Ergastolo ostativo alla Consulta: l’importante segnale dell’Avvocatura dello Stato di Elena Cimmino* Il Dubbio, 26 marzo 2021 Attendiamo l’esito della Consulta che è stata nuovamente invocata per dirimere il “problema strutturale” che l’Italia da 30 anni circa presenta nel suo ordinamento giuridico, vale a dire, la compatibilità tra l’ergastolo ostativo e l’art. 27 della Costituzione che prevede il divieto di pene disumane e la finalità rieducativa della pena. La nostra Consulta già con la sentenza n° 253 del 2019 ha stabilito che, come evidenziato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, l’assenza di collaborazione con la giustizia da parte del detenuto condannato all’ergastolo ostativo non può risolversi in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena e che la presunzione assoluta di permanenza della pericolosità sociale in capo a chi non ha effettuato la scelta collaborativa è incompatibile con la Carta Costituzionale di talché ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art 4bis l. 354/75 nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo ostativo, che non abbia collaborato, possa essere ammesso alla fruizione di permessi premio. Tale importante arresto giurisprudenziale segue la giurisprudenza sovranazionale della Corte EDU che ha più volte affermato (Vinter e altri contro Regno Unito; Viola contro Italia) che la collaborazione con la giustizia non può essere ragionevolmente considerata l’unica forma possibile di manifestazione della rottura dei legami criminali poiché vi sono anche altri indici rivelatori da poter/dover considerare, come i progressi trattamentali del condannato ed il suo percorso di reinserimento sociale che non possono essere mortificati perché costituiscono l’essenza della finalità rieducativa della pena, finalità che hanno e devono avere tutte le pene. In presenza di progressi del condannato verso la risocializzazione, la preclusione assoluta all’accesso di strumenti finalizzati al reinserimento sociale, è trattamento inumano e degradante e mortifica l’art. 27 della Costituzione. La Consulta è chiamata a pronunciarsi nelle prossime settimane sul tema in relazione alla liberazione condizionale, causa estintiva della pena che consente di “praticare” all’esterno la risocializzazione che il detenuto ergastolano abbia dimostrato di aver intrapreso in carcere. Appare evidente che il tema è sempre quello della compatibilità della presunzione assoluta di pericolosità sociale in capo a chi non ha effettuato la scelta collaborativa e, pertanto, ci aspettiamo -sinceramente- un esito positivo giacché sembra ormai un approdo indiscutibile quello per cui la collaborazione non è l’unica forma possibile di manifestazione della rottura dei legami criminali ed infatti l’Avvocatura dello Stato ha sostenuto la necessità che il giudice di sorveglianza abbia la possibilità di verificare le ragioni della mancata collaborazione, scelta non sempre libera. L’Avvocatura dello Stato quindi ha riconosciuto che la presunzione assoluta di pericolosità non può trovare cittadinanza nel nostro ordinamento giuridico. La posizione assunta dalla parte Pubblica è un segnale importante giacché per circa 30 anni si è valorizzata la legislazione emergenziale ritenendola, con forzature ormai non più proponibili, compatibile con la convenzione dei diritti dell’uomo e con la nostra Costituzione trascurando completamente che l’ergastolo per molti diventava pena incomprimibile e, quindi, disumana e degradante in quanto preclusiva del diritto alla speranza, quella speranza che “inerisce strettamente alla persona umana”. Per 30 anni si è ridimensionato il valore del percorso risocializzante effettuato dai detenuti che non hanno intrapreso la scelta collaborativa poiché tale percorso non aveva uno sbocco realmente risocializzante non potendo nemmeno essere valutato da un giudice. Ebbene, finalmente anche lo Stato ha riconosciuto che il giudice di sorveglianza deve poter valutare questo percorso perché è in esso che potrà individuare in concreto quei segnali di sicuro ravvedimento richiesti dalla Legge e potrà verificare, quindi, le ragioni della “non collaborazione”. Nessuno smantellamento del sistema di contrasto alla criminalità organizzata si è instaurato con il “cambiamento di rotta” espresso dall’Avvocatura dello Stato, come hanno tuonato con chirurgica, puntuale solerzia i soliti professionisti dell’Antimafia bensì la mera, doverosa, tanto attesa applicazione dei principi costituzionali e sovranazionali che, per troppo tempo, hanno ceduto di fronte alle scelte di politica criminale dei Legislatori che, come ha osservato la Corte di Cassazione, “plasmando la disciplina di cui all’art. 4bis l. 354/1975, hanno trasfigurato in maniera deformata la libertà di non collaborare, che non può essere disconosciuta ad alcun detenuto”. Speriamo quindi che la Consulta tolga un altro mattone al muro dell’ergastolo ostativo e che, in pieno rispetto della Costituzione, legge vigente che l’Avvocatura dello Stato ha il dovere di tutelare, si possa gradualmente ma finalmente eliminare quel “nostro problema strutturale” individuato dalla Corte Edu che merita ed attende già ormai da due anni circa una seria iniziativa riformatrice. *Vice-presidente del Carcere Possibile Onlus Ergastolo ostativo, ecco perché Falcone non l’avrebbe mai voluto di Tiziana Maiolo Il Riformista, 26 marzo 2021 Ha creato il “pentitificio” e il regime di tortura del 41bis. Sarà prima di Pasqua o sarà dopo Pasqua, ma una cosa è certa. Che l’ergastolo ostativo, quello del “fine pena mai” debba essere dichiarato incostituzionale. E che i tempi sono ormai maturi perché si spazzi via l’intera legge voluta nel 1992 dal governo Andreotti dopo l’uccisione di Giovanni Falcone, quella destinata a creare il “pentitificio” e anche il regime di tortura del 41bis. Quella normativa che il giudice assassinato, contrariamente a quanto affermano oggi i magistrati “antimafia”, non avrebbe mai voluto. All’interno della legge che aveva creato l’ergastolo ostativo del “fine pena mai” e che nasceva da un decreto dei ministri Scotti (interno) e Martelli (giustizia), oltre alla modifica dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, c’era anche la nascita del 41bis, quello che creava il carcere impermeabile e che isolava una serie di detenuti dal resto del mondo trasformandoli in uomini-ombra. La morte di Falcone non solo aveva creato un grande lutto nel Paese, ma aveva letteralmente fatto saltare i nervi a un governo ormai agli sgoccioli insieme alla Prima Repubblica, incapace di catturare i principali boss di Cosa Nostra, tutti ancora latitanti, ma anche di attenersi a quelle basi dello stato di diritto cui il magistrato assassinato si era sempre ispirato. A coloro, dal consigliere del Csm Nino Di Matteo fino al leader della Lega Matteo Salvini, che minacciano “giù le mani dal 4bis di Falcone” occorre un breve ripasso. Il provvedimento del magistrato non ha mai legato l’accesso ai benefici previsti dalla riforma del 1975 al “pentimento” del detenuto, ma semplicemente alla necessità che fossero acquisiti elementi per escludere collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Non c’erano quindi criteri oggettivi e neppure l’inversione dell’onere della prova. Era compito del giudice di sorveglianza accertare la mancanza di rapporti tra il mafioso in carcere e l’organizzazione esterna. Filosofia opposta quella del decreto Scotti-Martelli dell’8 giugno 1992, che attribuiva al detenuto il compito di dimostrare, solo e soltanto attraverso la collaborazione con i pubblici ministeri, di non essere più organico alle cosche. Va ricordato che quel decreto aveva suscitato non solo l’immediato sciopero degli avvocati, ma anche la ferma opposizione in Parlamento di tutta la sinistra, quando ancora era in gran parte garantista. Dalla parte del governo si schierò poi, in un certo senso, proprio la mafia, che il 19 luglio fece saltare in aria l’auto di Paolo Borsellino. Vinsero loro, e fecero crollare lo Stato di diritto e gli ultimi barlumi di civiltà giuridica. Così la legge fu votata. Sono passati quasi trent’anni. E si deve arrivare al 2019 perché la Corte Costituzionale presieduta da Giorgio Lattanzi e di cui era componente anche Marta Cartabia, cominci a mettere lo sguardo, anche fisicamente, dentro le carceri e scopra l’esistenza degli uomini-ombra del 41bis, quelli che non possono neanche scambiare tra loro una mela o un libro. E a notare che anche persone in carcere da trent’anni, quindi oltre il limite previsto dal codice per aprire le porte anche agli ergastolani, non potevano godere neppure di brevi permessi-premio. Nasce così la sentenza numero 253 che, se pur su un tema limitato, scavalca la legge del 1992 e ritorna ai principi del provvedimento di Falcone, riaffidando ai giudici di sorveglianza il dovere di verificare caso per caso se il detenuto merita di andare in permesso. Quasi in contemporanea, il 13 giugno del 2019, una sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia (processo Viola) per l’incompatibilità tra l’ergastolo ostativo e l’articolo 3 della Convenzione. La strada è aperta. Si arriva così alla sentenza della corte di cassazione su un caso specifico, quello del detenuto Salvatore Francesco Pezzino, che più volte aveva avanzato richieste di libertà condizionale denunciando la propria impossibilità a collaborare con i magistrati. La cassazione prende di mira finalmente l’incostituzionalità dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, proprio perché con i suoi automatismi impedisce al giudice la verifica sul comportamento e la possibilità di reinserimento. Concetti cui si è allineato due giorni fa l’Avvocato generale dello Stato, cioè il rappresentante del Governo, che non è più il governo Conte con il ministro Bonafede, ma quello di Draghi e Cartabia. Cui chiediamo di dare un’occhiata anche agli uomini ombra del 41bis, quell’articolo dell’Ordinamento penitenziario che la Direzione nazionale antimafia, nella sua relazione annuale di un mese fa, ha chiesto venga “potenziato” e “mai attenuato”. Un buon motivo per riformarlo, o magari abolirlo. Ricordando che le emergenze del 2021 non sono proprio le stesse del 1992. Ergastolo ostativo, non vorrei essere nei panni di un magistrato di sorveglianza di Stefania Limiti Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2021 Non vorrei essere un magistrato di sorveglianza chiamato a valutare la concessione dei benefici penitenziari ad un detenuto condannato all’ergastolo per reati di mafia. Nessuno di noi vorrebbe, perché quel magistrato potrebbe trovarsi nella condizione di essere minacciato, di subire interferenze odiose. Eppure è quel che potrebbe accadere se la Consulta deciderà di assecondare l’Avvocatura generale dello Stato in merito alla decisione di cancellare il cosiddetto “ergastolo ostativo”, cioè quello che impedisce ad un mafioso in carcere di venirne fuori solo se decide di pentirsi e collaborare con lo Stato, provando la rottura del patto mafioso con la rete di criminalità di cui era parte. Nella seduta di martedì 23 marzo l’Avvocatura, intervenuta attraverso l’avvocato Ettore Figliolia, ha proposto una mediazione: non dichiarate incostituzionale l’articolo 4bis (legge 203/91) dell’ordinamento penitenziario sulla “liberazione condizionale” in assenza del “pentimento” del mafioso, ma consentite che sia il giudice di sorveglianza, sempre dopo 26 anni già scontati, a valutare il percorso carcerario compiuto. La spinosa questione nasce dalla richiesta di un uomo che, dopo 30 anni di reclusione inflitti per un reato di mafia, dice di non avere nulla da dire per dare un contributo di conoscenza allo Stato e chiede di poter accedere ai benefici concessi agli altri ergastolani: la faccenda deve farci riflettere senza furori perché quell’eventualità si può verificare. Potrebbe accadere che una persona non ha nulla di rilevante da dire, o che potrebbe farlo solo riguardo ad altre persone ormai morte. In attesa di quella sentenza ne ho parlato molto con Giuliano Turone, a lungo giudice di Cassazione dopo aver scoperto nel 1981 gli elenchi della P2 e di cui oggi esce l’aggiornamento di Italia occulta, un best seller edito da Chiarelettere. Secondo lui, a rigore non si può escludere che un ergastolano mafioso anche non collaborante, dopo 26 anni di detenzione carceraria, non sia più legato al sodalizio di originaria appartenenza. Tuttavia, ciò deve risultare da elementi oggettivi che vadano al di là di una generica “buona condotta” detentiva. Come volete che si comportino i mafiosi in carcere? Secondo un loro codice che prevedrà assai probabilmente di non dare adito a troppe storie. Gli automatismi sono sempre un grande rischio. Turone mi spiega che la liberazione condizionale deve sempre accompagnarsi a un’ordinanza di libertà vigilata (articoli 228 e 230 c.p.) ma “si tratta di una misura di sicurezza attualmente applicata a coloro che sono ammessi al beneficio con controlli meramente burocratici, del tutto inidonei a vagliare in modo adeguato il comportamento del soggetto ammesso alla liberazione, qualora questi fosse, appunto, un ex-ergastolano mafioso, ancorché - apparentemente - non più legato a quell’ambiente criminale”. Insomma, lo Stato deve essere in grado di riconoscere chi ha davanti: solo così può assumersi la responsabilità di concedere benefici a chi ha fatto parte di un patto mafioso, nuocendo gravemente alla società: può lo Stato farlo? Può lo Stato misurare la propria capacità investigativa? Magari capendo bene cosa fa il detenuto condannato per mafia mandato in permesso premio “può essere una grande opportunità investigativa”, dice Turone. Perché una sentenza della Consulta (ottobre 2019) ha già giudicato incostituzionale vietare i permessi premio agli ergastolani ostativi non “pentiti” e ha concesso l’ultima parola appunto al giudice di sorveglianza: durante quei permessi si può capire cosa faccia quella persona, se incontra i suoi ex sodali oppure no. Lo Stato ha la forza per capirlo, evitando che i controlli siano ridotti alla firma settimanale in commissariato? Questo è il grande interrogativo dietro il nodo dell’ergastolo ostativo. Tutto ruota fortemente attorno a questo aspetto della faccenda. C’è da augurarsi che la Corte costituzionale, qualora accolga la soluzione suggerita dall’Avvocatura, stabilisca paletti ferrei dentro i quali quel processo può avvenire. Deve creare le premesse per una maggiore incisività dei controlli in tema di libertà vigilata quando si tratti di ex-ergastolani mafiosi ammessi alla liberazione condizionale, insiste Turone, secondo il quale si deve esigere che vengano introdotte norme specifiche più rigorose circa le “prescrizioni” di vigilanza, che sono previste, dall’art. 228 c.p., in modo molto generico. “Ciò sia per agevolare il lavoro dei giudici di sorveglianza alleggerendone la responsabilità, sia per evitare possibili riavvicinamenti del soggetto all’originario sodalizio mafioso di appartenenza, sia per evitare possibili tentativi del sodalizio stesso di ‘riagganciarlo’ anche con mezzi intimidatori”. Insomma, c’è un modo per bilanciare tutto, senza rinunciare che la lotta alla mafia sia rigorosa, dura, finanche spietata. Coronavirus: un focus sulla situazione carceraria di Pierpaola Meledandri L’Opinione, 26 marzo 2021 Una tematica importante, oggetto d’esame, è riscontrabile nelle tutele patrimoniali per gli eventuali danni biologici, a medio e lungo termine, che si dovessero verificare a seguito della vaccinazione. Per quanto attiene all’efficacia dei vaccini, i dati disponibili sulla immunizzazione dopo sei mesi dalla loro somministrazione ancora non sono stati resi pubblici, così come i dati sulla sua sicurezza nel medio e lungo termine. Qualora si verificassero danni biologici permanenti, nel medio e nel lungo termine, in soggetti sottoposti alla vaccinazione, poiché la vaccinazione è volontaria e per poter essere sottoposti alla stessa occorre firmare un modulo dove si riporta chiaramente che i danni a lunga distanza non sono prevedibili, i dipendenti che con sacrificio stanno lottando in prima linea contro la pandemia e che si vogliono sottoporre a vaccinazione, senza avere notizia sugli effetti collaterali, potrebbero subire la beffa, a seguito dell’insorgenza di danni. Ossia non avrebbero diritto ad alcuna forma d’indennizzo. Premesso quanto sopra, è da segnalare la delicata situazione all’interno delle carceri, ove la stessa detenzione è un fattore di aumento del rischio, poiché i detenuti vivono in un ambiente già di per sé malsano e sovraffollato. Nelle case di pena sia i detenuti comuni, sia i reclusi nelle sezioni di massima sicurezza, vengono a contatto con gli operatori carcerari, a partire dalle guardie penitenziarie, e con i familiari. Inoltre, è da rimarcare che il detenuto asintomatico non viene sottoposto a nessun tampone e quello sintomatico è isolato a titolo