Salute mentale in carcere, Antigone: “La parità di cure, un diritto necessario” di Katya Maugeri sicilianetwork.info, 28 marzo 2021 È un universo parallelo, ignoto e silenzioso. Quello della salute mentale in carcere è certamente un argomento complesso di cui si parla sottovoce. Il lavoro dell’associazione Antigone, per fortuna, continua a mettere in luce le ombre e dà voce ai silenzi e ai diritti umani. Nel XVII rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia, Oltre il virus, sono presenti degli approfondimenti che raccontano la condizione attuale della salute mentale negli istituti penitenziari e la storia di M. Un detenuto presso il reparto di osservazione psichiatrica “Il Sestante” della Casa Circondariale di Torino. La sua storia viene narrata da un familiare che si rivolge al difensore civico di Antigone preoccupato della situazione critica in cui si trova il ragazzo. M. subisce un trattamento sanitario obbligatorio che da quanto raccontato non risponde a nessuna perizia psichiatrica, pertanto viene denunciata l’assenza di test clinici adeguati che possano giustificare una corrispondente terapia. Il ragazzo trascorre nove mesi continuativi nella cella di isolamento, la cosiddetta “cella liscia”, in cui la permanenza massima prevista dalla legge è invece di trenta giorni. Tenta il suicidio, ma viene fortunatamente salvato, ma chiaramente la sua condizione patologica peggiora notevolmente. È solo dopo le numerose denunce pubbliche, la lucidità e la presenza della famiglia che a M. sono stati concessi i domiciliari e adesso si sta riprendendo. Nel 2020, si evince dai dati del Report, si sono registrati casi di suicidio che non si presentavano da tantissimo tempo. “È importante raccontare la storia di M. per sollevare il problema irrisolto della salute mentale in carcere”. Spiega Michele Miravalle, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone. “Antigone chiede di garantire diritti e protezione a chi vive all’interno delle carceri italiane - continua Miravalle - e la parità di cure, principio giuridico e operativo che dobbiamo perseguire. Non c’è una ragione normativa etica, professionale per cui i servizi sanitari del territorio non entrino in carcere. Servono strumenti per tutelare la salute mentale del detenuto, occorre arrivare a una soluzione italiana con dinamiche costruttive ed evitare le situazioni drammatiche che continuano ad accadere”. In questo ultimo anno determinato dalla pandemia, l’interruzione delle attività creative, formative e dei servizi socio-sanitario ne ha amplificato l’intensità perché di fatto si “è dato più spazio a una medicina di emergenza, di reazione e non di prevenzione”. Il Coronavirus con tutte le sue conseguenze sociali ha creato fortissimi disagi alle persone con disturbi mentali, sia fuori che dentro il carcere, aggravandone le condizioni. Il carcere non è il luogo adatto in cui curare la patologia mentale e l’istituzione penitenziaria, per numerose ragioni (come la mancanza di risorse) non è nelle condizioni di gestire questo nodo complicato. Servirebbe una presa in carico individualizzata dei detenuti con disturbi mentali e invece si preferiscono soluzioni generalizzate. “La parità di cure, che è il principio cardine, l’uguaglianza dal punto di vista di salute dei cittadini liberi e ristretti è il punto da cui partire. Ci sono istituti in cui lo psichiatra entra un’ora a settimana e deve vedere 150 detenuti non riuscendo, chiaramente, a fare il proprio lavoro. È necessario, pertanto, affermare questa parità e da lì trovare gli strumenti e fare entrare in carcere gli operatori della salute mentale in maniera efficace”. Dal report Oltre il virus emerge inoltre un grande passo avanti, “il sistema Rems sta procedendo abbastanza bene: sono 32 le strutture italiane e nessuna con sovraffollamento. Risultati soddisfacenti anche nelle uscite, che chiaramente hanno bisogno di sostegno e di passaggi con le comunità. È un percorso importante e non era facile arrivare fino a qui”. Il tema legato alla tutela della salute mentale in carcere rappresenta certamente uno dei nodi più complicati da sciogliere. È necessario rompere il silenzio e fermare lo stigma, garantendo cure adeguate per non aggravare la condizione del detenuto nel contesto detentivo. Giornata del teatro: “In carcere laboratori ancora fermi: servono prospettive e nuovo slancio” di Ambra Notari redattoresociale.it, 28 marzo 2021 A parlare è Michele Traitsis, regista della Compagnia Balamòs Teatro attiva negli istituti penitenziari veneziani: “Per noi, per le persone detenute, per tutto il carcere la continuità delle attività è fondamentale. Oggi mi chiedo: come saremo quando potremo ripartire?” “È molto più faticoso, difficile e complesso di quanto non possa sembrare. Lo dico dal punto di vista dell’operatore, ma vale anche per le persone detenute”: a parlare è Michele Traitsis, regista della Compagnia Balamòs Teatro, attiva negli istituti penitenziari femminile e maschile di Venezia. Il progetto Passi Sospesi è cominciato nel 2006 alla Casa circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia, la Casa circondariale Sat di Giudecca (attualmente chiusa) e dal 2010 alla Casa di reclusione femminile di Giudecca: “Non ci siamo mai fermati, da allora. Solo qualche settimana ad agosto. Per il resto, siamo sempre presenti: la continuità è fondamentale. Per noi, per i detenuti, per tutto il carcere”. Un’attività continuativa fatta di attività collaterali, incontri con le scuole e con la società esterna che Traitsis racconterà al seminario di formazione internazionale organizzato per oggi, Giornata mondiale del teatro, dal Coordinamento nazionale teatro in carcere (di cui Balamos fa parte sin dall’inizio, ndr) e dall’International Network Theatre in Prison. Al centro del seminario, due significativa esperienze italiane di teatro in carcere con adulti e minori: oltre a Venezia, Palermo. I laboratori teatrali nelle carceri veneziane, dopo il primo stop obbligato dal lockdown della primavera 2020, a giugno dello scorso anno erano ripartiti, per poi fermarsi nuovamente a novembre. “Avremmo dovuto ripartire all’inizio del mese - spiega Traitsis - ma di fatto siamo ancora fermi. Speriamo di ripartire presto, questa situazione, pesante per tutti, è particolarmente difficile per le persone detenute. Si avverte maggiormente la solitudine e l’inerzia passiva: nelle carceri non entra più nessuno, a parte gli agenti e, talvolta, i volontari. Per chi lavora e collabora con gli istituti penitenziari, è chiaro che il carcere funzioni solo con tutte le sue attività parallele: l’alternativa è che si fermi tutto, con conseguenze drammatiche”. Con le attività in presenza sospese, i contatti si sono spostati su Teams, ma anche in questo caso le difficoltà non mancano: “Le linee sono poche, i detenuti tanti e la priorità, ovviamente, viene data alle comunicazioni con i familiari. Gestire anche i contatti con noi non è semplice: solitamente un paio di agenti penitenziari si occupano solo di questo, adesso non è più possibile. Gli organici sono ridotti, anche alla luce delle positività e delle quarantene. Stiamo cercando, per quanto possibile, di manifestare almeno la nostra volontà di esserci. Sicuramente, rispetto al primo lockdown, c’è più stanchezza, le energie sono poche. Per come la vedono i detenuti, mancano prospettive chiare. La domanda che mi faccio adesso è: quando finirà tutto questo come saremo? Da dove riprenderemo? Personalmente, non mi è mai capitato di rimanere inattivo per così tanto tempo, e questo non aiuta né la programmazione né lo stato d’animo. Sicuramente ci saranno strascichi. Quando ci siamo fermati a novembre, mancavano 10 giorni allo spettacolo del femminile, un lavoro legato alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Di sicuro, quando potremo ricominciare non lo faremo dal punto in cui ci eravamo interrotti. L’esperienza che abbiamo vissuto deve essere elaborata”. Al seminario di oggi, Traitsis parla di ripartenza e rilancio: “Questo prolungato isolamento crea disagi e tensioni: abbiamo comunicato sia al femminile sia al maschile che, oggi, al pubblico e alle istituzioni parleremo di prospettive, di una situazione in evoluzione. Obiettivo, dare una botta di positività”. E come si sono fermate le attività negli istituti penitenziari, sono bloccati anche i laboratori dedicati alle persone con malattie neurodegenerative, percorsi che coinvolgevamo persone malate, caregiver, operatori. “Per tutti quell’appuntamento settimanale era una grande valvola di sfogo. Si tratta di persone fragili, è stata la prima attività a fermarsi e sarà l’ultima a ripartire”. Tra le attività di Balamòs, anche quelle rivolte alle classi prime delle scuole secondarie di primo grado: “Quest’anno siamo partiti regolarmente, con il triplo delle iscrizioni. Probabilmente anche perché altri corsi non sono riusciti a partire, ma per noi è stato un grande motivo di orgoglio. Facevamo tre turni, per garantire il distanziamento. Se ho riscontrato differenze? Sì. I ragazzi mi sono sembrati più concentrati, più aperti, più desiderosi di esprimersi. Un dato, questo, che mi fa riflettere: questo desiderio di condivisione e relazione si sarà acceso anche nelle persone detenute? Si saranno ulteriormente chiusi è starà germogliando la voglia di reagire? Non vedo l’ora di scoprirlo”. Raggiunto l’accordo sulla presunzione innocenza di Liana Milella La Repubblica, 28 marzo 2021 La ministra Cartabia: “Una pagina molto bella per la giustizia”. La Guardasigilli soddisfatta per lo sblocco della trattativa tra i partiti. La direttiva europea del 2016 entrerà a pieno titolo nella legislazione italiana. “È una pagina molto bella. Un accordo su un principio fondamentale. Un mattone della costruzione che stiamo per disegnare insieme. Un momento da ricordare come metodo”. Con queste parole la Guardasigilli Marta Cartabia chiude la call che sblocca, in poco più di mezz’ora, il braccio di ferro sulla presunzione di innocenza. La direttiva europea del 2016 entrerà a pieno titolo nella legislazione italiana. Anche M5S, che si era sempre dichiarato contrario, ha accettato l’ingresso del principio che era condiviso invece da tutti gli altri partiti della maggioranza. Soddisfatto Enrico Costa che per primo, a novembre scorso, aveva proposto l’emendamento in commissione Giustizia, che però era stato respinto con una votazione finita 23 a 23 in cui quello del presidente di M5S Mario Perantoni era stato determinante per il no. Stesso atteggiamento di soddisfazione per Lucia Annibali di Italia viva che aveva anche presentato un proprio progetto di legge. L’emendamento che sarà approvato rispecchierà quelli presentati finora da Costa, Annibali, Pierluigi Zanettin di Forza Italia. Ne proporrà uno anche Alfredo Bazoli del Pd. Dello stesso tenore delle parole di Cartabia, quelle dei sottosegretari Francesco Paolo Sisto di Fi e di Anna Macina di M5S. La direttiva europea, nel suo punto chiave, scrive che: “La presunzione d’innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole. Ciò dovrebbe lasciare impregiudicati gli atti della pubblica accusa che mirano a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato, come l’imputazione, nonché le decisioni giudiziarie in conseguenza delle quali decorrono gli effetti di una pena sospesa, purché siano rispettati i diritti della difesa”. Appena martedì scorso, durante l’ultimo vertice organizzato dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà di M5S, sembrava proprio che le distanze politiche sull’inserimento del principio della presunzione d’innocenza fossero insuperabili. Soprattutto per il no netto proprio di M5S sull’ingresso, in questa legge, della direttiva europea, e per la stessa posizione di D’Incà, preoccupato che l’ulteriore passaggio al Senato della legge di delegazione europea ne rallentasse l’iter al punto da far rischiare all’Italia pesanti sanzioni Ue. Contro quel no, martedì erano insorti Costa di Azione, la renziana Maria Elena Boschi, il forzista Zanettin, nonché la Lega. La maggioranza così divisa rischiava pure un incidente in aula perché Fratelli d’Italia aveva annunciato a sua volta di voler presentare l’emendamento che avrebbe potuto essere votato da pezzi della maggioranza. L’unico compromesso possibile, già martedì, era apparso quello di un emendamento “short”, di poche righe, che Costa, con Riccardo Magi di Più Europa aveva già presentato. Un testo che recita così: entra nella legislazione italiana “la direttiva Ue 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Una soluzione, quella “secca”, depositata poi anche dalla renziana Annibali con il collega Catello Vitiello. Certo, per Costa e Magi che avevano proposto una serie di emendamenti ben più pesanti sulla impossibilità per i pm di dare un nome alle inchieste, di tenere conferenze stampa, di dare ai giornalisti l’ordinanza di custodia cautelare, di fornire materiale sull’inchiesta stessa, era una soluzione a ribasso. Ma comunque un passo avanti perché il principio della presunzione d’innocenza, per cui un indagato non può essere presentato come colpevole fino alla sentenza definitiva, faceva il suo ingresso ufficiale nelle leggi italiane. Dopo sei anni di attesa. E siamo a oggi, alla call convocata alle 17 per affrontare il caso che rischiava di esplodere in aula da martedì, con la conseguenza di presentare una maggioranza spaccata sulla giustizia proprio alla vigilia di leggi importanti come il processo penale, quello civile, e la legge sul Csm e sull’ordinamento giudiziario su cui Cartabia sta lavorando agli emendamenti che presenterà per la fine di aprile. L’unica soluzione, su cui anche chi non era d’accordo ha dovuto piegare la testa, è stata quella dell’emendamento “short”. Come dice Enrico Costa, che si intesta la “vittoria”, “un tema sollevato da Azione e da Più Europa trova la condivisione di tutte le forze politiche e si tratta di un passo avanti sulla strada dello Stato di diritto”. Soddisfatta anche Lucia Annibali, la responsabile Giustizia di Italia viva, che dice: “Sul tema della giustizia si ritorna a seguire il dettato costituzionale, un cambio di passo che ci soddisfa pienamente”. A questo punto, a parte il ritrovato plauso di tutti i presenti, prima del voto in aula andrà trovato un testo di poche righe condiviso. Bazoli del Pd ha preannunciato un suo emendamento che va ad aggiungersi agli altri. Ma proprio quelle poche righe sono destinate a influire sulle prossime leggi sulla giustizia, dalla riforma penale a quella dell’ordinamento giudiziario. L’effetto sarà simile a quando, nel 1999, fu ampliato l’articolo 111 della Costituzione, considerato e citato come la Bibbia da tutti i garantisti. Presunzione d’innocenza, martedì il voto alla Camera di Errico Novi Il Dubbio, 28 marzo 2021 Martedì il Parlamento recepirà la direttiva Ue con tre anni di ritardo. “Martedì alla Camera la maggioranza voterà a favore dell’emendamento sul recepimento della direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza. Un tema sollevato da Azione e +Europa trova la condivisione di tutte le forze politiche. Un passo avanti sulla strada dello Stato di diritto”. A dirlo su twitter è Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione. “Abbiamo scritto una bella pagina, un accordo su un principio fondamentale, che è un mattone della costruzione a cui stiamo lavorando”, ha commentato la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, a conclusione della riunione nel corso della quale si è raggiunto l’accordo sulla presunzione di innocenza tra le forze di maggioranza, che la ministra ha ringraziato. La direttiva è stata inserita nella legge di delegazione europea. “Il Partito democratico si era detto disponibile a discuterne nella legge delega del processo penale, per evitare ritardi nell’approvazione della legge europea, che rischierebbe di esporci a procedure di infrazione e sanzioni. L’impegno della maggioranza e del governo ad una accelerazione dell’iter di approvazione ci rassicura, e quindi non possiamo che manifestare la nostra soddisfazione per l’esito della discussione in maggioranza”, ha commentato Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd in commissione Giustizia della Camera. La direttiva si struttura in 11 articoli e fissa al 1° aprile 2018 il termine entro il quale gli Stati membri devono dare attuazione alle disposizioni