Ergastolo ostativo, l’avvocatura di Stato apre all’abolizione di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 marzo 2021 L’Avv. Figliolia: “Eliminare ogni automatismo”. Udienza pubblica in Corte costituzionale, oggi la sentenza. Un varco c’è, nell’abolizione dell’ergastolo ostativo. Ad agevolare la spinosa decisione della Corte costituzionale - attesa per oggi - chiamata dalla Cassazione a pronunciarsi sulla legittimità dell’unica pena del nostro ordinamento che preclude ogni possibile liberazione condizionale, comminata a quei condannati che non collaborano con la giustizia, ci ha pensato la stessa avvocatura dello Stato. A sorpresa, l’avv. Ettore Figliolia, rappresentante del governo, nell’udienza pubblica di ieri mattina in Consulta ha trasformato le proprie conclusioni rinunciando alla pura e sola richiesta di giudicare inammissibile o infondata la questione di costituzionalità sollevata sul caso di un uomo condannato per mafia che dopo 30 anni di carcere “si ritrova - ha spiegato la sua legale - a non poter avere una valutazione dei suoi progressi da parte del tribunale di sorveglianza” perché si è sempre rifiutato di collaborare. L’avvocato di Stato ha aperto invece un varco possibile, chiedendo ai giudici di non bollare come incostituzionale le norme (art. 4bis e 58ter o.p.; legge 203/91) ma al tempo stesso di “far decantare ogni forma di automatismo”, lasciando al magistrato di sorveglianza la possibilità di giudicare caso per caso e di “verificare in concreto le ragioni di quella mancata collaborazione che è condizione per ottenere il beneficio”. Un cambio di passo necessario perché, come ha spiegato lo stesso avvocato Figliolia, questa causa approda in Consulta (giudice relatore Nicolò Zanon) dopo l’importante sentenza che ha giudicato incostituzionale vietare i permessi premio agli ergastolani ostativi non “pentiti” e ha concesso l’ultima parola appunto al giudice di sorveglianza. Una decisione, quella, presa nell’ottobre 2019 da un Collegio di cui faceva parte l’attuale ministra di Giustizia Marta Cartabia, prima che diventasse lei stessa presidente della Corte costituzionale. “Il governo - ha puntualizzato l’avvocato di Stato - non può non tenere in debita considerazione sia i principi evocati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 253 del 2019, che della sentenza Viola della Corte europea dei diritti dell’uomo (incompatibilità dell’ergastolo ostativo con l’articolo 3 della Convenzione europea: condanna per l’Italia del 13 giugno 2019 sul caso di Marcello Viola, recluso a vita al 41bis, ndr)”. In questo caso però, a differenza dei permessi premio, secondo l’avv. Figliolia, va tenuta in conto “l’esigenza ineludibile dello Stato di assicurare ordine sul proprio territorio, evitando che chi si è macchiato di gravi reati possa tornare a delinquere mettendo in pericolo la collettività”. Eppure, fa notare l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti che rappresenta il mafioso condannato sul cui caso si leva il dubbio della Cassazione, “non è possibile pensare di buttare la chiave per alcune tipologie di detenuti. Farlo sarebbe una resa dello Stato”. “Non si può mai rinunciare” alla funzione rieducativa della pena, né tanto meno “etichettare questa categoria di detenuti come non risocializzabili”, segnarli con una “lettera scarlatta”. Impedire loro di poter “dimostrare di essere diventati persone diverse”. Inoltre, sottolinea l’avvocata Araniti, il sicuro ravvedimento del condannato “non può essere misurato con la collaborazione con la giustizia”, come dimostrano i casi di “collaboratori di giustizia blasonati” che una volta scarcerati sono invece tornati a delinquere. Adesso, ha spiegato lunedì il sottosegretario alla giustizia Paolo Sisto durante un webinar organizzato dall’Università Roma Tre, “attendiamo, per avere chiarezza, la sentenza della Corte sul tema, per potere poi cadenzare i successivi step del percorso legislativo necessario”. Sisto ha puntualizzato che il governo sulla giustizia non vuole “appoggiarsi” ai decreti ma procedere con “adeguato dibattito parlamentare”. Ergastolo ostativo, il governo “apre” alla liberazione condizionale di Simona Musco Il Dubbio, 24 marzo 2021 L’avvocatura dello Stato: “Stop agli automatismi”. L’avvocata Araniti: “Non è possibile pensare di buttare la chiave per alcune tipologia di detenuti”. L’avvocatura dello Stato “apre” alla liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo ostativo, anche in assenza di collaborazione. Una disponibilità non totale, ma subordinata alla valutazione, da parte del magistrato di sorveglianza, delle ragioni “che non consentono di realizzare quella condotta collaborativa nei termini auspicati dallo stesso giudice decidente”. Un punto di vista espresso ieri, nel corso dell’udienza davanti alla Corte costituzionale, chiamata a decidere sulla legittimità delle norme sull’ergastolo ostativo: alla libertà condizionale, infatti, possono accedere tutti i detenuti che abbiano trascorso almeno 26 anni in carcere, ma non coloro condannati per reati come terrorismo e mafia, a meno che non decidano di collaborare con la giustizia, come previsto dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario. La posizione del governo è quella di tenere in vita la norma, ma con una formula di rigetto interpretativo che tenga conto dello “stop” agli automatismi sulla collaborazione, stabilito nel 2019 sia dai giudici di Strasburgo, nella causa “Viola contro Italia”, sia dalla Corte costituzionale, allora chiamata a pronunciarsi sulla possibilità, per gli ergastolani ostativi, di usufruire di permessi premio. Una posizione forse figlia del nuovo vento che soffia a via Arenula, oggi occupata da Marta Cartabia, da sempre attenta al mondo del carcere e alla funzione rieducativa della pena. Ettore Figliolia, avvocato dello Stato, ha comunque chiesto alla Corte di dichiarare “inammissibile” o “infondata” la questione di legittimità sollevata dalla Cassazione, ma attraverso “un’esegesi più corrispondente alla “ratio” delle norme, assicurando uno spazio di discrezionalità al magistrato per verificare le motivazioni della mancanza di collaborazione da parte del condannato”. Figliolia ha evidenziato “la peculiarità della liberazione condizionale” rispetto al beneficio dei permessi premio, su cui la Consulta si è pronunciata due anni fa: “Dopo 26 anni un detenuto ergastolano può essere ammesso alla liberazione condizionale e, dopo altri 5 anni, la pena è considerata estinta, e il soggetto torna alla piena libertà, senza più alcun debito con la giustizia. Va considerata l’esigenza ineludibile dello Stato di assicurare l’ordine nel proprio territorio e nella valutazione di opposti interessi e va verificato come la liberazione condizionale deve atteggiarsi rispetto alla volontà del legislatore di dare significato alla condizione collaborativa”. Quindi, può essere possibile “far decantare ogni forma di automatismo - ha osservato - e consentire al giudice di sorveglianza di verificare le motivazioni per cui il condannato non può assicurare una condizione di collaborazione” con la giustizia. Secondo la Cassazione, il dubbio di costituzionalità trova fondamento “nel convincimento che la collaborazione non può essere elevata a indice esclusivo dell’assenza di ogni legame con l’ambiente criminale di appartenenza e che, di conseguenza, altri elementi possono in concreto essere validi e inequivoci indici dell’assenza di detti legami e quindi di pericolosità sociale”. Altrimenti, secondo il giudice rimettente, si rischierebbe “una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e di progressività del trattamento penitenziario”. Il caso è quello di Francesco Pezzino, condannato all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’articolo 416-bis e ormai in carcere da più di 30 anni, essendone passati tre dalla presentazione della richiesta di accesso alla libertà condizionale. “Per qualsiasi tipologia di reato, per quanto grave possa essere, la Costituzione ci invita a mettere al centro del sistema l’uomo con le