preventivo, in apposite sezioni separate, per circa 10-14 giorni. Dopo questo periodo, viene nuovamente testato e, se risulta negativo, è rinviato nelle celle di detenzione ordinarie. Pertanto, anche in questo caso, alla luce della normativa citata e del prefato parere dell’Inail si configurano responsabilità da indennizzo sia per il detenuto, sia del personale che opera a vario titolo all’interno del penitenziario (guardie, operatori, volontari, medici, psicologi, educatori, assistenti sociali, avvocati). É lapalissiano, quindi, che le problematiche per il rischio d’infortunio da Covid-19 all’interno delle carceri rappresentino un problema che travalica il perimetro della casa di pena, essendo quest’ultima connessa con l’esterno. Si può sicuramente affermare che la malattia da Coronavirus va correttamente configurata come infortunio sul lavoro. Tale collocazione garantisce senz’altro una più ampia tutela dell’evento, quantomeno perché così l’Inail interviene non solo nelle ipotesi in cui il lavoro ne sia stato la causa (come avverrebbe, ai sensi dell’articolo 3 del Testo unico numero 1124/65, se si trattasse di tecnopatia), ma anche quando il lavoro ne rappresenti la semplice occasione (vedi articolo 2 del Testo unico). Come noto, la malattia da Coronavirus provoca conseguenze significative, fino al decesso, soprattutto in persone che già soffrono di altre patologie importanti o, comunque, molto anziane. In altre parole, il virus è spesso una semplice concausa del danno. Tuttavia, ciò non preclude né limita la tutela Inail. È infatti pacifico, nella giurisprudenza infortunistica e sulle malattie professionali il riferimento all’articolo 41 del Codice penale, secondo il quale il rapporto causale tra evento e danno è governato dalla regola dell’equivalenza delle condizioni. Ciò significa che va riconosciuta l’efficienza causale a ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta, remota o in veste di fattore accelerante alla produzione dell’evento stesso (si confronti, tra le tante, Cassazione 7 novembre 2018 numero 28454; Cassazione 19 giugno 2014 numero 13959; Cassazione 21 gennaio 1998 numero 535). La Polizia penitenziaria, o gli altri lavoratori in ambiente carcerario, meritano la stessa tutela del personale medico, quando l’attività lavorativa rappresenti la causa del contagio, purché dimostrino la positività al test o, comunque, l’esistenza della patologia e il contatto con persone ammalate in ambiente lavorativo. Un provvedimento di fondamentale importanza che si sta affacciando ora, quale intervento di prevenzione mirata, è rappresentato dalla vaccinazione anti Covid-19 che sarà oggetto di una prossima discussione in questa sede. La popolazione detenuta, la Polizia penitenziaria e tutti gli operatori che lavorano in ambiente penitenziario sono stati identificati a rischio di infezione maggiore, rispetto al resto della popolazione e, per questo motivo, hanno avuto la precedenza nella somministrazione del farmaco rispetto ad altre categorie. In molte regioni sono già iniziate le vaccinazioni ai detenuti e al personale penitenziario. Il problema, per questi soggetti, è rappresentato, piuttosto, da un minor riconoscimento, rispetto al personale sanitario, di sussistenza del nesso eziologico con l’attività lavorativa. La maggiore difficoltà di avvalersi delle presunzioni, tuttavia, non preclude agli interessati la possibilità di far riferimento alla specificità delle mansioni e del lavoro svolto, alla diffusione del virus nella località o nell’azienda dove operano e agli altri fatti noti, dai quali sia possibile trarre presunzioni gravi, precise e concordanti, ai fini della prova presuntiva del rapporto causale o, meglio, di occasionalità della patologia da Covid-19 con l’attività protetta. *Con la collaborazione del Centro studi penitenziari del Coordinamento nazionale operatori per la salute nelle carceri italiane Mauro Palma: “Nelle carceri situazione preoccupante, vaccini qui siano la priorità” di Marco Billeci fanpage.it, 26 marzo 2021 Nei giorni scorsi erano filtrate sulla stampa indiscrezioni sulla possibile scelta del governo di sospendere le somministrazioni di vaccini all’interno delle carceri. Un’ipotesi poi smentita dal commissario per l’emergenza Covid Figliuolo. Ma qual è la situazione dei contagi e dei piani di vaccinazione negli istituti penitenziari? Ne abbiamo parlato con il Garante Nazionale dei Detenuti, Mauro Palma. Alcuni giorni fa si è tornati a parlare della campagna vaccinale nelle carceri italiane, un luogo dove il rischio di nuovi focolai è elevatissimo. Il commissario straordinario per l’emergenza coronavirus, il generale Francesco Figliuolo, dopo un primo momento in cui sembrava che i detenuti negli istituti penitenziari non fossero compresi tra le priorità del piano vaccini, ha rassicurato del contrario. Abbiamo fatto il punto della situazione con Mauro Palma, il garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Pochi giorni fa sui giornali era trapelata la notizia che il Generale Figliuolo fosse pronto a sospendere le vaccinazioni nelle carceri. Il commissario per l’emergenza Covid ha smentito. È rassicurato? Sì. Non solo c’è stata la smentita del Generale Figliuolo, ma anche la pubblicazione del piano vaccinale, secondo cui l’ambiente detentivo va considerato tutto nel suo complesso - includendo sia chi è richiuso sia chi opera all’interno - e ha una sua priorità, come altre comunità chiuse. Si è ritornati quindi all’opzione iniziale, considerando anche che in alcune regioni le vaccinazioni negli istituti sono molto avanti, ad esempio in Abruzzo. E nel resto d’Italia, qual è la situazione? Come avviene anche fuori dal carcere, la situazione è diversa da regione a regione. In molte aree sono partite le somministrazioni di AstraZeneca, mentre il Lazio ad esempio ha scelto di aspettare Johnson & Johnson per fare una sola iniezione, quindi partirà non prima di metà aprile. A oggi, circa 5mila detenuti hanno ricevuto la prima somministrazione. Poi ovviamente, anche dentro le carceri bisogna fare una campagna culturale per convincere le persone a vaccinarsi. Io ad esempio domani (oggi per chi legge, ndr) ricevo AstraZeneca, anche per dare un segnale: faccio lo stesso vaccino di chi sta in carcere. Insomma, nessuna ipotesi di fare i vaccini solo negli istituti dove ci sono dei cluster di contagi? È una grande cavolata, anche perché sarebbe un controsenso aspettare l’esplosione di un cluster per fare i vaccini. Credo sia stata un’ipotesi uscita sulla stampa a causa di un’incomprensione, ho avuto diverse rassicurazioni in questo senso, compresa quella di Figliuolo. Al di là delle ultime vicende, però, i contagi all’interno delle carceri sono ancora in aumento. Lunedì erano stati segnalati 570 casi tra i detenuti, ma solo 28 sintomatici. Invece tra il personale c’erano circa 700 casi, ma solo 16 ricoverati. Insomma, bisogna mantenere alta l’attenzione, la situazione è preoccupante, ma non è fuori controllo. Mi sento di tranquillizzare in questo senso anche le famiglie dei detenuti. Il governo sembra ora voler centralizzare le scelte sui piani vaccinali. Secondo lei, per i penitenziari, quale modello andrebbe adottato? Il modello migliore mi pare quello della Lombardia. Sembra un po’ un paradosso visto quello che è successo sui vaccini nella Regione… Sì, ma per le carceri il provveditore ha messo in campo un piano che mi dà tranquillità. Si procede istituto per istituto, considerando ogni carcere nella sua totalità. Chiunque entra a qualsiasi titolo ha diritto al vaccino, senza distinzioni: detenuti e amministrativi, polizia penitenziaria e volontari. Si cerca così di creare sacche di immunità all’interno di ambienti chiusi. Riscontra difficoltà burocratiche o di altro tipo per includere nelle campagne vaccinale gli stranieri irregolari presenti nelle carceri? Per ora no. D’altronde vaccinare tutti è una tutela anche per chi opera in quelli ambienti, penso ad esempio alla polizia penitenziaria. D’altronde l’epidemia non fa differenze amministrative. Spero che anche nei centri per migranti non ci siano difficoltà. Lì le vaccinazioni non sono ancora iniziate, per ora fanno solo i tamponi a chi deve essere rimpatriato. Sa quando partiranno i vaccini dentro i centri per i rimpatri? Sinceramente no, ma tenga presente che in questi centri sono presenti circa 300 migranti quindi il problema è di facile soluzione. Si possono vaccinare tutti in una giornata Cara ministra, le carceri diventino luoghi di umanità e di ascolto di Elena Seishin Viviani* Il Dubbio, 26 marzo 2021 Quante volte risuonano nella nostra mente le parole che compongono l’articolo 27 della nostra Costituzione: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”? Sono parole che non possono lasciarci indifferenti in nessuna occasione, ancora di più in questo periodo di pandemia. Il vuoto, la solitudine della popolazione carceraria è oggi più che mai opprimente. La “sete” dei carcerati non è solo quella di avere il vaccino contro il Covid, ma è quella di trovare chi è capace di ascoltarli, di raccogliere la loro storia e di confessarsi, di mettere a nudo la propria vita. È la mia personale esperienza vissuta per due anni presso il carcere di Saluzzo; venni chiamata dalla direzione del carcere perché si pensava che con la meditazione buddhista si potesse far fronte alla depressione, all’asocialità e alle tendenze suicide che molti ospiti di quella struttura andavano manifestando. Ciò non rispondeva al vero perché quelle persone avevano un disperato bisogno di sentirsi uomo, rispettato per la sua umanità e per questo ascoltato e accolto. Certo, in più occasioni, ci siamo seduti in silenzio meditando. Ma non era la meditazione in sé stessa; era il bisogno di trovare un luogo, un momento dedicato al silenzio rispetto al sordo rumore che spesso risuona nel carcere. Recenti rapporti - non ultimo quello di Antigone- hanno messo in luce come in Italia vi sia un’assenza di cappellani nelle carceri di confessioni diverse dalla cattolica. È un fatto importante considerando come la nostra società si sta sempre più arricchendo di differenti vissuti religiosi. Dario Doshin Girolami, abate del tempio Zenmon Ji di Roma da oltre vent’anni opera all’interno del carcere di Rebibbia ed è impegnato in prima persona nella creazione di una rete di “cappellani buddhisti” a livello europeo perché vi possa essere un fattivo scambio di esperienze e la generazione di “pratiche virtuose” all’interno dei luoghi di sofferenza. Egli ci ricorda come: “l’unica risposta possibile all’insensatezza della realtà nella quale viviamo è la compassione, volerci bene, sostenerci, senza distogliere lo sguardo dalla sofferenza di tutti gli esseri viventi…. il carcere è un buco nero che nessuno vede, la società lo rimuove, ma lì ci sono umani sofferenti; troppo facile condannarli; che vita han fatto per finire li?”. È quanto mi sono sempre chiesta lasciandomi alle spalle il carcere di Saluzzo confrontandomi con le vite di volta in volta incontrate. Unione Buddhista Italiana crede fortemente nell’importanza di essere presenti nelle carceri come negli ospedali: dal prossimo mese di aprile UBI avvierà un programma di formazione specifico rivolto agli Assistenti Spirituali, una delle figure - con i cappellani- espressamente prevista nell’Intesa sottoscritta con lo Stato italiano. È bene che chi andrà a condurre il proprio ministero all’interno delle carceri abbia alle spalle una preparazione solida per la conduzione di gruppi per persone detenute sulla base del programma Cultivating Emotional Balance (Ceb), ossia le sette emozioni universali quali rabbia, paura, tristezza, sorpresa, disgusto, disprezzo e gioia e i quattro equilibri emotivi. Come Ubi crediamo tantissimo in questo progetto. Ci crediamo ancora di più alla luce della tragedia legata alla pandemia che stiamo ancora oggi vivendo. Dobbiamo prenderci cura l’uno e dell’altro considerato come questo periodo ha reso tutti più fragili. È un impegno ancora più forte verso le persone che vivono la comunità carceraria. Ci auguriamo che la Ministra Marta Cartabia- la quale non ha mancato in passato di avere una particolare sensibilità verso il mondo carcerario - possa favorire al meglio la presenza di cappellani di diverse religioni all’interno dei penitenziari. È anche questo un passo per una compiuta attuazione dell’articolo 27 della Costituzione. *Vicepresidente Unione Buddhista Italiana Riforma penale, la gara degli emendamenti tra Cartabia e Montecitorio di Liana Milella La Repubblica, 26 marzo 2021 La commissione Giustizia fissa al 23 aprile la scadenza per presentare le modifiche al processo penale, il centrodestra spinge per il 15. Ma la Guardasigilli ha chiesto tempo fino alla fine del mese prossimo e intanto ha insediato i tre gruppi di studio per le riforme civile, penale e del Csm. Come il gatto e il topo. A colpi di inseguimenti. Da una parte la Guardasigilli Marta Cartabia, dall’altra la commissione Giustizia della Camera che sarà il primo interfaccia per ben due strategici e attesi disegni di legge, la riforma del processo penale, con dentro la prescrizione, ma anche quella del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Mentre la ministra, in via Arenula, insedia le tre commissioni che dovranno fare il tagliando ai testi dell’ex ministro Alfonso Bonafede e preparare gli emendamenti che la ministra stessa presenterà alla Camera. Sulla linea della “discontinuità nella continuità”. Il 9 marzo, nell’unico vertice politico sulla giustizia che finora si è tenuto in via Arenula, Cartabia ha chiesto collaborazione ai partiti, ma ha anche garantito che le riforme di Bonafede sarebbero state il punto di partenza da emendare, il tutto però senza fughe in avanti, nello spirito di corretta collaborazione tra il governo e il Parlamento. Cartabia, insomma, delineava un quadro di dialogo costruttivo. E invece la prima fuga in avanti c’è già stata, quasi a fotografare che comunque la collaborazione non può far rinunciare affatto alla concorrenza. Tant’è che ieri, nella commissione Giustizia della Camera, si è scatenato un vero putiferio sulla data in cui fissare la scadenza per il deposito degli emendamenti al processo penale. Il vecchio termine del 29 marzo deve andare in soffitta, proprio perché Cartabia ha chiesto più tempo per i suoi gruppi di studio e per i suoi emendamenti. Convinta che la Camera non l’avrebbe scavalcata. E invece non è andata così. Soprattutto perché c’è un tecnicismo che va spiegato. Se in commissione vengono presentati gli emendamenti al processo penale di Bonafede, l’atto camera 2435, e poi la ministra a sua volta presenta i suoi emendamenti, a quel punto sarà necessario fare dei subemendamenti, quindi ci sarà un ulteriore passaggio parlamentare. In commissione, appena si apre la questione, il presidente di M5S Mario Perantoni propone che il termine del 29 marzo slitti direttamente al 3 maggio, quindi dopo che la ministra Cartabia ha presentato i suoi emendamenti. Ma Forza Italia, Lega ed Enrico Costa di Azione contrappongono un’altra data, il 15 aprile, quindi “prima” del passo in avanti di Cartabia. Anche Italia viva sposa la soluzione del 15 aprile. Sempre con il dichiarato scopo di anticipare gli emendamenti della ministra. E soprattutto anche per la possibilità di sub-emendare il testo su cui influirà poi il lavoro della commissione ministeriale. All’opposto il Pd con Alfredo Bazoli la pensa all’opposto. Chiede di non fare giochetti sulle date e soprattutto di non assumere comportamenti scorretti nei confronti di Cartabia, che non solo ha garantito di presentare i suoi l’emendamenti, ma ha chiesto piena collaborazione ai parlamentari. Anche M5S condivide questa linea e fa asse con il Pd. Un gioco a rimpiattino. Nel quale la commissione Giustizia della Camera vuole esercitare appieno le sue funzioni e “tenere sotto controllo” la Cartabia e le due riforme che le competono. Con un scontro duro all’interno della maggioranza, da una parte Pd e M5S, dall’altra Italia viva con Forza Italia, Lega e Azione. Tant’è che in commissione ieri se n’è discusso per oltre due ore. Alla fine passa la data del 23 aprile, quindi prima degli emendamenti ministeriali, di fatto una sorta di “tradimento” rispetto agli accordi presi nell’ultimo e unico vertice sulla giustizia. In questo lavorio ai fianchi, in via Arenula partono i tre gruppi di studio chiamati a “riformare” la legge di Bonafede. Per il processo penale ecco il vertice affidato all’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, con due vice di peso, come l’ex presidente della Cassazione Ernesto Lupo e il docente di diritto penale Gian Luigi Gatta. Mentre per la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm la guida del gruppo sarà del costituzionalista Massimo Luciani. Ma con lui anche Renato Balduzzi, docente di diritto costituzionale ed ex componente laico del Csm, nonché Nello Nappi, giudice