“Il carcere deve essere umano come lo vuole la nostra Costituzione” di Luca Cereda Vita, 27 marzo 2021 Sovraffollamento, situazione sanitaria riferita al Covid-19, tecnologie, volontariato, un dialogo a 360 gradi con il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà, coinvolto nel primo incontro pubblico della Ministra della Giustizia Marta Cartabia a inizio marzo, per ripensare il carcere del domani. “Con la ministra il carcere torna nell’alveo costituzionale” Mauro Palma è il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà. Palma ricopre questa carica fin dall’entrata in funzione di questa autorità indipendente dello Stato italiano, nel febbraio 2016, e fa parlare i fatti, non concedendosi molto spesso ad interviste. Lui e i vertici del Dap - il Dipartimento di amministrazione penitenziaria - sono stati coinvolti nel primo incontro pubblico della Ministra della Giustizia Marta Cartabia a inizio marzo, per ripensare il carcere del domani, insieme ai tanti volontari che operano in carcere e che sono fuori da un anno a causa della pandemia. Con lui abbiamo parlato anche della situazione attuale delle carceri, tra contagi, sovraffollamento e il vaccino che sta entrando in circolo Le chiederei in partenza qual è il suo punto di vista sul gesto della Ministra della Giustizia Marta Cartabia che ad inizio mese, come primo incontro istituzionale da Guardasigilli, - segnando con questo gesto tutta la distanza dal precedente Ministro - ha incontrato lei e i vertici del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Che significato ha avuto e come si dovrà lavorare per rendere le sue “Il carcere è un luogo di comunità che va protetto anche con le vaccinazioni”, concrete? Non per sminuire il suo gesto, anzi - vista la nostra conoscenza pregressa al nostro ricoprire i rispettivi ruoli - ma la Ministra ha interpretato i valori costituzionali su cui i nostri padri costituenti hanno scritto le regole su cui si fonda il nostro vivere sociale. Mi colpisce di più chi non compie questi gesti. Purtroppo ultimamente si erano perse le essenze costituzionali del ruolo rieducativo delle carceri. Quell’incontro e le prime azioni della Ministra Cartabia, vanno nella direzione dell’articolo 27 della Costituzione, vanno nella direzione dell’indignazione verso chi parla di “persone da far marcire in carcere”. Un valore forse positivo che la pandemia ci potrà lasciare, è non si potrà più dire di non sapere che esistono certe criticità negli istituti di pena. Dalla conoscenza di cosa accade in carcere e dalla volontà della Cartabia di affrontare la pandemia - innanzitutto - senza prescindere dal fatto che il carcere è un insieme di persone, una comunità appunto, nella quale contano ovviamente le condizioni di ogni singola persona è emblematica. Dobbiamo far si che la storia di un detenuto diventa poi quella di tutti. Ecco, con la Ministra Cartabia, finalmente, questo itinerario sembra potersi avverare. Un ruolo fondamentale per il percorso di rieducazione del reo che deve avvenire in carcere, ma anche per sopperire ad alcune lacune del sistema, le associazioni e le reti associativi dei volontari sono fondamentali. Essenziali quando in molti casi si occupano di portare esperienze culturali altrimenti difficili da realizzare, o di fornire materiale per l’igiene intimo, quantomai necessario in tempo di epidemia... É così, i volontari mancano tanto all’economia e alla vita delle carceri. Per capire la loro importanza farei un passo indietro, infatti oltre ai problemi legati ai contagi e al sovraffollamento, a cui facevo riferimento, in carcere oggi ci sono altre questioni aperte: la prima è dovuta al periodo extra-ordinario e di isolamento sociale che da un anno a questa parte ha cambiato le vite di tutti, dentro il carcere, ma anche fuori. Il fatto che però il carcere sia già di per sé un luogo che isola il reo dal resto della comunità, ha reso i penitenziari un deserto. Ho sempre creduto che il carcere italiano avesse un valore aggiunto nella grande permeabilità tra l’interno e l’esterno, grazie alle tante associazioni di volontari che operano all’interno. Tanto volontariato entra, e qualcosa del carcere viene portato fuori: penso ai progetti di cucito, di cucina, ai laboratori di lavorazione di materiali come il legno e molti altri. Il tutto si intreccia con le attività più istituzionali come la formazione e l’istruzione. Questi percorsi - forzatamente da un anno - di sono bloccati. Il carcere è diventato silenzioso. Il modello della detenzione vissuta come uno “stare in cella”, ho paura che si affermi vanificando sforzi e percorsi di anni. La solitudine e la sensazione di essere isolati dal mondo esterno spesso degenera in problemi di natura psicologica e a volte anche psichiatrica che il carcere non sempre riesce al meglio a gestire. E questo sentimento di “vivere fuori dalla realtà” è acuito dall’impossibilità di avere le visite con i propri affetti in presenza. Questo cocktail fu anche una delle concause delle rivolte di un anno fa, oggi qual è la situazione? In questo periodo i disturbi soggettivi, dalle dipendenze da sostanze stupefacenti, a stati mentali e psichici fragili, si acuiscono. E sfociano anche in malattie psichiatriche. Se ciò accade oggi fuori dagli istituti di pena, in carcere questo succede in modo esponenziale per via delle maggiori limitazioni fisiche e psicologiche. Questi disagi che a volte diventano vere e proprie patologie si curano solo in un carcere plurale, mentre si acutizzano in un carcere chiuso come giocoforza è oggi. Questa situazione ricade sui pochi operatori che sono all’interno e quindi spesso sugli agenti di Polizia penitenziaria, che però non sono formati per questo. La solitudine in carcere si è poi acutizzata ancora di più perché, a causa della pandemia e per prevenire il contagio, sono rimasti fuori i familiari. A questo si è provveduto anche in tempi rapidi grazie alla tecnologia che è arrivata attraverso l’attività di molte realtà di volontariato. Perché non occorrevano solo i dispositivi ma anche gli abbonamenti ed il credito che molti volontari hanno fornito alle carceri. Ma questo non è sempre avvenuto in modo uniforme sul territorio nazionale. Ritengo si debba lavorare ancora molto sulla tecnologia nelle carceri, sia come mezzo di comunicazione in tempi di pandemia, sia per rafforzare la presenza di quella ricchezza e varietà di presenza educativa e terapeutica che forniscono i volontari e che può permanere in carcere in modo più dinamico attraverso la tecnologia. Dalla sua analisi mi sembra di capire che manchi uno sguardo d’insieme sullo sviluppo delle carceri. Del loro risolvere i problemi - del passo e - del presente e di pensarsi come sempre più uno strumento per la rieducazione del reo, non per la punizione del condannato. Da dove partire per costruire un carcere umano, come lo vuole la costituzione? In questo momento, e a seguito dei problemi endemici delle carceri del nostro Paese e a quelli sollevati dal Covid, il carcere non sembra avere una direzione, pare restringersi ad un tempo sottratto alla vita. Il tempo vuoto è il peggior rischio rispetto all’esistenza di ognuno e in particolare di chi è ristretto negli spazi per via di una sanzione penale. Questo fa perdere l’indicazione costituzionale riabilitative, su cui faticosamente abbiamo lavorato in questi anni. Anche attraverso esperienze artistiche e culturali che non sono solo passatempi, ma implicano un lavoro su se stessi e sulla propria persona, come gli spettacoli teatrali. Dobbiamo partire dalla permeabilità del carcere e non dalla cesura tra chi sta fuori e chi sta dentro. Un carcere umano e parte integrante della società, è quello che ci impone la Costituzione. Farei, se è d’accordo, un passo indietro, o meglio, un passo dentro le carceri oggi: qual è la situazione dei contagi in carcere, che essendo un luogo chiuso e ristretto presenta molti più rischi rispetto a tante altre situazioni sin dall’avvento della pandemia? La situazione dei contagi ad oggi non è rosea [ndr. a lunedì 22 marzo], perché ci sono 559 persone detenute positive al virus e 768 operatori contagiati. I dati sono in rialzo rispetto alle ultime settime. Le persone sintomatiche tra i detenuti sono però 24 di cui 16 ospedalizzati. Questo continua a creare preoccupazione visto che la realtà del carcere è chiusa sia negli spazi che negli ambienti e quindi va monitorata con molta attenzione. Questo possiamo dire che è un dato che ci desta preoccupazione ma non allarme. Resterei ancora sui numeri, non più quelli dei contagi, ma quelli del sovraffollamento. Qualcosa si è fatto per abbattere il numero di detenuti presenti in carcere rispetto ai posti disponibili, non solo, ma anche, per prevenire il contagio del virus... Alla vigilia dello scoppio della pandemia, alla fine di febbraio 2020, i detenuti erano 61.230. Alla fine di febbraio 2021 sono 53.697. In un anno i detenuti sono calati di 7.533 unità [il 12,3% del totale]. Ciò è dovuto più all’attivismo della magistratura di sorveglianza che non ai provvedimenti legislativi adottati in materia di detenzione domiciliare per far fronte al virus. Ma il tasso di affollamento ufficiale è ancora pari al 106,2% e sale al 115% se consideriamo i reparti chiusi che riguardano circa 4.000 posti. Il sovraffollamento non è distribuito in maniera uniforme. Qualche esempio: a Taranto abbiamo 603 detenuti per 307 posti (un affollamento di quasi il 200%), a Brescia 357 detenuti per 186 posti (191,9%), a Lodi 83 detenuti per 45 posti (184,4%), a Lucca 113 detenuti per 62 posti (182,3%). Del totale della popolazione, i condannati con sentenza definitiva sono infatti il 69,1% dei detenuti italiani e il 65,3% degli stranieri. É possibile pensare ad una redistribuzione della popolazione carceraria? E ancora, come prevenire il sovraffollamento che - al di là dei rischi di salute per via della pandemia - condanna i detenuti ad avere meno spazi e minori occasioni di rendere davvero rieducativa la pena? Le persone detenute non possono essere redistribuite ugualmente dappertutto. Nel carcere ci sono dei circuiti diversi, a seconda della sicurezza. C’è la differenziazione sulla base del sesso o persone che seguono percorsi di protezione perché collaboratori. Il sovraffollamento è costante, ma la “media” nasconde situazione al limite del disumano ad altre di relativo rispetto delle norme. Dobbiamo insistere sull’estensione della “liberazione anticipata”. Un nome che la fa sembrare altro da ciò che è, ovvero: alla persona che in carcere, sulla base di una valutazione interna all’istituto di pena e del magistrato di sorveglianza, che abbia tenuto un comportamento positivo rispetto al percorso di rieducazione alla vita in società vengono condonati 45 giorni ogni 6 mesi. L’idea sarebbe quella di spingere perché i giorni diventino 75. Questo fatto, che può sembrare poca cosa, avrebbe un effetto di riduzione del sovraffollamento significativo, senza dover ricorrere ad amnistie indiscriminate, ma come effetto ragionato di un percorso di rieducazione del reo che è parte integrante della pena. Che va sempre ricordato non è punizione, per la nostra Costituzione. Date questa condizione il contesto delle carceri italiane che ci ha descritto, per avviare un processo di rinnovamento del carcere, si può partire dalla campagna vaccinale in corso? Essa che ruolo può avere? Oggi abbiamo una campagna vaccinale che sta procedendo, sia per i detenuti che per gli operatori di polizia, amministrativi ed educativi che operano all’interno. Occorre però, prima di tutto, un grande investimento culturale e progettuale per ridare alla pena uno scopo e una direzione, perché altrimenti si correre il rischio di pensare e progettare un carcere vissuto da una popolazione che non fa parte della società nel suo complesso. Mi spaventa la cesura tra una presunta società a-problematica fuori, e una problematica dietro. Dico mi spaventa perché si è stati molto in silenzio quando non più tardi di un anno fa, quando ci sono state rivolte e morti in carcere come non ce n’erano da decenni. È stato vissuto come un incidente a “qualcun altro” e non una ferita alla nostra stessa società. L’incontro avuto con la Ministra della Giustizia Cartabia ha sottolineato come oggi come oggi, il primo bisogno di chi lavora e vive in carcere oggi è proteggersi contro il virus, che porta malattia nel corpo e genera tensioni, ansie e preoccupazioni nello spirito. E la protezione per eccellenza contro il Covid è il vaccino. Che va somministrato quanto prima a tutti i detenuti, agli operatori e agli agenti penitenziari. In chiusura una domanda sul mondo del lavoro è in crisi - una crisi spinta all’estremo dalla pandemia con milioni di italiani finiti in povertà. Come lavorare in carcere per tessere relazioni di lavoro che è in parte recupero in parte riabilitazione anche professionale del reo, davanti ad una situazione fuori così complessa anche nel modo del Terzo Settore, spesso ricettivo e collaborativo con percorsi di reintegro lavorativo di ex detenuti? Il lavoro svolge un compito fondamentale nel reintegro a pieno titolo in società di un ex detenuto. Il lavoro oggi ero non c’è, o non si trova, e se questo è problematico all’esterno figuriamoci all’interno. Il lavoro per le persone che escono da un percorso di detenzione dovrebbe richiedere uno sforzo collettivo ancora più grande affinché il lavoro educativo fatto dentro, non vada perso in poco tempo. Una barriera, però, su cui dobbiamo lavorare alacremente a prescindere dalla pandemia, è lo stigma che colpisce il detenuto anche dopo il suo percorso in carcere. Dobbiamo riuscire a far percepire la detenzione come uno degli ostacoli della vita personale in cui i soggetti si possono trovare. Questo è a prescindere dalla crisi del mondo del lavoro in corso, il primo punto su cui lavorare, culturalmente, socialmente e anche lavorativamente. Ergastolo ostativo, la necessità di fare chiarezza di Nicola Quaranta e Michele Passione* Gazzetta del Mezzogiorno, 27 marzo 2021 Sulla “Gazzetta” il prof. Musacchio interviene sulla decisione della Corte costituzionale in merito alla possibilità di concedere la liberazione condizionale ai condannati all’ergastolo ostativo. Vogliamo fornire maggiore chiarezza e verità sull’argomento. Vediamo perché. L’ergastolo ostativo non consegue alla commissione del reato di cui all’art. 416 bis, se non accompagnato da omicidio. Non è vero, come affermato da Musacchio, che “questo tipo di ergastolo, di fatto, non sia definitivo e tantomeno insuperabile”; se così fosse, non ci sarebbe stata la condanna del nostro Paese ad opera della Corte Edu (Viola n. 2 c. Italia). L’autore costruisce un’impropria sovrapposizione tra collaborazione e dissociazione, che pure in premessa distingue, e pone ad esempio della dissociazione alcune condotte lato sensu riparatone che oggi sono proprio impedite dalla preclusione assoluta sulla quale la Corte Costituzionale è chiamata a decidere. Peraltro, nessuno nega (o intende cancellare) l’importanza della collaborazione, che resterebbe tal quale (consentendo di erodere il maggior segmento di pena per accedere ai benefici), e non è dato comprendere cosa significhi che “il reinserimento sociale ha un senso se chi ne beneficia lo desidera realmente”. Non è sul desiderio di reinserimento (che di certo non manca a chi è sepolto vivo da decenni) che si gioca la partita, quanto sull’impossibilità di apprezzare il cambiamento maturato. Quanto all’esempio fornito (l’arresto - la vicenda è ancora in indagini - di un condannato all’ergastolo per l’omicidio Livatino), questo è inutiliter datura, essendo costui uscito in permesso quale collaboratore impossibile, presupposto previsto dalla legislazione vigente. Ed ancora. Musacchio ritiene che un’eventuale decisione di accoglimento della quaestio da parte della Corte Costituzionale esporrebbe “il magistrato procedente in prima persona alla vendetta della mafia”. L’assunto è sorprendente: e il Gip che dispone la cattura di un mafioso? E il giudice che condanna, magari all’ergastolo? Si tratta di argomentazioni strumentali, ricorrenti e speciose, continuamente utilizzate da 11 Fatto, che stupisce (e dispiace) vedere condivise da chi insegna e pubblica volumi sull’argomento in discussione. I giudici di Sorveglianza non sono figli di un Dio minore, e non hanno bisogno di badanze. Ma la confusione è grande sotto il cielo, anche laddove si assume che ((non collaborare con la giustizia e non dissociarsi preclude anche l’inizio di un dialogo tra l’autore del reato e la vittima”. Di nuovo un improprio accostamento tra collaborazione e dissociazione, cui si mescola l’ipotesi di un’obbligatoria condotta di giustizia riparativa, che non può essere mai imposta, ed a volte è persino impossibile o controproducente, inducendo vittimizzazione secondaria. Ancora un paio di annotazioni: “le aperture dell’Avvocatura dello Stato” che menziona l’autore sono in realtà appoggiate su una giurisprudenza di legittimità totalmente inconferente rispetto al tema che si pone; la Corte Costituzionale lo sa, e saprà farne buon governo. Che poi la decisione che si attende determini l’eliminazione del 41bis è affermazione talmente fuori dalla realtà (non è questo al vaglio della Corte) che non merita altri commenti. Resta sullo sfondo, a chiusura del pezzo, la preoccupazione di un allontanamento “dalle evidenti istanze di prevenzione generale”, alle quali rispondiamo con le parole della Corte Costituzionale (sent.n.149/2018): “L’impossibilità per il Giudice di procedere a valutazioni individualizzate contrasta con il ruolo che deve essere riconosciuto, nella fase di esecuzione della pena, alla sua finalità di rieducazione [...] che deve essere garantita anche nei confronti di [...] condannati all’ergastolo”. Aldo Moro cominciava dalla fine le lezioni ai suoi studenti di diritto penale, partendo dalla pena, perché è lì che si invera il suo volto costituzionale. Forse bisognerebbe rileggerlo, rifuggendo dai dogmatismi e dalle ideologie. *Avvocati: Nicola Quaranta (Foro di Bari), Michele Passione (Foro di Firenze) Se i mafiosi vogliono ottenere la libertà condizionale collaborino con la giustizia di Paolo Maddalena* Il Fatto Quotidiano, 27 marzo 2021 Alla gravissima crisi sanitaria ed economica si aggiunge oggi il fatto che, nell’orientamento politico dominante che si preoccupa più della tutela dei singoli anziché della tutela della collettività, l’Avvocatura dello Stato, mutando il suo precedente atteggiamento, ha chiesto alla Corte Costituzionale di accogliere quanto prospettato dalla Corte di cassazione contro l’attuale divieto di concedere la libertà condizionale al condannato all’ergastolo per reati di mafia che abbia negato di voler collaborare con la giustizia. Se ciò avvenisse, i fiumi di sangue versati dalle vittime