Ergastolo ostativo, la sentenza slitta dopo Pasqua: i pm all’assalto della Consulta di Angela Stella Il Riformista, 25 marzo 2021 Doveva arrivare oggi la decisione della Corte Costituzionale in merito all’ergastolo ostativo ma è slittata a dopo Pasqua. Ma è già polemica e anche molto aspra. A finire sotto attacco è stata la posizione assunta dall’Avvocatura dello Stato che, pur chiedendo di non dichiarare l’incostituzionalità della norma che vieta la liberazione condizionale per l’ergastolano ostativo che non può o non vuole collaborare, allo stesso tempo ha prospettato la possibilità di “far decantare ogni forma di automatismo”, assicurando al giudice di sorveglianza la possibilità di “verificare le ragioni di quella mancata collaborazione che è condizione per ottenere il beneficio”. Ciò non è piaciuto ai deputati del Movimento Cinque Stelle in commissione Giustizia: “il cambio di orientamento dell’Avvocatura dello Stato in merito alla questione dell’ergastolo ostativo è grave e incomprensibile. È quantomeno inusuale che durante l’udienza pubblica di oggi (ieri, ndr) alla Consulta proprio dall’Avvocatura, che in teoria dovrebbe difendere le leggi vigenti in materia, sia arrivata un’apertura alla liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo ostativo, anche in assenza di collaborazione con la giustizia”. A lanciare un allarme è stato anche il consigliere del Csm Nino Di Matteo: “Poco alla volta, nel silenzio generale, si stanno realizzando alcuni degli obiettivi principali della campagna stragista del 1992-1994 con lo smantellamento del sistema complessivo di contrasto alle organizzazioni mafiose ideato e voluto da Giovanni Falcone”. Gli ha fatto eco il pm di Napoli Catello Maresca: “Qui non si tratta di garantismo o di forcaiolismo, si tratta di buttare a mare anni di contrasto al crimine organizzato peraltro in un momento particolarmente delicato”. Tornando alla discussione di ieri, la Consulta è stata chiamata a valutare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario in riferimento agli articoli 3, 27 e 117 della Costituzione. A sollevare il dubbio di legittimità costituzionale era stata la Corte di Cassazione con una ordinanza del 3 giugno 2020. Il relatore Giuseppe Santalucia aveva scritto: “L’esistenza di preclusioni assolute all’accesso alla liberazione condizionale si risolve in un trattamento inumano e degradante, soprattutto ove si evidenzino progressi del condannato verso la risocializzazione; e ciò perché, in tal modo, il detenuto viene privato del diritto alla speranza”. Il caso riguarda Salvatore Pezzino, all’ergastolo dal 1999, per un reato incluso nella categoria di quelli ostativi alla concessione di benefici penitenziari. La sua richiesta di accesso alla liberazione condizionale era stata dichiarata inammissibile dal Tribunale di sorveglianza de L’ Aquila. Contro tale ordinanza l’avvocato di Pezzino, Giovanna Beatrice Araniti, aveva proposto ricorso in Cassazione: “Non si può mai rinunciare alla funzione rieducativa della pena - ha detto il legale ieri in udienza - Non è possibile pensare di buttare la chiave per alcune tipologie di detenuti. Farlo sarebbe una resa dello Stato”. Negare questa possibilità a Pezzino e agli altri condannati all’ergastolo ostativo significa “etichettare questa categoria dei detenuti come non risocializzabili. Il cambiamento di un condannato non può essere misurato con la collaborazione con la giustizia, che nemmeno garantisce il sicuro ravvedimento”, ha detto Araniti, richiamando i casi dei “collaboratori di giustizia blasonati” che dopo aver fatto i nomi dei loro sodali sono tornati a delinquere. La Consulta avrà la giusta serenità per decidere? Ergastolo ai mafiosi: la Consulta deciderà dopo Pasqua di Liana Miella La Repubblica, 25 marzo 2021 È stato l’attuale presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia a porre alla Corte costituzionale la questione. Nel 2019, dalla stessa Corte, era arrivata l’apertura sui permessi premio. Salvatore Borsellino: “Colpo di grazia a Falcone e a mio fratello Paolo dopo averli uccisi”. La Consulta deciderà dopo Pasqua sull’ergastolo “ostativo”. Un tema che riapre ferite e riaccende l’antica polemica: tra chi sostiene che debba restare così com’è per non favorire in alcun modo i mafiosi e chi, all’opposto, vuole lasciare al giudice di sorveglianza un margine di giudizio, e quindi di libertà, nell’accogliere un’eventuale richiesta del condannato. Durissime le parole del fratello di Paolo Borsellino: per il quale aprire a un alleggerimento di quella condanna al “fine pena mai” senza alcuna libera uscita se non dopo un pentimento significa “dare il colpo di grazia a Paolo e a Falcone dopo averli uccisi”. Ed ancora: “Trent’anni dopo paghiamo la cambiale alla trattativa”. Lo schieramento vede, tra chi è contro qualsiasi “ritocco” all’ergastolo, politici come il leader della Lega Matteo Salvini, ma anche il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra, nonché i parlamentari di M5S. Anche l’ex pm di Palermo Nino Di Matteo in poche righe riassume così il suo punto di vista: “Poco alla volta, nel silenzio generale, si stanno realizzando alcuni degli obiettivi principali della campagna stragista del 1992-1994 con lo smantellamento del sistema complessivo di contrasto alle organizzazioni mafiose ideato e voluto da Giovanni Falcone”. È così? Non è così? Ma soprattutto: la Consulta sta effettivamente per cancellare l’ergastolo cosiddetto “ostativo”, cioè quello che chiude in carcere un mafioso e gli permette di venirne fuori solo se decide di pentirsi e collaborare con lo Stato? A quel punto, sì, quel detenuto - secondo la legge Falcone del 1992 - può uscire perché la sua collaborazione viene interpretata come una definitiva rottura non solo con il suo passato, ma anche con il suo eventuale presente, cioè con i possibili e ulteriori contatti con i mafiosi. La Consulta, al momento, non ha ancora deciso nulla. Nell’udienza pubblica con le parti ha ascoltato le diverse posizioni sul caso sollevato con un’ordinanza dalla Corte di Cassazione. E tra queste posizioni c’è anche quella dell’Avvocatura dello Stato, per bocca di Ettore Figliolia, che alla Corte ha proposto una soluzione, per così dire, di mezzo: che dovrebbe ancorarsi ad una interpretazione della legge, spiraglio finora mai previsto. L’avvocatura ipotizza quindi: di non dichiarare incostituzionale il no secco dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario (modificato nel 1992) alla “liberazione condizionale” in assenza del “pentimento” del mafioso, ma consentire che sia il giudice di sorveglianza, sempre dopo 26 anni già scontati, a valutare il percorso carcerario compiuto. Una “sentenza interpretativa di rigetto”, una decisione “costituzionalmente orientata”, che metta nelle mani del giudice il destino del mafioso. Una decisione simile a quella che, con la sentenza numero 253 del 2019, la Corte ha già preso per i permessi premio. Concedendoli e mettendo nelle mani del giudice la decisione, a prescindere dalla collaborazione. Basta tornare a quella sentenza per ritrovare esattamente le stesse polemiche che si stanno ripetendo oggi. Il netto no dei magistrati antimafia, il no di M5S e dello stesso Guardasigilli Alfonso Bonafede, il no di Nicola Morra, il no del centrodestra. Ma vogliamo capire realmente i termini della questione? A partire dai fatti. Dall’ordinanza della Cassazione del giugno 2020 che porta il problema sul tavolo della Consulta. A firmarla - e questa è solo una coincidenza - è Giuseppe Santalucia, oggi presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Giudice, in quel caso, del collegio che ha ravvisato il problema giuridico e lo ha porta alla Corte. Ma Santalucia - che è stato il responsabile dell’ufficio legislativo di via Arenula con il Guardasigilli Andrea Orlando - era anche il presidente della sezione penale della Cassazione che il 20 novembre del 2018 aveva portato alla Consulta i dubbi di costituzionalità sull’esclusione dai permessi premio dei detenuti all’ergastolo ostativo che non collaboravano. In quel caso la Corte, appunto, rimise quel “potere” nelle mani del giudice di sorveglianza. Si scatenò un putiferio politico. Quello che, appunto, oggi si replica. Caro Caselli, l’ergastolo ostativo era dettato dall’emergenza delle stragi mafiose del 1992 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 marzo 2021 L'ergastolo ostativo venne adottato sull’onda delle emozioni e dell’allarme sociale suscitato dalla morte di Giovanni Falcone. Alcuni magistrati antimafia sono ancora rimasti fermi ai primi anni 90. Eppure, lo stragismo della mafia corleonese è stato sconfitto quasi 30 anni fa con il sacrificio dei giudici trucidati dal tritolo e di tutti quei carabinieri e poliziotti uccisi perché davano la caccia ai boss corleonesi e messo mano ai loro affari miliardari. L’ergastolo ostativo, in particolare il 4 bis che preclude i benefici penitenziari a chi non collabora con la giustizia, ha avuto un senso quando lo Stato ha rischiato di piegarsi al ferocissimo attacco mafioso. Lo Stato, quindi, ha reagito forzando la nostra Costituzione. Sull’onda delle emozioni e dell’allarme sociale suscitato dalla morte di Giovanni Falcone, venne adottato il decreto legge dell’8 giugno 1992, numero 306, secondo il quale i condannati per i delitti mafiosi e terroristici potessero essere ammessi ai benefici premiali solo se avessero collaborato con la giustizia. Giovanni Falcone aveva pensato un 4 bis diverso - Non è stato un decreto voluto da Falcone, il quale ha ideato un 4 bis diverso e che non precludeva i benefici ai non collaboranti: parliamo di un decreto inasprito a causa della sua uccisione. Un attentato senza precedenti nei confronti di un giudice. Alle 17:58, al chilometro 5 della A29, nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine, il mafioso - poi collaboratore di giustizia - Giovanni Brusca ha azionato una carica di cinque quintali di tritolo sistemati all’interno di fustini in un cunicolo di drenaggio. Non è un caso che, dopo l’indicibile strage di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta, l’allora guardasigilli Claudio Martelli ha convinto il Parlamento ad approvare di fretta e furia il 41bis. Come lui stesso testimonia, ha firmato - addirittura sul cofano della macchina - una serie di decreti per spedire diverse centinaia di detenuti al carcere duro. Si prorogò in automatico il carcere duro per tutti - Ribadiamolo. C’era una emergenza, la sensazione che lo Stato rischiasse di mettersi in ginocchio era palpabile. Il risultato è che finirono al 41bis diverse centinaia di detenuti che mafiosi non erano: in automatico si prorogava il carcere duro per tutti. Pe questo motivo, nel 1993, grazie ai magistrati di sorveglianza che sollevarono la questione, è dovuta intervenire la Corte Costituzionale ordinando allo Stato di valutare caso per caso. Ed è stato l’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso a non prorogare il 41bis per circa 300 detenuti. Tutti mafiosi? Ebbene no, perché - come già detto - sull’onda dello stragismo, non si è avuto tempo per essere equilibrati. Infatti, a differenza di cosa dice la tesi giudiziaria sulla presunta trattativa Stato-mafia, i fatti ci dicono che dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo del 41bis, soltanto 18 appartenevano alla mafia. Non solo. A sette di loro, peraltro, nel giro di poco tempo, dopo un ulteriore valutazione, è stato nuovamente riapplicato. Ma erano boss di calibro i pochi mafiosi ai quali non è stato rinnovato il 41bis? Assolutamente no. Dalle carte risulta che né dalla Procura di Palermo e né dalle forze dell’ordine, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro. Nulla di oscuro, se non l’ulteriore dimostrazione che durante l’emergenza era facilissimo cadere in errore e non badare ai principi della costituzione italiana. La mafia stragista è stata sconfitta - Per questo, a distanza di 30 anni, il 4 bis, varato sull’onda emergenziale, non ha più giustificazione alcuna. Può rimanere benissimo quel 4 bis voluto da Falcone, nome evocato a sproposito questi giorni. Cosa prevedeva il 4 bis originario? Nessuna preclusione assoluta ai benefici, ma se uno collabora con la giustizia non è costretto ad aspettare più di 26 anni. Si premia chi collabora, ma non si preclude la speranza in chi non lo fa. Lo Stato di Diritto non può compiere estorsioni, altrimenti il confine tra il metodo mafioso e quello “legale” diventa labile, quasi del tutto inesistente. Marco Ruotolo: “Ergastolo ostativo, lo Stato prova a salvare il salvabile” di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 marzo 2021 Parla il docente di Diritto costituzionale dell'Università Roma Tre. “Non riesco proprio a comprendere la ragione per la quale si stia enfatizzando in questo modo l’intervento in udienza dell’Avvocatura generale dello Stato, la quale ha chiesto che la questione sull’ergastolo ostativo sia rigettata”. Il costituzionalista Marco Ruotolo, docente di Diritto costituzionale all’Università Roma Tre, non è d’accordo con chi ha interpretato le conclusioni dell’avvocato Ettore Figliolia, durante l’udienza pubblica in Consulta, come una piccola apertura verso l’abolizione dell’automatismo con il quale si impedisce la liberazione condizionale agli ergastolani che non collaborino con la giustizia. Professore, cosa ha sostenuto esattamente l’Avvocato dello Stato? Che la disciplina censurata può sempre essere letta in modo conforme a Costituzione, ossia senza escludere del tutto la possibilità di accedere alla liberazione condizionale per il condannato. Ciò che si evince dalla lettura delle pronunce della Cassazione richiamate dall’Avvocato dello Stato è, però, semplicemente una tendenza a richiedere una più puntuale verifica delle ragioni addotte dal condannato di considerare la collaborazione impossibile o inesigibile, per il fatto di non poter comunque fornire informazioni utili all’attività investigativa. Se si seguisse questo “suggerimento” dell’Avvocatura la questione di costituzionalità sarebbe da rigettare (o addirittura da ritenere inammissibile) per l’erroneo presupposto interpretativo dal quale prende le mosse l’ordinanza della Cassazione. Dunque, non c’è nulla di nuovo, nella conclusione del rappresentante legale dello Stato? Non la considererei una posizione “figlia” del presunto “nuovo vento” che soffia in via Arenula, come alcuni hanno sostenuto. A me pare un tentativo di “salvare il salvabile”, in quanto il precedente della Consulta sui permessi premio (sent. n. 253 del 2019) e la sentenza Viola della Corte Edu non sembrerebbero lasciare alternative all’accoglimento della questione. Entrambe, infatti, dicono ben altro e cioè che il difetto di collaborazione non può essere elevato ad indice invincibile di pericolosità sociale. Se si rigettasse la questione, pure seguendo l’interpretazione “suggerita” dall’Avvocatura, quell’indice rimarrebbe, sarebbe tutt’altro che superato. Al giudice della sorveglianza non sarebbe restituita la possibilità di valutare se vi siano elementi concreti (soprattutto riguardanti l’assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata) che consentano di ritenere superabile la condizione della mancata collaborazione, essendo piuttosto “invitato” “a valutare in concreto le ragioni per le quali la condotta collaborativa auspicata” non si è potuta realizzare, come ha detto l’Avvocato dello Stato. Si tornerebbe insomma al punto di partenza, ossia a riproporre l’argomento della sentenza n. 135 del 2003, per quanto superato dalla successiva giurisprudenza costituzionale ed europea: il condannato è sempre libero di cambiare la sua scelta di non collaborare (o di dimostrare che la sua collaborazione è “impossibile” o “inesigibile”), così superando la preclusione. Se da questo si vuole trarre a tutti costi un segnale di cambiamento di tipo politico e/o tecnico, si è proprio fuori strada! Dietro una soluzione apparentemente “progressista”, si cela (e non è poi così nascosta, né difficile da cogliere) la volontà di mantenere le cose come stanno. Eppure c’è già chi, come la Lega, alcuni parenti delle vittime e una certa magistratura antimafia, grida allo scandalo… Sì, in effetti questo “suggerimento” così enfatizzato, che dalla prospettazione di una inammissibilità si trasforma nell’indicazione di un possibile rigetto, sia pure non negando “aperture” che però sono in larga parte acquisite, ha già alimentato reazioni quasi fosse il preludio ad un “liberi tutti”. Figuriamoci cosa si direbbe in caso di accoglimento della questione, che in realtà si limiterebbe a rendere la liberazione condizionale non impossibile (a determinate, assai