della direttiva. Come emerge dalla intitolazione, sono due le aree tematiche di intervento: la presunzione di innocenza e il diritto di presenziare al processo. Nel delineare l’ambito di applicazione della direttiva, si precisa che la direttiva si applica a ogni fase del procedimento, dal momento in cui una persona sia indagata o imputata per aver commesso un reato o un presunto reato sino a quando non diventa definitiva la decisione che stabilisca se la persona abbia commesso il reato, cioè, ai sensi dell’articolo 3, sino a quando non sia stata legalmente provata la colpevolezza. Il nucleo centrale della direttiva è racchiuso nell’articolo 4, comma 1, ove si dispone che “Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità”. Al comma 2 della stessa disposizione si dispone che a garanzia del rispetto di queste previsioni deve essere assicurato agli indagati e imputati un ricorso effettivo. I riferiti limiti informativi (art. 4, comma 3) non impediscono alle pubbliche autorità di divulgare informazioni sui procedimenti penali qualora non sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico. Nella prospettiva qui considerata, all’articolo 5 si prevede che “Gli Stati membri adottano le misure appropriate per garantire che gli indagati e imputati non siano presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica. Il paragrafo 1 non osta a che gli Stati membri applichino misure di coercizione fisica che si rivelino necessarie per ragioni legate al caso di specie, in relazione alla sicurezza o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi”. Con ulteriori disposizioni si precisano i temi dell’onere della prova della colpevolezza che incombe all’accusa, del diritto alla prova (art. 6), del diritto al silenzio e del diritto di non autoincriminarsi (art. 7), nonché gli artt. 8-9 disciplinano il diritto di presenziare al processo, e il diritto ad un nuovo processo in caso di mancata presenza al processo. Dopo l’art. 10 che, come visto, richiede la predisposizione di un ricorso effettivo in caso di violazione dei diritti di cui alla direttiva, l’art. 11 prevede che entro il 1° aprile 2020 e successivamente ogni tre anni, gli stati membri trasmettano i dati con cui si è data attuazione alla direttiva e entro il 1° aprile 2021 sia presentato al Parlamento europeo ed al Consiglio una relazione sull’attuazione della direttiva. “Sul tema della giustizia si ritorna a seguire il dettato costituzionale, un cambio di passo che ci soddisfa pienamente. La soluzione trovata accoglie la proposta, contenuta nel nostro emendamento, di un recepimento secco della direttiva europea in merito al rafforzamento della presunzione di innocenza e sul diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”, così la deputata di Italia Viva Lucia Annibali, capogruppo in commissione Giustizia alla Camera e prima firmataria dell’emendamento alla legge di delegazione europea. “Avevamo detto che su un diritto sancito nella nostra Costituzione e nella della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, qual è la presunzione di innocenza, non avremmo tollerato ambiguità. Oggi si segna un importante passo in avanti che ci riporta alla salvaguardia di un principio costituzionale e che ci mette a riparo da una possibile procedura di infrazione”, conclude. Riforma dell’udienza preliminare, come cambia quella che oggi è una formalità di Massimo Donini Il Riformista, 28 marzo 2021 Uno dei temi più urgenti della riforma del processo penale riguarda il ruolo del giudice per l’udienza preliminare. Attualmente il pubblico ministero ha un potere illimitato di rinviare a giudizio una persona senza veri controlli. Perché nei procedimenti con citazione diretta non è previsto per legge che ci sia un filtro, mentre nei procedimenti con udienza preliminare quel filtro non c’è di fatto, in quanto il giudice per l’udienza preliminare non svolge una attività di vera disamina della congruenza dell’accusa, limitandosi a verificare (in sostanza) che essa non sia manifestamente infondata. L’udienza preliminare diventa così, salvo eccezioni o questioni di puro diritto, una formalità, una autostrada verso il dibattimento che condiziona tutta la cultura dell’accusa e delle stesse misure cautelari. Quanto questa situazione sbilanci il processo nel segno di uno strapotere del pubblico ministero, è palese agli operatori, soprattutto agli avvocati. La lunga durata di questa fase, misurabile in anni fino alla conclusione del dibattimento di primo grado, accentua il carattere punitivo-afflittivo dello stesso processo, spesso aggravato dalla sottoposizione dell’imputato a misure cautelari (per es. reali) di pesante afflittività, vagliate da tribunali che misurano gli indizi tenendo sempre a mente quelli sufficienti per il rinvio a giudizio, senza che esistano rimedi diversi dall’attesa della decisione dibattimentale. Il sistema processuale assicura così alcuni anni di afflittività da mera imputazione, e il pubblico ministero si sente deresponsabilizzato in quanto ci sarà un giudice che deciderà il rinvio a giudizio, anche se quel giudice non leggerà le carte in modo davvero approfondito. La riforma di un’inutile e forse dannosa udienza preliminare, prevista dai progetti ministeriali già elaborati sotto il precedente Governo e all’esame delle nuove commissioni nominate dal Governo Draghi, restituendo al Gup un ruolo di vero filtro, avrebbe l’effetto di ristabilire una situazione di maggior equilibrio tra pm e difesa, e di tutela degli imputati contro accuse prive di solide prognosi di successo. Ma tutto ciò ha un prezzo: quello dell’aumento del carico processuale del Gup, di maggiore impegno di tutte le udienze preliminari, e dunque di allungamento dei tempi di questa fase che precede il rinvio a giudizio. Quanto ciò possa risultare premiante sull’effetto di sfoltimento dei successivi dibattimenti, dipende dall’entità dei procedimenti decisi anticipatamene dal Gup e sottratti al giudizio. Se fossero pochi, si sarebbe ottenuto solo un allungamento complessivo di tutto il meccanismo. E allora tanto varrebbe eliminare l’udienza preliminare o renderla facoltativa. Se fosse significativo il suo filtro, i giudizi sarebbero alleggeriti, ma il tempo complessivo ne avrebbe guadagnato, perché la valutazione del Gup è pur sempre “allo stato degli atti” e il proscioglimento sarebbe avvenuto senza ulteriori prove da assumere. Si tratta di una riforma, comunque, che promette sicuramente molto più lavoro per i Gup. Tuttavia, essa potrebbe risultare davvero utile in termini di responsabilizzazione delle Procure: perché adesso se il pm “perde il processo” dopo il dibattimento, può sempre dire che si è giudicato secondo standard di prova diversi da quelli sufficienti per il rinvio a giudizio, non sentendosi veramente coinvolto. Viceversa, se l’accusa subisce un diniego nello stesso rinvio a giudizio, ciò significa che ha “sbagliato il processo”, basandosi su elementi di prova o giudizi inadeguati già secondo i parametri delle indagini preliminari, che sono sempre un po’ più larghi o provvisori di quelli del dibattimento, ma progressivamente più in linea con questi ultimi a seguito della ulteriore ipotizzata riforma dei poteri del Giudice dell’udienza preliminare. Poiché sappiamo, peraltro, che la maggior parte dei reati si prescrive in primo grado, la domanda è la seguente: come compensare questo aggravio di oneri e tempi delle indagini e del diluirsi delle udienze preliminari con il rischio-prescrizione che già incombe su molti procedimenti? In questo momento una riforma doverosa e di garanzia come quella configurata potrebbe costituire un aggravio di lavoro, ma anche un fattore di aumento delle prescrizioni in primo grado. Ciò significa che la riforma della Giustizia può permettersi di alleggerire il carico processuale solo al prezzo di diminuire alcune garanzie? Questa domanda se la porranno le Commissioni di riforma, vagliando altri progetti non meno rilevanti di analoga valenza prospettati nel documento del Ministro della Giustizia in data 17 marzo: l’aumento delle ipotesi di messa alla prova, di mediazione, di estinzione del reato per condotte riparatorie, o per tenuità o irrilevanza del fatto, non costituisce per nulla un obiettivo a costo zero in termini di oneri probatori di verifica, a meno che tutto non si risolva in pratiche burocratiche superficiali e sostanzialmente solo deflative. Si tratta, anche qui, peraltro, di esiti che produrrebbero alla fine una diminuzione dei giudizi solo se maturano nel corso delle indagini, con gli effetti già segnalati. Il disegno ha poi a suo favore il beneficio di produrre un mutamento nella “filosofia” dell’accusa: il pubblico ministero non avrebbe nessuna garanzia di facili rinvii a giudizio, e sarebbe invece coinvolto in programmi ben diversi; anche le estinzioni dei reati per condotte riparatorie, per tenuità del fatto, e altre forme di archiviazioni condizionate, o il patteggiamento nel caso della prevista estensione di questo rito alternativo, entrerebbero nella logica e nell’economia delle strategie che l’accusa stessa deve considerare e valutare discrezionalmente. La previsione di pene non detentive già nel testo dell’incriminazione (come “pene edittali”) abituerebbe a una cultura della scelta non carceraria e della ponderazione anticipata di strategie diverse dalla facile e disimpegnata richiesta di rinvio a giudizio. Tutto sarebbe più anticipato, ma dovrebbe essere anche oggetto di più rigorose attenzioni. La stessa figura dell’accusatore, insomma, ne guadagnerebbe in apertura a collaborare attivamente a progetti di giustizia applicata, anziché “rinviata” ad altre fasi, ad altri giudizi, ad altri pubblici ministeri. Certo tutto questo potrebbe avere un diverso prezzo: la sospensione della prescrizione in caso di condanna in primo grado. Per responsabilizzare la difesa a scegliere anticipatamente soluzioni alternative a rinvii sine die del giudizio nel merito, ovviamente compatibili con la valutazione di responsabilità o meno dell’imputato. Oggi gli esempi di molti ordinamenti e la cultura dominante in Europa sostengono la compatibilità di questa sospensione della prescrizione nel giudizio con la presunzione di innocenza dell’imputato prevista dall’art. 6, par. 2, Cedu “fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”. Ciò invece non si conforma alla presunzione di non colpevolezza “sino alla condanna definitiva” del nostro art. 27, co. 2, Cost., anche se l’accertamento di responsabilità in primo grado, senza indebolire quella presunzione, consentirebbe effetti negativi parziali di carattere non punitivo (come il blocco della prescrizione), al pari di altri già esistenti. Dunque ci troviamo di fronte all’impasse di una manovra che per assicurare alcune garanzie, vorrebbe o dovrebbe indebolirne altre, al fine di bilanciare la loro incidenza sui tempi processuali che sono la vera scommessa della riforma. Sulle soluzioni “di sistema” si sono già prospettate alcune indicazioni deflative calibrate, sia di amnistia (una tantum) e sia di depenalizzazione (Il Riformista 23 febbraio), senza dimenticare che comunque la prescrizione del reato è un diritto sostanziale indipendente da quello alla ragionevole durata del processo (Il Riformista, 18 febbraio). Sono tutte questioni che peraltro convergono nel formare una diversa “cultura dell’accusa” fondata sull’idea che il processo non consiste nel suo diritto di giungere a una pena subìta (anziché magari agìta) e di fruire di tempi illimitati se è stato bravo il pm; che non si vince con la condanna dell’imputato, ma con il raggiungimento della soluzione più equa per l’ordinamento: sia essa di vere alternative al giudizio, sia di valutazioni tempestive anticipate rispetto al dibattimento di primo grado, sia di promozione di condotte e prestazioni estintive del reato. Il tutto nel quadro di una futura, diversa e più trasparente gestione dei criteri di priorità, delle richieste di archiviazione e delle scelte operative e in realtà “discrezionali” su come articolare i rapporti tra domande processuali, tempi e fasi dei giudizi. Il riequilibrio dei poteri è un obiettivo “storico”, e apre anche all’avvocatura la prospettiva di un processo dove possa rinascere il valore della dialettica reale e di un sapere giuridico condiviso, oggi soppiantati dalla necessità, per i difensori, di proteggersi con ogni mezzo consentito da una macchina da guerra inefficiente e tuttavia maligna, da avversari parcellizzati in troppe fasi e sotto-procedimenti che deresponsabilizzano tutti, e infine dalle innumerevoli distorsioni di sistema. Zanettin (Forza Italia): “I magistrati non devono essere valutati proforma” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 28 marzo 2021 “Forza Italia vuole valorizzare il ruolo degli avvocati per quanto riguarda le valutazioni di professionalità dei magistrati”. A dirlo è l’onorevole Pierantonio Zanettin, capogruppo azzurro in commissione Giustizia alla Camera. Il tema della valutazione di professionalità delle toghe è tornato in questi giorni di grande attualità. Il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini, in una intervista, ha dichiarato che “per valutare la professionalità di un magistrato” vi debba essere “un controllo sulla qualità e tenuta dei suoi provvedimenti”. Anche autorevoli magistrati sono consapevoli che l’attuale meccanismo debba essere rivisto. Il problema, come però evidenziato con una nota inviata allo stesso Ermini dal presidente della Corte d’Appello di Venezia Ines Marini, è la mancanza attualmente di un sistema “affidabile” per valutare la “qualità” complessiva dei provvedimenti. Ad oggi nulla è stato fatto per rimediare a questa grave “falla” e per dare quindi attuazione concreta, al di là di meri propositi verbali, ad una valutazione realmente meritocratica dell’operato del magistrato. Onorevole Zanettin, ha fatto discutere il caso di un giudice del Tribunale di Pisa che, nonostante avesse forato con un pugnale le gomme dell’auto di una collega con cui aveva avuto una discussione e aver litigato violentemente per motivi di circolazione stradale, è stato promosso del Csm... Nella mia esperienza ho visto diverse situazioni paradossali di questo tipo. Esiste un problema di fondo. In che senso? Oggi la norma prevede che se un magistrato viene bocciato per due valutazioni di professionalità consecutive debba essere destituito. Licenziato? Sì. E crede che ciò possa essere una forma di “condizionamento”? Direi una forma di pressione, una sorta di “ricatto”, in quanto se non passa il magistrato rimane senza lavoro. Qual è secondo lei la logica di una norma congegnata in tal modo? La norma voleva evitare che soggetti inidonei venissero promossi. Però nel caso concreto ciò si traduce che una positiva valutazione di professionalità non si nega a nessuno. È una norma sbagliata, da cambiare. Anche in sede legislativa, dal momento che esiste un “non detto” sostanziale. I casi di destituzione, in effetti, sono più unici che rari… È così. Si verificano situazione spiacevoli, di cui ripeto sono stato testimone quando era al Csm nella scorsa consiliatura. Subentrano aspetti di carattere umano, sociale che nulla hanno a che vedere la professionalità del magistrato. Da dove partire, allora? Le valutazioni di professionalità non devono essere un proforma. Lei pensa, come Ermini, che per le valutazioni si debba analizzare l’esisto delle sentenze? È un discorso complesso. Bisognerebbe aspettare l’esito della Cassazione. A parte il tempo, va considerato che la Cassazione a distanza di una settimana, è capitato, si sia pronunciata in modo diverso su casi analoghi. Ormai la Cassazione ha perso la sua funzione nomofilattica. È un giudice di merito. Quindi serve valorizzare il ruolo degli avvocati? Certo. Nei Consigli giudiziari. E il ruolo degli uffici “dirimpettai” per fornire ulteriori elementi di conoscenza. È stato più volte ricordato che le valutazioni positive sono circa il 99,8 per cento... A parte questo dato, c’è l’esperienza quotidiana. Io faccio l’avvocato e vedo quello che succede nei Tribunali. C’è il magistrato laborioso e quello pigro. Però non esistono filtri efficaci di valutazione. Il capo ufficio può fare qualcosa? Ha un ruolo fondamentale. Serve un controllo di gestione di tipo manageriale. Vanno utilizzati parametri di valutazione differenti. Ad esempio? Quante sentenze vengono scritte, in quanto tempo, e così via. Sono però tematiche oggi estranee alla cultura tradizionale della magistratura. Ne ha parlato con il ministro della Giustizia? Ho già avuto una interlocuzione con la professoressa Marta Cartabia nelle scorse settimane. Ho molta fiducia che si possa giungere una riforma positiva in tal senso. E sul fronte dello smaltimento dell’arretrato? Per smaltire l’arretrato le riforme ordinative servono meno. Servono quelle organizzative. Altro argomento annoso... È vero. A parità di condizioni non si spiega perché gli esiti siano diversi. Mi riferisco a Tribunali con simili scoperture di organico o medesimi contesti territoriali. Eppure le disparità ci sono. In che tempi pensate di concludere? Completeremo il ciclo di audizioni e poi proseguiremo il lavoro nella Commissione. Speriamo di fare in fretta. Frank Cimini: “Il caso Palamara chiede riforme, perché il Colle non ascolta?” di Paolo Vites ilsussidiario.net, 28 marzo 2021 Palamara è stato interrogato per la prima volta davanti al Cms. A porte chiuse. Chi dovrebbe promuovere una riforma del sistema non muove un dito, Luca Palamara, l’ex magistrato espulso dalla magistratura, autore con Allessandro Sallusti del libro “Il sistema”, divenuto un caso politico, è stato convocato dalla Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura. E l’udienza è stata secretata. “Parlo di fatti e vicende documentati e documentabili, altrimenti non li avrei affrontati. So quello che ho fatto e che il mio impegno dev’essere chiarire come sono andate effettivamente le cose”, ha detto dopo l’audizione. Secondo Frank Cimini, già corrispondente de Il Mattino di Napoli, veterano della giudiziaria e fondatore del blog giustiziami, “Palamara continua a sostenere che tutto quello che ha fatto non lo ha fatto da solo, ma perché gli veniva chiesto, quindi continua a chiamare in causa la magistratura”. Parlare di riforma, ci ha detto ancora, “non ha senso, perché quale riforma si può fare contro lo strapotere della magistratura e con una politica sempre più debole divisa sul tema?”