ancora - appare in assoluta antitesi con gli obiettivi di riduzione dei tempi dei processi imposti dall’Unione Europea e richiamati dalla ministra Cartabia nelle linee programmatiche esposte recentemente al Parlamento. Questo perché - argomenta l’Anm - “l’esclusione del comparto giustizia dalla programmazione vaccinale, specie in un momento di grave recrudescenza dell’emergenza pandemica, imporrà fin da subito il sensibile rallentamento di tutte le attività giudiziarie che devono essere necessariamente svolte in presenza, donde l’inevitabile allungamento dei tempi di definizione dei processi”. Le toghe rivolgono così un appello ai dirigenti degli uffici e chiedono “con la sollecitudine che la gravità del momento richiede”, ad “adottare energiche misure organizzative al fine di rallentare immediatamente tutte le attività”, senza escludere, nei casi estremi, “anche la sospensione dell’attività non urgente”. La drastica misura si riterrebbe necessaria nel caso in cui “dovessero inspiegabilmente mancare interventi normativi, che l’elevato numero di contagi e di vittime tra gli operatori di giustizia impongono”. Una mossa che rischia di passare come l’ennesima autodifesa corporativa? “Qui non c’entrano gli interessi della presunta casta - spiega a Repubblica Lilli Arbore, giudice a Trani e componente della giunta Anm - Noi serviamo le istituzioni e rispettiamo la scelta della vaccinazione per fasce di età. Però non si può esporre la collettività al rischio che gli uffici si trasformino in focolai diffusi”. Proprio domenica, per quattro ore, la “piazza coperta” del Tribunale di Napoli si è trasformata in camera ardente per l’ultimo saluto al procuratore della Distrettuale antimafia Luigi Frunzio: 62 anni, vicario del procuratore Gianni Melillo, Frunzio, che non soffriva di altre patologie, è stato stroncato dal Covid dopo tre mesi di estenuante lotta. “Una perdita grave che si aggiunge ad altre, è durissimo il bilancio. Ora c’è bisogno di una posizione netta del governo”, aggiunge Arbore. E Paola Cervo, giudice a Napoli, del Comitato direttivo Anm: “I magistrati non si sono mai sottratti. Vogliamo solo continuare a svolgere il nostro lavoro in sicurezza con avvocati, cancellieri e tutti i lavoratori”. Preoccupazioni che, per il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, meritano “un urgente ed utile approfondimento, che mi impegno a sollecitare. Affinché l’emergenza pandemica, che già si è trasformata in emergenza economica, non diventi anche una catastrofe per l’amministrazione della giustizia”. La Domenica delle Palme si chiude però con una parziale prova di distensione. A sera inoltrata, fonti di via Arenula decidono di rassicurare, chiudendo varchi alla polemica. Annunciano che nel decreto Covid saranno estese tutte le tutele già previste fino al prossimo 31 luglio. Ma nessuna parola sui vaccini. Anzi, arriva la precisazione che la ministra Cartabia si era già fatta interprete delle richieste avanzate dalle toghe a tutela di tutto il comparto e aveva già confermato che sarebbe arrivata la proroga della normativa d’emergenza. Vaccini, l’Anm punta i piedi: “Da adesso si rallenti l’attività giudiziaria” di Davide Varì Il Dubbio, 29 marzo 2021 Magistrati fuori dal piano vaccinale: forse “il Governo considera il servizio giustizia con carattere di minore priorità rispetto ad altri servizi essenziali”, scrive l’Anm. Un invito ai dirigenti degli uffici giudiziari, “con la sollecitudine che la gravità del momento richiede”, ad “adottare, a tutela della salute, energiche misure organizzative al fine di rallentare immediatamente tutte le attività dei rispettivi uffici, senza escludere, nei casi più estremi, anche la sospensione dell’attività giudiziaria non urgente”. È quello rivolto dalla Giunta dell’Associazione nazionale magistrati, “ove dovessero inspiegabilmente mancare interventi normativi, che l’elevato e prevedibile numero di contagi e di vittime tra gli operatori di giustizia impongono, volti alla limitazione dell’attività giudiziaria sull’intero territorio nazionale”. Nel documento diffuso oggi, il sindacato delle toghe sottolinea che “è notizia di questi giorni che il Governo prorogherà le misure più rigide di contenimento del rischio del contagio, mantenendo la chiusura degli esercizi commerciali sulla quasi totalità del territorio nazionale e la vigenza di forti restrizioni alla libertà di circolazione dei cittadini. L’attuale situazione epidemica - rilevano i magistrati - non differisce molto da quella di un anno fa ed è semmai aggravata dal fatto che la diffusione del virus ed il livello di saturazione degli ospedali colpiscono oggi drammaticamente tutto il territorio italiano. Tuttavia, mentre un anno fa era stata disposta la temporanea sospensione dell’attività giudiziaria (ad eccezione di poche tipologie di procedimenti urgenti), attualmente negli uffici giudiziari di tutta Italia si continua a lavorare con le stesse modalità e con gli stessi ritmi del periodo antecedente la pandemia, con l’unico precario e insoddisfacente meccanismo di cautela costituito dalla disciplina emergenziale, che peraltro, seppure limitata ad alcune attività processuali e sostanzialmente insufficiente soprattutto per il settore penale, non risulta neppure prorogata benché ne sia prossima la scadenza”. Inoltre, osservano ancora i vertici dell’Anm, il “nuovo piano strategico vaccinale, modificando le linee guida approvate dal Parlamento nel dicembre 2020, non prevede più, tra i gruppi target di popolazione cui offrire il vaccino in via prioritaria, i lavoratori del comparto giustizia”. Secondo l’Associazione magistrati, dunque, “il Governo considera il servizio giustizia con carattere di minore priorità rispetto ad altri servizi essenziali già sottoposti a vaccinazione, tanto da non ritenere doveroso rafforzare le condizioni che ne consentano la prosecuzione senza l’esposizione a pericolo per gli operatori”: una decisione, questa, che “oltre a destare disagio e sconcerto per la totale sottovalutazione dell’essenziale ed improcrastinabile servizio giustizia - si legge ancora nel documento - appare in assoluta antitesi con gli obiettivi di riduzione dei tempi dei processi imposti dall’Unione Europea e richiamati dalla ministra Cartabia nelle linee programmatiche esposte recentemente al Parlamento. Questo perché - conclude l’Anm - l’esclusione del comparto giustizia dalla programmazione vaccinale, specie in un momento di grave recrudescenza dell’emergenza pandemica, imporrà fin da subito il sensibile rallentamento di tutte le attività giudiziarie che devono essere necessariamente svolte in presenza, donde l’inevitabile allungamento dei tempi di definizione dei processi”. Media e giustizia, il virus populista che ha umiliato lo Stato di diritto di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 29 marzo 2021 Da Mani Pulite a Rinascita-Scott, quell’intreccio diabolico tra informazione e procure. Che la rivoluzione mangi i suoi figli lo diceva Charlotte Corday prima di pugnalare a morte “l’amico del popolo” Jean Paul Marat nella vasca da bagno. E se lo sarebbe dovuto ricordare anche Antonio Di Pietro, pugnalato alle spalle dallo stesso sistema mediatico che, 20 anni prima, lo aveva portato alla ribalta. “Di Pietro facci sognare” titolava Sorrisi e Canzoni Tv nella primavera del 1992; la “tonino-mania” scuoteva l’Italia che aveva trovato il suo super eroe nell’ex poliziotto diventato il magistrato simbolo di Mani Pulite. Più nazional-popolare di Raffaella Carrà e di Pippo Baudo, di cui era una specie di propaggine giustizialista, anche lui con un certo senso per lo spettacolo ma con l’incazzatura facile. Come nel Terrore giacobino i media si attivano per scovare i nemici del popolo, gli avvisi di garanzia - che dovrebbero garantire e invece offendono- sono frecce scagliate dai giornali e dai tg contro “i ladri” e i “corrotti”, sentenze di colpevolezza scritte dalle scrivanie delle redazioni. Fioccano gli arresti, le custodie cautelari, il tintinnio di manette accompagna sinistro gli interrogatori. “Tenerli in carcere è un modo per farli parlare” si vantano dalla procura milanese con il popolino che plaude sullo sfondo, vociando dagli schermi televisivi dei talk show; spuntano le arene di Santoro, i baffoni di Ruotolo inviato nelle piazze urlanti che chiedono pene esemplari per i politici ladroni nel nome dell’onestà (lo spettro grillino già incombeva in filigrana). Quell’onda travolgente dà alla testa a tutti e tutti si assiepano sul pulpito dell’accusa, procuratori avengers e giornalisti aspiranti detective. Si forma il “grumo”, ossia quel garbuglio tra informazione e giustizia che da tre decenni stravolge i principi dello stato di diritto, fa a pezzi le garanzie della difesa e umilia il processo penale, derubricato a mero orpello. Quasi un genere letterario talmente è ormai radicato nell’immaginario collettivo, con tutto il suo fiorire di neologismi questurini, stralci sconnessi di intercettazioni, retorica vendicatrice. La giustizia penale diventa uno spettacolo per allattare i palinsesti, il brontolio fin lì dimesso degli italiani si era trasformato in un ringhio feroce, incitato a tambur battente proprio dal circo mediatico. Il pomeriggio in cui lanciarono le monetine contro Bettino Craxi tutti i sergenti della cronaca giudiziaria capirono che quello del capro espiatorio da stanare con torce e forconi era un format potente, che la caccia spasmodica ai disonesti appassiona le masse come una guerra civile, Risentimento piccolo borghese travestito da rabbia popolare va bene, ma intanto il venticello della calunnia si era fatto tsunami. Ci vuole davvero molto poco per confezionare un servizio televisivo colpevolista; musiche da thriller hollywoodiano, tono di voce grave e caricato, la classica telefonata alla controparte che “rifiuta” di incontrare il reporter-segugio per far vedere che ha qualcosa da nascondere, e soprattutto un patchwork di notizie montate ad arte in cui si mischiano indagati e imputati, sentenze e sospetti, indagini e processi. Il giornalismo si dissolve in fiction ma che importa: così lievita lo share, si vendono le copie, si moltiplicano i click. Antonio Di Pietro è stato fatto fuori da un servizio di 20 minuti del programma Report intitolata Gli Insaziabili (sic) in cui venne accusato di possedere illegalmente 56 immobili tra case e rustici agricoli. Le accuse si rivelarono infondate ma il leader dell’Idv da quel giorno è un cadavere politico. La beffarda nemesi che colpisce proprio l’hidalgo di Tangentopoli non rende meno amaro il quadro generale, anzi mette in luce proprio il cinismo di un sistema tritatutto, pronto a gettare nel fango i vecchi eroi e sostituirli con nuovi interpreti. La recente inchiesta di Riccardo Iacona dedicata all’indagine Rinascita Scott del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri fondata unicamente sugli atti messi a disposizione dalla procura stessa e dalla polizia giudiziaria è solo l’ultimo, e neanche il più brillante esempio, di questo genere letterario. Telecamere nascoste, intercettazioni decontestualizzate, avvocati difensori rappresentati come sodali dei boss, e la voce off della pubblica accusa a dipanare il filo degli eventi. Il tutto condito dalle cupe suggestioni di trame neomassoniche e di mostruosi intrecci tra le cosche e il mondo politico. Difficile per un giudice rimanere virgin mind di fronte a un simile fuoco di fila e quando il processo mediatico ha già consumato le sue sentenze. Un riflesso pavloviano, percorre scattoso il nostro giornalismo, alimentato dagli abili sceneggiatori della magistratura inquirente che nomina le sue inchieste con titoli accattivanti, concepiti per diventare all’istante dei meme giornalistici. Come nell’inchiesta Mafia Capitale: dopo oltre 5 anni di udienze il tribunale ha stabilito che gli intrallazzi dei vari Buzzi e Carminati non erano mafia, ma tv e giornali hanno fatto una fatica immane a rimuovere quella succulenta etichetta. Poco male: si rifaranno con gli interessi nella prossima fiction giudiziaria. Responsabilità professionale dei magistrati, rotto il muro del silenzio di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 29 marzo 2021 Forse ci siamo. Dalli e dalli - cito il detto partenopeo - si spezza pure il metallo. Nessuna illusione soverchia, per carità, ma vedo che il tema della responsabilità professionale del magistrato, e dunque della assurda automaticità della sua progressione in carriera, comincia a varcare il recinto di indifferenza e di silenzio nel quale noi pochi sostenitori della questione siamo stati a lungo confinati. Quando addirittura il vice-Presidente del Csm David Ermini, con tutte le prudenze del caso, ha espresso l’opinione che, forse, nella valutazione professionale quadriennale dovrebbe trovare posto anche un bilancio dei risultati conseguiti dal magistrato nella sua attività giudiziaria, abbiamo compreso che non saremmo stati più soli, noi delle Camere Penali Italiane, insieme al prof. Giuseppe Di Federico e pochi altri. I termini della questione sono noti e facilmente comprensibili. Se le valutazioni di professionalità sono da decenni positive per tutti i magistrati in servizio (99,6%), significa che in Italia, unico Paese nel mondo democratico occidentale, non esistono valutazioni di professionalità dei nostri magistrati. E se i curricula sono conseguentemente tutti livellati e più o meno equivalenti, inutile lamentare ipocritamente che le scelte dei capi degli uffici seguano criteri di appartenenza correntizia o comunque schiettamente politici (opportunità, continuità o discontinuità con il vertice uscente, colore delle istituzioni politiche territoriali, eccetera). Eugenio Albamonte, sostituto procuratore a Roma ma soprattutto da tempo autorevole esponente della magistratura associata, in una interessante intervista sul Dubbio ci spiega perché reputa ingiusta la critica, ed impraticabile la proposta di Ermini. Le valutazioni di professionalità, dice, sono finalizzate a garantire uno standard medio accettabile, non a selezionare eccellenze. Insomma, sarebbe un sistema pensato solo per sanzionare le gravissime inadeguatezze, e questo spiega le percentuali. Ammette però la ricaduta paralizzante nei giudizi per le nomine dei capi degli uffici. Davvero sarebbe questa la logica? Beh, è una logica sbagliata e anzi francamente sorprendente. Sia perché non ci fa comprendere quali sarebbero le controindicazioni nel selezionare le eccellenze in una funzione pubblica di questa cruciale delicatezza; sia perché, percentuali alla mano, è un sistema che, come ben sappiamo, penalizza giusto gli squilibrati (ma nemmeno sempre) e qualche mascalzone. Ogni professione, ed a maggior ragione ogni funzione pubblica, ha il dovere di controllare severamente la qualità di chi la esercita, a garanzia della collettività, ed in tale contesto anche di selezionare le eccellenze. Il capo di una Procura, il Presidente di un Tribunale o di una Corte di Appello, devono essere espressione di una eccellenza, altroché! E di cos’altro, sennò? Ora, come si possono tenere fuori da questo vaglio i risultati dell’attività di ciascuno? Non il singolo risultato, per l’amor di Dio, nessuno è così qualunquista ed irresponsabile da pensare una insensatezza del genere. Altrimenti, ogni assoluzione sarebbe un titolo di demerito per il Pm che ha istruito il processo, per il Gip che ha disposto la misura cautelare, per il Tribunale che ha condannato in primo grado. Ma una valutazione complessiva e debitamente ponderata nel quadriennio, è tutt’altra cosa. Le statistiche in un arco di tempo significativo descrivono con una buona dose di precisione la qualità del magistrato. Tra un gip cui sia stato annullato il 20% delle proprie ordinanze custodiali, ed un altro a cui invece il 50%, non c’è differenza qualitativa? Non vogliamo valutare gli esiti complessivi delle