rigide, condizioni), ma sempre, ovviamente, improbabile o difficile. La Corte ha fatto sapere ieri che proseguirà la discussione dopo Pasqua... Anche questo può accadere - ed è già accaduto in passato - a fronte di una questione delicata, la cui decisione può richiedere tempi più lunghi di maturazione. Speriamo che non si enfatizzi oltre modo anche tale accadimento. La giustizia dei dilemmi di Paola Severino La Repubblica, 25 marzo 2021 La richiesta di revisione dell'ergastolo ostativo formulata dall'Avvocatura dello Stato alla Corte Costituzionale può essere meglio compresa e valutata solo se si chiariscono almeno 4 punti: quali sono i presupposti dell'ergastolo ostativo; quale è il quesito sottoposto al Giudice delle leggi; quali sono le ragioni portate da chi sostiene il permanere del regime cui si ispira questa misura antimafia; quali sono le ragioni addotte da chi ne propone la modifica. Quanto al primo punto, l'ergastolo ostativo deriva la sua denominazione dal fatto che la mancata collaborazione del condannato con la giustizia è considerata come un ostacolo all'accesso ai benefici penitenziari, tra cui appunto la liberazione condizionale. L'istituto, che trovò la sua configurazione più completa nel 1992, subito dopo la strage di Capaci, ha subìto alcune modifiche, dovute ad interventi della Corte Costituzionale, ma è rimasto identico quanto al regime della liberazione condizionale. La sentenza modificativa più importante è stata quella del 2019 (n. 253), con cui si è prevista l'ammissione dei condannati per i più gravi reati di mafia al godimento di permessi premio, anche in assenza di collaborazione, a condizione però che siano acquisiti “elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali”. Sul secondo punto, l'Avvocatura dello Stato, pur non chiedendo alla Corte di dichiarare incostituzionale la norma che preclude ai condannati all'ergastolo ostativo la liberazione condizionale se non collaborano, ha prospettato alla Consulta una possibile chiave interpretativa della norma, suggerendo l'eliminazione dell'attuale automatismo nel considerare la collaborazione l'unica forma di ravvedimento utile ad ottenere la liberazione condizionale, affidandone invece la valutazione caso per caso al Giudice di Sorveglianza. Non è difficile a questo punto immaginare quali saranno le obiezioni di chi è contrario alla modifica di questo regime. In primo luogo, potranno essere addotte motivazioni di politica criminale, come è già stato fatto da quella parte della magistratura antimafia che paventa l'indebolimento del sistema di contrasto alle organizzazioni criminali ideato e voluto da Giovanni Falcone. Poi verranno riprese le argomentazioni tradizionalmente addotte da chi ritiene che la collaborazione con la giustizia rappresenta il solo modo per recidere i collegamenti con l'associazione criminale e da chi sostiene che nella attuale regolamentazione non esiste alcun automatismo, poiché l'esito finale è rimesso ad una decisione del condannato (se collaborare o meno). Né è difficile ipotizzare i motivi che verranno addotti a sostegno della modifica dell'attuale regime. In primo luogo, si riprenderà il tema, già presente in una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, sul significato non univoco della collaborazione, in quanto non sintomatica di per sé dell'avvio di un percorso rieducativo, ma magari legata a mere valutazioni opportunistiche. Inoltre, si argomenterà che affidare ad un comportamento di collaborazione il compito esclusivo di testimoniare il taglio dei legami con l'organizzazione criminale di riferimento potrebbe impedire al Tribunale di Sorveglianza di valutare attraverso altri indici il percorso di riabilitazione del detenuto. La serietà degli argomenti che si possono invocare a fondamento dell'una o dell'altra soluzione mostra quanto sia difficile il compito affidato alla Corte. La sua decisione dovrà trovare un difficile equilibrio tra esigenze di difesa sociale e limiti costituzionali al regime carcerario. Essa inoltre dovrà stabilire se rientri nei propri poteri una interpretazione della norma che ne potrebbe amputare una parte, ovvero se questo sia compito del legislatore, previa dichiarazione di illegittimità costituzionale. Una decisione, anche questa, difficile da prendere perché lascerebbe un temporaneo vuoto normativo. Si tratta dunque di un compito davvero fondamentale per l'immagine pubblica e per il futuro assetto normativo del Paese, in una materia, quella della lotta alle mafie, in cui l'Italia è diventata un modello di ispirazione per la legislazione mondiale. È auspicabile, quindi, che la Corte possa svolgerlo nella serenità necessaria e fuori da qualunque contesto di strumentalizzazione che nuocerebbe soltanto al già tormentato panorama della Giustizia. *Vice Presidente Luiss Guido Carli Il carcere (non) è un posto per “ultimi” di Lucio Boldrin* Avvenire, 25 marzo 2021 Ogni giorno mi cresce il dubbio che, per la maggior parte dei detenuti, il carcere non sia il luogo più idoneo per aiutarli a riprendere in mano la loro vita. Di certo non vedo quel aspetto rieducativo che la detenzione dovrebbe avere. E l'ho visto ancora meno in questi 12 mesi segnati dalla pandemia e dalle conseguenti limitazioni. La mia percezione, da dentro, è che le persone che affollano il carcere, pagando spesso con una reclusione più pesante e lunga rispetto al reato commesso o per il quale sono state condannate, siano per lo più le meno abbienti, che per ragioni economiche devono affidarsi ad avvocati d'ufficio i quali (anche per la grande mole di lavoro che devono svolgere) non riescono a seguirle in maniera ottimale. Solo un 10 per cento di chi si trova in carcere può permettersi un avvocato “di nome”, che lo segua quasi quotidianamente favorendo una rapida risoluzione delle pratiche giuridiche. Per altro, gran parte di questa gente non è costituita da rapinatori sanguinari o pericolosi assassini, ma di poveri disgraziati. Molti soffrono di disagio psichico e dipendenze, sono colpevoli di piccoli furti o di spaccio di stupefacenti “al dettaglio”, tutti reati legati alla loro condizione di tossicodipendenti o di alcolisti. Queste persone dovrebbero scontare una pena adeguata, essere seguite e rieducate, non rinchiuse in cella e abbandonate a loro stesse, malgrado in proclami di una classe politica non sempre all'altezza. Ricordate i braccialetti elettronici? Sembravano la panacea di tutti i problemi di sovraffollamento delle carceri e di umanizzazione delle pene. Il progetto risale addirittura al 2001. È stato riproposto a marzo dello scorso anno per diminuire le presenze nelle carceri col crescere della pandemia. Ma, da quello che so, sono ben pochi i detenuti che ne hanno usufruito e, per di più, con costi economici elevati per lo Stato. Nel frattempo sono tenuti inspiegabilmente in carcere anche molti “senza dimora”, che la povertà materiale o mentale porta a vivere di espedienti, talvolta chiedendo soltanto l'elemosina, in altri casi rubando e, quasi sempre sotto l'effetto dell'alcol, diventando violenti. Poi ci sono gli stranieri, lontani da casa e senza nessuno, aiutati soltanto dai volontari e dai cappellani: arrivati in Italia seguendo l'illusione di una vita migliore e finiti a delinquere, spesso costretti da persone senza scrupoli sotto la minaccia di violenze su loro stessi o sui familiari rimasti nei Paesi d'origine. Per costoro è difficile perfino spiegarsi, farsi capire, per ragioni di lingua e di cultura, perciò molti sono discriminati anche in carcere. Poveri, senza tetto, malati psichici, tossicodipendenti, stranieri: quando usciranno dove andranno? Ritorneranno “invisibili” nelle nostre strade fino al prossimo atto violento, magari un modo per gridare “Esistiamo, siamo persone anche noi”? La sensazione, infatti, è che la detenzione come è ora serva soprattutto a costruire nuovi “ultimi”, in carcere e nella società. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Covid, aumentano i positivi in carcere: 576 detenuti e 738 agenti ansa.it, 25 marzo 2021 A Volterra, Catanzaro, Pesaro e Asti i principali focolai. Aumentano i casi di Covid 19 anche nelle carceri. Secondo i dati aggiornati a lunedì 22 marzo sono 576 i detenuti e 738 i poliziotti penitenziari positivi. Nel precedente rilevamento (18 marzo) erano rispettivamente 503 e 680 e il 9 marzo erano 468 e 612. La gran parte di chi ha contratto il Coronavirus è asintomatico: lo sono 549 detenuti, 17 sono invece ricoverati in ospedali, mentre 10 presentano sintomi ma sono curati in carcere. Tra i poliziotti gli asintomatici sono 679, mentre i sintomatici sono 59. Sedici sono ricoverati in ospedale, mentre la maggior parte dei positivi (712) è a casa e solo 10 in caserma. Tra il personale amministrativo e dirigenziale dell'amministrazione penitenziaria i positivi sono 52 e non c'è nessun ricoverato. Preoccupano alcuni focolai, il principale tra i detenuti è a Volterra, dove sono 63 i positivi, tutti asintomatici. Segue Catanzaro (50, tutti senza sintomi), Pesaro (46 asintomatici, più un detenuto ricoverato in ospedale) e Asti (39 asintomatici e un detenuto in ospedale).? Covid in carcere, solo 2.500 detenuti su 54mila sono stati vaccinati giustizianews24.it, 25 marzo 2021 Dosi a rilento anche per la Polizia penitenziaria. La situazione contagi nelle carceri italiane è definita “allarmante” dal segretario generale del sindacato di Polizia penitenziaria S.Pp. Aldo Di Giacomo. A incidere sulla sua dichiarazione sono i numeri registrati negli ultimi quindici giorni che attestano un aumento del 15% dei casi. I detenuti contagiati sono 576, per 17 dei quali è stato necessario il ricovero. In Lombardia, la Regione con più casi, i detenuti affetti da Covid -19 sono 91, mentre gli istituti più colpiti sono quelli di Catanzaro con 50 detenuti infetti seguito da Pesaro con 46 ed Asti con 39. I poliziotti penitenziari contagiati, invece, sono 790. La Regione che vede più contagi è l’Emilia-Romagna con 92 positivi seguita dal Lazio con 89 mentre gli istituti con più poliziotti penitenziari contagiati sono quelli di Bologna con 23 infetti e Venezia Santa Maria Maggiore con 22. “Il piano vaccinale - afferma Di Giacomo - continua con difficoltà con solo 11200 poliziotti penitenziari avviati alla prima somministrazione e con alcune Regioni, come il Molise, in cui nessuno poliziotto è stato ancora vaccinato”. Ancor peggio per i detenuti, con solo 2500 su un totale di circa 54 mila detenuti. “Siamo molto preoccupati- continua - perché se il virus, ma soprattutto le sue varianti, dovessero entrare nelle carceri il pericolo sarebbe altissimo. Abbiamo provveduto in queste ore ad allertare l’Amministrazione ma soprattutto le Asrem ed i Prefetti per velocizzare al massimo l’effettuazione dei vaccini per i poliziotti penitenziari ed i detenuti. Se il piano vaccinale non viene portato avanti in modo più veloce, il rischio contagio potrebbe essere di grave pregiudizio all’incolumità di detenuti e poliziotti”. Istituti di pena, mancano i direttori di Ilaria Sesana Avvenire, 25 marzo 2021 Su 190 strutture, 43 non hanno un dirigente titolare. Da anni, molte carceri italiane aspettano la nomina di un direttore titolare. All'interno di un panorama in cui gli organici di tutte le professioni che operano all'interno degli istituti di pena soffrono di una grave carenza di personale (dagli agenti di polizia, agli educatori) il corpo dei dirigenti di istituto non fa eccezione. A febbraio 2021, secondo le stime dell'associazione Antigone, sono 147 gli istituti penitenziari per adulti hanno un direttore titolare sui 190 presenti in Italia; 31 hanno un direttore reggente, mentre per i restanti 12 non viene indicata la tipologia di incarico. Questo significa che in molti casi un direttore è a capo di due o più istituti. Sebbene si tratti, nella maggior parte dei casi di carceri di ridotte dimensioni o dislocate in territori limitrofi, “vi sono anche esempi di doppi incarichi in istituti di dimensioni maggiori, come nel caso della Casa circondariale di Cosenza e la casa di reclusione di Rossano, ospitanti più 200 persone detenute e gestite dallo stesso dirigente” scrive Antigone nel XVII rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia. La situazione più grave è in Sardegna “dove su dieci istituti di pena, soltanto uno ha un direttore incaricato solo per quella sede” e dove il direttore del carcere di Cagliari deve gestire anche Isili (a quasi un'ora e mezza di strada dal capoluogo) e Lanusei (due ore). Per sanare questa situazione, il 5 maggio 2020 il ministero della Giustizia aveva indetto un concorso per l'assunzione di 45 nuovi dirigenti penitenziari, cui si aggiungono altri cinque posti per la direzione degli Istituti penali minorili (IPM). Una decisione importante se si pensa che l'ultima assunzione di queste figure risale al 1997. Ma la data della prima prova scritta non è ancora stata fissata: dopo una serie di cinque rinvii - legati all'emergenza Covid-19 - il ministero aveva annunciato che le date e la sede di svolgimento della prima prova scritta sarebbero state “stabilite con successivo provvedimento a far data dal 23 marzo 2021”. Oltre ai casi in cui un solo direttore gestisce più istituti, il Sindacato dei direttori penitenziari (Si.Di.Pe) segnala con preoccupazione il fatto che alcuni dirigenti gestiscano, oltre a un carcere per adulti, anche un Istituto penale per minorenni (come avviene a Roma, Milano, Catania e Airola) o un Ufficio per l'esecuzione penale esterna. “È urgente sanare al più presto questa situazione-commenta Rosario Tortorella, segretario nazionale del Si.Di.Pe. Quella del direttore è una figura indispensabile, perché ha il compito di contemperare le esigenze di sicurezza con quelle trattamentali. L'insufficienza numerica dei dirigenti determina uno sbilanciamento verso la sicurezza”. La carenza di queste figure professionali coincide poi con un periodo in cui il numero di detenuti (53.697 al 28 febbraio 2021) è superiore rispetto ai 50mila posti disponibili. “Il direttore ha un ruolo chiave nel garantire il senso costituzionale della pena, rappresenta il punto di equilibrio tra istanze di sicurezza e istanze di risocializzazione. Negli istituti dove manca un direttore di ruolo è più facile che ci siano malfunzionamenti, da cui possono derivare anche episodi gravi come violenze, maltrattamenti e abusi- sottolinea Claudio Paterniti di Antigone È chiaro che quando deve dividersi tra istituti molto diversi e magari distanti l'uno dall'altro, il lavoro è più difficile”. Giusto processo e prescrizione, penalisti da Cartabia: “Interesse e apprezzamento della ministra” di Angela Stella Il Riformista, 25 marzo 2021 L’Unione delle Camere Penali riparte dal Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo: è stato questo uno degli argomenti trattati ieri durante l’incontro con la ministra Cartabia, a cui hanno preso parte il presidente Gian Domenico Caiazza, il vice presidente Nicola Mazzacuva e il segretario Eriberto Rosso. Caiazza ha infatti informato la ministra “delle iniziative di studio e di proposta sui temi del processo penale e della prescrizione, che l’Unione sta organizzando in questi giorni in collaborazione con gli studiosi delle Università italiane che hanno condiviso il progetto del Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo”. I penalisti hanno voluto dunque mettere sul tavolo di discussione il documento volto a fronteggiare l’avvento dei populisti al governo del Paese e la più remota crisi del garantismo penale. Una battaglia storica dell’avvocatura, che si rende ancora più urgente in questo momento, in cui si sta discutendo di moltissime riforme della giustizia. La ministra ha espresso “interesse e apprezzamento per l’iniziativa, sollecitando l’Unione a comunicarne gli esiti in tempo utile per le prospettive di riforma della legge delega”. Per i penalisti, la “speranza” è che la ministra con il suo impegno “possa finalmente contribuire ad interventi legislativi sulla ragionevole durata del processo”. Quanto alla riforma dei tempi del processo penale, l’Unione “ha richiamato le proposte a suo tempo avanzate in accordo con la rappresentanza della Magistratura associata al tavolo ministeriale per il recupero della durata ragionevole del processo penale, senza alcuna compromissione delle garanzie difensive”. Ma la giornata della ministra era iniziata con altri incontri formali e non relativi ad altre importanti questioni, come la Procura Europea, la riforma del Csm e il rafforzamento della presunzione di innocenza. La fase politica non è ancora quelle delle decisioni importanti ma quella dell’ascolto delle proposte e del tentativo, spesso non facile, di far trovare