di mafia e da tanti magistrati che si sono opposti alle organizzazioni mafiose non sarebbero serviti a nulla. Ha ragione infatti il Procuratore della Repubblica Nino Di Matteo nel rilevare che la cancellazione della collaborazione con la giustizia come condizione per la concessione della libertà condizionale, darebbe un colpo mortale alla costruzione di un sistema penalistico idoneo a sconfiggere la mafia e si eseguirebbe quanto chiesto da Totò Riina a questo proposito. In altri termini se davvero si concedesse all’ergastolano di non collaborare con la giustizia e ciò nonostante gli si conferisse il diritto di ottenere la libertà condizionale solo a seguito di aver dato prova di buona condotta durante l’espiazione della pena, verrebbe meno l’elemento psicologico essenziale su cui si fonda la costruzione giuridica ottenuta con tanta fatica da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino. Rilevo inoltre, dal mio punto di vista, che la Repubblica, e cioè il Popolo sovrano, ha il diritto/dovere inderogabile di difendere innanzitutto se stessa dall’azione criminale delle organizzazioni mafiose, ovviamente nei limiti dell’articolo 27 della Costituzione, il quale non è affatto violato dalle vigenti disposizioni normative in materia. D’altro canto gli argomenti portati a sostegno della illegittimità delle norme che prevedono l’obbligatorietà della collaborazione con la giustizia per ottenere una liberazione anticipata non hanno nessun fondamento giuridico. Si tratta di due concetti essenziali, e cioè della rieducazione del condannato e della necessità, che sarebbe negata all’ergastolano, di riacquistare la libertà. Infatti nel caso di specie la possibilità di riacquistare la libertà condizionale è tutta nei poteri del condannato, il quale, dopo aver compiuto esecrabili delitti, se tiene alla propria libertà, deve almeno essere pronto a collaborare per il bene della Repubblica. Ciò è confermato anche dall’articolo 3 della Costituzione, perché l’azione del criminale è un ostacolo insormontabile per lo sviluppo della persona umana e per la partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica e sociale del Paese. Peraltro nel caso di specie chi rifiuta di collaborare con la giustizia non può essere assolutamente considerato “rieducato”, in modo da esser parte, come cittadino, dell’intero Popolo sovrano. Né si può presumere che un soggetto di questo tipo possa difendere i diritti inviolabili dell’uomo ed assolvere a doveri di solidarietà economica, politica e sociale, come prevede l’articolo 2 della Costituzione. D’altro canto non si può dire che le norme in questione tolgono la speranza di riottenere la libertà, poiché è nei poteri dello stesso condannato di ottenere quest’ultima semplicemente collaborando con la giustizia. Ricordo in proposito che l’articolo 54 della Costituzione impone a tutti i cittadini di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi e dispone che i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore. Insomma non si può parlare di lesione del principio rieducativo della pena se prima la Repubblica sia fatta salva dalle insidie della mafia. *Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale Per i detenuti in 41bis è vietata anche la fantasia sessuale di Maria Brucale Il Domani, 27 marzo 2021 Il 31 marzo la Cassazione deciderà se, come richiesto dal ministero della giustizia, negare a un detenuto in 41bis l’acquisto di riviste per adulti. Il sesso in carcere non entra. I colloqui con i familiari avvengono sotto il controllo visivo degli agenti e se ci si avvicina cercando un’intimità con la propria compagna o con il proprio compagno l’incontro viene subito bruscamente interrotto. Ma è ipotizzabile che una persona reclusa rinunci alla sessualità? Che annienti una istintualità che le è connaturata, che le appartiene? Che non la insegua riconoscendone tracce in ogni contatto fisico anche rubato? La privazione della libertà è in sé una mutilazione che costringe i pensieri, le emozioni, i desideri in stanze asfittiche e spoglie in cui ogni autonomia è negata, ogni spinta ideale compressa, ogni intento di organizzazione o di azione coartato e scandito dall’amministrazione penitenziaria. I concetti di amore, di amicizia, di famiglia si sfumano e si stemperano traducendosi per chi è fuori in una tensione di accudimento e di assistenza fatta di pacchi di generi alimentari e di vestiario da spedire, viaggi, lettere e telefonate, gestione della vita senza la persona reclusa e, per chi è dentro, in una attesa indefinita, scomposta e opprimente colata di silenzi, di un sintomo di vicinanza, di contatto, di emozione che rompa il tempo, che spezzi lo stillicidio dei minuti e delle ore, che si insinui in uno stato pressoché inevitabile di abbrutimento e di alienazione. La detenzione scalfisce la personalità perché sottrae agli individui la descrizione del loro domani, la realizzazione puntuale della loro volontà, l’autonomia nell’appagamento dei loro desideri e delle loro passioni. La mente si piega alla destrutturazione del sé e cerca disperatamente soddisfazione alle pulsioni naturali, istintuali, irreprimibili. Il sesso diventa un’ossessione che può spingere a indulgere all’amore omosessuale perché il tempo che scorre aliena, smarrisce e sfuma i ricordi. Il desiderio si nutre di immagini raccolte dalla vita reale, dall’esperienza, dalla memoria. Le linee, le fattezze di donna o di uomo si confondono nella mente e il bisogno struggente di carnalità scava e diventa un tarlo. E allora anche il corpo del compagno di sventura assume contorni morbidi, attraenti, ambiti. Un bacio è un bacio, una carezza, una carezza. Per tale ragione in carcere la visione di giornali pornografici diventa una necessità. Quella di coltivare l’immaginazione, di costruire una dimensione accogliente e intima, un luogo della mente oltre i muri di cinta dove coltivare la sola sessualità consentita, quella dell’autoerotismo. Nei regimi privativi di cui all’art. 41bis l’esigenza si esaspera perché in quei luoghi di totale isolamento affettivo agli uomini reclusi per anni è negata anche una stretta di mano. Riviste per adulti - Per tale ragione il tribunale di sorveglianza di Roma ha accolto la richiesta di un ristretto in 41bis di acquistare riviste per adulti, poiché attraverso la visione di immagini pornografiche la persona reclusa trova uno strumento per migliorare la sua vita privata sebbene “l’orizzonte espressivo della sua sfera sessuale si riduca ad una dimensione effimera e sublimata”, nel rispetto della dignità umana e dei valori costituzionali, a tutela della persona sottoposta alla detenzione in regime speciale come a ogni detenzione. È del tutto ovvio, d’altronde, che la lettura di un giornaletto porno non possa confliggere con gli scopi di tutela della sicurezza pubblica per cui è ammessa la carcerazione di rigore: evitare che i capi di associazioni criminali trasmettano all’esterno i loro comandi e raggiungano i sodali in libertà. Il provvedimento però non è stato eseguito. Il ministero della giustizia ha presentato ricorso per Cassazione e il 31 marzo sarà la Suprema Corte a dire se può essere concesso a una persona cui è negato ogni contatto umano di guardare su un foglio di carta un corpo nudo di donna, per chiudere gli occhi e avere una immagine da amare, una sollecitazione visiva per uscire da un rettangolo di ferro e cemento, un luogo dell’ideazione per la fantasia, per ricordare di essere ancora uomo. Piano Cartabia per potenziare la giustizia: “Rivoluzione digitale e 16 mila assunzioni” di Francesco Grignetti La Stampa, 27 marzo 2021 La ministra al lavoro su come utilizzare i 3 miliardi del Recovery: previsti ammodernamento o costruzione ex novo di una quarantina di sedi. Nelle stanze della ministra Marta Cartabia sta prendendo corpo la giustizia che verrà. Un intervento complesso, su più piani, evitando quello che lei stessa ha definito “l’equivoco per il quale l’obiettivo di una giustizia più effettiva ed efficiente, oltre che più giusta, possa essere raggiunto solo attraverso interventi riformatori sul rito del processo o dei processi”. No, per trasformare la giustizia italiana, oltre le riforme sul penale, il civile e il Consiglio superiore della magistratura di cui si discuterà in Parlamento, occorrono carne e sangue, nel senso di grandi investimenti, migliaia di nuovi assunti, ristrutturazioni edilizie e un massiccio ricorso al digitale. Il primo tassello della trasformazione saranno quindi i miliardi del Recovery Plan. Per la Giustizia saranno circa 3 miliardi, ma non finisce qui perché è ancora in discussione il capitolo sull’architettura penitenziaria. Il primo intervento riguarderà il personale. Attualmente i dipendenti della Giustizia, magistrati esclusi, sono pochi, stanchi e in età avanzata. Grazie al Recovery, verranno stanziati 2,29 miliardi di euro per 16.500 nuovi assunti a tempo determinato. Di questi, 3.000 saranno amministrativi e tecnici vari. Gli altri saranno giovani laureati in materie giuridiche ed economiche che daranno linfa al cosiddetto Ufficio del Processo, istituito nel 2012 da quell’altro tecnico sopraffino che fu la ministra Paola Severino, ma rimasto a livello sperimentale. “Un modello organizzativo - ha sintetizzato Cartabia davanti al Parlamento - che rafforza la capacità decisionale del giudice inserendo nello staff gli assistenti sul modello dei “clerks” dei paesi anglosassoni, incaricati della classificazione dei casi, della ricerca dei precedenti giurisprudenziali e dei contributi dottrinali pertinenti, della predisposizione di bozze di provvedimenti”. L’Ufficio del Processo dovrebbe essere quella marcia in più che permetterebbe al giudice ovviamente di restare sempre il protagonista assoluto e solitario delle decisioni, ma anche di essere supportato per tutto quanto riguarda la parte “conoscitiva” e “organizzativa” preliminare, con evidenti riflessi su durata e qualità del processo. Il secondo tassello riguarda i palazzi di Giustizia. Sono in arrivo 426 milioni di euro per ammodernare, ristrutturare o addirittura costruire ex novo una quarantina di sedi in tante città italiane. È uno scandalo lo stato di troppi tribunali o procure. E qualche giorno fa, a una madre di Teramo che le aveva scritto lamentando che per suo figlio, un operaio morto in un incidente sul lavoro, il processo non è mai stato nemmeno avviato per le condizioni del palazzo di Giustizia, lei ha preso un impegno: “Non deve succedere mai più”. Terzo fondamentale capitolo è il salto nel digitale. S’annuncia una vera rivoluzione. In Italia da diversi anni il processo civile è già passato alla dimensione digitale. Avvocati e giudice si trasmettono gli atti attraverso una piattaforma telematica, tagliando tempi e ostacoli. Molto spesso però le linee saltano, i server non rispondono, l’infrastruttura digitale non è all’altezza. Oltretutto la digitalizzazione si sta affacciando in Cassazione e nel settore penale. Quindi, nuovi investimenti. Verranno spesi 83 milioni di euro soltanto per la digitalizzazione degli archivi, in modo da eliminare milioni di fascicoli e chilometri di scaffalature. Già questo passo, quando si arriverà a regime, permetterà un consistente risparmio di personale addetto alla gestione degli archivi stessi, che saranno richiamabili sul computer con un click, e anche la dismissione di edifici dove i fascicoli sono conservati. Per una più sicura trattazione dei procedimenti, sia in termini di continuità del servizio, sia di protezione da hacker, si progetta una Rete dedicata del ministero della Giustizia con data-center nazionali, che significa maggiori garanzie di sicurezza, ma anche risparmi rispetto all’immagazzinamento di dati all’estero. La pandemia ha poi costretto gli operatori della giustizia a lavorare in remoto. Dalla Corte costituzionale in giù, la legge è stata applicata con lo smart-working. Dato però che non si tornerà mai più del tutto indietro, e questo lavoro da remoto va reso più efficiente e più protetto, sono in arrivo 217 milioni di euro per lo smart-working. E ancora, con 50 milioni si farà ricorso a data-base e intelligenza artificiale per avere al ministero un quadro sempre aggiornato sulle realtà giudiziarie. “Adeguate analisi statistiche giudiziarie nelle quali l’Italia è stata in passato all’avanguardia, che vanno potenziate e rese più veloci perché consentono quella misurazione dell’attività senza della quale non può esserci un migliore funzionamento”. Da questo monitoraggio emergeranno i punti deboli del sistema, ma anche quelli di forza, le cosiddette “best practices” che poi spetterà al ministero e alla Scuola Superiore della magistratura far conoscere a tutte le toghe italiane. Cartabia: sopprimere il correntismo, non l’Anm di Errico Novi Il Dubbio, 27 marzo 2021 Hanno senso l’Anm e in generale il correntismo se, come la guardasigilli Marta Cartabia scrive nelle sue linee programmatiche, si devono assolutamente “scoraggiare logiche spartitorie che poco si addicono alla natura di organo di garanzia che la Costituzione attribuisce al Csm”? Forse sì, e la soluzione del rebus può essere nel ruolo di “vigilanza” dell’associazionismo togato rispetto a un’idea di giustizia che non deve tradire i principi della Carta. Proprio l’idea che la ministra vuole affermare. Molti danno per scontato che l’impresa di Marta Cartabia consista nel riformare la prescrizione senza favorire l’uscita dei 5 stelle dal governo. Ma chi ha compreso di quale spessore siano la guardasigilli e i componenti del suo gruppo di lavoro sulla riforma penale avrà già capito che la missione non è impossibile. Basti citare il presidente di quella “commissione agile”, Giorgio Lattanzi, cioè il numero uno della Consulta, e predecessore dunque di Cartabia, che ha portato la Corte in viaggio negli istituti di pena, faccia a faccia con i carcerati. La vera impresa, per la ministra, in realtà è un’altra: è la riforma del Csm. Difficilissima, e non solo per le complicazioni di quello che viene banalizzato nel “caso Palamara”. Gli ostacoli sono due, anzi è la difficoltà di rimuoverli insieme. Cartabia ricorda nelle sue “Linee programmatiche” la “fisiologica e peraltro ineliminabile pluralità delle culture della magistratura” e la necessità di rifuggire “dalla semplificazione che confonde il valore del pluralismo con le degenerazioni del correntismo”. Ma nello stesso testo, la guardasigilli scrive, e ha detto testualmente nelle commissioni Giustizia del Parlamento: “Si prevede una profonda riforma del sistema elettorale” del Csm, “con l’obiettivo di ridurre il peso delle correnti nella scelta dei candidati e nella determinazione” degli eletti. Non solo: ha persino ipotizzato una avveniristica asincronia nell’elezione dei consiglieri, in modo rinnovare “ogni due anni la metà dei laici e la metà dei togati”. Sia per “assicurare una maggiore continuità dell’istituzione” sia per “scoraggiare logiche spartitorie che poco si addicono alla natura di organo di garanzia che la Costituzione attribuisce al Csm”. Non è un algoritmo. Cartabia sostiene che il pluralismo delle correnti va salvato e nello stesso tempo che le correnti non devono comportarsi a Palazzo dei Marescialli come se fossero partiti. Certo, per la soluzione c’è da scervellarsi. Tanto che finora l’Anm non si è spinta a polemizzare per il rischio ridimensionamento politico nel Consiglio. E non è solo perché Giuseppe Santalucia, nuovo presidente dell’Associazione, è un galantuomo, ma anche perché non c’è una chive a portata di mano. Lo sa benissimo anche l’altra figura di prestigio scelta dalla guardasigilli per scrivere gli emendamenti dei ddl Bonafede: quel Massimo Luciani che, tra l’altro, ha presieduto l’Associazione costituzionalisti, ambito da cui proviene la stessa ministra. Luciani guiderà il gruppo di lavoro deputato alla riforma del Csm. E, come ha ricordato ieri il Sole 24 Ore, ha espresso mesi fa considerazioni sul correntismo analoghe a quelle di Cartabia: “La riforma del sistema elettorale del Csm”, ha detto a un convegno delle toghe di “Area”, “non può essere l’occasione per stroncare la libertà di associazione dei magistrati, specie a fronte di un associazionismo nato e prosperato anche perla spinta di legittime pulsioni ideologiche e culturali”. Insomma, la direzione è chiara: le correnti non devono morire ma neppure devono comandare. E però, perché mai dovrebbero continuare a esistere? La risposta in apparenza si complica se si considerano le riflessioni proposte da una delle voci più attive e culturalmente consapevoli dell’associazionismo giudiziario: Magistratura democratica. La segretaria del gruppo, Mariarosaria Guglielmi, ha pubblicato nei giorni scorsi un articolo sulla propria rivista-house organ, Questione giustizia. Ha riconosciuto la “crisi” e le “cadute” nel “governo della magistratura”, ma ha anche puntato l’indice contro il rischio che la riforma degradi il Csm “in senso burocratico, come organo di amministrazione e di governo del “personale”“. Vuol dire che nel cuore profondo della cultura togata l’ammissione degli errori non si traduce in spirito remissivo rispetto al ruolo “politico”. Si preannuncia dunque uno scontro, fra la ministra- presidente emerita e i magistrati? Forse no. Forse una possibile via d’uscita, e persino un’ipotesi di alleanza ideale, è sempre nelle riflessioni di Guglielmi. Che alla fine del citato intervento affida alla sua corrente la missione di esercitare una “vigilanza sulla tenuta del ruolo costituzionale della giurisdizione”. La risposta può essere qui, nel fatto cioè che, come dice Guglielmi, le correnti non dovranno spartirsi le nomine al Csm, ma devono però dire la loro sullo scivolamento del Paese lontano dalla cultura costituzionale. Cioè anche su tutto quello che negli ultimi anni è avvenuto nell’opinione pubblica “grazie” alla distorsione mediatica del processo, alla soppressione sostanziale della presunzione di innocenza. In questo le toghe potrebbero essere eccome alleate di Cartabia. Che crede così tanto nel primato, e persino nella forza pedagogica della Costituzione, da essere convinta di poter cambiare la prescrizione senza litigare coi cinque stelle. Dateci una giustizia diversa di Guido Vitiello Il Foglio, 27 marzo 2021 Oggi la congiuntura astrale-governativa, per una revisione in senso garantista, è propizia: succede una volta ogni vent’anni. Non buttiamola al vento (ancora). Le occasioni per una riforma garantista della giustizia sono rare quasi quanto le eclissi di sole. Serve un allineamento perfetto di corpi non celesti ma terrestri - un ceto politico forte e legittimato, una magistratura ammaccata, un clima di opinione propizio. Cose che capitano sì e no ogni vent’anni. Ricordo i noviluni più recenti. 