attività di indagine dei Pubblici Ministeri? Se un giudice monocratico - non sto facendo esempi di fantasia - ha una percentuale di annullamento delle proprie sentenze superiore al 60%, non merita di essere valutato per questo? Non scherziamo, per favore. Si resiste alla forza incontrovertibile di questi argomenti perché si teme la responsabilizzazione del giudice, che - udite udite - ne verrebbe condizionato nella sua indipendenza. Quindi non responsabilizziamo il chirurgo, nel timore che altrimenti gli tremi la mano, o si rifiuti di intervenire? Poco dopo l’intervista all’amico Eugenio Albamonte, ho letto un articolo di Valentina Errante sul Messaggero, che ricordava solo alcuni casi di inchieste eclatanti e devastanti, conclusesi nel nulla. Per esempio, i processi ad Antonio Bassolino, già sindaco di Napoli. Diciannove assoluzioni in diciassette anni, una carriera di uomo pubblico stroncata senza ragione. Vogliamo davvero credibilmente sostenere che sia giusto ed equo un sistema che non prevede, anzi non consente di chiederne conto a nessuno? E soprattutto, che non garantisce ai cittadini che chi se ne è reso responsabile venga infine messo in condizione di non più nuocere? Penalisti in sciopero, tre giorni di astensione a partire da oggi Il Dubbio, 29 marzo 2021 La protesta proclamata dalla Giunta dell’Unione Camere Penali per “ottenere il regime transitorio del deposito cartaceo degli atti, in attesa che si risolvano le criticità dell’entrata a regime del portale telematico”. Tre giorni di astensione da ogni attività giudiziaria dal 29 al 31 marzo. Comincia domani lo sciopero proclamato il 12 marzo dalla Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane in seguito ai continui disservizi del Portale telematico, denunciati a più riprese dagli avvocati attraverso gli appelli al governo. Per il primo giorno di astensione l’Unione ha organizzato la manifestazione nazionale dal titolo “Il Difensore e il PPT. Criticità e soluzioni possibili”. L’evento online, in programma dalle 10 alle 13 di domani, sarà disponibile in diretta streaming sul canale Youtube delle Camere penali. “La macchina del processo penale - spiegano i penalisti italiani- versa in una condizione drammatica, in un contesto e in un clima che sono ancora più preoccupanti. La Magistratura italiana sta attraversando una grave crisi di autorevolezza ed è incapace di una seria riflessione sul sistema di potere costruito negli ultimi vent’anni. La politica è messa all’angolo: impegnata nella ristrutturazione e nel riposizionamento dei suoi gruppi dirigenti, non pare avere al momento progetti di modifica della prescrizione, dei meccanismi capaci di incidere sui tempi del processo e dell’ordinamento giudiziario”. “In questo clima il portale penale telematico, o meglio il portale delle Procure, nasce già obsoleto, ma soprattutto presenta continui guasti e inconvenienti tecnici che mettono a repentaglio - denuncia la Giunta dell’Ucpi - il rispetto dei termini processuali e la tempestiva contezza delle iniziative della difesa. La soluzione ragionevole proposta, quale la previsione di un regime transitorio, non è stata presa in considerazione”. Del 13 marzo scorso l’incontro tra l’Ucpi e la ministra della Giustizia Marta Cartabia, in seguito al quale i penalisti hanno “soddisfazione per i significativi contenuti dell’incontro e per il clima di autentica cordialità in cui esso si è svolto”. In quell’occasione i penalisti hanno illustrato alla Guardasigilli le ragioni dell’astensione dalle udienze “volta ad ottenere il regime transitorio del deposito cartaceo degli atti, in attesa che si risolvano le criticità dell’entrata a regime del portale telematico” e la ministra della Giustizia - ha riferito l’Ucpi in una nota - ha “manifestato viva attenzione alle ragioni della protesta, riservandosi nei tempi più brevi di valutare possibili interventi volti a risolvere le denunciate criticità”. La guardasigilli era intervenuta sul tema della digitalizzazione in un passaggio del suo intervento al Festival della Giustizia dell’11 marzo: “L’utilizzo degli strumenti informatici si è rivelato fondamentale nella pandemia e continuerà a esserlo, per dare un volto nuovo alla giustizia - ha evidenziato - Contiamo anche di migliorare le disfunzioni che persistono nel portale telematico di deposito degli atti”. Da parte loro i penalisti sottolineano come le carenze strutturali e continui malfunzionamenti - in una fase di digitalizzazione inevitabile - mettano a rischio il diritto di difesa. “Il deposito nel portale non è corredato da idonea certificazione comprovante l’esito positivo delle operazioni - spiegano. Spesso, intervenuto il deposito della nomina, è comunque impossibile accedere al fascicolo”. A ciò si aggiunge l’esclusività dello strumento per il deposito degli atti difensivi, nonché l’estensione del suo utilizzo - sempre esclusivo - anche al deposito della querela, degli atti di opposizione alla richiesta di archiviazione e dell’atto di nomina, con l’introduzione di un “atto abilitante” che carica i difensori “di un ulteriore incombente non previsto dalla legge”. Giustizia, i magistrati onorari scrivono a Cartabia ildesk.it, 29 marzo 2021 Al centro della lettera aperta il forte malessere della categoria, sempre più precaria. I 4886 i magistrati onorari trattano nel complesso oltre il 50% dell’intero contenzioso di primo grado. Sono 1.100.000 circa i procedimenti definiti nel 2019 da loro: 938.378 nel civile e 153.611 nel penale; 40 milioni i procedimenti definiti negli ultimi 20 anni. Il giudizio dinanzi del giudice di pace dura in media meno di un anno, -10,3 mesi- e solo il 3% delle sentenze emanate nel settore civile è oggetto di impugnazione (relazione Barbuto, pagg.10 e 20). E con l’introduzione del Gdp, i processi di cognizione trattati dai Tribunali sono diminuiti di quasi del 60% dal 1994 al 2013, passando da 707.149 ai 309.290. Eppure, la categoria dei magistrati onorari vive un forte malessere. Sulla scorta del malcontento, l’associazione di categoria Aimo ha scritto una lettera aperta alla guardasigilli Cartabia, firmata dal presidente Vincenzo Crasto. Ecco il testo integrale. Il Governo intende giustamente porre al centro del suo programma la riforma della giustizia, specie del settore civile allo scopo di abbattere l’enorme arretrato, vieppiù aggravatosi durante l’emergenza pandemica. Cesare Mirabelli commentando la sentenza 41/21 della Corte Costituzionale ha ricordato che i giudici di pace trattano quasi la metà delle cause civili di merito ed ha proposto di chiamare un maggior numero di magistrati onorari a svolgere funzioni consentite ai giudici singoli anche nei tribunali. Nei giorni scorsi abbiamo appreso dalla stampa, non senza stupore, che nel nostro paese un giudizio può durare anche 55 anni. Eppure anche nel settore giustizia esistono eccellenze, ci riferiamo in particolare ai giudici di pace ed ai vice procuratori onorari, che amministrano una giustizia “a legge Pinto zero”, secondo standard europei e nel rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata dei giudizi. La soluzione prospettata dal presidente emerito della Corte costituzionale appare assolutamente condivisibile e produrrebbe certamente in breve l’abbattimento dell’arretrato. I giudici di pace sono espressamente menzionati in Costituzione (art. 116 Cost.), risultano quindi elementi indefettibili nel nostro ordinamento e si occupano di materie che lungi dall’essere bagattellari sono molto delicate, quali quella penale e dell’immigrazione, i Got definiscono giudizi del valore di milioni di euro, i vice procuratori sostengono l’accusa nella quasi totalità delle udienze dinanzi al giudice monocratico. Secondo i dati del ministero della Giustizia in media un giudizio dinanzi al giudice di pace dura meno di un anno, ciascun magistrato definisce 830 procedimenti annui ed è in servizio da circa 25 anni, dopo aver superato un concorso per titoli ed essere stato nominato solo all’esito di un tirocinio concluso con valutazione positiva e numerose procedure di conferma quadriennale, anch’esse di natura paraconcorsuale, come affermato già nel 2011 dalla Suprema Corte (Cass. Sent. n. 4410/2011). All’ultimo concorso per giudici di pace hanno partecipato ben 70.000 candidati e sono stati dichiarati vincitori meno di 1.000 tra questi. Come evidenziato recentemente dal presidente dell’Anm Santalucia si tratta ormai di magistrati altamente professionali. L’onorarietà risulta in concreto una fictio, in quanto la stragrande maggioranza dei magistrati è impegnato a tempo pieno 6 giorni su 7 e non esercita altre attività, dovendosi piuttosto parlare di vera e propria precarietà. L’autorevole Centro Studi Livatino ha dato un giudizio negativo sui metodi di Alternative Dispute Resolution e di mediazione. Pertanto è altamente probabile che tali rimedi anche in futuro, presi singolarmente, non saranno sufficienti a risolvere il problema del debito di giustizia. L’inefficienza della giustizia costa al nostro Paese il 2,5% del PIL, una cifra enorme pari a circa 40 miliardi di euro. Con la riforma della magistratura onoraria del 2017, che entrerà definitivamente in vigore il 15 agosto prossimo la paralisi del sistema è certa nell’an e nel quando. Lo stesso CSM evidenziò, immediatamente, nel suo parere sulla riforma del 2017 che l’utilizzo part time dei magistrati onorari appariva inadeguato rispetto alle effettive esigenze degli uffici, requirenti e giudicanti, in quanto, attualmente, sia ai vice procuratori onorari sia ai giudici onorari di Tribunali si chiede un impegno lavorativo che va molto spesso al di là dei due giorni di lavoro a settimana sicché limitarne l’impiego in questi termini determinerebbe una grave contrazione della produttività degli uffici, con conseguente (ulteriore) rallentamento del servizio giustizia. La quasi totalità dei dirigenti degli uffici giudiziari auditi dal Csm condivisero tale analisi. I magistrati in servizio -aggiungiamo- verrebbero retribuiti meno di un percettore di reddito di cittadinanza e ciò produrrebbe un grave vulnus all’autonomia ed indipendenza del magistrato ed un conseguente gravissimo decadimento della qualità della giurisdizione. In buona sostanza l’entrata in vigore della riforma del 2017 creerebbe migliaia di esodati. Cui Prodest “questo” magistrato ultra-precario? L’Italia ha, invece, la soluzione a portata di mano: i magistrati onorari sono pronti a fare la propria parte con il senso dello Stato e l’abnegazione, unanimemente riconosciuti. Ci impegniamo a mettere a disposizione del Paese la nostra professionalità ultraventennale e ad abbattere nell’arco di tre anni l’arretrato, anche, se del caso, partecipando a vere e proprie “task force” specificamente dedicate. Si tratta di un’operazione win-win: la spesa sarebbe nel triennio di circa 300 milioni a fronte di un beneficio per il paese di oltre 40 miliardi di euro. È una proposta che va realizzata utilizzando i magistrati onorari attualmente in servizio. Il ricorso a nuovi precari, con un impegno di spesa notevolmente superiore, non sarebbe la soluzione e non porterebbe a risultati immediati. Vi è anche una questione morale: il paese ha un enorme debito di riconoscenza nei confronti di giudici di pace, giudici onorari di tribunale e vice procuratori, che hanno continuato ad assicurare il funzionamento della giustizia anche durante i mesi più duri della pandemia. Tali magistrati si sono ammalati e sono deceduti, ma nulla è stato riconosciuto loro ed alle loro famiglie, in quanto nel XXI secolo c’è ancora chi nel precariato presta un servizio essenziale, ma è privo di tutele previdenziali ed assistenziali, maternità, ferie, TFR. Per i magistrati onorari vale quanto detto nei giorni scorsi dal Procuratore Capo di Milano Greco con riferimento ai cd. “rider”. Il trattamento riservato dal nostro paese, specie nell’ultimo decennio, a tali suoi meritevoli servitori è stato assolutamente mortificante ed ingiustificatamente punitivo. Ricordiamo la tristissima vicenda dei cd. “parti in udienza” in cui le donne giudici onorari sono state costrette a tenere udienza fino a pochi giorni prima del parto, senza possibilità alcuna di assentarsi, pena la perdita del lavoro. I magistrati “onorari” vanno assolutamente sottratti allo stato di precariato e nel contempo danno piena disponibilità anche a far parte di sezioni stralcio, sul modello dei Giudici onorari aggregati (cd. GOA, istituiti con L. 276 del 1997). Chiediamo la fine del trattamento che poco ha a che fare con il senso di umanità che dovrebbe caratterizzare una democrazia liberale, attraverso la permanenza nelle funzioni ed il riconoscimento dei diritti costituzionali - in primis previdenziali ed assistenziali -, ancora oggi inopinatamente negati, mentre ad es. la predetta legge istitutiva dei GOA li disciplinava. Tale riforma risponde anche al principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.). Per i magistrati tributari -magistrati speciali ed onorari - nel lontanissimo 2005 e per i magistrati onorari minorili nel 2010 nessuna voce si levò contro la stabilizzazione nelle funzioni. A nulla sono servite in passato le innumerevoli astensioni dal servizio, i flash mob ed altre proteste anche forti. Pertanto molti magistrati, soprattutto donne, sono stati costretti a porre a rischio la propria incolumità fisio-psichica con lo sciopero della fame. Il neopresidente della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio - nomen omen - ha affermato testualmente: “fa veramente impressione vedere un magistrato fare lo sciopero della fame” aggiungendo “è venuto il momento che il Parlamento deve riflettere sul rapporto di impiego perché quando si giudica non esistono diritti di serie A e di serie B ma serve serenità, obiettività imparzialità ma soprattutto serenità”. Parole chiare e definitive sul tema. La pretesa onorarietà è stata negli anni utilizzata per negare i più elementari diritti costituzionali. Il Comitato Europeo dei Diritti Sociali presso il Consiglio d’Europa nell’ormai lontano 2016 ha affermato che l’Italia ha violato un fondamentale trattato internazionale, la Carta Sociale Europea ed ha riconosciuto il diritto dei magistrati onorari alle tutele previdenziali ed assistenziali previste dalla nostra Carta costituzionale e dal predetto trattato. Recentemente il 16 luglio 2020 si è pronunciata anche la Corte di Giustizia Europea riconoscendoci lavoratori e non volontari. I Suoi primi interventi, Ministra, hanno ottenuto unanimi apprezzamenti per il metodo e per il merito, abbiamo l’occasione di non sprecare una crisi, come affermò il capo di Gabinetto del presidente Usa Obama, Rham Emanuel: rendiamo efficiente la giustizia, riconosciamo i diritti dei giudici onorari e insieme garantiremo diritti al popolo italiano, con la bilancia, più che con la spada, con un volto umano e con celerità. Abruzzo. Pasqua, pacchi di pasta in regalo ai detenuti abruzzesi ilcapoluogo.it, 29 marzo 2021 Per Pasqua verranno consegnati pacchi di pasta ai detenuti degli 8 istituti di pena regionali. Il Garante dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Abruzzo, Gianmarco Cifaldi, comunica che “grazie alla grande sensibilità e attenzione del pastificio artigianale abruzzese la Rustichella d’Abruzzo, in questi giorni e fino a Pasqua, verranno consegnati, negli otto istituti di pena della nostra regione, pacchi di pasta per ogni singolo detenuto con una lettera augurale (in allegato) a firma della Rustichella e del Garante”. Con tale gesto il Garante Cifaldi ha voluto ribadire “l’attenzione e la vicinanza ad ogni detenuto nell’occasione delle festività pasquali”. “Tale iniziativa - afferma Cifaldi - rappresenta un esempio importante per la preparazione di reti di solidarietà con il mondo produttivo abruzzese così come ha dimostrato la signora Stefania Peduzzi, titolare della Rustichella, nell’attivare