. Luca Palamara torna alla ribalta. Questa convocazione da parte del Csm che significato ha? Cosa ne è uscito fuori? Palamara, scagionando se stesso e cercando di alleggerire le proprie responsabilità che comunque non nega, dice che le cose andavano così da un sacco di tempo e continuano ad andare in modo storto anche adesso che lui non c’è più. Ha fatto degli esempi? Ha parlato in particolare degli uffici giudiziari di Roma e Milano. In sostanza fino adesso il suo caso è stato solo la punta dell’iceberg. Per questo ha lanciato un messaggio su quelli che possono essere degli sviluppi immediati. C’è il caso Roma, dove si andrà davanti al Consiglio di Stato dopo che il Tar ha censurato la nomina a procuratore capo di Michele Prestipino, il quale non ha intenzione di lasciare e vuole fare ricorso. Ma si oppone l’attuale procuratore di Firenze Marcello Viola, che si è costituito innanzi al Consiglio di Stato per chiedere il rigetto dell’istanza di Prestipino. La stessa cosa succede a Milano, dove il procuratore Greco aveva chiesto aiuto perché venissero nominati procuratori aggiunti i suoi candidati. Dopo il caso Bruti-Robledo adesso il Csm si guarda bene dal promuovere a procuratori aggiunti dei magistrati che non rientrano nelle grazie della procura proprio perché vuole evitare che si ripetano casi analoghi a quello di Bruti-Robledo. Di queste cose avrebbe dunque parlato Palamara? La sua audizione è stata secretata proprio perché lui ha fatto dei nomi, ha parlato di situazioni specifiche ribadendo la sua linea: voi mi avete cacciato ma io non potevo fare da solo quello che ho fatto. Ho fatto cose perché mi è stato chiesto aiuto per farle; facevo parte di un sistema, non ero da solo. È un sistema che continua a chiudersi a riccio... È un sistema su cui si dovrebbe agire, ma chi ha la responsabilità di farlo preferisce fare due pagine di intervista su Dante Alighieri (il presidente della Repubblica, ndr) e si limita a dire che bisogna fare riforme. Non è un problema solo di fare riforme, ma di cambiare mentalità e cultura. Non si capisce poi quello che queste riforme dovrebbero essere. Non c’è riforma che possa abolire lo strapotere della magistratura. Pensa che il nuovo ministro della Giustizia possa intervenire in questo caos? Il nuovo ministro è partito in linea con quello che aveva fatto alla Corte costituzionale e cioè dare grande attenzione al carcere, al superamento del concetto di carcere come unica soluzione al problema penale. Un ministro da solo può avere tutte le buone intenzioni del mondo, ma può fare molto poco. Spetta al parlamento e alla politica, che però continuano a essere assenti da tutto questo. Una politica che non sa affrontare il problema giustizia? Volendo allargare il discorso alla vicenda dei vaccini, vediamo anche lì che la politica è sempre più debole in tutta Europa, subisce i poteri delle multinazionali, che vendono i vaccini a chi li paga di più, non per salvare vite umane. Il governo Draghi invece? È un governo dove ci sono insieme visioni della giustizia che hanno interessi diversi. Non è che di idee ne abbiano poi molte, ma hanno interessi contrapposti, con un Salvini che apre bocca solo contro i magistrati quando ce l’hanno con la Lega. Intanto Davigo ha dovuto accettare il pensionamento con il voto di maggioranza del Csm. È la fine di un periodo storico? Si è rassegnato, non può avere rivincite formali. Adesso va in tv, scrive editoriali sul Fatto Quotidiano. Ma continua a non spiegare perché in merito alla procura di Roma ha cambiato più volte il suo candidato. Anche lui partecipava ai giochi secondo la convenienza del momento. Adesso è stato scaricato dal Csm, è un pensionato che dice la sua, ma di potere non ne ha più. La pagella ai giudici è il primo passo per una vera riforma della giustizia di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 28 marzo 2021 Qualcosa si muove sul fronte della giustizia, anche se c’è il rischio che l’appello del Capo dello Stato per velocizzare la riforma si scontri con le contraddizioni di una maggioranza eterogenea su tutto, ma che nella contrapposizione tra giacobini e garantisti trova sicuramente la più insidiosa pietra d’inciampo. Nella Costituzione materiale che si è affermata da Tangentopoli in poi, l’equilibrio dei poteri è palesemente saltato a beneficio dell’ordine giudiziario e dei suoi terminali mediatici, con la politica relegata a un ruolo più succube che subalterno. Per cui anche le rivelazioni di Palamara, una bomba atomica che in qualsiasi altra democrazia occidentale avrebbe aperto un vero e proprio scandalo di Stato, qui hanno avuto l’effetto di una pisola ad acqua, provocando solo qualche dimissione marginale ma lasciando intatto il sistema. La riforma del Csm, ad esempio, che dovrebbe spazzare via il peso abnorme delle correnti, è ancora in gestazione e sembra la montagna che sta per partorire un topolino, perché lo spirito di corporazione ha finora prevalso sulla necessità di voltare pagina. Riportare la giustizia italiana nell’alveo del dettato costituzionale, dopo i ripetuti strappi del ministro Bonafede a partire dal “fine processo mai”, sarebbe una urgenza democratica, ma vanno anche superate le contraddizioni della riforma dell’88 che ha lasciato troppe zone grigie fra processo accusatorio e inquisitorio, un ibrido che ha spalancato le porte allo strapotere dell’accusa. Ora ci sarebbe una duplice strada obbligata: il ripristino effettivo del principio di non colpevolezza e il ritorno al giusto processo di ragionevole durata. Così come nel processo civile vanno garantiti in tempi non biblici i diritti dei singoli e la competitività del Paese Riformare la giustizia in questo Parlamento sembra una missione impossibile, visto che la Camera non riesce nemmeno a recepire la direttiva comunitaria sulla presunzione di innocenza a causa del niet grillino. Ma sarà difficile ignorare la sentenza della Corte di giustizia europea sulle intercettazioni, che ha posto limiti inderogabili alle incursioni delle Procure nei dati privati dei cittadini. Togliendo al pubblico ministero la possibilità di acquisire liberamente i tabulati e le chat, la sentenza ha opportunamente rimesso al centro delle indagini preliminari la presenza di un giudice imparziale, in linea con i principi espressi dalla Consulta ma in aperto contrasto con l’uso indiscriminato dei trojan introdotto dal governo Conte. Il metodo Cartabia - mediare e rinviare - per ora ha avuto successo, ma saranno cruciali i prossimi mesi per verificare se porterà qualche risultato. Intanto la ministra ha messo sul tavolo una proposta coraggiosa, che da sola avrebbe effetti dirompenti sulla casta intoccabile dei magistrati: quella delle valutazioni di professionalità delle toghe basate su produttività e qualità delle scelte, che sono già previste ma solo formalmente, perché nel 99,6% dei casi sono immancabilmente positive. La pagella sarebbe un’inversione di rotta epocale rispetto al metodo Palamara e all’istinto di conservazione di una corporazione intoccabile. Le regole social per i giudici amministrativi di Davide Varì Il Dubbio, 28 marzo 2021 Le linee guida per i magistrati. Patroni Griffi: “Necessario un uso sobrio dei social media”. Sono state approvate nel corso del Plenum del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa le prime linee guida “sull’uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati amministrativi”. La delibera - come ha sottolineato il Presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, nel corso del dibattito in Cpga - vuole fornire “regole di comportamento condivise, frutto del comune sentire della magistratura amministrativa. Non si tratta di un orientamento culturale, vogliamo semplicemente sensibilizzare la nostra categoria su un uso sobrio dei social media, che vanno utilizzati con cautela. Siamo la prima magistratura a riflettere sul tema e ad auto disciplinarsi. Le linee guida non intendono introdurre limiti alla libera manifestazione del pensiero del singolo magistrato, ma sono un richiamo alla consapevolezza all’alto ruolo istituzionale della magistratura che non può essere smarrito in nessun momento della vita quotidiana, in coerenza con i codici etici e con le linee di indirizzo della Rete europea dei Consigli di Giustizia (Encj) sull’uso dei social”. “Il testo invita alla consapevolezza della grande opportunità ma anche dei grandi rischi a cui i magistrati sono esposti quando utilizzano i social; primo fra tutti quello della perdita di controllo delle informazioni che si immettono in rete, per evitare i rischi di condivisione online di informazioni personali e dati sensibili”, ha aggiunto il presidente. Stando alle linee guida, “i magistrati amministrativi utilizzano i social media, quale forma della libertà di manifestazione del pensiero, nel rispetto dei canoni di comportamento da essi esigibili, anche nella vita privata, secondo i codici etici dei magistrati amministrativi e le vigenti norme disciplinari, al fine di salvaguardare il prestigio e l’imparzialità dei singoli magistrati e della giustizia amministrativa nel suo insieme e la fiducia di cui sia i singoli che l’Istituzione devono godere nell’opinione pubblica. I magistrati amministrativi fanno un uso dei social media ispirato a parametri di consapevolezza dei rischi e dei vantaggi derivanti dall’utilizzo di tale forma di comunicazione, e di assunzione di responsabilità individuale per comportamenti e dichiarazioni divulgati con tali mezzi”. I magistrati amministrativi “possono utilizzare i social media, nella propria vita privata, anche attraverso pseudonimi, a condizione che l’uso di uno pseudonimo non costituisca un espediente per porre in essere comportamenti illeciti”. L’uso dei social media deve avvenire in maniera tale “da garantire il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti i consociati, nonché da salvaguardare la dignità, l’integrità, l’imparzialità e l’indipendenza del singolo magistrato, della magistratura amministrativa e delle istituzioni che la rappresentano”. I magistrati amministrativi “adottano elevati parametri di continenza espressiva, utilizzando un linguaggio adeguato e prudente rispetto a tutte le interazioni in essere sulle piattaforme di social media, nonché con riferimento al rischio della perdita di controllo del o dei contenuti immessi ed alla tipologia di contenuto oggetto di pubblicazione e diffusione”. Tra gli obblighi vi è quello di non comunicare con le parti, i loro rappresentanti o il pubblico in generale con riferimento a casi e controversie di propria competenza e non utilizzare i social media come strumento di pubblicità di proprie attività economiche extraistituzionali. “Le amicizie e connessioni sono create o accettate on line da parte dei magistrati ammnistrativi nel rispetto dei principi generali di diligenza e precauzione. Le amicizie sui profili social non costituiscono un elemento di per sé rilevante a manifestare la reale consuetudine di rapporto personale richiesta ai fini delle incompatibilità, la cui disciplina, di carattere tassativo, è prevista unicamente nell’art. 51 c.p.c. Le amicizie e i contatti sui social network e media, pur non equiparabili a quelli della vita reale, quando concernono persone coinvolte nell’attività professionale del magistrato devono essere contenute ovvero evitate, allorché essi possano incidere sulla sua immagine di imparzialità”. “Ho ucciso un carabiniere, sua moglie mi ha aiutato a cambiare” di Elena Del Mastro Il Riformista, 28 marzo 2021 Quando il perdono vale più di una pena. La storia di Matteo, che vuole aprire una Comunità. Matteo Gorelli ha 29 anni ed è un educatore della comunità Kayròs guidata da Don Claudio Burgio. È giovanissimo ma la sua storia racconta quanto il perdono può essere una lezione più grande di qualsiasi altra pena. Protagoniste insieme a lui sono sua mamma, Irene Sisi e Claudia Santarelli, la moglie del carabiniere che uccise in una notte di follia. Il nome di Matteo è legato a un’orribile pagina di cronaca nera: l’omicidio del carabiniere Antonio Santarelli, 43 anni, la notte del 25 aprile 2011. Matteo era a bordo di un’auto con altri 4 adolescenti di ritorno da un rave party dalle parti di Grosseto. Due carabinieri li fermarono per un controllo. Matteo era appena 19enne, il più grande della comitiva. Risultò positivo al test delle sostanze per cui gli fu ritirata la patente. Preso da un momento di collera, scattò la violenza sui due carabinieri a colpi di calci e spranghe. Uno dei due perse un occhio, l’altro, Antonio, finì in coma e morì un anno dopo. Matteo ricorda perfettamente la data: “L’11 maggio 2012, il giorno più brutto della mia vita. Ho pensato che il gesto che avevo compiuto, per quando potessi sforzarmi di rimediare, conteneva l’irreparabile”, ha detto intervistato dal Corriere della Sera. Finì in carcere a Bollate. Ed è qui che inizia la seconda vita di Matteo. Ha preso una laurea in Pedagogia alla Bicocca con 110 e lode e si è iscritto per una seconda laurea in Economia. Intanto gode dei permessi di lavoro con cui ogni giorno va alla comunità Kayròs dove è educatore. Lavora a stretto contatto con minori in area penale e con loro ha un bellissimo rapporto. Insieme a tre ragazzi (Chiara, Yassa e l’ultimo si chiama proprio Antonio) ha appena vinto un bando della Scuola dei quartieri del Comune: il loro progetto, Attitude Recordz, prevede un nuovo centro giovanile che previene la devianza e dove si insegnerà la musica, la scrittura, il video-making, la poesia. “Stiamo cercando una sede e una sala di registrazione che ci ospiti”, ha detto con entusiasmo Matteo. In 10 anni è una persona nuova, vive di sogni e si impegna a realizzarli, aiutando chi ora è quello che lui è stato tempo fa. Tutto questo lo deve a due donne coraggiose che non lo hanno mai lasciato solo: Irene, sua mamma e Claudia, la moglie del carabiniere che uccise. All’inizio fu Irene ad avvicinarsi a Claudia per aiutare suo figlio a capire l’errore fatto: “Ero gli occhi e le orecchie di Matteo, mio figlio doveva vedere e ascoltare le vittime, per potersi pentire fino in fondo. Lui era recluso in carcere, così andavo io da loro”, ha raccontato al Corriere della Sera. Claudia negli anni lo ha perdonato, quasi adottato. “Forse non è un caso che quella notte abbia incontrato