in Cassazione, anche lui un ex Csm molto battagliero, autore di un libro che ha fatto molto discutere - “Quattro anni a Palazzo dei Marescialli. Idee eretiche sul Csm - proprio sulle dinamiche del Consiglio e sulla “guerra” tra le correnti. La riforma del civile sarà in mano a Francesco Paolo Luiso, ordinario di questa materia a Pisa. Dalle prime riunioni esce già qualche indiscrezione tecnica sui dettagli dei futuri emendamenti che però, pur rilanciati mediaticamente, vengono del tutto smentiti da via Arenula. Visto anche che siamo solo alle prime mosse delle riunioni che si svolgono a distanza. Presunzione d’innocenza, arriva il lodo della tregua di Errico Novi Il Dubbio, 26 marzo 2021 Il deputato di Azione: “Disposto a ritirare le proposte di dettaglio se c’è intesa sui principi” Perantoni, presidente m5s della commissione Giustizia: “Fiducioso in un esito positivo”. Lodo giustizia secondo atto. Marta Cartabia stavolta resta in “rispettosa attesa”. Ma con esiti favorevoli. Perché è la maggioranza a essere “spontaneamente” vicina a un nuovo accordo sul diritto penale, dopo il piccolo “miracolo” sulla prescrizione. Parlare di pace forse è troppo, ma si può evocare la tregua, a fronte di una tensione gravissima che rischiava aprire una frattura fra i partiti di governo ben prima del mezzogiorno di fuoco sulla norma Bonafede. Garantisti e Movimento 5 Stelle sono dunque vicini all’intesa sulla presunzione di innocenza. Martedì prossimo, quando i capigruppo Giustizia della maggioranza torneranno a incontrarsi in videocall con la guardasigilli, dovrebbe essere siglato l’accordo che prevede il “recepimento secco”, con un emendamento condiviso, della direttiva europea 2016/234. Il testo dell’Europarlamento e del Consiglio europeo vincola appunto le “autorità pubbliche”, e dunque gli stessi magistrati, a non presentare “la persona come colpevole” fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato “non sia stata legalmente provata”. La direttiva sarà recepita dalla maggioranza all’interno della più ampia legge di delegazione europea. In cambio però i parlamentari di centrodestra, e soprattutto Enrico Costa di Azione e Lucia Annibali di Italia Viva, si impegnerebbero a ritirare le altre loro proposte di modifica. Quelle per intenderci con cui Costa vorrebbe tradurre in modo particolareggiato il testo Ue. A cominciare dal vincolo di sobrietà imposto alle Procure nelle conferenze stampa. Miracolo di Cartabia? Non proprio. In realtà i passi avanti sono stati, appunto, spontanei. Da una parte il Movimento 5 Stelle si è reso conto che arroccarsi su un rifiuto totale di adesione alla direttiva Ue sarebbe stato incomprensibile, visto che lo stesso principio è già contenuto all’articolo 27 della Costituzione italiana. Ma ai 5 stelle non piaceva che fossero anticipati in una disposizione di principio, qual è la ratifica di una direttiva comunitaria, norme che, secondo il Movimento, andrebbero accolte in una più ampia riforma del processo. La tregua è già certa? Alcuni contatti ci sono stati. Certo, manca il sigillo definitivo. E tra gli altri, la stretta di mano fra la capogruppo 5 Stelle nella commissione Giustizia di Montecitorio, Carla Giuliano, e il ricordato Costa. Ma interpellato dal Dubbio, il deputato di Azione la mette così: “Se davvero ci fosse disponibilità al recepimento secco della direttiva, non avrei alcun problema ad accantonare gli altri emendamenti. Non per rinunciarvi, ovviamente: li riproporrei in un altro provvedimento”. Disponibilità che ha tutta l’aria di essere decisiva. Perché se la legge di delegazione europea, il veicolo principale a cui agganciare la direttiva, è ancora in commissione, è pur vero che Costa non avrebbe avuto alcun problema a sfidare il no pentastellato e la cautela dem nell’Aula della Camera. Lì cioè dove è possibile chiedere il voto segreto e mandare sotto persino il governo, se dà parere sfavorevole. Siamo ai protocolli preliminari. Martedì prossimo si metteranno le carte sul tavolo. Ma uno che è abituato a parlare con chiarezza come il presidente M5S della commissione Giustizia, Mario Perantoni, fa notare al Dubbio un aspetto essenziale. Premessa: “Sono fiducioso sul fatto che la prossima settimana la maggioranza supererà le criticità sulla legge di delegazione europea”. E aggiunge: “Ricordo che la direttiva sulla quale si è tanto discusso non è una novità del momento: era stata introdotta nel 2017, nel 2018 il governo Gentiloni comunicò all’Europa che l’Italia non aveva nessun bisogno di recepire il contenuto della direttiva in quanto già compreso nel nostro ordinamento”. Tutto vero. Ciononostante Costa ritiene di potersi considerare soddisfatto, visto che, come detto, già il testo “secco” dell’Ue è abbastanza esplicito. Lo ha ben ricordato peraltro sul Dubbio di ieri il professor Giorgio Spangher, punto di riferimento dell’avvocatura penale italiana, che ha definito nel suo intervento “surreale” la lite in corso alla Camera. Il bello della vicenda è che tutti sembrano avvertire il profumo di una mezza vittoria. Gli stessi pentastellati considerano comunque positivo aver fatto slittare alla fase degli emendamenti sul ddl penale (che i deputati dovranno depositare in commissione entro il 23 aprile) la discussione su norme come quelle che vorrebbe inserire Costa. E Cartabia? In “rispettosa attesa”, è la posizione espressa da via Arenula. Con una postilla che si può liberamente aggiungere: visto che nella riunione di martedì scorso la guardasigilli aveva chiesto ai partiti di “trovare un’intesa”, se l’intesa consisterà nel recepimento secco della direttiva, la ministra della Giustizia, la prossima settimana in commissione, sarà ben lieta di esprimere il parere favorevole a nome di tutto il governo. Ermini se non separi le carriere è tutto inutile di Astolfo Di Amato Il Riformista, 26 marzo 2021 Il vicepresidente del Csm, in una intervista, ha dichiarato che nel valutare la professionalità di un magistrato vi sia anche il controllo sulla qualità e tenuta dei suoi provvedimenti. Ma questo confonde due questioni e non basta. I vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, David Ermini, ha tra l’altro dichiarato, in una intervista rilasciata al Messaggero (21 marzo) “personalmente, sono dell’avviso che nel valutare la professionalità di un magistrato vi sia anche un controllo sulla qualità e sulla tenuta dei suoi provvedimenti: se ad esempio la gran parte dei processi chiesti da un pm finiscono in assoluzione o se le sentenze di un giudice civile vengono riformate in quantità, va considerato o no in una valutazione di professionalità?”. Si tratta di una tesi, che è affiorata più volte nel dibattito pubblico sulle modifiche da apportare all’ordinamento giudiziario e che, sinora, non ha trovato il consenso di gran parte della magistratura associata. Può essere la soluzione per evitare il continuo ripetersi di inchieste all’apparenza esplosive, che si risolvono dopo anni in un nulla di fatto, o l’agonia di una giustizia civile, in cui non infrequentemente sentenza di primo grado, sentenza di appello e sentenza di legittimità dicono tre cose diverse ed il giudizio diventa eterno? Certamente no! Ed è singolare che la proposta venga da chi, avendo vissuto in presa diretta i veleni della vicenda Palamara, dovrebbe rendersi conto delle implicazioni di una proposta che si risolve, in definitiva, in una commistione di due temi egualmente sensibili, ma profondamente diversi: carriera dei magistrati e merito dei processi. Lo scandalo Palamara e le rivelazioni contenute nel libro intervista, scritto con Sallusti, hanno rivelato l’esistenza, nell’ambito del inondo giudiziario, di alcuni magistrati mossi da un carrierismo sfrenato e di altri legati da solidarietà politica anche nella gestione delle vicende processuali. Per fortuna, la maggior parte degli appartenenti all’ordine giudiziario non è assoggettata a questa logica. Tuttavia, nel momento in cui vi sono le condizioni perché quel rischio concretamente esista, è razionale ed accettabile introdurre nei giudizi un ulteriore possibile condizionamento legato alla valutazione di sé ed in che misura la decisione potrebbe influire sulla carriera del pubblico ministero o del giudice di grado inferiore? La pervasività dei collegamenti utilizzati per fare carriera, emersa a seguito della vicenda Palamara, non rischia, con una riforma del genere, di tradursi in un fattore di potente condizionamento delle decisioni giudiziarie? A ben vedere, è pacifico che, per i giudici, le conseguenze dell’esito del processo sulla affermazione professionale degli avvocati sono del tutto indifferenti. Si tratta, difatti, di soggetti che, pur appartenendo allo stesso mondo, quello della giustizia, non possono lecitamente appartenere a cordate comuni o coltivare interessi personali convergenti. Questa considerazione porta, allora, a ritenere che una riforma del genere, con riguardo al pm, può avere senso e non tradursi in un aggravamento della situazione esistente, solo se si affianca alla separazione delle carriere. Quanto, poi, alla rilevanza della mancata conferma delle sentenze e, perciò, al rapporto tra giudici collocati nei diversi gradi di giudizio, la proposta di Ermini, oltre a presentare i rischi indicati, non terrebbe altresì conto del fatto che la percentuale delle riforme potrebbe non avere un nesso diretto con la preparazione e la capacità di giudizio. Più convincente, sarebbe, allora affrontare con coraggio il fatto che, anche in magistratura, la regola uno vale uno è priva di base razionale: vi sono magistrati molto preparati ed altri meno, cosi come vi sono magistrati molto equilibrati ed altri meno. Ed allora, la via maestra non può che essere quella di una valutazione, da eseguire con tutte le garanzie e le cautele del caso, dell’attitudinale sulla base delle sentenze scritte. Si tratterebbe di una valutazione, i cui elementi di tensione sarebbero alleggeriti dalla circostanza che essa non influirebbe, comunque, sulla progressione economica, che come è noto è legata alla anzianità. Si aggiunga che la funzione del decidere mantiene inalterata la sua nobiltà a prescindere dal grado nella quale la si esercita. Csm: commissione al via, parte le riforma Cartabia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2021 A guidare il gruppo di lavoro sarà il costituzionalista Massimo Luciani. Dovrà scrivere la riforma del Csm e, più in generale, dell’intero ordinamento giudiziario. Si completa la squadra della ministra della Giustizia Marta Cartabia per affrontare le prossime riforme. Dopo il gruppo di lavoro sul penale, guidato dal presidente emerito della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi, e quello sul civile, presieduto dal processualista Francesco Paolo Luiso, ora è la volta di quello deputato a scrivere la riforma del Csm e, più in generale dell’intero ordinamento giudiziario. A guidarlo sarà il costituzionalista Massimo Luciani, docente alla Sapienza e in campo da tempo con riflessioni e proposte anche sul tema “caldo” del sistema elettorale. Dove da Luciani, intervenendo pochi mesi fa a un convegno di Area, è arrivato l’avvertimento a monte, perché “la riforma del sistema elettorale del Csm non può essere l’occasione per stroncare la libertà di associazione dei magistrati qua talis, specie a fronte di un associazionismo nato e prosperato anche per la spinta di legittime pulsioni ideologiche e culturali. Un simile intento sarebbe, puramente e semplicemente, distonico con l’apertura pluralistica dell’impianto costituzionale”. E tuttavia, a valle, ha spiegato lo stesso Luciani “che vi sia o non vi sia un’organizzazione di tipo associativo, non esiste alcun procedimento elettorale complesso nel quale non si confrontino gruppi comunque organizzati di opinione”. L’appartenenza però non deve andare a detrimento della qualità degli eletti, così per Luciani. E per Luciani la preferenza deve andare a un sistema che preveda la trasferibilità del voto singolo, eliminando le distorsioni del maggioritario, aumentando il potere dell’elettore e favorendo la qualità dei candidati a scapito dei giochi correntizi. Quanto di questa impostazione si tradurrà nelle proposte del gruppo di lavoro si vedrà; di certo la presenza di outsider come Nello Nappi, consigliere in Cassazione, ex componente del Csm e autore di un libro deliberatamente provocatorio come “4 anni a Palazzo dei Marescialli - Idee eretiche per la riforma del Csm” e del costituzionalista della Cattolica di Milano, ma anche ex ministro della Salute nel Governo Monti e componente del Csm, Renato Balduzzi, potrebbero fare emergere soluzioni innovative per una riforma strettamente collegata alla necessità di un recupero di credibilità della magistratura dopo lo scandalo delle nomine pilotate ai vertici degli uffici giudiziari (ieri Luca Palamara è stato ascoltato dal Csm). Soluzioni innovative per molti prefigurate dalla stessa Cartabia che, nelle linee guida della sua amministrazione esposte al Parlamento, ha aperto, per esempio, all’ipotesi di un rinnovo biennale dei componenti del Csm, sia laici sia togati. Di certo non sarà facile calibrare le scelte del ministero e le aspettative delle forze politiche che sostengono la maggioranza, come plasticamente dimostrato in commissione Giustizia alla Camera, dove un asse tra Lega, Forza Italia, Italia Viva e Azione, ha permesso di fissare una data, il 23 aprile, per la presentazione degli emendamenti alla riforma penale antecedente a quella che vedrà formalizzate le proposte del Governo. Uno sgarbo a Cartabia che così si è vista scavalcata. Trattativa Stato-mafia, i documenti sconfessano le “nuove” trame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 marzo 2021 Alla vigilia della conclusione dell’appello del processo trattativa Stato-mafia spunta il giallo del cellulare di uno dei referenti di Provenzano. Si parte da capi d’accusa ben precisi nei confronti degli imputati al processo presunta trattativa Stato-mafia, ma strada facendo spuntano fuori altri elementi. Ma sono sempre gli stessi. Quelli che fanno giri immensi, ma che poi ritornano. Sì, perché nonostante i processi clone nei confronti degli ex Ros, poi finiti con l’assoluzione, le tesi giudiziarie medesime riaffiorano in corso d’opera. L’ultimo atto del processo d’appello della trattativa Stato-mafia, ora agli sgoccioli perché a maggio dovrebbe finalmente iniziare la discussione, riguarda la vicenda della perquisizione di Giovanni Napoli. Parliamo di un veterinario, arrestato per essere stato un referente mafioso di Mezzojuso e soprattutto per aver dato sostegno logistico a Bernardo Provenzano. Una vicenda che si inquadra nel discorso della mancata cattura di quest’ultimo. Un argomento, questo, in realtà già sviscerato dalla sentenza di assoluzione del processo Mori-Obino. I due ex ufficiali erano stati accusati di aver favorito la mancata cattura dell’allora superlatitante, ma assolti definitivamente dall’accusa sostenuta dal procuratore generale Roberto Scarpinato e l’allora sostituto pg Luigi Patronaggio. I floppy furono consegnati a Gioacchino Genchi - Ma i procuratori generali del processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia, hanno delegato degli accertamenti alla Direzione investigativa antimafia. Hanno ritenuto sospetto il fatto che la perquisizione in casa di Napoli e la prima, non riuscita, analisi dei floppy sia stata affidata a due carabinieri, uno da poco arrivato al Ros e un altro appena ventenne senza alcuna esperienza. Un giallo? In realtà non c’è stato alcun insabbiamento, dal momento in cui i Ros - di comune accordo con la procura di Palermo - hanno consegnato i floppy disk a uno dei più qualificati e conosciuti esperti informatici dell’epoca, ovvero Gioacchino Genchi. Lui stesso si lamenta di averli tuttora in casa, nonostante abbia più volte sollecitato la Procura a ritirare il materiale e a liquidare la parcella per la consulenza. Sicuramente c’è una spiegazione plausibile, ma i Ros cosa c’entrano in tutto ciò? Un altro mistero che mistero non è - Si aggiunge però un altro mistero, che come vedremo più avanti mistero non è. Dopo pochi giorni dall’arresto di Giovanni Napoli, i Ros restituirono alla moglie due telefonini e un rilevatore di microspie satellitari. Ed è qui che nasce un dubbio. Come mai? Hanno almeno fatto delle analisi? Non è questione di poco conto e per capire meglio bisogna fare un passo in dietro. Durante il processo trattativa Stato-mafia di primo grado, l’allora pubblico ministero Antonino Di Matteo interroga il pentito Ciro Vara, il quale racconta di avere ricevuto delle confidenze da Giovanni Napoli: “… in certi dischetti avevano registrato delle cose interessanti che conservava il Napoli, tanto è che quando hanno fatto la perquisizione a casa del Napoli, poi il comandante della stazione dei carabinieri di Mezzojuso poi dopo qualche giorno ha consegnato questi dischetti e effettivamente