questo grande sostegno”. Catanzaro. Si aggrava focolaio di Covid nel carcere: la denuncia dell’Ussp cn24tv.it, 29 marzo 2021 “A distanza di dieci giorni dall’esplosione dei numerosi casi al covid-19/Sars-CoV-2 da parte della popolazione carceraria e del personale, non sembrano affatto placarsi i numeri dei positivi presso l’istituto di Catanzaro che vedono ancora 48 detenuti e 16 unità di polizia penitenziaria tra i casi accertati”. È la denuncia lanciata da Walter Campagna, segretario regionale dell’Unione Sindacati Polizia Penitenziaria, riferendosi al focolaio scoppiato nel carcere di Siano a Catanzaro. Lo stesso afferma comunque che il personale ed i detenuti sono stati “sottoposti a tampone molecolare”, riuscendo a mettere in piedi “una serie di misure precauzionali” rese possibili anche grazie alla campagna di screening realizzata nella tensostruttura allestita dall’Esercito. “Inoltre, grazie alla convenzione regionale per l’emergenza Covid-19 è stato attivato il primo trasferimento di un soggetto positivo al Covid-19, presso una delle strutture ricettive alberghiere individuate dal Dipartimento di Protezione Civile” afferma Campagna, che lancia però una stoccata al dipartimento di amministrazione penitenziaria, che non avrebbe ancora risposto “circa l’assegnazione straordinaria di almeno 20 unità di polizia penitenziaria, al fine di colmare la grave carenza di personale, come più volte denunciato”. “Gli agenti sono esposti a carichi di lavoro sempre più pesanti e non possiamo certo dirci ottimisti rispetto a soluzioni che, anche per difficoltà logistico/strutturali, ad oggi risultano inapplicabili se non a danno della sicurezza operativa del personale” conclude il segretario. “Significando che anche il provvedimento provvisorio attuato dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria con l’invio in missione di (sei) unità, non è sufficiente a colmare una situazione ancora molto grave da gestire”. Firenze. Museo Galileo, scienza oltre le sbarre quotidianomolise.com, 29 marzo 2021 Il progetto “Scienza oltre le sbarre” nasce dalla collaborazione tra il Museo Galileo, il Politecnico di Torino e gli insegnanti ed educatori della Casa di Reclusione di Volterra e della Casa Circondariale di Firenze Sollicciano. Il potenziamento e l’integrazione delle attività relative a cultura e comunicazione costituisce un elemento importante nella strategia di terza missione degli Atenei, al fine di rendere più efficace il loro ruolo di comunità accademica che co-evolve con la società intera. Allo stesso tempo è sempre più presente nelle istituzioni museali la riflessione sul loro compito e sul loro impatto sociale; i musei hanno il dovere di sperimentare iniziative sociali come costruttori di fiducia e di condivisione. Con queste considerazioni in mente abbiamo pensato di sviluppare attività didattiche rivolte alle persone recluse di differenti età e di diverso grado di scolarità, con la consapevolezza che il contesto carcerario è uno dei più delicati e complessi in cui concretizzare l’offerta formativa, ma anche uno dei più stimolanti per chi si vuole mettere in gioco ed accettare la sfida. Ciascun Istituto penitenziario ha corsi di Istruzione pubblica che in qualche modo dovevamo affiancare; l’offerta formativa, infatti, spazia da corsi di alfabetizzazione per stranieri, per poter acquisire il titolo di Italiano di livello A2, fino ai percorsi di secondo livello attraverso i quali si può acquisire il titolo di scuola secondaria di secondo grado. Il tasso di scolarizzazione della popolazione carceraria è molto basso e sconta la difficoltà di sostenere processi di apprendimento in condizioni di estrema variabilità e instabilità come quelle detentive. La frequenza scolastica segna una discontinuità positiva nella vita delle persone recluse che hanno la possibilità di avere rapporti con persone esterne, gli insegnanti, con cui possono svolgere attività fondamentali per il proprio sviluppo umano e culturale. Abbiamo avuto modo durante le nostre attività di incontrare molti docenti e di apprezzare il modo encomiabile con il quale affrontano e svolgono il loro ruolo quanto mai complesso e delicato: portatori di compiti diversi da quelli del carcere, ma funzionali alla finalità rieducativa della pena, empatici ma allo stesso tempo in grado di mantenere la giusta distanza dagli studenti e di non generare aspettative disorientanti e diverse da quelle richieste dal loro compito istituzionale. Con l’idea di provare a riconsegnare quelle risorse di cui molti detenuti non hanno potuto disporre nei contesti di provenienza, e di contribuire a creare uno spazio di relazione e di partecipazione responsabile alla convivenza, abbiamo deciso di mettere in una valigia, o meglio in più valigie le repliche degli strumenti scientifici più rappresentativi del Museo Galileo, il cannocchiale di Galileo, l’astrolabio, le meridiane, alcuni giochi ottici, gli strumenti di elettrostatica e di ottica, la carta, la colla ed i colori, allo scopo di sollecitare l’interesse delle persone recluse all’osservazione e alla sperimentazione. Ottenute le necessarie autorizzazioni ad accedere ai due istituti penitenziari e stabilite le date per le attività, siamo arrivati con trepidazione, interesse e curiosità alle giornate da trascorrere in compagnia delle persone recluse. La Casa di reclusione di Volterra accoglie il visitatore, se così ci vogliamo definire, con una ripidissima scala alla sommità della quale un agente di polizia penitenziaria procede al controllo dei documenti, e all’esame accurato dei contenitori dei nostri strumenti di lavoro, sul cui uso diamo informazioni all’agente stesso, incuriosito dalle attività che abbiamo in programma di svolgere. Prima di essere ammessi all’interno del perimetro dobbiamo anche consegnare il cellulare, la cui privazione seppure temporanea aumenta il senso di straniamento dalla realtà, in questo mondo senza tempo che è il carcere, fatto, per quello che possiamo vedere, di corridoi vuoti ingentiliti dai dipinti dei carcerati sulle pareti. Il rumore dei nostri passi e quello delle chiavi appese alle cintole delle guardie che ci scortano, risuona negli ampi e desolati spazi del penitenziario; dentro di noi rimbomba il frastuono di una serie, che pare infinita, di cancelli e di porte metalliche che si aprono di fronte a noi e si richiudono alle nostre spalle, fino ad arrivare all’aula dove svolgiamo il laboratorio. Siamo colpiti dalle persone che incontriamo nell’aula-laboratorio, un’umanità che pare diversa dallo stereotipo dell’individuo che ha commesso un reato, inducendoci a riflettere che dietro i reati ci sono sempre persone con storie complesse e non riducibili all’atto più o meno grave che hanno commesso. I detenuti hanno età e livelli di istruzione diversi ma mostrano tutti quanti interesse verso quelli come noi, che entrano nel carcere fornendo con umiltà ma con convinzione una prospettiva differente che possa indurli a guardare con altre lenti la realtà ed a sviluppare il desiderio di conoscere e imparare. Le attività scolastiche e più in generale quelle culturali, sia pur sporadiche come la nostra, sono significative in quanto rappresentano un altro mondo possibile per i detenuti. Le lezioni che proponiamo riguardano tematiche di interesse storico-scientifico: “Galileo e il suo cannocchiale” con attività focalizzate sulla storia e le scoperte del grande scienziato, sulla costruzione del suo cannocchiale e sull’analisi delle proprietà delle lenti. “Il Granduca Pietro Leopoldo di Lorena”, che abolì la pena di morte e affermò l’importanza della funzione rieducativa e correttiva della pena, e la scienza del suo tempo, con attività focalizzate su alcuni esperimenti di fisica e di elettrostatica. Un’altra tematica di carattere artigianale-artistico è rivolta alla realizzazione della carta marmorizzata; nella seconda metà del 600 questo particolare tipo di carta decorata rivestiva i migliori cannocchiali del tempo, alcuni dei quali sono esposti nelle sale del Museo Galileo. Durante il laboratorio gli studenti carcerati, dopo aver appreso i principi fisici e chimici che permettono la realizzazione della carta marmorizzata, hanno la possibilità di scoprire le loro potenzialità creative acquisendo così una maggior fiducia in sé stessi nel creare e nel produrre con le proprie mani. Le stesse attività vengono svolte anche a Firenze nella Casa Circondariale di Sollicciano, che sovrasta e intimorisce con la sua mole chiunque vi entri per la prima volta, e dove le sensazioni che si provano nel varcare la soglia, considerata la grandezza dell’istituto di pena e l’altezza delle sue recinzioni, sono ancora più intense: sembra di entrare in un mondo parallelo rispetto a quello nel quale siamo abituati a vivere. In modo significativo un detenuto, durante il laboratorio, ha definito vita reale quella precedente alla reclusione. Le attività svolte all’interno del carcere sono un’opportunità formativa per i reclusi ma anche laboratorio di idee e di riflessione sul vissuto di ciascuno, spesso sono i detenuti stessi a contribuire alla lezione con ricordi e racconti del paese d’origine. La nostra esperienza vuole cercare di rendere il carcere un po’ più aperto dal punto di vista culturale; durante le attività gli studenti imparano in modo non formale ma soprattutto si confrontano tra di loro e con la realtà esterna. I laboratori sono per i detenuti una finestra sul mondo, sono tra le poche iniziative che stimolano il carcerato a uscire dalla propria cella e ad avere contatti con gli altri; sono momenti di apprendimento ma anche di svago, vogliono dare speranza a ciascuno di loro e contribuire a restituire alla società uomini liberi e nuovi. Spesso parlando di scienza e tecnologia nasce un dialogo creativo tra i contenuti propri dell’attività e le storie della vita di ciascuno dei partecipanti. Le attività alleggeriscono le lunghe giornate dei carcerati e sono un momento di evasione psicologica dalle mura del penitenziario. Nell’aula dove si svolgono i laboratori sembra di respirare un’aria più libera rispetto a quella degli altri spazi del carcere; all’interno delle aule-laboratori infatti le guardie carcerarie non sono presenti e i detenuti vengono considerati solamente nel loro ruolo di alunni. Dopo aver frequentato i laboratori alcuni gruppi di studenti detenuti, previa autorizzazione del magistrato, sono venuti in visita al Museo accompagnati dai loro insegnanti ed educatori; è stata un’esperienza meravigliosa far scoprire loro il bello, il curioso e i contenuti scientifici delle nostre collezioni e soprattutto vederli innamorarsi di nuovo alla vita. Appena sarà terminata l’emergenza sanitaria, il Museo Galileo e il Politecnico di Torino continueranno la loro collaborazione per progettare e svolgere attività culturali scientifiche rivolte ai detenuti perché offrire nuove opportunità a coloro che non ne hanno mai avute o non le hanno colte, significa offrirle a tutta la società. Nel frattempo, abbiamo programmato una serie di visite virtuali e laboratori a distanza in collaborazione con la rete dei Musei Welcome Firenze che ci permettono di non interrompere la collaborazione con gli educatori ed i detenuti dei due carceri. Palermo. Venerdì un dibattito su pene alternative e rieducazione dei detenuti hashtagsicilia.it, 29 marzo 2021 “Dobbiamo rendere attuale, e portare al centro del dibattito politico, il tema dell’universo carcerario e nello specifico quello della rieducazione della pena. Un altro aspetto su cui concentrarci, per quanto riguarda la Sicilia, è anche quello del rapporto tra il dipartimento penitenziario e le asp siciliane perché spesso i detenuti non sono messi nelle condizioni di fare una visita medica o di ricevere adeguate assistenza anche psicologica. Il tema non è più l’indulto ma che non riusciamo a garantire l’ordinario, ad esempio dal punto di vista sanitario all’interno dei penitenziari”. Lo ha detto il segretario del PD Sicilia, Anthony Barbagallo nel corso del dibattito dal titolo “Bisogna aver visto: i nodi irrisolti della questione carceraria. La politica in ascolto” che si è svolto ieri sera in diretta sulla pagina Facebook del PD Sicilia. Al dibattito, moderato dal direttore di LiveSicilia, sono intervenuti Luigi Paganol già vice direttore del DAP e autore del libro “Il direttore” e Maria Grazia Leone, responsabile del dipartimento Diritti del PD Sicilia. Barbagallo ha annunciato “visite” in alcuni penitenziari dell’Isola: “abbiamo già programmato di andare a Giarre e ad Agrigento. Siamo già stati al carcere Pagliarelli di Palermo in cui la direttrice deve contemporaneamente guidare - ha spiegato - anche altri 3 istituti: è impensabile oltre che complicato così trovare anche il tempo per “pensare” ad una visione diversa della rieducazione della pena e non soltanto al passaggio di consegne”. Molto interessante l’intervento dell’ex vice direttore del Dap Luigi Pagano, in pensione dal 2019, che ha diretto varie istituti penitenziari tra cui Asinara, Pianosa, Bollate e San Vittore a Milano. “La gente probabilmente crede pure che il carcere possa essere pure rieducativo e si inalbera se, come dicono le statistiche, non ci riesce. Ma c’è anche un altro problema: forse - ha detto nel suo intervento - il carcere non è il luogo più adatto per pensare al reinserimento sociale. E in effetti la costituzione non parla di carcere ma della pena in generale. Pensare che - ha spiegato - una struttura che nasce per isolare dalla società civile possa nel contempo reinserirle nella società mi sembra che sia una contraddizione”. Per Pagano occorre, come non è stato fatto dai padri costituenti, pensare a pene alternative: “la riforma penitenziaria, da molti definita troppo timida, arriva a 27 anni dalla Costituzione. Timida perché doveva pensare anche a delle alternative, a pene che bypassassero completamente il carcere che doveva ridursi all’estrema ratio. Consideriamo che su circa 55000 detenuti, circa 20 mila devono scontare pene non superiori a due anni, tra cui molti tossicodipendenti e stranieri su cui il paradigma del reinserimento sociale non va. È tanto difficile pensare che per determinati tipi di reati ci possa essere una strada diversa che sia meno costosa, più utile e più efficace per la persona e per la società?”