1987: l’uomo più popolare d’Italia, Enzo Tortora, è vittima di una campagna di macelleria giudiziaria; promuove un referendum per la responsabilità civile che si trasforma in un plebiscito, ma una classe politica vile si piega all’impuntatura dei pm, e di lì a poco i pianeti si disallineano tragicamente. 2000: l’uomo più votato d’Italia, Silvio Berlusconi, è il bersaglio di un tiro a segno giudiziario; ha in canna i tre colpi dei referendum radicali - elezione del Csm, separazione delle carriere, incarichi extragiudiziari - ma decide di spararli in aria, promettendo che si armerà fino ai denti per le elezioni dell’anno dopo; le vince, ma anche con una maggioranza enorme non fa nulla, e i pianeti si disallineano di nuovo. 2021: il governo meno ricattabile della storia repubblicana, sostenuto da tutti i partiti meno uno, ha davanti a sé una magistratura più screditata della stessa politica; il ministro Cartabia ha le idee chiare, e… vi prego, stavolta dateci un finale diverso. Non aspettate la prossima eclissi. Il complotto contro Lanzi: troppo garantista per le truppe forcaiole che occupano il Csm di Davide Varì Il Dubbio, 27 marzo 2021 Chi ha ordinato il pedinamento del consigliere del Cms Alessio Lanzi? E per quale motivo? Di certo, per le sue idee, non si era fatto molti amici tra le truppe giustizialiste. Lasciateci fare i complottisti, almeno per una volta. E come in ogni complotto che si rispetti dobbiamo provare a rispondere alla domanda delle domande: a chi giova? E per mantenere un certo mistero - ché gli articoli complottisti, è noto, vivono nella penombra, fioriscono nel non detto o nel detto tra le righe - potremmo prima chiederci il contrario, ovvero: a chi non giova, chi vuol colpire e chi mira a delegittimare questo complotto? Ecco, di certo il dossieraggio contro il consigliere laico Alessio Lanzi, perché è di quello che stiamo parlando, colpisce l’ala più garantista del Csm. E questo è un fatto. Ora, una volta seminati un po’ di interrogativi, passiamo ad elencare gli eventi. La Repubblica di ieri pubblica un lungo articolo nel quale parla di un incontro tra il consigliere Lanzi e Roberto Rampioni. Il Rampioni in questione, veniamo a sapere, è un avvocato, ma non un avvocato qualsiasi: è il legale difensore di Luca Palamara. E qui si spalanca un universo. È sufficiente citare quel nome, Palamara, per evocare in chi legge il grumo mediatico giudiziario che ha paralizzato la nostra Giustizia, la tossina che ha avvelenato la magistratura italiana, il groviglio correntizio che in questi anni ha giocato al risiko delle procure nei salotti dei più esclusivi hotel romani. Ora, sembra che l’incontro tra i due sia avvenuto poche ore prima che Palamara venisse ascoltato - “torchiato”, abbiamo titolato noi - dal Csm. E dunque la domanda è legittima: perché mai un membro del Csm decide di incontrare il legale difensore di Palamara alla vigilia “dell’interrogatorio” del suo assistito? E qui ognuno può trovare la risposta che più lo soddisfa anche perché difficilmente sapremo con certezza di cosa abbiano parlato i due. E allora passiamo a porci la seconda interessantissima domanda: chi ha ordinato il pedinamento dell’avvocato di Palamara e Lanzi? E a quale scopo è stato deciso? E chi ha passato l’informazione a Repubblica? E infine: è normale che un membro del Csm, organo di rilevanza Costituzionale sacro quasi quanto il nostro Parlamento, subisca questo genere di pedinamenti? E qui occorre fare un passo indietro e tracciare un breve profilo del professor Alessio Lanzi. Avvocato e giurista di altissimo livello, Lanzi era il nome più accreditato per diventare vicepresidente del Csm. Poi è intervenuto qualcuno o qualcosa che ne ha frenato la corsa e quando venne proposto il nome di Ermini - questo lo scrive Palamara nel suo libro - i “poteri forti” della magistratura (vedete come siamo complottisti?) reagirono stupiti: “Ermini chi?”. Ma alla fine “l’anonimo Ermini” vinse sul profilo decisamente troppo garantista dell’avvocato Lanzi. Il quale, però, ha portato la sua formazione, la sua sensibilità di giurista e le sue battaglie a palazzo dei Marescialli. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati e così via. Lanzi finì poi nel mirino delle toghe milanesi e del Fatto di Travaglio quando osò criticare le perquisizioni mediatiche ordinate dalla procura di Milano nelle Rsa Lombarde. Una lesa maestà intollerabile che spinse Giuseppe Cascini, capo delegazione di Area a Palazzo dei Marescialli, a tuonare indignato: “Il compito del Csm è quello di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura; i componenti del Csm non dovrebbero mai esprimere giudizi sul merito di una iniziativa giudiziaria in corso e certamente mai dovrebbero farlo con quei toni e quelle espressioni, che delegittimano il ruolo dell’autorità giudiziaria e dell’ufficio procedente”. Poi la “minaccia”: se Lanzi non smentisce le “dichiarazioni chiederemo l’apertura di una pratica a tutela dell’autorità giudiziaria di Milano”. Insomma, a questo punto del racconto complottista dovrebbe essere chiaro a tutti che Lanzi è stato scelto come bersaglio per delegittimare e zittire una delle poche voci di dissenso e non arruolate nel variegato esercito guidato dalle procure di cui Palamara parla nel suo libro. Ma ripetiamo, questo è solo becero complottismo. La realtà è senza dubbio più semplice: qualcuno passando casualmente dalle parti dello studio romano di Lanzi deve aver riconosciuto il legale di Palamara decidendo di avvisare Repubblica. La quale ha deciso di darne conto non perché sia un giornale arruolato ma per puro amore della verità giornalistica. In ogni caso è facile prevedere che il risultato del complotto sarà esattamente opposto: chi intendeva delegittimare Lanzi ben presto si renderà conto che avrà contribuito a gettare una nuova manciata di fango contro la magistratura italiana. Si chiama eterogenesi dei fini. Csm, pressing su Lanzi perché lasci la prima commissione di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 27 marzo 2021 Sarà il comitato di presidenza a decidere sul destino del laico di Forza Italia. È stato il Pg Salvi, che abita nel palazzo dove ha lo studio l’avvocato Rampioni, a scoprire casualmente l’incontro. In cui non c’era Palamara. Un ampio fronte di consiglieri togati e laici vuole lo spostamento. Cresce, al Csm, il caso Lanzi. Perché un ampio fronte - Area, Unicost, Autonomia e indipendenza, ma anche molti laici - chiede adesso che l’avvocato milanese lasci subito la Prima commissione, che decide quali magistrati devono essere trasferiti per incompatibilità ambientale. No, a questa ipotesi, dall’ex pm Di Matteo. Il comitato di presidenza - composto dal vice presidente David Ermini, dal primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, dal procuratore generale Giovanni Salvi - si sarebbe riunito già oggi se non fosse stato assente, per suoi impegni, Curzio. Il vertice del Csm avrebbe dovuto affrontare il comportamento di Alessio Lanzi, il laico indicato da Forza Italia che mercoledì, un’ora dopo la convocazione di Luca Palamara in prima commissione, si è recato nello studio di Roberto Rampioni, nel quartiere Prati. Non era presente Palamara, sotto inchiesta a Perugia, ex, nell’ordine, dell’Anm, del Csm, della procura di Roma dov’è stato pm e dove correva per procuratore aggiunto. Ma quell’incontro tra l’interrogante e il difensore dell’interrogato, tra il componente del Csm e l’avvocato del protagonista del “Sistema” delle correnti, alla vigilia della prima e probabilmente unica audizione di Palamara al Consiglio per entrare nel merito delle sue chat, è apparso subito del tutto inopportuno. Un clamoroso passo falso. Una sgrammaticatura istituzionale scoperta per caso, ma che ha turbato fortemente un Consiglio che porta tuttora le ferite dello stesso caso Palamara e degli incontri impropri tra componenti del Csm e figure estranee, come quelle dei politici Luca Lotti (renziano rimasto nel Pd e a processo per il caso Consip) e Cosimo Maria Ferri (magistrato fuori ruolo, ex sottosegretario alla Giustizia con tre governi, deputato prima Pd e poi di Renzi). Un incontro peraltro ricostruito per una pura coincidenza, perché in quel palazzo dove Rampioni ha lo studio, vive invece il Pg Giovanni Salvi. Un suo parente che era andato da lui gli ha chiesto se per caso avesse visite, avendo incrociato Lanzi. E così l’incontro è venuto alla luce. La notizia, al Csm, ha creato sin da subito - era mercoledì pomeriggio - sconcerto e preoccupazione. Ma non ha influito sulla seduta della commissione di giovedì, che si è tenuta ugualmente e nella quale Lanzi (per effetto del turbamento provocato tra i colleghi membri) si è astenuto dal porre domande. Furibonda invece la reazione di Rampioni che, in agenzia, parla di “un incontro alla luce del sole, tra professori amici per ragioni accademiche ed editoriali”. Incontro che lo stesso Lanzi, durante la commissione, ha minimizzato. Ma il giorno dopo, gli umori al Consiglio sono pessimi nei suoi confronti. La sinistra di Area, Unicost, una parte di Autonomia e indipendenza, molti consiglieri laici, sono convinti che - almeno - Lanzi debba lasciare il suo posto in prima commissione, avendo tenuto un comportamento improprio per un membro del Csm, soprattutto nei confronti dei suoi colleghi. Perché comunque, a poche ore dall’audizione dell’ex leader Anm, oggi imputato a Perugia, è quantomeno ipotizzabile il sospetto che tra Rampioni e Lanzi si sia affrontato l’argomento Palamara, tra temi e domande giuste da fare. Per questo il caso finisce all’attenzione dell’Ufficio di presidenza del Csm. Che dovrà decidere la linea da seguire. Anche senza fretta, tenendo conto che la prossima settimana, a Palazzo dei Marescialli, è “bianca”: cioè non vi sono lavori, tranne quelli della commissione disciplinare. Dove, proprio da lunedì, vengono giudicati i cinque consiglieri, poi dimessisi, che erano all’hotel Champagne, la sera dell’8 maggio, con Palamara, Lotti e Ferri. Una coincidenza negativa per Lanzi, perché chi oggi lo critica e ne chiede la testa, ragiona sul fatto che questo Csm, proprio per il suo coinvolgimento nel caso Palamara, dovrebbe avere un surplus di attenzione e di cautela nei contatti con l’esterno. Saranno Ermini, Curzio e lo stesso Salvi in prima battuta a dover verificare se il comportamento dell’avvocato in quota Fi deve essere censurato, e quindi stabilire in che modo farlo, e in quale misura. Nell’immediatezza del fatto c’è chi ha parlato anche di sue dimissioni dal Csm. Alcuni ritengono sia necessario discuterne. E già l’idea che il caso Lanzi finisca in plenum, di fronte al medesimo consigliere laico, sarebbe davvero imbarazzante. “Ho ucciso un carabiniere, sua moglie mi ha adottato”: Matteo e la sua “storia possibile” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 27 marzo 2021 Matteo Gorelli, 29 anni, oggi è un educatore per ragazzi difficili nella comunità Kayròs. Sua mamma e la vedova del militare hanno stretto un patto per salvarlo: “Doveva vedere e ascoltare le vittime”. Arriva puntualissimo di primo mattino in comunità, entra dritto nella “casa arancione” dove ci sono gli adolescenti che gli sono stati affidati. Di solito li sveglia con una battuta e quel suo accento toscano che fa subito simpatia. Sono ragazzi tosti, arrivano dal penale. Molti sono stati messi alla prova dal Tribunale per i minorenni: refrattari alle regole, poco rispetto dell’autorità, bassa autostima. Devono trovare un talento su cui fare leva per riscattarsi e lui, Matteo Gorelli, 29 anni, li sa prendere. È diventato educatore da poco ma ha una empatia particolare. Nel cortile della comunità Kayròs guidata da don Claudio Burgio, mentre prepara le colazioni, sorride: “Ero come loro, li capisco proprio tanto”. Il suo straordinario percorso inizia tanto tempo fa. Riavvolge il nastro, e non senza fatica ricorda.È la notte del 25 aprile del 2011. A un rave party due carabinieri vicino a Grosseto fermano un’auto con quattro adolescenti. Lui, diventato da poco maggiorenne, era il più grande. Il test alle sostanze che risulta positivo, il ritiro della patente, la rabbia feroce che si scatena contro i due appuntati. Uno aggredito a sprangate e calci perde un occhio, l’altro entra in coma farmacologico. Si chiama Antonio, e muore un anno dopo. Matteo ricorda con esattezza la data: “L’11 maggio 2012, il giorno più brutto della mia vita. Ho pensato che il gesto che avevo compiuto, per quando potessi sforzarmi di rimediare, conteneva l’irreparabile”. Dal carcere Matteo viene trasferito alla comunità Exodus di don Mazzi e lì arriva la sentenza che lo condanna all’ergastolo: “Avevo negato la vita a un’altra persona, loro la negavano a me. Mi pareva ormai tutto deciso, finito”. Il suo cammino doveva ancora iniziare, invece. Da quel momento ha scontato la sua pena (poi ridotta a 20 anni) senza mai passi falsi. Anzi. Al carcere di Bollate - dove da poco è arrivato il nuovo direttore Giorgio Leggieri - ha preso la laurea in Pedagogia alla Bicocca, 110 e lode. Gode dei permessi di lavoro con cui ogni giorno va da Kayròs, a esercitarsi come educatore. Si è iscritto per una seconda laurea in Economia. E insieme a tre ragazzi (Chiara, Yassa e l’ultimo si chiama proprio Antonio) ha appena vinto un bando della Scuola dei quartieri del Comune: il loro progetto - Attitude Recordz - prevede un nuovo centro giovanile che previene la devianza e dove si insegnerà la musica, la scrittura, il video-making, la poesia. “Stiamo cercando una sede e una sala di registrazione che ci ospiti”, si entusiasma Matteo. Se questo ragazzo è cambiato lo si deve senz’altro alla sua forza di volontà ma anche alle due donne che si sono strette intorno a lui e non lo hanno mollato mai: Irene, sua mamma, e Claudia, vedova del carabiniere ucciso. Il loro è un sodalizio nato sull’orlo dell’abisso che si è spalancato quella notte ed è cresciuto negli anni in un vero e proprio percorso di giustizia riparativa. All’inizio Irene si è avvicinata a Claudia soprattutto per aiutare suo figlio: “Ero gli occhi e le orecchie di Matteo, mio figlio doveva vedere e ascoltare le vittime, per potersi pentire fino in fondo. Lui era recluso in carcere, così andavo io da loro”, racconta. E Claudia: “Forse non è un caso che quella notte abbia incontrato proprio il mio Antonio. Credeva con tutto se stesso nel recupero degli adolescenti, per questo faceva il carabiniere. Pensando a come questo ragazzo è diventato oggi, un senso a tutto questo ora lo trovo”. Matteo è un tipo schivo, sobrio, di pochi fronzoli. Vorrebbe che questo articolo fosse intitolato semplicemente: “Una storia possibile”. Sta prendendo coscienza del suo valore, cresciuto tra mille sbagli. Alla comunità Kayròs il responsabile don Claudio lo ringrazia: “Riesce a instaurare un legame anche con i ragazzi più refrattari all’autorità; magari ammorbidisce le regole, ma crea con loro un sistema di norme che a quel punto sono condivise e a quel punto nessuno tradisce il rapporto di fiducia”. Il suo nuovo progetto è il centro giovanile. Proprio ieri ha costituito la cooperativa e l’ha chiamata Atacama: “È il deserto più arido del mondo e più vicino al cielo, in Cile. Lì dove la vita pare non possa esserci nascono rose che durano un giorno, ma forti e bellissime”. “Presa diretta” va in replica e fa il processo-bis in Tv di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 27 marzo 2021 Ma Iacona ha mai parlato con un innocente finito in galera? La trasmissione Rai ripropone l’inchiesta di Gratteri Rinascita-Scott a processo ancora aperto. Nessuno in Rai si è accorto della gravità? La Rai ha rimandato in onda nel pomeriggio di sabato scorso la trasmissione “Presa diretta” che già il lunedì precedente aveva puntato i riflettori sull’inchiesta “Rinascita Scott”. È l’ultima manifestazione di arroganza di un potere mediatico giudiziario che (ignorando le perplessità sollevate da Il Dubbio prima di ogni altro e poi da altri) ha dimostrato di disporre di una straordinaria potenza di fuoco utilizzando uno schema di attacco efficace ma vecchio come il cucco: chi critica la trasmissione è contro il giornalismo d’inchiesta, chiunque muova rilievi ai Pm impegnati in Rinascita Scott, se mafioso non è poco ci manca. Il rischio è cadere nella trappola ed accettare un tale schema di gioco. Alle provocazioni bisogna rispondere con la forza dei fatti. Per esempio: è vero o non è vero che nella precedente puntata di “Presa diretta”, dedicata all’inchiesta “New Bridge”, sono stati presentati come delinquenti persone che sono stati assolti da ogni accusa e come ‘ndranghetisti alcuni indagati che i giudici - ribadiamo i giudici - hanno stabilito che tali non sono? Come è potuto succedere? C’è una sola spiegazione, “Presa diretta” ha utilizzato come unico punto di osservazione dei fatti la procura della Repubblica. Lo aveva fatto in “New Bridge”, l’ha riproposto in “Rinascita Scott”. Se il grande giornalismo d’inchiesta avesse utilizzato la stessa postazione, Peppino Impastato sarebbe ricordato come un folle estremista intento a mettere bombe sui binari, la storia di Giuliano sarebbe stata quella d’un bandito ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri e l’anarchico Pinelli sarebbe passato alla storia come un complice degli autori (?) della strage di Piazza Fontana. Infine un giornalismo d’inchiesta qualche domanda sul perché la Calabria sia in assoluto la prima regione d’Italia (e Catanzaro la prima città) per fondi destinati alle vittime di ingiusta detenzione l’avrebbe pur posta. Invece niente di tutto questo. Ed il perché lo spiega il procuratore capo di Catanzaro: “siamo in guerra” e quindi “Presa diretta” si comporta come un bollettino dal fronte di battaglia. Le telecamere fanno vedere cadaveri di morti ammazzati, testimonianze di persone intimidite dai mafiosi o il volto sofferente delle vittime di usura. Tutte cose vere e tutte cose da far vedere. Anzi i crimini sono molti di più e molto più gravi di quanto Presa diretta non abbia detto o fatto intendere. Aggiungiamo che molto spesso i responsabili dei crimini più efferati non vengono individuati e lo “Stato” (ed i corrispondenti dal “fronte”) farebbero bene a domandarsi il perché. Quello che è comunque certo è che non si onorano le vittime di mafia aggiungendo ad esse le vittime della “giustizia”. Non avranno conforto le madri, i bambini, le mogli delle vittime di mafia se altre madri o altri bambini piangeranno senza colpa per i loro cari buttati nelle carceri da innocenti. Non ha bambini Gian Luca Callipo, ex sindaco di Pizzo, arrestato in Rinascita Scott e che, secondo la Cassazione, non andava arrestato? Non ha figli l’ex sindaco di Marina di Gioiosa tenuto 5 anni in carcere e riconosciuto innocente? Un sano giornalismo di inchiesta darebbe certamente spazio (e tanto) alle vittime di mafia ma anche (almeno altrettanto) a coloro che sono stati stritolati dalla giustizia