mi diceva il Napoli c’era qualche, qualche cosa interessante da estrapolare… qualche cosa che poteva essere utile agli inquirenti… mi ha detto soltanto queste testuali parole, che c’erano questi dischetti, sono stati sequestrati e che c’erano delle cose interessanti che riguardavano Provenzano, e che sono stati restituiti dopo pochi giorni. Solo questo”. Ora sappiamo che i floppy disk non sono mai stati restituiti, ma fatti analizzare da Genchi. Infatti i procuratori generali che rappresentano l’accusa al processo d’appello trattativa Stato-mafia, dicono che il pentito Ciro Vara potrebbe aver fatto confusione quando ha parlato delle confidenze ricevute da Napoli. Quest’ultimo parlò di floppy disk, ma in realtà si trattava dei telefonini. E in effetti tutto torna. Sono stati i telefonini a essere restituiti. Tutto scritto nero su bianco dalle note che i Ros hanno mandato all’allora procuratore aggiunto di Palermo Maria Teresa Principato, magistrata seria e che da anni è stata impegnata nella cattura del super latitante Matteo Messina Denaro, tanto da fargli terra bruciata con arresti e sequestri di beni. Dalle note inviate in procura, emerge che, prima di restituire il telefonino, i Ros lo hanno analizzato ricavando ben 96 utenze. Nella nota datata 10 novembre 1998 e sottoscritta dal capitano Michele Sini, si legge infatti che “nel corso dell’operazione di perquisizione (l’abitazione di Napoli, ndr), il personale di questa sezione anticrimine riveniva apparati cellulari nella disposizione del prevenuto”. E aggiunge che “da un successivo esame della memoria del Motorola micro tac avente nr. di serie 5802YG1P7S si riusciva ad estrarre nr. 96 numeri telefonici”. Prosegue: “Si trasmette, pertanto, l’unito verbale di restituzione materiale, nonché l’annotazione redatta e comprensiva dei numeri telefonici esistenti in memoria”. Tutto alla luce del sole - I Ros hanno spiegato tutto quello che hanno fatto, ogni singola operazione, alla procura competente. Ma ritornando alla confidenza che Napoli fece al pentito Vara, c’erano elementi importanti che potessero destare preoccupazione ai mafiosi, in particolare a Provenzano, visto che si parla del suo tesoro? Ebbene sì. I Ros hanno analizzato tutte le utenze telefoniche e fatto visure per ognuno delle società legate ai nomi che erano entrati in contatto telefonico con Giovanni Napoli. Tutto scritto nero su bianco, tant’è vero che emerge una incredibile mappatura riguardante gli affari. Parliamo degli appalti. Compaiono diverse società che già erano attenzionate (il dossier mafia-appalti) dai Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno quando Falcone e Borsellino erano ancora in vita. In queste utenze analizzate erano usciti fuori i nomi di chi si adoperò per costringere aziende nazionali a fare affari con i corleonesi. Anche Provenzano aveva il suo “ministro dei lavori pubblici” - Solo un esempio per far necomprendere la portata. Nella nota dei Ros dove si annota l’analisi fatta al telefonino, si legge testualmente di presunte responsabilità di uno degli utenti in contatto con Napoli nell’appalto delle forniture al sistema di Telecontrollo del consorzio Basso Belice Carboj. “In particolare- si legge nella nota dei Ros inviata alla procura di Palermo - gli indiziati, avvalendosi della forza intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento, avrebbero, attraverso forme di corruzione costate al gruppo Gal - Isytech - Motorola oltre trecento milioni di lire, già pagati sotto forma di viaggi in Israele e negli Stati Uniti oltre che con soldi consegnati in contanti, consentito l’aggiudicazione della fornitura del Sistema di Telecontrollo del consorzio Basso Belice Carbo, a favore della Motorola”. Precisiamo. Parliamo di presunti fatti risalenti agli anni 90, ma che rendono bene l’idea dell’importanza degli affari con gli appalti. Sappiamo che anche Provenzano aveva il suo “ministro dei lavori pubblici”, ed era Giuseppe Lipari. Tutto questo serve per dire che non c’è alcun giallo sulla perquisizione dell’appartamento di Giovanni Napoli. L’operazione è stata trasparente e senza tenere nulla all’oscuro della Procura. L’unico dato negativo che emerge è la smemoratezza dei Ros che parteciparono all’operazione, tant’è vero che - sentiti come testimoni al processo trattativa Stato-mafia in corso - non si ricordavano nemmeno cosa hanno firmato o meno. Non ricordarlo dà adito a non poche suggestioni. Ma quello che conta in un’aula di tribunale, almeno in uno Stato di diritto, sono le prove. Se trattativa c’è stata, bisogna capire quali favori avrebbe ricevuto in cambio la mafia. Finora sono oggettivamente difficili da visualizzare. Vedremo cosa diranno i pg durante la discussione e cosa risponderà la difesa. La sentenza potrebbe arrivare a ridosso dell’anniversario della strage di Via D’Amelio. Palamara interrogato al Csm: sospetti su una fuga di notizie di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 26 marzo 2021 L’incontro tra il suo avvocato e un consigliere alla vigilia dell’audizione. L’audizione di Luca Palamara torna a scuotere il Consiglio superiore della magistratura. Non tanto per ciò che ha detto ieri l’ex consigliere davanti alla prima commissione del Csm, quanto per il singolare incontro, alla vigilia dell’interrogatorio, tra il suo avvocato e uno dei componenti di quella stessa commissione. Si tratta di Alessio Lanzi, avvocato anche lui e consigliere “laico” in rappresentanza di Forza Italia, che dà una spiegazione del tutto banale e lecita della visita effettuata nello studio di Roberto Rampioni, uno dei legali che assiste Palamara imputato di corruzione a Perugia. Tuttavia quando al Consiglio s’è venuto a sapere, in maniera casuale, di questa curiosa coincidenza, i malumori sono arrivati fino al Comitato di presidenza, che ha incontrato la commissione prima dell’audizione di Palamara. La convocazione dell’ex presidente dell’Associazione magistrati espulso dall’ordine giudiziario (nel quale spera di essere riammesso, dopo aver presentato ricorso in Cassazione contro la radiazione) era stata decisa e comunicata all’interessato mercoledì, senza svelare gli argomenti sui quali gli sarebbero state fatte domande. Poi, all’ora di pranzo, Lanzi è andato a trovare il collega che difende Palamara, e nel pomeriggio la commissione che si occupa degli eventuali trasferimenti d’ufficio per presunte incompatibilità ambientali, s’è riunita nuovamente deliberando a maggioranza (con il voto favorevole pure di Lanzi) di allargare l’oggetto dell’audizione: non solo la posizione del procuratore di Milano Francesco Greco, come inizialmente previsto, ma anche quella del procuratore aggiunto di Roma Angelo Racanelli. Due pratiche aperte da tempo e apparentemente destinate all’archiviazione (per Racanelli c’era già una proposta che il plenum ha rimandato in commissione), che però potevano fornire a Palamara lo spunto per tornare su argomenti affrontati spesso nelle interviste televisive seguite alla pubblicazione del suo libro intitolato Il sistema. A decisione presa, al Csm s’è venuto a sapere dell’incontro tra Lanzi e Rampioni, e nel palazzo c’è chi l’ha messa in relazione all’audizione di ieri, nonché all’0perazione politico-editoriale innescata dal libro di Palamara. Una fuga di notizie anticipata, insomma, che Lanzi invece ha negato con decisione. E anche dopo l’interrogatorio dell’ex magistrato ribadisce: “Con il collega Rampioni c’è un’antica amicizia e frequentazione, abbiamo parlato di problemi legati all’università dopo che lui è andato in pensione. Palamara non c’entra niente, e nell’audizione io ho avuto un ruolo del tutto passivo, tant’è che non ho fatto alcuna domanda”. Il comitato di presidenza e la prima commissione hanno preso atto della versione di Lanzi, ma il disappunto della presidente della commissione Elisabetta Chinaglia (che fa parte di Area, il gruppo della “sinistra giudiziaria”) e di altri consiglieri resta ed è “agli atti”. Se ci saranno strascichi e conseguenze si vedrà nelle prossime settimane. Sul contenuto dell’audizione, svoltasi a porte chiuse come avviene normalmente, Palamara - giunto a palazzo dei Marescialli con Rampioni - si limita a dire: “Ho parlato di fatti specifici, e in particolare degli uffici giudiziari di Roma e Milano; ho parlato di quanto emergeva dalle chat, ma il discorso si è poi allargato al trojan”. Durante la deposizione l’ex consigliere si sarebbe soffermato più sulle vicende romane che su quelle milanesi, e il riferimento al trojan (che trasformò il suo telefonino in una microspia) riguarderebbe soprattutto un’intercettazione tra lui e Racanelli alla vigilia del voto del Csm per la successione all’ex procuratore Giuseppe Pignatone. Ecco perché un Comitato per Ambrogio Crespi di Andrea Nicolosi* Il Riformista, 26 marzo 2021 Coltivare la speranza, ottenere una pronuncia di assoluzione o la grazia per un uomo che ha aiutato a riabilitare tante persone. L’idea di un Comitato Per Ambrogio Crespi è germogliata naturalmente, dall’attività di Nessuno Tocchi Caino, la notte del 9 marzo 2021, quando non si dormiva, per la condanna in Cassazione di Ambrogio Crespi, a 6 anni di reclusione per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Il Comitato è nato dalla ferma convinzione che Ambrogio Crespi sia innocente. Al di fuori del processo, l’incompatibilità tra Ambrogio e il reato che gli viene attribuito è sancita dalla sua vita, dalle sue opere cinematografiche, dalla opinione di chi lo conosce persona per bene, sensibile, generoso, pacifico, contro ogni violenza e, ancor più, contro le violenze delle organizzazioni criminali, alle quali ha opposto la forza della sua arte, la sua ferma condanna, la sua lotta culturale a viso aperto, a rischio della sicurezza e della propria vita. Ho conosciuto per primo, tra le opere di Ambrogio, il capolavoro artistico di Spes Contra Spem - Liberi Dentro, manifesto della lotta alla mafia, cominciamento di rivoluzione culturale e giuridica, che testimonia realisticamente, senza finzioni né sofisticazioni, il percorso di maturazione interiore e rieducazione al senso etico e sociale dei condannati al “fine pena mai” detenuti nel carcere di Opera. Un capolavoro artistico che ha contribuito senz’altro alla fioritura della sentenza Viola contro Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo, la sentenza che ha ribadito il divieto inderogabile di trattamenti inumani e degradanti e riconquistato ai condannati all’ergastolo senza speranza il diritto alla speranza. Qualche giorno fa, Gaetano Puzzangaro, uno dei protagonisti di Spes Contra Spem, ha incontrato la voce di Ambrogio, detenuto nello stesso carcere di Opera, in una cella nei pressi della sua. Chissà quale tuffo al cuore, quale commozione a sentire l’uomo che si era piegato sulle sue sofferenze di detenuto senza speranza, riuscendo a farla emergere una speranza, nei lievi bagliori di bellezza che cominciavano a sbucare, come timidi fiori di campo, dalle “macerie della sua esistenza”. Così lui stesso ha definito la sua vita dopo l’omicidio del giudice beato Rosario Livatino, per il quale oggi prega e con il quale oggi parla. Chissà quale senso di separazione interiore a vedere uno Stato, l’Italia, che - dopo aver rinunciato, in nome dell’emergenza, alla dignità del condannato al carcere ostativo ed a valorizzarne i segni reali di cambiamento - incarcera un uomo che ha contribuito così fortemente a riabilitare la speranza nella risocializzazione sua e dei condannati come lui. Chissà cosa avrà provato Gaetano Puzzangaro a vedere uno Stato che cade nel gigantesco errore e misfatto di divenire Caino (come lo è stato lui del beato Livatino) di un innocente Abele, di processare e condannare Ambrogio Crespi. A vedere uno Stato eseguire una pena - che ai sensi della Costituzione dovrebbe essere volta alla riabilitazione - nei confronti di una persona come Ambrogio che ha riabilitato persone e non richiede di essere riabilitata. Ho conosciuto l’uomo Ambrogio, la sera della pronuncia della Cassazione. Un uomo oppresso dal dolore ma che teneva alta la sua grande dignità e si diceva grato, infinitamente grato, per la solidarietà che riceveva in quel momento così drammatico. Ambrogio era incredulo, stupefatto, smarrito per la condanna ma bisognoso di voler capire, di sperare, di poter credere ancora nella giustizia “...perché, perché?!...Non capisco perché!?”, continuava a chiedere con una voce rotta dal pianto, senza mai proferire parole di squalifica o sdegno verso i giudici, nonostante si sentisse ingiustamente offeso, tradito, pugnalato. La verità è che questa drammatica storia non riguarda solo Ambrogio e la sua famiglia ma ciascuno di noi: a ogni innocente può capitare lo stesso destino infausto. La condanna di Ambrogio è una ferita sociale - proprio come quella di “Enzo Tortora, una ferita italiana” - trasversale, che mina i principi del giusto processo e la certezza del diritto e può pericolosamente rompere la fiducia collettiva nelle istituzioni e nella giustizia. Insinua una insicurezza sociale che smarrisce e paralizza. Il Comitato per Ambrogio Crespi ha lo scopo di coltivare la speranza e ripristinare la verità. Di collaborare con Ambrogio, i suoi legali, la sua famiglia per far riemergere la sua innocenza, con tutti i mezzi possibili contemplati dall’ordinamento giuridico, per ottenere una pronuncia di assoluzione o la grazia del Presidente della Repubblica. Ravvisa, per altro verso, la necessità di aprire un pacifico e approfondito dibattito collettivo che miri alle riforme della Giustizia strumentali a ripristinare in via più sostanziale lo stato di diritto, una giustizia più giusta, informata al senso di umanità, protesa al rispetto del valore universale della dignità umana. La necessità è posta dal senso di considerazione e tutela dei tanti Ambrogio Crespi che scontano condanne carcerarie in via preventiva o definitiva e che, sconosciuti ai più, non hanno alcun comitato che li sostenga, alcuna cassa di risonanza che faccia risuonare il silenzioso lamento di un innocente. *Presidente Comitato di Nessuno tocchi Caino per Ambrogio Crespi Campania. “Paralisi dei Tribunali di Sorveglianza”, la denuncia delle Camere penali Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2021 I penalisti denunciano la “sistematica, atavica e non più tollerabile compressione dei diritti dei detenuti” e preannunciano “iniziative di protesta”. Sul piede di guerra le Camere Penali di Napoli, Benevento, Irpina, Napoli Nord, Nola, Santa Maria Capua Vetere e Torre Annunziata, che in maniera unanime denunciano “le gravissime condizioni in cui versa il Tribunale di Sorveglianza partenopeo”. “Le gravissime e croniche disfunzioni del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, rese ancora più acute dall’attuale contesto emergenziale - tuonano - oramai non sono più tollerabili. Da troppi anni nel distretto di Corte di Appello di Napoli viene sistematicamente mortificato il diritto dei detenuti ad espiare la pena secondo principi e modalità conformi al dettato costituzionale”. “La sistematica, atavica e non più tollerabile compressione dei diritti dei detenuti da parte dell’Ufficio di Sorveglianza di Napoli - incalzano le Camere Penali - necessita di risposte ferme e tempestive e di un’assunzione di responsabilità da parte di tutti i protagonisti della giurisdizione”. E invitano “tutti i magistrati e lo stesso presidente del Tribunale di Sorveglianza, che peraltro in numerose occasione hanno pubblicamente evidenziato le gravissime condizioni in cui versa il Tribunale di Sorveglianza partenopeo, a rendere note le eventuali ragioni ostative all’adempimento ed a valutare ogni forma di sollecitazione, ivi inclusa la possibilità di autosospendersi dal servizio per impossibilità di rispettare le norme codicistiche e costituzionali, affinché il governo disponga con assoluta urgenza tutti i provvedimenti necessari per l’immediato ripristino nella legalità costituzionale della pena”. Tra le problematiche sollevate: il tempo che intercorre tra la presentazione delle richieste di accesso ai benefici penitenziari e la loro registrazione; il tempo che intercorre tra la registrazione dell’istanza e la fissazione dell’udienza; l’elevato numero di rinvii delle udienze per carenza o assenza di istruttoria; la tempistica di invio delle impugnazioni alla Suprema Corte di Cassazione; la tempistica di decisione in merito ai permessi premio; la tempistica per la valutazione delle istanze di liberazione anticipata; la tempistica per la decisione delle istanze di riabilitazione; la tempistica per la fissazione delle udienze di reclamo; la mancata e/o tardiva registrazione delle informazioni nei sistemi informatici. In assenza di un’effettiva risoluzione delle problematiche o dell’avvio di una congiunta azione di protesta, le Camere Penali distrettuali preannunciano iniziative “di protesta necessarie per garantire ai detenuti il rispetto