. “L’emergenza Covid ha riacceso i riflettori sul pianeta carcere - ha sostenuto Maria Grazia Leone -, ha paralizzato tutte le attività che danno senso al tempo della pena, ha restituito priorità alle contraddizioni e ai limiti del sistema penale e del sistema penitenziario. Ma ci ha pure dato l’opportunità di confrontarci - ha concluso - con la necessità di una nuova concezione della pena. Con le fragilità di un sistema che affligge detenuti e operatori penitenziari”. Vigevano (Pv). L’esperienza del teatro in carcere diventa un documentario di Ilaria Solari elle.com, 29 marzo 2021 Alcune delle attrici hanno nomi pesanti, pezzi di storia delle organizzazioni criminali. “Donne Caino”, le definisce il drammaturgo che le ha accompagnate nel progetto teatrale Educare alla libertà, al centro di un documentario molto toccante. Sei donne sedute su un palco rispondono alle domande del pubblico. L’ultima arriva come una stilettata: la vostra vita avrebbe potuto essere diversa? A rispondere è una donna bionda, l’unica tra loro con un accento del Nord. Lo sguardo è duro, dietro si intuisce un carico pesante di dolore: con voce ferma risponde di no. Pochi minuti dopo la polizia riporta lei e le altre nel carcere di alta sicurezza di Vigevano, che ospita le detenute appartenenti alla criminalità organizzata, a cui è assegnato un regime detentivo separato da quello dei carcerati comuni. Alcune di loro hanno alle spalle famiglie dai nomi pesanti, pezzi di storia delle organizzazioni criminali. “Donne Caino”, le definisce Mimmo Sorrentino, drammaturgo e regista, che le ha accompagnate nel progetto teatrale “Educare alla libertà”, aiutandole a scrivere e mettere in scena l’origine del male di cui si sono rese responsabili secondo la giustizia: un viaggio di scavo che le ha portate a esibirsi nelle aule magne delle università, nelle accademie e nei teatri. Le ha soprattutto aiutate a spezzare le catene di un destino familiare che a molte sembrava irrevocabile. Un’esperienza ora raccontata in Cattività, documentario di Bruno Oliviero su Prime Video e dal 12 marzo su Chili, CGDigital e iTunes. “Ho raccolto le loro storie”, ricorda Sorrentino, “ciò che mi hanno detto e anche ciò che non sapevano di avermi detto. E infine ho chiesto loro di recitare le testimonianze di altre compagne”. “Quando ho sentito la mia storia pronunciata da un’altra mi sono pietrificata”, confessa Carla, che ha scontato la pena e s’è rifatta una vita lontano da Napoli coi figli, ma ancora non riesce a pronunciare parole come carcere, o cella. “La psicologa dice che ho un blocco, ma il lavoro di rimozione più potente è cominciato là dentro: ed è solo nelle parole di un’altra che realizzi che quella vita era vera”. “Ascoltarle è scioccante”, continua Sorrentino. “La droga, le armi, i morti ammazzati, le sparatorie: snocciolano vissuti traumatici come se non si fossero mai davvero viste, non fossero mai riuscite ad adottare uno sguardo esterno. E quando si vedono riflesse nelle parole delle altre crollano. L’affidare a un’altra la propria storia ha prima di tutto un valore drammaturgico. Ma ha anche insegnato loro a condividere, a vedere che il tuo dolore è anche il dolore dell’altra”. Come ricorda Nando Dalla Chiesa, docente di Sociologia e metodi di educazione alla legalità (figlio del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, vittima di mafia), che le ha invitate alla Statale di Milano, all’origine di quasi tutte le storie c’è la figura di un padre: “Irrompe il bisogno di fare i conti con questa tempesta di affetto e di potere”, scrive in un’appendice a Il teatro in alta sicurezza (Titivillus) il libro in cui Sorrentino ha raccolto i testi e la storia di questa esperienza. “Sono contesti familistici patriarcali”, continua il drammaturgo, “dentro cui l’universo femminile è schiacciato, non ci sono modelli di donne che non siano succubi. Immaginatevi che forza dirompente ha la detenuta che scrive al marito, recluso al 41 bis, e ai familiari per chiedere di continuare a fare teatro fuori”. Fuori, dove tutto è nuovo, “dove donne abituate a maneggiare milioni si ritrovano fare le badanti, le operaie e sono contente: perché col teatro hanno incorporato un metodo, sanno che le cose si possono vedere da prospettive diverse”. O, come ha spiegato loro lo psicoanalista Massimo Recalcati partecipando al progetto, hanno imparano il lavoro lento del perdono, che assomiglia a quella tecnica giapponese che usa l’oro per riparare i vasi rotti: “così le crepe, le ferite diventano preziose e il perdono diventa la possibilità di fare della ferita una poesia. È una specie di resurrezione”. “L’altra metà di Dio”, il confine tra vendetta e giustizia nel segno di Sciascia di Filippo La Porta Il Riformista, 29 marzo 2021 Il presupposto di ogni pensiero critico è dimostrare che la nostra società non è né “naturale” né “necessaria”. Poco più di un anno fa Ginevra Bompiani ha intrapreso un viaggio nel cuore di tenebra della nostra stessa civiltà: L’altra metà di Dio (Feltrinelli 2019), un saggio notevole di storia delle idee, mitografia, antropologia, psicanalisi, critica dell’economia politica, a partire da un rovello personale: la nostra civiltà, caratterizzata dal dominio maschile, dallo sfruttamento intensivo della natura, da un’ansia distruttiva e autodistruttiva, non è un destino. Esplorazioni archeologiche hanno scoperto le tracce di una civiltà matriarcale pacifica ed egualitaria che risale al paleolitico e che poi è stata cancellata. Ma in questa occasione mi interessa la seconda parte, dedicata alla punizione. Abbiamo già visto che Sciascia nelle sue innumerevoli riflessioni sulla giustizia e i giudici ha sempre in mente che la vendetta è la forma primitiva della giustizia. Seguiamo allora il filo del ragionamento della Bompiani, di esplicita ispirazione foucaultiana. In particolare la scrittrice insiste su un punto: “La vendetta porta allo scoperto il piacere di fare del male impunemente”, così come - del resto - avviene in guerra (e gli uomini quando hanno licenza di uccidere sembra proprio che tendano ad esagerare, annotava Simone Weil durante la Guerra Civile spagnola). Si pensi anche al conte di Montecristo, dopo la vendetta dovrebbe ricompensare chi gli ha fatto del bene, eppure indugia: “L’abitudine alla vendetta gli ha preso la mano?”. Per questo motivo, continua Ginevra Bompiani “la Legge cerca di allontanare la vendetta dalla punizione, moltiplicando gli intermediari”, separando l’offeso dal colpevole e consegnandolo a figure diverse, indifferenti, inemotive, quasi per farci dimenticare quella origine, quel gusto impuro della vendetta di cui perfino un dio prova rimorso. Il punto è che “nella vendetta c’è sempre un resto”, dato che chi infligge un supplizio non riesce mai a trovare pace, nessuna punizione annulla il fatto compiuto. La vendetta è la negazione di ogni misura, e inutilmente la giustizia umana tenta di simulare questa misura. La bilancia non si raddrizza mai, neanche nella legge del taglione: “La mano tagliata al ladro non ha soltanto rubato. Con lei vengono soppressi anche i gesti quotidiani, le abitudini, le carezze, le abilità”. La legge è solo ripetizione, però “lecita”, dello stesso atto trasgressivo. Come sottolinea san Tommaso, sempre “si cerca una vendetta maggiore di quella dovuta”. In un certo senso con la vendetta ci imbattiamo nel nucleo più intimo, misterioso e perverso, dell’ira umana. Secondo Gregorio Magno l’ira deriva dall’invidia, da quello stesso rodimento interiore, da quella ipertrofia dell’immaginazione: l’iracondo cercando ossessivamente un colpevole, che incarna la causa dell’ingiustizia subita (e può esservi anche una ira giusta: Achille nell’Iliade), non lo trova mai veramente, dato che questi si svela come un fantasma, come il tentativo di trasferire il male fuori di noi. L’ira finisce nei sette vizi capitali del Purgatorio dantesco in quanto, benché nata dalla convinzione di un torto subito, diventa subito, come tutti gli altri, un sentimento dispotico e autodistruttivo, una ossessione che ci assorbe completamente. Se nessuna pena può ricondurre allo stato precedente può farlo però - osserva Ginevra Bompiani - la cura del medico, che riporta il paziente allo stato di salute precedente, o anche la punizione come cura: Socrate nel Gorgia invita chi commette ingiustizia ad andare spontaneamente dal giudice, come si va dal medico: “La giusta pena è una cura a cui il colpevole si espone spontaneamente per essere guarito”. E anche se questo stesso ragionamento porta san Tommaso a teorizzare la pena di morte in nome del bene comune: la cura è sempre volontaria e però anche obbligatoria. Infine, conclude Bompiani: l’unica perfezione perfetta sarebbe quella del capro espiatorio, il quale veniva scelto a caso (la colpa gli era addossata ritualmente), e il caso non fa errori, al contrario di qualsiasi scelta: in tal caso “il rapporto tra colpa e punizione diventa puro”, innocente e, saltando ogni possibile legame tra castigato e castigatore, a quel punto si dissolve anche la ansia di vendetta. Ora, se davvero la vendetta, mascherata da giustizia “oggettiva”, sempre ci prende la mano, come dimostra almeno un racconto stupendo di Kleis, Michele Kolaas, che fare? Dobbiamo eliminare la giustizia? No, certo, ma occorre sempre ricordare quella sua origine perversa, maledetta e fuori controllo, perché solo tale memoria può imporci una qualche misura. E soprattutto, come osservò Sciascia, la giustizia deve essere amministrata non solo con equilibrio ma con una capacità di empatia, con uno spirito di immedesimazione. In una lettera a Pertini, alla quale non fu mai data risposta, Sciascia propose di far trascorrere a ogni futuro giudice tre giorni dentro un carcere! Il luogo più adatto per ricordarsi del nesso tra giustizia e vendetta. “Solo tredici chilometri” per coltivare un dubbio: si è innocenti fino a prova contraria di Francesca Spasiano Il Dubbio, 29 marzo 2021 Il romanzo di Mauro De Pascalis e Giovanni Accardo: un legal thriller che mette in luce il valore del diritto di difesa. Non era un manichino. Il corpo di una giovane donna restava senza vita in un fosso ai bordi della strada, a San Stino di Livenza, in provincia di Venezia. E decisamente non era un manichino - come sembrava - ma il cadavere di Johanna Pichler: 19 anni, austriaca, uccisa nel mezzo di una fredda notte in circostanze misteriose. “Solo tredici chilometri”, il libro scritto a quattro mani da Giovanni Accardo e Mauro de Pascalis per i tipi di Alpha beta verlag Edizioni, parte da questo equivoco. E sugli equivoci, o per meglio dire sul caso e le coincidenze, si fonda l’intera vicenda. Si tratta di un legal thriller, un fatto di cronaca nera realmente accaduto che si presta al romanzo attraverso la commistione di finzione letteraria e carte processuali. Dentro c’è tutto. La vocazione al giallo che tiene incollato il lettore per oltre trecento pagine di trepidazione. E lo spessore del romanzo di formazione, che sul finale coglie il protagonista e lo stesso lettore “storditi” e mutati, come dire: cresciuti. Sullo sfondo i paesaggi rarefatti nella nebbia di una terra a volte genuina, a volte cupa. Il vero tratto distintivo è che in questo libro il gusto noir si accompagna sempre al rigore del rito processuale, lungo tutte le fasi del procedimento penale. La sintesi che ne risulta riflette l’anima stessa dei due autori: da una parte la suggestione narrativa di Giovanni Accardo, scrittore e insegnante siciliano trapiantato a Bolzano; dall’altra l’impianto legale messo in piedi da Mauro De Pascalis, avvocato e docente del Foro di Bolzano. L’uno completa l’altro nel confezionare un prodotto ambizioso. E sottolineiamo ambizioso per il messaggio che intende veicolare: può capitare a chiunque di trovarsi imbrigliati nelle maglie della giustizia. Ma si resta innocenti, recita la nostra Carta, fino a condanna definitiva. “Al di là di ogni ragionevole dubbio. Non era il titolo di un film, era il Codice di Procedura penale: nessun imputato può essere condannato se non al di là di ogni ragionevole dubbio”, leggiamo sulla quarta di copertina. Che tradisce la firma del difensore, De Pascalis, nel libro Mario De Vitis, il giovane avvocato che assume il patrocinio del presunto assassino, Martin Scherer. Ma veniamo alla trama. Tredici chilometri sono quelli che separano il paese di provenienza della vittima, Sillian, dal confine italiano. E precisamente da San Candido, in Alto Adige, dove vive Martin. Il ragazzo, poco più che ventenne, è l’ultimo ad aver visto in vita Johanna. O almeno così sostiene l’accusa, dopo il ritrovamento sul cadavere della felpa di Martin. I due ragazzi passano insieme l’ultima serata della vittima, tra qualche bagordo e un bicchiere di troppo. Dopo il pub, si spostano a casa di Martin, con la promessa - lui spera - di dormire insieme. Ma Johanna improvvisamente cambia idea e decide di tornare a casa in autostop. Di qui in poi, solo un mucchio di indizi che dal cadavere della donna portano dritti a Martin. La felpa, una telefonata misteriosa, l’alcol e i segni sul corpo che sembrano suggerire una violenza carnale. Dal carcere il ragazzo si proclama innocente, e d’altronde manca una prova schiacciante che lo inchiodi. Il compito del suo legale è smontare una alla volta le accuse a suo carico. Ma soprattutto - promette a se stesso De Vitis - il suo compito è cercare la verità. Il giovane avvocato è alla sua prima esperienza in un procedimento penale. È un idealista di formazione, crede nella giustizia ma un dilemma morale lo assorbe nel corso dell’intera vicenda: il suo assistito potrebbe essere un efferato omicida? A liquidare in fretta i suoi dubbi ci pensa un illustre professore di diritto penale che con De Vitis divide l’incarico. Sui “rischi” della professione l’avvocato esperto taglia corto: “Marco, te lo dico per il tuo futuro, visto che sei ancora giovane: nel nostro mestiere bisogna saper essere anche cinici e non fidarsi di nessuno. La bontà, la generosità, la comprensione, lasciale ai preti”. Il rapporto tra i due legali ha grande valore formativo. Per il giovane difensore questo giallo investigativo si rivela un vero e proprio apprendistato umano e giuridico. E la lezione che se ne ricava vale per tutti, soprattutto in relazione a quel “vizio” sempre attuale di spettacolarizzare la giustizia. Il confine tra atto processuale e notizia di stampa deve restare netto, ci dice l’autore tra le righe. In un’inchiesta giudiziaria contano solo i fatti, si ribadisce nel corso di questa storia di cui Tv e giornali ne sanno sempre un po’ più dell’avvocato, arrivano prima, sbagliano e ritrattano, e in qualche occasione firmano vere e proprie sentenze di condanna. Vaccinarsi non è un privilegio, ma un diritto e un dovere di Giorgia Serughetti Il Domani, 29 marzo 2021 La campagna vaccinale, che fatica a tutelare le fasce più vulnerabili nella popolazione e a rispondere a criteri di giustizia, solleva interrogativi etici. Per molti la questione non è se vaccinarsi o no, ma è: ora o dopo, io o un altro? Porre questioni simili contribuisce a ragionare di politiche sanitarie in termini di equità e a denunciare le ingiustizie del sistema. Ma la partecipazione alla campagna vaccinale deve essere vissuta come l’accettazione o il rifiuto di un privilegio? La sconfitta la virus Sars-Cov-2 dipende dal carattere di massa della campagna di vaccinazione. Il punto è ragionare in termini collettivi e non individuali. Vaccinarsi è un diritto, ma anche un dovere. Ho trent’anni, sono un dottorando in buona salute: è giusto che mi vaccini prima di mia nonna? Sono anziana ma posso vivere riparata, non dovrei lasciare il posto alla madre di un ragazzo disabile o a un paziente oncologico? Domande come queste si leggono sui social, si sentono tra amici, si orecchiano per strada. In Italia la campagna vaccinale, partita tra ritardi ed errori, in un contesto di scarsità di forniture e indicazioni diverse per tipologie di vaccini, fatica non solo a soddisfare le esigenze di tutela delle fasce più vulnerabili nella popolazione, ma anche a rispondere a criteri condivisi di giustizia. Da qui nascono gli interrogativi che trasformano la partecipazione alla campagna vaccinale in un dilemma interiore. Per molti la questione non è se vaccinarsi o no, ma è: ora o dopo, io o un altro? A un anno di distanza dall’inizio dell’emergenza, la discussione sull’appropriatezza dei criteri e la messa in discussione di quello che è vissuto come un privilegio appaiono come segnali di vitalità etica del paese. C’è, lo sappiamo, chi trucca le carte e salta la fila. C’è anche chi, però, il proprio posto in fila lo lascerebbe volentieri a persone più bisognose. Leggiamo questioni simili sul New York Times Magazine, tra le colonne della rubrica The Ethicist tenuta dal filosofo Kwame Anthony Appiah. Un giovane del Montana gli scrive chiedendo se è giusto iscriversi alle liste di riserva, rischiando di prendere il posto di chi ha più bisogno. Un lavoratore di New York è preso da un dubbio etico: avrebbe diritto a vaccinarsi nella sua categoria ma il suo effettivo stile di vita non lo espone realmente a rischio. Porre questioni simili contribuisce a ragionare di politiche sanitarie in termini di equità, e a denunciare le ingiustizie del sistema, specie se dettate da interessi particolari. Ma è necessario che arriviamo a porci questi interrogativi a livello individuale? Ovvero, la