sue fragilità, con i suoi errori, con le sue debolezze ma anche con la sua capacità di redenzione - ha evidenziato Giovanna Araniti, difensore di Pezzino. Non è possibile suddividere i soggetti in categorie ritenendo alcuni aprioristicamente ed automaticamente non risocializzabili, attraverso un’etichetta fondata sul mero titolo di reato. Non è possibile pensare di buttare la chiave per alcune tipologia di detenuti. Farlo sarebbe una resa dello Stato”. Facendosi portavoce dell’appello dei 1271 condannati all’ergastolo ostativo - il 71% di chi sconta il fine pena mai - e che “chiedono di avere l’opportunità di dimostrare di essere persone diverse”, Araniti ha sottolineato come il termometro del cambiamento non possa essere determinato dalla collaborazione con la giustizia. Sono tanti, ha fatto sottolineato, i pentiti “blasonati” che sono tornati a delinquere, mantenendo i rapporti con le organizzazioni criminali di origine. “Questo a riprova che quella equivalenza non esiste e che c’è la possibilità di una valutazione dei progressi dell’individuo basata su un parametro diverso”, ha aggiunto, ricordando il diritto al silenzio costituzionalmente garantito, che nasce direttamente dal diritto di difesa. “Ci sono dei casi inquietanti di soggetti che dopo la revisione hanno ottenuto la liberazione dopo 30 anni di carcere, come Giuseppe Gulotta. Ecco perché - ha concluso - bisogna anche guardare alle ricadute pratiche di questa preclusione assoluta”. Giudici, ascoltate Mandela, non Di Matteo. L’ergastolo è un’infamia di Piero Sansonetti Il Riformista, 24 marzo 2021 Oggi la Corte Costituzionale deciderà sull’ergastolo ostativo. Cioè stabilirà se sia o no costituzionale l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario che impedisce ad alcuni detenuti di uscire dal carcere, anche dopo aver scontato 26 anni, e di ottenere i benefici carcerari se non si pentono e non collaborano con la magistratura. L’ergastolo, che spesso si sconta in regime di 41bis, in isolamento, senza diritti, senza rapporti con l’estero, in condizioni estremamente crudeli, è una vera infamia. Peraltro in palese violazione delle “Mandela Rules” approvate dall’Onu nel 2015. Ieri l’avvocatura dello Stato si è pronunciata per l’abolizione. La notizia è stata commentata con indignazione da Nino Di Matteo, membro del Csm, da altri pm e dal Fatto Quotidiano: così si aiuta la mafia, hanno detto. Sono furiosi con Cartabia. Chissà, forse nei prossimi giorni chiederanno anche la pena di morte. Le regole delle Nazioni Unite sullo standard minimo per il trattamento dei prigionieri sono state adottate nel 2015 dall’Assemblea generale, la quale ha voluto intitolarle a Nelson Mandela, l’ex presidente del Sudafrica che trascorse in carcere ben 27 anni della sua vita. Si tratta di 122 regole suddivise in aree tematiche. Non potendo pubblicarle integralmente per ragioni di spazio, abbiamo scelto di pubblicarne alcune particolarmente significative. Principi di base Regola l Tutti i prigionieri devono essere trattati con il rispetto dovuto alla loro sostanziale dignità e valore come esseri umani. Nessun prigioniero potrà essere sottoposto a, e tutti i prigionieri deve essere protetta da, tortura ed altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti, per i quali nessuna circostanza può essere invocata come giustificazione. La difesa e la sicurezza dei detenuti, del personale, dei fornitori di servizi e dei visitatori devono essere garantite in ogni momento. Regola 2 1. Il presente regolamento deve essere applicato in modo imparziale. Non ci deve essere alcuna discriminazione per motivi di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica o di altro, origine nazionale o sociale, proprietà, nascita o qualsiasi altra condizione. Devono essere rispettate le credenze religiose ed i principi morali dei prigionieri. 2. Affinché il principio di non discriminazione possa essere messo in pratica, le carceri e le amministrazioni devono tener conto delle esigenze individuali dei detenuti, in particolare delle categorie più vulnerabili negli ambienti carcerari. Sono necessarie e non devono considerarsi discriminatorie le misure di protezione e promozione dei diritti dei detenuti con esigenze speciali. Regola 3 Detenzione e altre misure che si traducono in privare le persone del mondo esterno sono afflittive per il fatto stesso di sottrarre da queste persone il diritto di autodeterminazione, attraverso la privazione della loro libertà. Pertanto, il sistema carcerario non deve aggravare la sofferenza insita in una tale situazione, ad eccezione di quanto connesso alla separazione giustificabile o il mantenimento della disciplina. Regola 4 1. Gli scopi di una pena detentiva o di analoghe misure privative della libertà di una persona sono, in primo luogo, per proteggere la società contro la criminalità e per ridurre la recidività. Tali scopi possono essere raggiunti solo se il periodo di detenzione è utilizzato per garantire, per quanto possibile, il reinserimento di queste persone nella società dopo il rilascio, in modo che possano condurre una vita autosufficiente e rispettosa della legge. 2. A tal fine, le amministrazioni carcerarie e le altre autorità competenti dovrebbero offrire istruzione, formazione professionale e lavoro, così come altre forme di assistenza che siano appropriate e disponibili, comprese quelle di un correttivo, morale, spirituale, sociale e basato su forma fisica e lo sport. Tutti i programmi, le attività e tali servizi dovrebbero essere forniti in linea con le esigenze individuali di trattamento dei detenuti. Regola 5 1. Il regime carcerario dovrebbe cercare di ridurre al minimo le eventuali differenze tra la vita in carcere e la vita in libertà, che tendono a ridurre la responsabilità dei detenuti o il rispetto dovuto alla loro dignità di esseri umani. 2. Le amministrazioni penitenziarie sono tenute ad adottare tutte le ragionevoli soluzioni e aggiustamenti per garantire che i detenuti con disabilità fisiche, mentali o altre disabilità abbiano in modo equivalente un accesso pieno ed effettivo alla vita in carcere. Alloggio Regola 12 Nel caso in cui l’alloggio per il pernottamento sia in singole celle o camere, ogni detenuto durante la notte deve avere una cella o stanza per sé. Se, per motivi particolari, quali temporaneo sovraffollamento, è necessario per l’amministrazione centrale della prigione fare un’eccezione a questa regola, non è auspicabile avere due prigionieri in una cella o stanza (..). Regola 13 Tutte le sistemazioni atte ad uso dei detenuti ed in particolare tutti gli alloggi dedicati al ricovero notturno devono soddisfare tutte le esigenze di salute, tenendo in debito conto le condizioni climatiche ed in particolare il contenuto cubo d’aria, lo spazio minimo, l’illuminazione, il riscaldamento e la ventilazione. Servizi sanitari Regola 24 La fornitura di assistenza sanitaria per i detenuti è una responsabilità dello Stato. I detenuti dovrebbero godere degli stessi standard di assistenza sanitaria di cui si avvale la comunità e dovrebbero avere accesso ai servizi sanitari necessari a titolo gratuito, senza che vi sia discriminazione sulla base della loro status giuridico (...) Restrizioni, disciplina e sanzioni Regola 43 In nessun caso possono aversi restrizioni o sanzioni disciplinari fino alla tortura o per altri trattamenti o altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti. In particolare, sono vietate le seguenti pratiche: (a) Indefinito isolamento; (b) L’isolamento prolungato; (...) Regola 44 Ai fini di queste regole, l’isolamento si riferisce al confinamento di detenuti per 22 ore o più al giorno, senza significativo contatto umano. L’isolamento prolungato si riferisce all’isolamento per un periodo di tempo superiore a di 15 giorni consecutivi Regola 45 1. L’isolamento deve essere utilizzato solo in casi eccezionali, come ultima risorsa, per il più breve tempo possibile e sottoposto ad una revisione indipendente, e solo in forza dell’autorizzazione da parte dell’autorità competente (...) 