della dignità e dei diritti allo stato intollerabilmente calpestati”. Campania. Le misure alternative possono salvare la giustizia dal crac di Riccardo Polidoro Il Riformista, 26 marzo 2021 Il mare in burrasca della giustizia italiana continua a fare danni. Oltre a stravolgere la vita di cittadini ritenuti colpevoli, dopo molti anni assolti, a condannare altri a distanza di un lasso di tempo enorme dal fatto-reato, a non riuscire a soddisfare le richieste delle persone offese, a non garantire una detenzione rispettosa dei principi costituzionali, disperde anche enormi risorse finanziarie. Alcuni dei principi fondanti del nostro ordinamento, come la presunzione d’innocenza e la ragionevole durata del processo sono affondati negli abissi di queste acque mai calme e a volte inquinate. Il Riformista ha evidenziato l’esborso legato alle riparazioni per ingiusta detenzione a Napoli e dintorni, il che non riguarda solo “coloro che cadono a mare” o “vi vengono gettati”, ma coinvolge tutta la comunità in quanto le risorse finanziarie che garantiscono il (mal)funzionamento dell’amministrazione giudiziaria provengono dalle nostre tasche. Lo tsunami-giustizia, dunque, colpisce l’intero Paese e lo danneggia anche perché non attira investimenti dall’estero. Alla lentezza cronica dei processi - destinati a diventare “senza fine” se non si riforma la prescrizione - e al loro costo elevato in termini di risorse umane e finanziarie, si aggiungono i risarcimenti che lo Stato è condannato a pagare agli imputati per la lunghezza dei processi e le ingiuste detenzioni. A tali spese si sommano quelle per mantenere un sistema penitenziario non efficiente e dai costi elevati. Se la giustizia fosse un’azienda privata sarebbe fallita da tempo. Questo è il parametro che manca del tutto nelle organizzazioni statali. Non si è abituati a ragionare in termini di costi-benefici e quello che vale per i privati non è detto venga applicato anche al pubblico. Un esempio attualissimo sono i numerosi procedimenti fissati - nonostante l’emergenza sanitaria - alla stessa ora in quasi tutte le sezioni del Palazzo di Giustizia di Napoli. Manca una visione concreta delle situazioni e a pagarne le conseguenze sono avvocati e parti private, costrette ad attendere fuori dalle aule. Tutti concordano sul fatto che il sistema non funzioni, ma non si adottano provvedimenti adeguati. Un imprenditore che vede il proprio prodotto non venire alla luce nei tempi stabiliti e/o che lo vede difettato, corre immediatamente ai ripari. Concentra tutte le risorse umane e finanziarie per migliorare la produzione, responsabilizzando dirigenza e maestranze. Non avviene così a livello statale. Il personale è costantemente sottodimensionato e si consente ad alcuni di essere posti fuori ruolo per il distacco presso Ministeri o altrove. Inoltre alla funzione ricoperta può aggiungersi un’altra, come far parte delle Commissioni tributarie, con evidenti sottrazioni di tempo all’attività principale. Non si pensa di rimediare a queste paradossali situazioni, ma si progettano riforme per diminuire le garanzie degli indagati e degli imputati, già caduti nelle onde tempestose e consapevoli di doverci restare per molto tempo. Occorre, dunque, un cambio di passo. Una vera e propria inversione di rotta che possa calmare le acque e restituire un minimo di fiducia in una giustizia uguale per tutti, ma efficiente. In diritto non esiste il principio del mal comune mezzo gaudio. A curare questi mali vi è oggi un ministro della Giustizia, di grande competenza che ha sempre indicato la nostra Costituzione come la bussola da seguire per ogni decisione. Nelle linee programmatiche, appena sottoscritte dalla guardasigilli, sono indicati principi che fanno sperare in un futuro migliore per la giustizia italiana. In tema di esecuzione penale è stato precisato - contrariamente a quanto sostenuto dal precedente ministro - che la certezza della pena non è la certezza del carcere, che per gli effetti desocializzanti che comporta dev’essere invocato quale extrema ratio e che occorre valorizzare piuttosto le alternative alla reclusione, già quali pene principali. In questo pensiero che ci riporta al vero diritto e non a quello del “bar sport”, c’è anche la concretezza e ragionevolezza che prima è mancata a chi ha tentato, senza riuscirci, di fermare le onde di un mare continuamente in tempesta. Al giudice di merito va data la possibilità di infliggere anche misure alternative al carcere, condannando l’imputato a un percorso punitivo-rieducativo che potrà successivamente essere rimodulato dal magistrato di sorveglianza. Tale soluzione potrebbe anche riempire di contenuti “rieducativi” la sospensione condizionale della pena, istituto privo di elementi sanzionatori e punitivi. Occorrerà far comprendere all’opinione pubblica le ragioni del necessario cambiamento, per attuare quella rivoluzione culturale che nel 1975 non accompagnò l’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario e, ai giorni nostri, il suo progetto di riforma. E precisare che le misure alternative sono comunque anch’esse delle pene che comportano una restrizione della libertà e, in larga percentuale, evitano il pericolo di recidiva a un costo per la collettività di gran lunga più basso. Un’equazione costi-benefici di facile comprensione. Campania. “Progetto con mediatori linguistici per detenuti stranieri” di Nadia Cozzolino agenziadire.com, 26 marzo 2021 È la richiesta del Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello che ieri ha presentato la relazione finale del progetto “Corso di alfabetizzazione per detenuti stranieri nelle carceri campane”. “I detenuti che non conoscono l’italiano rischiano di essere detenuti invisibili. Non sono a conoscenza dei loro diritti e questo li costringe a vivere una condizione di doppia reclusione. Oggi chiediamo alle autorità nazionali di inserire in ogni carcere, accanto alla figura dell’educatore e dello psicologo, anche quella del mediatore culturale e linguistico”. È la richiesta del garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello che oggi, nella sala multimediale del Consiglio regionale, ha presentato la relazione finale del progetto “corso di alfabetizzazione per detenuti stranieri nelle carceri campane”. Per nove mesi i mediatori sono entrati nei penitenziari di Fuorni a Salerno, Poggioreale e Secondigliano a Napoli per mettere a conoscenza i detenuti stranieri dei loro diritti. Tra febbraio e ottobre 2020 i mediatori multilingue hanno incontrato complessivamente 167 detenuti stranieri, prevalentemente africani ed europei. Ma in totale sono 877 i reclusi di origine straniera presenti in 15 istituti per adulti della Campania, prevalentemente nigeriani, marocchini e rumeni. Senza una figura di supporto tanti detenuti non sanno, ad esempio, che è possibile attivarsi per il rinnovo del permesso di soggiorno anche in carcere. “Il ruolo del mediatore - rileva Ciambriello - è fondamentale perché funge da collegamento tra il detenuto e il carcere, lo aiuta a integrarsi nel contesto e a comprenderne le regole. Sarebbe auspicabile investire maggiormente nell’insegnamento dell’italiano e incentivare la partecipazione a questi corsi”. “Con l’alfabetizzazione - sottolinea la vicepresidente del Consiglio regionale della Campania Loredana Raia - i detenuti hanno la possibilità di integrarsi meglio nella società. Una volta usciti dal carcere, saranno uomini e donne libere di potersi costruire un futuro migliore. Questo progetto è finanziato dall’assessorato alle Politiche sociali della Regione Campania che ha voluto scommettere su un progetto che si propone di umanizzare le condizioni di vita dei detenuti”. “Può succedere che la non conoscenza della lingua - dice Antonio Fullone, provveditore della Campania - causi situazioni di ulteriore emarginazione. È necessario pensare all’integrazione partendo proprio da questi segmenti, quelli già di per sé più emarginati”. Parma. Covid al 41bis, saliti a 11 i detenuti contagiati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 marzo 2021 Nel carcere di Parma sarebbero oltre trenta gli agenti dei Gom positivi, uno di loro è stato ricoverato in gravi condizioni. Crescono i numeri dei detenuti positivi al Covid al 41bis del carcere di Parma. Dopo le notizie stampa, anticipate da Il Dubbio, ieri mattina il Garante dei detenuti del Comune di Parma Roberto Cavalieri ha visitato il carcere e preso contatti con il direttore Valerio Pappalardo e il responsabile sanitario Faissal Choroma. Si è quindi potuto apprendere che i detenuti Covid al 41bis del carcere di Parma sono ad oggi 11, mentre per il numero di agenti dei Gom si temono oltre 30 contagiati, questo ultimo dato non ha avuto però ancora conferma. Il Dubbio ha appreso che uno degli agenti è ricoverato in gravi condizioni, mentre uno dei detenuti, risultati positivi al Covid, ha subito da poco un trapianto di fegato. Il garante Cavalieri fa sapere che la direzione del carcere aveva già da alcuni giorni, e in via precauzionale, interrotto tutte le attività trattamentali (scuola, formazione, sport, etc.) mentre la direzione sanitaria ha attivato gli uffici del servizio di Igiene pubblica della locale Ausl. Nel 41bis di Parma ci sono 49 soggetti sono da considerare vulnerabili per età o per patologie - Nel reparto 41bis sono allocati soggetti con importanti vulnerabilità per età o per patologie e il timore è che un’eventuale infezione potrebbe portare a complicanze non prevedibili. Nel complesso, dei 62 detenuti di questo circuito 49 soggetti sono da considerare vulnerabili per età o per patologie come le neoplasie, diabete, trapianto d’organo, cardiopatie severe. Già lunedì scorso l’Ausl di Parma aveva diffuso una nota nella quale, rivolgendosi alle autorità giudiziarie, chiedeva di valutare “il trasferimento dei soggetti vulnerabili lontano dal focolaio” e invitava i superiori del penitenziario a disporre la limitazione degli spostamenti degli agenti del settore coinvolto in altri contesti del penitenziario. Il Garante nell’apprezzare le misure di contenimento adottate al fine di contrastare la diffusione del contagio in un ambiente come quello del carcere, ha invitato il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a prendere in seria considerazione le necessità del penitenziario di Parma che continua ad operare in condizioni di urgenza ospitando ormai 725 detenuti ai quali non è corrisposto un proporzionale aumento di uomini della Polizia penitenziaria e dei servizi previsti dall’Ordinamento penitenziario che devono essere erogati ai detenuti. L’appello del Garante: informare familiari e avvocati - Infine, il Garante conclude un invito all’Ausl di Parma e ai competenti uffici della amministrazione penitenziaria affinché, al pari dei liberi cittadini che stanno vivendo gli effetti del contagio da Covid19, informino quotidianamente i famigliari e gli avvocati dei detenuti sullo stato di salute dei congiunti ristretti. In effetti, come ha appreso il Dubbio, si sono verificati casi di avvocati che nei giorni scorsi si sono recati a fare i colloqui con i propri assistiti al 41bis del carcere di Parma, ma nessuno li ha avvisati del focolaio. Il carcere di Parma è una potenziale bomba sanitaria, perché, di fatto, è diventato un ricettacolo di detenuti con patologie. Per capire meglio la dimensione del problema è che al carcere sono attualmente assegnati dal Dap, 260 detenuti con tipologie di cure ospedaliere. Basti pensare che in totale ci sono 710 detenuti, ciò vuol dire che più di due su 5 necessitano di cure. Al 41bis di Parma è detenuto anche Vincenzino Iannazzo - Non a caso, come reso pubblico da Il Dubbio, al 41bis di Parma è recluso Vincenzino Iannazzo, che non solo ha gravi patologie legate al recente trapianto di reni, ma vive lasciato a sé stesso ed è disorientato nel tempo e nello spazio a causa della sua demenza. Parliamo di uno dei tre uomini al 41bis mandati in detenzione domiciliare per i loro gravi motivi di salute e con l’aggravante del Covid 19 che incombeva e, come abbiamo visto, incombe tuttora. Su quelle misure si scatenò una feroce indignazione, cavalcata dai media, tanto che l’allora ministro della Giustizia Bonafede per accontentare gli umori varò un decreto che, di fatto, li fece rientrare subito dopo in carcere. Come ha segnalato l’associazione Yairaiha onlus, che si sta occupando del caso Iannazzo, “la stessa Corte d’Appello di Catanzaro, a seguito di perizia del Ctu, dichiarò che l’uomo è compatibile al regime carcerario esclusivamente in una struttura di medicina protetta come il Belcolle di Viterbo e non già con il regime detentivo ordinario”. Quindi figuriamoci il 41bis, ora che il covid è anche entrato. Intanto, per quanto riguarda il panorama generale, i detenuti contagiati sono 576, per 17 dei quali è stato necessario il ricovero. In Lombardia, la Regione con più casi, i detenuti affetti da Covid sono 91, mentre gli istituti più colpiti sono quelli di Catanzaro con 50 detenuti infetti seguito da Pesaro con 46 ed Asti con 39. I poliziotti penitenziari contagiati, invece, sono 790. “Il piano vaccinale - come afferma Aldo Di Giacomo del sindacato Polizia penitenziaria S.Pp. - continua con difficoltà con solo 11200 poliziotti penitenziari avviati alla prima somministrazione e con alcune Regioni, come il Molise, in cui nessuno poliziotto è stato ancora vaccinato”. Ancor peggio per i detenuti, con solo 2500 su un totale di circa 54 mila detenuti. Comunicato stampa Movimento Cristiano Lavoratori di Parma e Cefal ER Il Movimento Cristiano Lavoratori di Parma e Cefal ER, ente di formazione dello stesso, facendo seguito al comunicato stampa del Garante dei detenuti Roberto Cavalieri, esprimono la solidale vicinanza alle persone detenute della sezione 41bis e a quanti del personale di polizia penitenziaria siano contagiati dal coronavirus. Dinanzi a questo preoccupante scenario, il MCL avverte ancora una volta il dovere indispensabile di spendersi per la tutela e la promozione della famiglia, che costituisce un bene umano fondamentale prescindendo dai luoghi e dai contesti, motivo per cui intende porre una particolare attenzione alle autorità competenti affinché le famiglie dei detenuti vengano informate ed aggiornate quotidianamente rispetto alla situazione di salute in cui vertono i propri cari. Così verso i rispettivi avvocati. Desta apprensione la presenza di quanti fra i reclusi contagiati sono vulnerabili per età o patologie, poiché sappiamo che il contagio da coronavirus li espone certamente ad un elevato rischio per la propria salute: da qui l’urgenza del “trasferimento dei soggetti vulnerabili lontano dal focolaio”, come richiesto anche dall’ASL e dal Garante. Cefal ER, presente all’interno degli Istituti Penitenziari di Parma per la formazione professionale destinata alla popolazione detenuta di altre sezioni, pur nell’apprezzamento delle necessarie misure di contenimento fino ad oggi adottate con l’attuazione del protocollo per le misure preventive dal contagio da Coronavirus siglato con la Direzione, insieme agli altri enti di formazione, auspica quanto prima la ripresa delle attività formative e di altra natura importanti per i percorsi socio educativi dei detenuti, fermo restando la tutela della salute degli stessi, del personale di polizia penitenziaria, degli educatori e del personale di quanti lavorano a vario titolo nelle carceri. Con Cefal sono presenti negli Istituti Penitenziari di Parma Forma Futuro, Centro Servizi Edili ed Irecoop. Mauro Agnetti, Presidente MCL Parma Giuseppe La Pietra, Coordinatore territoriale Cefal ER Parma. “Pestato nel carcere di massima sicurezza” di Rossella Grasso Il Riformista, 26 marzo 2021 La famiglia ha denunciato le violenze ai carabinieri. “Se in un carcere di massima sicurezza come quello di Parma lo picchiano io di chi mi devo fidare?”