sommaria. E sono tanti. Ma anche se fosse stata una sola persona ad avere la vita spezzata dalla “giustizia” che ha bisogno di grandi numeri per avere spazio sui media, non è accettabile, e non è umano, che ciò venga accettato senza batter ciglia. Non è compatibile con la direttiva UE del 2016 che vuole sia garantita nei fatti la presunzione di innocenza. Ed è inquietante che il dottor Gratteri, ancora oggi, su “Famiglia Cristiana” tracci un collegamento tra garantismo e collusione con la ndrangheta. Comprenda il dottor Gratteri: non ci sentiamo secondi a nessuno nella lotta contro la mafia ma senza mai prescindere dalla verità. E dire la verità non significa attaccare questo o quel magistrato (tutt’altro) ma solo impegnarsi affinché la Calabria resti in Europa e sia una Regione italiana tutelata dalla Costituzione e non una terra “all’ovest del Pecos” in cui vige la “Legge dei sette capestri”. Il reportage sulla ‘ndrangheta in Lombardia (pagato 400 mila euro) era un falso di Federico Berni Corriere della Sera, 27 marzo 2021 Tra le persone coinvolte il giornalista spagnolo David Beriain. A novembre 2019 era andato in onda il servizio, con le immagini di una presunta raffineria della coca: ma un carabiniere ha riconosciuto il palazzo. L’intervista fatta a tu per tu con un boss latitante della ‘ndrangheta in un casolare isolato nei boschi tra Como e Varese. Incontro preceduto, seguendo il copione del reportage “sofferto” e “dentro la notizia”, da una lunga contrattazione fatta di attese, contatti, e appuntamenti fissati ma andati poi a vuoto. Nello stesso servizio appare anche un sicario - fisico atletico, cappello con visiera e scaldacollo alzato a nascondere il viso - che parla senza troppe remore di come trascorre la vita di chi uccide e punisce per conto di una delle organizzazioni criminali più potenti al mondo. E non finisce qui: la troupe che ha girato le immagini del servizio osserva anche i viaggi dei corrieri della droga da Nord verso Milano, riprendendoli in compagnia di un malavitoso che li segue a distanza in macchina per sorvegliare le loro mosse. Ma è nel momento in cui la telecamera che filma il documentario indugia su un palazzo, spacciato come un “centro di raffinazione della droga” destinata al mercato milanese, che un carabiniere della stazione Porta Monforte, uno dei tanti telespettatori della puntata di “Clandestino” trasmessa a novembre 2019 sul canale “Nove”, si accorge che c’è qualcosa che non torna. Il militare è uno che il territorio lo conosce sul serio, lo frequenta registrando nella propria mente realtà e problemi e sa che quella che viene spacciata come una raffineria di coca, in realtà, è un’anonima palazzina in zona Barona, estranea ai radar degli investigatori antimafia (quelli veri). Da quel passaggio in televisione è nata l’indagine che ha portato nei giorni scorsi il sostituto procuratore della Repubblica Alessandra Cerreti a notificare l’atto di conclusione delle indagini, con contestuale avviso di garanzia, nei confronti di quattro persone accusate di truffa in concorso, tra le quali figura anche il giornalista spagnolo David Berian Amaitrain, 43 anni, il volto della serie televisiva incentrata sulle realtà criminali più pericolose del pianeta: dai cartelli messicani ai trafficanti di droga albanesi. Storie appassionanti e terribili di gangster e narcos servite il sabato sera a un pubblico interessato e convinto di assistere a clamorose immagini e rivelazioni. Voci artefatte, visi coperti, numerose riprese marcatamente nascoste e di fortuna, come si conviene per un reportage dai contenuti difficili e pericolosi. Ma per i magistrati e i carabinieri la puntata di novembre sulla mala calabrese in Lombardia, che aveva lo scopo di mostrare il radicamento del malaffare a Milano e l’egemonia delle cosche nel mercato delle sostanze stupefacenti, era un falso. Secondo la procura, infatti, quelli che venivano presentati come veri affiliati alla ‘ndrangheta (che peraltro è nota per la sua assoluta impenetrabilità) non erano altro che attori e comparse, ingaggiati per una messinscena. Dopo le indagini assieme al reporter iberico sono indagati altri due stranieri (Rosaura Romero Trejo, venezuelana 43enne, Franck Belhieu Nahmias, 33 anni, spagnolo) responsabili della società “93 Metros”, e l’italiano Giuseppe Iannini, brindisino domiciliato in provincia di Caserta, ex appartenente alle forze dell’ordine con un passato (secondo quanto riferito) di reati di corruzione, favoreggiamento, accesso abusivo a sistema informatico, rivelazione di segreto d’ufficio. La “93 metros”, stando alla ricostruzione portata a termine dagli inquirenti, ha violato il contratto con Discovery Corporate Services, società londinese del gruppo Discovery Italia (che in questa vicenda è parte offesa), dove era stato stabilito “espressamente” che i fatti oggetto del contratto dovessero essere “veritieri”. Invece gli organizzatori della truffa avrebbero venduto un documentario artefatto per la somma di 425mila euro. Iannini, secondo i reati ipotizzati dai pm, avrebbe fatto da trait d’union fra produzione e comparse, mettendo in contatti Berian, e gli altri componenti della società spagnola, con “gli attori ingaggiati allo scopo di realizzare il reportage” e avrebbe contribuito, “assieme ai componenti della 93 Metros”, alla “realizzazione” della puntata finita sotto inchiesta. Nelle condotte contestate dai magistrati al giornalista David Berian, tra le altre, emerge quella di aver falsamente dichiarato di “ricorrere a personale qualificato” e con precedenti esperienze relative alla “realizzazione di programmi televisivi in ambienti ostili e a contatto con sospetti criminali”. Ministra Cartabia, aiuto: impediscono alla difesa di ascoltare un pentito di Angela Stella Il Riformista, 27 marzo 2021 La denuncia dell’avvocato Capano: “Il magistrato di sorveglianza mi ha autorizzato a sentire Brusca a settembre, ma la Dna si mette di traverso”. Non è accettabile che le dichiarazioni dei pentiti siano utilizzate solo quando sono funzionali alle tesi accusatorie, mentre siano ostacolate quando potrebbero servire per esigenze difensive”: a parlare è l’avvocato Michele Capano, membro del Consiglio Generale del Partito Radicale, e difensore di Stefano Genco, condannato in via definitiva nel 2000 per concorso esterno in associazione mafiosa a 4 anni di reclusione. L’avvocato Capano, nell’ambito dell’attività propedeutica al deposito di un’istanza di revisione della condanna4117 settembre 2020 ha chiesto di escutere il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, detenuto al momento nel carcere romano di Rebibbia. Il 28 settembre il magistrato di sorveglianza di Roma autorizzava il legale a sentire Brusca, per poi precisare che la modalità per lo svolgimento del colloquio con Brusca sarebbe dovuta avvenire in video collegamento, secondo le indicazioni dettate dal Servizio Centrale di Protezione, che fa capo al Ministero dell’Interno. “Da quel momento, nonostante il sollecito dello stesso Magistrato di sorveglianza al Servizio Centrale di Protezione e al carcere di Rebibbia, non ci è stato consentito di effettuare l’investigazione difensiva. A sei mesi di distanza dall’autorizzazione - prosegue Capano - dobbiamo prendere atto della condotta eversiva di importanti articolazioni dello Stato, che si ostinano a ignorare il disposto di un provvedimento giurisdizionale, come un qualunque latitante. Ben due Ministeri - Giustizia per il carcere e Interni per il Servizio Centrale - si fanno beffe della decisione di un Magistrato di Sorveglianza, alla faccia della divisione dei poteri. Mi chiedo, sempre alla faccia della divisione dei poteri, da chi queste articolazioni del potere esecutivo prendano effettivamente ordini. Mentre la Direzione Nazionale Antimafia interviene “a monte” della procedura, rilasciando un parere che viene richiesto dal magistrato prima di autorizzare, tali articolazioni del potere esecutivo, “a valle”, aspettano il definitivo benestare della stessa Direzione Nazionale Antimafia, al di fuori di ogni norma. Mi chiedo, ed ho chiesto nei giorni scorsi al Ministro della Giustizia Marta Cartabia ed al Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese inviando loro una nota, se viviamo in un Paese nel quale le Istituzioni siano libere di non rispettare provvedimenti giudiziari o se sia possibile pretendere la concreta vita dello Stato di Diritto”. Tale condotta, secondo Capano, lede il diritto di difesa del suo assistito: l’istanza di revisione serve infatti a sottoporre al vaglio di alcuni magistrati acquisizioni utili ad evidenziare un possibile errore commesso ai danni del Genco dai giudici dell’epoca, avvalendosi anche del contributo di verità che potrebbe fornire Giovanni Brusca. “Brusca, a quanto pare, invece è “Cosa Loro”: neanche a venticinque anni di distanza dall’ inizio della sua collaborazione, quando hanno avuto ogni agio nel chiedere ed ottenere dal collaboratore tutte le informazioni di cui avevano bisogno, si consente ad un difensore di valersi di quella fonte di prova per un contributo di verità. un’esperienza, l’ennesima, che induce a riflettere sul reale “stato” della possibilità del difensore di fiducia di svolgere attività investigativa a beneficio del proprio cliente, secondo la disciplina che la legge 397 del 2000 interi nel corpo del nuovo codice del 1988”. Alla prova dei fatti, una volta di più, “si rivela l’ipocrisia di apparenti “poteri difensivi” che necessiterebbero - per rendersi concreti - della collaborazione di quelle stesse Procure che hanno interesse contrario alle investigazioni stesse è un sistema che non funziona. Ci vuole un’Autority per queste investigazioni: un soggetto terzo che garantisca la difesa in evenienza di questo genere: lo dico e propongo all’Unione delle Camere Penali. Proprio nel corso del lavoro per quest’istanza di revisione, mi sono imbattuto in una chiusura assoluta (priva di tutela giurisdizionale rispetto ai dinieghi) a richieste documentali da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, cioè di quella Procura i cui errori secondo la prospettazione difensiva - noi vorremmo sottolineare attraverso la revisione”. In conclusione, ci dice Capano: “Voglio pensare che contributi utili all’accertamento della verità abbiano un valore anche quando propiziati da esigenze difensive tese a pronunce assolutorie, oltre che quando necessitati da ragioni accusatorie tese all’individuazione di reati. Questo vorrebbero il codice di procedura penale ed il Magistrato di Sorveglianza di Roma che ci ha coraggiosamente autorizzato, questo non vogliono “altrove”. Mi auguro che l’alto intervento delle Ministre cui mi sono rivolto possa risolvere questa situazione incancrenita. Va concessa la protezione internazionale allo straniero altamente integrato in Italia di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2021 Secondo quanto precisato dalla Cassazione con ordinanza n. 8606/21 nel Paese di provenienza (Pakistan) c’era una situazione socio-politica difficile. Un elevato grado d’integrazione nel tessuto sociale italiano nonché la pericolosità nel paese d’origine, garantiscono allo straniero il riconoscimento della protezione internazionale. Lo chiarisce la Cassazione con l’ordinanza n. 8606/21. Venendo ai fatti uno straniero ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro che ha respinto il gravame in tema di protezione internazionale. Tra i motivi di ricorso la violazione dell’articolo 132 cpc per omessa valutazione dei documenti prodotti a proposito dell’integrazione socio-lavorativa. Con altro motivo d’appello lo straniero denunciava la violazione o falsa applicazione dell’articolo 5 del testo unico sull’immigrazione e dell’articolo 32 del Dlgs 25/2008 essendosi proceduto al diniego della protezione umanitaria senza svolgimento di un adeguato giudizio comparativo. La Corte di cassazione ha ritenuto i motivi manifestamente fondati in relazione alla domanda di protezione umanitaria. I Supremi giudici, infatti, hanno dato grande importanza all’integrazione raggiunta dal richiedente a fronte del non adeguato vaglio (dai giudici di merito) in termini comparativi di tale integrazione rispetto alla situazione esistente nel paese d’origine (Pakistan). La Corte d’appello dopo aver descritto la situazione di instabilità del Pakistan e dopo aver dato atto di giudicare in base alla norma del testo unico sugli immigrati, aveva respinto (immotivamente) il gravame osservando che nessuna allegazione era stata fornita in termini di specifica vulnerabilità e che comunque per lacunosità e incongruenza delle dichiarazioni e per la mancanza di altri elementi di riscontro, non erano emersi “fatti e accadimenti” sulla cui base ragionevolmente ritenere la sussistenza di una condizione soggettiva tale da determinare il riconoscimento dell’invocata misura. L’affermazione - a detta della Cassazione - risulta essere del tutto impersonale e generica e non soddisfa l’onere motivazionale. Dal ricorso risulta, infatti, che l’appellante avesse giustificato la domanda sostenendo di essersi impegnato fattivamente per integrarsi avendo frequentato corsi di lingua e trovato una certa stabilità lavorativa e abitativa, con alloggio dignitoso e aveva finanche aperto un conto presso le Poste italiane. La Cassazione, quindi, ha accolto il ricorso proposto dallo straniero alla stregua del principio secondo cui ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, in raffronto alla situazione d’integrazione nel Paese di accoglienza. Mae, competente il ministro non il giudice sui rimedi della sospensione dell’estradizione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2021 Procedimenti pendenti o condanne definitive non impediscono la consegna ma giustificano rinvio, consegna temporanea o esecuzione nello Stato richiedente. In materia di estradizione la Cassazione, con la sentenza n. 11649/2021, ha chiarito che non è competenza della Corte di appello, bensì del ministro della Giustizia, la scelta di consegnare o meno allo Stato richiedente chi sia sottoposto a processo o stia scontando una pena in Italia. La Cassazione ha respinto il ricorso di un cittadino straniero colpito da mandato di arresto europeo, per un reato in materia di stupefacenti, che si opponeva alla propria estradizione verso la richiedente Confederazione svizzera. Sosteneva il ricorrente che, essendo stato ammesso a una misura alternativa per scontare una condanna passata in giudicato in Italia, la Corte di appello non poteva legittimamente affermare l’esistenza dei presupposti per l’estradizione, ma avrebbe dovuto prendere atto della sospensione della consegna, a norma dell’articolo 709 del Codice di procedura penale. La norma di procedura in effetti, nel caso di condanna da eseguire in Italia, affida espressamente al ministro della Giustizia la possibilità di optare per un rinvio temporale o per una consegna in via temporanea dell’estradato o anche di disporre che questo sia sottoposto all’esecuzione della pena nello stesso Stato estero richiedente. Il Ministro decide sentito il giudice procedente o quello dell’esecuzione. Restrizioni anti Covid, autocertifica il falso e il Gup lo assolve: “Non è reato” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 27 marzo 2021 Dichiarare il falso nell’autocertificazione prevista dalle restrizioni anti Covid non è reato. L’ultimo colpo inferto alla normativa emergenziale arriva dal tribunale Milano: il Gup Alessandra Del Corvo, accogliendo la richiesta della Procura milanese, ha assolto un ragazzo di 24 anni finito a processo per aver mentito agli agenti durante un controllo. “Il fatto non sussiste”, motiva il giudice, perché non esiste “alcun obbligo giuridico, per il privato che si trovi sottoposto a controllo nelle circostanze indicate, di “dire la verità” sui fatti oggetto dell’autodichiarazione sottoscritta, proprio perché non è rinvenibile nel sistema una norma giuridica” di questo tipo. Un simile obbligo, aggiunge il gup, risulterebbe infatti incostituzionale perché si porrebbe in contrasto con il diritto di difesa del singolo, sancito all’articolo 24 della Carta, e con il diritto a non autoincriminarsi. È legittimo, insomma, mentire in propria difesa se si vuole evitare di incorrere in sanzioni penali o amministrative. I fatti risalgono allo scorso marzo: il ragazzo, fermato alla stazione di Cadorna in pieno lockdown, dichiara agli agenti di essere di ritorno a casa dal negozio in cui lavora come commesso. Una versione poi smentita dal titolare dell’esercizio commerciale, a cui le forze dell’ordine si erano rivolte per una verifica. Il problema evidenziato dal giudice, in questo caso, si pone in relazione all’articolo 483 del codice penale, che punisce con la reclusione fino a due anni le dichiarazioni false rese dal privato al pubblico ufficiale in un atto pubblico. “In tutti i casi nei quali l’autodichiarazione infedele è resa dal privato in un controllo casuale sul rispetto della normativa Covid - spiega il gup appare difficile stabilire quale sia l’atto del pubblico ufficiale nel quale la dichiarazione infedele sia destinata a confluire con tutte le necessarie e previste conseguenze di legge”. Poiché “non è rinvenibile nel sistema una norma che ricolleghi specifici effetti a uno specifico atto- documento nel quale la dichiarazione falsa del privato sia in ipotesi inserita dal pubblico ufficiale”, aggiunge il giudice. La cui decisione segue di qualche giorno alla clamorosa sentenza del Tribunale di Reggio Emilia che di fatto “incenerisce” i Dpcm varati in piena emergenza Covid nella parte in cui questi prevedono il divieto di circolare. Un divieto illegittimo, secondo il giudice Dario De Luca, chiamato a pronunciarsi sul caso di una coppia che aveva giustificato il proprio spostamento con una motivazione falsa. Un atto amministrativo, quale è il Dpcm - argomenta De Luca - non può limitare la libertà personale di movimento poiché la Costituzione pone sul punto una doppia riserva, sia di giurisdizione che di legge. Il Dpcm, dunque, “non può imporre l’obbligo di permanenza domiciliare, neanche in presenza di un’emergenza sanitaria”, chiarisce il giudice, dal momento che “un decreto del presidente del Consiglio è un semplice atto “regolamentare”, privo della forza normativa per costringere qualcuno a restare in casa”. Sicilia. Carceri, riparte il servizio mensa: salvi 70 lavoratori palermotoday.it, 27 marzo 2021 Dopo sei mesi si chiude la vertenza. La Uiltucs Sicilia ha firmato l’accordo con la Fabbro Food, ditta che si è aggiudicata l’appalto subentrando nella gestione alla Cot ristorazione. Il segretario generale Marianna Flauto: “Conserveranno tutti i diritti maturati”. Salvi i 70 dipendenti in servizio nelle mense delle carceri siciliane. La Uiltucs Sicilia ha firmato l’accordo con la Fabbro Food, ditta