2. L’imposizione di isolamento dovrebbe essere vietata in caso di detenuti con disabilità mentali o fisiche, quando le loro condizioni potrebbero essere aggravate da tali misure (...) Detenuti che scontano una condanna Regola 87 Prima che il detenuto abbia scontato la sua condanna, è auspicabile che siano adottate tutte le misure necessarie affinché sia assicurato un graduale reinserimento del detenuto stesso nella società civile (...) Regola 88 Il trattamento penitenziario dei detenuti non deve enfatizzare la loro esclusione dalla comunità civile, bensì la loro continuativa partecipazione all’interno della stessa. Pertanto, le istituzioni di assistenza sociale dovrebbero essere, ove possibile, affiancate al personale penitenziario e assisterlo nella riabilitazione sociale dei detenuti. Regola 89 (...) 3. È auspicabile che il numero dei detenuti in ogni struttura carceraria “chiusa” non sia così alto da ostacolare l’individualizzazione del trattamento penitenziario (...) Regola 90 I doveri della società nei confronti del detenuto non si esauriscono al momento della sua liberazione. Dovrebbe essere definita l’attività di appositi enti governativi o anche privati in grado di provvedere alla cura del detenuto rilasciato allo scopo di lenire il pregiudizio contro di lui favorire la sua riabilitazione sociale. Detenuti con disabilità mentali e/o problemi di salute Regola 109 I soggetti ritenuti non punibili o successivamente riconosciuti come aventi gravi disabilità mentali e/o problemi di salute e, pertanto, la cui detenzione potrebbe comportare un peggioramento delle loro condizioni di salute, non devono essere detenuti all’interno di strutture carcerarie, bensì assegnati al più presto possibile a strutture sanitarie appropriate. Detenuti arrestati o in attesa di processo Regola 111 (...) 2. I detenuti non condannati sono presunti innocenti e come tali devono essere trattati. Guai se depotenziano l’ergastolo ai mafiosi di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2021 Il mondo è cambiato, ma la mafia non ha fatto che adattarsi; essa è oggi quella che è sempre stata fin dalla sua origine: una società segreta cementata dal giuramento che insegue il potere e il denaro coltivando l’arte di uccidere e di farla franca”. Quel che lo storico John Dickie ha scritto per Cosa Nostra (estensibile alle altre mafie) va condiviso in toto, magari aggiungendo all’arte di uccidere quella di corrompere e di pescare sempre nuovi complici nella inesauribile “zona grigia”. A cambiare siamo invece noi: noi Stato, noi cittadini. Falcone prima di essere ucciso a Capaci aveva ispirato il cosiddetto “ergastolo ostativo” per i mafiosi, una normativa di giusto rigore che (combinata col 41-bis, approvato subito dopo le stragi del 1992, e con le norme sui “pentiti”) ha contribuito agli imponenti successi ottenuti dagli inquirenti contro la mafia. Nel 2019 la Corte costituzionale ha “innovato” la materia, nel senso che il magistrato di sorveglianza può concedere permessi premio a tutti i detenuti condannati al massimo della pena per fatti di mafia. Tutti, anche quelli che non si sono pentiti, cioè non hanno “saltato il fosso” e dato una mano collaborando con la giustizia. In sostanza, una robusta spallata all’ergastolo ostativo e di riflesso al pentitismo, non più decisivo per i benefici. Dunque una spallata a due collaudati capisaldi dell’antimafia. Oggi la Consulta deve stabilire se introdurre un ulteriore cambiamento, così che l’ergastolano mafioso non pentito possa accedere anche alla libertà vigilata. La decisione del 2019 (secondo Giovanni Bianconi) era stata votata con la stretta maggioranza di 8 a 7. Vedremo come andrà a finire questa volta. Certo è che si è già registrato un rilevante cambiamento, nel giro di pochi gironi, da parte dell’Avvocatura dello Stato. In prima battuta essa aveva chiesto alla Consulta di respingere il ricorso del detenuto che aveva sollevato il caso, ora invece ha cambiato avviso, chiedendo alla Corte una sentenza che (senza dichiarare l’incostituzionalità della nonna impugnata) la interpreti, nel senso che il giudice di sorveglianza dovrà verificare in concreto quali sono le ragioni che non consentono la condotta collaborativa. L’Avvocatura rappresenta il governo e questo suo ripensamento va appunto collegato al cambio di governo. Resta comunque difficile capire come un delicato problema intrecciato a filo doppio con la lotta alla mafia possa esser diversamente valutato a seconda della bandiera che sventola a Chigi. La cifra con cui l’esecutivo si rapporta alla mafia dovrebbe essere sempre la stessa, tanto più se ci si vanta - come l’attuale governo - di ispirarsi a un sano pragmatismo. Ora non è solo pragmatismo, ma plurisecolare e immutabile realtà della mafia (confermata da esperienze univoche e convergenti) che senza “pentimento” manca ogni segno esteriore di apprezzabile concretezza per poter valutare la possibilità di un effettivo distacco dal clan con conseguenti prospettive di reale recupero. La realtà (il cemento” di cui parla Dickie) esclude in modo assoluto che lo status di uomo d’onore possa mai cessare, salvo che nell’ipotesi (unica!) di collaborazione processuale. In assenza del pentimento le decisioni del magistrato di sorveglianza (oltre a comportare una forte sovraesposizione personale) rischiano di essere una sorta di azzardo surreale. Vero è che il magistrato di sorveglianza può avvalersi di varie informazioni (del carcere, del Comitato provinciale ordine e sicurezza pubblica, del procuratore nazionale e distrettuale antimafia) sull’attualità dei collegamenti. Ma è anche vero e risaputo che questi “contributi” risultano per lo più di facciata. In particolare, soltanto Alice nel paese delle meraviglie potrebbe fidarsi del mafioso che rivendica come titolo valutativo quello di essere stato un detenuto modello, perché il rispetto formale dei regolamenti carcerari non equivale a un inizio di resipiscenza, ma è una regola che il mafioso “doc” si impone proprio in quanto irreversibilmente “doc”. Facile prevedere che i legali degli ergastolani per delitti di mafia sosterranno che costoro non sono liberi di scegliere di collaborare, perché metterebbero in pericolo l’incolumità propria e dei familiari. Ma l’obiezione urta contro la constatazione che ormai da anni lo Stato italiano ha dimostrato coi fatti di essere in grado di proteggere migliaia di pentiti e le loro famiglie. So bene che mi sono guadagnato una grandine di accuse, tipo forcaiolo e manettaro. Ma proprio le vittime di mafia ci hanno insegnato che indipendenza significa fare quel che si ritiene giusto. Anche se le “anime belle” vorrebbero altro. Il Commissariato per l’emergenza Covid: non sono a rischio le vaccinazioni ai detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 marzo 2021 Il chiarimento dopo che si era diffuso l’allarme per lo stop delle dosi ai detenuti. Proprio nel giorno in cui i Garanti regionali denunciano la lentezza nelle vaccinazioni, da fonti interne si era appreso che Francesco Paolo Figliuolo, il Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, avrebbe stoppato la campagna nelle carceri e avrebbe chiesto che vengano autorizzati i vaccini solo in presenza di focolai. In serata da fonti del Commissariato straordinario è stato fatto trapelare che “a chiarimento di erronee interpretazioni si precisa che l’attuale piano di vaccinazione contempla e prevede la vaccinazione della popolazione, la quale rientra nelle categorie prioritarie previste dal ministero della Salute”. Alla notizia dello stop Gennarino De Fazio, il segretario generale della Uil-Pa Polizia penitenziaria aveva diffuso un duro comunicato: “Se ciò fosse confermato, sarebbe grave, pericoloso e illogico e corrisponderebbe a chiudere la stalla, ancora una volta, a buoi ormai lontani”. De Fazio aggiunge: “Se ora ci fosse uno stop, con i contagi che peraltro stanno seppur lentamente risalendo, sarebbe una grave inversione di tendenza, la quale evidentemente segnerebbe anche un declassamento dell’attenzione sulle carceri e le cui conseguenze