proprio il mio Antonio. Credeva con tutto se stesso nel recupero degli adolescenti, per questo faceva il carabiniere. Pensando a come questo ragazzo è diventato oggi, un senso a tutto questo ora lo trovo”, ha detto Claudia. Ancona. Detenuto muore per cause naturali, altri 4 si feriscono per protesta di Claudio Comirato Corriere Adriatico, 28 marzo 2021 Si tagliano le vene dopo aver saputo del dramma di un detenuto marocchino, deceduto nel cuore della notte precedente. Quello di ieri è stato un pomeriggio pieno di tensione al carcere di Montacuto dove quattro detenuti di origini marocchine e tunisine si sono tagliati con delle lamette la parte esterna delle braccia. Un gesto autolesionistico molto probabilmente collegato al decesso di un ragazzo di origini marocchine morto per cause naturali nella notte compresa tra venerdì e sabato. Sta di fatto che i quattro molto probabilmente si sono messi d’accordo in mattinata e nel tardo pomeriggio, in contemporanea, hanno messo in scena questa protesta. Ad accorgersi di quello che stava accadendo è stato il personale della polizia penitenziaria in servizio all’interno del carcere che ha subito avvertito il personale medico presente all’interno della struttura. Nel frattempo era stata allertata anche la centrale operativa del 118 che ha inviato sul posto l’automedica, due mezzi della Croce Gialla di Ancona e una terza ambulanza della Croce Rossa. I quattro magrebini, una volta medicati e assistiti dal personale medico e infermieristico, sono stati caricati nelle tre ambulanze e trasportati con un codice di media gravità al pronto soccorso dell’ospedale regionale di Torrette. Mezzi di soccorso che durante il trasferimento sono stati scortati dal personale della polizia penitenziaria. Una volta in ospedale ai quattro sono stati applicati alcuni punti di sutura, essendo le ferite superficiali. Non è la prima volta che al carcere di Montacuto accadono fatti del genere. A gennaio un 34enne di origini tunisine si era procurato delle ferite con alcune lamette arrivando anche ad aggredire due poliziotti, mentre nel novembre del 2019 un altro detenuto si era cucito labbra e palpebre riuscendo ad ingerire anche due pile. Trapani. “Mio marito è distrutto, dimagrito e sta male”, la denuncia di Gilda di Rossella Grasso Il Riformista, 28 marzo 2021 “Quando l’ho visto nella videochiamata mi ha detto che gli facevano male le costole per le botte. Mi ha anche fatto vedere i lividi sul collo”. Gilda Di Biasi dopo l’ultima videochiamata del 26 marzo con il marito Salvatore Basile, 29 anni, ha subito denunciato tutto ai Carabinieri del Rione Traiano di Napoli. “Scontano le loro colpe con il carcere, non devono pagare con la vita”, ha detto. Gilda racconta che il 19 marzo il marito, detenuto a Secondigliano già da 5 anni, è stato trasferito al carcere di Trapani. “È stato trasferito perché all’inizio di febbraio mi ha chiesto di registrare una videochiamata in cui denunciava la situazione in cui stavano i detenuti in quel periodo”. Il video circolò rapidamente tra i familiari dei detenuti creando non poca ansia e qualche tensione all’interno del carcere. “Salvatore durante la video chiamata mi ha detto che da quando è arrivato al carcere di Trapani è in isolamento sanitario - racconta la donna preoccupata per il marito. Mi ha detto che tutti i giorni è vittima di percosse da parte della Polizia Penitenziaria. Gli danno schiaffi e pugni, tanto che gli fanno male le costole. Mi ha fatto vedere la parte destra del collo tutta arrossata e viola”. Il suo racconto è tutto riportato nella denuncia che ha fatto ai carabinieri. Ma c’è anche un’altra questione che preoccupa Gilda: “Salvatore sta sempre con la stessa tuta del Napoli addosso dal 19 marzo - racconta - non gli portano vestiti, coperte e nemmeno la carta igienica. Mi ha detto che da quando è arrivato gli hanno dato solo una barretta da mangiare”. Nel video, raccolto dal Riformista ai primi di febbraio, Salvatore raccontava di essere chiuso in cella dal 17 novembre, dopo aver contratto il Covid. “Quindici giorni fa c’è stata una persona con il Covid e ci tengono chiusi in stanza. Dicono che è per prevenzione del Covid. Ma siamo stati tutti insieme eppure chiudono in stanza solo noi della quarta sezione”, diceva nel video. E ancora: “Uno dei poliziotti penitenziari ci ha minacciati dicendo che dobbiamo stare in stanza senza protestare. Questo è un abuso. Vogliamo pagare per gli errori che abbiamo commesso nelle nostre vite e non chiediamo sconti, ma vogliamo che la nostra dignità non venga calpestata.”. “Vi faccio vedere la sezione - aveva detto - casini non ce ne sono, ci minacciano inutilmente. Noi abbiamo sbagliato e siamo qui per pagare ma non vogliamo farlo con la dignità che è la cosa più importante per un uomo”. “Spero che Mattarella o il ministro della Giustizia vengano a vedere come siamo messi in questi carceri - continuava il video - Dicono che le prigioni sono come alberghi ma non è così”. E mostrava la sua cella e soprattutto il bagno, senza finestra e con l’aeratore che diceva essere rotto. “Spero che il mio appello possa arrivare lontano”, concludeva. Genova. Marassi e Pontedecimo, nessun contagio a oggi nelle carceri super affollate di Matteo Indice Il Secolo XIX, 28 marzo 2021 Nelle carceri genovesi, potenziale polveriera, sono riusciti a mantenere la bolla: nessun contagio al momento fra Marassi e Pontedecimo (in Valpolcevera si oscilla tra 0 e 1 di giorno in giorno), dove tra detenuti e personale dell’amministrazione penitenziaria si superano le 1.500 persone. Soprattutto: entro una settimana dovrebbe iniziare la vaccinazione dei reclusi, passaggio nodale per scongiurare focolai incontrollabili e però fisiologicamente controverso. “Contiamo - spiega Marco Salvi, direttore della struttura sanitaria creata per fronteggiare l’emergenza Covid in entrambi gli istituti - di concludere a brevissimo le somministrazioni al personale. A quel punto saranno maturi i tempi per il siero ai detenuti e capisco che in molti restino perplessi davanti a una campagna che mette in sicurezza figure particolari, mentre numerosi anziani ancora non lo sono. Ma attenzione: sebbene l’età media di metà della popolazione carceraria sia inferiore ai cinquant’anni, molti di loro hanno problemi di salute e soprattutto sono difficilmente controllabili all’esterno, dove rischiano di trasformarsi in veicoli”. I dati più aggiornati riferiscono di 644 detenuti presenti a Marassi: gli stranieri sono più della metà, 355, e la capienza regolamentare sarebbe 521. A Pontedecimo sempre i detenuti sono in vece 149 (70 donne), gli stranieri 76 e i posti disponibili sulla carta non più di 96. “Se si diffonde l’infezione in questi luoghi- prosegue Salvi - monitoraggio e contenimento diventano proibitivi, e la percezione del carcere come luogo chiuso e impermeabile va scardinata. Si alternano educatori, avvocati, magistrati, fornitori. Il primo paziente positivo lo abbiamo registrato a causa del contatto con un legale, avvenuto nel corso di un interrogatorio”. La difesa del fortino si materializza con tamponi all’ingresso e dopo dieci giorni “e solo a quel punto si dà via libera all’attività sociale; ma è chiaro che gli spazi compressi non aiutano e impongono accertamenti capillari”. Il capitolo vaccini, allora. Nei penitenziari si usa AstraZeneca e si è scelto di non andare oltre le trenta somministrazioni quotidiane agli agenti. Ancora Salvi: “L’obiettivo è quello di non scoprirsi nel caso in cui si manifestino effetti collaterali: con troppi poliziotti eventualmente out per l’insorgere di febbre o malesseri, diventerebbe difficile gestire strutture così delicate”. La necessità del richiamo imporrà un particolare screening pure nell’elenco dei detenuti, con precedenza per chi dovrà trascorrere almeno 12 settimane in cella, altrimenti il combinato prima dose-richiamo non si completa. Spiega quindi Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo della polizia penitenziaria), il più rappresentativo della categoria: “In un quadro nazionale nel quale si assiste a un aumento dei contagiati dal coronavirus tra detenuti (sono oggi 576, 116 in più rispetto al primo marzo) e agenti (738, 59 dei quali sintomatici, rispetto ai 562 d’inizio mese), a Marassi e Pontedecimo la situazione è costantemente monitorata e sotto controllo”. È inoltre stabile il numero dei positivi asintomatici nella Penitenziaria. “Soltanto due i casi, entrambi a Marassi. Il nostro auspicio è che si arrivi quanto prima alla copertura dell’intero personale, con ogni garanzia e sicurezza. Per il Sappe - insiste Capece - resta indispensabile il tracciamento costante, attraverso una regolare programmazione di tamponi molecolari. Serve inoltre una congrua dotazione di dispositivi di protezione, come guanti, occhiali, visiere, maschere facciali filtranti e copri-scarpe, a tutela dei poliziotti, degli altri operatori e degli stessi detenuti: è palese che la promiscuità nelle celle favorisca la diffusione delle malattie infettive”. La direttrice del principale penitenziario genovese è Maria Isabella De Gennaro, che da pochi giorni ha lasciato la reggenza di Pontedecimo a Paola Penco. E proprio dalla direzione delle Case Rosse ribadiscono come l’attuale risultato sia frutto d’un lavoro certosino condotto ormai da oltre un anno, in piena sinergia con Asl e personale amministrativo (è stata programmata una sessione di recupero per i dipendenti, che hanno aderito alla vaccinazione per oltre l’80%). Non tutti gli istituti italiani sono nelle condizioni di Genova. L’ultimo report del ministero della Giustizia individua una serie di centri con oltre 20 detenuti positivi: Catanzaro (50), Pesaro (46), Chieti (25), Bollate (30), Pavia (25), Asti (39) e Volterra (63). Crotone. Iniziate le vaccinazioni anti-Covid per i detenuti ildispaccio.it, 28 marzo 2021 “Con sentimenti di soddisfazione, si constata che, nella giornata odierna sono iniziate le vaccinazioni per la popolazione detenuta presso la Casa circondariale di Crotone. Circa una sessantina di persone recluse hanno avuto la prima dose di somministrazione vaccinale”. È quanto afferma in una nota Federico Ferraro, garante delle persone detenute o private della libertà personale del Comune di Crotone. “La preoccupazione e la doverosità dell’inclusione nel piano regionale anti Covid per la Calabria, espressa sia nell’appello lanciato dal Garante regionale per la Calabria dei detenuti Avv. Agostino Siviglia, e poi dal Garante comunale di Crotone Avv. Federico Ferraro, ha trovato concreta e fattiva risposta nelle prime vaccinazioni in corso. Si esprime ugualmente soddisfazione per l’avvio delle procedure di somministrazione su cui si è soffermato il neocommissario all’emergenza; il Generale Francesco Paolo Figliuolo, considerando i detenuti tra le categorie prioritarie in quanto soggetti in condizione di particolare vulnerabilità, a motivo delle restrizioni alla libertà personale e dunque al distanziamento e movimento in spazi delimitati. L’attenzione ed il monitoraggio sulla problematica continuerà ad essere comunque costante considerato che, a livello nazionale, la positività al Covid risulta in aumento nelle carceri. Secondo il report settimanale del monitoraggio del Ministero della Giustizia su Carceri e coronavirus, su un totale di 52.572 presenze in cella, sono 576 i detenuti attualmente positivi al Covid, mentre 7 giorni fa risultavano essere 458. In aumento purtroppo sono anche i casi di positività tra gli agenti: 738 su un organico di 36.939 unità, a fronte dei 659 rilevati la scorsa settimana. Trento. Bufera sulle dosi di vaccino anti-Covid “riservate” ai magistrati di Dafne Roat Corriere del Trentino, 28 marzo 2021 Alcuni rinunciano: “Non siamo privilegiati”. Personale amareggiato. Il disappunto degli avvocati. L’azienda: erano già nel piano. “Il comparto giustizia non va avanti solo con i magistrati”. Il disappunto degli avvocati è espressione chiara del clima di amarezza e malcontento che ieri si respirava a palazzo di giustizia. La decisione dell’azienda sanitaria di smarcarsi dal piano di Draghi, applicando il precedente del governo Conte e procedendo alla vaccinazione dei magistrati e non del personale che lavora all’interno dei tribunali, ha scatenato un terremoto nei palazzi della giustizia. Anche alcuni magistrati, pm e giudici, dopo aver saputo che i cancellieri, gli amministrativi e tutti gli altri lavoratori che ogni giorno danno il proprio contributo per il buon funzionamento della giustizia a ogni livello non erano compresi nel piano, hanno deciso di fare un passo indietro e rinunciare alla somministrazione del siero, prevista per ieri e oggi. Sono queste le due giornate scelte dall’azienda sanitaria per la vaccinazione di tutti i magistrati trentini, sia del Tribunale ordinario che di quello amministrativo, Corte dei Conti e anche giudici di pace. Sono un centinaio circa. “La categoria dei magistrati non è migliore delle altre o della media dei cittadini italiani”, scrive in un post il pm Pasquale Profiti. “Abbiamo preso consapevolezza che le prenotazioni comunicateci erano solo per noi, per i magistrati, con esclusione di chi ci lavora a fianco, il personale amministrativo, spesso con maggiore esposizione a rischio”, continua. Un gesto di responsabilità e grande rispetto verso persone che ogni giorno si spendono al fianco dei pubblici ministeri e dei giudici e anche dei cittadini che attendono con ansia il proprio turno per il vaccino. “Non siamo dei privilegiati”, continua Profiti. Un collega giudice ha inviato un’email alla Croce Rossa, che si occupa delle vaccinazioni nel fine settimana, spiegando le ragioni della propria rinuncia e assicurandosi che le dosi non siano perse ma vengano utilizzate per altre categorie. “Il personale amministrativo - scrive - ha un’età media superiore alla mia (53 anni) e con fattori di rischio, per contatti di lavoro analoghi o superiori al mio”. Una scelta appoggiata dall’Anm sezione del Trentino che, appena saputa la notizia delle dosi “riservate” ai magistrati ha inviato un’email a tutti i colleghi spiegando la situazione. “Come Anm non posso obbligare i colleghi a fare una scelta, ma personalmente ho deciso di rinunciare perché i vaccini devono essere per tutti”, spiega la presidente Consuelo Pasquali. “Giovedì siamo stati contattati per l’adesione, poi ieri (venerdì ndr) ho scoperto che erano riservati solo a noi e così ho avvertito tutti e ho subito contattato l’azienda sanitaria”, spiega. L’associazione nazionale magistrati del Trentino aveva chiesto il siero per tutti, come era previsto nel precedente piano. Il governo Conte aveva infatti inserito il comparto della giustizia tra i servizi essenziali, come le forze dell’ordine, e pertanto destinatario di una lista prioritaria, ma con comparto della giustizia si intendeva tutto il personale. Poi Draghi ha modificato il piano escludendo il sistema giustizia dalle categorie essenziali. La Provincia però ha applicato il piano vecchio. “Quando era stato effettuato l’incontro con le forze dell’ordine c’era anche il procuratore Raimondi - spiega l’assessora Stefania Segnana - nelle altre regioni i magistrati sono già stati vaccinati, erano già in programma per questo abbiamo proceduto, come da piano”. Ma l’Anm ribadisce la necessità di vaccinare tutti gli operatori comprese le guardie giurate, tirocinanti e gli addetti alle pulizie. “I responsabili degli uffici avevano trasmesso la lista completa le convocazioni sono arrivate giovedì pomeriggio, abbiamo pensato fosse solo l’inizio poi solo ieri sera (venerdì ndr) alle 18 abbiamo saputo che la situazione era diversa. Qualche collega ha forse deciso comunque di aderire per non creare disservizi”. Sono amareggiati anche gli avvocati. “Se si decide di vaccinare si devono comprendere nel piano tutti gli attori della giustizia”, afferma il presidente dell’Ordine, Michele Russolo. “Vaccinare solo una parte è poco utile, lo scrissi a Fugatti e Benetollo ma alla lettera non mi hanno mai risposto. Vaccinare solo i magistrati non garantisce l’efficienza di un comparto che è già in grande sofferenza e anche gli avvocati hanno un ruolo primario nella giustizia”. Ferrara. Dentro e fuori dal carcere, la web-serie del Teatro Nucleo disponibile su Youtube La Nuova Ferrara, 28 marzo 2021 Il terzo e ultimo appuntamento della prima parte della stagione Le Magnifiche Utopie