che si è aggiudicata l’appalto subentrando nella gestione alla Cot ristorazione Dal primo aprile il servizio mensa ripartirà e tutto il personale transiterà presso il nuovo soggetto per proseguire l’attività rivolta al personale di polizia penitenziaria. “I dipendenti - spiega Marianna Flauto, segretario generale della Uiltucs Sicilia - conserveranno tutti i diritti maturati relativi ad esempio all’anzianità, alla qualifica, alla mansione e alla retribuzione. È una vertenza che finalmente dopo sei mesi trova soluzione”. Nei giorni scorsi i sindacati avevano protestato contro la sospensione del servizio mensa, avvenuto lo scorso 25 settembre e non ripreso nonostante l’avvenuta assegnazione del servizio alla nuova azienda. A rischio erano una settantina di lavoratori in tutta l’Isola di cui una ventina solo a Palermo. Il dipartimento di polizia penitenziaria era così intervenuto rassicurando sulla decorrenza del nuovo contratto. Con la firma dell’accordo tutto il personale manterrà il posto di lavoro e i diritti maturati. “Siamo stati vigili e - afferma Mimma Calabrò segretario generale Fisascat Cisl Sicilia - abbiamo tenuto i riflettori sempre puntati sulla vertenza affinché tutte le parti interessate si facessero carico di una problematica che si è protratta fino alla data odierna. Abbiamo apprezzato il sostegno - continua la sindacalista - ricevuto dagli agenti penitenziari che, in tutti questi mesi, hanno subito le conseguenze di tale mancato servizio. Tornare sul posto di lavoro - conclude Calabrò - significherà, per circa 70 lavoratori, riconquistare dignità lavorativa e tranquillità economica per le loro famiglie”. Napoli. “Care toghe, rispettate la Costituzione”, è scontro tra penalisti e magistrati di Valentina Stella Il Dubbio, 27 marzo 2021 È scontro durissimo tra penalisti e magistrati a Napoli: da un lato le Camere Penali del Distretto di Corte di Appello, dall’altro il Tribunale di Sorveglianza e la giunta dell’Anm. Il casus belli, come vi abbiamo raccontato due giorni fa, è rappresentato da un documento dei penalisti campani in cui denunciano gravissime e non più tollerabili criticità degli uffici di sorveglianza: “Inaccettabile” è per loro il tempo tra la presentazione delle richieste di accesso ai benefici e la loro registrazione, il tempo tra quest’ultima e la fissazione dell’udienza, l’elevato numero di rinvii delle udienze per carenza o assenza di istruttoria, la tempistica di invio delle impugnazioni alla Cassazione, di decisione sui permessi premio, di valutazione sulle istanze di liberazione anticipata, reclamo e riabilitazione. “Da troppi anni nel distretto di Napoli viene sistematicamente mortificato il diritto dei detenuti a espiare la pena secondo principi e modalità conformi al dettato costituzionale”, ci aveva detto Marco Campora, Presidente della Camera Penale di Napoli. E invero lo stesso Presidente della Corte di Appello di Napoli, Giuseppe de Carolis di Prossedi, all’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario aveva sottolineato le disfunzioni riguardanti gli uffici di sorveglianza: “Risulta significativamente aumentata del 21 per cento la pendenza dei procedimenti del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, passati da 28.039 a 33.983; così anche nell’ Ufficio di Sorveglianza di Napoli, anche qui è aumentata la pendenza, e nell’ufficio di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere. Mentre invece risulta ridotta la pendenza negli uffici di sorveglianza di Avellino, passando da 2.372 a 2.042. Nel complesso però gli uffici di sorveglianza sono in grande sofferenza. Siccome sono un ufficio molto delicato, questo sicuramente è un dato che ci fa riflettere”. Tuttavia la miccia che ha fatto scoppiare lo scontro è stata la richiesta che concludeva il documento dei penalisti: cari magistrati di sorveglianza o “ripristinate la legalità costituzionale della pena”, risolvendo tutte le criticità evidenziate, oppure “vi autosospendete dal servizio per impossibilità di rispettare le norme codicistiche e costituzionali”. Proposta irricevibile da parte della Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Angelica Di Giovanni, che ha richiesto l’apertura di una pratica a tutela al Csm, la cui attività istruttoria rimarrà non pubblica fino al suo esito nel plenum. A tale iniziativa, replica così la Camera Penale di Napoli: “Il senso del nostro documento era - ed è chiarissimo e non suscettibile di fraintendimenti: le condizioni in cui versa il Tribunale di Sorveglianza sono gravissime e producono la sistematica violazione dei principi costituzionali e dei diritti dei detenuti. Avevamo invitato i magistrati di sorveglianza a partecipare con noi ad una battaglia per il ripristino delle condizioni minime di legalità e giustizia. La risposta fornitaci è stata invece una chiusura corporativa netta, intrisa di riflessi pavloviani laddove si riesuma l’istituto vintage del “fascicolo a tutela”. Per i penalisti partenopei l’invocazione della “carenza di mezzi e risorse” è un “mero alibi deresponsabilizzante. Sarà forse impopolare dirlo ma la carenza di mezzi e di risorse impone a ciascuno di noi, a seconda dei propri ruoli e delle proprie responsabilità, di fare qualcosa di più”. Nel dibattito, come anticipato, è intervenuta anche la giunta dell’Anm di Napoli, il cui Presidente, Marcello De Chiara, dice al Dubbio: “La magistratura di sorveglianza napoletana è da sempre avanzato baluardo nella tutela dei diritti dei detenuti; mi pare che, con grande onestà, ciò sia stato riconosciuto dagli stessi avvocati, ma con la stessa onestà debbo dire che attribuire ai magistrati di sorveglianza la sistematica violazione delle norme costituzionali è un’accusa ingiusta ed in alcun modo aderente alla realtà dei fatti”. E prova a distendere i toni: “Auspico che con la Camera Penale di Napoli possano esservi al più presto occasioni di reale confronto. Le proposte di collaborazione non possono però essere veicolate attraverso comunicati stampa o accompagnate da richieste di autosospensione che rischiano di assumere il significato di una inutile, anche se involontaria, provocazione: bisogna invece al più presto incontrarsi, ragionare insieme, unire le nostre alte professionalità per individuare tutte le possibili soluzioni; in questa direzione va il mio auspicio ed intendo adoperarmi personalmente”. Modena. Rivolta nel carcere, i familiari: “No all’archiviazione dell’inchiesta sui morti” di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 27 marzo 2021 A chiederlo gli avvocati dei parenti di Hafedh Chouchane, dell’Ufficio nazionale del garante dei detenuti e dell’associazione Antigone che hanno presentato opposizione. Dopo le rivolte di marzo 2020 e l’assalto alle scorte di metadone e psicofarmaci furono otto i detenuti deceduti. “Strage del Sant’Anna di Modena, no all’archiviazione. Servono nuove indagini, occorrono approfondimenti su eventuali responsabilità e omissioni. Vanno ricostruite le catene di comando, del personale penitenziario e del personale medico interno ed esterno. Si deve precisare il ruolo della direttrice, sparita di scena”. Gli avvocati dei familiari di Hafedh Chouchane, dell’Ufficio nazionale del garante dei detenuti e dell’associazione Antigone (Luca Sebastiani, Gianpaolo Ronsisvalle e Simona Filippi) hanno presentato opposizione alla richiesta di archiviazione delle indagini sulla morte di otto detenuti del carcere emiliano, deceduti dopo le rivolte di marzo 2020 e l’assalto alle scorte di metadone e psicofarmaci. Le tre domande dei legali - Tre domande, su tutte, vengono rilanciate dai legali. Hafedh e gli altri potevano e dovevano essere salvati? I medici in campo avevano il tempo e il modo per farlo? L’emergenza è stata gestita in modo adeguato e applicando linee guida efficaci? Le risposte fin qui date dalla procura non convincono i rappresentanti delle persone offese. Le ragioni? Giustificano violazioni e inosservanze (ad esempio la non compilazione di nulla osta sanitari ai trasferimenti) con lo “stato di necessità” dovuto alla drammaticità della situazione. Lasciano inesplorati alcuni aspetti. Spingono a chiedere di non chiudere il caso e di disporre invece nuove indagini. Ricapitola l’avvocata Filippi, di Antigone: “È stato accertato che i nove detenuti, gli otto per cui procede la procura di Modena e Salvatore Piscitelli, sono deceduti per una overdose da metadone. Il rilascio non è istantaneo, la morte arriva dopo ore, vanno approfonditi aspetti e circostanze delle fasi immediatamente successive alla rivolta dell’8 marzo. A fronte di un numero importante di persone che erano in condizioni di salute critiche, e che con alta probabilità potevano andare incontro a conseguenze irrimediabili, è stato comunque deciso di provvedere al loro trasferimento in altri istituti o alla ricollocazione in reparto. Perché? Ed esattamente da chi? Ci hanno rimesso la vita in tanti, non si possono chiudere le indagini senza completare gli accertamenti su questo e altri fronti”. L’avvocato Sebastiani, riferendosi all’amministrazione penitenziaria e alla direzione, incalza: “Chi riveste una posizione di garanzia e di protezione nei confronti di altri soggetti ha l’obbligo di impedire l’evento e, se ciò non avviene, ne risponde a titolo di responsabilità omissiva, al pari che in posti di lavoro, ospedali o altre strutture pubbliche o private, dove ogni giorno i soggetti di riferimento devono rispondere per fatti accaduti all’interno. I detenuti sono affidati alla custodia e cura dello Stato. Assumendosi l’onere di privarli della libertà, lo Stato deve assicurare anche la loro tutela e la loro salute durante la detenzione. Stiamo parlando di una rivolta in carcere, che era prevedibile ed evitabile, diversamente da come è successo”. I misteri - Gli esempi portati, su singoli aspetti da scandagliare meglio, abbondano. Il mistero della chiave, tra i tanti. Fonti carcerarie e sindacali avevano raccontato che la cassaforte dell’infermeria, con dentro litri e litri di metadone e decine di confezioni di psicofarmaci, era stata forzata dai detenuti con una fresa prelevata nel magazzino degli attrezzi. Non è andata così. Ora viene fuori una diversa ricostruzione, basata sulle dichiarazioni sottoscritte dal coordinatore degli infermieri e avvalorata dalla procura, “senza accertamenti investigativi specifici”. L’armadio blindato, si dà per assodato nelle carte, è stato aperto con la chiave. La chiave era riposta in una non meglio precisata cassetta di sicurezza, collocata non è dato sapere dove. La cassetta di sicurezza è stata manomessa e il contenuto, chiave della cassaforte compresa, è sparito. La deduzione è che sia stata tutta opera dei rivoltosi. “Ma questo - osservano i legali - è uno degli aspetti trascurati dalle indagini e dati per scontati, anziché essere investigati meglio”. Il testimone creduto sulla parola, il coordinatore degli infermieri, non lavora più nel carcere di Modena. È passato ad una Ausl, rivela un collega. Non si conoscono le ragioni del trasferimento. Voci interne dicono che non se la sentisse più di lavorare in un carcere. Altro esempio, la disponibilità delle dosi già pronte. Le due infermiere di turno, quando è scoppiata la rivolta, stavano dividendo il metadone e i farmaci da distribuire a centinaia di detenuti in terapia, un migliaio di bustine in tutto. A verbale hanno ricostruito dettagliatamente i minuti di terrore vissuti quel pomeriggio. Temevano di essere ammazzate, rivelano di aver trovato rifugio sotto un letto. Garantiscono che la cassaforte era “perfettamente integra” (e non chiusa) nel momento in cui sono riuscite ad allontanarsi, passando dalla finestra rotta di una porta. Ma non parlano di alcuna chiave né di cassette di sicurezza. Non spiegano se e dove hanno nascosto le dosi di metadone e di medicinali già pronte, per sottrarle all’assalto dei ribelli. Le hanno lasciate in giro, a portata di mano? O hanno riaperto la cassaforte, posto che l’avessero serrata, per rimetterle all’interno? Ma la chiave, tornando al punto precedente, dove era? La procura, sempre prendendo per buone le testimonianze raccolte, scrive che le modalità di custodia dei farmaci (ma il riferimento arriva a proposito del metadone e degli oppiacei) sono risultate perfettamente conformi alle indicazioni contenute nelle Linee di indirizzo per la gestione clinica dei famaci negli istituti penitenziari della regione Emilia Romagna - documento tecnico regionale per la sicurezza nella terapia farmacologica n. 2, regione Emilia Romagna, aprile 2015, il cui par. 6.2 prevede espressamente che lo stoccaggio dei prodotti farmaceutici debba avvenire in locali opportunamente custoditi, eventualmente in armadi chiusi a chiave. La procedura applicata viene definita “irreprensibile e inappuntabile”, alla luce delle direttive. Peccato che la disposizione richiamata per “assolvere” il personale e il carcere non riguardi i “farmaci stupefacenti”, come è esplicitamente scritto a pagina 2 delle linee guida citate, quelle sbagliate. Le storie - Poi ci sono le singole storie. Hafedh Chouchane, che stava male o forse era già morto, dove è stato consegnato alla polizia penitenziaria dai compagni? Nella sintesi degli atti ci sono tre indicazioni diverse, che potrebbero riferirsi allo stesso luogo o a punti diversi. La procura non sembra porsi il problema della differente indicazione. Il comandante degli agenti nella nota informativa redatta l’11 marzo 2020 scrive: “In data 08.03.2020, alle ore 19.30 circa, alcuni detenuti non identificati trasportavano il nominato in oggetto fino al passo carraio interno della portineria centrale dell’istituto poiché non stava bene, lasciandolo in terra. Il personale di polizia penitenziaria appostato all’esterno del passo carraio ha immediatamente soccorso il detenuto, che veniva trasportato presso il presidio mobile del 118... i quali ne costatavano il decesso per arresto respiratorio”. Nel rapporto del 19.03.2020 lo stesso comandante annota che il corpo veniva lasciato “al piano terra delle scale riservate al personale della polizia penitenziaria (ingresso nr. 88) del plesso detentivo principale”. Uno dei detenuti soccorritori afferma di averlo portato “giù al piano terra, alla rotonda...”. È lo stesso posto citato dal comandante? E quale dei due? Lo scarto di 50 minuti. Un medico attesta che il decesso di Hafedh è avvenuto alle 20.20, cioè 50 minuti dopo che il detenuto è stato consegnato alla polizia penitenziaria (circa alle 19.30, come ha messo per iscritto il comandante). Possibile che sia passato tutto quel tempo? Quanto c’è voluto per portare Hafedh dal punto di consegna fino al tendone del 118, a poche decine di metri? Il medico lo ha preso subito in carico o lo ha messo in coda, dopo altri? E in quei tre quarti d’ora abbondanti che cosa ha fatto, oltre all’elettrocardiogramma risultato piatto? Parma. Focolaio Covid nel carcere, l’Ausl: positivi undici detenuti e 37 agenti La Repubblica, 27 marzo 2021 “Sono iniziate le vaccinazioni al personale di polizia penitenziaria, con oltre 260 somministrazioni già fatte”. “La settimana scorsa, con la positività al coronavirus riscontrata in due agenti del Gom, il corpo speciale dedicato alla sorveglianza della sezione 41bis degli istituti penitenziari di Parma, è subito scattato il protocollo per la gestione dell’emergenza covid-19 - spiega Romana Bacchi, sub-commissaria sanitaria dell’Azienda Usl di Parma -. Sono quindi state realizzate tutte le azioni mirate a ricercare casi di positività e mettere in quarantena o in isolamento i soggetti coinvolti per interrompere la catena del contagio. Tutto ciò - conclude la sub-commissaria - in stretto raccordo e in collaborazione con la direzione del carcere, da subito informata al pari di tutte le autorità competenti”. L’Ausl spiega quindi le azioni messe in campo per contenere il contagio e mettere in sicurezza agenti e detenuti. a seguito del focolaio di coronavirus che si è sviluppato nel carcere di Parma nei giorni scorsi. I detenuti della sezione del 41bis sono stati sottoposti a tampone antigenico rapido. In seguito, il tampone molecolare ha confermato la positività al coronavirus in 11 di loro. Queste persone sono quindi state trasferite all’ultimo piano del nuovo padiglione del carcere che è stato adibito a reparto covid, dove sono allestite 17 stanze singole con bagno e doccia. Sul fronte delle vaccinazioni, in linea con quanto disposto dal piano nazionale e regionale, è stata offerta la somministrazione delle dosi ai detenuti in base all’età (over 75) e alle condizioni di salute (elevata vulnerabilità). Sono stati formati infermieri dedicati alla vaccinazione e potenziato il personale sanitario dedicato all’attività in carcere. Gli agenti ad oggi risultati positivi al Covid-19, dopo gli accertamenti eseguiti, sono 37 (tra personale del Gom e della polizia penitenziaria). Per uno è stato necessario il ricovero in ospedale in altra provincia, mentre gli altri sono in hotel covid o al proprio domicilio. Sono iniziate le vaccinazioni al personale di polizia penitenziaria, con oltre 260 somministrazioni già fatte”. Torino. “Game over”, gli studenti dietro le sbarre di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 27 marzo 2021 “Felicità e solitudine, libertà e regole”: cosa significano per chi è libero e per chi è dietro le sbarre? Cento classi delle scuole superiori di Torino e della città metropolitana hanno partecipato (con quasi 2.500 i collegamenti) alla diretta streaming dal Teatro Agnelli di Torino nella mattinata del 22 marzo, ad un dialogo teatrale sui temi del rapporto tra individuo e società che toccano profondamente, non solo le nuove generazioni in questo momento di isolamento forzato dovuto alla pandemia, ma tutti noi, a maggior ragione chi sconta una pena in carcere, “Game over - Le regole del gioco” il titolo dello spettacolo realizzato con il sostegno della Compagnia di San Paolo, prodotto da Teatro e Società, in collaborazione con l’Associazione “Sulleregole” e il Fondo Alberto e Angelica Musy in concomitanza con il nono anniversario dell’omicidio di Alberto Musy, avvenuto a Torino il 21 marzo 2012. Alla piece, a cui hanno partecipato anche gli studenti dell’Istituto Grassi di Torino (nella foto sopra) che hanno seguito il laboratorio formativo sui temi dell’educazione civica, è intervenuta la vedova dell’avvocato Musy, Angelica, che in memoria del marito ha promosso un Fondo per sostienere in particolare le persone che nel periodo detentivo scelgono di iscriversi al Polo Universitario per studenti reclusi, offrendo loro borse lavoro per aiutarli a reinserirsi una volta “fuori” , riducendo la reiterazione dei reati. “È importante” ha sottolineato Angelica Musy durante lo spettacolo - condotto dagli attori-autori Elisabetta Baro e Franco Carapelle con interventi del rapper