una sintesi a una maggioranza troppo spesso solo di facciata. Ma vediamo nel dettaglio. La giornata della Guardasigilli è iniziata a Palazzo dei Marescialli: prima al plenum del Csm, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dove con ritardo si è fatto un passo avanti verso la Procura Europea. Il plenum ha infatti votato sì - con le tre astensioni dell’ex pm di Palermo Nino Di Matteo, e dei consiglieri laici indicati dalla Lega Stefano Cavanna ed Emanuele Basile - alla proposta del ministro della Giustizia con cui si individuano numeri e distribuzione dei procuratori distrettuali. Una proposta che il Csm ritiene allo stato condivisibile, in attesa di valutare eventuali criticità che potrebbero incidere sulle funzionalità della nuovo procura, che a breve sarà titolare dell’azione penale per i reati contro gli interessi finanziari dell’Unione Europea. La struttura centrale della Procura Europea esiste, ma il nostro Paese dovrà accelerare per colmare il vuoto che finora ha lasciato e designare i magistrati italiani che dovranno assolvere questa funzione. Saranno venti i pm italiani che si occuperanno di perseguire questo tipo di reati: “È necessario completare questo percorso con la massima tempestività - ha detto il ministro Cartabia - recuperando il ritardo accumulato nelle precedenti fasi di adeguamento dell’ordinamento interno alle rilevanti normative europee”. L’auspicio del Procuratore capo europeo “è che si possa dare - ha concluso la Guardasigilli - avvio alle attività in occasione della prossima giornata europea, il 9 maggio: data simbolica per segnare una nuova tappa dell’integrazione giuridica e giurisdizionale”. Nel suo intervento invece il presidente della Repubblica ha evidenziato la necessità di interventi di riforma della giustizia: “La guida del ministro della Giustizia è sempre di importanza primaria nella vita delle istituzioni del nostro Paese. Lo è particolarmente in questo periodo, sia per gli adempimenti che nell’ambito del Recovery Plan riguardano il settore della giustizia, sia per le attese di necessari e importanti interventi riformatori oggetto di confronto in Parlamento”. In conclusione, raccogliendo l’invito del vicepresidente del Csm, David Ermini, a tornare a Palazzo dei Marescialli per discutere della riforma del Consiglio, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha assicurato che lo farà presto. Un altro nodo da sciogliere per via Arenula è quello relativo alla presunzione di innocenza e al recepimento della direttiva europea che raccomanda e pretende che gli Stati membri facciano rispettare da tutti gli organi dello Stato il principio della presunzione di non colpevolezza: in l’Italia la direttiva non è stata ancora recepita ed è scontro all’interno della maggioranza sulla legge di delegazione europea. Ieri pomeriggio la Guardasigilli ha incontrato i capigruppo della Commissione giustizia e altri membri delle forze politiche che appoggiano il Governo. La linea dettata dalla ministra è quella di lasciare loro la possibilità di trovare un accordo sul tema, rispetto ai modi, ai tempi e ai contenuti del recepimento della direttiva e di comunicarle poi la sintesi. Se il risultato proposto sarà all’altezza delle aspettative, allora la questione potrà essere tolta dal tavolo di discussione ministeriale. Al termine dell’incontro il deputato e responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa ha detto: “Confidiamo che i nostri emendamenti che richiedono il recepimento della Direttiva Ue sulla Presunzione di Innocenza siamo approvati al più presto. Nella maggioranza di cui facciamo parte non si può indugiare, né prendere tempo su principi inaggirabili della nostra Costituzione”. Il blitz contro prescrizione e intercettazioni di Giulia Merlo Il Domani, 25 marzo 2021 La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha impresso un indirizzo decisamente diverso rispetto a quello del suo predecessore Cinque stelle, Alfonso Bonafede. Il segnale più tangibile è stata la promessa della guardasigilli di rimettere mano alla legge sullo stop alla prescrizione sia per i condannati che per gli assolti dopo la sentenza di primo grado, voluto dal Movimento 5 stelle ed entrato in vigore a gennaio 2020. Proprio in segno di fiducia, il fronte garantista della nuova maggioranza - costituito da Azione, Più Europa, Italia viva e Forza Italia - aveva ritirato gli emendamenti presentati al disegno di legge penale. Ora, però, dopo un mese di non belligeranza, è pronto il blitz che punta a smontare pezzo per pezzo le due riforme caratterizzanti del precedente governo e bandiere dei Cinque stelle: prescrizione e intercettazioni. Lo stratega dietro le mosse è il parlamentare ex Forza Italia ora passato ad Azione, Enrico Costa, avvocato e specialista di tecniche parlamentari, nemico giurato di Bonafede in materia penale. La prescrizione - La modifica sarà contenuta nel disegno di legge di riforma del penale: è notizia di ieri che il termine per la presentazione degli emendamenti sia slittato di un mese rispetto a quello fissato: ora la data è quella del 23 aprile. Se da un lato si attende la proposta ministeriale, a cui è al lavoro una commissione di esperti nominata da Cartabia, Costa non ha intenzione di rinunciare alle sue proposte: aveva ritirato il suo emendamento, ma ora è pronto a ripresentarlo. “Il processo deve avere durata ragionevole e per farlo il contenzioso va ridotto, quindi presenterò emendamenti su depenalizzazione, aumento dei reati perseguibili a querela e maggiori premialità per i riti alternativi”, ha spiegato. A questi emendamenti, però, se ne somma un altro che da un lato cancella lo stop alla prescrizione di Bonafede, dall’altro inserisce la cosiddetta prescrizione processuale, che consiste nella fissazione di tempi certi per ogni grado di giudizio, “superati i quali il pm decade dall’azione”. Una proposta ritenuta inaccettabile dai Cinque stelle ma che sembra sovrapponibile a quella già avanzata dal Partito democratico, che dunque - in caso di voto sull’emendamento - si troverebbe davanti al dilemma di rimangiarsi una posizione già resa pubblica pur di mantenere l’asse coi Cinque stelle, ma col rischio di finire comunque in minoranza se sulla linea di Costa confluissero gli altri partiti di maggioranza, Lega compresa. “In teoria il Pd sarebbe d’accordo, è in pratica che non decide mai”, dice Costa. L’ipotesi che allo scontro non si arrivi, allora, è lasciata nelle mani di Cartabia e della proposta ministeriale che la commissione sta elaborando per depotenziare il tema della prescrizione, diluendolo in un pacchetto di norme sulla ragionevole durata del processo. Le intercettazioni - In materia di intercettazioni - la cui utilizzabilità è stata estesa dalla legge approvata dal precedente governo - il grimaldello scovato da Costa è una legge di delegazione europea. Costa ha ripresentato (come già aveva fatto nel governo Conte) un emendamento a questa legge, che è stato sottoscritto anche da Riccardo Magi di Più Europa e da Forza Italia, mentre altri due analoghi sono stati depositati da Lucia Annibali di Italia viva e dalla Lega. L’obiettivo è di far recepire una direttiva del parlamento europeo datata 2016, che introduce alcuni elementi di rafforzamento al principio della presunzione di innocenza. La direttiva prevede che “le dichiarazioni delle autorità pubbliche non devono trasmettere l’idea che l’indagato sia colpevole”, che si tradurrebbe in un limite alle conferenze stampa dei magistrati. Costa, inoltre, chiede anche l’introduzione nella legge di quanto stabilito da una sentenza della Corte di giustizia europea del 2 marzo: l’equiparazione dei tabulati telefonici alle intercettazioni e la necessità di una autorizzazione da parte di un giudice terzo, solo per un elenco di reati gravi e con limiti più stringenti. Il pacchetto piace a Lega, Forza Italia e Italia viva e rischia di far saltare un altro pezzo delle intercettazioni di matrice grillina. “Mi è stato chiesto di inserire questi emendamenti nel ddl penale, ma la sede giusta per recepire queste indicazioni europee è la legge di delegazione europea”, ha detto Costa. Anche perché il ddl avrà gestazione lunga. Le mosse del blocco “garantista” - in particolare sulla prescrizione - sono propiziate da due elementi. Al ministero siede una ministra che già ha mostrato aperture e ad affiancarla c’è il sottosegretario forzista Francesco Paolo Sisto, che da giorni rilascia interviste per ribadire come la legge vada cambiata al più presto. Inoltre, anche il Pd, che ha annunciato proposte sulla prescrizione processuale, potrebbe lasciare i Cinque stelle in solitudine a difendere la posizione, ma per la prima volta in minoranza. Finita la tregua sulla Giustizia. Il calendiano Costa ritenta il blitz di Raffaella Malito La Notizia, 25 marzo 2021 Bavaglio ai pm e paletti su tabulati e intercettazioni. Il Conte II è caduto alla vigilia della relazione sullo stato della giustizia che avrebbe dovuto tenere in Parlamento Alfonso Bonafede, in mancanza di un accordo tra le forze di maggioranza sul tema. Ma col governo dei migliori la situazione non è più agevole. E “la giustizia” ritorna a essere un terreno scivoloso anche per l’esecutivo Draghi. Doveva arrivare entro questa settimana, nell’aula della Camera, ma quasi certamente slitterà alla prossima la legge di Delegazione europea. “Mi pare che ci sia un nodo ancora da sciogliere”, dice a La Notizia sorridendo il deputato e responsabile Giustizia di Azione, il movimento di Calenda, Enrico Costa. Il nodo che tiene imbrigliata la maggioranza è quello relativo al principio della presunzione di innocenza (leggi l’intervista al presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni). Costa, insieme con Riccardo Magi di +Europa, e Forza Italia hanno depositato emendamenti per il suo inserimento sin dai tempi del governo Conte. E qualche giorno fa ai loro si sono aggiunti quelli della Lega e della renziana Lucia Annibali. Tutti chiedono che venga accolta la Direttiva (Ue) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, “sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Incoraggiati anche da quanto ha dichiarato la ministra Marta Cartabia alla commissione Giustizia della Camera il 15 marzo: “C’è la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano da strumenti mediatici per l’effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza”. La Guardasigilli, secondo alcuni osservatori, auspicherebbe che la questione venisse affrontata in altro provvedimento. Da Via Arenula ci spiegano che la ministra non ha spinto in nessuna direzione, ma ha chiesto semplicemente alle forze parlamentari che siano loro a trovare una soluzione condivisa. E lo ha fatto nel corso di una riunione con i capigruppo della commissione Giustizia tenuta ieri. Durante la quale il sottosegretario agli Affari europei, Enzo Amendola, avrebbe chiesto il ritiro degli emendamenti e così anche i Cinque Stelle. Forza Italia e Lega avrebbero spiegato di poter ritirare gli emendamenti solo se lo faranno tutti. La questione è delicata e tocca un nervo scoperto dei pentastellati. Anche perché Costa ha presentato come corollario dell’emendamento, che introduce il principio della presunzione d’innocenza, altre proposte che limitano fortemente l’attività dei pm. “Basta processo mediatico, basta conferenze stampa senza il rispetto della presunzione d’innocenza, basta filmati contenenti riprese di atti d’indagine preliminare, quali intercettazioni, videoregistrazioni, fotogrammi, esecuzione di perquisizioni o di misure cautelari, dati in pasto alle tv ed alla rete prima ancora che gli indagati conoscano le accuse a loro carico, basta battezzare le inchieste con denominazioni altisonanti, basta audio delle intercettazioni diffusi prima ancora di essere vagliati all’udienza stralcio, basta pubblicazione integrale di atti prima della chiusura delle indagini”, dichiaravano il 24 gennaio Costa e Magi presentando i loro emendamenti alla Camera. E tra questi c’è anche quello che punta all’equiparazione dei tabulati telefonici alle intercettazioni: per ottenerli non basterebbe più la richiesta del pm ma servirebbe l’autorizzazione del gip. E la legge dovrebbe stilare l’elenco dei reati per i quali consentire la richiesta: solo reati gravi. Una procedura garantista, quest’ultima, che potrebbe avere l’effetto indesiderato di rallentare il cammino delle indagini. E che se scatena l’entusiasmo di Lega, azzurri e renziani appare troppo per il M5S. A suo tempo i Cinque Stelle in commissione Giustizia sono riusciti a bloccare gli emendamenti in questione ma oggi che i garantisti fanno parte del governo la partita si complica. “Io penso che una maggioranza che nutra dei dubbi sulla presunzione d’innocenza ci metterebbe in serio imbarazzo”, spiega il deputato del momento di Carlo Calenda. Il ministro Federico D’Incà si starebbe spendendo per convincere i garantisti a fare marcia indietro. Ma Costa e parte della truppa non intendono mollare. “Sul rafforzamento della presunzione di innocenza e sul diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali non possono esserci ambiguità. La maggioranza ha l’occasione di approvare il recepimento secco della direttiva europea, subito”, dichiara Annibali che sul tema ha presentato anche una proposta di legge. “Il principio di presunzione d’innocenza è contenuto in una direttiva europea e ritengo che questa - la legge di Delegazione europea - sia la sede idonea per recepirla. La ministra non ci ha chiesto di dirottare la questione altrove ma ci ha invitato a fare le nostre valutazioni e a comunicarle”. Il nodo si fa sempre più stretto. Giustizia mediatica, così l’Italia sbeffeggia l’Ue e la Costituzione di Giorgio Spangher Il Dubbio, 25 marzo 2021 Dal 2016 saremmo tenuti a recepire il testo che vieta ai pm di additare gli imputati come colpevoli. L'intervento di Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto Processuale Penale alla Sapienza. Sta andando in scena alla Commissione Giustizia della Camera qualcosa di surreale. Si tratta del recepimento della cosiddetta legge europea della direttiva Ue 2016/234 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, leggasi duemila sedici, relativa al rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto dell’imputato di presenziare al processo nei procedimenti penali. Com’è scritto nelle considerazioni iniziali (1), si tratta di quanto previsto, relativamente al diritto ad un equo processo ed alla presunzione di innocenza, dagli artt. 47 e 48 della Carte dei diritti fondamentali dell’Unione europea (“Carta”) e dall’art. 6 della Cedu, dall’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e dall’art. 11 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Dopo 51 premesse, l’articolato si struttura in 11 articoli e fissa al 1° aprile 2018 il termine entro il quale gli Stati membri devono dare attuazione alle disposizioni della direttiva. Come emerge dalla intitolazione, sono due le aree tematiche di intervento: la presunzione di innocenza e il diritto di presenziare al processo. Nel delineare l’ambito di applicazione della direttiva, si precisa che la direttiva si applica a ogni fase del procedimento, dal momento in cui una persona sia indagata o imputata per aver commesso un reato o un presunto reato sino a quando non diventa definitiva la decisione che stabilisca se la persona abbia commesso il reato, cioè, ai sensi dell’art. 3, sino a quando non sia stata legalmente provata la colpevolezza. Il nucleo centrale della direttiva è racchiuso nell’art. 4, comma 1, ove si dispone che “Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità”. Al comma 2 della stessa disposizione si dispone che a garanzia del rispetto di queste previsioni deve essere assicurato agli indagati e imputati un ricorso effettivo. I riferiti limiti informativi (art. 4, comma 3) non impediscono alle pubbliche autorità di divulgare informazioni sui procedimenti penali qualora non sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico. Nella prospettiva qui considerata, all’art. 5 si prevede che “Gli Stati membri adottano le misure appropriate per garantire che gli indagati e imputati non siano presentati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica. Il paragrafo 1 non osta a che gli Stati membri applichino misure di coercizione fisica che si rivelino necessarie per ragioni legate al caso di specie, in relazione alla sicurezza o al fine di impedire che gli indagati o imputati fuggano o entrino in contatto con terzi”. Con ulteriori disposizioni si precisano i temi dell’onere della prova della colpevolezza che incombe all’accusa, del diritto alla prova (art. 6), del diritto al