è arrivato al suo Epilogo: così si intitola l’episodio di chiusura della web-serie Album di Famiglia. Il progetto, incentrato sul tema “Padri e figli” individuato dal coordinamento teatro carcere Emilia Romagna, esplora con rielaborazioni biografiche dei detenuti-attori l’eredità familiare, la colpa e il perdono, a partire dalle riscritture contemporanee di Amleto. I dieci corti video-teatrali, trasmessi in diretta sulla pagina Facebook di Teatro Nucleo dal 14 gennaio al 18 marzo, sono adesso disponibili sul canale Youtube ed è possibile inviare commenti e domande all’indirizzo email albumdifamiglia.teatronucleo@gmail.com. I feedback raccolti saranno spunti di riflessione per il proseguimento del laboratorio teatrale all’interno della casa circondariale di Ferrara Satta. L’apertura di uno spazio virtuale in cui scambiare osservazioni sulla web-serie appena conclusa, permette a Teatro Nucleo di festeggiare la Giornata nazionale del teatro in carcere all’insegna dello spazio aperto, cuore pulsante del lavoro pluriennale della compagnia. Il teatro non ha mai chiuso e le sue luci non sono mai state spente, e se oggi Teatro Nucleo non può festeggiare nelle piazze e nelle strade, continua a lavorare quotidianamente a nuove produzioni, progetti europei, nazionali, regionali e locali. La Compagnia aprirà virtualmente le porte sul lavoro quotidiano del teatro, ogni sabato nella rubrica #unteatrosempreaperto, sulla pagina Fb di Teatro Nucleo. Migranti. Francesco Maisto: “Secondo me i CPR non dovrebbero esistere” di Andrea De Lotto pressenza.com, 28 marzo 2021 Torniamo a parlare col dottor Francesco Maisto, Garante per i Detenuti per il Comune di Milano, dopo che la volta precedente ci aveva promesso che avremmo toccato il tema dei Centri per il Rimpatrio. Qual è la situazione attuale del CPR di Milano? Il CPR di Milano è una struttura che innanzitutto è stata aperta in modo improvvido, sia perché i regolamenti erano imprecisi, sia perché l’adattamento del complesso non era ancora ultimato. Potremmo dire che è un cantiere aperto; in soli cinque mesi la Prefettura ha redatto quattro versioni del regolamento interno. Ci sono state molte richieste da parte del Garante Nazionale per i Detenuti, da parte mia e da parte della cittadinanza attiva milanese; diverse sono state accolte, ma c’è ancora molto da fare. Ci sono stati dei cambiamenti di fronte a richieste che non erano certo velleitarie, anzi, chiedevano il rispetto di una normativa vigente. Per esempio la collocazione di telefoni fissi e la convenzione con l’ATS, o il caso gravissimo, che inizialmente si è verificato, quando sono stati internati dei minorenni. Soltanto da una settimana io ricevo i reclami da parte degli “ospiti” del CPR. Soltanto da 15 giorni c’è una regolamentazione per le telefonate - di mattina si fanno le telefonate in Italia e nel pomeriggio all’estero - e da una settimana, a seguito di un’ordinanza del Tribunale di Milano, sono stati restituiti i cellulari. Inoltre gli “ospiti” hanno diritto alla privacy durante le telefonate e quindi è stato istituito un luogo protetto dove poter fare le telefonate. Riteniamo inoltre che dovrebbe esserci un wifi all’interno del centro. Da quanto abbiamo capito dal CPR di Milano passano soprattutto tunisini arrivati da poco, che quasi “non fanno in tempo a mettere piede in Italia”. Ovvero, la sensazione è che non siano stati rispettati i loro diritti rispetto alla possibilità di richiedere la protezione internazionale. È così? È vero, gran parte di loro sono tunisini e il loro rimpatrio è il frutto di un accordo tra Tunisia e Italia, dal quale dipende molto di ciò che avviene. Arrivano spesso a Lampedusa, dove vengono date loro tutte le informazioni rispetto alla richiesta di protezione internazionale. Da lì, arrivano al CPR di Milano, da dove periodicamente vengono accompagnati all’aeroporto e rimandati in Tunisia. Quando sono al CPR hanno già il provvedimento di espulsione e dunque sono già destinati all’imbarco. Quindi il giudice per la convalida non si reca al CPR, perché lo ha già fatto quando erano a Lampedusa. La permanenza media è davvero ridotta, si tratta di giorni, al massimo di qualche settimana. Credo che la funzione del CPR di Milano sia fondamentalmente questa: accogliere e portare all’imbarco i tunisini. La rotazione è molto alta. Se si va una volta si incontrano dei visi, se si torna dopo una settimana se ne vedono altri. Quante volte l’ha visitato? Di fatto una sola volta, circa un mese fa. In una prima fase la normativa non era chiara e nel primo regolamento c’era addirittura una discriminazione: il Garante Nazionale poteva entrare in tutti i CPR, quello locale no. Per visitare il CPR di Milano avrei dovuto fare richiesta alla Prefettura. Questo non era ammissibile. L’autorità di garanzia deve poter accedere in qualsiasi momento ai luoghi per cui la legge prevede la sua vigilanza. Adesso il regolamento è cambiato e ho libero accesso. I detenuti, reclusi, ospiti l’hanno contattata? Ho ricevuto delle richieste scritte, via mail, mandate dall’ente gestore. Cosa ne pensa dell’importanza che entrino nel CPR la società civile e i giornalisti, in modo da rendere trasparente un luogo che non sembra esserlo? In questi luoghi, come nelle carceri, bisogna che tutti capiscano che più trasparenza c’è, meno difficoltà relazionali ci sono. Molto dipende dalla cultura locale e dal clima che si instaura dentro queste istituzioni. È una conquista da realizzare. Da quello che so nel CPR di via Corelli sono entrate due testate giornalistiche; non so se altri hanno fatto la stessa richiesta. Lei cosa pensa delle tante richieste di chiusura del CPR che vengono dall’associazionismo milanese? Io non credo che sia questa la soluzione di fronte al fenomeno migratorio. Secondo me i CPR non dovrebbero esistere, ma la legge dello Stato li prevede. Io comunque sostengo il coordinamento milanese “Io accolgo”, che ha steso di recente un appello. Lo ius migranti si è affermato nel corso della storia; ultimamente si sono alzate di nuovo le barriere e io non amo la politica dei muri. Nel frattempo bisogna fare il possibile perché le condizioni migliorino per le persone in quella condizione. I CPR per certi versi sono peggio di un carcere. Faccio solo un esempio: un detenuto può rivolgersi al magistrato di sorveglianza, che tutela i suoi diritti, ma nei CPR questa figura non c’è, non è prevista dalla legge. Non si può nemmeno avere carta e penna. Anche la presenza dei mediatori linguistici è inadeguata. Comunque da più di una settimana gli ospiti hanno il numero di telefono del mio ufficio e possono chiamare direttamente e fare richieste precise. Il Garante Nazionale ha visitato più volte il CPR di Milano? Lo ha visitato tre volte, perché fin dal decreto Minniti ha libero accesso a queste strutture. Quando visita un CPR ha diritto agli interpreti, mentre il Comune di Milano non ha risorse per fornirmi un interprete fisso. Quindi lo conosce meglio di lei? Sicuramente. Immagino speri che presto non dovrà più occuparsi di CPR... Sì, lo spero sicuramente. Chi ha paura dello jus soli di Djarah Kan L’Espresso, 28 marzo 2021 Quando mi dicono che non possono esistere italiani neri come me, non stanno solo cancellando un’intera esistenza ma stanno riaffermando un’idea di identità basata sulla negazione dell’altro. Apprendere delle recenti dichiarazioni del senatore leghista Simone Pillon, all’indomani delle dichiarazioni del neo segretario del Pd Enrico Letta, è stato come leggere le intime confessioni di un razzista misogino, che al lume di una candela tremolante, confessa su un foglio di pergamena sgualcito le sue più turpi paure sperando che nessuno possa mai comprendere fino in fondo le sue parole. Solo che questa non è la scena di un film ambientato nel Seicento, bensì la pagina Facebook ufficiale di Pillon che scrive: “Vorrei dire al neosegretario Letta che ogni volta che un politico italiano parla di ius soli, centinaia di ragazze nei villaggi africani vengono convinte dai trafficanti di uomini a partire per il nostro Paese [...] inseguendo fatue illusioni”. Pillon è evocativo. Dipinge scenari apocalittici nei quali “centinaia” di partorienti gravide di feti africani, si imbarcano su bagnarole inaffidabili, pronte a sgravare sulle coste nostrane. Tutto questo dopo aver superato - si suppone da vive - carceri, violenze, abusi sessuali e innumerevoli tentati femminicidi. Secondo questa visione, le “donne africane” sono un gruppo uniforme di soggetti che pur di lasciare l’Africa metterebbero a rischio la loro esistenza. E questo, solo perché glielo ha detto Enrico Letta. Viene spontaneo chiedersi perché dei soggetti senzienti, con una vita e delle ambizioni debbano stare sintonizzati coi pensieri e le promesse del neo segretario del Partito Democratico, mentre si fa fatica a dargli ascolto persino qui da noi. Chiunque abbia un po’ di buon senso sa che cos’è lo ius soli, ovvero quella legge che, se applicata, impedisce al neonato di ereditare lo status giuridico dei genitori immigrati, acquisendo in automatico la cittadinanza del Paese in cui ha emesso il primo vagito. Il neonato o la neonata, se ci riflettete solo un momento, non hanno compiuto il viaggio di loro spontanea volontà. Non sono immigrati consapevoli. E a meno che il collo dell’utero attraverso il quale passa un bambino appena nato non sia da considerare come una sorta di ambasciata straniera, ha senso che una persona che non ha mai migrato, non venga considerata immigrata, ma cittadina del Paese in cui è nata. In fondo essere immigrato non è una condizione naturale, come l’avere i capelli biondi oppure la pelle scura. È uno status giuridico. Ma allora perché è così controverso parlare di ius soli in questo Paese? E perché mai le parole di Pillon sono parole che a pensare bene, ci ritroviamo sempre, ciclicamente, pronunciate dalla bocca di altri? In che cosa consiste l’incubo dello ius soli, che non smette mai di appassionare la gente e di infiammare Parlamento e partiti? Per capire il terrore che si nasconde dietro la strumentalizzazione politica dello ius soli dobbiamo calarci nell’incubo del concetto di patria. Un concetto che riesce ad essere straordinariamente razzista e infarcito di patriarcato fino al midollo. La patria è per antonomasia nazione costruita dai padri. Le donne ne sono del tutto escluse. Nel concetto di patria le donne contano solo quando fanno i figli; figli che devono essere tutti dello stesso colore e condividere in un modo o nell’altro, delle origini comuni, preferibilmente bianche, se guardiamo all’Italia. Non è un caso che gente come Pillon faccia appello alla patria e all’italianità nel senso più puro e nazista del termine. L’italianità esiste come concetto da vendere all’estero. Ma lo sappiamo tutti che l’italianità è un concetto sfuggente che perde e acquista valore, attraversando la penisola da nord a sud. Ciò nonostante, quando arriva quel momento dell’anno in cui bisogna convincere a tutti i costi gli italiani che il vero problema dell’Italia sono le donne immigrate, coi loro pericolosissimi prodotti del concepimento al seguito, ecco che spunta il patriottismo di destra, il più tossico, quello che non ti fa respirare, e che riduce le molteplici identità di questo paese, a una sola commedia per turisti in cerca di spaghetti al pomodoro. In questo incubo nazioni popolare, sono in realtà le donne straniere e non bianche ad essere la vera minaccia. Dentro di loro nascondono il potere di cancellare la storia e l’identità di intere nazioni. Partoriscono figli non bianchi, trasformando i volti, i corpi e i nomi degli italiani in qualcosa che in nome del razzismo, viene considerato intollerabile, generando di fatto questi ibridi inammissibili nella patria di italiani bianchi che “parlano come noi e si muovono come noi, ma non sono come noi” parafrasando il tipico slogan che si trova come tag-line dei tipici film dell’orrore. Avete mai sentito parlare di sostituzione etnica? Di piano Kalergi? Oppure di perdita dell’identità che un giorno potrebbe essere la conseguenza di questo continuo flusso migratorio? Non si sforzano nemmeno di utilizzare un termine umanizzante quando si parla di immigrati e dei loro figli. Siamo un flusso, un materiale nero, liquido e tossico che passa per i campi, si insinua nelle case e arriva così a fondo nella società italiana da distruggerne le radici, cancellandone la storia. Pillon mette in campo il terrore delle donne africane incinte, come se il loro grembo fosse una specie di cavallo di Troia, o peggio di navicella aliena pronta ad immettere sul territorio, bambini pericolosamente extraeuropei, quindi non bianchi. Ma il suo criminalizzare la scelta consapevole di donne che decidono di mettere al mondo un figlio in un ambiente sicuro e con maggiori possibilità di sopravvivenza - se lo facesse una donna bianca e italiana sarebbe semplicemente un’eroina - viene visto e raccontato come l’ennesima prova della dimostrazione che gli immigrati non possono e non devono fare parte dell’Italia. Perché hanno valori diversi. Perché sono crudeli. Perché sono troppi e perché alla fine ci colonizzeranno. Paure inconfessate che riguardano soprattutto uomini bianchi che concetti come nazione e patria non li hanno voluti mai ripensare, al di fuori di questo antagonismo che contrappone le belve colonizzatrici provenienti dal mare, agli indigeni europei. Un paradigma che secondo i neofascisti si sta ripetendo, ma con gli italiani dalla parte delle vittime. E quale nemico più grande può esserci, secondo questi individui, di un bambino che per il solo fatto di avere origini diverse, deve dimostrare dei meriti che ai suoi coetanei, giustamente immeritevoli, non vengono richiesti? Non possiamo parlare di ius soli senza ridiscutere i termini che utilizziamo per definire la nostra identità. Gli sporadici e tiepidi tentativi - tutti falliti - del Partito Democratico, gli anni passati a discutere di cosa sia o non sia “un vero italiano” hanno per lungo tempo nascosto il vero problema, ossia la paura, che si costruisce sull’idea che i diritti civili riconosciuti a dei minori siano il preludio alla distruzione dell’Italia, un paese che per sua natura, accettata l’idea di patria come terra dei padri bianchi, non può ammettere italiane e italiani neri, cinesi, indiani o ecuadoregni. Quando mi dicono che non possono esistere italiani neri come me, non stanno cancellando solo un’intera esistenza, ma al contempo stanno riaffermando un’idea di identità che si basa per forza sulla negazione dell’altro. Un’idea di identità da cui siamo stati infettati tutti, e dal quale l’incubo dello ius soli prende una forza spaventosamente immensa, che travolge vite innocenti di bambini, diritti civili, razionalità, giustizia e finanche la possibilità stessa di vivere in paese dove non sia più necessario il pedigree identitario. Dobbiamo solo scegliere se essere cittadini, o una nazione di cani di razza. Cannabis terapeutica, in Italia è un miraggio di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 28 marzo 2021 Quest’anno ne occorrerebbero 3 tonnellate ma la produzione nel polo farmaceutico fiorentino è al palo. Allarme degli operatori sanitari. La carenza dei farmaci potrebbe essere risolta dando seguito a una norma del 2017. Tre tonnellate. Questo il fabbisogno italiano di cannabis terapeutica per l’anno in corso (insieme a San Marino e Città del Vaticano) previsto dall’Incb (International narcotics control Board), il cane da guardia delle convenzioni internazionali sugli stupefacenti. In aumento del 50% sull’anno precedente, oltre il doppio di quanto previsto nel 2018. Peccato che probabilmente a fine anno si farà fatica a raggiungere i 1000 kg di cannabis dispensata effettivamente. In Italia la cannabis terapeutica è ormai un miraggio per troppi pazienti. Sono 16 le Regioni in cui, negli ultimi 60 giorni, ci sono stati problemi di approvvigionamento di cannabis terapeutica, come documentato dagli stessi pazienti su monitorcannabis.it. Del resto, basta farsi un giro nei gruppi specializzati sui social per incappare in messaggi disperati di malati che non trovano la tipologia prevista dal piano terapeutico e rischiano di interrompere la terapia. Un problema irrisolto che persiste oramai dal 2017, nonostante gli impegni e le norme di legge. “Sto diventando matto, decine di telefonate e centinaia di