rischierebbero di risultare deleterie sia sotto il profilo sanitario sia sotto quello dell’ordine e della sicurezza pubblica”. Una notizia che arriva all’indomani della Conferenza dei Garanti territoriali che ha manifestato il proprio apprezzamento per l’avvio della campagna vaccinale nelle carceri, frutto anche dell’impegno della ministra della Giustizia, Marta Cartabia. “Tuttavia - denuncia il Garante Anastasìa - da alcune regioni emerge un alto tasso di non partecipazione che preoccupa i Garanti: appare evidente la necessità di un’adeguata campagna d’informazione tra la popolazione carceraria”. Il coordinatore dei garanti territoriali puntualizza che in carcere “c’è bisogno di un’adeguata informazione da parte dei servizi sanitari interni”. Alla conferenza dei garanti viene affrontato il discorso della campagna vaccinale a macchia di leopardo. In alcune regioni, come la Lombardia, è iniziata sia tra le persone detenute sia tra il personale della polizia penitenziaria, in altre ancora no. Nel Lazio, l’assessorato alla Sanità ha scelto di utilizzare il vaccino della Johnson & Johnson, disponibile da aprile, per semplificare le procedure, in quanto non è necessaria la seconda somministrazione. In Veneto un terzo della popolazione carceraria non vorrebbe vaccinarsi. Anche in Sicilia la percentuale di astensioni sarebbe intorno al trenta per cento. La situazione dei positivi al virus nelle carceri italiane “è preoccupante ma non allarmante”, secondo il Garante nazionale Mauro Palma, il quale ha riferito che negli ultimi otto giorni i positivi sono aumentati, ma che i sintomatici ospedalizzati sono fortunatamente di poche unità. Il progetto Edison per test rapidi congiunti Hiv-Covid alla popolazione detenuta di F.A. quotidianosanita.it, 24 marzo 2021 L’iniziativa promossa dalla Smspe e sostenuta da Healthcare prevede di eseguire test rapidi congiunti come screening Hiv-Covid-19, seguiti da test di conferma molecolari/genetici in caso di positività degli stessi, oltre ad incontri, anche in remoto tramite webinar, di educazione sanitaria sulla patologia da coronavirus e sulla malattia da HIV sia con la popolazione detenuta che con il personale sanitario e l’amministrazione penitenziaria. Ci sono tante sfaccettature che, giorno dopo giorno, impariamo a conoscere nella lunga maratona della pandemia Covid-19. Esistono esigenze specifiche per le diverse popolazioni, con manifestazioni di patologia che variano, aspetti sintomatologici sempre diversi, studi sui meccanismi fisiopatologici che offrono evidenze nuove, da integrare con le conoscenze acquisite. Poi esiste una dinamica di “setting”, ovvero di realtà in cui occorre affrontare la pandemia attraverso modelli di formazione e informazione mirati, per poter rispondere alle necessità di una determinata popolazione. Gli Istituti Penitenziari rappresentano un “mondo” in questo senso. “Le misure di contenimento applicate hanno permesso di superare la Fase 1 della pandemia - spiega Luciano Lucania, Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe). Ma durante il lockdown sono state sospese le consulenze specialistiche, anche infettivologiche e le attività di screening sulle malattie a trasmissione ematica (HIV, HCV, HBV) che, come è noto, sono presenti nella popolazione detenuta in percentuali maggiori rispetto alla popolazione generale. E la seconda ondata sta proponendo problematiche nuove, diverse ma estremamente impattanti”. C’è bisogno insomma di sviluppare strategie specifiche per la popolazione carceraria, sia per i detenuti che per gli operatori. “Come SIMSPe abbiamo chiesto di attivare le vaccinazioni per Covid-19 e puntiamo sul progetto E.D.I.SON. (frEe coviD hIv priSON), sostenuto da ViiV Healthcare, come pilota per ampliare poi il modello formativo sul territorio nazionale - sottolinea Lucania”. L’iniziativa prevede di eseguire test rapidi congiunti come screening HIV-COVID 19, seguiti da test di conferma molecolari/genetici in caso di positività degli stessi, oltre ad incontri, anche in remoto tramite webinar, di educazione sanitaria sulla patologia da coronavirus e sulla malattia da HIV sia con la popolazione detenuta che con il personale sanitario e l’amministrazione penitenziaria. E.D.I.SON, in questa fase pilota che andrà avanti per 12 mesi, si baserà su diversi strumenti di connessione e di interazione, per favorire lo scambio di informazioni ed esperienze, e coinvolgerà inizialmente alcuni Istituti di Lazio, Abruzzo e Molise. Un impegno che dura nel tempo - L’impegno di SIMSPe nel promuovere progettualità di questo tipo non inizia però solo ora ma fa parte di un percorso di attenzione e formazione nei confronti delle persone in carcere portato avanti con il sostegno non condizionato di ViiV Healthcare. Basti ricordare in questo senso “Free to live well with HIV in Prison”, una partnership tra SIMSPe, NPS Italia Onlus e Università Ca’ Foscari Venezia, mirata a prevenire il contagio e migliorare la gestione delle persone con HIV in un ambiente complesso com’è quello del carcere, grazie all’informazione sui rischi e all’offerta di test e assistenza. Serena Dell’Isola dell’Unità di Medicina Protetta-Malattie Infettive dell’Ospedale Belcolle di Viterbo e coordinatrice del progetto, racconta quali sono stati gli obiettivi di un’iniziativa unica ed innovativa, perché basata sull’educazione tra pari ma soprattutto perché ha introdotto per la prima volta in Italia i test rapidi per HIV negli istituti penitenziari. “Il progetto è volto ad implementare le conoscenze dei detenuti, per consentire loro di compiere scelte responsabili e consapevoli riguardo alla propria salute già durante la detenzione, promuovendone il benessere fisico soprattutto nell’ottica del loro ritorno in società oltre ad offrire al personale sanitario, agli agenti di polizia penitenziaria, agli educatori e ai volontari presenti in carcere la possibilità di sviluppare esperienze e competenze per un’adeguata gestione in sicurezza del loro lavoro quotidiano - spiega Dell’Isola. In forma non tradizionale siamo riusciti ad offrire adeguate informazioni sui comportamenti a rischio nell’ambito di una convivenza forzata anche su temi ancora oggi molto difficili da trattare, perché permeati da stigma, come l’HIV, grazie all’alleanza tra società civile, comunità scientifica, attivisti nella lotta all’HIV e personale penitenziario”. Una visione al femminile - “Free to live well with HIV in Prison” è stato seguito da un progetto espressamente dedicato alla popolazione femminile. Si chiama ROSE-HIV ed è basato sulla realizzazione di un network nazionale di infettivologi che seguono le donne detenute con infezione da HIV. Nel primo anno del progetto sono stati raggiunti 17 istituti penitenziari, campione rappresentativo del 43% dell’intera popolazione carceraria femminile; è stato possibile osservare una prevalenza del 5% dell’infezione da HIV (circa il doppio di quella osservata negli uomini detenuti e quasi 30 volte la percentuale delle donne non detenute) con la presenza di coinfezione da HCV del 30%. “Abbiamo raccolto dati che ci hanno aiutato a conoscere l’infezione da HIV in questo specifico setting per poter poi agire sulle criticità rilevate, come ad esempio il 10% di rifiuto della terapia antiretrovirale”- segnala Elena Rastrelli, medico infettivologo dell’Unità di Medicina Protetta-Malattie Infettive dell’Ospedale Belcolle di Viterbo, ideatrice della rete nazionale sulla salute delle donne detenute nell’ambito della Società di Medicina e Sanità Penitenziaria (RoSe, rete donne simspe) e coordinatrice responsabile del progetto RoSe-HIV. Dal primo progetto, che ha offerto risultati tanto significativi, è stata proseguita l’osservazione con il progetto ROSE-HIV 2 che, sebbene abbia subito delle forti limitazioni nella parte di formazione e comunicazione proattiva, ha potuto osservare l’evoluzione dell’infezione da HIV di pari passo a quella della terapia antiretrovirale, ed ha permesso un ampliamento del network dei centri partecipanti allo studio stesso”. L’importanza della