silenzio e del diritto di non autoincriminarsi (art. 7), nonché gli artt. 8-9 disciplinano il diritto di presenziare al processo, e il diritto ad un nuovo processo in caso di mancata presenza al processo. Dopo l’art. 10 che, come visto, richiede la predisposizione di un ricorso effettivo in caso di violazione dei diritti di cui alla direttiva, l’art. 11 prevede che entro il 1° aprile 2020 e successivamente ogni tre anni, gli stati membri trasmettano i dati con cui si è data attuazione alla direttiva e entro il 1° aprile 2021 sia presentato al Parlamento europeo ed al Consiglio una relazione sull’attuazione della direttiva. Quanto esposto, impone una riflessione preliminare sull’europeismo ad intermittenza ed a parole: una direttiva del 2016, non solo non è stata recepita ma sembra sussistano difficoltà per il suo recepimento. Pochi giorni fa la Corte di Lussemburgo ha precisato che per i tabulati è necessaria l’autorizzazione del giudice, essendo il pm una parte processuale contrapposta alla difesa. Ieri la Cedu ha condannato (per la seconda volta) l’Italia per la durata delle indagini che abbia impedito alla persona offesa di costituirsi parte civile, a pochi mesi di distanza da una decisione di contrario avviso della Corte costituzionale (C. cost. n. 249 del 2020). Pochi mesi fa, il Parlamento non ha ritenuto di aderire al protocollo 16 della Cedu. Tornando alla direttiva, sono chiare le resistenze per la sua approvazione ove si considerino le esternazioni della polizia giudiziaria e dei pubblici ministeri, la fuga sapiente di notizia, di interviste, di processi mediatici, con possibili condizionamenti sull’attività dei collegi giudicanti e disorientamenti dell’opinione pubblica. A tacer d’altro, basterebbe considerare che la presunzione d’innocenza, con le sue implicazioni che la direttiva evidenzia in termini maggiormente contenutistici, figura già nella nostra Carta costituzionale. Cosa impedisce un rapido recepimento? Un retro pensiero sulla disciplina della sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado? La giustizia digitale è progresso se non pretende di schiacciare la persona di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 25 marzo 2021 Il processo digitale è stato affinato durante l'emergenza ma non può diventare la normalità. Sarebbe prezioso se nel dopo covid si riuscisse a rendere stabile la parte telematica della stessa attività penale. Ma neppure si può correre il rischio, nello stesso processo civile, di una disumanizzazione cartolare. Tenere la persona al centro di tutto, come chiede pure la guardasigilli, è la chiave per trovare il giusto limite fra tecnologia e diritti. Volendo avere uno sguardo ottimista sul presente, si può dire che la crisi pandemica, tra i molti negativi e devastanti effetti, ha avuto perlomeno il merito di porre in risalto il tema della digitalizzazione, ambito in cui l’Italia è storicamente in ritardo rispetto ad altri Paesi della zona euro. C’è dunque una seria possibilità che dall’emergenza sanitaria derivi un processo di miglioramento delle infrastrutture digitali e informatiche, in particolare all’interno della Pubblica amministrazione, che potrebbe giovarsi enormemente dell’emancipazione dalla lenta e vetusta burocrazia cartolare che ancora la attanaglia. Anche il sistema giustizia non è rimasto immune da simili cambiamenti, al punto che dal primo lockdown del marzo dello scorso anno i procedimenti hanno iniziato a svolgersi (anche) tramite collegamenti telematici su piattaforme di comunicazione video, sia in ambito civile che penale. Simili modalità sarebbero state adottate in modo particolarmente esteso anche in ambito penale, se non fosse intervenuta la corretta ferma opposizione delle parti processuali, private e pubbliche. Non solo: ancora oggi gli uffici giudiziari sono impegnati nel tentativo non sempre efficace di digitalizzare i processi, da una parte per evitare il proliferare di occasioni di contagio e, dall’altra, anche per motivi di semplice economicità e celerità delle procedure, le quali, grazie all’aiuto di nuovi sistemi informatici, risultano meno gravose per le cancellerie. Il procedimento di digitalizzazione degli uffici giudiziari, per quanto risulti, a parere di chi scrive, negativo e non consono alle attività difensive, presenta comunque aspetti positivi che sarà bene mantenere e migliorare anche nel periodo post-Covid. In particolare, assolutamente apprezzabili sono le recenti direttive ministeriali che, nel tentativo di rendere più sicure dal punto di vista sanitario le attività giudiziarie, hanno stabilito tutta una serie di nuove modalità per lo svolgimento delle udienze e il deposito atti. Ma procediamo con ordine. Innanzitutto, risulta necessario porre in risalto le differenze tra i procedimenti civili e penali. Infatti, mentre i primi risultano oramai quasi del tutto digitalizzati, il processo penale da poco sta iniziando ad adeguarsi al mezzo informatico. Riguardo al civile, assolutamente apprezzabili sono le modalità di deposito degli atti tramite il sistema telematico. Non solo alleggeriscono enormemente le cancellerie da tutto il lavoro che comporta la gestione dell’immensa mole di carta portata alla loro attenzione, ma rendono il procedimento anche più “sicuro”. Tutto quanto rimane registrato su un sistema informatico, ministeriale, entro il quale le parti possono adeguatamente e facilmente mantenerne traccia, senza tutti quelli che sono i rischi legati alla conservazione di una copiosa mole cartolare. Pertanto, non può che essere di segno positivo la valutazione in ordine alla gestione dei fascicoli e deposito atti con il sistema telematico. Tuttavia, assai meno apprezzabile è la recente tendenza dei giudici nel civile di mutare lo svolgimento delle udienze dalla forma fisica a quella figurata. Sempre nel nome dell’emergenza Covid, si sta riducendo l’attività difensiva a un mero scambio cedolare, ove le parti non hanno modo di vedersi, capirsi, parlarsi, se non tramite semplici file depositati su un sistema telematico. Siffatte udienze figurate, purtroppo, vanno inevitabilmente a sacrificare tutta la parte umana che comporta un procedimento, parte che non può e non deve essere così nettamente compressa. Se si sceglie di operare in tal modo, riducendo la discussione a un semplice scambio di memorie, si finisce per ridurre il contraddittorio in un asettico scambio di opinioni scritte, con evidente sacrificio delle garanzie costituzionali così come previste dall’articolo 111. Per quanto concerne il settore penale, questo è accaduto con lo svolgimento delle udienze in telematico. Il processo penale, tendenzialmente tra i più delicati del sistema giudiziario per come è strutturato e per quelle che sono le sue finalità, non può in alcun modo rimpiazzare il contraddittorio fisico con quello telematico e, tanto meno, con una versione cartolare. Tuttavia, al momento, le disposizioni ministeriali, consapevoli di quanto detto poc’anzi, si sono limitate a prevedere il processo penale telematico solo durante il periodo della pandemia, allorquando la necessità di tutelare la salute pubblica a fronte di un male sconosciuto poteva giustificare il sacrificio del contraddittorio, nonché disporre tutta una nuova disciplina per il deposito in via telematica degli atti. È ottima l’iniziativa di creare un portale telematico penale, sulla falsa riga di quello civile, presso il quale depositare atti indirizzati alla Procura, come atti di nomina o denunce-querele. Lo è a condizione che, diversamente da quanto denunciato negli ultimi giorni, quell’infrastruttura funzioni. C’è da augurarsi che si mantenga e migliori tutta la disciplina relativa al deposito degli atti, civili e penali, nel segno della celerità, snellezza, imparzialità ed uniformità. Non altrettanto può dirsi, invece, per quanto concerne la salvaguardia del contraddittorio, il quale non potrà mai essere sostituito da modalità telematiche, recidendo di netto la necessaria componente umana. Fortunatamente la stessa neo guardasigilli aveva esordito ad inizio mandato con l’apprezzabile affermazione per la quale la giustizia dovrebbe sempre avere un volto umano. L’uomo, dunque, prima di ogni altro adempimento. *Avvocato, direttore Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici Chi ha paura della giustizia europea? di Claudio Cerasa Il Foglio, 25 marzo 2021 Il varo della procura europea Eppo spaventa l'antimafia alla Di Matteo. Che il percorso di Marta Cartabia, ministro della Giustizia, non sarebbe stato una discesa era evidente dal primo momento. Le polemiche rinnovate attorno alla possibile abolizione dell'ergastolo ostativo (“stanno per dare il colpo di grazia a Paolo Borsellino e a Giovanni Falcone, stanno per pagare l'ultima e più pesante cambiale sottoscritta nel corso della trattativa”, ha detto al limite della farneticazione Salvatore Borsellino) o le baruffe sulla prescrizione, nodo al momento intoccabile, sono lì a dimostrarlo. Si sa però che il vero e più urgente dossier sul tavolo della responsabile di via Arenula è quello che riguarda le riforme, in gran parte civilistiche e organizzative, che l'Europa ha esplicitamente richiesto all'Italia affinché il nostro paese possa accedere agli aiuti del Next Generation Eu. Rapidità dei processi, snellimento delle procedure, certezza del diritto sono riforme non più rimandabili. C'è inoltre la necessità di armonizzare il lavoro della magistratura all'interno di un contesto sempre più strettamente comunitario. E, quando i fondi del Recovery plan saranno operativi, ci sarà ovviamente la necessità di controllarne il buon uso. Non è un caso che assuma una particolare importanza la nascita della Procura europea (Eppo) perché, nelle parole di Sergio Mattarella, “uno spazio di comuni diritti impone la ricerca di pervenire a soluzioni condivise”. Il modello di pubblico ministero europeo prevede un ufficio unico a struttura decentrata: sarà cioè attivo nei vari paesi. Il suo compito sarà indagare i reati che colpiscono gli “interessi europei”. Un cambiamento cruciale. Ma fa specie come, anche in questo caso, le voci di protesta e di allarmismo contro la nuova giustizia comunitaria vengano dall'antimafia chiodata. Nino Di Matteo teme che la procura europea “rappresenti nel nostro paese un depotenziamento dell'altissimo livello di contrasto alle mafie finora assicurato dall'attribuzione in esclusiva alle direzioni distrettuali e della procura antimafia”. Fidarsi dei giudici della Trattativa, ma non di quelli europei. Albamonte: “Le valutazioni dei magistrati non siano guidate dall’emotività” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 marzo 2021 L'ex presidente dell'Anm Eugenio Albamonte replica a Ermini: “ll cittadino non ha bisogno di pochi giudici eccellenti che trattino le cause più importanti; al contrario necessitano di magistrati che arrivino ad un livello di adeguatezza”. Prosegue anche dalle pagine di questo giornale il dibattito sulla valutazione professionale dei magistrati. Dopo l’intervista di ieri al professor Giuseppe Di Federico per cui “l’attuale Csm non effettua da tempo le valutazioni di professionalità ai fini dell’avanzamento in carriera”, essendo esse sempre positive in un range che varia tra 99,1% ed il 99,5%, oggi ci confrontiamo con il dottor Eugenio Albamonte, pubblico ministero a Roma, già presidente dell’Anm, e attuale Segretario generale di Area Democratica per la Giustizia. Dottor Albamonte, le faccio la stessa domanda che ho posto al professor Di Federico: cosa pensa della proposta del vice presidente Ermini? Concordo con il presidente Santalucia che ha sostenuto che non è una proposta accettabile, soprattutto perché così come è stata posta sui giornali manca di approfondimento. Sembra una proposta ritagliata sull’emotività del momento, in relazione ad alcune vicende giudiziarie che hanno fatto scalpore a livello mediatico. Non è opportuno utilizzare un caso singolo per portare la discussione sul piano generale. Andando nel merito della questione: una valutazione della performance giudiziaria dei provvedimenti come parametro di valutazione professionale del magistrato porta al paradosso che gli unici che avranno la valutazione positiva saranno quelli della Cassazione perché sono gli ultimi a giudicare. Credo che il vice presidente Ermini non stesse pensando ad una simile eventualità. Quindi le sue parole potrebbero essere lette come una provocazione per lanciare il sasso nello stagno. Il quadro che ha delineato invece il professor Di Federico lo trova corrispondente alla realtà? Ho letto con grande attenzione l’intervista al professor Di Federico. La valutazione di professionalità dei magistrati non si basa su criteri di eccellenza, bensì sulla necessità di garantire uno standard professionale adeguato a tutti i cittadini in relazione a tutti i processi che vengono celebrati. Il cittadino non ha bisogno di pochi giudici eccellenti che trattino le cause più importanti; al contrario necessitano di magistrati che arrivino ad un livello di adeguatezza. È anche per questo che le valutazioni sono in larga parte positive. Quello che il nostro sistema prevede è di andare a cercare la caduta di professionalità. Quindi un discorso al contrario... Esattamente: la questione va capovolta. Però a parità di curriculum come si sceglie a chi assegnare un incarico direttivo? Qualcuno sostiene che interviene il potere della corrente più forte... Convengo che questo è un punto critico: se la valutazione si basa sul livello di adeguatezza standard per tutti, è chiaro che quando si deve operare una selezione per gli incarichi direttivi ci si trova dinanzi ad una situazione di equivalenza. A questo punto o ripensiamo al sistema di valutazione di professionalità, secondo il quale un magistrato cresce di passaggio in passaggio con il suo curriculum a differenza di un altro che ha meno meriti. E allora la valutazione si trasforma in un percorso di selezione della futura dirigenza. Si tratterebbe di una modalità completamente differente rispetto a quella per cui è nata la valutazione di professionalità. Al momento non si può tirare la monetina, però... È vero allora che c’è un’altra questione: la selezione potrebbe essere fatta sulla capacità di un magistrato di organizzare l’ufficio in futuro. Anche il Ministro Cartabia sembra orientata ad una periodica valutazione sulla formazione dei candidati o di chi già svolga ruoli direttivi e semidirettivi degli uffici giudiziari... Esatto. Se però una persona non ha mai organizzato un ufficio e non lo si mette alla prova diventa molto difficile capire in anticipo quali saranno le sue capacità di organizzare un ufficio. Quello che forse bisognerebbe fare è trovare un modo, come dice anche la Ministra, per spingere molto sulla formazione di una classe dirigente. La Ministra Cartabia nell’esporre le sue linee programmatiche sia alla Camera che al Senato ha detto che da un lato occorre “ridurre il peso delle correnti nella scelta dei candidati e nella determinazione dei componenti dell’organo di autogoverno” preservando tuttavia l’”ineliminabile pluralità delle culture della magistratura”. Lei è d’accordo? Condivido pienamente le considerazioni della Ministra. La magistratura deve insistere allo strenuo delle forze affinché il legislatore, nel tempo concesso da qui al rinnovo del Csm, cambi l’attuale legge elettorale. Quest’ultima venne concepita con le stesse intenzioni di cui parla la Ministra ma poi ha prodotto un effetto distorsivo opposto. Essa per una serie di alchimie legate al sistema elettorale non solo ha rafforzato il potere delle correnti ma ha consentito che all’interno delle stesse si creassero delle sorti di satrapie, di principi elettori che, al di là della stessa democrazia interna alle correnti, sono stati in grado di orientare il voto. Le soluzioni? Bisogna da un alto ridurre la possibilità delle correnti di orientare il voto e dall’altro invece aumentare la capacità di scelta dei magistrati, ampliando il più possibile il numero dei candidati. Potrebbe essere forse più valido il sistema dei collegi territoriali, grazie ai quali l’elettore sarebbe in grado di conoscere meglio le caratteristiche del candidato. Lei ritiene che sia un problema che talvolta dei pm abbiano intrapreso delle iniziative che già in partenza era chiaro fossero infondate? Il problema c’è ma non si lega alla questione dell’obbligatorietà dell’azione penale perché il pm ha la facoltà di archiviare. Il professor Franco Cordero scriveva che il vero pubblico ministero richiesto dal nuovo codice di procedura penale è quello che alla fine delle sue indagini riesce a fare un’operazione culturale, che sicuramente è difficile, ma che è quella