messaggi di pazienti che non trovano la preparazione che ho prescritto e sono giustamente in ansia per la loro terapia”, ci racconta fra un turno e l’altro Francesco Crestani, medico anestesista e presidente dell’Associazione Cannabis Terapeutica che festeggia quest’anno il ventennale. “Ciclicamente manca la materia prima, ed ora è il caso della Fm2 (la varietà prodotta dallo stabilimento farmaceutico militare di Firenze, ndr) che non si trova più. Per me, che avevo dato fiducia alla produzione italiana, suona come una beffa”. Il problema non è solo la ricetta: “Sì certo tocca rifare le ricette, ma questo è il minore dei mali. Bediol e Fm2, pur essendo titolati con analoghe percentuali di Thc, sono farmaci diversi perché provengono da piante diverse. Bisogna ricalibrare le dosi, a volte rifare interi piani terapeutici. Questo significa spesso tornare dallo specialista, con un aggravio di tempo e di costi per i malati”. E poi c’è il problema della Circolare ministeriale del 23 settembre 2020, che di colpo ha escluso alcuni tipi di preparazioni. “La circolare ha creato notevoli problemi - ricorda Crestani - ad esempio vietando il collirio per il glaucoma, che è stata una delle prime applicazioni della cannabis medica e che permetteva a chi non risponde ai farmaci tradizionali di tenere sotto controllo la pressione oculare. Bastavano un paio di gocce, con effetti collaterali nulli”. Una circolare che “non ha alcun senso dal punto di vista scientifico e normativo”, conclude Crestani, ma che nonostante le segnalazioni al ministro Speranza da parte della società civile ed un digiuno con quasi 400 adesioni in corso, non è stata ancora ritirata. Sulla Circolare ministeriale Marco Ternelli, farmacista galenico ed uno dei punti di riferimento per la preparazione di cannabis terapeutica in Italia, è chiaro. “È un disastro. La spedizione non è più possibile, così alcuni pazienti si sono organizzati con gruppi per prelevare in blocco una serie di ricette. Ma la maggior parte rimane scoperta”. E ancora: “Abbiamo sospeso colliri, creme, e tutte le preparazioni non per via orale. Questo ha causato la disperazione di tanti malati”. In assenza di qualsiasi riscontro da parte del ministero della Salute alle sollecitazioni, i farmacisti hanno incaricato gli avvocati: “I primi di maggio abbiamo udienza al Tar del Lazio per il ricorso che ho presentato insieme ad altre 12 farmacie”, annuncia sconsolato Ternelli. Dal suo laboratorio, Ternelli conferma poi i problemi di approvvigionamento: “Il 2021 è iniziato malissimo. Prima fornitura solo il 10 febbraio, che ha dovuto coprire una carenza dei 2 mesi precedenti per cui si è esaurita subito. Poi più nulla. La prossima fornitura è attesa per dopo Pasqua, e si preannuncia una riduzione dei quantitativi dall’Olanda”. Le prospettive per l’anno in corso sono quindi pessime: “Anche perché va a scadere l’appalto di importazione straordinaria del 2019 (vinto dalla canadese Aurora) che comunque è stato utilizzato con il contagocce”. E la produzione italiana? “I militari da novembre non hanno più Fm2 - riporta Ternelli - e la prossima fornitura, inizialmente annunciata a marzo, si dice che arriverà effettivamente a maggio”. E proprio la produzione italiana è il grande interrogativo. Pur avendo avuto finanziamenti e autorizzazioni per arrivare a produrre fino a 500 kg l’anno, la produzione dello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze è al palo. I dati ufficiali dal sito del ministero della Salute sono sconfortanti: nel 2017 lo Stabilimento avrebbe prodotto e distribuito circa 60 kg, nel 2017 e 2018 in media circa 150. Come sottolinea però Ternelli “fra la quantità distribuita c’è anche la cannabis importata con il bando straordinario”: quindi l’effettiva produzione nazionale si fermerebbe a soli 60 kg nel 2018 e 140 nel 2019. Nemmeno il 5% del fabbisogno teorico del 2021. Ma la soluzione esiste ed è legge sin dalla conversione del decreto fiscale 2017: autorizzare anche altri soggetti, pubblici o privati, a coltivare e produrre cannabis terapeutica. Ne gioverebbero i pazienti in primis, ma anche tutto il Paese che così potrebbe disporre di un prodotto di qualità a costi inferiori rispetto a quello importato. Un Paese che storicamente la cannabis l’ha sempre coltivata e che, un secolo dopo, potrebbe tornare ad esserne esportatore, aprendo la strada ad una nuova filiera in un settore ad alta specializzazione e forte espansione globale. Anche l’Onu a dicembre ha rotto il tabù, riconoscendo il pieno valore terapeutico della cannabis: se ne accorgeranno a Palazzo Chigi? Così la Spagna è diventata l’avanguardia progressista dei diritti di Elena Marisol Brandolini Il Domani, 28 marzo 2021 Il parlamento spagnolo ha approvato a larga maggioranza, col solo voto contrario del Partito popular e dell’estrema destra Vox, la legge sull’eutanasia, facendo diventare la Spagna il settimo paese nel mondo, quarto in Europa, a riconoscere il diritto alla morte dignitosa. Questa legge conferma l’attitudine del paese a essere pioniere nella legislazione sul terreno dei diritti di cittadinanza. L’apice è stato sicuramente raggiunto nel 2005, con l’approvazione del matrimonio omosessuale sotto il governo socialista di José Luis Rodríguez Zapatero. Da quel momento in poi i governi progressisti si sono fatti portatori delle istanze valoriali provenienti dalla società, fino a farne il principale motivo di scontro con lo schieramento conservatore. “La richiesta di una legge sull’eutanasia esisteva da oltre quarant’anni e i dati dimostrano che più del 70 per cento della popolazione spagnola la considerava necessaria”, dice Marc Monguilod, ragionando sulla portata sociale del provvedimento. Suo padre si chiamava Antoni. Malato di Parkinson è morto nel 2019, a 74 anni, senza essere riuscito a far valere il suo diritto a una morte dignitosa. In Catalogna Antoni è diventato un simbolo della lotta per ottenere questo riconoscimento. E come lui sono diventati dei simboli tanti altri malati cronici o terminali, a volte aiutati a morire da medici o amici che poi sono stati perseguitati dalla giustizia. A metà degli anni Novanta un caso in particolare aveva toccato la coscienza dei cittadini spagnoli: quello dello scrittore galiziano Ramón Sampedro, rimasto tetraplegico da giovane per un incidente e aiutato da una sua amica a morire. La sua storia è stata raccontata dal regista Alejandro Amenábar nel film Mar adentro del 2004, vincitore dell’Oscar come miglior film straniero. “Si deve differenziare tra clamore sociale e coscienza individuale” dice Monguilod, perché “nessuno vuole patire o vedere qualcun altro soffrire e questo è un desiderio umano. Il clamore sociale è invece la politicizzazione di questo desiderio. E quando si parla di un diritto politico si finisce col contrapporre princìpi conservatori a princìpi progressisti”. “La divisione della destra in più partiti consente di vederne le diverse tendenze - sottolinea - Ciudadanos ha votato a favore della legge perché è un partito liberale e privilegia i diritti individuali. Il Pp si è sempre opposto invece, perché è un partito conservatore dove il peso del cattolicesimo è molto importante. Mio padre sarebbe contento di questa legge. La sua situazione è diventata una testimonianza, un’occasione per migliorare la società. È importante che altre famiglie in situazioni analoghe a quella in cui si è trovata la nostra, abbiano il cammino più facile”. “La società spagnola era tradizionalmente tollerante rispetto ai comportamenti individuali; poi venne il franchismo. Quando saltò il tappo della dittatura, ci fu un’esplosione di dinamismo sociale e di esteriorizzazione della libertà di comportamento che anni dopo è arrivato sulla scena politica”, dice il politologo Joan Botella, ordinario di Scienze politiche alla Universitat Autònoma de Barcelona. Si spiega così il motivo per cui la Spagna è diventata un paese all’avanguardia su questo tipo di legislazione. “Ma c’è anche una seconda ragione: il campo relativo ai comportamenti, come il matrimonio omosessuale, permette di differenziarsi politicamente tra destra e sinistra senza doversi trovare a discutere delle grandi opzioni del modello socio-economico. Zapatero al governo ha fatto la stessa politica economica di Aznar, ma rivestita di un discorso egualitario e progressista”. Un’opinione condivisa dalla sociologa della Universitat de Girona, Cristina Sánchez Miret: “Noi siamo arrivati tardi a questo tipo di legislazione perché siamo usciti dalla dittatura molto dopo rispetto al resto dei paesi europei e quindi negli anni Ottanta siamo stati costretti a rivedere tutto l’impianto legislativo. I socialisti hanno fatto una bandiera dei temi del femminismo e dei diritti di cittadinanza perché è il terreno che li differenzia dalla destra”. Zapatero è stato il teorico del socialismo dei cittadini, quello secondo cui l’estensione dei diritti di cittadinanza rappresenta la più trasformatrice delle leve sociali. Durante il suo mandato la Spagna si è dotata, oltre che della legge sul matrimonio omosessuale che prevede la possibilità di adozione, di una moderna legge sull’interruzione di gravidanza, di una legge sulle pari opportunità piuttosto innovativa e di una sul sostegno alle persone non autosufficienti. L’attuale governo di coalizione tra Psoe e Unidas podemos ha già legiferato, o ha in programma di farlo, oltre che sull’eutanasia, in difesa delle donne contro la violenza maschilista, sull’eguaglianza dei permessi per madri e padri, sui diritti dell’infanzia, sui diritti delle persone trans e Lgbt. “È importante avere una legge perché offre un quadro di riferimento. Ma per quanto riguarda il femminismo abbiamo delle sentenze molto retrograde, come nel caso della manada (un caso di stupro di gruppo considerato in primo grado un abuso ndr) “ dice Sánchez Miret. “In Spagna la distanza che c’è tra il testo di una legge e la sua applicazione è molto grande” le fa eco Botella. “Il ruolo giocato dai movimenti sociali, dalle piattaforme di cittadini per affermare i diritti di cittadinanza è stato molto importante perché ha dato loro visibilità. C’è un “brodo di coltura” nella società spagnola favorevole all’apertura, perché l’esperienza dell’emigrazione di massa è molto recente. Nel nostro paese la politica va dietro alla società. La società è quella che normalmente propone i progetti innovativi. Dopo arrivano le istituzioni” spiega Botella. “La cittadinanza è vissuta in maniera differente da chi è in condizioni minoritarie come gli omosessuali o i cittadini di altri paesi. Questi ultimi hanno formato una sorta di “ghetti” negli spazi urbanizzati, veri e propri quartieri divisi per etnia. La conseguenza è la creazione di organizzazioni, comunità, associazioni, laboratori” che ne rivendicano le istanze. “Il ruolo del movimento femminista è stato capitale, è stato il movimento delle donne a far inserire nell’agenda politica questi temi - dice Sánchez Miret - Perché il movimento femminista parla della vita, non solo dell’uguaglianza dei diritti. E nel momento in cui parla dell’uguaglianza di diritti rivisita tutti i diritti che esistono e come si amministrano. Parlare del diritto all’aborto e del diritto all’eutanasia è dare diritti alla vita”. Perciò “la reazione dell’estrema destra contro la battaglia delle donne è viscerale, è una reazione da secolo XIX, del tempo delle suffragette. Le donne e il collettivo Lgbt sono l’obiettivo della reazione di Vox perché l’estrema destra riproduce la realtà tradizionale più antica. La divisione del mondo in ruoli differenziati tra donne e uomini e il connubio sesso e genere che non lascia spazio alle persone Lgbt sono il suo tratto identitario”. “Poiché nel fondo c’è un grande consenso sulle politiche socio-economiche in Spagna, allora il terreno di differenziazione è quello dei valori di cittadinanza”, insiste Botella. “E quanti più partiti ci sono, più le posizioni devono essere estreme per riuscire ad arrivare all’opinione pubblica. Con la nascita a destra di più partiti, le posizioni conservatrici sono diventate più dure per una ragione di competizione interna. Quello dei diritti di cittadinanza diventa il principale terreno di scontro nella politica spagnola. Per tornare alla logica di Zapatero, ma che potrebbe essere anche quella di Obama: se il cambiamento sociale ed economico è impossibile per la Ue e la globalizzazione, si possono proporre solo iniziative sul terreno etico e dei valori. Una sorta di progressismo dei costumi che lascia indietro i poveri e offre uno spazio all’estrema destra, com’è successo con la Brexit o Trump. È il problema con cui si misurano oggi le sinistre mondiali”. Questi cambiamenti non riguardano i soli Stati Uniti d’America, ma sono oggetto di analisi e discussione globale, soprattutto in occidente. Ne sono testimonianza anche le profonde divisioni che si sono prodotte in seno al cattolicesimo a seguito del pronunciamento della Congregazione per la dottrina della Fede sulla benedizione delle coppie dello stesso sesso. La discussione, dunque, non è solo politica, ma antropologica e teologica. Diviene politica solo in un secondo momento. Riguarda la grande rottura prodottasi in occidente negli anni Sessanta del Novecento, che ha segnato il rigetto della legge e della morale “naturale”, non più condivise. Come ha scritto Olivier Roy: “La libertà dell’individuo è più importante di ogni norma trascendentale, non esiste più una morale naturale, comune a tutti”. Le istituzioni statunitensi erano già da tempo pronte alla svolta culturale e, paradossalmente, l’avevano già anticipata. La Corte suprema degli Stati Uniti, già nel 2015, con la decisione nel caso Obergefell versus Hodges aveva sancito il diritto al matrimonio dello stesso sesso. Immediatamente, a seguito di quella decisione, la Casa Bianca si era colorata con i colori dell’arcobaleno e l’amministrazione Obama aveva avviato tutta una serie di iniziative per la promozione e la protezione dei diritti Lgbt nella politica estera degli Stati Uniti. Sono l’individualismo e la libertà di scelta i valori su cui costruire la narrazione del nuovo secolo americano, anche per contrapporsi all’avanzare degli “stati civilizzatori” che costruiscono le loro identità sul tradizionalismo, spesso di natura religiosa. Per ottant’anni le storie di Capitan America hanno rappresentato i valori e l’identità degli Stati Uniti nel mondo. Ora assistiamo a una mutazione di quella identità incarnata nel corpo di Aaron Fischer. Non è ancora chiaro se Fischer sarà l’eroe designato di Rogers o, come hanno sottolineato alcuni critici vicini alla comunità queer, “sarà solo un comprimario”. Quello che però ci sembra di poter cogliere è che la nuova serie, come la precedente, non sarà particolarmente popolare in Russia. Medio Oriente. “Spyware di Stato, sempre più invasivi ed efficaci” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 28 marzo 2021 Intervista all’esperto di sicurezza informatica Claudio Guarnieri: “La sorveglianza di attivisti e giornalisti accompagna persecuzione giudiziaria, campagne di diffamazione, disinformazione orchestrata tramite reti di troll e bot su social media”. Claudio Guarnieri, esperto di sicurezza informatica a capo del Security Lab di Amnesty, nelle sue ricerche ha trattato dettagliatamente l’uso di spyware in Medio Oriente nel controllo sociale e il tracciamento dati. Quanto è cambiata la situazione negli ultimi 10 anni nell’uso e la diffusione di questi strumenti? L’utilizzo di spyware e di altre forme di attacco informatico è in continuo aumento, in Medio Oriente come in ogni altra parte del mondo. La crescente ubiquità della crittografia nelle comunicazioni, si pensi a WhatsApp come a Signal, è stato forse il fattore più importante. Nonostante sia positivo che le nostre comunicazioni siano più sicure che mai, ha anche inevitabilmente influenzato la crescente popolarità di strumenti più invasivi, come spyware, per poter “rimediare” all’inadeguatezza delle intercettazioni più tradizionali. Casi di telefoni e computer “infettati” con spyware di Stato ormai sono quasi all’ordine del giorno, in particolar modo contro giornaliste/i e attiviste/i di diritti umani che lavorano in zone a rischio. Tra le pratiche adottate c’è il cosiddetto phishing che ha permesso negli ultimi anni di prendere di mira centinaia, migliaia di attivisti, giornalisti, oppositori. Come