Alp King, Moni Ovadia e Neri Marcorè - “che tutti nella vita, anche chi sbaglia abbiano un’altra chance: per questo chi, come recita la nostra Costituzione, ha l’opportunità di scontare il tempo della pena con percorsi rieducativi non commetterà più crimini: nel nostro Paese la recidiva è al 68% perché in carcere non c’è l’opportunità di cambiare. Ecco il contributo che vuole offrire il nostro Fondo. E dopo tre anni di repliche dello spettacolo “Game over, per un nuovo inizio” con cui abbiamo raggiunto 4 mila giovani, vogliamo rinnovare il prezioso lavoro con cui abbiamo portato il carcere oltre le sbarre, parlando di seconde opportunità ai giovani studenti e per spazzare via i pregiudizi sul mondo penitenziario”. Tra gli intervenuti, don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera, richiamando alla realtà della galera, ha invitato i giovani a considerare la felicità “incompatibile e con l’egoismo e l’individualismo ma come ricerca della propria strada nella vita”. E poi il magistrato Gherardo Colombo, promotore dell’associazione “Sulleregole” che ha avvisato gli studenti che non c’è libertà “senza le regole necessarie per la convivenza civile” e quanto la scuola con l’insegnamento dell’educazione civica possa essere decisiva per la formazione delle nuove generazioni alla legalità. Conclude Franco Carapelle: “Dopo 28 anni di attività teatrale in carcere e 30 nelle scuole superiori credo sia fondamentale che gli studenti riflettano sui temi dell’isolamento e della solitudine a partire dalla condizione di chi ha perso la libertà perché ha infranto le regole, magari pensando di trovare una felicità effimera: una condizione che può riguardare tutti perché gli Istituti di pena, anche se spesso ai margini delle nostre città, ci riguardano, sono un pezzo della nostra società. E, nella misura in cui i detenuti si sentono ‘inclusi’ e non discriminati, hanno possibilità di tornare alla vera libertà nel rispett o di chi ci è accanto, strada verso la felicità”. Paliano (Fr). I detenuti di donano un cero pasquale artistico al Papa agensir.it, 27 marzo 2021 Don Grimaldi (cappellani), “grazie, Santità, per le sue parole ricche di tenerezza per il mondo penitenziario”. A Papa Francesco è stato consegnato il primo cero pasquale artistico realizzato dai detenuti del carcere di Paliano (Fr) guidati da un maestro d’arte. Lo scorso mercoledì, dopo l’udienza papale, Papa Francesco ha ricevuto nella Biblioteca privata del Palazzo apostolico l’ispettore dei cappellani delle carceri d’Italia, don Raffaele Grimaldi, accompagnato dalla direttrice del carcere, Anna Angeletti. Il cero pasquale è il primo di una serie di ceri prodotti dai reclusi di Paliano. Le altre opere artistiche, tuttora in fase di realizzazione, saranno consegnate nelle cappelle degli istituti penitenziari disseminati sul Paese. Le opere artistiche - ceri pasquali - completate saranno, così, “il segno di Misericordia”, si legge in una nota dell’Ispettorato, che “darà luce all’evento della Risurrezione di Cristo Risorto, per celebrare la gioia e la speranza di una rinascita comune, cioè il segno che darà calore e conforto a quanti sono nell’errore umano ed esistenziale”. Il cero, consegnato al Pontefice che lo ha benedetto, sarà posizionato nella cappella di Santa Marta, in Vaticano. “Il cero che umilmente le offriamo è stato realizzato dai detenuti del carcere di Paliano e rientra nel progetto pastorale ‘La luce della libertà’ che ha come obiettivo quello di donare a ogni cappella delle carceri italiane il cero pasquale dipinto dai ristretti del suddetto istituto penitenziario. Anche questa attività lavorativa vuole aiutare il mondo recluso a non sentirsi emarginato, marchiato e giudicato da una società che a volte condanna senza misericordia”, ha spiegato al Papa don Grimaldi, che, a nome di tutti cappellani delle carceri italiane, ha consegnato il cero pasquale. “Santità, un grazie di cuore a nome dei 250 cappellani e dei detenuti, per la sua sensibilità e attenzione verso coloro che soffrono dietro le sbarre. Le sue costanti parole, ricche di ‘tenerezza’, continuamente indirizzate al mondo penitenziario, spalancano le porte della speranza e consolano i molti cuori che soffrono nel silenzio e invocano il perdono di Dio per le loro umane fragilità - ha aggiunto l’ispettore generale. Questo cero, ‘fiamma di misericordia’ che accenderete nella vostra cappella di Santa Marta, sia la sua costante preghiera verso tutti coloro che hanno sbagliato e cercano nel Cristo Risorto la vera luce della libertà’”. Per Aspera ad Astra: riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza vita.it, 27 marzo 2021 Nell’occasione della Giornata mondiale del teatro presentato il progetto promosso dalle Fondazioni porta l’arte del teatro in 12 istituti di pena. Un progetto in corso da 3 anni in 12 carceri italiane, che coinvolge circa 250 detenuti in percorsi di formazione artistica e professionale nei mestieri del teatro. Oggi è la Giornata mondiale del Teatro, ma per il secondo anno consecutivo questa ricorrenza vedrà tutte le sale chiuse a causa delle limitazioni imposte dalla pandemia. Alla vigilia di questa Giornata, Acri ha organizzato l’evento “Rigenerazione. Nuove sperimentazioni teatrali dentro e fuori il carcere” per presentare Per Aspera ad Astra, un progetto in corso da 3 anni in 12 carceri italiane, che coinvolge circa 250 detenuti in percorsi di formazione artistica e professionale nei mestieri del teatro. All’evento, che si può rivedere al link www.acri.it/peraspera21, con la conduzione di Andrea Delogu, sono intervenuti: Francesco Profumo, presidente di Acri; Bernardo Petralia, Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; Aniello Arena, attore; Giorgia Cardaci, attrice, vicepresidente Associazione Unita - Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo. Oltre ad alcuni testimoni del progetto: Enrico Casale, Associazione culturale Scarti; Ibrahima Kandji, attore Compagnia della Fortezza; Micaela Casalboni, Teatro dell’Argine. Per l’occasione è stato proiettato il video di azione collettiva “Uscite dal mondo”, diretto da Armando Punzo, Compagnia della Fortezza, con la drammaturgia musicale di Andrea Salvadori e la partecipazione di tutti i registi delle compagnie che partecipano a Per Aspera ad Astra. Il Ministro della Cultura Dario Franceschini, ha inviato un messaggio: “L’incontro di oggi dimostra quanto il cammino iniziato oltre trent’anni fa da Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza al carcere di Volterra abbia dato frutti generosi. E come fosse giusta l’intuizione di fare della cultura una leva potente per un migliore percorso di pena dei detenuti. Domani in tutto il modo si celebrerà il teatro. In Italia doveva essere una giornata di festa, la data di una prima ripartenza. Purtroppo non sarà così. Ma, come dimostra il progetto di formazione artistica nei mestieri del teatro, la cultura ha un ruolo fondamentale nelle nostre vite. Tanto più per noi italiani che siamo abituati a vivere nell’arte e nella cultura: le nostre città senza teatri e cinema, le nostre piazze senza musica sono più tristi. Così l’Italia non è l’Italia. Ieri era il Dantedì, la giornata nazionale istituita per celebrare Dante Alighieri. Per questo vorrei concludere citando Dante, quando alla fine del lungo viaggio all’Inferno ha detto “e quindi uscimmo a riveder le stelle”. Ecco, arriverà in fretta il momento in cui potremo uscire a rivedere le stelle, in cui tornerà la musica nelle piazze, gli spettacoli teatrali, i festeggiamenti”. Dichiarazione del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia: “Il DAP continuerà a sostenere e valorizzare, per ora entro i limiti e le inevitabili precauzioni dovute alla pandemia, le tante attività teatrali presenti negli istituti penitenziari italiani, ben conosciute e apprezzate anche all’estero, come dimostrano gli importanti riconoscimenti ottenuti. Il teatro si è rivelato uno dei mezzi più efficaci per collegare realtà carceraria e società civile e per affermare il valore di una pena che sappia offrire alle persone detenute opportunità di formazione, lavoro e crescita culturale. Speriamo solo di poter tornare a farlo presto senza più alcuna limitazione”. Dichiarazione del Presidente di Acri, Francesco Profumo: “Le Fondazioni di origine bancaria promuovo il progetto Per Aspera ad Astra, perché intendono contribuire a garantire il “diritto alla bellezza” anche alle persone in condizione di privazione della libertà. Troppo spesso il carcere è uno spazio in cui la cultura sembra bandita. Invece, il teatro può contribuire a rigenerare questi spazi, perché può offrire ai detenuti la possibilità di vivere un’esperienza artistica potentissima, in grado di far riscoprire loro tutta la loro umanità, fatta di sogni e di empatia. Inoltre, questo progetto permette ai detenuti di acquisire anche competenze professionali nei mestieri del teatro, da poter utilizzare per il loro reinserimento nella società al termine della pena. Per Aspera ad Astra ha dato vita a un’inedita comunità composta da Fondazioni, compagnie teatrali, detenuti, direzioni e personale delle carceri, che condivide un progetto innovativo e ambizioso”. “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” è un progetto promosso da Acri e sostenuto da 10 Fondazioni di origine bancaria che, dal 2018, sta realizzando in carcere innovativi percorsi di formazione che riguardano non solo attori e drammaturghi, ma anche scenografi, costumisti, truccatori, fonici e addetti alle luci. Il progetto è nato dall’esperienza ultra trentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra, guidata dal drammaturgo e regista Armando Punzo che, nel corso della sua lunga attività, ha costruito un patrimonio consolidato di buone pratiche, che ora si estende in altre carceri d’Italia. Per Aspera ad Astra ha dato vita a una rete nazionale di compagnie teatrali che operano nelle carceri e che condividono l’approccio e la metodologia di intervento. L’esperienza condivisa testimonia come sia possibile lavorare nelle carceri mettendo al centro l’arte e la cultura, lasciando che essa possa esprimersi appieno e compiere una rigenerazione degli individui, favorendo il riscatto personale e avviando percorsi per il pieno reinserimento del detenuto nel mondo esterno. Altro obiettivo di questo intervento è che possa contribuire alla riflessione sulla piena applicazione dell’art. 27 della Costituzione italiana, innescando un processo di ripensamento del carcere, delle sue funzioni e del rapporto tra il personale che vi opera e le persone detenute. Le carceri e le compagnie teatrali coinvolte nell’edizione 2020/2021 di Per Aspera ad Astra sono: Casa di Reclusione di Volterra (Pi) - Carte Blanche / Compagnia della Fortezza; Casa di Reclusione Milano Opera - Opera Liquida; Casa Circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno” - Teatro e Società; Casa Circondariale di Palermo “Pagliarelli” - Associazione Baccanica; Casa di Reclusione di Vigevano (Pv) - FormAttArt; Casa di Reclusione di Padova - Teatro Stabile del Veneto; Casa Circondariale di La Spezia - Associazione Gli Scarti; Casa Circondariale di Cagliari Uta - Cada Die Teatro; Casa Circondariale di Perugia Capanne - Teatro Stabile dell’Umbria; Casa Circondariale di Bologna “Dozza” - Teatro dell’Argine; Casa di Reclusione di Saluzzo (CN) - Voci Erranti; Casa Circondariale di Genova Marassi - Teatro Necessario. Giornata del Teatro, perché quello fatto in carcere ci riguarda da vicino di Ornella Sgroi Corriere della Sera, 27 marzo 2021 Il progetto “Per Aspera ad Astra” ha rotto gli schemi portando la recitazione ai detenuti. Con risultati sui quali, dopo il lockdown, dovremmo riflettere tutti. Oggi è la giornata mondiale del teatro. E in Italia avrebbe anche dovuto essere il giorno della ripartenza per lo spettacolo dal vivo e le sale cinematografiche. Non è stato possibile. La pandemia, ancora una volta, lo ha impedito. Tutto fermo. Chiuso. Imprigionato in un limbo senza più coordinate spazio-temporali, se non l’incertezza e le saracinesche abbassate. Porte chiuse. Ingressi sbarrati. Carceri - speriamo temporanei - della cultura e dell’arte. Allora perché non ripartire proprio dal teatro che si fa in carcere? Senza retorica, però. Perché quello che si fa in carcere è teatro vero. E soprattutto è “formazione professionale ai mestieri del teatro, per fare diventare lavoro ciò che a molti sembra “solo” spettacolo”, come spiega il regista Armando Punzo. Mente, corpo e maestro della trentennale Compagnia della Fortezza della Casa di Reclusione di Volterra, che ha presentato - nel corso dell’evento “Rigenerazione. Nuove sperimentazioni teatrali dentro e fuori il carcere” organizzato da Acri (Associazione di Fondazioni e Casse di risparmio) - il progetto Per Aspera ad Astra, in corso da 3 anni in 12 carceri italiane, con il coinvolgimento di circa 250 detenuti in percorsi di formazione artistica e professionale non solo come attori, ma anche come scenografi, costumisti, tecnici delle luci, e così via. In questo tempo che stiamo vivendo, il carcere diventa metafora perfetta di un’azione precisa messa in evidenza da Punzo: “ascoltare la parte migliore di noi, quella che ha ancora fiducia, per farsi guidare da essa”. Quella che il regista ha catturato nel video che ha diretto, Uscite dal mondo, per “spostare l’immaginario verso la speranza e verso possibilità concrete. Se lo si può fare da un carcere, che è luogo di estremo dolore, allora lo si può fare ovunque”. Comprendendo che “il carcere non è un luogo di afflizione e punizione, ma di conoscenza di noi stessi”. È in questo spazio-non-spazio che si recupera una delle funzioni primarie dell’arte: lo stupore. Quel “meravigliarsi insieme” di cui parla Enrico Casale dell’Associazione culturale Scarti e che “crea legami tra la micro società del carcere e la macro società del territorio che lo contiene, da Palermo a Milano senza distinzione”. Con in mezzo il lockdown, durante il quale “ci siamo sentiti tutti un po’ detenuti, con le emozioni amplificate come in carcere. Carcere e lockdown hanno in comune la percezione di quanto abbiamo bisogno di arte, cultura e bellezza”. È attraverso cultura e bellezza che, infatti, il progetto Per Aspera ad Astra, promosso da Acri e sostenuto da 10 Fondazioni di origine bancaria dal 2018, si propone di riconfigurare il carcere attraverso “rigenerazione umana e sperimentazione, con un’operazione che ha del magico”, come sottolinea Francesco Profumo, presidente Acri, perché “avviene in uno spazio che non è spazio, in cui l’uomo ritrova se stesso attraverso una sperimentazione che Per Aspera ad Astra ha portato a sistema”. Il teatro non è solo palcoscenico, del resto. Ma è soprattutto “relazione, azione e voci che voce di solito non hanno”, come ci ricorda Micaela Casalboni del Teatro dell’Argine, compagnia che da 27 anni fa “ricerca artistica su luoghi altri rispetto al teatro, con un lavoro di confine nelle scuole, negli ospedali, nelle periferie del mondo”. E adesso anche in carcere. Per “restituire al teatro la sua funzione primaria, che è politica e poetica insieme, capace di generare un impatto che porta cambiamento e crea partecipazione dei cittadini, con un potere trasformativo dell’essere umano”. Fuori e dentro il carcere, perché “il carcere è un luogo della città e quanto più lo si rigenera al suo interno, tanto più se ne beneficia al di fuori”. Lo conferma anche Bernardo Petralia, Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che “il teatro si è rivelato uno dei mezzi più efficaci per collegare realtà carceraria e società civile e per affermare il valore di una pena che sappia offrire alle persone detenute opportunità di formazione, lavoro e crescita culturale”. Anche, anzi soprattutto, durante questa pandemia. Che ha fermato il Paese, ma non la rete costruita da Per Aspera ad Astra, che “dopo il duro colpo degli inizi e quello forse ancora più duro di questa coda così lunga, non si è fermato ma ha resistito forte come l’edera”, come racconta ancora Michela Casalboni, “cercando di capire come riorganizzarsi attraverso il confronto di questa rete importantissima, per cui una conquista fatta in una città diventa una conquista collettiva”. Per Volterra, Milano, Palermo, Torino, Vigevano, Padova, La Spezia, Cagliari, Perugia, Bologna, Saluzzo, Genova. Insieme. Perché quando si fa teatro, lo si fa in due luoghi: “uno fisico e uno mentale”, come ha detto Enrico Casale ispirandosi a Franco Battiato. E “quando si fa teatro in carcere, si lavora soprattutto sul luogo mentale. Il teatro è come un’evasione metaforica, va a cercare spazi alternativi perché non è un luogo statico ma una creatura viva, che si genera anche in luoghi estremi”. Ne sono testimonianza due bravi attori formati dalla Compagnia della Fortezza di Armando Punzo. Due attori veri. Uno è Aniello Arena, che ha lavorato anche con i fratelli Taviani e con Matteo Garrone e che descrive il teatro di Punzo come un “teatro molto sperimentale, prima molto fisico e solo dopo di parole”. L’altro è Ibrahima Kandji, Otello appassionato e vitale. E se per Aniello “il teatro è crescita umana, dentro o fuori dal carcere che sia”, per Ibrahima “il teatro trasforma i sentimenti negativi del carcere in energia e ti fa diventare emotività”. Il teatro in carcere, Petralia: “Una vibrazione… di libertà” di Antonella Barone gnewsonline.it, 27 marzo 2021 Nel 2019 sono state 321 le attività teatrali organizzate negli istituti penitenziari italiani, tra spettacoli, laboratori e iniziative di formazione. Hanno coinvolto 5021 detenuti (di cui 1401 stranieri) in veste di attori, coautori di testi e addetti a mansioni tecniche. Questi dati - gli ultimi rilevati dal Dap prima del lockdown - descrivono un’attività seguita, inclusiva e diffusa in tutto il territorio nazionale. “Le esperienze teatrali in carcere sono ormai la regola, perché il teatro ha un’importante funzione pedagogica di preparazione all’inclusione nella vita civile” ha sottolineato Bernardo Petralia, capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), intervenuto stamani all’evento ‘Rigenerazione. Nuove sperimentazioni teatrali dentro e fuori il carcerè organizzato da Acri, Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio Spa, alla vigilia della Giornata Internazionale del Teatro. “Il teatro in carcere è una ribalta naturale, un teatro vivente, è un posto, dove è facile recitare perché, in questa comunità di dolenti, le emozioni sono tutte allertate. La finzione consente al detenuto di sentirsi libero e non è poco se si considera che un aspetto fondamentale della gestione della vita carceraria è il trattamento,” ha aggiunto Petralia, che ha assicurato la massima disponibilità dell’amministrazione penitenziaria a sostenere queste esperienze “ che rappresentano una vibrazione