partecipazione alla campagna vaccinale deve essere vissuta come l’accettazione passiva o il rifiuto volontaristico di un privilegio? Ci sono tre ragioni per rispondere negativamente. La prima è che la lista di priorità, anche se imperfetta o illogica, è legittima se disposta con deliberazione degli organi competenti, e chi vi rientra non sta usurpando il posto di qualcun altro. La seconda la spiega Appiah: “qualsiasi sistema che faccia un ragionevole tentativo di essere efficiente ed equo nel raggiungere l’obiettivo di ridurre il danno causato dalla pandemia è accettabile, nonostante i discutibili risultati prodotti in casi particolari”; viceversa, l’adozione di criteri troppo specifici per distinguere questi casi produrrebbe effetti avversi. La terza e più importante ragione è che la sconfitta la virus Sars-Cov-2 dipende dal carattere di massa della campagna di vaccinazione, perciò sottoporsi all’iniezione non significa solo proteggere il proprio benessere, ma anche quello degli altri. Il punto, dunque, è ragionare in termini collettivi e non individuali. Vaccinarsi non è solo un diritto, ma anche un dovere. La maggioranza ha un guaio sulla legge sull’omotransfobia di Daniela Preziosi Il Domani, 29 marzo 2021 Il presidente leghista della commissione Giustizia prova a frenare il testo, i voti giallorossi ci sono. Il segretario del Pd Letta spinge per l’approvazione, sarebbe la prima divisione con la Lega dell’èra Draghi. “Non vi vergognate? Pezzi di merda” e giù pugni, calci forti. Roma, stazione della metro Valle Aurelia, nove di sera. Due ragazzi, due giovani uomini, Jean Pierre e Alfredo, 28 e 24 anni, si baciano per salutarsi. Su di loro piomba un energumeno, li ha visti dall’altro marciapiede e poi non ci ha visto più, ha attraversato come una furia i binari della metro, li doveva menare. Un amico della coppia riprende la scena con lo smartphone. Si sente una voce di donna che urla a distanza. Alfredo che urla: “Jean Pierre, Jean Pierre”. Jean Pierre che cerca di scansare i colpi. È il video dell’ultima aggressione omofoba denunciata, risale al 26 febbraio scorso. Secondo le associazioni in Italia questa scena si ripete più di una volta al giorno. Ma il dato è parziale: non sappiamo quante non vengono denunciate. Ma Jean Pierre Moreno è un attivista per i diritti Lgbt, non vuole lasciar cadere la cosa. L’aggressore è stato poi identificato. L’episodio ha suscitato grande solidarietà bipartisan. Ma la destra assicura che le leggi esistenti bastano a “incastrare” il violento. Non è così, non sempre: Rosario Coco, di Gaynet Roma, racconta com’è andata con le forze dell’ordine: “La polizia ha faticato a comprendere il movente omofobo ed è servita una integrazione della denuncia per mettere nero su bianco la richiesta di recuperare i video delle telecamere di sicurezza, che proverebbero la dinamica dei fatti”. “Bisogna dare un nome alle cose, per farle emergere”, spiega Alessandro Zan (Pd). È il primo firmatario di un disegno di legge che però si è incagliato in commissione giustizia del Senato. Il testo introduce misure di “prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. Una formula dettagliata, frutto di molte mediazioni che hanno consentito, lo scorso 4 novembre, alcuni sì anche da destra: Elio Vito, Giusy Bartolozzi, Renata Polverini e Matteo Perego di Cremnago. Il voto segreto ha aiutato anche altri a dire sì. Zan racconta di “un approccio trasversale” in obbedienza a “una direttiva europea del 2012 ci chiede di adeguare la nostra legislazione”. Il ddl Zan è uno dei provvedimenti che la maggioranza giallorossa del governo Conte, fra contagi e crisi politica e nuova ondata di contagi, ha la lasciato a metà del guado. Dopo l’approvazione alla Camera la legge è approdata al Senato, in commissione Giustizia. Presieduta però da un leghista, Andrea Ostellari, che non l’ha ancora “incardinata” nella discussione: non ha nominato un relatore e non l’ha calendarizzata. Succube, dicono da sinistra, del capogruppo leghista in commissione, il senatore Simone Pillon, padre del Family day di Verona e di una controriforma del diritto di famiglia, poi affossata. Ostellari per ora non parla, i suoi fanno sapere che la legge sull’omofobia “non è una priorità”, i leghisti chiedono di “non strumentalizzare vili aggressioni per fini politici. Il nostro codice penale prevede già condanne e sanzioni adeguate per chi compie simili orribili aggressioni”. Il riferimento è alla legge Mancino. Il Pd la pensa all’opposto: “Chiediamo la rapida calendarizzazione della legge. Il tema è sentito da tutti, ed è urgente. Anche il segretario Letta ha dato un segnale forte in questo senso”, assicura la senatrice Monica Cirinnà, attivista per i diritti e madre della legge sulle unioni civili, che il giorno della fiducia a Draghi si è presentata in aula con una vistosa collana arcobaleno. Ma la Lega si prepara a fare muro. Tentando varie strade. La prima è pretendere di non affrontare “temi divisivi” per la maggioranza: “È come se noi volessimo riproporre i decreti Salvini”, dice il capogruppo alla camera Riccardo Molinari. “Un’idea sbagliata, ed è un’umiliazione del parlamento che ha tutto il diritto di votare una legge già approvata alla Camera”, replica il capogruppo Pd in commissione Franco Mirabelli. “Al primo ufficio di presidenza utile insisteremo”, quello di martedì scorso è misteriosamente saltato, “e se il presidente Ostellari rimanderà la questione alla capigruppo, si affronterà in quella sede”. Sarà una prova di forza del “nuovo Pd”? “Non una prova di forza ma una prova di buonsenso”, risponde Mirabelli. D’accordo con lui il ministro Andrea Orlando: “Ogni forza politica deve mantenere la propria libertà, il Pd deve farlo. Non sarebbe la prima volta che si creano maggioranze diverse tra governo e parlamento e questo sarà ancora più frequente con una maggioranza così ampia”. Fra l’altro come alla Camera, anche al Senato potrebbero arrivare voti da destra. La vicepresidente dell’aula Gabriella Giammanco, berlusconiana, ha già annunciato che voterà sì. E così potrebbe fare la collega Barbara Masini. E forse la presidente dei senatori forzisti Anna Maria Bernini. Ora che è cambiata la maggioranza di governo, il Pd porterà la legge a meta? Il segretario Enrico Letta è convinto di sì: “L’impegno del Pd contro l’omofobia e a favore del ddl Zan prosegue con maggiore determinazione”. Per la cronaca va segnalato qualche (ormai) isolato malumore sul testo in casa Pd a proposito delle fattispecie delle aggravanti. Liti in famiglia, che rischiano di fornire alibi alla destra. Giorgia Meloni, leader di FdI, è scatenata contro: è riuscita spericolatamente a trasformare la sua solidarietà con la coppia aggredita a Valle Aurelia nella ragione per dire no all’aggravante di omofobia, pur invocando “una pena esemplare” contro l’aggressore. “La violenza e la discriminazione sono già punite nel nostro ordinamento”, “diverso è utilizzare questo argomento per fare altro, ad esempio andare dai ragazzi di sette anni per fargli scambiare i vestiti per spiegargli che cosa è l’omosessualità”. “È vergognoso che Meloni distribuisca fake news speculando sui diritti dei bambini e sulle paure dei genitori”, replica Zan. Lasciando al loro posto i vestiti dei bambini, l’obiezione è che il codice penale già prevede l’aggravante per motivi abietti e futili. “Argomentazione priva di fondamento”, secondo Luciana Goisis, docente di Diritto penale a Sassari, ascoltata in commissione alla Camera, “La giurisprudenza sottolinea che tale aggravante va riconosciuta in base alle valutazioni medie della collettività in un dato momento storico: ora è evidente che l’accettazione dell’omosessualità non è affatto oggetto di condivisione unanime nella società italiana, sicché difficilmente, a meno di una interpretazione adeguatrice da parte della giurisprudenza, si può ritenere applicabile alla violenza omofobica”. Tradotto: dipende dal giudice. E neanche l’obiezione che si introdurrebbe una limitazione della libertà d’opinione regge: “Estendiamo la legge Mancino che oggi combatte i crimini d’odio per razzismo e religione”, spiega ancora Zan, “applichiamo gli stessi articoli del codice penale, la giurisprudenza ha già stabilito il confine fra la libertà di espressione e istigazione all’odio. O forse vogliono abolire la legge Mancino?”. Insomma Lega e FdI dovranno farsene una ragione, giurano i dem, dopo Pasqua il ddl Zan comincerà ad essere discusso a palazzo Madama. A partire dall’ufficio di presidenza di mercoledì prossimo. Così Google ha distrutto il web e lo ha trasformato in un recinto di Matt Stoller Il Domani, 29 marzo 2021 L’azienda ha di fatto eliminato ogni tipo di concorrenza per imporre la propria posizione di sostanziale monopolio La Ftc, l’agenzia statunitense che dovrebbe tutelare i consumatori, aveva le prove per poter intervenire nel 2012. Gli utenti si aspettano che Google offra i risultati migliori e più pertinenti per qualsiasi ricerca specifica. Ha però ha un problema con i casi limite. Quando un utente inesperto o disperato ha davvero bisogno di informazioni su qualcosa di importante e i venditori cercano di mentire o frodare l’utente, i risultati di Google possono essere non solo scadenti, ma anche dannosi. Nel 2017, ad esempio, i giornalisti Cat Ferguson e Dave Dayen hanno dimostrato che gli scadenti risultati di ricerca di Google erano diventati uno strumento utile per truffatori che cercavano di adescare tossicodipendenti e alcolisti verso finti centri di recupero. Gli strumenti di marketing di Google hanno spesso aiutato i centri di cura scadenti a ingannare i tossicodipendenti, alcuni dei quali avranno avuto ricadute. Promuovere strutture di riabilitazione di scarsa qualità è sbagliato e Google non ha ingannato direttamente i tossicodipendenti. Ma ciò che ha reso redditizio questo business è stato, tra le altre cose, l’accesso facile ai clienti consentito da Google. In effetti, come ha osservato Ferguson, queste società erano “unite dalla loro dipendenza da Google”. A disagio di fronte all’uscita pubblica di queste informazioni, Google ha fatto qualche sforzo per affrontare il problema, ma non ha mai veramente trovato il modo per impedire ai truffatori di utilizzare il suo servizio per danneggiare queste persone disperate. Nel 2019 il Wall Street Journal scriveva di milioni di inserzioni false su Google Maps che i truffatori hanno usato per ingannare i clienti e ricattare piccole e oneste imprese. Gli utenti sono stati fregati. Ma per le aziende, l’unica soluzione era spendere più soldi per la pubblicità su Google; le lamentele non portavano da nessuna parte. Un imprenditore ha detto: “È meno dannoso far incazzare il governo che Google. Il governo mi sanziona con una multa. Ma se Google sospende le mie inserzioni sarò senza lavoro. Google potrebbe farmi finire per strada”. Se da un parte generalmente si ottengono dei buoni risultati da Google, nei casi limite potresti ottenere risultati estremamente dannosi, come un tecnico che ti imbroglia, un cattivo medico oppure qualcuno che vuole rubarti i soldi mentre finge di volerti aiutare a riprenderti dalla dipendenza. È una specie di inganno di massa, poiché la maggior parte delle persone si aspetta che da Google si ottengano risultati credibili. Inoltre, chi si affida a Google per trasmettere informazioni ai clienti, come le piccole imprese, si trova spesso in una posizione di debolezza e la sua esistenza dipende da un monopolista della ricerca online che non lo nota nemmeno. Questi problemi relativi alla qualità sono un risultato del monopolio di Google; la scarsa qualità è un classico sintomo del potere di monopolio. Il modo in cui Google sembra offrire buoni risultati nel complesso, ma a volte compromette la qualità nei casi limite, è una questione in qualche modo sottile. Il principale motore di ricerca di Google è ciò che viene chiamato “motore di ricerca generale”, nel senso che fornisce risultati generali basati sull’indicizzazione della maggior parte del web. Esistono altri tipi di motori di ricerca. Yelp ed Expedia, ad esempio, sono noti come “motori di ricerca verticali” e si concentrano su un argomento molto più ristretto, le attività commerciali locali e i viaggi. Non si possono fare a Yelp domande di ricerca generiche o di cultura, ma probabilmente Yelp è più efficace di Google (sebbene non perfetto) nel rimuovere gli annunci fasulli dei ristoranti locali, perché tutta la sua attività consiste in questo. Ovviamente Google non è solo un motore di ricerca generico. Ha anche linee verticali di ricerca di business. Compete con Yelp, Expedia e gli altri, segnalando gli annunci di ristoranti, operatori sanitari, informazioni di viaggio, ecc., e ha le recensioni degli utenti. Gli incentivi però sono diversi per Google. Se Google Maps smettesse di elencare tutti i ristoranti di New York, le entrate perse neanche si noterebbero nerl conto economico di Google. Per Yelp invece rappresenterebbero una crisi strutturale della sua attività. L’amministratore delegato di Yelp senza dubbio dedica molto più tempo a pensare a come rimuovere gli annunci fasulli di ristoranti rispetto all’amministratore delegato di Google Sundar Pichai, perché Pichai ha nove prodotti con più di un miliardo di utenti. Forse Google riesce meglio rispetto alla maggior parte delle aziende a creare cose, ma non è bene che i suoi dirigenti non possano dedicare tempo a un problema di ricerca e, a parità di condizioni, comunque ottenere risultati migliori in una ricerca specializzata verticale. In altre parole, il motivo per cui Google non funziona bene per trovare la giusta struttura sanitaria o l’impresa locale è perché i suoi manager non sono concentrati su quello. Nella sua forma originale, dal 1998 al 2007, Google ha contribuito a fondare il mondo della ricerca generale e specializzata; ha scelto i risultati migliori indirizzando le persone al posto giusto sul web o ai motori di ricerca verticali giusti, che offrivano i risultati migliori. Come ha detto una volta il co-fondatore di Google Larry Page: “Vogliamo farti uscire da Google e portarti nel posto giusto il più velocemente possibile”. Le persone hanno costruito attività attorno al web aperto. Yelp è stata fondata nel 2004, quando ancora si potevano fondare aziende accanto a Google; Yelp riceveva molto traffico da Google perché aveva i migliori risultati locali. Tuttavia nel 2007 Google ha smesso di cercare di indirizzare gli utenti nel luogo più rilevante per rispondere alla loro domanda, e ha iniziato a trattenere gli utenti nelle proprietà di Google. Ha iniziato a trasformarsi da motore di ricerca generale in un giardino recintato e ha organizzato la sua strategia aziendale per escludere dal mercato i concorrenti, sia nella ricerca verticale sia in quella generale, in particolar modo quando le persone hanno iniziato a utilizzare i loro telefoni cellulari per fare le ricerche. All’inizio questo cambiamento è stato impercettibile, poi Google ha gradualmente ampliato il suo giardino recintato, includendo sempre più contenuti. Così facendo ha diretto le entrate pubblicitarie a sé, strangolando alla fine non solo i concorrenti della ricerca verticale, ma anche gli editori, la concorrenza nei contenuti video online e nella mappatura, nonché le aziende di tecnologia pubblicitaria. Oggi Google è il principale custode del web per utenti e inserzionisti e i venture capitalist non investiranno nelle aziende adiacenti. Il dominio di Google è anche il motivo per cui il web nel 2021 è sempre più un disastro: un luogo di truffe e disinformazione. Oggi, se ci fosse un mercato competitivo vibrante per la ricerca, il flop della clinica di riabilitazione probabilmente non sarebbe un problema; un motore di ricerca verticale incentrato sulla sanità potrebbe risolvere il problema che Google non è in grado di risolvere. Ma nell’internet-giardino