funziona, quanto è diffuso e quanto è efficace? Phishing è una forma di attacco molto comune, che ha lo scopo di ottenere accesso illegitimo ad account online, come email e social media, della vittima. Tipicamente l’attaccante cerca di ingannare la vittima ad autenticarsi in una pagina login verosimile al servizio originale e ottenere così la password di accesso. Può sembrare banale, ma nel nostro lavoro osserviamo spesso attaccanti più risoluti che spendono anche mesi a creare false identità, infiltrare comunità online, creare legami via social media, prima di eventualmente azionare l’attacco senza creare il minimo sospetto. È in assoluto la tattica più diffusa, più “economica” e nonostante ciò abbastanza efficace e per questo spesso utilizzata su larga scala. In questi anni un prodotto molto ambito è stato l’israeliano Pegasus della Nso, utilizzato da diversi governi della regione, come abbiamo visto in Marocco e il caso di controllo di giornalisti locali. Quanto è diffusa la “messa in comune” di tali strumentie quali sono le società regionali ed europee più presenti in Medio Oriente con i loro prodotti? L’utilizzo di spyware come Pegasus è ormai quasi la prassi. Sono strumenti sofisticati e costosi, ma comunque sia a buon mercato per governi, forze di polizia, militari e intelligence di tutto il mondo. In Medio Oriente, specialmente in Nord Africa e nel Golfo Persico, il loro utilizzo è quasi tradizione e molti casi di giornaliste/i, attiviste/i e dissidenti spiati con questi spyware sono venuti alla luce già dal 2011 durante il movimento di protesta nella regione e continuano oggi. Al tempo l’italiana Hacking Team e la tedesca FinFisher erano i produttori più conosciuti, oggi Nso forse mantiene il podio, ma è un’industria che esiste nell’ombra in cui operano dozzine e dozzine di società. La sorveglianza online è considerabile una violazione del diritto internazionale? L’utilizzo illegittimo della sorveglianza online può essere una violazione dei diritti umani alla privacy e alla libertà di espressione. Se non vengono utilizzate all’interno di un framework legislativo restrittivo, con appropriati controlli e autorizzazioni e se diventano invece strumenti di controllo del dissenso, i rischi di abuso sono molto alti. È possibile capire quanto la sorveglianza online sia ormai integrata nei sistemi governativi di controllo sociale, accanto alle pratiche più “antiche” e se il suo utilizzo ha condotto a effetti concreti (chiusura di giornali o di ong, arresti e condanne? È importante capire che la sorveglianza online non è un fenomeno a sé, ma fa spesso parte di meccanismi di repressione più complessi. Voglio ricordare attivisti e giornalisti come Ahmed Mansoor negli Emirati, Omar Radi e Maati Monjib in Marocco, tutti vittime di spyware e a oggi imprigionati per il loro dissenso. La loro sorveglianza ha accompagnato persecuzione giudiziaria, campagne di diffamazione su stampa di Stato, così come disinformazione orchestrata tramite reti di troll e bot su social media. Negli anni ne abbiamo viste di ogni: dall’utilizzo di tracciamento Gps per individuare la posizione di attivisti da molestare e assalire, all’utilizzo di spyware per filmare tramite la webcam momenti intimi di giornaliste e giornalisti usati come ricatto per far chiudere i loro giornali. Pretendere che queste tecnologie siano solo innocui strumenti investigativi è solo un modo per infilare la testa nella sabbia. Myanmar, festa delle forze armate con carneficina di Emanuele Giordana Il Manifesto, 28 marzo 2021 Un centinaio ieri le vittime della repressione. Anche una bimba di 5 anni e una 13enne colpite a morte. Alla sfilata unica presenza di rango la Russia. Venerdì, alla vigilia della giornata delle Forze armate, la tv di stato del Myanmar aveva avvertito i birmani che si “dovrebbe imparare dalla tragedia delle brutte morti precedenti” e che dunque a scendere per strada “si può essere in pericolo di essere colpiti alla testa e alla schiena”. Detto e fatto. Il bilancio dei morti del sabato di sangue di ieri in varie aree del Paese, dove il Movimento di disobbedienza civile ha sfidato il divieto, non ha fatto che salire dalla mattina di una giornata nella quale la giunta al potere dal 1 febbraio ha fatto sfilare nella capitale Naypyidaw oltre 7000 soldati, mentre caccia a reazione accompagnavano la macabra sfilata col senso anche di una dimostrazione di forza. Mentre i soldati sfilavano decine di persone, tra cui una bambina di 5 anni e una 13enne, morivano in diverse zone del Paese: oltre 80 secondo il bilancio di Myanmar Now e 90 secondo l’Assistance Association for Political Prisoners, numeri che fanno salire il totale dei morti dall’inizio delle proteste a oltre 420 vittime con più di 3mila arresti. Cifre che, nella giornata di ieri, hanno visto continue variazioni tra gli oltre 80 sino a oltre 110 morti secondo la Reuters. Il paradosso è che il 76mo anniversario delle forze armate birmane corrisponde al giorno in cui il Paese iniziò la sua resistenza armata contro l’occupazione giapponese nel 1945. Una resistenza guidata da Aung San, eroe nazionale e padre di Aung San Suu Kyi, la Lady ora nuovamente agli arresti domiciliari. Alla sfilata di solito partecipano funzionari di diverse nazioni ma, testimoniano le agenzie internazionali, il vice ministro della Difesa russo Alexander Fomin sarebbe stato l’unico straniero di rango presente, cosa che gli è valso l’apprezzamento del generalissimo Min Aung Hlaing a capo della giunta: “La Russia è una vera amica” (anche se la Tass ha preferito dare la notizia delle vittime citando il sito di opposizione Myanmar Now). Non è secondaria infine l’assenza dei cinesi e così per i Paesi Asean, l’associazione regionale del Sudest asiatico che sarebbe impegnata in un’operazione di mediazione sotto traccia di cui per ora non emergono particolari. Quanto ai cinesi, l’agenzia Xinhua si è limitata a una serie di foto della parata mentre il Globaltimes si è accontentato di una fotonotizia di poche righe. Continuano intanto a giungere dalla periferia notizie di scontri tra le milizie armate delle autonomie regionali e con loro le prese si posizione delle autorità Karen, Kachin e Shan, le più importanti realtà (armate) del Myanmar che rinnegano il golpe, la Costituzione del 2008 (voluta dai militari) e chiedono il ripristino del parlamento democraticamente eletto l’8 novembre scorso e una riedizione della Carta come base per un nuovo Stato federale. E mentre venerdì è stato reso noto che il movimento di disobbedienza civile nato in Myanmar dopo il golpe è stato nominato per il Premio Nobel per la Pace 2022, sul fronte delle sanzioni, mentre insistono le voci di un nuovo inasprimento da parte dell’Unione europea, l’Office of Foreign Assets Control (Ofac) del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha messo giovedi sul libro nero i due conglomerati in mano ai militari, Myanma Economic Holdings Public Company Limited (Mehl) e Myanmar Economic Corporation Limited (Mec), due colossi dell’economia birmana. Lo stesso ha fatto Londra colpendo però solo Mehl. In Italia intanto sono già due le interrogazioni parlamentari con le quali alla Camera (Palazzotto e Quartapelle) chiedono chiarimenti sulle cartucce italiane Cheddite che si continuano ritrovare nei luoghi degli scontri mortali in Myanmar. Finora senza risposta. Cina. Che cosa sono i “campi di rieducazione”? di Giovanna Pavesi it.insideover.com, 28 marzo 2021 Riprogrammare tutto. Dalla lingua al modo di pensare, fino ad arrivare a ridefinire la propria identità culturale. Educare di nuovo, attraverso processi di apprendimento forzato e attività coercitive. Nessun tipo di libertà e una serie di imposizioni che servono a controllare la persona, obbligata a seguire rigide regole su tutto, dalla pulizia personale all’uso del bagno. Si ottengono punteggi che, in base alla padronanza della (nuova) lingua e al processo d’apprendimento, determinano un eventuale ritorno a casa o un trattamento migliore. La Cina li definisce “Centri di istruzione e formazione professionale” per prevenire forme di terrorismo, ma mezzo mondo li riconosce come veri e propri campi di rieducazione. Per “purificare i cuori”, sostenere “il giusto” e “rimuovere ciò che è sbagliato”. Al loro interno sono detenute oltre un milione di persone, tutte appartenenti a minoranze etniche, la maggior parte delle quali di fede musulmana. Documenti riservati hanno dimostrato che si tratta di veri e propri centri segreti di forzata rieducazione ideologica e comportamentale. Ma i campi di rieducazione, in Cina, somigliano più a delle prigioni. Il 24 novembre 2019, il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi ha pubblicato il China Cables, sei documenti che confermano l’esistenza di un “manuale operativo” per la gestione dei campi e un uso dettagliato dell’intelligence artificiale per colpire le persone e regolare la loro vita all’interno degli istituti di rieducazione. Che esistono ufficialmente dal 2014 e, come riportato da Foreign Policy sono dislocati nella regione autonoma uigura dello Xinjang, appartenente alla Repubblica popolare cinese. Sebbene non esistano dati pubblici verificabili riguardo al numero esatto dei centri, la documentazione relativa ai campi è stata accertata grazie anche ad alcune immagini satellitari e a documenti governativi. Nel novembre del 2018, l’International cyber policy center dell’Australian strategic policy institute ha riferito l’esistenza di 28 campi sospetti nella regione, anche se altre organizzazioni presenti nel Turkestan orientale ne denunciano un numero più alto. I “gulag etnici” - I campi di rieducazione hanno iniziato a diffondersi nello Xinjiang (la tumultuosa area di confine occidentale del Paese), dopo l’annuncio di Xi Jinping nel 2014 di una “guerra del popolo al terrorismo”, dopo che le bombe fatte esplodere da alcuni militanti uiguri avevano distrutto la stazione ferroviaria della capitale della regione, poche ore dopo la sua visita di Stato nell’area. Da quel momento, il Partito comunista cinese ha implementato le strutture che in molti definiscono dei “gulag etnici”. “Costruire mura d’acciaio e fortezze di ferro. Installare reti sopra e le trappole sotto. Colpire duramente i terroristi”, disse il presidente ai media locali. Chen Quango, un ufficiale della linea dura proveniente dal Tibet, segretario del Partito nello Xinjang e governatore della regione dall’agosto del 2016, è ritenuto l’architetto di questo programma di sicurezza. Che, ufficialmente, doveva servire a soffocare l’attività di alcuni terroristi della zona, ma che invece ha costretto alla privazione della libertà migliaia di persone ritenute innocenti. Così, la guerra al terrore dello Xinjang si è trasformata in una straordinaria campagna di detenzione di massa, con utilizzo di tecnologia di tipo militare. I centri sarebbero gestiti segretamente, al di fuori del sistema legale. I detenuti sono per la maggior parte uiguri, la minoranza etnica turcofona e musulmana oggetto da anni dell’attenzione delle autorità cinesi per varie vicende legate al terrorismo, che conta più di 10 milioni di cittadini. E non solo. Secondo quanto denunciato da Human Rights Watch nel 2018 molti dei prigionieri uiguri sono stati rinchiusi nelle strutture senza alcun processo e soprattutto senza capi d’accusa validi. Le autorità giustificano la detenzione delle minoranze etniche musulmane con lo scopo di contrastare l’estremismo, ma si stima che i funzionari cinesi abbiano rinchiuso in queste strutture migliaia di uiguri, kirghisi, hui e altre etnie turcofone musulmane e cristiane, oltre ad alcuni stranieri con cittadinanza kazaka, come rivelato da Independent. La maggior parte degli edifici che ospitano le “prigioni” sono stati riconvertiti da scuole esistenti o altre strutture ufficiali. Grazie alla sorveglianza capillare che caratterizza la regione, fermare e imprigionare gli uiguri non è stato particolarmente complicato. Nel 2017, per esempio, gli arresti nello Xinjang rappresentavano il 21% di tutti i fermi del Paese, nonostante l’area comprenda meno del 2% della popolazione nazionale. Descritti come luoghi preposti alla rieducazione dei separatisti, i centri di rieducazione ospitano più di frequente persone che poco hanno a che vedere con l’estremismo. Lo ha confermato anche l’economista Victor Shih, il quale, nel luglio del 2019, ha definito gli internamenti di massa formalmente inutili, visto che nell’area non c’era traccia di insorti attivi, ma soltanto episodi terroristici isolati. L’origine di tutto: il conflitto nello Xinjang - Per comprendere come si è arrivati a questa forma di rigido controllo nei confronti della minoranza uigura in Cina, è necessario conoscere le dinamiche dei conflitti che hanno interessato l’area dello Xinjang nel corso degli anni. La regione moderna passò sotto il dominio cinese a seguito dell’espansione verso ovest della dinastia Qing dei Manciù, con l’annessione di Mongolia e Tibet. Nel 1928, dopo l’assassinio di Yang Zengxin (il governatore del semi-autonomo Khanato Kumul nello Xingjang orientale sotto la Repubblica di Cina), al comando arrivò Jin Shuren. Il quale, alla morte di Kamul Khan nel 1930, abolì completamente il Khanato, prendendo il controllo della regione come “signore della guerra”. Nel 1934, la prima repubblica separatista del Turkestan orientale, fondata l’anno prima, fu conquistata da Sheng Shicai con l’aiuto dell’Unione Sovietica. Nel 1944, la ribellione di Ili portò alla costituzione della seconda repubblica del Turkestan orientale, dipendente dai russi per il commercio e le armi. Dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, il governo cinese sponsorizzò una migrazione di massa di cinesi Han nella regione e con quei primi movimenti venne promossa un’uniformazione culturale che puniva le espressioni più tipiche dell’identità uigura. Ne conseguì la creazione di una serie di organizzazioni separatiste militanti, spesso appoggiate dall’Unione Sovietica. Durante gli anni Settanta, i russi sostennero il Fronte rivoluzionario unito del Turkestan orientale, che aveva un unico scopo: combattere i cinesi. Il periodo degli attentati - I rapporti tra Stato centrale e regione rimasero tesi per tutto il corso del secondo Novecento. Nel 1997, una retata della polizia e l’esecuzione di 30 sospetti separatisti durante il periodo di ramadan portarono a un’ondata di manifestazioni, che provocarono, a loro volta, ciò che storicamente è riconosciuto come “l’incidente di Ghulja”, ovvero la repressione dell’Esercito popolare di liberazione, che causò diversi morti. Alla fine del febbraio del 1997, un attentato su un autobus a Ürümqi uccise nove persone e ne ferì 68: in quella circostanza, ogni responsabilità venne attribuita ai gruppi esiliati uiguri. Nel marzo dello stesso anno, un’autobomba uccise due persone e l’attacco venne rivendicato dalla minoranza musulmana e dall’Organizzazione per la libertà del Turkestan orientale, con sede in Turchia. La Cina, per decenni, ha lottato per controllare lo Xinjang, dove gli uiguri contestano l’ingerenza di Pechino. Dopo l’11 settembre, alcuni funzionari cinesi iniziarono a giustificare le dure misure di sicurezza prese nei confronti della minoranza musulmana, come anche le restrizioni religiose, con la scusa di respingere il terrorismo, sostenendo che i giovani sarebbero stati più suscettibili all’influenza dell’estremismo islamico. Nel 2009, le rivolte scoppiate in risposta a una violenta disputa tra uiguri e lavoratori cinesi Han in una fabbrica della regione costarono la vita a oltre cento persone. E fino al 2016, gruppi di estremisti uiguri sarebbero stati i responsabili riconosciuti del decesso di decine di cinesi Han. Molti degli attacchi furono organizzati dal Partito islamico del Turkestan (ex Movimento islamico del Turkestan orientale), ritenuto un gruppo terroristico dalle Nazioni Unite e da diversi Paesi (Russia, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti). Le imposizioni cinesi sulle minoranze - Il primo a limitare le espressioni culturali più tipiche e la religione locale fu Wang Lequan, che sostituì la lingua uigura (parlata quasi unicamente fino agli anni Novanta) con il mandarino standard e che vietò l’utilizzo di barba per gli uomini e foulard per le donne, il digiuno religioso e la preghiera in orario di lavoro. Il suo successore