di libertà, il veicolo più importante per consentire il miglior passaggio dalla vita ristretta alla vita libera”. Nel corso dell’incontro, trasmesso in streaming e moderato da Andrea Delogu, è stato presentato il video “Uscite dal mondo”, diretto da Armando Punzo, fondatore della Compagnia della Fortezza, nel carcere di Volterra. L’opera è stata realizzata con i contributi artistici delle realtà che hanno aderito a “Per Aspera ad Astra”, progetto sostenuto da 10 Fondazioni associate Acri che, dal 2018, coinvolge in percorsi di formazione artistica e professionale circa 250 detenuti in 12 carceri. “Cultura e bellezza consentono alle persone di esprimere quello che per troppo tempo hanno represso - ha detto Francesco Profumo, presidente Acri - e di rigenerarsi, grazie alla sperimentazione che è l’elemento centrale del percorso da noi sostenuto”. L’importanza assunta dal teatro in carcere è stata ricordata anche dal ministro della Cultura, Dario Franceschini, che nel suo messaggio ha sottolineato quanto questa pratica si sia rivelata una leva potente per un miglior percorso di crescita dei detenuti”. Galeotto fu il teatro e chi lo visse di Gianfranco Capitta Il Manifesto, 27 marzo 2021 Oggi le celebrazioni ma i sipari sono sempre abbassati, e i ristori distribuiti in modo discutibile. Due eventi permettono di scoprire il lavoro in carcere, con Collovà e Traitsis, Punzo e Arena. Sarà forse anche un effetto indotto della pandemia, ma ormai ogni giorno che arriva in Terra, sentiamo quasi il bisogno di festeggiare qualcosa. Che sono spesso le cause più nobili, e rispettabili e necessarie (sul valore non si discute) ma quest’idea di dedicare o consacrare a “qualcosa”, rischia spesso per sminuire l’oggetto del festeggio. L’informazione del resto gonfia notiziari e approfondimenti in uno scadenzario che prende ormai il posto di antichi rosari e litanie di valore quasi esorcistici. Il calendario, ma non solo, può fare così degli scherzi anche crudeli, oltre che ingiusti. Solo l’altro ieri, sotto la brillante etichetta del “Dantedì” (appetibile come un supermercato), si è celebrato il settimo centenario della morte di Dante sommo poeta. Ricorrenza e festeggiamento sacrosanti, che hanno rischiato di allagare nella banalità la bellezza e il senso fortissimo dei versi della Commedia. Tra radio, televisione e giornali (ma anche cartelli, striscioni e social), ogni medium ha sentito il dovere di sproloquiare sulla grandezza del sommo poeta, anche se la hit parade delle citazioni finivano col privilegiare sempre gli stessi canti e personaggi. I “professori” strologavano a spron battuto, come per altro sarebbero tenuti a fare, in maniera magari più comprensibile, in tutti gli ordini di scuola. Poi c’era l’esercito di improvvidi che ai titoli più vari, citavano proponevano e dissertavano, e soprattutto “interpretavano”, quei versi scultorei e i loro protagonisti. La “festa”aveva il suo ispiratore supremo, ça va sans dire, nel ministro della cultura Franceschini, come la carica richiedeva ovviamente. Parole di circostanza che avevano un senso quando a acchiappare il pubblico ai versi danteschi era Benigni (forte della comunanza territoriale e quindi linguistica, ma anche per essersi esercitato su quelle parole da anni), forse meno per certi entusiasmi rituali che la scultorea chiarezza di quei versi rendeva quasi più “oscura”. Oggi è il giorno di un’altra “trappola” di calendario fantasioso, in quanto si dovrebbe celebrare la “giornata del teatro”, che suona come certe malattie rare o certe problematiche planetarie che servono solo a darci qualche rimorso, generalmente lieve. A sostenere la celebrazione ormai quasi “rituale” (se non addirittura esorcistica) è sempre in prima linea lo stesso ministro. Peccato che da più di un anno non abbia avuto molto a cuore il “teatro”, prima chiudendone gli spazi come fosse il massimo focolaio del contagio, poi distribuendo i ristori e i ricoveri secondo criteri quanto meno discutibili, che hanno finito per rimpinguare le casse delle istituzioni pubbliche teatrali, statali, stabili e nazionali, con un discreto guadagno per non dover neanche spolverare le sale. Poi sono arrivate le briciole, minimi tamponi del tutto insufficienti per chi del fare teatro dovrebbe sopravvivere. Per onestà, in questa smania tanto celebrativa quanto poco motivata (da ricordare davvero la ricorrenza dei defunti), la giornata diventa anche l’occasione per scoprire del teatro altre prospettive. Il caso principe è quello del teatro in carcere, una pratica che ha la sua intrinseca necessità nel poter abbattere, attraverso la rappresentazione, le sbarre che separano chi è detenuto dal “fuori”: non solo dalla pratica ma dall’idea stessa di libertà. Per chi è curioso di conoscere quell’universo teatrale, oggi può superare a sua volta le barriere macchinose della sicurezza collegandosi online a due diversi momenti. Dalle 15 alle 16,30 sarà visibile (su www.youtube.com/user/teatroaenigma/ nonché sul sito www.teatroaenigma.it) un seminario internazionale cui parteciperanno, dopo il saluto della ministra Cartabia, il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, e i due registi Michalis Traitsis e Claudio Collovà, che conducono esperienze teatrali con adulti e minori rispettivamente a Venezia e Palermo. Con loro si confronterà la studiosa di Roma 3 Valentina Venturini. Altra possibile visione (sul sito delle Casse di Risparmio www.acri.it/peraspera21) l’incontro avvenuto ieri sul progetto Per Aspera ad Astra, finanziato da quell’associazione bancaria, cui partecipano 250 detenuti in 12 carceri disseminate nel nostro paese. All’incontro hanno partecipato, tra i molti, attori ancora coinvolti in quelle esperienze, e chi, come Aniello Arena, ha grazie a quelle acquisito una riconosciuta professionalità nel cinema. Armando Punzo ha mostrato un video di azione collettiva nella Fortezza di Volterra dal titolo Uscite dal mondo. Parola d’ordine comune, il “diritto alla bellezza”. Un motto che avrebbe molto senso anche per chi sta “fuori”. Per superare la crisi, immaginare il mondo della concretezza di Massimiliano Tarantino Corriere della Sera, 27 marzo 2021 Troviamo il coraggio di reinventare i codici della nostra convivenza, del nostro rapporto con il denaro, con il possesso e diamo concretezza ad una next generation ecology. Caro Direttore, una volta Tina Anselmi disse che “per cambiare il mondo bisognava esserci”. Mi sembra un buon suggerimento per affrontare le sfide che il tempo presente ci propone. Non esiste un manuale per superare una crisi. Ne abbiamo avute moltissime nel nostro recente passato e ogni volta abbiamo trovato le risorse, gli attori, le congiunture che ci hanno fatto percepire di averle superate. Chissà se è stato davvero così. Studiando la storia lo possiamo capire, caso per caso. Ma oggi è diverso, la stiamo vivendo e non abbiamo intenzione solo di farci i conti, vogliamo andare oltre. Ce lo stiamo ripetendo da più di un anno, “Andrà tutto bene”. Ma se la definizione di bene in relazione alla pandemia ha una risposta certa, i vaccini e la loro distribuzione di massa, condividere una comune definizione di bene in relazione alla società che abbiamo davanti apre scenari ambigui, e risposte sulle quali si prende tempo, o si pensa di poterlo perdere. Mentre è urgente dare corpo a quella dimensione di sostenibilità, ecologica e sociale, per la quale sono scesi in piazza i giovani di mezzo mondo, prima di questo tsunami, e che altre priorità hanno ibernato. Dimostriamo di essere smart per davvero. Non accontentiamoci di utilizzare i computer per fare le lezioni da casa o le riunioni dal parco, non illudiamoci che basta utilizzare la macchina ad idrogeno o riciclare la plastica, non lasciamo alla tecnologia il privilegio di sostituirci nell’essere brillanti e moderni. Troviamo il coraggio di reinventare i codici della nostra convivenza, del nostro rapporto con il denaro, con il possesso e diamo concretezza ad una next generation ecology. Una dimensione ultraverde, che parte dall’attenzione a clima e risorse naturali per estendersi a giustizia sociale, diritti, lavoro: una proposta politica aggregante, che si proponga di riaccendere il senso della partecipazione di massa verso un obiettivo concreto, il miglioramento delle condizioni di vita per tutte e tutti, e che sfidi le storture del sistema capitalistico che abbiamo ereditato, riformandolo in senso plurale. È una sfida imponente: non si tratta solo di una corsa contro il tempo, ma anche di un cambio di paradigma culturale. È tempo di riscoprire il ruolo dell’attore pubblico, come soggetto capace di regolare il mercato orientandolo verso una “trasformazione più giusta”, di stampo sociale. È tempo di fare evolvere la globalizzazione degli interessi verso un pensiero aggiornato d’interdipendenza tra esseri umani, garantendo a ciascuno il medesimo paniere di diritti fondamentali. È tempo di sostenere, ad ogni angolo del pianeta, pratiche di dissenso quotidiano che sappiano colorare la democrazia del dinamismo delle idee e della tutela delle minoranze. Ed è anche tempo di smettere d’indignarsi, di lamentarsi, di trovare un pretesto per chiedere. E di ricominciare tutti a trovare le motivazioni per fare, anche con istanze radicali. In questo Milano è stata negli ultimi anni un grande laboratorio, che in questi mesi deve ritrovare spazio, fiducia e motivazioni. Nell’interesse dei cittadini che la abitano ma anche delle piccole e grandi città che guardano al nostro esempio, e a volte ne subiscono il peso e la distanza. La ricerca e la cultura possono e devono fare la loro parte, come sentinelle dei bisogni e come mediatori tra le soluzioni. Siamo tutti chiamati ad una prova di coraggio ma, come ha scritto Piero Gobetti, “per raggiungere questa umanità migliore dobbiamo distruggere le abitudini e le indifferenze. Ma mentre distruggiamo un mondo di pregiudizi, costruiamo con ardore e pazienza il mondo della concretezza”. *Direttore Fondazione Giangiacomo Feltrinelli Migranti. Un passo in avanti per chi è “recluso” nei Centri di rimpatrio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 marzo 2021 Grazie all’ordinanza del tribunale di Milano, è stato riconsegnato il cellulare a un migrante trattenuto nel centro per il rimpatrio (Cpr) di Milano. Il giudice, nell’accogliere il ricorso presentato dal ragazzo, appena 18enne nato in Tunisia e difeso dall’avvocata Giulia Vicini, ha richiamato non solo la normativa nazionale e internazionale (“la particolare rilevanza che nel corso del trattenimento assume la libertà di corrispondenza telefonica con l’esterno” si evince già, secondo il Tribunale, dalla “frequenza con cui essa compare nelle norme”), ma anche le raccomandazioni espresse dal Garante Nazionale per i diritti delle persone private della libertà con riferimento al trattenimento dei cittadini stranieri. In sostanza, come sottolinea l’Asgi che si occupa degli studi giuridici sull’immigrazione, l’ordinanza riconosce che la libertà di corrispondenza telefonica costituisce un diritto fondamentale stabilito dall’art. 15 della Costituzione che deve essere garantito all’interno del Cpr. Un piccolo passo in avanti, visto che i migranti, pur non avendo commesso nessun reato, di fatto sono meno tutelati dei detenuti in carcere. Non c’è nessun ordinamento come quello penitenziario e quindi non hanno garanzia alcuna. Ma ritorniamo all’ordinanza, a partire dalle vicissitudini che ha dovuto affrontare il migrante. Vale la pena narrarle per comprendere quanta difficoltà e palesi violazioni incorrono le persone che giungono nel nostro Paese. Parliamo di un ragazzo che è giunto in Italia, da minorenne, il 4 novembre scorso. Appena messo piede a Lampedusa, gli è stato notificato un decreto di respingimento. La questura di Siracusa gli ha disposto il trattenimento presso il Cpr di Ponte Galeria, a Roma. A causa delle misure di quarantena imposte dalla pandemia, l’udienza di convalida del trattenimento si è tenuta soltanto un mese dopo, il 7 dicembre 2020, e il giudice di pace di Roma, nonostante che lo straniero avesse dichiarato di essere minorenne, ha convalidato il suo trattenimento. Il 31 dicembre, a seguito della procedura medica di accertamento dell’età del migrante, il giudice di pace ne ha ordinato il rilascio. È stato quindi portato in un Centro di accoglienza, dove vi è rimasto fino al 5 gennaio 2021. È accaduto che in quel contesto non gli è stato permesso di contattare amici o familiari, né il suo avvocato, che non hanno più avuto notizia di lui fino all’ 8 gennaio, nonostante le richieste inoltrate dal legale di fiducia, avvocata Cristina Cecchini del foro di Roma, alla Questura. L’avvocata, non avendo avuto riscontro, ha inviato una segnalazione anche al Garante. Si è venuto quindi a scoprire che il 5 gennaio stesso, il prefetto di Roma ha notificato al ragazzo un nuovo decreto di espulsione, con accompagnamento alla frontiera. Il questore ha disposto il suo trattenimento presso il Cpr di Milano, essendo necessario acquisire un documento valido per l’espatrio. Ed è lì che non gli è stato restituito il suo cellulare. Non ha potuto chiamare nessuno, soprattutto il suo avvocato per chiedere di essere assistito visto che nel frattempo ha fatto richiesta di protezione internazionale e avevano già fissato l’udienza. Ecco quindi spiegato il motivo del ricorso. Secondo il tribunale di Milano, l’impossibilità di accedere al proprio telefono cellulare costituisce una limitazione del diritto alla libertà di comunicazione dei trattenuti che non trova fondamento nel nostro ordinamento ed è anzi contraria alle norme costituzionali e sovranazionali che presidiano tale diritto. La limitazione delle comunicazioni con l’esterno, che necessariamente consegue all’impossibilità di accedere al proprio telefono cellulare, è altresì idonea a configurare una violazione del diritto di difesa dei trattenuti. Tale circostanza, come riconosciuto dal Tribunale, risulta particolarmente evidente nel caso del richiedente asilo ricorrente, a cui non è stato consentito di comunicare con il proprio difensore di fiducia prima dell’udienza di convalida del trattenimento, con la conseguenza di non potersi avvalere della sua assistenza in tale sede. Il Tribunale ha quindi ordinato alla Prefettura, alla Questura di Milano e all’ente gestore del Cpr di consentire al ricorrente la detenzione e l’utilizzo del proprio telefono cellulare secondo le modalità indicate dall’articolo 7 del Regolamento Unico Cie (Regolamento Ministeriale 20 ottobre 2014) per le visite all’interno del centro, ovvero in base a turni quotidiani, in locali sottoposti a sorveglianza ma nel rispetto della riservatezza della persona e per un tempo sufficiente, che l’ordinanza indica in almeno due ore. Sono 300 i migranti nei Cpr, per loro non c’è alcun piano vaccinale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 marzo 2021 Attualmente, soprattutto grazie all’effetto pandemia, ci sono circa 300 migranti trattenuti nei dieci centri di permanenza e rimpatrio (Cpr) dislocati in Italia. Per l’esattezza si trovano a Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo (GO), Macomer (NU), Palazzo San Gervasio (PZ), Roma, Torino, Trapani e recentemente a Milano con la sua riapertura. Per ora non risulta nessun piano vaccinale per gli ospiti, ma teoricamente basterebbe una giornata visto il numero esiguo. Cpr è l’acronimo più recente affibbiato dalla legge ai centri di identificazione ed espulsione per migranti irregolari presenti sul territorio italiano, che sono stati istituiti e costantemente implementati da tutti i governi degli ultimi vent’anni. La creazione di queste strutture carcerarie risale al 1998, quando - a seguito di alcune direttive europee in vista dell’entrata nell’area Schengen - Livia Turco e Giorgio Napolitano, con il T. U. sull’immigrazione 286/ 1998, stabilirono il trattenimento coatto delle persone straniere da identificare o in attesa di espulsione, per un massimo di 30 giorni: periodo che venne poi raddoppiato con la Legge Bossi- Fini (L. 189/ 2002), la quale introdusse anche il reato di non ottemperanza all’ordine di espulsione, cui sarebbe seguito il reato di clandestinità (L. 94/ 2009). Il nome attuale Cpr risale alla Legge Minniti- Orlando (L. 46/ 2017), che prevedeva la costruzione di un centro in ogni regione. Il decreto legge del 21 ottobre 2020 ha introdotto diverse disposizioni sul trattenimento del cittadino straniero nei centri di permanenza per i rimpatri (articolo 3), tra queste si ricordano: la riduzione dei termini massimi di trattenimento da 180 a 90 giorni, prorogabili di ulteriori 30 giorni qualora lo straniero sia cittadino di un Paese con cui l’Italia ha sottoscritto accordi in materia di rimpatri; la previsione che il trattenimento deve essere disposto con priorità nei confronti degli stranieri che siano considerati una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica; siano stati condannati, anche con sentenza non definitiva, per gravi reati; siano cittadini o provengano da Paesi terzi con i quali risultino vigenti accordi in materia di cooperazione o altre intese in materia di rimpatri; l’estensione dei casi di trattenimento del richiedente protezione internazionale limitatamente alla verifica della disponibilità di posti nei centri; l’introduzione della possibilità, per lo straniero in condizioni di trattenimento di rivolgere istanze o reclami al Garante nazionale ed ai garanti regionali e locali dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e, per il Garante nazionale, di formulare specifiche raccomandazioni all’amministrazione interessata. Ad oggi i cittadini stranieri possono essere trattenuti in una struttura di fatto carceraria senza aver compiuto alcun reato e il loro trattenimento - che non è formalizzato come detenzione - garantisce loro meno diritti e a chi li trattiene maggiore arbitrarietà che se fossero carcerati. In più, la gestione dei Cpr è appaltata a privati tramite bandi gestiti dalle Prefetture: la privatizzazione della gestione dei centri di internamento per migranti rischia di essere un business simile a quello del sistema carcerario americano. Brexit. “Da 10 Paesi dell’Ue stop all’estradizione nel Regno Unito” leggo.it, 27 marzo 2021 La Brexit potrebbe portare diversi problemi in campo giudiziario all’interno dell’Unione europea. Almeno 10 Paesi membri dell’Ue infatti non estraderanno più i propri cittadini per affrontare un processo nel Regno Unito: si tratta di Croazia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Lettonia, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Svezia. Secondo quanto ammesso dallo stesso governo britannico, questi 10 Paesi “invocheranno le regole costituzionali come motivo per non estradare i loro cittadini” in Gran Bretagna. Oltre a questi 10 Paesi, ce ne