. Nunzia Toto è nell’angoscia più totale pensando alle sorti di suo fratello Giuseppe, 42 anni. “Mercoledì ho videochiamato mio fratello come sempre - racconta Nunzia - e lui era da solo e con il volto tumefatto dalle botte. Gli occhi neri e il naso rotto. Mi ha detto che due detenuti lo avevano prelevato dalla sua cella per portarlo in lavanderia dove lo hanno picchiato in presenza di un poliziotto penitenziario”. “Mi ha detto che forse aveva gridato troppo forte per chiedere le medicine e magari i due detenuti si erano indispettiti - continua Nunzia - Poi mi ha supplicato di non denunciare quello che mi aveva appena raccontato. Ma io ho detto tutto ai carabinieri perché non è possibile che in carcere succeda tutto questo. Se continua così a fine mese lo trovo morto? Ed è anche un carcere di massima sicurezza, dove sta la sicurezza per mio fratello?” Nunzia racconta che Giuseppe è in carcere già da 12 anni, prima a Poggioreale, poi tre anni fa è stato trasferito a quello di massima sicurezza di Parma, lo stesso dove anche Cutolo è stato recluso. Giuseppe da quando è entrato in carcere per la prima volta ha cominciato a stare male. “È anoressico, pesava più di 100 chili, ora ne pesa 38 e non cammina manco più, è bloccato sulla sedia a rotelle”. Ha una condanna a 34 anni per concorso in omicidio. La famiglia ha denunciato più volte che era stato vittima di maltrattamenti in carcere. “Ha sempre avuto paura - continua Nunzia - Quando era a Poggioreale ha anche tentato il suicidio. Lo ha salvato la volontà di Dio e la bontà di un detenuto suo amico che è arrivato in tempo nella sua cella. È vivo per miracolo e oggi sembra sempre che sta sedato, lo riempiono di farmaci, non sta bene”. “Non lo sentivo da 15 giorni - continua tra le lacrime Nunzia - perché l’ultima volta non c’era più spazio per la prenotazione della nostra videochiamata. Poi quando l’ho visto ieri in videochiamata così pieno di lividi non ci ho visto più. Ho cominciato a gridare, volevo parlare con uno dei poliziotti penitenziari ma non c’era nessuno con lui. Forse non me lo hanno fatto vedere per 15 giorni perché aveva ilo volto troppo tumefatto? Bisognava aspettare che i lividi si assorbissero prima di farlo parlare con me? Voglio sapere cosa gli è successo e dove stavano le guardie quando lo hanno picchiato. O non importa a nessuno perché i detenuti sono carne da macello?”. Nunzia ha parlato in videochiamata con il fratello che le ha raccontato tutto. Una conversazione insolitamente lunga e apparentemente senza la sorveglianza di nessuno. “Giuseppe ha minacciato nuovamente il suicidio se io avessi denunciato perché lui ha paura - ha concluso Nunzia - E se la settimana prossima lo trovo morto, chi me lo dice, visto che qua nessuno si muove e nessuno sa niente? Chi me lo dice a me? Non mi fermerò, continuerò finché non esce la verità”. La denuncia della famiglia di Giuseppe Toto è stata raccolta da Pietro Ioia, garante dei detenuti del Comune di Napoli. “Dopo la segnalazione che ho avuto come garante, non voglio credere che un poliziotto penitenziario chieda a due detenuti di picchiarne un altro - ha detto Ioia. Non posso crederlo, se fosse così significherebbe tornare indietro di secoli e io non ci credo. Spero che nel supercarcere di Parma si faccia luce su questo episodio. Spero che si analizzino le telecamere che ci sono in quel carcere per appurare tutta la verità”. Pesaro. Focolaio in carcere, 47 i detenuti positivi al Covid anconatoday.it, 26 marzo 2021 “Abbiamo avuto conferme sul focolaio registrato a Villa Fastiggi di Pesaro con 47 contagiati. Larga parte degli stessi detenuti contagiati sarebbero risultati asintomatici ed alcuni si sarebbero già negativizzati”. Lo dice in una nota il Garante regionale dei diritti delle Marche, Giancarlo Giulianelli, che in questi giorni ha effettuato una ricognizione negli istituti penitenziari della regione. A Pesaro, dove già nei giorni scorsi si era registrata la presenza di un focolaio, la situazione più critica. “La situazione è stata determinata dall’ingresso di un nuovo detenuto che, dopo aver presentato sintomi riconducibili al Coronavirus, è stato subito trasferito in ospedale- continua Giulianelli-. Le sue condizioni sarebbero attualmente in via di miglioramento”. Giulianelli fa anche presente che sono stati attivati prontamente tutti i protocolli per il contenimento della pandemia, anche attraverso il trasferimento delle sezioni interessate e una rivisitazione della logistica complessiva. “Teniamo conto- prosegue- che a Villa Fastiggi la situazione va attentamente monitorata, anche perché l’istituto deve fare i conti con un sovraffollamento ciclico, che al momento si attesta su una trentina di detenuti”. Nelle altre realtà carcerarie presenti sul territorio regionale (Montacuto, Barcaglione, Fossombrone, Fermo e Marino del Tronto di Ascoli Piceno) la situazione sarebbe sotto controllo. “Ne abbiamo avuto conferma in questi giorni - specifica Giulianelli - dopo aver chiesto tutte le informazioni del caso. È ovvio che la guardia deve restare sempre alta e che contestualmente andranno affrontate, come ho avuto modo di ribadire in altre occasioni, diverse problematiche, a partire da quelle delle vaccinazioni di detenuti e Polizia penitenziaria, sulla base delle disposizioni nazionali e regionali”. Reggio Calabria. Detenuto morto in carcere nel 2018, disposte nuove indagini calabria7.it, 26 marzo 2021 Il gip del tribunal?e di Reggio Calabria Antonino Foti, accogliendo l’opposizione proposta dall’avvocato Pierpaolo Albanese, ha disposto la prosecuzione delle indagini dirette ad accertare le cause della morte di Antonino Saladino, il giovane deceduto nel marzo 2018 nella casa circondariale di Arghillà dove si trovava ristretto in attesa di giudizio. Saladino, stando alle testimonianze rese dai compagni di cella, accusava già da parecchi giorni malesseri e disturbi fisici che sono culminati nel tragico epilogo del 18 marzo 2018 quando il detenuto è morto, a soli 29 anni, nell’infermeria del carcere. All’esito delle indagini, durate oltre due anni, il legale della famiglia Saladino, grazie anche al contributo del consulente Antonino Trunfio, ha contestato gli esiti degli accertamenti medico-legali del pubblico ministero chiedendo ulteriori approfondimenti investigativi. Il gip ha disposto la restituzione degli atti al pm per la prosecuzione delle indagini. L’avvocato Albanese ed i familiari di Antonino Saladino, confermando piena fiducia nella magistratura, auspicano che in tempi rapidi si possa giungere ad accertare la verità. Prato. Detenuti in rivolta contro stop a colloqui, chiusa l’inchiesta: 42 indagati notiziediprato.it, 26 marzo 2021 La procura ha inviato gli avvisi di conclusione indagine. L’accusa per tutti è resistenza aggravata. La rivolta scoppiò in molti penitenziari d’Italia. Alla Dogaia materassi dati alle fiamme, telecamere di videosorveglianza distrutte, zampe dei tavoli usate come spranghe, olio sui pavimenti per impedire l’intervento degli agenti, brandine impilate come muri di difesa. Sono 42 gli avvisi di conclusione indagine inviati dalla procura ad altrettanti detenuti che il 9 marzo dello scorso anno misero a ferro e fuoco il carcere della Dogaia per protestare contro lo stop, in piena emergenza coronavirus, ai colloqui con i familiari. L’inchiesta è arrivata al traguardo nei giorni scorsi, a un anno esatto dai disordini che scoppiarono in tutta Italia all’interno degli istituti penitenziari. I 42 detenuti - tra loro italiani, marocchini, albanesi e nigeriani - sono accusati di resistenza aggravata. La rivolta prese corpo poche ore dopo l’annuncio dei provvedimenti restrittivi varati per limitare il rischio che il Covid potesse colpire la popolazione carceraria. Da Modena a Foggia, da Bologna a Rieti, da Trapani a Milano, i detenuti devastarono celle e intere sezioni. Alla Dogaia, la situazione più critica in un quadro generale di violenze, fu nella quarta sezione. Decine i reclusi fuori controllo: zampe dei tavoli usate come spranghe, olio buttato sul pavimento per impedire l’intervento degli agenti, brande impilate l’una sull’altra come muri di difesa, vetri infranti, materassi dati alle fiamme, telecamere di videosorveglianza distrutte per ostacolare la successiva ricostruzione dei fatti utile ad attribuire responsabilità. Alla Dogaia arrivarono polizia, carabinieri e guardia di finanza per aiutare gli agenti della penitenziaria a placare i disordini. L’inchiesta fu aperta poche ore dopo i fatti, arricchita nel tempo con le dichiarazioni dei testimoni. Vaccini anti-Covid. Un anno di miopia dell’Europa di Federico Fubini Corriere della Sera, 26 marzo 2021 Finora l’Unione ha trattato per risparmiare sull’acquisto. E ora, divisi per qualche fiala chiediamo ancora una volta all’alleato americano di salvarci, come dopo la guerra. Per la seconda volta in dodici mesi, l’India ha deciso di bloccare le esportazioni di prodotti essenziali per la salute di noi europei. Il 3 marzo di un anno fa una nota uscita all’improvviso da un ministero vietò l’esportazione di ventisette ingredienti farmaceutici, inclusi gli antibiotici più usati contro le polmoniti. Bastarono poche righe di un funzionario di Nuova Delhi e l’onda d’urto si propagò in tutto il mondo. Il mese dopo, in pieno lockdown, la Società italiana di farmacia ospedaliera dovette mandare al governo la lista di diciotto farmaci dei quali c’era “carenza” (fra questi tre antibiotici, due anestetici e l’eparina sodica usata contro le trombosi). Un anno dopo, ci risiamo: ieri il governo di Nuova Delhi ha proibito l’esportazione di vaccini verso il resto del mondo. Non è una sorpresa. E non è una cosa da poco. Il più grande produttore di vaccini Covid al mondo è il Serum Institute of India, che ha un contratto per 550 milioni di dosi Novavax e soprattutto ne ha uno per altrettante fiale di AstraZeneca. Una parte della materia prima trasformata dalla Catalent di Anagni viene da lì e oggi in Italia, Francia o Germania si trovano centinaia di migliaia di persone vaccinate con il prodotto degli stabilimenti del Serum Institute nel Maharashtra. È solo un passaggio di questa saga, uno di più. Ma racchiude messaggi per un’Unione europea sempre più afflitta da quello che Thierry Breton, il commissario incaricato del dossier, chiama il “nazionalismo dei vaccini”. Il primo messaggio è che le catene globali del valore da cui dipendiamo per la nostra salute sono fragili e lo resteranno, perché così abbiamo scelto noi stessi europei nella nostra miopia. C’è infatti una contraddizione di fondo nel nostro pretendere di comprare da AstraZeneca vaccini a meno di due euro a dose eppure stupirsi quando poi la produzione viene delocalizzata in India. Se davvero vogliamo la “sovranità strategica” di cui parliamo tanto in Europa, dobbiamo essere disposti a pagare di più per ciò che ci serve. Invece noi europei - la Commissione, sostenuta dall’Italia e da altri sette governi - abbiamo passato l’estate scorsa a tirare sui centesimi di euro per fiala con il gruppo britannico. Non ci è venuto in mente che ogni mese di più passato in zona rossa fa perdere all’Unione europea un centinaio di miliardi di reddito (e all’Italia poco meno di dieci)? I negoziatori europei hanno persino cercato di ottenere dalle case farmaceutiche solo opzioni - cioè diritti - di acquisto, senza dar loro ordinativi certi. È naturale che poi Pfizer o AstraZeneca abbiano dato la precedenza alle forniture non solo agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna o a Israele, ma anche al Cile. Il governo di Santiago non è il più ricco e potente del mondo, però ha avuto le idee più chiare di noi europei e ora metà della popolazione cilena è già vaccinata. Il secondo messaggio del blocco indiano è che dobbiamo essere disposti, noi europei, a rischiare i nostri soldi investendo. Dobbiamo anche essere pronti a perderne, pur di innovare. A Washington, Donald Trump ha impegnato sui vaccini oltre dieci miliardi di dollari nella primavera di un anno fa. A Londra Boris Johnson a marzo scorso ha deciso in poche ore di spendere centinaia di milioni di sterline per formare l’Oxford Vaccine Consortium, che avrebbe portato alle dosi di AstraZeneca. Noi europei ci siamo sempre sentiti superiori a entrambi, per stile e cultura. Ma ora metà della popolazione britannica è vaccinata, da noi a stento un settimo e dobbiamo sperare che Joe Biden si dimostri più generoso di Trump nel toglierci dai guai. Questo stato di debolezza obbliga noi europei a chiederci non tanto perché, l’estate scorsa, abbiamo negoziato così male con Pfizer o AstraZeneca. C’è una domanda più seria: perché non abbiamo sviluppato vaccini completamente nostri? Un’economia avanzata da 13 mila miliardi di euro, con un’industria del farmaco da quasi duecento miliardi di fatturato l’anno, non ce l’ha fatta. Ci sono riuscite le altre grandi piattaforme globali - Stati Uniti, Cina, Gran Bretagna, Russia - ma noi no. La tedesca BioNTech ha finito per collaborare con l’americana Pfizer, per sviluppare la propria invenzione. La Irbm di Pomezia ha contribuito al progetto di Oxford ma il governo italiano di Giuseppe Conte, molto generoso con aziende obsolete come Alitalia o Ilva, non ha messo un euro per affiancare Boris Johnson. Anche in Francia l’Istituto Louis Pasteur e Sanofi sono in ritardo, per ora. Così noi europei ora ci vantiamo di aver esportato 77 milioni di dosi, ma la realtà è che ci siamo ridotti al rango di trasformatori di prodotti altrui. Le nostre minacce di embargo sono velleitarie, perché siamo terzisti. Non siamo audaci. Vent’anni fa l’industria farmaceutica americana investiva due o tre miliardi all’anno più di quella europea in ricerca e sviluppo, ma alla vigilia della pandemia ne investiva già venti di più. Non siamo audaci in un secolo in cui i grandi choc globali, la rivalità con la Cina e la corsa delle tecnologie richiedono capacità di innovazione radicale. Noi invece preferiamo ancora gli aggiustamenti incrementali. Non è un caso se fra le prime diciotto aziende tecnologiche per fatturato al mondo ce ne sono nove americane, tre cinesi, tre giapponesi, due coreane, una di Taiwan, ma non una europea. La conseguenza è nella scena del vertice di ieri e di oggi. Eccoci qua, divisi come i polli di Renzo per qualche fiala. Eccoci ansiosi di farci salvare ancora dall’alleato americano, come quando l’Europa era in macerie dopo la guerra. Ma ora anche privi a volte di senso del ridicolo, come il premier austriaco Sebastian Kurz che cerca di rimediare ai propri errori sui vaccini esigendo una solidarietà europea che lui stesso ha sempre sdegnato. Se la pandemia fosse una guerra, noi europei la staremmo perdendo. Ma non lo è. È una (durissima) lezione. Riflettiamoci su. Gli effetti psicologici dell’eccesso di videochat di Massimo Ammaniti Corriere della Sera, 26 marzo 2021 Contatti visivi troppo ravvicinati e prolungati con un’altra persona, soprattutto con la sua faccia, creano un contesto relazionale artificioso. Zooming, ossia comunicare con Zoom o con altre piattaforme, ha cambiato le nostre vite e quelle dei ragazzi in quest’ultimo anno. Si fa zooming quando si vuole comunicare cogli amici e coi familiari, quando viene fatta la didattica a distanza, quando si fanno incontri di lavoro, quando si fa la psicoterapia, quando si fanno conferenze di ogni genere. Ore e ore davanti allo schermo, focalizzati sul viso degli interlocutori e con un occhio sulla propria immagine in cui ci si rispecchia. E che effetti psicologici ha lo zooming? Dopo ore e ore davanti allo schermo ci si sente spesso stanchi, svuotati, quasi alienati dentro lo schermo che ha divorato le energie mentali e fisiche. Si tratta di impressioni molto diffuse, ma che sono state studiate nel Laboratorio di Interazione Umana Virtuale presso la Stanford University. Le prime conclusioni sulle conseguenze psicologiche dello zooming sono state pubblicate dal direttore del laboratorio, Jeremy Bailenson sulla rivista scientifica Technology Mind and Behavior. Contatti visivi troppo ravvicinati e prolungati con un’altra persona, soprattutto con la sua faccia, creano un contesto relazionale artificioso, ben diverso dagli scambi a cui si è abituati, nei quali ci si guarda in faccia solo per breve tempo e poi si sposta l’attenzione. Essere sempre al centro dello scenario è stressante, come succede a volte in quei sogni nei quali ci si trova su un palcoscenico sotto gli occhi degli spettatori con l’ansia di non essere all’altezza. Anche la vicinanza eccessiva rischia di violare un codice relazionale di sicurezza personale, non ci si può avvicinare troppo al viso di un’altra persona se non in situazioni di intimità o di litigio. E questa vicinanza innaturale rischia di provocare una forte attivazione cerebrale che si prolunga nel tempo. Per evitare questo effetto, Bailenson della Stanford University consiglia di non attivare l’immagine completa sullo schermo. Durante le chat è presente anche l’immagine personale in cui ci si rispecchia continuamente, anche questa una condizione artificiosa perché quando parliamo cogli altri non abbiamo uno specchio che ci rimanda la nostra immagine. Questo rispecchiamento crea tensione obbligando ad avere un’oscillazione continua fra l’immagine degli altri e la propria con uno stato di vigilanza su quello che si fa. Anche la posizione che si assume durante la videochat non va trascurata. Infatti quando si parla con un’altra persona ci si muove, si gesticola, a volte ci si alza, quasi per facilitare il pensiero e l’espressione verbale ma anche per connotare ulteriormente quello che si vuole dire. Davanti allo schermo il lessico comunicativo diviene necessariamente più rigido, meno ricco di sfumature e di modulazioni. È proprio il comportamento extraverbale ad essere più negativamente condizionato dalle videochat, tenendo presente che questa comunicazione ci accompagna dall’alba dei tempi, anche prima della comparsa del linguaggio. Infatti quando due persone si