politico, Zhang Chunxian, rafforzò le sue posizioni repressive e nel 2011 cancellò, di fatto, l’identità uigura dalla cultura locale. Nel 2012 affermò, per la prima volta, di essere intenzionato a eliminare l’estremismo, iniziando a educare gli imam ritenuti “selvaggi” e radicali. Questo accadde anche perché la Repubblica popolare cinese adotta ufficialmente l’ateismo di Stato e ha condotto, nel corso degli anni, vere e proprie campagne antireligiose per riuscire a raggiungere questo scopo. Infine, dal 2014 il Partito comunista cinese ha rafforzato le sue politiche a favore della sinicizzazione totale del Paese e delle minoranze etniche e religiose. La fuga di notizie e i leaks - Il 16 novembre 2019, il New York Times ha pubblicato un vasto leak di circa 400 documenti provenienti da un membro del governo cinese, il quale chiedeva che Xi Jinping fosse ritenuto responsabile delle sue azioni nei confronti delle minoranze. Il materiale sarebbe stato consegnato al Consorzio internazionale di giornalisti d’inchiesta da una fonte anonima e il l’ICIJ li avrebbe verificati esaminando i resoconti dei media statali e le notizie di fonte aperte dell’epoca, consultando esperti, effettuando un controllo incrociato e confermando le risultanze con ex dipendenti impiegati nei centri di rieducazione. Le carte arrivate a New York consisterebbero in una nota che fornisce le linee guida per i campi, quattro bollettini su come usare la tecnologia per colpire le persone e un caso giudiziario che si è concluso con la condanna a un membro uiguro del Partito comunista a dieci anni di carcere per aver detto ai colleghi di non dire parolacce, di non guardare pornografia e di non mangiare senza pregare. I documenti erano stati distribuiti ai funzionari dall’influente Commissione Affari politici e legali del Partito comunista dello Xinjang, la massima autorità della regione che sovrintende alla polizia, ai tribunali e alla sicurezza dello Stato. Sono stati redatti sotto l’allora capo Zhu Hailun, che li ha firmati personalmente e in base a quanto dimostrato dalla fuga di notizie, il materiale rappresenterebbe una clamorosa conferma di quanto si ipotizzava sui campi. Nei documenti, infatti, spesso è stato riconosciuto che i detenuti nei centri di rieducazione non avevano commesso alcun crimine e che il motivo della loro prigionia era legato al fatto che “il loro pensiero era stato infettato da pensieri malsani”. Ma per Pechino, i documenti trapelati rappresenterebbero soltanto false notizie: “Le autorità cinesi sostengono che nello Stato a maggioranza uigura la libertà religiosa e personale dei detenuti è pienamente rispettata”. La struttura dei campi - Nelle aree urbane dello Xinjang, le prigioni sono vecchie scuole professionali e ordinarie, ex istituti appartenuti al partito o altri edifici ufficiali. La situazione cambia nelle aree rurali, dove secondo quanto riportato dal Guardian la maggior parte dei campi è stata appositamente costruita. I centri sono sorvegliati da forze armate o da membri dei corpi speciali di polizia e somigliano molto a un qualsiasi penitenziario, con cancelli e muri che circondano gli edifici, recinzioni di sicurezza, torri di guardia e rigidi sistemi di sorveglianza. Nel 2018, il magazine Bitter Winter, una rivista sulla libertà religiosa in Cina, ha pubblicato tre video girati all’interno di due campi nell’area di Yining. Le immagini mostrano come la struttura abbia le stesse caratteristiche di un carcere, confermando la tesi che non si tratta di scuole o di istituti professionali. Cosa succede dentro ai campi: le testimonianze - In base a quanto riportato da alcune testimonianze fornite da detenuti ed ex internati, la vita all’interno dei centri di rieducazione non rispetta i diritti umani, nonostante il governo cinese affermi il contrario. L’uso dei telefoni cellulari tra i detenuti (che Pechino chiama “tirocinanti”) è severamente vietato per impedire qualsiasi “collusione tra interno ed esterno” e persino l’igiene personale e le pause per i bisogni fisiologici sono monitorate con rigore “per prevenire possibili fughe”. Kayrat Samarkand, un cittadino kazako emigrato dallo Xinjang, sarebbe stato detenuto in una di queste strutture per tre mesi a causa di una visita in Kazakistan. Per farlo scarcerare, nel febbraio del 2018, è intervenuto il ministro degli Esteri kazako, Kairat Abdrahmanov, inviando una nota diplomatica al suo omologo cinese. Dopo la sua liberazione, Samarkand avrebbe dichiarato di aver subito umiliazioni, numerosi lavaggi del cervello e di essere stato costretto recitare slogan di propaganda, augurando lunga vita all’attuale presidente Xi Jinping. Come riportato da Rainews24, Erzhan Qurban, di etnia kazaka ora tornato a vivere in Kazakistan, fu arrestato dalla polizia durante un viaggio di ritorno in Cina per far visita alla madre con l’accusa di aver commesso crimini all’estero. Protestò dicendo di essere un semplice pastore e che non era l’autore di alcun reato, ma per le autorità cinesi, il periodo in Kazakistan costituiva già un motivo sufficiente per la detenzione. Qurban, rimasto detenuto per nove mesi, ha raccontato di essere stato “trattato come un animale”, rinchiuso in una cella con altre dieci persone, tutte costrette a sedersi su sgabelli di plastica, mantenendo posture rigide per ore. Era assolutamente vietato parlare e a sorvegliarli, per 24 ore al giorno, c’erano due guardie. Gli ispettori verificavano periodicamente che le unghie fossero tagliate e che barba e baffi, tipici della tradizione islamica, fossero rasati. Chi disobbediva era costretto a inginocchiarsi o a trascorrere una giornata di isolamento in una stanza molto fredda. Il centro di formazione Artux è stato definito un campo di indottrinamento - Nonostante Pechino insista nel dire che le strutture sono soltanto centri di formazione per persone più povere e meno istruite appartenenti alle minoranze etniche, svariati documenti dimostrano come tra i detenuti ci siano anche funzionari di partito e docenti universitari. Solitamente, i resoconti delle persone fermate vengono esaminati attentamente e i sottoposti agli interrogatori, spesso, sono spinti a denunciare i nomi di amici e parenti. Mamattursun Omar, cuoco ugiruo arrestato dopo aver lavorato in Egitto, sarebbe interrogato in quattro strutture di detenzione diverse per nove mesi nel 2017 e ai giornalisti che hanno ascoltato la sua testimonianza avrebbe riferito che la polizia cinese gli chiedeva continuamente di rivelare le identità di altri uiguri in Egitto. Come raccontato dallo chef, Omar sarebbe stato torturato con l’intenzione di indurlo a confessare che altri studenti appartenenti alla sua stessa etnia sarebbero andati nel Paese nordafricano per prendere parte al jihad. Legato a un dispositivo chiamato “sedia da tigre”, Omar avrebbe subito l’elettroshock e sarebbe stato picchiato e frustato con dei cavi per il computer. “Non ne potevo più e gli ho detto ciò che volevano sentirsi dire”, ha dichiarato il cuoco. Subito dopo, infatti, altri sei studenti che lavoravano in un ristorante egiziano sono stati individuati e fermati. “Fuggire era impossibile”, ha confermato la kazaka Sayragul Sauytbay, membro del Partito comunista, arrestata dalla polizia nell’ottobre del 2017 e costretta a diventare un’insegnante di mandarino all’interno di uno dei centri, che lei ha definito “un campo di concentramento, assai peggio di una prigione”. La donna ha parlato di stupri e di torture e un altro ex prigioniero, Zumrat Dawut, ha detto che agli internati sarebbero state somministrati farmaci in grado di renderli innocui e più “arrendevoli”. “Non ci vedevano come esseri umani. Ci trattavano come animali: come maiali, mucche, pecore”, ha dichiarato un giornalista ed ex detenuto. I lavori forzati - Secondo quanto ricostruito dallo studioso Adrian Zenz, i centri di rieducazione funzionerebbero anche come campi di lavoro forzato, dove gli uiguri lavorerebbero a vari prodotti pensati per l’esportazione. Nel 2018, il Financial Times ha riferito che il centro di formazione professionale della contea di Yutian Keriya, tra le più grandi strutture di rieducazione dello Xinjang, aveva aperto una struttura di lavoro forzato che includeva otto fabbriche, le quali si occupavano di calzature, assemblaggio di telefoni cellulari e imballaggi di tè. Ogni detenuto riceveva uno stipendio mensile corrispondente a circa 190 euro. E il problema esiste, non soltanto nell’area della regione autonoma, ma anche in altri punti del Paese. La “nuova” educazione - Tra gli obiettivi di questi centri di rieducazione c’è quello di reimpostare il pensiero, attraverso un tentativo esplicito di cambiare il modo in cui i detenuti agiscono e ragionano. E, infatti, la prima materia elencata come parte del curriculum di queste strutture è l’educazione ideologica, un’idea radicata già nell’antico credo cinese della trasformazione degli individui attraverso la didattica e l’apprendimento. Nel mostrare agli “studenti” gli errori compiuti in precedenza, le strutture promuoverebbero “il pentimento e la confessione”, come si legge nei documenti arrivati a New York. Oltre a una forma di indottrinamento, è prevista anche l’educazione alle buone maniere, dove il comportamento è improntato a “un cambio regolare dei vestiti”, “tagli e rasature tempestive” e a “un bagno una o due volte alla settimana”. Un ex membro della televisione della regione dello Xinjang era stato selezionato per insegnare il mandarino durante la sua detenzione di un mese nel 2017: secondo la sua testimonianza, due volte al giorno, i carcerati venivano messi in fila e ispezionati dalla polizia, poi alcuni (scelti a caso) venivano interrogati in mandarino. Chi non era in grado di rispondere nella lingua ufficiale poteva essere percosso o privato del cibo per giorni. I prigionieri, infatti, sarebbero testati continuamente su lingua, ideologia e disciplina, con una piccola verifica settimanale, un test medio al mese e una prova a fine stagione. I punteggi ottenuti vengono inseriti in un elaborato sistema e chi dimostra di comportarsi correttamente può essere ricompensato con le visite ai familiari o la possibilità di laurearsi. Chi, invece, registra scarsi risultati ha più spesso tempi di detenzione più lunghi e, in alcuni casi, può essere sottoposto a punizioni come la privazione del cibo, le manette, l’isolamento e forme di tortura. Gli internati uiguri più anziani risulterebbero i detenuti più svantaggiati, perché meno inclini all’apprendimento della nuova lingua e delle nuove abitudini. Cosa accade ai bambini uiguri? Tra le conseguenze delle detenzioni di massa delle minoranze, i primi a essere lasciati soli sono spesso i bambini, cioè i figli dei prigionieri che, senza la presenza dei loro genitori, sono vengono sottoposti al controllo del governo cinese. Il quale provvede alla loro educazione e al loro mantenimento spostandoli in collegi e strutture apposite. L’intento? Rieducare anche loro, cancellando le radici e quel poco di cultura appresa prima dell’arresto dei familiari. Chi è scappato o chi si trova in esilio non sempre è al corrente della sorte dei propri cari, né sa dove siano ubicati i propri figli. La tecnologia che controlla tutto - Ma è nella gestione tecnologica di questi prigionieri che la Cina si è dimostrata (ancora una volta) all’avanguardia, sfruttando una nuova forma di controllo sociale attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale. Come emerso dai documenti in possesso dal consorzio giornalistico, in una sola settimana, attingendo a dati raccolti da queste tecnologie di sorveglianza di massa, i computer avrebbero mostrato i nomi di decine di migliaia di persone da interrogare o da arrestare. Il sistema, che rappresenta il più sofisticato dispositivo di controllo contemporaneo, monitora e classifica intere etnie per sottometterle con la forza. Si chiama Integrated Joint Operations Platform (IJOP) ed è stato realizzato da una società di proprietà dello Stato legata all’esercito. Nato come uno strumento di intelligence per la condivisione di informazioni, è stato sviluppato dopo che analisti militari cinesi avevano studiato l’uso delle tecnologie informatiche da parte dell’esercito degli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan. “Non c’è nessun altro posto al mondo in cui un computer possa mandarti in un campo di internamento. Si tratta di un sistema senza precedenti”, ha spiegato Rian Thum, esperto di Xinjang dell’università di Nottingham, riportato da Rainews24. La tecnologia cinese è quindi riuscita a riconoscere nomi e identità di persone ritenute sospette dal governo, come migliaia di imam “non autorizzati” perché non registrati. I comportamenti ritenuti estremisti sono stati definiti in modo talmente ampio da poter includere tantissime azioni quotidiane, come per esempio quella di recarsi all’estero, chiedere di pregare o usare applicazioni per cellulari che non potessero essere controllate da Pechino. La tecnologia ha iniziato a monitorare gli utenti che utilizzavano Kuai Ya, un’applicazione simile ad Airdrop di iPhone, diventata molto popolare nella regione uigura perché consente agli utenti di scambiarsi video e messaggi privatamente. Un resoconto cinese avrebbe mostrato come le autorità siano riuscite a identificare circa 40mila fruitori dell’app, messi poi sotto inchiesta e potenzialmente candidati all’arresto. Di questi 32 sarebbero finiti in una lista di persone appartenenti a organizzazioni terroristiche. Dopo la raccolta di nomi, le liste con le persone oggetto di attenzione passano alle prefetture che, a loro volta, li inoltrano ai capi di distretto. Poi, i nominativi sono inviati alle stazioni della polizia locale e infine ai vigilanti di quartiere e ai quadri del Partito comunista. Un bollettino, emerso tra i documenti arrivati al consorzio di giornalisti, avrebbe rilevato che, in una sola settimana, nel giugno del 2017, l’IJOP avrebbe identificato 24.612 “persone sospette” nel sud dello Xinjang, con 15.683 cittadini inviati in strutture di “istruzione e addestramento”, 706 in carcere e 2.096 agli arresti domiciliari. Il sistema di controllo cinese ha tenuto sotto stretto controllo anche le persone che ottenevano passaporti o visti stranieri. E ai funzionari sarebbe stato richiesto di verificare le identità anche delle persone al di fuori dei confini nazionali, un fatto che dimostra quanto il Paese osservi gli uiguri anche al di fuori della regione cinese. Negli ultimi anni, Pechino ha esercitato una certa pressione su quei Paesi in cui si sarebbero rifugiate più facilmente le minoranze, come la Thailandia e l’Afghanistan, con lo scopo di estradare i cittadini. Le reazioni internazionali - Secondo quanto indicato da alcuni dati delle Nazioni Unite, citati da Reuters, nell’agosto del 2018, in tutta la regione dello Xinjiang, sono state trattenute contro la loro volontà all’interno di questi campi da uno a tre milioni di persone. Un fatto inaccettabile per l’Onu, che nel luglio del 2019, tramite i suoi ambasciatori di 22 nazioni, tra cui Australia, Canada, Francia, Germania, Giappone e Regno Unito ha firmato una lettera di condanna della detenzione di massa, esortando il governo a chiudere queste strutture perché allarmati per la diffusa sorveglianza e repressione al loro interno. Al contrario, invece, sempre come segnalato da un altro articolo di Reuters, una dichiarazione congiunta a firma di 37 Stati (tra cui Algeria, Repubblica Democratica del Congo, Russia, Arabia Saudita, Siria, Pakistan, Corea del Nord, Egitto, Nigeria, Filippine e Sudan), che non è mai stata mostrata al pubblico, avrebbe espresso approvazione nei confronti del programma antiterrorismo cinese dello Xinjang. Nell’ottobre del 2019, 23 Paesi hanno firmato un’altra lettera, sollecitando la Cina a chiudere i campi. Pechino, nel tempo, ha negato la loro esistenza, almeno fino alla loro legalizzazione (nell’ottobre del 2018). Attualmente Pechino rivendica ottimi risultati, visto che, in base a quanto riportano fonti governative, nella regione non si sarebbe verificato alcun attacco terroristico. Tuttavia, l’esperto di Xinjang Zenz, i documenti arrivati ai giornalisti americani confermerebbero un vero e proprio “genocidio culturale” perpetrato ai danni dei musulmani dello Xinjang. “Fin dall’inizio, il governo cinese aveva un piano ben preciso”, ha concluso lo studioso.