giusta: spogliarsi del ruolo di pm, assumere il metro di giudizio del giudice e valutare il suo lavoro dall’esterno come se fosse il giudice. È l’esercizio al quale tutti noi siamo chiamati e rispetto al quale dobbiamo essere all’altezza. Un pm si giustifica come parte nella stessa giurisdizione dei giudici proprio in quanto riesca a compiere questo cambio di prospettiva. Se il pm non ci riesce cosa si può fare affinché un processo si istruisca solo quando necessario? Rendere più stringente la regola del rinvio a giudizio? Innanzitutto c’è un problema di formazione: non tutti i magistrati vengono abituati a ragionare in questi termini. Poi se questa capacità venisse a mancare dovrebbe subentrare un momento di controllo giurisdizionale successivo. Una delle soluzioni, prevista anche dalla riforma Bonafede, è quella di potenziare l’udienza preliminare: essa nasce nel contesto del nuovo codice come un vero filtro e poi nel tempo questa funzione si è andata perdendo. In questi giorni si è discusso molto di mediaticità dei pubblici ministeri, soprattutto in relazione al processo Rinascita Scott. Qual è il suo pensiero in merito? Nessuno mette in discussione l’impegno profuso dalla magistratura requirente sul territorio, dove è impegnata in indagini molto delicate. E nessuno deve mettere in discussione il diritto/dovere degli organi inquirenti di rappresentare all’opinione pubblica, in occasione di iniziative giudiziarie importanti e quando molte persone sono state private della libertà personale, il significato di quello che si sta facendo. Tuttavia è fondamentale che questa comunicazione venga effettuata con la massima accortezza in relazione alle dinamiche che sono ancora da svilupparsi. È evidente che la procura può rappresentare solo un esito provvisorio della sua iniziativa. Deve stare molto attenta a non ingenerare nell’opinione pubblica la convinzione che ci si trovi già in una fase di giudizio definitivo sulle persone e sui fatti. Francesca e Giovanna Araniti: “Nostro padre è un ergastolano, noi siamo due avvocate oneste” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 marzo 2021 Depositate mercoledì scorso le motivazioni della sentenza con cui la Consulta ha “promosso” il blocco della prescrizione durante il lockdown. “Noi abbiamo deciso di essere persone oneste, che perseguono il bene e che si comportano nella piena legalità. Voler emettere in evidenza quella che è la biografia di nostro padre, è stato squallido e non ha nulla a che fare con il contesto di riferimento”. Così, a Il Dubbio, le avvocate Francesca e Giovanna Araniti spiegano con forza il motivo per cui si sono sentite colpite e denigrate per un articolo de Il Fatto on line. Cosa è accaduto? L’altro ieri c’è stata l’udienza alla Consulta sulla preclusione della liberazione condizionale a chi non collabora con la giustizia. Ad assistere l’ergastolano ostativo Francesco Pezzino, il caso di cui la Cassazione ha sollevato l’illegittimità costituzionale, è l’avvocata Giovanna Araniti: il Fatto ha voluto sottolineare che lei è figlia di un boss della ‘ndrangheta che sta scontando un ergastolo. Eppure non si capisce il nesso per svariati motivi, a partire dal fatto che la colpa dei padri non può ricadere sui figli. Ed essere figli di boss, non equivale ad essere destinati al pubblico ludibrio. “Quello che ci ha dato fastidio è aver inserito la biografia di nostro padre in un contesto che non c’entrava assolutamente nulla. Se uno va da un medico per curarsi o da un architetto per fare una casa, certamente nessuno va a chiedergli chi è suo padre. La responsabilità penale dovrebbe essere personale. Ma evidentemente per alcuni giornali così non è”. Eppure è interessante la biografia di Giovanna Araniti. È lei che, davanti alla consulta, con passione ha motivato l’illegittimità costituzionale della preclusione assoluta della liberazione condizionale nei confronti del suo assistito. Una donna che si è laureata all’università di Messina in brevissimo tempo. Infatti svolge la sua professione da più di 25 anni, pur avendo 48 anni. Sarebbe stato più utile, forse, soffermarsi su chi è l’avvocato, non su chi è il padre. “Un articolo denigratorio - spiegano le avvocate Araniti - perché i clienti possono anche pensarci bene prima di fare la nomina ad un avvocato preso di mira del tutto gratuitamente da un giornalista”. Articoli così, in effetti, non fanno altro che aumentare il pregiudizio che si ha nei confronti delle persone che purtroppo nascono in contesti difficili, nonostante con le sole loro forze siano riuscite ad intraprendere nobili professioni. “Nessuno di noi decide dove nasce, però ciascuno di noi decide chi essere. E noi abbiamo deciso di essere persone oneste”, chiosano le avvocate. Piemonte. Soddisfazione del Garante dei detenuti per la priorità vaccinale nelle carceri lavocediasti.it, 25 marzo 2021 “Occorre anticipare i focolai - ha rimarcato Bruno Mellano - non inseguirli come accaduto ad Asti”. “La popolazione carceraria è stata finalmente inserita tra le categorie prioritarie previste dal Ministero della Salute per la vaccinazione anti Covid”. Lo ha dichiarato con soddisfazione il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. “Le indicazioni fornite ieri dal Commissario nazionale - ha aggiunto - superano definitivamente la visione secondo cui le vaccinazioni devono farsi solo a seguito della presenza di focolai all’interno del carcere come è recentemente accaduto ad Asti. Occorre anticipare i focolai, non inseguirli”. “Troppe incertezze e false partenze - ha aggiunto - hanno riguardato la campagna informativa di raccolta delle disponibilità volontarie e poi vaccinale nell’ambito della comunità penitenziaria italiana e, di conseguenza, piemontese. Occorre però registrare come altre regioni abbiano già iniziato la vaccinazione anche delle persone ristrette, dopo l’inizio già avviato per la polizia penitenziaria, ma in contemporanea è partito un piano vaccinale ad hoc per gli altri operatori penitenziari (compresi i volontari) e per i detenuti”. “Come garante regionale e responsabile del Coordinamento dei garanti comunali piemontesi - ha concluso Mellano - ho fiducia che il chiarimento di queste ore sia definitivo e si possa finalmente dare inizio alle procedure organizzative dei presidi sanitari regionali penitenziari”. Campania. Il paradosso delle Case lavoro: manca il… lavoro (ma non ad Aversa) di Viviana Lanza Il Riformista, 25 marzo 2021 Reclusi in una Casa lavoro ma senza lavoro. È il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello a denunciare l’ennesima contraddizione del sistema penitenziario e accendere i riflettori sulle condizioni dei cosiddetti “internati”, cioè di coloro i quali hanno finito di scontare la pena ma, essendo considerati ancora socialmente pericolosi, devono trascorrere del tempo in un’istituzione da sempre ignorata, la Casa lavoro. “Sono 335 le persone sottoposte a misure detentive nelle 6 strutture di Casa lavoro presenti nel Paese - spiega il garante - In Campania c’è un’unica Casa lavoro ed è ad Aversa, conta 42 internati ma il lavoro che dovrebbe caratterizzarla manca. Queste persone rischiano di diventare invisibili, senza casa e senza lavoro, in una condizione di sostanziale ingiustizia che non può essere ignorata”. Di qui l’idea di un confronto con la direzione della casa di reclusione Filippo Saporito sul tema del lavoro di pubblica utilità per i reclusi. L’incontro si è svolto ieri e ha portato alla firma di un protocollo che potrebbe segnare un primo cambio di passo in Campania. Erano presenti la direttrice del carcere Stella Scialpi, il comandante Francesco Serpico, l’educatore Angelo Russo, la delegata del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Assunta Borzacchiello, la responsabile dell’archivio storico di Napoli Candida Carrino e il sindaco Alfonso Golia. Sono stati discussi progetti proposti dal garante, finanziati con i soldi delle Regione e finalizzati a consentire ai reclusi di svolgere lavori di pubblica utilità presso il Comune di Aversa: 50 detenuti, di cui 5 internati, si occuperanno della cura del verde pubblico e della manutenzione di segnaletica stradale e arredo urbano. Inoltre sono previsti progetti per i reclusi finalizzati a riordinare l’archivio dell’ex Opg (attività per cui si prevede l’impiego di 5 internati) e valorizzare il terreno agricolo del carcere (un progetto che vedrà coinvolti i detenuti della casa di reclusione). “Questo protocollo - sottolinea il sindaco Golia - è un passo in avanti per la definizione di un percorso comune volto alla promozione di opportunità di inserimento lavorativo per i detenuti e gli internati della casa di reclusione di Aversa. Si sono individuate le specifiche attività lavorative da realizzare nella città e sono stati selezionati i soggetti in stato di detenzione, compresi gli internati ristretti nella Casa lavoro, con l’obiettivo di accrescerne le competenze professionali per un futuro inserimento nel mercato del lavoro”. Al di là dei buoni propositi resta però la criticità di un’istituzione, la Casa lavoro, che per il garante è ormai fuori tempo: “Bisogna andare oltre queste strutture che sono in piedi dal 1930 e rispondono a un’idea terapeutica di lavoro superata - conclude Ciambriello - Occorre pensare a luoghi non detentivi, case che siano veramente tali e contesti di lavoro e di inclusione sociale che coinvolgano sempre di più gli enti locali. Insomma delle vere misure alternative di reinserimento sociale”. Lombardia. Studio della Commissione regionale sulla salute psichica nelle carceri askanews.it, 25 marzo 2021 “È stato approvato oggi pomeriggio in Commissione carceri l’avvio di un’indagine conoscitiva sulla salute mentale negli istituti di detenzione della nostra regione, un tema di estrema urgenza sul quale è necessario un impegno da parte delle istituzioni”. Lo ha annunciato in una nota la presidente della commissione speciale sulla situazione carceraria della Regione Lombardia, Antonella Forattini, dopo il grido di allarme lanciato dal garante per i detenuti della Lombardia, Carlo Lio. “La decisione di lavorare su questo tema è maturata da tempo ed è stata condivisa da tutti i componenti della commissione” ha dichiarato Forattini, spiegando che “si avvia, quindi, un percorso di indagine che durerà 18 mesi e che ci vedrà impegnati in un’analisi approfondita e nella programmazione di audizioni capillari con l’obiettivo di arrivare a una risoluzione”. “Quella della condizione psichica negli istituti di detenzione - ha aggiunto la presidente della commissione - è una questione seria che, negli ultimi tempi, si è rapidamente aggravata a causa del ben noto sovraffollamento e, nell’ultimo anno, degli effetti della pandemia che, tra l’altro, hanno comportato la riduzione delle visite esterne acuendo o facendo emergere, così, disturbi o vere e proprie patologie”. “Con questo lavoro - ha concluso Forattini - vogliamo accogliere anche la richiesta di aiuto delle strutture stesse e del personale carcerario, in difficoltà nel gestire le criticità di un numero sempre maggiore di detenuti con disturbi psichici: l’ultimo appello è arrivato proprio ieri dal sindacato di polizia penitenziaria di Brescia”. Bologna. Carcere della Dozza, aumenta il numero dei detenuti positivi al Covid bolognatoday.it, 25 marzo 2021 I sindacati: “Impossibile isolare i contagiati”. Chiedono di procedere allo screening di tutta la popolazione detenuta e di tutto il personale e di completare la vaccinazione- da poco iniziata- dei dipendenti in tutti gli istituti della regione”. Mantenere il distanziamento all'interno di un carcere sovraffollato è pressoché impossibili, così i sindaci di Polizia Penitenziaria lanciano nuovamente un SOS per “la situazione che si sta determinando negli istituti penitenziari dell'Emilia-Romagna a causa dell'emergenza Covid, sia tra il personale dipendente che tra i detenuti, visto l'importante numero di infetti presenti”. Attualmente i detenuti alla Dozza sarebbero 750 a fronte di una capienza di 492 quindi Fp Cgil chiede “misure e provvedimenti immediati per scongiurare un ulteriore pesante deterioramento della situazione”. A far rischiare un aumento dei contagi da Covid nelle carceri della regione, secondo i sindacati, è in particolare “il pesante sovraffollamento all'interno degli istituti, aggravatosi negli ultimi due mesi” e che “compromette ogni procedura e protocollo di prevenzione Covid, con grave pericolo per la salvaguardia della salute dell'intera comunità carceraria”. Le caratteristiche degli ambienti carcerari, la “condizione di promiscuità, la difficoltà ad assicurare un adeguato distanziamento e la quasi impossibilità di garantire l'isolamento delle persone contagiate”, scrivono infatti le tre organizzazioni confederali, “determinano un rischio inaccettabile per chi vive o lavora all'interno degli istituti”. Da qui la convinzione che sia “estremamente urgente procedere allo screening di tutta la popolazione detenuta e di tutto il personale, completare la vaccinazione- da poco iniziata- dei dipendenti in tutti gli istituti della regione, assegnare criterio di priorità e urgenza alla vaccinazione dei detenuti e verificare la corretta attuazione dei protocolli di isolamento Covid e di tutte le misure di prevenzione”. Secondo il sindacato S.P.P., i detenuti positivi sarebbero in aumento e la regione che vede più contagi sarebbe proprio l’Emilia-Romagna con 92 positivi: “Il piano vaccinale per le carceri continua molto a rilento con alcune regioni in cui i vaccini realmente ancora non vengono effettuati. Per la popolazione detenuta ancora peggio con solo 2500 unità vaccinate. Siamo molto preoccupati perché se il virus, ma soprattutto le sue varianti, dovessero entrare nelle carceri il pericolo sarebbe altissimo - si legge nella nota - abbiamo provveduto in queste ore ad allertare l’Amministrazione ma soprattutto le Asrem ed i Prefetti per velocizzare al massimo l’effettuazione dei vaccini per i poliziotti penitenziari ed i detenuti” quindi “se il piano vaccinale non viene portato avanti in modo più veloce, il rischio contagio potrebbe essere di grave pregiudizio all’incolumità di detenuti e poliziotti”. Reggio Emilia. “Focolaio Covid fuori controllo, il carcere di rischia di scoppiare” di Martina Riccò Gazzetta di Reggio, 25 marzo 2021 L’allarme dei sindacati che ora vogliono incontrare sindaco e prefetto: “Detenuti chiusi in celle minuscole 24 ore su 24: serve il vaccino per tutti”. Un focolaio che non accenna a esaurirsi, agenti difficilmente sostituibili anche in caso di malattia o isolamento domiciliare, detenuti costretti a restare in cella ventiquattr’ore su ventiquattro, senza nemmeno la possibilità di uscire a sgranchirsi le gambe. Questa la situazione nel carcere di via Settembrini. Situazione che rischia di degenerare ulteriormente, perché la convivenza forzata dei detenuti in celle progettate per una sola persona, l’interruzione delle attività normalmente previste, la difficoltà comunicativa (il 65 per cento dei detenuti è di origine straniera) sono micce da maneggiare con estrema attenzione. “Il personale sta facendo miracoli svolgendo un lavoro di negoziato continuo, ma non si può pensare che questa condizione duri a lungo”, spiega Giovanni Trisolini, ispettore superiore della polizia penitenziaria e sindacalista della Cgil. L’organico, già ridotto all’osso prima della pandemia, si sta sempre più riducendo: tanti gli operatori contagiati (agenti di polizia penitenziaria ma anche personale amministrativo, educatori, personale sanitario), tanti quelli costretti a casa in regime di isolamento domiciliare perché entrati in contatto con positivi. “Martedì - prosegue Trisolini - gli agenti di polizia penitenziaria positivi al Covid erano 12, di cui uno ricoverato in ospedale; 26 quelli in isolamento. Considerando tutto il personale gli assenti erano 60, non sostituiti. A lavoro avrebbero dovuto essere in 150”. Il Covid non ha risparmiato nemmeno i detenuti: 21 quelli positivi, suddivisi nelle diverse sezioni (a eccezione di quella femminile dove finora non sono stati registrati contagi). Il primo caso è stato riscontrato il 15 marzo, poi il numero è aumentato di giorno in giorno. “Per isolare il virus - spiega Trisolini - i detenuti rimangono chiusi in cella tutto il giorno, e stiamo provvedendo a fare tamponi a tutti. Questa procedura, che dovrebbe durare almeno fino alla fine del mese, va però contro i principi umani, le leggi e l’ordinamento penitenziario, e non può protrarsi oltre”. Per questo motivo Trisolini insieme a Vito Bonfiglio (ispettore superiore della polizia penitenziaria e sindacalista Cisl) e Leonardo Cannizzo (assistente