incontrano nella vita reale si guardano reciprocamente in viso e negli occhi per cogliere l’atteggiamento dell’altro e per prepararsi all’incontro. Anche la posizione del corpo, i gesti, la dinamica dei movimenti sono indizi che aiutano a farsi un’idea dell’altra persona. Davanti allo schermo lo scambio relazionale si impoverisce e diventa difficile cogliere i segni extraverbali che aiutano a orientarsi nel contesto sociale. È stato inevitabile che in quest’ultimo anno, soprattutto nei periodi di lockdown, si ricorresse alle videochat che ci hanno aiutato a sentire in modo meno acuto l’isolamento e la solitudine, ma allo stesso tempo hanno creato un contesto innaturale di scambi sociali, nei quali il lessico relazionale si è impoverito creando nuove abitudini che rischiano di perdurare e di perpetuarsi. È vero che l’uomo è per sua natura opportunista e si adatta anche a situazioni estreme, ma i costi possono essere troppo elevati soprattutto per le nuove generazioni che stanno acquisendo i codici relazionali e sociali. Non a caso i ragazzi quando ritornano a scuola cominciano a rivivere non solo mentalmente, ma anche col corpo che ridiventa attivo e pienamente partecipe alla vita sociale. Si ritorna a vivere in una dimensione tridimensionale con una profondità mentale e corporea a differenza della bidimensionalità degli strumenti tecnologici che appiattiscono le relazioni sociali. L’Italia dovrebbe investire due miliardi di euro per la salute mentale di Jessica Masucci L’Espresso, 26 marzo 2021 Da vent’anni non investiamo una quota adeguata del budget sul disagio psichico. E ora servono più psicologi nelle scuole e nelle Asl. Se si cercano le parole “salute mentale” nelle 168 pagine del Piano nazionale di ripresa e resilienza del 12 gennaio scorso, il Recovery plan italiano, non si ottiene alcun risultato. Eppure attivisti globali e locali, familiari dei pazienti, psichiatri, psicologi, tutti coloro che a vario titolo si occupano di questo tema sono d’accordo: investire nel benessere mentale dei cittadini è necessario per la ripresa sociale ed economica delle comunità, soprattutto dopo la pandemia di Covid-19. E conviene, perché fa risparmiare. La questione nel dibattito internazionale è stata posta già a fine gennaio 2020, quando l’organizzazione United for global mental health ha lanciato la campagna #Timetoinvest durante il World economic forum di Davos, per sensibilizzare i leader mondiali sul tema. L’Italia da oltre vent’anni non investe una quota adeguata del suo budget sanitario per la salute mentale. Nel 2001 i presidenti delle Regioni si sono impegnati a destinare almeno il 5 per cento dei fondi sanitari regionali alla sua tutela. Da allora quell’obiettivo non è mai stato raggiunto: la media nazionale è inchiodata ancora oggi a poco più del 3,5 per cento. “Francia, Germania, Regno Unito stanziano almeno il 10 per cento e in alcuni casi vanno oltre”, sottolinea Fabrizio Starace, presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica, che nel 2020 ha fatto parte della task force di Vittorio Colao per l’emergenza coronavirus. In quella sede aveva proposto un incremento del budget di almeno il 35 per cento, pari a circa un miliardo e mezzo di euro. Con il Recovery fund in arrivo dall’Unione europea, si potrà fare di più per un settore della sanità pubblica cronicamente sotto finanziato? “Sarebbe veramente ingenuo attendersi che una iniezione di denaro in un sistema che non funziona possa risolverne i problemi”, ammonisce lo psichiatra, ricordando che bisogna verificare cosa funziona e cosa va cambiato in ogni Regione e aggiornare il Piano di azioni nazionale per la salute mentale, redatto nel 2013. L’arrivo, sette anni dopo, della pandemia ha reso evidenti le contraddizioni presenti nel sistema. Valerio Canzian, presidente di Urasam, il coordinamento delle associazioni di familiari di pazienti psichiatrici in Lombardia, racconta come negli ultimi mesi sia stata ancor più complicata la vita di queste famiglie. Nei periodi di massima criticità sono mancate le visite a domicilio, i centri diurni sono stati parzialmente o del tutto chiusi, era difficile per un parente visitare chi si trovava in una comunità ed è aumentato l’uso dei farmaci. L’esigenza principale, secondo chi vive su questo fronte della trincea della salute mentale, è assumere più infermieri, più psichiatri, più educatori, più psicologi e soprattutto passare “da una cura di attesa - spiega Canzian - a una cura di iniziativa”, con i medici che, invece di aspettare che i pazienti psichiatrici vadano in ospedale, li raggiungano dove vivono. Ma per inviare medici e infermieri a casa di chi ha bisogno, non serve solo più personale, servono gli adeguati mezzi di trasporto per i Dsm, Dipartimenti di salute mentale. Il rinnovo del parco auto fa parte della lista di priorità per gli investimenti nel settore, anche in vista dell’arrivo degli aiuti europei, stilata dal presidente della Società italiana di psichiatria (Sip), Massimo Di Giannantonio. Oltre ai mezzi per i Dsm, l’elenco include i sistemi informatici e di telemedicina per mantenere il contatto con il paziente anche quando non è possibile visitarlo in presenza e l’edilizia sanitaria. La Sip ha inoltre stimato che servirebbe assumere 800 professionisti della salute mentale - non solo medici - perché i Dsm garantiscano ai cittadini almeno i livelli essenziali di assistenza previsti. Nel complesso, secondo Di Giannantonio, servono 2 miliardi e mezzo di euro per rimettere in moto la psichiatria italiana. “Il mancato finanziamento corretto della salute mentale - aggiunge - porta a un aumento dei casi clinici, un peggioramento del loro decorso e un aumento dei costi che se fossero affrontati a tempo debito avrebbero un esito assolutamente migliore”. Non finanziare significa anche non diagnosticare in tempo: sono circa 837mila i pazienti dei Dsm (secondo i dati dell’ultimo rapporto del ministero della Salute, riferiti al 2018), ma ci sarebbero altre 300mila persone con disturbi psichiatrici gravi non ancora intercettate dal sistema. E tutti questi numeri riguardano solo una parte degli italiani che presentano un disagio mentale. Uno dei problemi con i quali ci si confronta quando si parla di questo tema è infatti quello dei dati. Quelli disponibili, certificati dai rapporti annuali del ministero della Salute, fanno riferimento, appunto, all’assistenza psichiatrica. A questo calcolo sfugge tutta la fascia di popolazione che soffre di un malessere psicologico che può essere affrontato con delle sedute di psicoterapia private, possibili solo per chi se le può permettere economicamente. Proprio nel 2021 è difficile pensare che la ripresa anche economica di un paese possa prescindere dall’aiutare le persone a stare meglio. “Vedersi è la cosa che è mancata di più, soprattutto per coloro che già hanno pochi momenti di contatto con altre persone”, racconta Cristina Ardigò, presidente dell’associazione milanese di pazienti psichiatrici e loro familiari Aiutiamoli. Quest’ultimo anno in tanti li hanno cercati anche via Facebook per chiedere aiuto, persone che prima non avevano mai avuto contatti con loro. Secondo un’indagine condotta dall’Istituto Piepoli per il Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi (Cnop), lo “stressometro” degli italiani lo scorso 8 marzo ha segnalato che solo il 16 per cento dei cittadini si sente poco stressato, gli altri avvertono livelli di stress medi (46 per cento) oppure alti (38 per cento). “Occorre un uso pubblico della psicologia oltre a quello privato”, rimarca David Lazzari, presidente del Cnop. Il rappresentante degli psicologi è stato ascoltato il 27 gennaio scorso in audizione dalla commissione Affari sociali della Camera dei deputati sul Pnrr, dove ha proposto dei voucher per consentire a chi non può permetterselo un certo numero di sedute di psicoterapia privata. Ma ci sarebbe, a suo dire, soprattutto bisogno di intervenire su sanità, scuola, lavoro, welfare. Stiamo parlando di assunzioni di psicologi nelle Asl, che da 5.000 dovrebbero arrivare a essere almeno 15.000; più psicologi nelle scuole, dove ne servirebbero circa 2.000 in più e quelli che ci sono dovrebbero poter fare più ore; di istituire presidi psicologici nei centri per l’impiego e punti di consulenza a livello provinciale per le piccole e medie imprese. “Se si aiutano le persone in tempo, si impedisce che lo stress degeneri e si trasformi, con ulteriori costi a carico del Sistema sanitario nazionale”, spiega Lazzari, il quale aggiunge che “mediamente ogni euro speso per interventi psicologici ne produce due di risparmio”. Ma il guadagno nell’investire sul benessere delle persone non è solo quello economico. La risposta del rappresentante delle associazioni di familiari, Valerio Canzian, è senza esitazioni: investire in salute mentale consente di “prendere la sofferenza là dove nasce”. Migranti. Cari politici, smettetela di usare lo Ius Soli come bandiera di Lucia Ghebreghiorges L’Espresso, 26 marzo 2021 Questo tema viene rispolverato una volta l’anno dal Pd per riaffermare la propria identità. Ma oltre lo slogan resta poco. Quando cambierà la condizione di chi è straniero nel proprio paese? Avviene circa una volta l’anno che dal nulla il tema dello ius soli torni alla pubblica ribalta e quasi sempre arriva attraverso una dichiarazione inaspettata e considerata “fuori luogo” rispetto al contesto politico. Un terremoto ormai prevedibile, che si manifesta quando il Partito Democratico sente la necessità di riaffermare una propria identità. In crisi, o alle prese con le diverse correnti interne, di anno in anno, fa affidamento sul tema evergreen per rassicurare, a seconda delle necessità, elettori, oppositori o in questo caso oppositori che sono anche alleati. Un tema tanto divisivo come quello della riforma della legge sulla cittadinanza infatti parla chiaro: noi siamo quelli là, non ci confondete e non ci confondiamo. È una carta d’identità in cui c’è scritto progressisti. Attraverso lo ius soli si parla a sé stessi e a chi si contrappone, raramente il messaggio è rivolto ai diretti interessati. Diventa così uno slogan irrinunciabile, da tirar fuori dal cilindro ogni volta che il gioco si fa duro e vi è la necessità di differenziarsi. Da tempo si sente dire che non deve essere un tema né di destra né di sinistra e che una riforma deve scaturire da un patto tra le diverse forze politiche. Di fatto è il tema che più polarizza le posizioni e proprio per questo viene utilizzato da entrambe le parti come bandiera elettorale per definirsi: si allo ius soli e all’inclusione contro no alla cittadinanza facile e all’invasione. Questa volta è toccato al neo segretario Enrico Letta rilanciare la potente parola magica e anche lui lo ha fatto in un momento molto preciso. Se infatti Nicola Zingaretti nel 2019 dal palco di Bologna se ne servì per far recapitare ai Cinque Stelle il messaggio che bisognava smarcarsi dal governo “Conte 1” a trazione leghista, infiammando gli animi degli iscritti e facendo storcere il naso agli alleati e non solo, l’ex premier Letta sembra volerla usare oggi per avvertire un po’ tutti che il centrosinistra è tornato. Che è ormai alle spalle l’appiattimento verso gli alleati del “Conte 2” e che deve stare in guardia chi pensa di poter stare tutti insieme appassionatamente sotto la guida del governo Draghi annullandosi. E nessuno meglio di lui oggi può utilizzare l’arma dello ius soli per spaventare i nemici e fare l’occhiolino agli elettori più delusi. È lui che ha promosso l’operazione Mare Nostrum, quella in cui i migranti venivano salvati, che ha nominato per la prima volta nella storia della Repubblica una ministra nera, Cécile Kyenge, la quale ha migliorato alcune misure contenute nella legge sulla cittadinanza attraverso delle semplificazioni. Non gli manca quindi un po’ di cognizione di causa per inaugurare una nuova stagione del centrosinistra nel nome della cittadinanza. Ma la domanda che si fanno le persone come me, nate e cresciute qui, alle quali quella cittadinanza cambia la vita e non è solo uno slogan, è: oltre ad avere l’ambizione di diventare la carta d’identità o tessera di un partito, ha qualche speranza di trasformarsi in un passaporto valido per coloro che ne hanno un’urgenza reale? Ci sono ragazzi e ragazze che devono guardare più a strategie di sopravvivenza che a strategie politiche, perché essere stranieri nel proprio Paese ha un impatto quotidiano specifico nelle loro vite. Ci sarà mai la reale intenzione di restituire a queste persone dignità e prospettive? Sono loro le protagoniste di questa lunga storia non certo d’amore, non la politica. Va chiarito una volta per tutte a chi se ne fa di volta in volta portavoce. Ed è a loro che non si può più dire di stare sereni mentre si parla di loro ma non a loro. Droghe. Lo Stato di New York legalizza il consumo di marijuana a scopo ricreativo di Anna Lombardi La Repubblica, 26 marzo 2021 L’intesa raggiunta dai legislatori dello Stato, che entrerà in vigore tra un anno, apre le porte a un’industria da circa 4,2 miliardi di dollari. Sarà consentita la vendita a domicilio e la nascita di locali per il consumo. Chiunque potrà coltivare in casa (o in terrazza) fino a sei piante per uso personale. L’odore pungente di marijuana è già da tempo uno dei più tipici della Grande Mela, spesso lì a sorprenderti in strada con le sue zaffate. Ma sebbene il suo consumo sia stato “decriminalizzato” due anni fa, chi è sorpreso a fumarla in pubblico rischia una multa salata e chi è colto nell’atto di venderla o acquistarla viene denunciato e rischia ancora di finire in carcere. Oggi, dopo anni di tentativi, i legislatori dello Stato di New York, hanno infine trovato un accordo per legalizzare la marijuana ricreativa (quella medica lo è già): aprendo le porte a un’industria da circa 4,2 miliardi di dollari, capace di creare migliaia di posti di lavoro e trasformare lo Stato in uno dei maggiori mercati d’America. Una mossa economica, certo: ma mirata pure a porre fine agli arresti di neri e ispanici, da anni sproporzionatamente nel mirino della polizia, trattati con disparità rispetto ai bianchi sorpresi con uno “spinello”. Secondo le prime indiscrezioni pubblicate dal New York Times, l’accordo consentirà la consegna a domicilio e la nascita di locali dove consumare marijuana ma non alcool. Ancora, chiunque potrà coltivare in casa (o in terrazza) fino a sei piante per uso personale. Le nuove regole, però, non saranno applicate prima di un anno almeno. Se il piano, come ci si aspetta, sarà definitivamente approvato (sarà quasi certamente inserito già nel budget al voto il 1° aprile) la vendita di marijuana legale inizierà più o meno nella primavera 2022. I funzionari devono infatti prima scrivere le complesse leggi di un mercato che si vuole altamente controllato, regolato in ogni particolare della catena, dalla coltivazione alla vendita. Saranno pure applicate specifiche tasse, pari a circa il 9 per cento sulla vendita al dettaglio, in grado di generare fino a 350 milioni di entrate fiscali l’anno per lo Stato. La città di New York medita di applicare poi una seconda tassa per lo smercio entro i suoi confini. L’accordo è stato studiato anche per risarcire le comunità duramente colpite, nei decenni passati, da una guerra alle droghe leggere oggi considerata eccessivamente dura e che ha riempito le carceri di giovani afroamericani e latini, devastando intere generazioni e quartieri. Buona parte del ricavato fiscale dalla vendita di cannabis sarà reinvestito in quartieri e aree considerate difficili. E una parte delle licenze commerciali sarà riservata a minoranze. I legislatori hanno cercato di modellare la loro proposta sulle migliori pratiche di altri Stati, sperando di rendere il programma di New York un modello nazionale. Dal 2012 a oggi già 15 Stati più il distretto di Columbia, hanno legalizzato la marijuana per adulti con più di 21 anni: e la mappa comprende tutti gli Stati della costa pacifica, da Washington all’Arizona. La marijuana medica è legale in 36 stati (compresi i 15 di cui sopra). Nel frattempo, altri quattro Stati - New Jersey, Arizona, Montana e South Dakota - hanno votato per legalizzare la cannabis ricreativa a novembre 2021. Invece, la marijuana è ancora illegale in ogni sua forma in sei: Idaho, Wyoming, Kansas, Tennessee, Alabama e South Carolina. Negli altri esiste una qualche forma di decriminalizzazione (come finora a New York, per intenderci). In Texas è legale solo l’olio di Cbd, quello estratto dalla canapa, che ha solo effetti rilassanti. L’Europa vola in Libia. Di Maio vede gli affari ma non le armi e i lager di Roberto Prinzi Il Manifesto, 26 marzo 2021 La visita dei ministri degli esteri di Italia, Francia e Germania, nel mirino la ricostruzione del paese e la lotta all’immigrazione. Nessun accenno all’uccisione del comandante delle Forze speciali al-Saiqa al-Werfalli, ricercato