responsabilità sociale del mondo Pharma - “A sostegno di questoprogetto all’interno degli Istituti penitenziari, c’è la disponibilitàdi un’azienda come ViiV Healthcare. “Occorre combattere lo stigma attraverso la formazione e l’informazione: da qui la nostra decisione di sostenere queste iniziative di SIMSPe a favore della popolazione carceraria, consci che in questi ambiti la prevenzione e il trattamento dell’HIV e di altre malattie infettive sono particolarmente difficili - afferma Maurizio Amato, Amministratore delegato di ViiV Healthcare. La nostra strategia, dalla ricerca fino all’impegno di responsabilità sociale, prevede che “nessuno resti indietro” e consideriamo fondamentale supportare attività che fanno realmente la differenza per le persone che vivono con HIV”. La sfida della Dad entra nelle carceri: erogato solo il 4% delle lezioni totali di Cristina D’Armi laquilablog.it, 24 marzo 2021 La sfida della Dad entra nelle carceri. La didattica a distanza ha stravolto la routine di moltissimi studenti, come già detto e ridetto. Ciò su cui invece si è posta poca attenzione, è l’istruzione dei 20mila e 263 studenti detenuti presso le case circondariali d’Italia. Il 33% del totale dei carcerati della nostra penisola, infatti, è rimasto escluso dal diritto all’istruzione. Una delle principali attività all’interno delle carceri, quale la scuola, è stata interrotta rischiando l’oblio. Con l’arrivo del Coronavirus tutte le scuole hanno cambiato il proprio modus operandi, cosa che è venuta meno all’interno degli istituti penitenziari dove le attività si sono semplicemente interrotte. Per monitorare l’andamento delle attività durante la prima ondata, il Centro Studi per la Scuola Pubblica (Cesp) ha svolto un’indagine secondo cui, durante il primo lockdown, sono state erogate 1.410 ore di lezione su 38.520 previste, solo il 4%. Di queste il 3,16% riguardava classi finali, e lo 0,76% le altre classi. Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, insieme al Centro Studi per la Scuola Pubblica e alla Rete delle scuole ristrette, ha interpellato 82 insegnanti presenti in 61 istituti di pena. Dalle testimonianze dei professori è emerso che, mentre le scuole tornavano presenza, per il 45,1% degli istituti monitorati le lezioni non sono state riprese. Nel 27% degli istituti le lezioni si sono svolte regolarmente tramite le piattaforme Meet, Zoom ecc. La didattica sincrona era presente solo per l’8% delle classi. Nel restante 62% dei casi non c’era didattica sincrona. La sfida della Dad entra nelle carceri - I docenti si sono mobilitati fornendo agli alunni materiale cartaceo quale dispense, compiti e fotocopie. Tale metodo ha riguardato l’84% degli istituti in cui non c’era didattica in presenza (in alcuni caso vi è stata sovrapposizione con la didattica a distanza sincrona). Molti detenuti sono rimasti esclusi anche negli istituti in cui si faceva didattica a distanza a causa della difficoltà a garantire il distanziamento sociale nelle classi. La situazione epidemiologica incide anche sul tasso di abbandono scolastico all’interno delle carceri che, in generale, è più alto rispetto all’esterno. Corona e gli altri: quando il carcere è inadeguato per chi ha disagi psichici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 marzo 2021 Il carcere può alimentare il circolo vizioso della sofferenza psichica? Può diventare una sorta di amplificatore dei disturbi mentali e dove non si è in grado di assistere i detenuti adeguatamente? Alcuni fatti possono darci qualche indizio. “Ho chiesto di poter andare in bagno a fumare, mi hanno dato un accendino. Sono controllato a vista da tre uomini della polizia penitenziaria. Mi siedo sul water e mi metto a fumare a torso nudo, i pantaloni tirati su. Vedo sul mio braccio destro la ferita del giorno prima, due punti di sutura che mi sono fatto pugnalandomi con una penna”. Così scrive Fabrizio Corona in una missiva indirizzata a Massimo Giletti, conduttore di Non è l’Arena. Dopo essersi provocato delle ferite in segno di protesta contro le decisioni del giudice di revocargli gli arresti domiciliari, Corona ha iniziato a mordersi la ferita provocandosi altro sanguinamento. Era piantonato e sorvegliato 24 ore su 24 nel reparto di psichiatria dell’Ospedale Niguarda, poi lunedì sera è stato riportato in carcere a Monza. Il suo avvocato Ivano Chiesa ha chiesto al Tribunale di Sorveglianza, che gli ha revocato i domiciliari, la sospensiva dell’esecuzione e ha anche fatto ricorso in Cassazione sul provvedimento. Aggiungendo: “Vorrei parlare con la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, perché ho delle cose da dirle e non riguardano solo Fabrizio Corona, ma anche gli altri detenuti come lui. “Fabrizio può far male solo a se stesso. Non mangia da 12 giorni e non stava in piedi: erano 8 contro uno, come se lui fosse pericolosissimo”. A chi gli chiedeva se l’ex fotografo dei vip sia intenzionato a continuare lo sciopero della fame, l’avvocato Chiesa ha risposto: “Lo conosco, so come è fatto e so che è un uomo che non si piega. Va a morire. Perché ritiene di essere vittima di un’ingiustizia. L’ho supplicato di bere o mangiare almeno qualcosa perché ho bisogno che lui sia in forze”. Il legale fa presente infine: “Non ho ancora visto il foglio di dimissioni, spero che ce lo daranno. Questo Tribunale di Sorveglianza lo ha rimesso in carcere senza nemmeno una perizia psichiatrica”. Il caso di Corona e il clamore mediatico che ne è conseguito fa emerge ancora una volta il problema della patologia psichiatrica e della possibilità di cura nei contesti carcerari. Su questo punto interviene Carlo Lino, Garante dei detenuti di Regione Lombardia. “Ricordo - commenta il garante regionale - che la salute e la dignità delle persone ristrette in carcere è affidata all’Istituzione e farsene carico nel migliore dei modi è un dovere e, al contempo, un indice che qualifica la nostra società”. Lio prosegue: “L’esperienza che ho maturato mi porta ad affermare che, all’interno degli istituti di pena, le persone a cui è stato diagnosticato un disturbo psichiatrico difficilmente riescono ad ottenere trattamenti adeguati”. Sempre il garante rileva come “i Garanti sono costantemente impegnati nel tentativo di risolvere le criticità che si riscontrano nelle strutture carcerarie e alcuni macroproblemi impongono di riflettere non sulla gestione del quotidiano ma sul sistema nel suo complesso. La finalità della pena è sempre la riabilitazione degli individui ed è orientata, per principio, al reinserimento dei condannati in un possibile contesto socio- lavorativo”. In realtà, il tema della psichiatria in carcere è ritornato alla ribalta anche con un caso denunciato dall’associazione Antigone e riportato da Il Dubbio. Qualche mese fa un famigliare di M. si rivolge al Difensore civico di Antigone. L’uomo è detenuto nel reparto di osservazione psichiatrica, “Il Sestante” del carcere di Torino. Verso la fine di agosto, la famiglia di M. viene informata di un tentativo di suicidio del ragazzo a seguito del quale sembrerebbe essere trasferito in una ‘cella liscia’, denudato, senza materasso né coperta e con l’acqua chiusa. La ‘cella liscia’ si chiama così perché è vuota e i detenuti vengono lasciati senza niente che non siano le quattro mura lisce della stanza. M., stando a quanto riferito, avrebbe passato diversi giorni in questa cella, e con l’acqua chiusa, ci è stato riferito, avrebbe addirittura bevuto dallo scarico del wc. La situazione peggiora, si agita, e la prassi che ci viene narrata è quella di frequenti iniezioni intramuscolari per cercare di sedare il detenuto. M. subisce un trattamento sanitario obbligatorio che non risponderebbe a nessuna perizia psichiatrica. Trascorre nove mesi continuativi nella sezione dedicata a soggetti in acuzie del reparto di osservazione psichiatrica, in cui la permanenza massima prevista dalla legge è invece di trenta giorni. Del caso si è subito interessato il Garante nazionale delle persone private della libertà effettuando una visita ad hoc nel carcere di Torino. Si