di Polizia penitenziaria e sindacalista Uil) hanno deciso di lanciare l’allarme chiedendo che nel più breve tempo possibile venga vaccinata l’intera comunità carceraria: non solo il personale, dunque, ma anche tutti i detenuti. La richiesta dei sindacati Fp Cgil, Fns Cisl e Uilpa ha trovato sostegno a livello comunale e regionale. La consigliera Pd Cinzia Ruozzi, durante il consiglio comunale del 21 marzo, ha presentato un ordine del giorno urgente impegnando il sindaco Luca Vecchi e la giunta a intensificare il monitoraggio della situazione, accelerare la campagna vaccinale per il personale di polizia penitenziaria e amministrativo, e avviare la campagna di vaccinazione anche per la popolazione detenuta. “È ormai dimostrato - ha spiegato la consigliera - come i focolai si sviluppino maggiormente in ambienti chiusi e promiscui, dove è più difficile mantenere il distanziamento tra le persone. Il carcere di Reggio è sovraffollato e di conseguenza risulta molto difficile applicare le norme anti-contagio. Inoltre il carcere è una città nella città con numerose figure (sacerdoti, medici, infermieri, volontari, docenti, fornitori) che vi gravitano attorno”. L’istanza è stata approvata all’unanimità con 27 voti su 27. In Regione è stato invece Federico Amico, consigliere di Emilia-Romagna Coraggiosa, a farsi portavoce delle richieste dei sindacati della polizia penitenziaria reggiana, presentando una interrogazione all’assessore alla Sanità Raffaele Donini: “La situazione è grave, serve uno sforzo aggiuntivo”. Ma al momento non sono state concesse aperture: “Nelle carceri la situazione è più grave che altrove - ha risposto Donini - tant’è che la polizia penitenziaria sta venendo vaccinata. Abbiamo anche disposto che i detenuti ultra ottantenni vengano vaccinati subito, in quanto a rischio”. Troppo poco per i sindacati reggiani - appoggiati pienamente da quelli regionali - che ora chiederanno un incontro al sindaco Vecchi, al prefetto Iolanda Rolli e allo stesso Donini. “Bisogna evitare che la situazione degeneri - spiegano - agire preventivamente e non sempre quando ormai è troppo tardi”. Napoli. “Tribunale di Sorveglianza in tilt, reclusi senza diritti” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 marzo 2021 “Le gravissime e croniche disfunzioni del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, rese ancora più acute dall'attuale contesto emergenziale, oramai non sono più tollerabili”: a lanciare l’allarme sono le Camere penali del distretto di Corte d’appello di Napoli. Quelle dunque di Napoli, presieduta da Marco Campora, Benevento (Domenico Russo), Irpina (Luigi Petrillo), Napoli nord (Felice Belluomo), Nola (Vincenzo Laudanno), Santa Maria Capua Vetere (Francesco Petrillo), Torre Annunziata (Nicolas Balzano). In un dettagliato documento, i penalisti elencano una serie di complesse criticità. Come dice al Dubbio il presidente della Camera penale partenopea Campora, “da troppi anni nel distretto di Napoli viene sistematicamente mortificato il diritto dei detenuti a espiare la pena secondo principi e modalità conformi al dettato costituzionale”. Quello che gli avvocati ritengono “inaccettabile” è il tempo tra la presentazione delle richieste di accesso ai benefici e la loro registrazione, il tempo tra quest’ultima e la fissazione dell’udienza, l’elevato numero di rinvii delle udienze per carenza o assenza di istruttoria, la tempistica di invio delle impugnazioni alla Cassazione, di decisione sui permessi premio, di valutazione sulle istanze di liberazione anticipata, reclamo e riabilitazione. Verrebbe da dire anche in questo caso che una giustizia ritardata è una giustizia negata, “soprattutto quando parliamo di privazione della libertà personale. Questi ritardi - prosegue Campora - incidono anche sul sovraffollamento: se un detenuto ha diritto alla misura alternativa ma resta in carcere per motivi burocratici, lo si priva sia del diritto al beneficio ma anche della rieducazione, e in più si affolla il carcere”. Purtroppo, rileva il penalista, “a nulla sono serviti i numerosi tavoli tecnici e gli incontri istituzionali fino ad ora avuti con i vertici del Tribunale di Sorveglianza, i còlti e appassionati documenti di denuncia da parte dell’avvocatura, nonché le ripetute e prolungate astensioni”. Pertanto, avendo gli avvocati e gli organi di rappresentanza “il dovere di vigilare e garantire che l’esecuzione della pena avvenga nel rispetto del dettato costituzionale, avendo come stella polare sempre la funzione rieducativa della pena, specialmente in questo momento storico in cui il carcere è diventato esclusivamente un reclusorio, in cui sono sospese tutte le attività finalizzate alla rieducazione” tutte le Camere penali del distretto attraverso il documento (elaborato grazie alla attività dell’Osservatorio esecuzione penale della Camera penale di Napoli, la cui responsabile è l’avvocato Elena Lepre) chiedono formalmente ai magistrati e al presidente del Tribunale di Sorveglianza di “ripristinare la legalità costituzionale della pena” risolvendo tutte le criticità evidenziate. Se ciò non fosse possibile i penalisti chiedono altresì di conoscere “le ragioni ostative all’adempimento e a valutare ogni forma di sollecitazione, ivi inclusa la possibilità di autosospendersi dal servizio per impossibilità di rispettare le norme codicistiche e costituzionali”. “Chiediamo loro - conclude Campora - un forte segnale di vicinanza ai diritti dei detenuti e una protesta da far giungere al Ministero, conoscendo anche la sensibilità della Ministra verso la tematica carceraria”. Salerno. Nasce il giardino urbano di “Jhonny”, un’occasione per i detenuti in affido di Nicola Sposato Il Mattino, 25 marzo 2021 Lo scorso 26 luglio Giovanni Cirillo, un giovane di 23 anni di origini somale, adottato da una famiglia scafatese, si è suicidato nel carcere di Fuorni dove era detenuto per scontare una condanna per rapina dopo quattro evasioni dagli arresti domiciliari. In città il ragazzo era molto conosciuto ed apprezzato per la sua passione per la musica rap. Giovanni si faceva chiamare “Jhonny” e la sua morte ha lasciato nello sconforto la famiglia e quanti lo conoscevano. Dedicato a “Jhonny” don Peppino De Luca, parroco della chiesa di San Francesco di Paola, ha ideato il progetto “Giardino urbano Jhonny Cirillo” per dare una possibilità concreta di futuro ai detenuti in affidamento ai “Servizi sociali” attraverso la messa in prova. Il progetto nascerà su un terreno di circa 3.600 metri quadri, il fondo “Raffaele Prete”, messo a disposizione dall’ingegnere Domenico Cuomo e dai figli Alessandro ed Anna. Il terreno si trova a via Alessandro Volta, stradina a fianco della chiesa di San Francesco ed è già stato destinato a progetti sociali in passato. “Ci sarà un giardino - racconta don Peppino - Uno spazio aperto alla città dedicato agli uomini ed alle donne che vogliono ricominciare la loro vita. E racconteremo la storia di Giovanni, spenta troppo presto da quel mostro che si portava dentro. Cercheremo cosi di dare agli altri quella possibilità che a lui è stata negata”. L’ingegnere Cuomo è soddisfatto: “Conosco da anni don Peppino e il suo prodigarsi per le persone più in difficoltà, gli ultimi. Ed ho conosciuto le sue difficoltà per reperire spazi. La mia unica richiesta è stata quella di stipulare una concessione ad uso gratuito per 20 anni con destinazione del terreno ad una finalità sociale. E così è nato il progetto per dare una seconda possibilità a chi non l’ha avuta”. Pisa. Dante on air: quindici detenuti reinterpretano la Divina Commedia in radio La Nazione, 25 marzo 2021 “RadioDante” è un'idea de “I sacchi di Sabbia” con arrangiamenti musicali di Davide Barbafiera (Campos) e la partecipazione di Dome La Muerte. Il progetto “Radio Dante”, ideato e realizzato dalla compagnia teatrale “I Sacchi di Sabbia”, con il contributo di Fondazione Pisa e Regione Toscana, parte il 25 marzo alle 14.30, in occasione del Dantedì, con la prima puntata del radio/dramma sull’emittente radiofonica Punto Radio di Cascina (www.puntoradio.fm). Si tratta di un progetto innovativo, interamente sonoro, che vedrà quindici allievi - detenuti nella casa circondariale Don Bosco - impegnati nella realizzazione di una serie di podcast sulle tre cantiche della Divina Commedia. La prima puntata è dedicata all’ ingresso infernale nella selva oscura. Per l'occasione, l’ospite musicale che interviene per accompagnare le voci degli allievi detenuti è Dome la Muerte. I quindici allievi in questi mesi preparatori, con cadenza di due incontri settimanali (di 2 ore ciascuno), si sono affacciati all'immenso materiale dantesco; sono stati scelti alcuni canti e personaggi infernali che potessero meglio favorire la curiosità e l'interesse dei partecipanti e di chi poi ne avrebbe usufruito in modalità radiofonica. Tutti i partecipanti hanno portato in dote lingue e dialetti di diversa provenienza e di buon grado hanno accettato di lavorare su tali specificità. Francesca Censi de “I Sacchi di Sabbia”, spiega come nasce il progetto: “Il media radiofonico oltre ad essere piuttosto inedito in un contesto carcerario, si presta particolarmente alla esigenze di questo drammatico periodo storico: non solo dal punto di vista espressivo, ma anche da quello della gestione didattica, mettendo in primo piano un lavoro su suono e voce da ascoltare non nella prossimità, come nel caso dello spettacolo dal vivo, ma a distanza”. La diffusione radiofonica delle puntate di “RadioDante”, permetterà di raggiungere un pubblico più vasto, facendo così conoscere ad un maggior numero di persone un lavoro importante come quello del teatro in carcere che mostra tutta la sua resilienza creativa ed evolutiva in tempo di Covid19. “Se l'impossibilità del lavoro sul corpo amputa ogni laboratorio teatrale di una sua componente essenziale, a trarne vantaggio - aggiunge Gabriele Carli - è la voce e tutte le pratiche che orbitano intorno ad essa: l'articolazione della parola, l'emissione del suono, il controllo dell'intonazione, le modalità di espressione, la veicolazione del senso, la dizione, la respirazione”. Al progetto hanno collaborato anche Letizia Giuliani e Carla Buscemi. La musica e l’edizione dei podcast sono a cura di Davide Barbafiera del gruppo musicale Campos. I Sacchi di Sabbia coordinano dal 2015 i laboratori di espressione teatrale all'interno della Casa circondariale di Pisa “Don Bosco” nelle sezioni sia maschili che femminili grazie al contributo di Fondazione Pisa e Regione Toscana. Catanzaro. La speranza oltre le sbarre di Davide Dionisi osservatoreromano.va, 25 marzo 2021 Le testimonianze raccolte da suor Vessoni nel penitenziario Ugo Caridi. Perché il carcere è costruito prevalentemente fuori dal contesto urbano? È la domanda che apre il volumetto curato da suor Nicoletta Vessoni, della Congregazione delle Suore delle Poverelle di Bergamo, intitolato Fasciati dalla Luce (Carello Edizioni). Si tratta di una serie di testimonianze, raccolte dalla religiosa e dai ragazzi che operano insieme a lei nel penitenziario Ugo Caridi di Catanzaro durante il primo periodo di immobilità forzata causata dalla pandemia di coronavirus. “Ero seriamente preoccupata perché il lungo tempo di inattività avrebbe potuto far allontanare alcuni volontari. Così è nata l’idea di coinvolgerli tutti in un momento di riflessione personale per focalizzare la loro attenzione sulle motivazioni che li hanno spinti a scegliere questo tipo di volontariato, quale era stata la loro esperienza vissuta sul campo, ravvivando, in questo modo, la loro consapevolezza” racconta la religiosa. La risposta è stata a dir poco sorprendente, per questo si è deciso di mettere in ordine il materiale raccolto e ampliarlo arricchendolo di contributi sul tema carcere-volontariato. “Ci siamo detti che sicuramente era importante intraprendere questo percorso anche con i nostri fratelli detenuti, così abbiamo ottenuto i permessi per recuperare le storie di alcuni di loro” continua, aggiungendo che “ad una prima lettura, probabilmente, non si coglie, ma sono gli stessi detenuti a legare l’intero libro. Ogni capitoletto e successivamente ogni storia, sono scanditi nella prima parte da un racconto, e nella seconda parte da brevi poesie, opere tratte da un testo che hanno scritto gli ospiti”. A guidare la stesura del volume, secondo suor Vessoni, è stata la parola: “Ha illuminato, guidato e portato a compimento questo piccolo sforzo editoriale che ha offerto l’opportunità ai nostri amici di vivere da un altro punto di vista il nostro lavoro con loro e per loro”. Ma è alla domanda di apertura che suor Nicoletta intende dare una risposta, partendo dalle esperienze pregresse: “Gli istituti di pena vengono costruiti fuori, perché noi società non vogliamo farci i conti: loro sono i cattivi e se ci vivono a fianco, se le inferriate del penitenziario le ritrovo di fronte al mio balcone, forse qualche punto interrogativo me lo devo porre. Il non vederle e non sapere che c’è, o meglio, sapere che è confinato là, quasi irraggiungibile, ci evita di dialogare con la nostra parte cattiva, la nostra parte malata. Quella parte non viene disturbata”. La religiosa è convinta che “collocarli fuori crea un’altra difficoltà: quella del raggiungerli”. Ma chi svolge un ruolo fondamentale per creare quel ponte tra l’interno e l’esterno è sicuramente il volontario, la figura capace di avviare una rivoluzione culturale, passando dalla carità alla solidarietà, pensando al carcere come formazione sociale, per lo sviluppo umano e delle persone e non come rimedio totale e assoluto, con l’obiettivo primario di deflazionare perché un istituto con meno popolazione significa più attenzione e possibilità di reinserimento sociale. “Credo che la funzione del volontariato sia quella di permettere il cambiamento, di dare un piccolissimo contributo alla rinascita della persona. Quella di scoprire, far emergere, far venire a galla quella parte di umanità che molto spesso è nascosta dietro a brutture, a storie impossibili. Quando si coglie quell’aspetto, da lì il carcere può iniziare un lavoro di cambiamento, un’opportunità nuova per la persona” scrive suor Nicoletta. Ma prima è necessario affrontare il tema della pena in una prospettiva nuova per far sì che il reinserimento degli ex-detenuti parta prima che il detenuto esca dal carcere. Una volta uscito, poi, le istituzioni e lo stesso volontariato, devono cooperare affinché il percorso riabilitativo in carcere non sia vanificato dal nulla che si trova fuori. La religiosa è ben consapevole di tale necessità e, forte anche di esperienze maturate in Sardegna e in Sicilia, racconta: “Penso spesso a chi mi saluta con enfasi quando arrivo e un ragazzo straniero, un giorno, mi ha fatto comprendere qual è il motivo. Suora, mi ha detto, quando io la vedo mi porta dentro il fuori che non posso vedere e mi fa respirare aria di normalità. È per quello che la mattina quando la incontro la saluto sempre molto volentieri. Mi permette di prendere una boccata d’aria”. La stessa boccata d’aria che ha consentito agli ospiti della Casa Circondariale di Catanzaro di preparare torte e pasticcini per le famiglie più povere della città in occasione delle festività natalizie. “Lo hanno fatto senza chiedere nulla in cambio. Sono ragazzi generosi e talentuosi. Hanno impiegato male le loro qualità in un momento della loro vita. Per questo continuiamo a stargli vicino perché, anche se in prigione, conservano la loro dignità di esseri umani con una libertà interiore. Nella realtà e nel pensiero non possono essere tagliati fuori da una società a cui essi continuano ad appartenere”. Venezia e Palermo protagoniste dell’ottava Giornata nazionale del Teatro in carcere di Teresa Valiani redattoresociale.it, 25 marzo 2021 Sabato 27 marzo seminario di formazione internazionale sulle due esperienze. Vito Minoia: “L’attività teatrale in carcere stimola occasioni di dialogo, confronto, consapevolizzazione. Ne abbiamo tutti bisogno”. Due realtà diverse, latitudini differenti, il nord e il sud d’Italia, un carcere per adulti l’una, un istituto per minori l’altra, a rappresentare tutto il ventaglio di esperienze che da otto anni unisce sotto un unico logo e con lo stesso intento molti dei progetti che nascono e si sviluppano sui palcoscenici dei penitenziari italiani. Si apre con un seminario di formazione internazionale su due significativi percorsi teatrali con adulti e minori, quelli di Venezia e Palermo, l’Ottava Giornata nazionale del teatro in carcere, in programma per sabato 27 marzo. Promosso in modalità online dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, costituito da oltre 50 esperienze professionali (www.teatrocarcere.it), e dall’International Network Theatre in Prison / ITI Unesco Partner Organization (www.theatreinprison.org), l’evento avrà inizio dalle 15.00 e si svolge in occasione della Giornata Mondiale del Teatro 2021. Apriranno i lavori i saluti del ministro della Giustizia, Marta Cartabia, e del Garante nazionale, Mauro Palma, a cui seguiranno i contributi video sulle esperienze di Michalis Traitsis, regista della Compagnia Balamòs Teatro, attiva negli istituti penitenziari femminile e maschile di Venezia, in dialogo con Valeria Ottolenghi, componente dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, e di Claudio Collovà, regista e direttore artistico di esperienza internazionale, autore a Palermo di una lunga attività con minori d’area penale e a rischio di esclusione sociale, che dialoga con Valentina Venturini, docente di Storia del teatro all’Università degli Studi Roma Tre. L’incontro vedrà la partecipazione di Tobias Biancone, direttore generale dell’International Theatre Institute - Unesco, e si chiuderà con la lettura del Messaggio internazionale del World Theatre Day 2021 curato dall’attrice inglese Helen Mirren. Introduce e conduce Vito Minoia, esperto di Teatro educativo all’Università di Urbino, presidente dell’International University Theatre Association e coordinatore dell’International Network Theatre in Prison - ITI/Unesco Partners. “Il teatro in carcere, grazie a significative esperienze artistico-espressive, come le due che andiamo a mettere a fuoco, stimola occasioni di dialogo, confronto, consapevolizzazione. Ne abbiamo tutti bisogno - spiega Vito Minoia. Con il coordinamento italiano delle esperienze prima e con il Network internazionale oggi, si è generata un’alta attenzione per il livello di qualificazione con il quale il teatro in carcere, se sostenuto istituzionalmente e con continuità, produce una cultura del rispetto di tutti e di ciascuno che passa attraverso il diritto del riconoscimento di quell’intrinseca dignità e valore dell’essere umano. In questo periodo così complesso, in relazione alla pandemia in corso, rivolgiamo la nostra attenzione alla necessità di non comprimere, in ogni angolo del mondo, i diritti fondamentali delle persone private della libertà personale”. L’iniziativa è resa possibile grazie al Protocollo d’Intesa tra Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, e Università degli Studi Roma Tre ed è sostenuta dal Ministero della Cultura, Direzione Generale dello Spettacolo dal Vivo, nell’ambito di Destini Incrociati, progetto nazionale a cura del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, avente come capofila il Teatro Universitario Aenigma dell’Ateneo Carlo Bo di Urbino. L’evento, in italiano e inglese (con traduzione simultanea), sarà pubblicato e rimarrà visibile sul canale Youtube www.youtube.com/user/teatroaenigma, sul sito www.teatroaenigma.it e condiviso sulla pagina Facebook Teatro Aenigma. Fino a tutto il mese di aprile la segreteria del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere raccoglierà all’indirizzo teatrocarcereitalia@libero.it informazioni su eventi che, simbolicamente, in tempo di pandemia, saranno consentiti territorialmente o organizzati online. L’insostenibile guerra dei vaccini di Danio Taino Corriere della Sera, 25 marzo 2021 In una fase come l’attuale, nella quale tutto il mondo punta all’immunizzazione dal Covid, la ricerca di accordi e di compromessi, a maggior ragione con Paesi amici, è probabilmente una strada migliore, per ottenere risultati, che non l’intrapresa di scontri che si sa come iniziano ma non come finiscono. Facile a dirsi che l’Unione europea può confiscare i vaccini presenti sul proprio territorio e impedirne l’esportazione. Piuttosto rischioso farlo. A parte le conseguenze politiche di breve e di lunga durata di una scelta del genere - che è sul tavolo del Consiglio europeo di oggi - il pericolo di aprire le porte a un occhio per occhio è reale. L’ha sottolineato, tra gli altri, Micheál Martin, il primo ministro irlandese, quando gli è stato chiesto cosa ne pensasse della proposta in discussione tra Bruxelles e le capitali del Continente. “Sono molto contrario - ha risposto - Sarebbe un passo decisamente retrogrado. È assolutamente vitale che manteniamo aperte le catene di fornitura”. Se infatti i Paesi eventualmente colpiti dal blocco della Ue decidessero per rappresaglia di bloccare il loro export di componenti di vaccini in Europa, sarebbe un disastro per tutti. Martin ha portato tre numeri a sostegno della sua opposizione: per produrre il vaccino di Pfizer-BioNTech servono 280 materiali. Questi sono realizzati da 86 fornitori. I quali stanno in 19 Paesi compresa la Gran Bretagna, la quale è il target principale dell’iniziativa europea. La situazione delle forniture è già sotto pressione oggi. Adar Powalla, numero uno della Serum Institute of India che sta producendo milioni di dosi AstraZeneca, ha detto a un dibattito della Banca Mondiale che una legge degli Stati Uniti impedisce l’esportazione di materiali chiave per i vaccini e ciò crea colli di bottiglia seri nella produzione. Una scelta drastica di confisca in Europa aumenterebbe lo stress. Cosa serve per produrre un vaccino? Innanzitutto, gli ingredienti attivi che nel caso di AstraZeneca sono vettori di adenovirus di scimpanzè e nel caso di Pfizer-BioNTech sono messaggeri Rna modificati. Poi ci sono gli ingredienti aggiunti, ad esempio adiuvanti. Inoltre, servono prodotti utili alla manifattura che non necessariamente compaiono nel prodotto finito: proteine, antibiotici, regolatori dell’acidità. Infine, c’è la confezione e la logistica. Questo vale per ogni vaccino. In una fase come l’attuale, nella quale tutto il mondo punta all’immunizzazione, la ricerca di accordi e di compromessi, a maggior ragione con Paesi amici, è probabilmente una strada migliore, per ottenere risultati, che non l’intrapresa di scontri che si sa come iniziano ma non come finiscono. Il diritto negato di curarsi di Rosaria Manconi* La Nuova Sardegna, 25 marzo 2021 Esistono molti modi per porre fine alla vita di un uomo. Tra questi, l’inerzia, l’omissione e l’indifferenza, non meno gravi di quella di chi impugna un’arma e deliberatamente compie il gesto omicidiario. Anzi, se possibile, alcuni di questi modi sono ancora più incomprensibili e crudeli perché non hanno neppure la scusante dell’impeto irrefrenabile, dell’avventatezza del movente. Ma è la noncuranza delle istituzioni la più inaccettabile delle offese, in quanto proviene da chi ha il potere/dovere di garantire supremi valori come la tutela costituzionale all’integrità psico-fisica dell’individuo. Tale tutela impone anche il dovere di assicurare cure finalizzate al miglioramento della qualità della vita, nel rispetto della dignità e dell’autonomia della persona. Soprattutto in quei casi in cui, a causa di malattie incurabili o croniche, la terapia del dolore diventa indispensabile per il controllo e l'emenda del dolore stesso. Con la legge n. 38/2010, e prima ancora con la n. 94/98 cosiddetta legge Di Bella, nel nostro paese è stato consentito l’impiego di farmaci cannabinoidi e oppiodi per alleviare il dolore derivato da patologie gravi, per lo più invalidanti resistenti ad altri trattamenti. Nella sua attuazione la normativa ha incontrato non pochi ostacoli. A partire dallo stigma, ancora insuperato che porta a considerare la cannabis nella sua unica accezione ludica (e per questo solo negativa) e dal pregiudizio cha ancora sopravvive persino fra i sanitari, spesso impreparati sulle proprietà terapeutiche della cura e sulla necessità di fare rete fra le diverse branche specialistiche. A questo si somma la limitatezza della produzione nazionale e la difficoltà di approvvigionamento dall’estero che non garantiscono il soddisfacimento del fabbisogno in costante aumento. Secondo i dati forniti dal International Narcotics Control Board (ovvero l’organo di controllo per l’attuazione dei trattati internazionali sulle droghe) per i pazienti del nostro paese servirebbero 1950 kg all’anno di farmaco, contro 159 kg prodotti e distribuiti dallo Stabilimento Chimico Militare di Firenze. Il tutto aggravato da un sistema di approvvigionamento complesso e farraginoso e dalla carenza di informazione verso l’utenza. Con poche ma eccellenti eccezioni, tra le quali, proprio in Sardegna, il Centro di terapia del dolore dell’Ospedale Binaghi di Cagliari, egregiamente diretto dal Dott. Tomaso Cocco, che da tempo, con rara sensibilità, profonda umanità e competenza, pratica, con ottimi risultati, le cure a base di cannabis. Tutto questo accade mentre nel Paese dei dibattiti infiniti e delle commissioni di studio, da anni si disquisisce senza approdo sulla legalizzazione della cannabis. E i diversi disegni di legge proposti giacciono sulle scrivanie istituzionali. Così come rimangono irrisolte le tante istanze di modifica del Dpr 309/90, il testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti alle cui falle e dubbi di conformità costituzionale hanno tentato di dare risposte, almeno in parte, la giurisprudenza di legittimità e la stessa Corte delle leggi. Così è stato con la sentenza Cass. a Sezioni Unite n. 12348/2019, che ha segnato una importante inversione di rotta rispetto ad un precedente orientamento rigorista affermando, in sintesi, la non punibilità della coltivazione domestica per uso personale ed in quantità modica. Un passo avanti significativo che però non colma tutte le lacune della norma, cui solo il legislatore può porre rimedio. E neppure ha impedito il rinvio a giudizio di Walter Di Benedetto, imputato di avere coltivato nella propria abitazione piante di cannabis per uso personale. Walter è arrivato in Tribunale trasportato da un’ambulanza, devastato da anni di malattia e sofferenza causata da una grave forma di artrite reumatoide diagnosticata all’età di 16 anni, che lo costringe a letto fra dolori insopportabili, alleviati solo dall’uso della cannabis, prescritta dai medici dopo avere sperimentato, con esisti devastanti, ogni altro tipo di terapia. Dalla morfina alla chemioterapia. Senonché il Sistema Sanitario, per le ragioni accennate, non è stato in grado di assicurargli la quantità necessaria per le cure, che ha dovuto interrompere. Walter è imputato per aver scelto l’autoproduzione anziché rivolgersi alla criminalità organizzata e alimentare il mercato dello spaccio. Così lui è divenuto l’emblema di una battaglia che il Parlamento non può più ignorare adottando, senza ulteriore ritardo, con approccio laico e finalmente svincolato da moralismi una disciplina delle droghe leggere unita ad una politica che tenga conto della pluralità delle tipologie di consumo, ivi compreso l’impiego medico. Legalizzando le coltivazioni e la detenzione a uso personale delle stesse e dei derivati. Solo così sarà possibile per un verso, sottrarre i grandi profitti al mercato dello spaccio illegale e, per altro verso, avviare una campagna socio culturale di prevenzione ed educazione. Ma soprattutto assicurare le cure necessarie ai tanti malati che nella cannabis trovano sollievo alle loro sofferenze. Infatti, come dice Walter di Benedetto: il dolore non aspetta, il dolore uccide. *Avvocato Libia. La missione Onu: torture, stupri e uccisioni. E tangenti alla politica di Nello Scavo Avvenire, 25 marzo 2021 Nel giorno in cui il premier Draghi annuncia il viaggio a Tripoli, l’inviato del segretario generale delle Nazioni Unite ha riferito al consiglio di sicurezza. “Vige l’impunità”. Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha annunciato in mattinata che si recherà in Libia il 6 e 7 aprile. Una conferma di quanto importante sia per il governo italiano il dossier libico. Domani sarà il ministro degli Esteri Luigi Di Maio a tornare a Tripoli, fra l’altro per continuare a chiedere il blocco delle partenze dei migranti via mare. Che cosa voglia dire per gli stranieri restare in Libia senza alcuna protezione, lo ha però spiegato il nuovo rappresentante Onu a Tripoli, che davanti al Consiglio di sicurezza non ha usato il “diplomaticamente corretto”, incoraggiando la comunità internazionale a fare di più, riconoscendo i passi avanti e le speranze per il dialogo politico interno, ma smentendo chi dipinge il Paese come avviato verso il progressivo rispetto dei diritti umani fondamentali, che anzi conoscono un crescente deterioramento. L’intervento di Ján Kubiš ha confermato quanto denunciato nel rapporto degli esperti Onu, reso pubblico una settimana fa, secondo cui l’embargo sulle armi è risultato un sostanziale fallimento e le milizie, affiliate ai vari ministeri, continuano a gestire ogni genere di affare illecito, dal contrabbando di petrolio allo sfruttamento degli esseri umani. Non è un caso che il presidente del governo transitorio transitorio abbia formato un governo con 35 esponenti di ogni partito, tribù e fazione, ma abbia tenuto per sé l’interim del potente ministero della Difesa. Introducendo la seduta del Consiglio di sicurezza, una nota ricostruiva alcuni recenti scandali. A cominciare dalla nomina del presidente del governo provvisorio, scelto da un’assemblea di delegati chiamata Forum del dialogo, e che nei piani dovrà traghettare il Paese fino alle elezioni del 24 dicembre. La missione Onu ha raccolto voci circa “offerte di tangenti tra 150 mila e 200 mila dollari” da versare ad alcuni dei 35 delegati che si fossero impegnati “a votare per Dbeibah come primo ministro”, poi effettivamente eletto contro ogni previsione. Una vicenda su cui è stata aperta un’inchiesta a Tripoli dopo che “un membro del Forum per il dialogo libico - informa l’Onu - si è arrabbiato per aver sentito che altri delegati avevano ricevuto più soldi di lui”. Nonostante il cessate il fuoco la missione Onu “continua a documentare uccisioni, sparizioni forzate, violenze, inclusi stupri, arresti e detenzioni arbitrarie, attacchi contro attivisti e difensori dei diritti umani e crimini ispirati dall'odio. La libertà d’espressione è compromessa. Vari gruppi armati continuano ad operare senza incontrare ostacoli, le violazioni dei diritti umani continuano nella quasi totale impunità”. E se questo è quello che devono passare anche i cittadini libici, non è difficile immaginare cosa subiscano gli stranieri. “Sebbene il loro numero rimanga basso rispetto alla popolazione totale di migranti in Libia, il numero di migranti che tentano di attraversare il Mediterraneo è aumentato durante i primi due mesi del 2021 e rimane costante, esponendoli al rischio della morte”. Meno di un mese fa le organizzazioni internazionali stimavano in poco più di 2mila la popolazione di migranti e profughi rinchiusi nelle prigioni ufficiali. Ma negli ultimi giorni, alla vigilia delle trattative con Paesi come l’Italia che chiedono fermare le partenze, viene catturato “un numero crescente di migranti e rifugiati”. Lo slovacco Kubiš ha riferito al Consiglio di sicurezza che “attualmente circa 3.858 migranti sono detenuti in centri di detenzione ufficiali gestiti dal Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (Dcim) in condizioni estreme, senza un giusto processo e con restrizioni all'accesso umanitario”. Parole che strappano il velo d’ipocrisia, davanti a quanti, anche negli ultimi mesi, hanno sostenuto che la presenza delle agenzie Onu in Libia è una garanzia di rispetto dei diritti umani, con questo giustificando la cattura in mare da parte della cosiddetta Guardia costiera libica, che restituisce ai campi di prigionia i migranti intercettati. Perciò “l’Unsmil è preoccupata per le gravi violazioni dei diritti umani contro migranti e richiedenti asilo da parte del personale del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale e dei gruppi armati coinvolti nella tratta di esseri umani”. I regolamenti di conti interni si risolvono con il piombo o rastrellando i nemici. I diritti fondamentali non sono minimamente rispettati: “L'Unsmil continua a ricevere rapporti credibili di detenzione arbitraria e illegale, tortura, sparizioni forzate, esecuzioni extragiudiziali, rifiuto di visite da parte di famiglie e avvocati e privazione dell'accesso alla giustizia”. Secondo il rappresentante del segretario generale, “sono più di 8.850 le persone detenute arbitrariamente in 28 carceri ufficiali sotto la custodia della polizia giudiziaria, con una percentuale stimata tra il 60 e il 70 per cento in custodia cautelare”. Inoltre, “circa 10 mila persone sono detenute in centri di detenzione sotto l'autorità di milizie e gruppi armati. Si stima che tra essi vi siano circa 480 donne, di cui 184 non libiche, più di 63 minori e bambini”. L’urgenza però sembra essere un’altra. Al Palazzo