recintato di Google, questa non è più una possibilità. E poiché non esiste davvero alcuna distinzione tra il web e il mondo offline, la relazione tra Google “proprietario assente” e i problemi relativi alle informazioni credibili è una delle ragioni per cui gli artisti della truffa e la disinformazione proliferano a livello globale. Non doveva necessariamente andare così. E infatti nel 2012 la Federal trade commission (Ftc), l’autorità antitrust degli Stati Uniti, aveva quasi intentato una causa che avrebbe impedito a Google di corrompere il nostro patrimonio condiviso di informazioni. E questo mi porta all’inchiesta di Leah Nylen su Politico.com, intitolata “Così il futuro è sfuggito di mano a Washington”, una retrospettiva sulla politica dell’amministrazione Obama nei confronti di Google. Nylen ha messo mano a una serie di accuse della Federal trade commission del 2012, documenti tenuti segreti per quasi un decennio. Recentemente ci sono state più cause antitrust lanciate contro Google, due da parte di stati e una a livello federale. La cosa sorprendente è che la Ftc nel 2012 aveva le prove per portare la maggior parte delle cause in tribunale. Quelli di noi che seguono queste cose non pensavano che i documenti del 2012 sarebbero stati così interessanti. Il voto per chiudere l’indagine su Google è stato unanime, 5 a 0, con i membri della commissione, repubblicani e democratici, che hanno lasciato andare Google. Ci è sembrato che l’Ftc non vedesse chiaramente il problema, poiché i mercati tecnologici tendono a trasformarsi rapidamente. Nel 2011, quando iniziarono le indagini, chi avrebbe immaginato che Google sarebbe diventato così potente e dominante? Eppure si scopre che la Ftc aveva le prove del comportamento di Google e semplicemente scelse di non agire. L’amministratore delegato di Yelp, Jeremy Stoppelman, ha definito i documenti rilasciati una “pistola fumante” poiché mostrano come “Google ha metodicamente distrutto il web”. Stoppelman è in concorrenza con Google, ma altri osservatori più neutrali sono d’accordo con lui. William Kovacic, un repubblicano ex membro della Ftc, ha dichiarato: “Ho sempre pensato che la nota dello staff non fosse così specifica, diretta e chiara sul percorso da seguire. Molti elementi dell’indagine del Dipartimento di giustizia sono lì dentro. Davvero toglie il fiato”. Kovacic, che ha votato per l’apertura di un’indagine nel 2011, ha lasciato la Ftc prima che l’accusa venisse votata, perciò fino a questa settimana non aveva mai letto questi documenti. Queste carte hanno rivelato molte cose, una delle quali è stata una battaglia all’interno dell’istituzione. Gli avvocati della Ftc, sebbene non cercassero lo scontro, si basavano sulle prove e volevano sporgere denuncia. Gli economisti della Ftc, al contrario, li hanno combattuti in ogni fase del processo, con previsioni che oggi, e francamente anche allora, lasciavano a bocca aperta per la loro inesattezza e stupidità. Dunque quali erano le accuse? I legali della Ftc hanno osservato due cose su Google. In primo luogo, Google ha intenzionalmente danneggiato e ucciso la concorrenza della ricerca verticale mettendo al primo posto il proprio prodotto, noto come “auto-preferenza”. “Google”, diceva l’accusa, “con regolarità e in modo evidente mostra le sue proprietà verticali, mentre allo stesso tempo penalizza proprietà che sono identiche alla sua, solo per il fatto che queste ultime sono siti verticali concorrenti”. Google sottrae ai rivali i loro contenuti generati dagli utenti e li presenta come propri. In secondo luogo, Google ha utilizzato gli accordi di esclusiva e il proprio potere di mercato per privare i suoi concorrenti del traffico degli utenti, delle entrate pubblicitarie, dei dati e degli inserzionisti. In tal modo Google ha prosciugato la vitalità del web al punto che i venture capitalist hanno iniziato a utilizzare l’espressione “kill zone” per descrivere i settori di non-investimento in prossimità di Google. Se avevano le prove perché la Ftc non ha fatto causa? Se le prove erano così forti, cosa è successo? Tre ragioni principali motivano la riluttanza a procedere. La prima è semplice: il conflitto di interessi. Google era estremamente vicino all’amministrazione Obama, con i suoi lobbisti che in media si riunivano una volta alla settimana alla Casa bianca. Oggi quattro dei cinque commissari dell’Ftc che hanno votato sul caso, così come i membri dello staff coinvolti come Howard Shelanski, ricevono denaro direttamente o indirettamente da uno dei colossi big tech. (L’unico ex commissario della Ftc che ha votato sul caso e non riceve il denaro di big tech è deceduto). Ancora più indicativo, la risoluzione del caso è avvenuta poco più di un mese dopo la rielezione del presidente Obama, una campagna in cui l’allora Ceo di Google Eric Schmidt, durante la notte delle elezioni, come ha riportato il Wall Street Journal, “stava supervisionando personalmente un software sull’affluenza al voto per Obama”. Oggi questo suona male, ma all’epoca la Casa Bianca guardava a Google, Facebook e Amazon come a servizi che stavano rendendo il mondo un posto migliore. I repubblicani li adoravano perché il Gop ama gli affari, e i democratici li amavano perché erano culturalmente progressisti e buoni per i consumatori. (Ad esempio, nel 2013, il noto opinionista democratico Matt Yglesias ha scritto a proposito di Amazon: “Amazon, per quanto ne so, è un’organizzazione di beneficenza gestita da elementi della comunità degli investitori a beneficio dei consumatori”). La seconda ragione principale era ideologica. Anche gli avvocati della Ftc erano sotto l’incantesimo dello standard del “benessere dei consumatori” e hanno creduto che Google avesse il diritto di monopolizzare fintanto che i consumatori non fossero danneggiati. Il motivo per cui, ad esempio, gli avvocati non volevano sporgere denuncia sull’auto-preferenza di Google nell’uccidere i motori di ricerca verticali non è stata il fatto che non conoscevano l’obiettivo. Si sono resi conto che era la strategia per monopolizzare. Ma hanno ritenuto che Google avesse presentato prove sufficienti a dimostrazione che i consumatori potevano apprezzare che il motore di ricerca di Google desse priorità ai suoi prodotti. Questa ideologia ha reso gli avvocati più docili, sebbene volessero comunque intentare una causa. La terza e più significativa ragione è che gli economisti antitrust della Commissione hanno avanzato un argomento molto forte e del tutto sbagliato contro il caso, che a posteriori si basava su una serie di previsioni ridicolmente inesatte. Mentre gli avvocati della Ftc presso il Bureau of Competition volevano sporgere denuncia, gli economisti del Bureau of Economics hanno detto che il caso non sussisteva. Credevano che i mercati degli annunci online e della ricerca fossero competitivi, i consumatori ne traessero vantaggio e che vi fossero poche prove di comportamenti scorretti. Ecco alcune delle ipotesi e delle previsioni del Bureau of Economics nel 2012: “I consumatori continueranno a fare affidamento sui computer desktop per la ricerca, non su smartphone o tablet; la pubblicità di sorveglianza che traccia gli utenti sul web ha solo un “potenziale di crescita limitato”; Google non è un monopolio; la qualità dei motori di ricerca non è determinata principalmente dai dati; Google non era una fonte di traffico particolarmente significativa per i motori di ricerca verticali come Yelp; la scelta di Google di fare il downgrade di contenuti più pertinenti a favore dei propri contenuti è un bene per i consumatori; le impostazioni predefinite non contano per i consumatori”. Alcune di queste ipotesi sono sbagliate, altre invece sono proprio folli. Prendiamo l’affermazione che la qualità del motore di ricerca non è guidata principalmente dai dati, che è ciò che hanno sostenuto gli economisti della Ftc. Questa idea è stata contraddetta dalla testimonianza che la Ftc ha ricevuto dal funzionario di Google Udi Manber. Manber ha detto alla Ftc: “Alla fine è così. Se Microsoft avesse lo stesso traffico che abbiamo noi, la sua qualità migliorerebbe in modo significativo e se noi avessimo lo stesso traffico che hanno loro, la nostra crollerebbe in modo significativo. È un dato di fatto”. E chi era Manber? Era l’ex capo della qualità della ricerca di Google. L’importanza dei dati non è un presupposto controverso. È solo uno a cui gli economisti di Ftc hanno scelto di non credere. La maggior parte delle altre affermazioni erano altrettanto stravaganti. Perché questi economisti, ben preparati e intelligenti, si sono affidati a supposizioni così stupide? La questione non è semplice come la corruzione finanziaria, anche se questa ha un ruolo. È che l’economia antitrust, in senso lato, non ha nulla a che fare con la comprensione dei mercati o del potere di monopolio. Allo stesso tempo, ad esempio, mentre gli economisti della Ftc respingevano l’idea che Google fosse un monopolio, gli economisti dell’altra agenzia federale di antitrust, la divisione Antitrust del dipartimento di Giustizia, erano altrettanto ridicoli nel giustificare il motivo per cui non avevano fatto nemmeno una causa contro un monopolista. Carl Shapiro, l’economista capo del dipartimento di Giustizia, ha detto che semplicemente non c’erano monopoli da perseguire. Non sto scherzando. Ecco una sua citazione. “In primo luogo, posso dire per esperienza personale che quando ero capo economista presso il dipartimento di Giustizia nel 2009-2011, la divisione Antitrust era sinceramente interessata a sviluppare casi meritori della Sezione 2, ed eravamo pronti a dedicare le risorse necessarie per indagare sui reclami e altre piste, ma abbiamo trovato pochi casi che giustificassero un ordine esecutivo basato sui fatti e sulla giurisprudenza”. Non è solo che il denaro che aziende dominanti hanno offerto al mondo dell’economia antitrust è ovunque; Shapiro, ad esempio, ora è un consulente per Google. Il fatto è che l’economia antitrust è concepita puramente come un linguaggio per escludere la gente comune dai dibattiti sull’economia politica. Se fosse concepito attorno a una sorta di validità scientifica, il fallimento dell’Ftc Bureau of Economics su Google sarebbe così eclatante da giustificare il licenziamento di gran parte del personale economico. Ma ciò non è accaduto: quello che è accaduto, invece, è stato un altro decennio di autocompiacimento. Durante l’era Trump, l’unica parte della Ftc a ricevere incentivi ai finanziamenti erano gli economisti. Ecco quanto è radicato il problema. Il nuovo presidente Joe Biden, dunque, agirà in discontinuità con Obama sulle norme antitrust? La risposta breve è sì. La domanda è con quanta aggressività deciderà di farlo. In ottobre ho fatto una serie di interviste a persone nella cerchia di Biden per un’inchiesta su come il presidente avrebbe affrontato il potere delle corporation. Ho fatto presente che Obama amava la Silicon Valley e ha perfino scherzosamente accennato l’idea che avrebbe fatto il venture capitalist una volta finito il mandato presidenziale, mentre invece Biden ha chiamato gli amministratori di big tech “piccole serpi”. Obama adorava i tecnocrati, ma Biden quand’era al Senato non sopportava gli economisti. In generale sono abbastanza contento delle mie previsioni: avevo detto che Biden avrebbe speso molto e sarebbe stato più populista di Obama. Ma Biden ha superato anche le mie aspettative. Ha assunto l’esperto di antitrust Tim Wu alla Casa Bianca e sta considerando di nominare Lisa Kahn alla Ftc. Nel frattempo anche i repubblicani, che erano altrettanto in solluchero per Google, sono cambiati. Nella parte finale del suo mandato, Trump ha portato avanti una causa antitrust contro Google, il dibattito a Capitol Hill è cambiato radicalmente nella destra e l’incredibile causa del Texas è carica di prove sul potere monopolistico e scevra di teorie economiche. Quindi entrambi i partiti hanno infranto lo status quo. Ciò detto, la domanda adesso è se i leader politici possano abbandonare finalmente il loro attaccamento per gli economisti. Questi sono molto più che dibattiti teorici. Quando qualcuno usa Google per trovare aiuto per curare una dipendenza, questa persona non si imbatte in un motore di ricerca ma in una macchina di manipolazione concepita per servire gli interessi di chi paga Google di più. Non doveva andare in questo modo. E se ora mettiamo da parte la questione economica, non dovrà andare in questo modo mai più. Stati Uniti. Che fine hanno fatto i primi 20 prigionieri di Guantánamo di Marta Serafini Corriere della Sera, 29 marzo 2021 Alcuni sono stati arrestati per errore. Altri sono tornati a combattere e uno di loro è morto. Solo due di loro sono stati condannati. Ma nessuno è stato ritenuto responsabile degli attacchi dell’11 settembre. L’11 gennaio 2002 i marines degli Stati Uniti scortarono 20 prigionieri vestiti in uniforme arancione da un aereo cargo dell’Air Force a Guantánamo. “Il peggio del peggio”, li definì il Pentagono. Erano i primi detenuti di una prigione che sarebbe diventata sinonimo di tortura e di abuso. E che è in funzione ancora oggi. Come ricorda un lungo articolo del New York Times, a firma di Carol Rosenberg che copre Guantánamo fin dal 2002, negli anni successivi ne sarebbero arrivati altri 760. Di questi solo 40 si trovano ancora a Cuba. Nessuno di questi 20 è mai stato accusato degli attacchi dell’11 settembre. Ma i loro destini e le loro disgrazie illustrano sia la controversa storia di Camp X Ray sia mettono l’amministrazione Biden davanti a una partita decisamente difficile: chiudere una prigione che costa al contribuente americano 13 milioni di dollari all’anno per detenuto. Solo due di quei primi 20 uomini sono ancora a Guantánamo. Uno è Ali Hamza al Bahlul, l’unico prigioniero attualmente condannato per un crimine di guerra, e sta scontando l’ergastolo. L’altro è un tunisino, Ridah bin Saleh al Yazidi, 56 anni, rilasciato anni fa ma che si è rifiutato di collaborare con gli sforzi per rimpatriarlo o trovargli una nuova patria. Il resto - un mix di combattenti incalliti, combattenti di basso livello e uomini che si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato - sono spariti da tempo, rimpatriati o dispersi in tutto il mondo in 11 nazioni, tra cui l’Australia e stati del Golfo Persico. Il primo a lasciare Guantánamo è stato un pakistano, Shabidzada Usman Ali, che aveva 21 anni quando fu rimandato a casa nel maggio 2003. Una volta rilasciato Usman Ali spiegò di essere stato vittima di un errore e di essere stato venduto da qualcuno per incassare una taglia. A Guantánamo, l’intelligence militare ha commesso anche altri errori, in particolare il rilascio nel 2007 del mullah Abdul Qayyum Zakir, membro dei primi venti e arrestato sotto lo pseudonimo di Abdullah Gulam Rasoul. Dopo il suo rilascio come comandante delle forze talebane nel sud dell’Afghanistan è oggi una delle voci più intransigenti nei colloqui di pace tra talebani e governo afghano. Altri tre, il mullah Fazel Mazloom, il mullah Norullah Noori e Abdul Haq Wasiq, tutti sulla cinquantina, sono tra i cinque prigionieri talebani che l’amministrazione Obama ha inviato a Doha, la capitale del Qatar, nel 2014 in uno scambio per il rilascio del sergente. Bowe Bergdahl, catturato dai talebani tra il 30 giugno 2009 e 31 maggio 2014. Dopo un periodo iniziale di reclusione, ora vivono con le loro famiglie in alloggi forniti dai qatarini. Possono muoversi liberamente per la capitale dove le loro mogli fanno acquisti nei mercati locali, i bambini studiano in una scuola gestita dal Pakistan - ma hanno bisogno del permesso del paese ospitante, degli Stati Uniti e della nazione di destinazione per viaggiare all’estero. I loro trasferimenti sono in linea con la strategia adottata dall’amministrazione Obama di inviare alcuni detenuti in altri paesi perché