dall’Aia. Se l’Unione Europea voleva mandare un messaggio di vicinanza al nuovo Governo di unità nazionale (Gun) libico di Dabaiba e contrastare l’influenza di attori regionali (Turchia e Russia in primis), la missione di ieri dei ministri degli Esteri di Francia, Germania e Italia non poteva avere un significato più chiaro. Nel vertice sono stati toccati molti temi: dalla lotta alle migrazioni illegali, ai progetti delle imprese europee nella ricostruzione del Paese, alla missione Irini per monitorare il cessate il fuoco e al sostegno di Bruxelles per l’organizzazione delle elezioni libiche entro il 24 dicembre. Il primo risultato tangibile è stato l’annuncio delle riaperture delle ambasciate in Libia di Francia e Germania fatto da Najla el-Mangoush, la prima donna a guidare il dicastero degli Esteri libico. Baldanzoso era ieri soprattutto Luigi Di Maio, il primo ministro europeo a essere ricevuto (domenica) a Tripoli da esponenti del Gun e al suo settimo viaggio nel Paese nordafricano in meno di due anni. “La nostra presenza - ha detto il titolare della Farnesina - testimonia l’unità d’intenti dei Paesi europei più impegnati per la stabilizzazione della Libia. L’Europa continuerà a restare al fianco del popolo libico e a sostenerlo nel suo cammino verso la pace”. La “vicinanza” di cui parla di Di Maio è però soprattutto per gli interessi economici italiani come apparso evidente domenica quando il ministro, insieme all’ad di Eni Descalzi (Eni che proprio ieri ha patteggiato per induzione indebita in Congo nell’indagine nata dall’esposto di Re:Common - ha incontrato il premier Debaiba. Di Maio ha poi lodato le autorità libiche per la loro “lotta ai trafficanti di esseri umani e per il presidio delle frontiere marittime” aggiungendo, non senza ipocrisia, di attendersi “che venga compiuto il massimo sforzo per garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali”. Come se non fosse già noto chi gestisce i lager in cui sono rinchiusi i migranti e quale sia la biografia degli appartenenti della cosiddetta Guardia costiera libica. Di Maio ha inoltre rimarcato come l’operazione Irini a guida italiana fornisca un “contributo efficace all’attuazione dell’embargo sulle armi”. Parole che stridono con la realtà perché gli armamenti continuano ad arrivare a Tripoli e a Bengasi dai rispettivi sponsor regionali. Senza dimenticare poi la questione dei mercenari stranieri per cui ieri il Governo di unità nazionale libico ha chiesto con forza che lascino il Paese “immediatamente”. Un tema toccato anche dal ministro degli Esteri tedesco Maas mentre il suo omologo francese Le Drian ha sottolineato il “messaggio di sostegno” lanciato dagli europei alle nuove autorità locali. La Francia è quanto mai attiva in queste settimane sul dossier libico come testimonia tre giorni fa la visita del neo capo del Consiglio presidenziale libico Menfi da Macron. Incassato il sostegno dell’Eliseo, Menfi è volato ieri in Egitto alla corte del “Faraone” al-Sisi. Una visita significativa (la sua prima in un Paese arabo) che ribadisce la centralità che gli egiziani vogliono avere nelle vicende dello Stato “fratello”. Tra sorrisi e strette di mano tra Tripoli e il Cairo, nessun accenno è stato fatto all’uccisione l’altro ieri a Bengasi del comandante delle Forze speciali al-Saiqa, il salafita al-Werfalli. Un assassinio su cui restano molte ombre: solo pochi giorni fa la città cirenaica era stata teatro di un’esecuzione di massa di 11 persone. I corpi erano stati ritrovati dietro a un cementificio e presentavano colpi di pistola alla testa. Una modalità che ha ricordato le esecuzioni proprio di Saiqa. Werfalli era ricercato dalla Corte penale internazionale (Cpi) per presunti crimini di guerra, perpetrati in particolare durante il conflitto con le milizie islamiste di Bengasi. A più riprese la procuratrice della Cpi Bensouda ha sottolineato come il comandante libico fosse ancora libero contrariamente a quanto affermavano le autorità militari cirenaiche. L’Italia vende nuove armi e altre navi da guerra all’Egitto di Carlo Tecce L’Espresso, 26 marzo 2021 Avviata una trattativa da Fincantieri per il “supporto logistico”, pezzi di ricambio e di riserva per le due Fremm già vendute al regime di Al Sisi. E il generale vuole esercitare l’opzione, come previsto dal contratto per un’altra coppia di fregate. Per l’Italia, nonostante Regeni e Zaki, il Cairo è un cliente e un alleato necessario. Si può dire che l’Italia abbia deciso, senza dirlo agli italiani, di armare ancora il regime egiziano di Abdel Fattah al Sisi. Il generale ha ottenuto le due fregate di classe Fremm a lungo bramate, una l’ha ricevuta lo scorso dicembre, l’altra è pronta a salpare dalle officine liguri e da buon cliente soddisfatto - questa è la novità - si prepara a ordinarne altre due, come previsto da una postilla inserita nel contratto firmato lo scorso anno e sottaciuta dal governo giallorosso di Giuseppe Conte. Nell’attesa, negozia con gli italiani il costo del “supporto logistico”, pezzi di ricambio e di riserva, per la prima coppia di fregate. Al Sisi viene reputato un compratore facoltoso e un alleato necessario in quel lembo di Africa e soprattutto di Mediterraneo in cui si concentrano gli interessi e le debolezze di Roma. Lo si può dire perché lo dicono i fatti. Invece il baratto fra le commesse belliche e la verità su Giulio Regeni o la liberazione di Patrick Zaki - proditoriamente vaticinato dai partiti - non ha funzionato. Le fregate sono arrivate, la giustizia no. Il capo di Fincantieri si chiama Giuseppe Bono. Chi gestisce un’azienda statale per quasi vent’anni non è soltanto un amministratore delegato. Bono non ha pensato mai di portare la pace con le bombe. Fincantieri fabbrica navi civili e militari. Così retribuisce i suoi operai. Un paio di anni fa l’Egitto si è fiondato sul mercato per rinforzare la sua flotta. Voleva delle fregate, le voleva subito. Con una manovra azzardata, e la copertura politica del governo giallorosso, Bono propose al Cairo le fregate assegnate alla Marina italiana, già bardate col tricolore, le due intitolate ai palombari Emilio Bianchi e Spartaco Schergat, medaglie d’oro al valore militare. La “Bianchi” e la “Schergat” erano gli ultimi esemplari prodotti dal consorzio italiano Orizzonte sistemi navali, controllato da Fincantieri col 51 per cento e partecipato da Leonardo (ex Finmeccanica). Bono ha scatenato una rivolta ai massimi livelli dello Stato maggiore della Marina italiana e l’imbarazzo dei ministri e dei partiti inchiodati alle proprie responsabilità. E sebbene la legge 185 del ‘90 impedisca di cedere materiale bellico ai Paesi che non rispettano i diritti umani, che sono invischiati in un conflitto o che aggirano embarghi internazionali, la Orizzonte sistemi navali è riuscita a sottoscrivere con l’Egitto un accordo per due fregate più due da “opzionare”. Le leggi si interpretano, non si applicano, se prevale una determinata ragione di Stato. Questo dimostra che la commessa realizzata lo scorso anno non era un rapporto occasionale, ma un sodalizio più profondo fra il Cairo e Roma. Tant’è che qualche settimana fa, non più tardi di due mesi dalla denuncia contro il governo italiano della famiglia Regeni proprio per le presunte violazioni della legge 185 del ‘90, il consorzio ha presentato l’ennesima richiesta all’Autorità nazionale (Uama) che fornisce le licenze per le esportazioni di armamenti. Stavolta Orizzonte sistemi navali ha notificato l’apertura di una trattativa per il “supporto logistico” agli egiziani per le due fregate. Un contratto naturale per un acquirente di Fremm, però non esattamente scontato, comunque necessario per consentire ai fornitori di Orizzonte sistemi navali e pure al socio Leonardo di guadagnarci dall’operazione con Al Sisi. Bono ha lavorato per sé, per allungare il programma Fremm, che era vincolato alla Marina italiana e di fatto in scadenza nel 2021, dunque il prezzo per il Cairo era un prezzo di favore, scarsi 1,2 miliardi di euro tutto incluso. Come ha svelato l’Espresso, c’era anche l’intoppo da 140 milioni di euro per la conversione tecnica delle fregate, cioè le spese sostenute per smontare l’apparecchiatura destinata a un membro Nato come l’Italia e montare quella ordinata da un regime estraneo al patto Atlantico come l’Egitto. Fincantieri ha avviato un mese fa il complesso percorso per costruire le due fregate alla Marina italiana. Ci si impiega dai quattro ai cinque anni. Per sedare le proteste dei militari, che addirittura si erano appellati con lettere ufficiali al ministero della Difesa, si era pronosticato il varo nel 2024. Già oggi si può posticipare l’evento al 2025. Al Sisi non deve temere di restare in coda, può annunciare l’opzione per le altre due fregate. Fincantieri garantisce la stessa data degli italiani, il 2025, anche per gli egiziani. Lo Stato maggiore della Marina italiana ha più volte esposto i danni patiti per l’addio alla Schergat e alla Bianchi: mezzi obsoleti, denaro già investito, perdita di prestigio, “ricadute sulla capacità dello strumento aeronavale di adempiere ai compiti istituzionali in campo nazionale e internazionale”. Niente ha evitato o rallentato l’intesa con l’Egitto. Non era possibile, nonostante i proclami delle istituzioni persino dinanzi alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. Per l’Italia è un’intesa preziosa. Irrinunciabile. Quanto inconfessabile. Si fa, non si dice. Ora lo dicono i fatti. Quantomeno, loro, non sono ipocriti. Russia. Timori per la “vita e salute” dell’oppositore Navalnyj in carcere di Rosalba Castelletti La Repubblica, 26 marzo 2021 L’attivista denuncia “torture” e “privazioni del sonno”, ma il servizio penitenziario federale smentisce. L’avvocato: “Ha forte dolore alla schiena e alla gamba destra”. La moglie Julija: “Liberatelo e lasciate che lo curino medici di cui si fida”. Il Fondo anti-corruzione raccoglie adesioni per una nuova manifestazione. La “vita e la salute” dell’oppositore russo Aleksej Navalnyj in carcere è in pericolo, dichiarano i suoi collaboratori in una denuncia indirizzata all’amministrazione penitenziaria e all’ufficio del procuratore generale diffusa oggi online. L’attivista ha spiegato di essere svegliato “otto volte a notte” dai suoi carcerieri. “Mi privano del sonno, è un uso de facto della privazione del sonno come tortura”, ha scritto Navalnyj, chiedendo di “ricevere cure”. “Per me il suo stato di salute è ovviamente estremamente problematico”, ha detto alla tv indipendente Dozhd la sua avvocata Olga Mikhailova che solo ieri è riuscita a incontrare Navalnyj in carcere. L’oppositore soffrirebbe di “forti dolori” alla schiena e alla gamba destra e mercoledì sera sarebbe stato sottoposto a una risonanza magnetica presso un “ospedale pubblico” senza però ricevere una diagnosi. Un neurologo gli avrebbe prescritto il solo ibuprofene, un comune anti infiammatorio. Il Servizio penitenziario federale (Fsin) della regione di Vladimir, vicino a Mosca, dove è imprigionato Navalnyj, ha smentito problemi di salute assicurando che sono state effettuate le visite mediche e che le condizioni di Navalnyj sono state “considerate stabili e soddisfacenti”. “Non seguiamo il caso, il monitoraggio della salute dei prigionieri è di competenza delle autorità penitenziarie”, ha dichiarato il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov. Il quarantaquattrenne è sopravvissuto all’avvelenamento da Novichok. Finito in coma e trasferito in Germania, dopo cinque mesi di convalescenza, lo scorso gennaio era rientrato a Mosca, ma era stato arrestato non appena atterrato. Condannato in febbraio a due anni e mezzo di carcere per un caso di frode risalente al 2014 giudicato “motivato politicamente” dalla Corte europea per i diritti umani, è detenuto dall’inizio di marzo nella colonia penale Pokrovskaya Ik-2, a 100 chilometri dalla capitale russa. Da allora Navalnyj ha pubblicato solo due messaggi su Instagram. “Chiedo l’immediato rilascio di mio marito, Aleksej Navalnyj, e che gli venga data l’opportunità di essere curato da medici di cui si fida”, ha scritto su Instagram la moglie dell’oppositore russo, Julija Navalnaja. “Putin lo ha spinto illegalmente in prigione. Lo ha spinto perché ha paura della competizione politica e vuole sedere sul trono per il resto della sua vita. Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi è una vendetta personale e una rappresaglia contro una persona. Deve essere fermata immediatamente”. Per chiederne il rilascio il Fondo anti-corruzione ha creato il sito free.navalnyj.com dove sta raccogliendo le adesioni per una nuova manifestazione. Raggiunta quota 500mila adesioni, verranno resi noto il luogo e la data dell’evento. L’appello degli intellettuali all’Azerbaigian: “Liberate i prigionieri armeni” Corriere della Sera, 26 marzo 2021 La richiesta a Baku: rispettate la convenzione di Ginevra dopo il cessate il fuoco. Pubblichiamo l’appello al governo dell’Azerbaigian per il rilascio dei prigionieri di guerra cui hanno aderito tra gli altri Dacia Maraini, Antonia Arslan, Laura Efrikian, Carlo Verdone e Giovanni Donfrancesco. Per aderire appelloprigionieri@gmail.com. È estremamente allarmante che, nonostante la Dichiarazione tripartita di cessate il fuoco firmata dai leader di Armenia, Azerbaigian e Russia il 9 novembre 2020, centinaia di prigionieri di guerra armeni e civili, tra cui anche donne, restino prigionieri e non siano ancora stati rilasciati dall’Azerbaigian. Molti di loro sono stati catturati dopo la fine delle ostilità. Ci appelliamo all’Azerbaigian perché restituisca immediatamente e incondizionatamente tutti i prigionieri di guerra e tutte le altre persone catturate alle loro famiglie in conformità con le Convenzioni di Ginevra e con la Dichiarazione tripartita. Tutti gli ostacoli per il rilascio dei prigionieri di guerra armeni politicizzano il processo di ripresa umanitaria postbellica. La diffusione sui social media dei video che dimostrano il trattamento degradante e disumano nei confronti dei prigionieri di guerra armeni è profondamente preoccupante. Inoltre, il trattamento disumano dei prigionieri di guerra e di altre persone catturate costituisce una flagrante violazione dei principi del Diritto Internazionale. Crediamo fermamente che il rilascio immediato di tutte le persone catturate sia una questione puramente umanitaria e non debba essere soggetto ad alcuna manipolazione e politicizzazione. Pertanto, sollecitiamo l’Azerbaigian ad astenersi dall’utilizzo di questa questione per scopi politici e a permettere a tutti i prigionieri di riabbracciare i loro cari al più presto possibile. Il rilascio immediato di tutte le persone catturate contribuirebbe a rafforzare la fiducia tra i due paesi, essenziale per la stabilità della regione e nell’auspicio di una pace duratura. Australia. Morti aborigeni in detenzione: 4 in pochi giorni La Stampa, 26 marzo 2021 Un uomo di 37 anni è il quarto aborigeno a morire in stato di detenzione in meno di tre settimane in Australia, durante un inseguimento della polizia nella cittadina mineraria di Broken Hill, 1.150 km nell’entroterra di Sydney. Secondo un rapporto della polizia, l’uomo della nazione Brakindji, Anzac Sullivan, è morto dopo “un episodio medico” il 18 marzo e gli agenti hanno tentato invano di rianimarlo. Lo riferisce il quotidiano The Australian. La morte di quattro persone aborigene in custodia della polizia o in prigione in un periodo di 16 giorni causa allarme in coincidenza con il 30/o anniversario della Commissione nazionale d’inchiesta sulle morti di aborigeni “in custodia”. Il 2 marzo è morto un uomo di circa 30 anni nell’ospedale di un carcere di Sydney, il 5 marzo una donna in una cella di un altro carcere di Sydney, e due giorni dopo un uomo in carcere presso Melbourne. E la morte di Anzac Sullivan durante un inseguimento della polizia, secondo la legge è considerata “morte in custodia” anche se in quel momento non era in stato di arresto. “La morte di quattro persone nello spazio di poco più di due settimane è un forte segnale d’allarme, che qualcosa è seriamente sbagliato con i sistemi di polizia e carcerari in Australia”, ha detto l’avvocata Sarah Cresslin del Servizio legale aborigeno di Sydney, che rappresenta la famiglia di Sullivan. “Chiediamo che la morte di Anzac Sullivan sia investigata urgentemente da un ente indipendente, che l’indagine sia trasparente e responsabile verso la sua famiglia e verso la comunità aborigena di Broken Hill”. L’eccessiva presenza di aborigeni in custodia della polizia e in detenzione significa che le persone aborigene hanno una probabilità di morire in carcere o in stato di arresto in assai più alta del resto della popolazione. Nel 1991 la commissione nazionale d’inchiesta ha investigato le morti di aborigeni in custodia in un periodo di 10 anni e ha dato 339 raccomandazioni, di cui solo due terzi sono state pienamente implementate.