sono anche altri due - l’Austria e la Repubblica Ceca - che estraderanno i propri cittadini sono col loro consenso. Prima della Brexit il Regno Unito faceva parte dei Paesi che utilizzavano il mandato d’arresto europeo, che consente un’estradizione semplificata tra gli Stati dell’Ue ed è stato utilizzato per assassini, trafficanti di droga e terroristi. Ma nell’ambito degli accordi post Brexit, con l’uscita del Paese dall’Unione, è cambiato tutto: ora, secondo quanto scrive il quotidiano britannico Independent, la strategia dovrebbe essere quella, nel caso si abbia a che fare con criminali da mettere nel mirino, di farli viaggiare liberamente in Paesi in cui non ci sono problemi di estradizione, per poi arrestarli. Una sorta di tuffo nel passato a metodologie da guerra fredda. Oltre all’estradizione, i cui nuovi accordi dovranno essere “testati”, così come la loro “efficacia operativa”, la Brexit potrebbe portare farraginosità e scarsa cooperazione anche nelle norme sulla protezione dei dati (la privacy) e sui diritti umani. Restando all’estradizione stessa, il Regno Unito uscendo dall’Ue ha perso l’accesso al database del SIS II, il sistema d’informazione Schengen che era integrato con i database della polizia, che include informazioni sui passeggeri aerei, casellario giudiziario, DNA e impronte digitali e consente la continua condivisione dei dati di polizia e di giustizia penale. Un nodo da sciogliere presto per le autorità britanniche, per non far cadere la giustizia nel caos. Ucraina. Una “piattaforma” per rilanciare il diritto internazionale di Antonio Stango La Repubblica, 27 marzo 2021 Kiev ha invitato tutti gli Stati partner a partecipare a un forum che adotti un percorso strategico per porre fine all’occupazione della penisola. Il lancio è previsto per il 23 agosto. Un passo necessario: l’alternativa sarebbe solo l’accettazione di una “legge del più forte”. In uno scenario globale su cui sembrano soffiare venti di una nuova guerra fredda, sono passati sette anni da quando, il 18 marzo 2014, Vladimir Putin firmò un “Trattato sull’annessione della Crimea alla Federazione Russa”: solo due giorni dopo il preteso “referendum” inscenato nella penisola ucraina militarmente occupata, considerato illegittimo dal Consiglio d’Europa, dall’Unione Europea, dall’Assemblea Generale dell’Onu e dalla maggior parte degli Stati membri. Nell’anniversario, i ministri degli Esteri del G7 e l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e di sicurezza comune hanno condannato “le continue azioni della Russia per minare la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza dell’Ucraina”, aggiungendo che i tentativi della Russia di legittimare l’annessione “non sono e non saranno riconosciuti”, con la conferma delle sanzioni in atto contro la Russia. La dichiarazione del G7 e dell’UE condanna inoltre le violazioni dei diritti umani da parte delle forze occupanti, in particolare contro i tatari di Crimea: il gruppo etnico considerato indigeno, la cui etnogenesi in quel territorio risale al XIII secolo. Il khanato di Crimea - Il khanato di Crimea era stato per circa trecento anni uno Stato indipendente, anche se a lungo sotto protettorato ottomano. In effetti, già la prima annessione da parte di quello che allora era l’impero russo, nel 1783, avvenne in violazione di un accordo internazionale: il trattato di pace di Küçük Kaynarca, che poneva fine a una lunga guerra russo-turca e affermava l’indipendenza del khanato. Ai tatari restava però almeno la possibilità di rimanere nella propria terra ancestrale, seppure presto ridotti a minoranza; ma nel 1944 tutti i circa 193.000 tatari di Crimea (come altre popolazioni accusate collettivamente di collaborazione con gli invasori tedeschi) furono deportati da Stalin in Asia centrale. Decine di migliaia di loro morirono durante il trasferimento o in pochi anni per le durissime condizioni di vita. Il movimento per il ritorno in Crimea delle famiglie deportate, iniziato dopo la morte di Stalin, poté divenire consistente solo dal 1989. In quell’anno ebbi l’opportunità di ospitare in un convegno a Roma sulla crisi sovietica della politica delle nazionalità la leader di quel movimento, Aishe Seitmuratova - perseguitata in epoca sovietica e ancora oggi, a 84 anni, un punto di riferimento per il suo popolo. Con l’indipendenza dell’Ucraina, nel 1991, i tatari di Crimea - che intanto erano tornati ad essere circa 150.000, ovvero intorno al 10 per cento della popolazione di allora della penisola - ne divennero cittadini, mentre la regione ebbe lo statuto di “Repubblica autonoma”. I tatari perseguitati - Da sette anni, se l’amministrazione occupante reprime qualsiasi cenno di protesta come se si trattasse di “terrorismo”, la minoranza tatara è oggetto più degli altri di arresti, processi iniqui, pesanti condanne, trasferimenti in centri detentivi in territorio russo. Su 230 prigionieri politici e perseguitati penalmente durante questo periodo, 158 sono tatari (71 detenuti in centri dell’Fsb - l’ex Kgb); e il Crimean Tatar Resource Center ha segnalato 13 sparizioni e 21 uccisioni di membri della loro comunità. Tutto questo ha portato a un’ondata di spostamenti di tatari verso altre regioni dell’Ucraina (almeno 40.000, oltre a circa 100.000 ucraini), mentre sono giunti ufficialmente circa 247.000 russi: in realtà, secondo il governo ucraino, centinaia di migliaia in più - in gran parte militari, burocrati, operai nella cantieristica, con le rispettive famiglie. È quindi in corso un drastico cambiamento della composizione demografica di un territorio occupato, in violazione di precise norme di diritto internazionale; e fra le conseguenze della sovrappopolazione indotta c’è anche una grave insufficienza delle risorse idriche in una terra piuttosto arida, con l’incapacità dell’amministrazione occupante di garantire approvvigionamenti sufficienti. La Piattaforma della Crimea - In questo quadro, l’Ucraina ha invitato tutti gli Stati partner a partecipare a una “Piattaforma della Crimea”: un forum di analisi e di discussione, aperto dal livello dei capi di Stato e di governo a quello di parlamentari, esperti e associazioni non governative, che adotti un percorso strategico di azioni congiunte per la fine dell’occupazione e l’effettivo ristabilimento in Ucraina della Repubblica Autonoma di Crimea e della città a statuto speciale di Sebastopoli. Il lancio è previsto per il 23 agosto - trentennale della stesura della Dichiarazione di Indipendenza dell’Ucraina dall’Unione Sovietica. I princìpi e lo spirito di allora sono oggi aggrediti da più parti; ma occorre ormai riportarli con decisione al centro della politica internazionale, poiché l’alternativa alla prevalenza del Diritto sarebbe solo l’accettazione di una “legge del più forte” che l’umanità ha già tragicamente sperimentato. Libia. Nuove fosse comuni scoperte a Tarhouna di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 27 marzo 2021 In tutto le fosse comuni sparse tra le campagne intorno a Tarhouna sono 18: si stima vi fossero i resti di almeno un migliaio di persone uccise dal 2013 al 2020. I 13 cadaveri sono avvolti in altrettanti lenzuoli bianchi. Li hanno trovati negli ultimi giorni tra la terra fine del cosiddetto “progetto Rabat”, una zona di cantieri alla periferia dei quartieri abitati. Qui si trova una delle fosse comuni più grandi. “Vi abbiamo individuato oltre 160 corpi. In tutto, le fosse comuni sono 18, sparse per le campagne attorno a Tarhouna. Stimiamo vi si trovassero i resti di un migliaio di persone uccise dal 2013 al 2020. All’appello ne mancano ancora 250”, racconta, Mohammed Kesher, il sindaco di questa città posta a un’ottantina di chilometri a sud di Tripoli, i cui cimiteri possono essere visti come la metafora del dramma libico seguito alla rivoluzione assistita dalla Nato, che defenestrò nel sangue il regime di Muammar Gheddafi 10 anni fa. Vi siamo arrivati venerdì mattina viaggiando in auto per circa un’ora e mezza. Le autorità locali per una volta sono state ben felici di incontrare i giornalisti e mostrare il loro lutto alle telecamere. “Qui ci sono i cadaveri dei miei due cugini, Mabruk di 22 anni, e Abdallah di 59. Vennero assassinati nel settembre 2019”, dice tra i tanti Ibrahim Moftah, ingegnere 38enne, che abbiamo seguito prima nella preghiera nella moschea centrale, quindi di fronte ai corpi allineati in piazza ed infine nel grande corteo al cimitero. Lui assieme a tanti altri se la prende con i “sei fratelli Kaniat”, accusati platealmente di avere imposto un regime di terrore pur di conquistare potere e ricchezze dopo la caduta del regime. Anche il sindaco ne parla come di “criminali assoluti, pronti ad allearsi col più forte pur di imporre il loro sistema di dominio”, spiega. Ma la realtà sembra molto più complessa. E il microcosmo di Tarhouna aiuta a comprendere i meandri della Libia contemporanea. Una situazione che il nuovo governo di unità nazionale guidato da dovrà presto affrontare per cercare di pacificare il Paese e con esso anche l’Europa, con l’Italia pienamente coinvolta, ora più che mai decise a rientrare a pieno titolo nello scenario libico. La narrativa delle crudeltà della milizia dei fratelli Kaniat è infatti solo un paravento. “Serve per mettere sotto il tappeto le gravissime divisioni interne. Si preferisce accusare colpevoli invisibili, piuttosto che riaccendere la catena di odi e vendette destinate ad aggiungere caos al caos”, spiega il 29enne Mohammad al Amali, che a sua volta è venuto in piazza a piangere la morte di tre cugini e uno zio. Tutti uccisi nelle battaglie tra milizie negli ultimi anni. “È ben noto che Tarhouna, assieme alla cittadina di Bani Walid, fossero roccaforti del regime di Gheddafi. Al tempo della rivoluzione i nostri giovani andarono a battersi contro le milizie di Bengasi, Misurata e Tripoli. Dopo la sconfitta del regime, le milizie vennero a vendicarsi. I morti furono subito centinaia. I Kaniat prima si schierarono con la rivoluzione, poi tornarono indietro, raccolsero i resti dell’esercito di Gheddafi assieme alle vecchie tribù lealiste e nel 2014 si unirono alle forze di Khalifa Haftar in Cirenaica”, spiega al Amali. Tarohouna divenne così la bandiera dalla riscossa del fronte contrario ai Fratelli Musulmani e alle maggiori milizie che operano tra Tripoli e Misurata. Ma la situazione divenne critica dopo la fallita offensiva lanciata da Haftar nell’aprile 2019. Lui era convinto di vincere in poche settimane, grazie anche all’aiuto russo, egiziano ed emiratino. La reazione delle milizie, sostenute da Turchia e Qatar cambiò l’equilibrio delle forze. “La notte più sanguinosa fu quella del 4 giugno 2019. I Kaniat massacrarono i soldati di Haftar che volevano ritirarsi incalzati dai droni turchi. A decine sono sepolti in questo stesso cimitero dove mettiamo i nostri cari. Quindi scapparono a loro volta verso Bengasi, uccidendo chiunque cercasse di arrestare la loro fuga”, raccontano ancora al cimitero. La “leggenda” dei Kaniat non riesce d’altronde neppure più a nascondere le tensioni che stanno al momento investendo la Cirenaica. Haftar, stanco e malato, sta perdendo il controllo delle piazze e dei suoi stessi soldati, compresi le centinaia di veterani pro-Gheddafi alleati ai Kaniat. Lo dimostrano gli omicidi che investono la società civile. Oggi è stata rapita (qualcuno dice anche uccisa sui social) la 23enne Hanina al Barassi figlia di Hanan al Barassi, nota avvocata attivista per i diritti umani assassinata il 10 novembre nel centro di Bengasi. Entrambe accusavano Saddam Haftar, il figlio 28enne di Khalifa, di dominare col terrore in Cirenaica grazie alla soldataglia della sua Brigata 106. Due giorni fa è stato inoltre ucciso Mahmoud Warfalli, ex comandante dei pretoriani di Haftar, accusato anche dal Tribunale Internazionale dell’Aja di abusi contro i prigionieri. “A Bengasi si sta scivolando nel terrorismo come ai tempi dell’assassinio dell’ambasciatore americano Christopher Stevens nel settembre 2012”, sottolineano tra gli ambienti diplomatici a Tripoli. Da Tarhouna a Bengasi, la tensione resta forte. Dovranno tenerne conto anche a Roma, vista l’intenzione di riaprire al più presto il consolato italiano a Bengasi. Così le milizie mantengono la Libia nel terrore di Giulia Cannizzaro Il Domani, 27 marzo 2021 Nonostante l’esecutivo nato sotto l’egida dell’Onu e le sanzioni dell’Unione europea, il territorio rimane sotto il controllo delle bande armate che torturano i cittadini. Come il fratello di Hakim, scomparso da tre anni. “Se vado a Tarhuna, uccideranno anche me, me l’hanno detto”. Abdul Hakim Amer Abu Naama vive a Tripoli ma la sua famiglia di abita a Tarhuna, una piccola cittadina agricola a circa 90 chilometri dalla capitale libica. Il fratello di Hakim, Abu Bakr Amer Abu Naama, è scomparso proprio lì il 14 novembre 2019 in circostanze tutt’altro che misteriose. Hakim e la sua famiglia sanno bene chi sono i responsabili. “Alle 6 del mattino ha squillato il telefono. Ho risposto ed era mio fratello minore che, in maniera concitata, mi ha detto che Abu Bakr non era tornato a casa e non riuscivano a rintracciarlo. Ho subito pensato al peggio”, dice Hakim. “La sera prima era andato da un amico e non ha fatto più ritorno a casa”. Abu Bakr Amer Abu Nama ha 37 anni, vive a Tarhuna, è sposato, ha due figli e risulta ancora scomparso. “Appena ho saputo della sua sparizione, ho cominciato a chiamarlo compulsivamente al telefono - racconta Hakim -. Dopo molte chiamate, però, qualcuno finalmente mi ha risposto e non era mio fratello”. Il sospetto che sia stato fatto sparire diventa quasi subito una certezza. “La chiamata è durata pochissimo. Ho chiesto di parlare con mio fratello e chi stava dall’altra parte, sghignazzando, mi ha chiuso il telefono in faccia. Ho capito subito che Abu Bakr era stato rapito e che erano stati loro. Agiscono così”. Il clan - Le persone alle quali Hakim si riferisce sono membri della famiglia Al-Kani, che hanno formato il clan noto come Kaniyat, una milizia vicina al generale Khalifa Haftar che ha esercitato il controllo sulla città libica di Tarhuna fra il 2015 e il giugno 2020. Tre dei sette fratelli Al-Kani sono morti mentre gli altri sono stati costretti a fuggire dalle forze fedeli al precedente governo riconosciuto dalle Nazioni Unite. Nonostante questo ancora oggi molti residenti di Tarhuna hanno paura di parlarne. Due giorni fa il Consiglio dell’Unione europea ha sanzionato i fratelli Mohammed e Abdelrahim Al-Kani, due figure di vertice della milizia Kaniyat, per le torture, le sparizioni forzate e le uccisioni extragiudiziali commesse proprio a Tarhuna in quel periodo. Questi provvedimenti, che includono il congelamento dei beni e il divieto di transito all’interno dell’Unione europea, rientrano nell’ambito di una serie di misure che l’Europa ha preso nei confronti di undici persone e quattro entità (fra cui i vertici militari responsabili del colpo di stato in Myanmar dello scorso febbraio e funzionari del governo dello Xinjiang) che “devono essere incluse nell’elenco di persone fisiche o giuridiche, entità o organismi soggetti a misure restrittive per le gravi violazioni dei diritti umani e gli abusi in diverse parti del mondo”. Per l’Europa, quindi, gli esponenti di spicco della milizia Kaniyat sono responsabili della morte di centinaia di civili, fra cui moltissime donne e bambini, come testimoniato dal ritrovamento di 27 fosse comuni a Tarhuna e dalla sparizione di almeno 338 cittadini libici avvenuta proprio fra il 2015 e il 2020. Fra loro c’è anche il fratello di Hakim. “A distanza di tre anni non sappiamo ancora che fine abbia fatto Abu Bakr e noi ci sentiamo sempre in pericolo. Io non posso tornare a Tarhuna perché mi hanno minacciato di morte”. Un problema irrisolto - Hakim è riuscito a entrare in contatto con Mohammed Al-Kani attraverso Facebook. “Gli ho scritto. Gli ho chiesto di dirmi dov’era mio fratello e lui mi ha risposto che se non l’avessi piantata mi avrebbero fatto fare la sua stessa fine. Sono dei criminali”. Le sparizioni forzate e le uccisioni arbitrarie da parte del clan Kaniyat in Libia sono all’ordine del giorno, al punto che lo scorso dicembre, a seguito del ritrovamento dell’ennesima fossa comune, la popolazione locale, esasperata, è scesa in strada e ha cominciato a prendere a sassate le abitazioni dei membri della milizia. Il problema del disarmo dei miliziani in Libia rimane ancora irrisolto, eppure sarebbe la prima cosa da fare per uscire dal caos e ricostruire il paese. Solo una settimana fa, il nuovo governo di unità nazionale presieduto dall’imprenditore misuratino Abdul Hamid Dbeibeh, ha giurato a Tobruk. Nonostante l’accordo raggiunto tra le parti dopo mesi di trattative, la situazione della sicurezza sul territorio rimane precaria. L’esecutivo creato sotto l’egida dell’Onu e degli attori internazionali che direttamente e indirettamente sono intervenuti nel conflitto fra Tripoli e Bengasi, non ha ancora preso il controllo di tutte le istituzioni, né delle carceri, sia a est che a ovest. Pochi giorni fa fonti di Libya Observer hanno riportato la notizia del ritrovamento di 11 corpi, alcuni dei quali ammanettati, abbandonati per strada dietro a una fabbrica di cemento nel quartiere di Hawari, a Bengasi. Il decesso di queste persone risalirebbe a più di dieci giorni fa, quando ancora il tentativo di arrivare a una mediazione politica era in fase di svolgimento e quindi il nuovo governo non era in carica. In Libia operano centinaia di milizie, schegge impazzite che possono vanificare il lavoro diplomatico di mesi in poco tempo, mosse dalla sete di potere e denaro. La milizia Kaniyat dei fratelli Al-Kani è una di queste. “La famiglia Al-Kani è una mafia crudele e organizzata che tiene sotto scacco la gente e se non assecondi le sue richieste, sei automaticamente un nemico da fare fuori come è capitato a noi - racconta Hakim - Ci siamo opposti, non abbiamo permesso che uccidessero delle persone innocenti e li abbiamo denunciati alle autorità. Così siamo diventati loro nemici. Ecco perché ho pensato fin da subito che a mio fratello fosse capitato qualcosa di brutto”. La scelta dell’Ue di sanzionare i membri della milizia Kaniyat è un passo importante per lo meno dal punto di vista simbolico. “Sono contento che l’Unione europea abbia riconosciuto ufficialmente i responsabili di queste gravi violazioni dei diritti umani e li abbia sanzionati - dice Hakim - ma chiediamo giustizia per i crimini che hanno commesso e vogliamo la verità. Ogni giorno io e la mia famiglia controlliamo gli elenchi delle persone ritrovate in quelle fosse, e ogni giorno speriamo di non vedere il nome di mio fratello”. Ieri sono stati identificati i corpi di altre 13 persone ritrovate in una delle fosse comuni di Tarhuna e tra loro non c’è il fratello di Hakim.