rimandarli a casa era troppo pericoloso. Tra i 30 prigionieri yemeniti presi in carico dall’Oman c’è Samir Naji al Hasan Moqbel, uno dei primi 20. Ora a 43 anni, ha trovato lavoro in una fabbrica, si è sposato e ora è padre di due figli. Altri due Ali Ahmad al Rahizi, 41 anni, e Mahmoud al Mujahid, 40 anni, entrambi yemeniti, non sono stati così fortunati. Fanno parte delle due dozzine di prigionieri inviati negli Emirati Arabi Uniti negli ultimi anni dell’amministrazione Obama. E restano imprigionati in condizioni che l’organizzazione Life After Guantánamo, con sede a Londra, descrive come terribili. Abd al Malik, 41 anni, yemenita, è stato mandato a stabilirsi in Montenegro. Qui ricevuto uno stipendio dal governo per un certo periodo dopo il suo rilascio nel 2016, ma ora cerca di sbarcare il lunario vendendo opere d’arte che ha realizzato a Guantánamo. Degli ultimi quattro - tutti rilasciati dall’amministrazione Bush - si sono perse le tracce. Gholam Ruhani, 46 anni, cognato di uno dei negoziatori dei talebani, è stato rimpatriato in Afghanistan nel 2007, e quella è stata l’ultima volta che il suo avvocato ha avuto sue notizie. Feroz Abassi è stato rimandato a casa in Gran Bretagna nel 2005, Omar Rajab Amin in Kuwait nel 2006 e David Hicks in Australia nel 2007. Tutti sono usciti dai radar. Hicks, 45 anni, un australiano convertito all’Islam, era stato catturato in Afghanistan nel 2001. Unico oltre il Bahlul ad essere finito sotto accusa, è tornato a casa dopo essersi dichiarato colpevole e dopo aver sostenuto di essersi pentito. Oggi fa giardinaggio e ha problemi di salute mentale e fisica. Il suo ultimo avvistamento pubblico è stato nel 2017 in un tribunale di Adelaide dove è comparso con l’accusa di violenza domestica, successivamente ritirata. Infine Abassi, 41 anni, ha confidato ad un giornalista nel 2011 di aver cambiato nome subito dopo essere tornato a casa. Amin, 53 anni, che si era laureato all’Università del Nebraska un decennio prima della sua cattura da parte delle truppe pakistane lungo il confine afghano nel 2001, vive una vita tranquilla con la famiglia in Kuwait suo Paese di origine. L’Arabia Saudita ne “ospita” altri 4: tre cittadini sauditi e un uomo yemenita la cui sorella è cittadina. Tutti si sono sposati e la maggior parte ha figli. Il più noto tra loro fece lo sciopero della fame durante la prigionia Abdul Rahman Shalabi, 45 anni, ed è stato imprigionato in Arabia Saudita al suo ritorno nel settembre 2015. È stato trasferito in un programma di riabilitazione più di un anno dopo ed è stato liberato per “buona condotta” prima che la sua condanna a tre anni fosse terminata nel 2018. Da allora si è sposato ed è diventato padre. Gli altri tre d inviati in Arabia Saudita - Mohammed al Zayly, 43 anni, Fahad Nasser Mohammed, 39 e Mohammed Abu Ghanem, 46 - hanno tutti completato il programma di riabilitazione. Chiudela lista dei primi venti prigionieri, Ibrahim Idris, un sudanese che i medici di Guantánamo hanno curato per schizofrenia, obesità, diabete e ipertensione e che è stato rimpatriato tramite un’ordinanza del tribunale nel 2013. Non ha mai trovato un lavoro, non si è mai sposato e ha vissuto a casa di sua madre a Port Sudan prima di morire il 10 febbraio per malattie legate al periodo trascorso a Guantánamo. Aveva 60 anni. Stati Uniti. Il grande rompicapo di Biden sul confine rovente con il Messico di Francesca Berardi Il Domani, 29 marzo 2021 Sul fronte messicano, a Tijuana, centinaia di migranti in attesa di superare il confine, sul fronte statunitense, a Donna, in Texas, decine di persone avvolte in teli isotermici di alluminio. È dura immaginare come Biden possa implementare nel giro di breve le politiche a lungo termine che davvero porterebbero a una riforma. E intanto a pagare sono i bambini. Una “tempesta perfetta” si sta abbattendo al confine tra Messico e Stati Uniti, scatenando una crisi umanitaria che l’amministrazione guidata da Joe Biden ha dapprima esitato a riconoscere come tale. La situazione si può spiegare in due fotografie, entrambe realizzate nelle ultime settimane. Sul fronte messicano, a Tijuana, centinaia di migranti in attesa di superare il confine, accampati da giorni in una piazza, indossano una maglietta bianca che - con una grafica che richiama quella della campagna elettorale di Biden - presenta la scritta: Biden, please let us in. Biden, per favore facci entrare. Sul fronte statunitense, a Donna, in Texas, l’immagine mostra decine di persone avvolte in teli isotermici di alluminio. Sono accampate su materassini plastificati stesi a terra, divise in gruppi di tende di plastica trasparente per limitare la diffusione del Covid-19. Tra queste ci sono numerosi bambini. Nel primo caso si tratta di una fotografia da prima pagina, scattata da un fotoreporter al confine. Nel secondo l’impressione è che l’immagine sia stata presa con uno smartphone, frettolosamente, cosa probabile dato che ritrae un accampamento di emergenza in cui non erano ammessi giornalisti. È stata diffusa - insieme ad altre dello stesso genere - dal deputato del Texas Henry Cuellar, l’unico democratico a rappresentare il suo stato a Washington. Il suo gesto ha contribuito ad alimentare le critiche nei confronti delle politiche sull’immigrazione avviate dall’amministrazione Biden. Tuttavia, nel corso di un’intervista televisiva, Cuellar ha piuttosto sottolineato le responsabilità della precedente amministrazione guidata da Donald Trump, e ne ha preso duramente le distanze: “Noi non rispediamo bambini, bambine, di cinque, sette, nove anni nel deserto del Messico, nelle mani dei trafficanti”. La tensione tra ciò che queste due fotografie rappresentano sta mettendo a dura prova Biden ad appena due mesi dal suo insediamento. Da una parte c’è il ruolo che gli viene attribuito - e che si è più o meno ingenuamente meritato - di rappresentare una speranza per migliaia di persone disposte a rischiare tutto pur di attraversare il confine. Dall’altra c’è il fatto che la sua amministrazione - e in particolare la sua vice Kamala Harris, incaricata da qualche giorno di gestire la situazione - si trova ad affrontare un picco di una crisi che era prevedibile ma alla quale evidentemente non era preparata. È una crisi che si presenta ciclicamente e per la quale né repubblicani né democratici hanno mai trovato una soluzione che fosse sostenibile e che non scatenasse indignazione sul trattamento dei migranti, soprattutto le categorie più vulnerabili. Secondo i dati pubblicati dal New York Times, al momento ci sono circa 5mila minori non accompagnati trattenuti al confine in centri di detenzione destinati agli adulti. Durante l’amministrazione Trump ce ne sono stati al massimo 2.600. La ragione è che il numero di bambini e adolescenti arrivati nell’ultimo mese è così alto che il dipartimento per l’assistenza sociale e dei rifugiati ne ha già in custodia più di 10mila e non riesce ad accoglierne altri nelle proprie strutture. Questi minori, così come gli altri migranti, provengono da varie zone dell’America centro-meridionale, soprattutto da Honduras, Guatemala e Messico. Fuggono da governi instabili e corrotti, da povertà e violenza, da aree rimaste in ginocchio dopo il recente passaggio di due uragani. “Non si vede la fine”, ha twittato lo scorso 18 marzo il capo della polizia di confine nell’area di Rio Grande Valley, mentre denunciava l’ingresso negli Stati Uniti di “grandi gruppi” di persone senza autorizzazione, tra cui intere famiglie con bambini. Già nel primo giorno della sua presidenza, Biden ha firmato cinque ordini esecutivi per abrogare le politiche di immigrazione di Trump che aveva definito “criminali”, riferendosi al fatto che hanno portato - tra le altre cose - alla separazione di centinaia di bambini dalle loro famiglie. Oltre ad aver ordinato l’interruzione della costruzione del muro tra Messico e Stati Uniti e avviato un programma per permettere a immigrati senza documenti già presenti nel territorio americano di ottenere la green card o la cittadinanza, ha tolto diverse restrizioni per l’approvazione di visti e più in generale per l’ingresso nel paese. Soprattutto ha revocato il programma conosciuto come “Remain in Mexico” per il quale coloro che cercavano asilo politico dovevano attendere fuori dal territorio americano - e dunque in pericolose città di confine del Messico o accampamenti - la decisione di un tribunale sul proprio caso. Ha inoltre avviato un programma per facilitare la riunificazione delle famiglie, impegnandosi allo stesso tempo a non riprendere la pratica - abusata durante l’amministrazione Trump - di rimandare indietro i minori non accompagnati entrati nel territorio statunitense. Biden ha voluto lanciare un segnale di rottura molto chiaro prima di dare alla sua amministrazione il tempo materiale per riorganizzare la burocrazia e le infrastrutture del complesso sistema dell’immigrazione sotto costante pressione. Intanto il numero di persone al confine determinate a entrare, già in aumento dalla seconda metà dello scorso anno, è cresciuto in modo esponenziale. Secondo le previsioni, quest’anno il flusso di migranti potrebbe raggiungere i due milioni di persone, esattamente quello che Biden aveva detto di voler evitare già prima di entrare alla Casa Bianca. Inutili sono stati i suoi più recenti appelli per arginare la crisi. Lo scorso 16 marzo, in un’intervista alla Abc, Biden ha respinto la provocazione secondo cui i migranti sarebbero stati incoraggiati a voler superare il confine perché lui è un “nice guy”, un “tipo simpatico”, e ha inviato un messaggio ai diretti interessati pregandoli di non mettersi in viaggio e di non abbandonare le loro città e comunità. Un messaggio molto simile a quello che avevano cautamente lanciato lo scorso dicembre anche Susan Rice, attuale consigliera per gli affari domestici, e Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, nel corso di un’intervista all’emittente di lingua spagnola Efe. In quella occasione, dopo aver confermato che Biden intendeva mettere in piedi una politica per l’immigrazione molto più “umana” di quella di Trump, avevano più volte sottolineato che ci sarebbero voluti mesi prima di poter implementare i piani. Creare le condizioni necessarie al confine, ha detto, “non è come una luce che puoi semplicemente accendere e spegnere”. I repubblicani ricompattati Infatti l’interruttore che Biden ha azionato al suo insediamento non è riuscito a cambiare repentinamente le cose. Anche una delle più estreme e controverse leggi volute dall’amministrazione Trump, la Title 42 - per la quale il governo si era appellato a ragioni sanitarie imposte dalla pandemia per respingere chi tentava di oltrepassare il confine senza autorizzazione - è rimasta in qualche modo in piedi. Ora non si può più applicare sui minori, ma continua a essere utilizzata per negare l’ingresso agli adulti che viaggiano da soli. Lo stesso vale per i centri di detenzione per immigrati. Per affrontare l’attuale crisi umanitaria e non rischiare eccessivi sovraffollamenti, Biden ha dovuto riaprire strutture ereditate dall’amministrazione Trump poi chiuse a seguito di dure polemiche da parte di democratici e attivisti per i diritti umani. È il caso della struttura d’emergenza che si trova a Carrizo, in Texas, rimessa in funzione per 700 adolescenti tra i 13 e i 17 anni. Tuttavia, sottolineano diversi attivisti, l’approccio dell’attuale amministrazione è decisamente diverso da quella precedente che passerà alla storia per i kids in cages, ragazzini in gabbia. Il governo di Biden si sta infatti impegnando a cercare di offrire sistemazioni temporanee più degne. Per ogni minore in custodia a Carrizo, racconta il Washington Post, il governo spende 775 dollari al giorno (la struttura è gestita da un’azienda privata, come la maggior parte dei centri di permanenza). Gli adolescenti potrebbero restarvi per decine di giorni, in attesa che l’amministrazione cerchi di riunirli a familiari già eventualmente presenti sul territorio americano. Unito come non si vedeva da tempo è invece il Partito repubblicano, che ha trovato un terreno comune per scagliare dure critiche contro Biden e la sua amministrazione, probabilmente anche nel tentativo di mettere in ombra la recente vittoria del presidente nel far passare un pacchetto di aiuti per la pandemia da 1.900 miliardi di dollari. Una delegazione di repubblicani guidata dal leader della minoranza alla Camera Kevin McCarthy si è recata al confine per lanciare un messaggio molto chiaro: l’attuale governo è il vero responsabile della crisi umanitaria in corso. McCarthy ha anche insinuato che dal confine con il Messico stiano entrando negli Stati Uniti anche terroristi provenienti dal medio oriente, facendo leva sull’accusa al Partito democratico di essere “morbido” nei confronti di questa minaccia. In un clima di forze contrastanti - in balìa di questa tempesta perfetta creatasi tra l’eredità della vecchia amministrazione e le velleità di quella attuale - è dura immaginare come Biden possa implementare nel giro di breve le politiche a lungo termine che davvero porterebbero a una riforma. E intanto a pagare sono i bambini. Turchia. Così il “sultano” si fa paladino dei Paesi maschilisti d’Europa allergici alla parità di Barbara Spinelli* Il Dubbio, 29 marzo 2021 L’addio alla Convenzione di Istanbul serve pure ad oscurare la messa al bando del partito Hdp. il cammino per il riconoscimento dei diritti delle donne come diritti umani è stato lungo e impervio, e solo nel secolo scorso -ieri nella storia dell’umanità- è stato approvato il primo strumento legalmente vincolante che esplicitamente sancisce l’obbligo degli Stati di dovuta diligenza nel predisporre tutte le misure necessarie a porre fine alla discriminazione contro le donne in tutte le sue forme, e in tutti gli ambiti della vita. Stiamo parlando della Cedaw, la Convenzione Onu per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione delle donne, entrata in vigore nel 1981 e ad oggi ratificata da oltre due terzi degli Stati membri, inclusa la Turchia. Il secondo passo è stato compiuto in questo secolo, con l’adozione di due strumenti regionali legalmente vincolanti per la lotta alla violenza maschile contro le donne: la Convenzione di Belem do Parà e la Convenzione di Istanbul. O meglio, la Convenzione interamericana per prevenire, sanzionare e sradicare la violenza contro la donna, entrata in vigore nel 1995, e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, entrata in vigore nel 2014. Sono molti i governi europei che fin da subito hanno dimostrato allergia verso questa Convenzione: il Parlamento ungherese, e quello slovacco hanno votato contro la sua ratifica. Bulgaria, Repubblica Ceca, Lettonia e Lituania hanno solo firmato. La Polonia ha iniziato nel 2020 il processo di ritiro dalla Convenzione di Istanbul, liquidandola come “una fantasia e un’invenzione femminista volta a giustificare l’ideologia gay”, secondo le parole del ministro della Giustizia, Zbigniew Ziobro. Le antipatie dei leader nazionalisti europei vanno lette per quello che sono, e cioè l’espressione, nel rispetto formale delle procedure democratiche nazionali e di quelle previste dalla Convenzione per il ritiro, di un maschilismo diffuso, volto a mettere in discussione i diritti delle donne e spaventato dall’ideologia gender. Da ultimo, il gran rifiuto della Turchia. O meglio, di Erdogan, il quale, approfittando dei superpoteri conferitigli dalla riforma costituzionale, con una circolare (tale è di fatto il valore di una decisione presidenziale nel sistema delle fonti) si è autoassegnato il potere di ritirare il Paese dal trattato ratificato, così bypassando il Parlamento, in barba agli articoli 90 e 104 della Costituzione turca. Ha deciso di iniziare dalla Convenzione di Istanbul, e, giusto per dimostrare ancora una volta al Consiglio d’Europa chi comanda, ha pure deciso di farlo fregandosene bellamente dei convenevoli previsti dall’articolo 80 della Convenzione, cioè senza procedere alla previa notifica di preavviso al Segretario generale del Consiglio d’Europa, che avrebbe aperto il periodo finestra di tre mesi antecedente all’acquisto di efficacia del ritiro. I significati simbolici di questo gesto sono molteplici, e vanno letti tutti insieme per coglierne la gravità. In primo luogo, in un Paese che primeggia in Europa per numero di femminicidi, cancella il protagonismo che le associazioni femminili turche avevano avuto sia nella fase redazionale della Convenzione, sia nella fase di scelta della candidata nazionale per il Grevio, l’organismo di monitoraggio della Convenzione, ed esclude dall’accesso a una protezione effettiva tutte le donne straniere, irregolari o non sposate, che non sono ammesse nelle case rifugio governative. Ribadisce dentro e fuori dai confini chi comanda, cioè lui. E la totale irrilevanza del Parlamento. La comunicazione di mezzanotte sul ritiro dalla Convenzione di Istanbul è stato un colpo di genio per spostare l’attenzione mediatica dal più grave colpo assestato alla democrazia turca dopo la riforma costituzionale, in corso nella stessa settimana. Il Procuratore capo della Cassazione ha chiesto infatti lo scioglimento dell’Hdp, con l’interdizione di 687 suoi membri dall’esercizio dell’attività politica perché accusati di sostegno al terrorismo. Se la Corte costituzionale confermasse l’accusa, sarebbe l’ottavo partito filocurdo ad essere chiuso, e segnerebbe la strada verso il consolidamento definitivo di una dittatura islamista e nazionalista in Turchia. Tutto questo, durante la settimana del Newroz, il capodanno curdo, e mentre si teme per le condizioni di salute Abdullah Ocalan, isolato nella prigione di Imrali. Ora, resta da vedere quale sarà la risposta dalle piazze turche, perché se Erdogan reclama potere e obbedienza, il popolo reclama democrazia e diritti. Quel che è certo, è che per ora le donne di tutta Europa si sono unite nelle piazze a quelle della Turchia, cantando gli stessi slogan: “We will not be quiet, we are not afraid, we do not obey!”