è recato nel penitenziario per incontrare una rappresentanza delle persone ristrette nella sezione femminile che avevano indirizzato nei giorni scorsi una lettera - pubblicata recentemente su Il Dubbio - con osservazioni sulla realtà della propria esecuzione penale e con proposte circa la possibilità di ridurre il persistente sovraffollamento. Come scrive il Garante, “l’occasione ha fornito la possibilità di verificare anche la permanenza di condizioni assolutamente inaccettabili nella parte dell’Istituto che ospita persone in osservazione psichiatrica”. Più volte, infatti, il Garante nazionale ha segnalato che le condizioni previste per chi si trova in condizioni di disagio psichico, spesso molto rilevante, all’Interno della sezione prevista non sono rispettose né della dignità e della sofferenza delle persone coinvolte, né della dignità di coloro che operano nella sezione con compiti di garanzia e sicurezza in una situazione di grave difficoltà. Mattarella: riformare la Giustizia. Si va verso una superprocura Ue di Francesco Grignetti La Stampa, 24 marzo 2021 Il capo dello Stato: “Soluzioni condivise per diritti comuni”. Cartabia: “Leale cooperazione”. Il nome, Eppo, nel tempo ci diventerà familiare, come per Ema, l’agenzia europea del farmaco. Eppo sta per procura europea. È. il primo passo di una magistratura della Ue, ovvero segna l’affacciarsi dell’Europa unita anche nel settore delle inchieste giudiziarie. Non è un caso, allora, se per un parere del Csm ieri, che doveva deliberare il trasferimento di venti magistrati a Eppo, si siano mossi il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la ministra Marta Cartabia per dare massimo risalto a questo passaggio che a suo modo sarà storico. “Uno spazio di comuni diritti impone la ricerca di pervenire a soluzioni condivise”, rimarca il Capo dello Stato, sottolineando che quello europeo “è un percorso ancora in atto”, senza perdere di vista la necessità di una riforma della giustizia italiana. Mattarella, con l’occasione, encomia le capacità della ministra, sia per “gli adempimenti nell’ambito del Recovery plan sul settore della giustizia, sia per quanto riguarda le attese di necessari e importanti interventi riformatori oggetto di confronto in Parlamento”. “A livello europeo - aggiunge il vicepresidente David Ermini - è un momento fondamentale nella cooperazione giudiziaria. Non si pecca di enfasi nell’affermare che anche attraverso l’istituzione della Procura europea passa la costruzione di un’Europa finalmente libera da gelosie nazionali”. Spetta alla ministra Marta Cartabia sintetizzare: “Il modello di pubblico ministero europeo venutosi a delineare nel corso della lunga gestazione si configura come Ufficio unico a struttura decentrata, organizzata in un livello centrale e un livello locale. Quest’ultimo è, appunto, affidato ai procuratori europei delegati, aventi sede negli Stati membri e tributari di uno “status speciale”, una sorta di “doppio cappello”“. Saranno 20 magistrati, dunque, che si divideranno l’Italia in nove macroregioni, incardinati in altrettanti uffici giudiziari, ma dipendenti da Bruxelles. Avranno la competenza esclusiva di portare avanti indagini e poi eventualmente celebrare processi per ogni reato che colpisca gli “interessi finanziari” della Ue. Dice la Cartabia: “I procuratori delegati europei sono magistrati nazionali ad alta specializzazione, interpreti, nella dimensione interna, dell’esigenza di un dialogo diretto con le autorità nazionali, ma anche protagonisti della vocazione sovranazionale”. Sarà una novità assoluta, la procura europea. Che avrà subito il suo battesimo del fuoco con la vigilanza sul Recovery Plan. E si dovrà registrare in corsa la coabitazione con la magistratura ordinaria; a questo proposito sono già al lavoro presso la procura generale della Cassazione, come ha spiegato il procuratore generale Giovanni Salvi, per dirimere i prevedibili conflitti di potere. “La leale cooperazione - conclude Cartabia - sarà la condizione indispensabile per sciogliere tutti i nodi e tutti i possibili intrecci e le sovrapposizioni di competenze che inevitabilmente l’immissione della nuova struttura potrà determinare”. Tanti i problemi all’orizzonte. Uno su tutti: dato che spesso l’aggressione ai fondi europei è opera delle mafie, come si divideranno il lavoro i magistrati? Il consigliere Nino Di Matteo, che per anni è stato a Palermo, si è astenuto perché non sottovaluta i rischi. “Dobbiamo evitare - ha osservato - che l’avvio delle attività della procura europea rappresenti in concreto nel nostro Paese un depotenziamento dell’altissimo livello di contrasto alle mafie finora assicurato dall’attribuzione in via esclusiva alle competenze delle direzioni distrettuali e della procura nazionale antimafia”. Giustizia. La via maestra di riconquista dei princìpi di Mario Chiavario Avvenire, 24 marzo 2021 Da molti punti di vista, e forse ancor più di quanto fosse prevedibile, l’avvento di Marta Cartabia alla guida del Ministero della Giustizia ha fatto segnare un notevole cambiamento nei modi di gestire quel ruolo. Da non trascurare neppure il diverso uso di certe parole, pur intrinsecamente d’obbligo sulla bocca di qualsiasi ministro della Repubblica italiana. Prendiamone due: Europa e Costituzione, fino a ieri impugnate sovente (per non dire soprattutto), dentro e fuori del Parlamento, come clave per distruggere idee e progetti altrui ed esaltare i proprii, in una logora contrapposizione tra ‘garantisti’ e ‘giustizialisti’. Oggi Europa e Costituzione, restano ovviamente imprescindibili punti di riferimento, per la ricchezza di princìpi che ne sgorga; ben più di prima, però, sembra che se ne riscopra il valore, anche e anzi soprattutto, nei loro risvolti problematici, suscettibili di sviluppi a volte ancor più importanti e positivi, purché li si sottragga al fuoco delle polemiche strumentali. Lo si è potuto constatare già dai contenuti e dai toni del primo intervento della ministra davanti alla Commissione giustizia della Camera dei deputati: senza anatemi, senza propositi di far tabula rasa di quanto lasciato in eredità dal predecessore, ma non senza il coraggio di mettersi in gioco con opinioni e proposte innovative, pur a rischio di impopolarità quali quelle sulle alternative al carcere e sula giustizia riparativa e, d’altra parte, con la larga disponibilità a offrire alle scelte parlamentari, su parecchi temi, un’ampia gamma di alternative, sorrette anche da raffronti non improvvisati con leggi ed esperienze straniere: così, particolarmente, su progetti di riforma scottanti quali quelli sulla prescrizione o sul Csm. C’è però un’altra parola che ha particolarmente colpito, anche per il contesto in cui è stata pronunciata dalla ministra. È la parola “riserbo”, scolpita come caratteristica essenziale della corretta conduzione di un’indagine penale, “lontano dagli strumenti mediatici”. Il tutto, proprio con richiami alla Costituzione e all’Europa: l’una, per quell’articolo 27, secondo cui l’imputato “non può essere considerato colpevole fino alla condanna definitiva “; l’altra, principalmente per via di una direttiva della Ue, del 2016, intitolata alla più classica “presunzione d’innocenza”, così come nelle principali Carte internazionali dei diritti (ma, sia detto per inciso, la diversità dei modi di esprimere il concetto, ben nota agli addetti ai lavori e sotto più di un profilo non indifferente neppure ad effetti pratici, è del tutto irrilevante dal punto di vista qui evocato). Semmai c’è da aggiungere che la direttiva europea dà esplicito svolgimento a tutta una serie di princìpi nei quali quella presunzione deve prendere corpo maggiormente definito; princìpi che per la più gran parte, a dire il vero, possono dirsi già ampiamente attuati in Italia perché assorbiti in ciò che già è garantito dalle leggi e dalla Corte costituzionale. Non è così, tuttavia, sul punto specifico, giacché nessuno può illudersi che da noi sia scontato quanto si legge nell’art. 4 della direttiva: “Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche […] non presentino la persona come colpevole”. La parola “riserbo” lì non c’è ma è chiaramente implicita. Per di più, insieme a un’altra parola, non meno preziosa (“discrezione”), essa si trova al centro di una tra le più storiche pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo (la sentenza, del 1995, è etichettata “Allenet de Ribemont”, dal nome del ricorrente del caso di specie). Il brano che le contiene entrambe merita tuttora di venire riportato per intero: non si tratta di “impedire alle autorità di informare il pubblico sulle inchieste penali in corso, ma occorre che lo facciano con tutta la discrezione e tutto il riserbo imposti dal rispetto della presunzione d’innocenza”. Un autentico modello di comportamento per magistrati e ufficiali di polizia, nell’equilibrio con un altro caposaldo del moderno Stato di diritto: dove non è secondario il contributo che alla completezza e alla correttezza di indagini e processi può dare una stampa libera e indipendente, ‘cane da guardia’ di una giustizia trasparente non meno che della democrazia in generale. Ce n’è, dunque, anche per un giornalismo che sia più incline a sollecitare e a celebrare anticipazioni di condanne (magari indulgendovi specialmente quando a esserne colpito o sfiorato è l’avversario politico) più che a vigilare, senza guardare in faccia a nessuno, contro inerzie, insabbiamenti e depistaggi. Com’è invece suo diritto e dovere. Garantisti contro 5Stelle sulla giustizia mediatica di Errico Novi Il Dubbio, 24 marzo 2021 Gli autori dei due “lodi anti Bonafede”, Enrico Costa di Azione e Lucia Annibali di Italia viva, spingono su un nuovo dossier: la presunzione di innocenza. Metodo e tempi. È lì il nodo. È sul metodo della massima condivisione possibile e sulla necessità di trovare i tempi giusti che la più garantista delle ministre si trova distante dai due garantisti più “intransigenti” del Parlamento. Da una parte la guardasigilli Marta Cartabia confida nella elevata competenza del suo “gruppo di lavoro” sulla giustizia penale, guidato da Giorgio Lattanzi, e ritiene di poter sciogliere diversi nodi nel ddl sul processo, da emendare a fine aprile. Dall’altra parte, Enrico Costa di Azione e Lucia Annibali di Italia viva la vedono un po’ diversamente. Sono gli autori dei due principali “lodi anti Bonafede”: ebbene, dopo aver accettato di ritirare i loro emendamenti sulla prescrizione non intendono fare un ulteriore passo indietro su un altro dossier: la presunzione di innocenza. Succede che a Montecitorio è in corso di approvazione la legge di delegazione europea. Un provvedimento ampio, non declinato esclusivamente sulla giustizia, ma nel quale Costa e Annibali chiedono di introdurre appunto specifici richiami alla direttiva della stessa Ue in materia di presunzione d’innocenza. Tra le altre, il deputato di Azione ed ex viceministro alla Giustizia chiede di inserire norme (descritte anche in un’intervista al Dubbio) che vincolino le Procure a un rigoroso contegno pubblico nella fase delle indagini, a non attribuire nomi suggestivi alle inchieste, a non diffondere video para-polizieschi, insomma a evitare di servirsi della giustizia mediatica per impressionare l’opinione pubblica, condizionare il giudice e ottenere una condanna virtuale immediata e assurda prima ancora che si verifichi la consistenza delle loro accuse. “Confidiamo che i nostri emendamenti alla legge di delegazione europea, che richiedono il recepimento della direttiva Ue sulla presunzione di innocenza, siano approvati al più presto”, dice Costa. “Nella maggioranza di cui facciamo parte non si può indugiare, né prendere tempo su principi inaggirabili della nostra Costituzione”. Annibali gli dà man forte: “È inaccettabile il ritardo che il nostro Paese continua ad accumulare rispetto all’attuazione della direttiva: dopo tre anni non possiamo continuare a compromettere la salvaguardia di un principio costituzionale”. Poi aggiunge: “Come segnalato anche dalla ministra Cartabia durante l’esposizione delle linee programmatiche, è necessaria una piena attuazione della direttiva europea attraverso un rafforzamento della presunzione di innocenza”. Verissimo: la ministra è stata tutt’altro che elusiva sul punto. Tanto è vero che Costa per primo, dopo l’audizione della guardasigilli alla Camera, ha esclamato: “Sento musica per le mie orecchie”. Qual è il punto? Cartabia sa delle ritrosie di una parte della maggioranza, dei Cinque Stelle innanzitutto. Ritrosie emerse anche nella riunione lampo di ieri, che lei stessa presiede in videoconferenza coi capigruppo Giustizia della maggioranza. La ministra chiede dunque di evitare forzature, ma non per accantonare il tema: vuole che le proposte sul penale, sia quelle della “commissione Lattanzi” che le modifiche elaborate dai partiti, confluiscano a breve nel ddl delega, in modo da farne l’epitome della nuova giustizia, nella più ampia condivisione possibile. E d’accordo con lei il sottosegretario agli Esteri Enzo Amendola, che è del Pd e che sovrintende al dossier sulla legge di delegazione europea, divenuta imprevedibilmente occasione di attrito. Alla fine la mediazione è sui tempi: il ministro 5s ai Rapporti col Parlamento Federico D’Incà chiede e ottiene che la riunione si aggiorni alla settimana prossima. Nella speranza di trovare un’intesa sul merito e sui tempi: accogliere nel ddl penale, dunque a fine aprile, parte delle proposte di Costa e Annibali. Si vedrà. I due deputati sono convinti che il dissenso 5 stelle è destinato a emergere, e preferiscono giocare d’anticipo. Cartabia sa che va ricercata l’intesa migliore possibile. E perciò non condivide l’idea di precorrere i tempi. Resta il fatto che il nodo giustizia prima o poi arriverà al pettine della nuova maggioranza. E ci vorrà tutta la cultura costituzionale della ministra per evitare che si trasformi in una mina esplosiva per il governo. Sulla presunzione d’innocenza Cartabia passa la palla alla sua maggioranza di Liana Milella La Repubblica, 24 marzo 2021 M5S contro tutti: non vuole il principio europeo, ma alla fine del vertice resta isolato. La legge di delegazione prevista domani alla Camera slitta alla prossima settimana. Niente da fare. M5S è coriaceo. Non vuole il principio di presunzione d’innocenza che, una volta declinato, imporrebbe comportamenti garantisti per i magistrati nei confronti degli imputati. Si tiene un vertice. La Guardasigilli Marta Cartabia, che condivide quel principio sancito in una direttiva europea del 2016, capisce che un accordo è impossibile e che neppure l’ipotesi di piazzarlo in una qualsiasi legge alla fine passerebbe, e chiude l’incontro con una “bocciatura”. E dice a tutti, come riferisce più di un partecipante: “Come Guardasigilli io devo esprimere un parere sugli emendamenti. Trovate un punto di accordo e io lo valuterò. Ma preferirei non respingerlo. Quindi è necessario che troviate un’intesa prima”. Che, ovviamente, la ministra giudici accettabile. Tira brutta aria sulla presunzione d’innocenza, il principio introdotto nel 2016 in una direttiva europea, e finora mai recepito nella giurisdizione italiana. Poi ecco, in aula alla Camera la legge di delegazione europea, che recepisce a sua volta una serie di norme della Ue, contenitore di per sé omogeneo per la direttiva. A piazzare più di un emendamento ci prova Enrico Costa di Azione. Non da oggi in verità, ma addirittura, prima in commissione, dal novembre dell’anno scorso. Già allora fu M5S, con il voto determinante del presidente grillino Mario Perantoni, a bloccarlo. Poi riecco che Costa, con Riccardo Magi di Più Europa, ripropone lo stesso testo, ampliandolo a norme fortemente garantiste (del tipo niente conferenze stampa dei procuratori). Lo segue Forza Italia. E ieri anche Italia viva e Lega presentano i loro testi, giusto alla vigilia del dibattito in aula alla Camera previsto per mercoledì. Qui entra in scena Federico D’Incà, il ministro dei Rapporti con il Parlamento, di M5S, che convoca alle 13 una call e chiede di soprassedere sulla presunzione d’innocenza