di vetro lo sanno: “Essendo la sua principale fonte di entrate e il più grande datore di lavoro, il settore petrolifero richiede supporto e investimenti continui”. E sembra essere questa la principale posta in gioco. Aiutiamo la nuova Libia, così il Mediterraneo tornerà mare di tutti di Marco Minniti La Repubblica, 25 marzo 2021 Migliaia di migranti partiti dalla Libia negli ultimi anni hanno cercato di raggiungere l'Europa transitando per l'Italia. Con una sequenza senza precedenti, il Mediterraneo ha visto palesarsi il più gigantesco sommovimento geopolitico degli ultimi cento anni. Il realizzarsi, quasi contemporaneo, di due antichi sogni imperiali: quello Russo e quello Turco-Ottomano. Dalla Siria alla Libia. Con una comunità internazionale sorpresa, al limite dell’impotenza. Parliamo degli Usa di Trump, sedotti dalla America First e dal conflitto con l’Europa, sempre più distinti e distanti da quel mare considerato secondario. E di un’Europa stranita, divisa, quasi colpita al cuore da tanta temeraria accelerazione. Le elezioni americane ci hanno consegnato una nuova America. E la presenza di Biden al vertice di oggi dell’Ue, è il più icastico segnale del grande cambiamento. Il Mediterraneo non potrà non giovarsi di ciò. Un nuovo quadro dell’antico legame transatlantico rappresenta una buona notizia per quel “mare nostrum” che nel tempo è diventato sempre meno nostrum. Poi c’è l’inaspettata opportunità della formazione, dopo anni di drammatica divisione e di una sanguinosa guerra civile, di un governo unitario della Libia. La sua approvazione parlamentare con una maggioranza pressoché unanime rappresenta sicuramente un passo importante. È come se, per una volta, l’impegno dell’uomo (una “donna” Stephanie Williams) insieme a quella che Hegel chiamava l’astuzia della ragione, avessero promosso una potenziale inversione di tendenza. Intendiamoci, la sfida del nuovo governo Dbeiba, felicemente e tempestivamente incontrato dall’Italia, è da far tremare le vene ai polsi. Mantenere e rafforzare il cessate il fuoco. Liberare il Paese dalle presenze militari straniere. E che presenze. La prima, quella turca, dichiarata. Frutto di un accordo politico e diplomatico, formalmente firmato dalle parti durante la fase più acuta della guerra civile. La seconda, mai dichiarata ma altrettanto incombente: quella della Russia. Con i contractor della Wagner, secondo modalità già sperimentate nel Donbass. La Turchia ha avuto in concessione secolare il cruciale porto di Misurata. Fortissimo, nello stesso tempo, è l’attivismo russo con la costruzione del cosiddetto “vallo di Putin” tra Cirenaica e Tripolitania. A ciò si affianca la notizia della più vicina base di Mig-29 al cuore dell’Europa. Se tutto ciò non bastasse, c’è, poi, il tema dello scioglimento delle milizie interne, che hanno sin qui svolto un ruolo dominante. E di riflesso la costituzione di un sistema di sicurezza e difesa unitario per l’intera Libia. Le prime scelte del nuovo governo nel comparto difesa ed il silenzio assordante di un indebolito Haftar rappresentano qualcosa di più di una semplice incognita. C’è poi, in uno scenario di drammatica emergenza pandemica, da ricostruire un Paese devastato. La cadenza temporale è senza fiato. Con l’obbiettivo di portare il Paese al voto nel dicembre di quest’anno. Intendiamoci, il voto non solo è il compimento naturale di un percorso di ricostruzione istituzionale ma è indispensabile per la stabilità della Libia. Facile a dirsi. Difficile a farsi. Come insegna il recente passato. Le tensioni manifestate con il Parlamento di Tobruk su un percorso costituzionale ed elettorale non rappresentano un buon viatico. Ma questa è la sfida. Lasciare oggi sola la Libia sarebbe un peccato imperdonabile. Tocca all’Europa, in una rinnovata sintonia transatlantica, sostenere il nuovo governo libico. Contribuendo, così, a ridisegnare un nuovo assetto del Mediterraneo. Nel momento in cui ci si appresta a riaprire il negoziato del trattato con la Turchia, l’Ue ha l’imperativo politico di presentare un piano di ricostruzione economica, sociale, istituzionale della Libia. Un piano importante per le risorse economiche impegnate. Ambizioso nei suoi contenuti è finalità. Negoziato con il nuovo governo, ma che soprattutto sappia parlare a quel pezzo, grande, del popolo libico che in questi anni ha guardato con fiducia al Vecchio continente e non si rassegna all’idea di un’egemonia Russo-Turca. Un Piano che rimetta a pieno regime l’attività energetica tradizionale e insieme proponga un progetto per l’utilizzo delle fonti rinnovabili. Un Piano che coinvolga i Paesi del nord Africa confinanti con la Libia. A partire dalla cruciale Tunisia. Che contenga un nuovo patto per il governo dei flussi migratori, che, nel rispetto dei diritti umani, sia incardinato sull’apertura e promozione di canali umanitari e legali e su un impegno chiaro di contrasto al traffico di esseri umani. Un Piano, infine, che sostenga i governi nell’affrontare la sfida della pandemia. Sapendo che la sicurezza sanitaria sarà un tema dominate per tutti i Paesi che ruotano nell’orbita del Mediterraneo allargato. Si tratta di agire in fretta. Perché se “l’inaspettata opportunità” libica di Menfi e Dbeiba dovesse fallire si precipiterebbe, inevitabilmente, in una divisione della Libia per sfere di influenza. Il che rappresenterebbe uno scacco drammatico per l’intera Europa. Il collasso libico rischierebbe un gigantesco “effetto domino”, che potrebbe colpire altri Paesi del Nord Africa. L’Europa non può permetterselo. Perché, mai come adesso, il suo futuro si specchia nelle acque del Mediterraneo. L'Etiopia non può più negare. Il premier Abiy: stragi di civili in Tigrai di Paolo Lambruschi Avvenire, 25 marzo 2021 Si alza il velo sulle bugie e sul silenzio Così arrivano le prime conferme ufficiali anche sul massacro di cristiani ad Axum, mentre il segretario di Stato Usa, Blinken, parla di “pulizia etnica”. Settimana della verità per il Tigrai, dopo mesi di blackout, silenzi e menzogne ufficiali. Mercoledì della scorsa settimana il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha fatto un brusco cambio di rotta e per la prima volta ha fatto ammissioni importanti in Parlamento e via social media, seguito da un primo, parziale riconoscimento etiope della strage di Axum, città santa della cristianità ortodossa, finora sempre negata. Abiy ha riconosciuto anzitutto che i militari etiopi hanno compiuto abusi contro i civili nello Stato regionale dal 4 novembre ad oggi, aggiungendo che i responsabili di atrocità durante l’offensiva militare saranno “chiamati a renderne conto”. Le dichiarazioni arrivano dopo che l’Onu ha acconsentito alla richiesta di un’indagine congiunta con l’Etiopia sulle accuse di violazioni dei diritti umani nel Tigrai e, soprattutto, dopo che il segretario di Stato Usa Antony Blinken aveva descritto come “pulizia etnica” le violenze anche sessuali di massa avvenute nella regione settentrionale etiope, dalle quali sono fuggite in Sudan 60mila profughi e un milione di sfollati. Inoltre, dopo 5 mesi di dinieghi e smentite ufficiali di Addis Abeba e dell’Asmara, il Nobel per la pace 2019 ha finalmente ammesso il coinvolgimento dei militari eritrei nel conflitto sul suolo etiope scaricando su di loro la responsabilità di abusi contro i civili. Presenza e coinvolgimento che da mesi, nonostante il buio informativo che Addis Abeba ha fatto calare sull’area dall’inizio delle ostilità, era stata denunciata prima dai media internazionali (tra cui questo giornale) e poi dall’Onu attraverso le sue agenzie, dagli Usa, Ue e da molte organizzazioni umanitarie. L’autorizzazione concessa alcune settimane fa all’ingresso in aree tigrine di alcune grandi testate internazionali ha confermato tutti i racconti dell’orrore che vedono protagoniste soprattutto le truppe del regime di Isaias Afewerki. Alle truppe eritree Abiy è “comunque grato”. Sempre in Parlamento ha dichiarato infatti che “il popolo e il governo eritreo hanno fatto un favore duraturo ai nostri soldati” durante la guerra, senza fornire dettagli. “Comunque - ha proseguito- dopo che l’esercito eritreo ha attraversato il confine per operare in Etiopia, qualsiasi danno abbia fatto al nostro popolo è inaccettabile. La campagna militare era contro nemici chiaramente definiti: il Fronte di liberazione del popolo del Tigrai, (l’ex partito di governo locale che ha guidato anche il governo etiope dal 1991 all’avvento di Abiy nel marzo 2018, ndr), non contro le persone. Ne abbiano discusso quattro o cinque volte con il governo eritreo”. Evidentemente senza successo. Infine un attacco all’Unhcr/Acnur sui 96mila rifugiati eritrei, almeno 15mila dei quali deportati a forza dai soldati eritrei nonostante fossero sotto la protezione del governo etiope. Il leader etiope sostiene di aver chiesto all’Alto commissariato Onu per i rifugiati, un anno prima della guerra nel Tigrai, di spostare i campi di accoglienza dei rifugiati eritrei verso l’interno, “ma questo non è avvenuto per le pressioni subite dal Tplf”. Abiy ha ricordato che nella regione c’erano quattro campi d’accoglienza per rifugiati eritrei, due dei quali a 20 chilometri dal confine tra i due Paesi “completamente fuori dagli standard internazionali”. Ha motivato inoltre la richiesta del loro spostamento in una zona più sicura perché in essi “si faceva attività politica volta ad addestrare gruppi antigovernativi eritrei”, azione che il premier etiope ascrive al Tplf e perché “con l’appellativo di rifugiato eritreo, facilitato da lingua e cultura simile, facevano in modo di mandare all’estero un grande numero di giovani tigrini dicendo fossero rifugiati eritrei”. Abiy, però, ha omesso di parlare del tentativo di chiudere uno dei campi già nel settembre 2020 e alla sua scelta di non accogliere più profughi in fuga dalla confinante eritrea dopo la pace del 2018. Quanto alla falsa nazionalità dei rifugiati, più volte l’agenzia governativa etiopica Arra che si occupa dei rifugiati ha affermato che da anni il problema era stato risolto con accertamenti rigorosi. Nulla invece è stato detto sulla deportazione di almeno 15mila eritrei dei campi di Hitsats e Shimelba, distrutti dalle truppe del dittatore eritreo, altro crimine contro l’umanità come ha ricordato l’Alto commissario Onu Filippo Grandi. Il quale assieme al Sottosegretario generale per le questioni umanitarie (Ocha) delle Nazioni Unite Mark Lowcock, al direttore generale dell’Oim Antonio Vitorino e all’Alto commissario per i diritti umani Michelle Bachelet ha lanciato un appello per far cessare stupri e “altre orribili forme di violenza indiscriminata contro i civili mentre la situazione umanitaria sta peggiorando”. Significative le prime ammissioni etiopiche sulla strage di fedeli e civili ad Axum compiuta a fine novembre sempre dalle truppe eritree in un’ordalia di violenze e saccheggi. Dopo i report di Amnesty international e Human Rights Watch, ieri un rapporto preliminare della Commissione nazionale etiope per i diritti umani istituita dal governo accusava i soldati di Isaias dell’uccisione di oltre 100 civili a novembre (almeno 800 per gli altri report, ndr), che “potrebbe costituire un crimine contro l’umanità”. Intanto dall’Ue primo passo ufficiale contro l’Eritrea. I 27 ministri degli Esteri europei hanno approvato sanzioni contro dirigenti dei servizi di intelligence di Asmara con cui vengono congelati conti correnti in Europa e imposti blocchi ai visti di ingresso nell’Ue perché responsabili in Eritrea di “gravi violazioni dei diritti umani con arresti arbitrari, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e torture”. E le truppe eritree sono state segnalate da organismi Onu persino al confine tra Etiopia e Sudan, nel conteso triangolo di al-Fashqa, dove negli ultimi mesi c’è stata un’escalation di tensione con ripetuti scontri. Altri segnali di contagio del conflitto del Tigrai in tutto il Corno d’Africa. Brasile. “Lula vittima politica del procuratore Moro” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 25 marzo 2021 Le motivazioni della sentenza che ha annullato la condanna all’ex presidente. Per i giudici della Corte suprema il magistrato è stato “parziale” Con lo scopo di impedire la candidatura alle elezioni del 2018. Una vittoria su tutta la linea per l’ex presidente brasiliano Ignacio Lula da Silva: la Corte suprema ha chiarito le motivazioni che l’8 marzo scorso hanno portato, da parte del tribunale presieduto da Edson Fachin, all’annullamento di tutte le accuse. Per i giudici la condanna del 2017 che ha portato in carcere, per 580 giorni (fino alla liberazione dopo il processo di appello del 2019), il 75enne leader del Partito dei Lavoratori è stata viziata e determinata dalla condotta non imparziale del magistrato anticorruzione Sergio Moro. Secondo la sentenza l’accusatore avrebbe agito per motivazioni politiche eliminando dalla corsa presidenziale del 2018 Lula, in vantaggio per qualsiasi sondaggio, a favore dell’outsider di estrema destra Jair Bolsonaro. I sospetti su Moro potrebbero essere poi avvalorati dal fatto che nel 2019 divenne ministro della Giustizia, nominato proprio dall’ex capitano dell’esercito che ancora governa il paese. A ribaltare le ipotesi di colpevolezza è stata la giudice Carmen Lucia il cui voto è stato determinante per la decisione della Corte suprema in favore di Lula. Inoltre un altro componente della Corte, Gilmar Mendes, ha votato per portare Moro in giudizio (a causa di una serie di intercettazioni pubblicate da The Intercept dalle quali emergerebbero manovre oscure e pressioni dai pubblici ministeri). Sebbene sia stato annunciato un processo, una data specifica per l'udienza non è stata ancora confermata. Se il campione dell’anticorruzione verrà condannato, tutte le prove raccolte verranno eliminate, rendendo improbabile il tempo sufficiente per riesaminare completamente il caso di Lula prima delle elezioni del prossimo anno. In realtà l’intramontabile leader della sinistra brasiliana non ha ancora confermato se si ricandiderà, ragioni di opportunità politica ma soprattutto un’intricata vicenda giudiziaria ancora in piedi potrebbero cambiare nuovamente il quadro. Nel luglio 2017 infatti Lula venne ritenuto colpevole di riciclaggio e corruzione riguardo i lavori di un appartamento sulla costa di San Paolo, secondo il tribunale si trattava di una tangente proveniente da una società di costruzioni. La vicenda venne collegata alla famosa “Operazione Car Wash (Lava Jato)”, una poderosa inchiesta anti- corruzione che coinvolse la compagnia petrolifera statale Petrobras. L’indagine provocò la caduta di numerose teste, centinaia tra i politici e i dirigenti d'azienda più potenti del Brasile. Ad occuparsi del procedimento giudiziario fu la giurisdizione di Curitiba. Gli avvocati difensori hanno sempre affermato che Lula all’epoca dei fatti era residente a Brasilia e che il caso di corruzione non era collegato a Petrobras. Per cui tutto il procedimento giudiziario era di competenza della capitale. Un duello legale durato 5 anni e che ora potrebbe portare tutta l’inchiesta al punto di partenza a meno che, appunto, Moro non venga giudicato a sua volta. Molti gli osservatori ritengono improbabile l’apertura di un nuovo processo, la decisione del giudice Fachin infatti, sempre secondo stampa ed addetti ai lavori, sarebbe stata impossibile senza l’appoggio della Corte suprema. Ma rimane, in ultima istanza, un altro elemento di natura squisitamente politica che potrebbe sbarrare la candidatura di Lula. Bolsonaro e la destra potrebbero modificare la legge elettorale facendo cambiare idea alla Corte suprema così come a Brasilia si potrebbe arrivare ad un eventuale nuovo giudizio in tempi molto più rapidi. Si comprendono dunque le titubanze di Lula che ha già annunciato un tour attraverso il paese per parlare con i suoi sostenitori prima di prendere una decisione definitiva. “La mia testa non ha tempo per pensare alla candidatura del 2022 - ha detto Lula - Quando arriverà il momento di discutere avremo l’immenso piacere di annunciare al Brasile che stiamo pensando al 2022”. Su tutto peserà l’andamento della pandemia che sta facendo aumentare a dismisura nuove infezioni e morti con la rete sanitaria del paese al limite del collasso. Più delle vicende giudiziarie di Lula è questo il punto debole di Bolsonaro, negazionista convinto del Covid- 19, che ha fatto precipitare il paese in una crisi sanitaria fuori controllo. Ad oggi più di 300mila persone sono morte in Brasile a causa dell’infezione (più di 3251 decessi solo ieri), secondo i dati della Johns Hopkins University, mentre sono stati segnalati oltre 12 milioni di casi.