. *Componente comitato esecutivo Eldh Libia. L’omicidio di Werfalli il macellaio di Bengasi “Era diventato un problema per Haftar” di Farid Adly e Francesco Battistini Corriere della Sera, 29 marzo 2021 Un alto ufficiale vicino al Generale svela perché è stato ucciso il braccio armato dell’uomo forte della Cirenaica. La Corte dell’Aja aveva emesso due mandati su di lui per crimini di guerra. “Werfalli era diventato una zavorra”. Per chi? “Per la direzione generale dell’Esercito di liberazione nazionale”. Una zavorra per Haftar? “Sì. La decisione di farlo fuori è venuta dalle stanze che contano”. L’alto ufficiale parla sotto anonimato. Ma parla con tono sicuro. È un uomo del generale Khalifa Haftar e come tutta la Libia commenta la vera notizia di queste ore, che non è certo la visita della missione Ue: mercoledì, in una trafficata strada di Bengasi, a due passi dalla facoltà di medicina dell’università, c’è stata una sparatoria furibonda. Un gruppo d’armati ha affiancato l’auto di Mahmud Mustafa Busayf al-Werfalli, 43 anni, il boia della Cirenaica. Ha aperto il fuoco. E ammazzato il libico più ricercato dalla giustizia internazionale dopo Saif al Islam, il figlio di Gheddafi. Il comandante delle forze speciali “Al Saiqa” (la Folgore) di Haftar. Il braccio armato, e insanguinatissimo, del generale che voleva farsi rais. Non è un delitto jihadista, dice l’anonimo ufficiale. È un delitto di Stato. “E questa non è una congettura che vi trasmetto: è un’informazione”. Molto si capisce da come si sono mossi i killer, spiega: “Il gruppo d’assalto ha agito con professionalità. Non ha lasciato tracce. E s’è dileguato su un’auto senza targa. I jihadisti non hanno questa capacità organizzativa. E soprattutto non potrebbero operare in una città sotto assedio, com’è Bengasi in questi giorni, blindata ovunque da posti di blocco che servono a garantire il passaggio di poteri dal governo di Al Thinni al nuovo governo d’unità nazionale, guidato da Abdul Hamid Dbeibah”. Quindi c’è un legame fra questo delitto e la svolta politica in Libia? “Certo che c’è”. Le prime condoglianze per la morte di Werfalli sono arrivate proprio da Haftar, che accusa i “vili manovratori nel buio” e cita l’“esempio di coraggio e redenzione nella battaglia d’orgoglio e dignità contro gli eretici e gli estremisti”. Poche parole, ben diverse dal caloroso video e dalla fluviale commozione espressi quando morì un altro capo della Folgore, Boukhmadi. La sua battaglia, Werfalli la combatteva con fin troppo zelo. “Speravo lo processasse la giustizia umana - è il gelido necrologio del leader dei Fratelli musulmani libici, Abdul Razzaq al Aradi -, oggi si trova di fronte alla giustizia divina”. Diplomato alle accademie militari di Gheddafi, salafita ultraconservatore, il comandante dei cinquemila miliziani d’Al Saiqa amava vantarsi delle sue imprese, fino a filmarsi: sul web si può trovare il video del gennaio 2018 in cui radunò una folla davanti a una moschea di Bengasi, dov’erano esplose due autobombe, e a favore di telefonini e d’applausi fece inginocchiare dieci jihadisti bendati, per giustiziarli uno dopo l’altro con un colpo alla fronte. “Questa è la mia legge - sfidò -. Se loro faranno nuovi attentati, io farò fuori altri terroristi. Qui, davanti a tutti. Voglio vedere se provano a processarmi per questo”. La Corte dell’Aja aveva emesso nel 2017 e nel 2018 due mandati di cattura per crimini di guerra e indagava su atrocità varie - dall’esecuzione d’una trentina di prigionieri vestiti con la casacca arancione dei detenuti di Guantanamo, alla morte d’una donna accusata di stregoneria e buttata in pasto a un leone -, ma l’Interpol non ha mai potuto arrestarlo, né la procuratrice gambiana Fatou Bensouda interrogarlo: era coperto da un’immunità speciale. E più Werfalli veniva ricercato, più Haftar lo promuoveva. Ci sono almeno sette video che ne raccontano le terribili gesta, corpi sfigurati e presi a calci: Werfalli recitava preghiere, prima di decretare la morte dei prigionieri. Qualche giorno fa, Bengasi era rimasta scossa dalla strage d’undici persone in un cementificio: qualcuno sostiene d’aver sentito i suoi vantarsene. Faceva e disfaceva: a marzo, le immagini delle sue milizie che distruggevano un concessionario Toyota, per punirne il proprietario che non aveva voluto cedere un terreno. Haftar ogni tanto fingeva di chiudere il suo fedelissimo in prigione, salvo scarcerarlo presto. E lasciarlo fare: “Werfalli è un caso nazionale - la spiegazione - e la nostra nazione è più grande di qualunque tribunale”. Perché quest’esecuzione? È un altro Haftar, quello che affronta l’ultima svolta libica. L’intervento turco al fianco dei nemici tripolini, la ritirata dall’assedio della capitale, il cessate il fuoco, l’insediamento del nuovo governo e le elezioni programmate dall’Onu a dicembre, la malattia che a 77 anni lo sta divorando: il generalissimo cirenaico ha visto la sua fortuna rovesciarsi, costretto ad affrontare un malcontento sempre più forte a Bengasi e a Tobruk, oltre che a chiedere maggiori aiuti al suo grande protettore egiziano, il feldmaresciallo Al Sisi. Le ultime voci, riportate dalla stampa turca, raccontano di mercenari siriani fatti atterrare direttamente a Bengasi, per preparare una controffensiva. Haftar è al crepuscolo? Più volte dato per sconfitto, fin da quando perdeva le guerre di Gheddafi in Ciad, l’eterno rieccolo della scena libica ha ancora risorse. Ma ha anche capito che qualcosa sta cambiando. E che l’opzione militare, per contare al tavolo d’una Libia nuova, forse non basta più. Uno come il macellaio di Bengasi, chissà, rischiava d’essere un imbarazzo: “Werfalli è stato scaricato per non aggravare l’isolamento di Haftar”, dice l’alto ufficiale haftariano. Social media, giornali online, opinionisti sotto anonimato sono tutti d’accordo: “L’assassinio è stato deciso direttamente dal generale”. E al di là dei commenti, un segnale giunge dagli stessi uomini di Werfalli. Che pubblicamente giurano una fedeltà (non richiesta) a Haftar. Che smentiscono di voler rompere l’unità cirenaica nella battaglia. Che però chiedono di fare giustizia: “Rapidamente”. Qualcosa sta cambiando, ed essere rapidi è un obbligo per tutti. Specie per il generale. Libano. La mal sopportata presenza di rifugiati siriani ha conosciuto una drammatica svolta di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2021 Nell’estate del 2014 la guerra siriana sconfinò in Libano: miliziani di Jabhat al-Nusra e dello Stato islamico attaccarono l’esercito libanese e rapirono 16 membri delle forze di sicurezza. Quella che venne chiamata “la battaglia di Arsal” terminò con un cessate il fuoco che permise a migliaia di combattenti dei gruppi armati islamisti di fare rientro a Idlib. Da allora, la già mal sopportata presenza di oltre un milione di rifugiati siriani in Libano ha conosciuto una drammatica svolta. La storia di 26 di loro, compresi quattro minorenni, accusati di reati di terrorismo la racconta un rapporto di Amnesty International pubblicato la settimana scorsa. Nel corso delle interviste, questi detenuti hanno raccontato di essere stati sottoposti ad alcune delle stesse tecniche di tortura utilizzate nelle prigioni siriane come il “tappeto volante” (la vittima viene legata a una tavola pieghevole, che viene progressivamente chiusa) o lo “shabeh” (la vittima viene sospesa dai polsi e picchiata), oltre che a percosse con vari oggetti: “Ci picchiavano sulla schiena con tubi di plastica. Le ferite aperte sulla schiena iniziavano a peggiorare notevolmente e alla fine c’erano dei vermi nelle ferite”, ha dichiarato uno di loro. Un altro rifugiato ha riferito che un agente di sicurezza l’ha colpito in modo così violento sugli organi genitali da causare per molti giorni la presenza di sangue nelle urine: “Ti colpisco qui cosicché non potrai mettere al mondo altri figli, così non potrete contaminare questa comunità”, urlava l’agente mentre lo picchiava. Due donne sono state molestate sessualmente e costrette ad assistere alle torture del figlio e del marito. Molti detenuti hanno detto che, mentre li picchiavano, gli agenti delle forze di sicurezza libanesi facevano riferimento alla loro opposizione al presidente siriano Bashar al-Assad. In nove casi, secondo l’esame degli atti giudiziari condotto da Amnesty International, essersi limitati a dichiararsi oppositori politici è stata considerata una prova sufficiente per una condanna per reati di “terrorismo”. In Libano la tortura è vietata da un’apposita legge, emanata nel 2017, ma su queste denunce non è stata aperta neanche un’inchiesta. In questo modo, in molti casi, i giudici hanno potuto basarsi su confessioni estorte sotto tortura. Almeno 14 detenuti hanno detto ad Amnesty International di aver “confessato” crimini che non avevano commesso dopo essere stati torturati. In 23 dei casi documentati i detenuti, due dei quali minorenni, sono stati processati dinanzi a tribunali militari, in violazione dei principi internazionali che proibiscono i procedimenti di civili dinanzi a tribunali militari. In almeno tre casi, sono stati emessi ordini di deportazione forzata in Siria e in un caso l’ordine è stato eseguito, in violazione del principio di non respingimento previsto dal diritto internazionale, che vieta agli Stati di rimandare persone in paesi in cui sarebbero a rischio di gravi violazioni dei diritti umani. *Portavoce di Amnesty International Italia Birmania. La condanna dell’Occidente, ma Russia e Cina fanno affari coi generali di Sara Perria La Stampa, 29 marzo 2021 Su alcuni media di Mosca, la Giornata delle Forze Armate Birmane di sabato scorso è stata presentata come una parata dell’export russo. La lista della spesa degli ultimi vent’anni include del resto una trentina di aerei 30 MiG-29, una decina di elicotteri e otto contraeree Pechora-2M, mentre è da poco iniziata la fornitura di sei Su-30SME. Poi radar e attrezzatura varia. Sono armi che sono servite negli ultimi decenni a combattere i gruppi etnici lungo i confini, potenziando forze armate di un Pese di 54 milioni di abitanti con un personale armato complessivo di oltre 500mila unità - il doppio dell’Italia. Ma, da quando ogni settore della società birmana ha deciso di manifestare il dissenso al colpo di Stato del primo febbraio, la repressione si è rivolta contro i propri cittadini, con tanto di blindati in vista. E il fatto che moltissimi Paesi abbiano voltato la schiena ai generali alla luce delle violenze, ha reso ancora più visibili i presenti alla parata militare di sabato. Non solo la Russia, che ha inviato un viceministro, ma anche Cina, India, Tailandia, Bangladesh, Pakistan, Vietnam e Laos. Giuseppe Gabusi, docente dell’Università di Torino e direttore del programma “Asia Prospects” del Torino World Affairs Institute, sottolinea l’importanza dei confini comuni - un dato di fatto per cinque degli otto Stati presenti. “La Cina è lo Stato che ha più interessi economici e ha un potere che si può definire “strutturale” perché può condizionare due aspetti: la sicurezza e il commercio”, spiega Gabusi, riferendosi all’influenza sui conflitti etnici sul confine e agli accordi del 2018 firmati con la Birmania dell’era Aung San Suu Kyi sulla nuova Via della Seta. Ora, dovendo mettere da parte gli ottimi rapporti con il governo civile, ha fatto scattare il proverbiale pragmatismo: “La Cina è pronta a difendere i propri interessi qualsiasi governo ci sia a Naypyitaw (la capitale della Birmania, ndr)”. Anche secondo l’ambasciatore dell’Unione Europea in Birmania, Ranieri Sabatucci, a causa degli investimenti e del crescente sentimento anticinese, la Cina è il Paese “che più ha da perdere dalla mancata soluzione di questa crisi”. A Yangon sono state incendiate trenta fabbriche del Dragone, facendo preoccupare non poco Pechino per i ben più imponenti investimenti portuali e strategici in Stati già instabili come il Rakhine e il Kachin. I birmani sono ben consapevoli del “peso” cinese e non a caso nelle forme di protesta creative delle passate settimane si è anche visto il blocco stradale del confine. L’India, invece, nonostante la recente vendita di un sottomarino, più che gli interessi economici ha bisogno di proteggere i confini dopo che già un migliaio di birmani, soprattutto delle forze di polizia, hanno chiesto protezione al Paese. E la Birmania ne ha già chiesto la restituzione, “per salvaguardare i buoni rapporti”, secondo quanto riportato, fra gli altri, dalla Bbc. Diverso il caso della Tailandia, che oltre a confine e interessi economici condivide anche un legame ideale perché il governo, di fatto militare ma ammantato di abiti civili grazie a controverse elezioni, “potrebbe rappresentare agli occhi della giunta un modello per il futuro della Birmania”, spiega ancora Gabusi. Intanto ai 114 morti del giorno della parata, inclusi bambini, si è aggiunta la violenza di ieri, con la polizia che ha aperto il fuoco sulla folla in lutto al funerale di una delle vittime uccise sabato. Ed emergono sui media locali particolari agghiaccianti su un giovane uomo colpito e poi buttato nel fuoco quando ancora era in grado di implorare aiuto. Così l’ultima condanna da parte di Paesi che includono Italia, Germania, Giappone, Corea cerca di colpire dialetticamente i militari: “Un esercito professionista segue standard internazionali di condotta e protegge, non fa del male”. Tutti tornano però a guardare alla Cina, consapevoli che sia la potenza che può giocare il ruolo più importante. E alcuni ricordano che Angel, la 19enne uccisa con un colpo in testa mentre indossava la maglietta “Andrà tutto bene” era di etnia cinese, riflesso di una inevitabile e spesso difficile storia di scambi e passaggi.