perché altrimenti la legge dovrebbe ritornare al Senato. Mentre - come ha ribadito ieri durante il vertice il sottosegretario Pd agli Affari europei Vincenzo Amendola - la legge è proprio urgente perché l’Italia rischia delle procedure d’infrazione. L’asse M5S-Pd è compatto, via agli emendamenti sulla presunzione d’innocenza in questa legge, anche nella versione short che accetterebbe Costa, cioè solo il richiamo al titolo stesso della direttiva europea. Ma a questo punto ecco - durante la stessa call - la duplice sorpresa. Perché la grillina Carla Giuliano, capogruppo di M5S in commissione Giustizia alla Camera, insiste sulla mancanza di tempo per far tornare la legge al Senato, cioè la stessa tesi che D’Incà propugna da giorni, ma fa anche capire chiaramente che proprio sul principio stesso non c’è alcuna apertura. Non deve entrare né in quella legge, né in altre. Stop. È il punto di snodo della riunione. Quello che produce il fallimento di una possibile trattativa. Anche perché si arrabbiano tutti. Interviene Costa chiedendo che l’emendamento “short” entri, ma senza più discutere, “perché è una questione di principio inderogabile sulla quale non sono ammessi dinieghi”. A seguire, sulle sue orme, stesse affermazioni di Forza Italia. Mentre a scendere pesantemente in campo è Maria Elena Boschi, la capogruppo di Italia viva alla Camera, che chiede l’inserimento del principio che Lucia Annibali ha già presentato il giorno prima per la discussione in aula. Soprattutto perché, dice Boschi, l’eventuale “navetta” al Senato determinerebbe un rinvio di pochi giorni, sicuramente compatibile con eventuali contestazioni dell’Europa per il ritardo nel recepire alcune direttive. Da Maurizio Lupi arriva la stessa richiesta. Ed è a questo punto che Marta Cartabia mette un punto netto. Il suo parere è che quel principio debba essere recepito, ma anche che non debba diventare la scusa per una prova di forza dentro la maggioranza. Se ne potrebbe discutere in una legge ad hoc. Malvista però da Costa e dagli altri perché “avrebbe tempi troppo lunghi e finirebbe nel dimenticatoio”. Cosa fa Cartabia? Prende atto delle distanze e di una mediazione che risulta impossibile. Ma anche del rifiuto di un “metodo”, perché la sua idea è che quel principio vada sì inserito nell’ordinamento, ma non debba diventare l’oggetto di una forzatura per pesare le forze tra i partiti di governo. E dunque lei chiede ai gruppi di soprassedere in questo momento, di riflettere, di mettersi d’accordo, anche se alla fine sarà la stessa Cartabia a esprimere un parere, ovviamente importante, sull’emendamento stesso. Finisce inesorabilmente come doveva finire, in un fallimento. Nella prima vera spaccatura della maggioranza sulla giustizia. In cui, per chiudere, D’Incà è costretto a inviare un messaggio che recita esattamente così: “Buongiorno a tutti. Dopo la riunione di oggi pomeriggio con la ministra Cartabia, il sottosegretario Amendola e tutta la maggioranza, abbiamo riscontrato la necessità di prendere del tempo sulla legge di delegazione europea per arrivare a una soluzione condivisa. Mi sembra che la soluzione prevalente sia, quindi, il rinvio alla settimana prossima”. Nella speranza che qualcuno abbia voglia di fare il primo passo. Presunzione di innocenza. Cartabia non ferma il blitz degli impuniti di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2021 Un mese fa, appena insediata in via Arenula, aveva sventato il blitz contro “la blocca-prescrizione” di Alfonso Bonafede. Ma stavolta, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, non è riuscita a fermare l’assalto dei “garantisti”, ma solo a rinviarlo di una settimana. Perché il nodo politico che ruota intorno al principio della presunzione di innocenza dentro la maggioranza resta. E la Guardasigilli se n’è resa conto ieri durante la riunione con i capigruppo in commissione Giustizia per provare a evitare il voto sugli emendamenti alla legge di Delegazione europea 2019-2020 presentati dal deputato di Azione, Enrico Costa, ma anche da Lega, Forza Italia e Italia Viva. L’obiettivo del centrodestra più i renziani è quello di recepire la direttiva europea che impone all’Italia di adeguarsi sul principio della presunzione di innocenza aggiungendo a essa degli emendamenti in funzione anti-pm: limitazione delle dichiarazioni dei magistrati durante le inchieste, lo stop alla diffusione di intercettazioni, audio e video, ma anche il divieto di pubblicare “integralmente” le ordinanze di custodia cautelare. Inoltre Costa ha presentato un emendamento secco per chiedere di recepire la direttiva del Parlamento Ue del 2016 “sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Ma su un tema così delicato la maggioranza si sarebbe spaccata in aula per la contrarietà del M5S. Così ieri è intervenuta Cartabia convocando la riunione e chiedendo alla maggioranza di “esprimersi” e provando a mettere in campo la sua moral suasion per far ritirare gli emendamenti e inserire le modifiche nella riforma del processo penale di cui si sta occupando la task force di via Arenula. Oltre alla pressione del ministro dei Rapporti col Parlamento, Federico D’Incà, per far ritirare gli emendamenti, anche il sottosegretario alle Politiche Ue del Pd Enzo Amendola ha chiesto che la legge di Delegazione sia approvata il prima possibile per evitare una procedura d’infrazione evitando un nuovo passaggio in Senato: cosa che avverrebbe nel caso in cui gli emendamenti di Costa & C. venissero approvati. Ma nessuno ha deciso di ritirare le proposte di modifica. Lega e Fi hanno fatto sapere che avrebbero ritirato i propri emendamenti se lo avessero fatto tutti, ma il niet è arrivato da Costa e da Maria Elena Boschi di Iv. Quest’ultima ha detto che sulla presunzione di innocenza “non possono esserci ambiguità” legando il ritiro degli emendamenti a una legge con corsia preferenziale. Ma Costa va avanti: “Io non ritiro niente - spiega - se ci sono incertezze sulla presunzione di innocenza è un problema politico che va risolto”. Così Cartabia ha detto: “Mettetevi d’accordo”. Il voto di oggi è stato rinviato. Ma il nodo politico resta. Riforma della giustizia e del Csm. Ora la Cartabia è pronta ad accelerare di Massimo Malpica Il Giornale, 24 marzo 2021 L’invito di Mattarella raccolto dal Guardasigilli. Fumata nera sul recepimento della direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza. Un sì alla procura europea e un avvertimento al Csm, con il capo dello Stato e il nuovo Guardasigilli che, a Palazzo dei Marescialli, confermano l’urgenza di una riforma della giustizia e dello stesso organo di autogoverno della magistratura. L’occasione è il plenum straordinario del Csm, alla presenza di Sergio Mattarella e Marta Cartabia, che vede l’approvazione della proposta del ministro della Giustizia sulla procura europea. Una proposta che individua le nove sedi di servizio per i 20 procuratori europei italiani: Roma, Milano, Napoli, Bologna, Palermo, Venezia, Torino, Bari, Catanzaro. Il nuovo organismo si occuperà in via esclusiva dell’azione penale per tutti i reati che ledono gli interessi finanziari della Ue. Il via libera del plenum arriva a maggioranza, con l’astensione del magistrato antimafia Nino Di Matteo che teme un depotenziamento del contrasto alle mafie - e dei due membri laici in quota Lega, Emanuele Basile e Stefano Cavanna. Ma, come detto, fuori dall’ordine del giorno del plenum, a tenere banco è stato il tema delle riforme. A introdurre la questione è stato proprio il Capo dello Stato, che nel suo intervento ha ricordato l’importanza “primaria” del ministero della Cartabia, “particolarmente in questo periodo, sia per gli adempimenti nell’ambito del Recovery plan sul settore della giustizia, sia per quanto riguarda le attese di necessari e importanti interventi riformatori oggetto di confronto in Parlamento”. E la Guardasigilli ha concluso raccogliendo l’invito del vicepresidente David Ermini a tornare a Palazzo dei Marescialli per “parlare di riforme”. “Lo faremo senz’altro”, ha tagliato corto. Così il via libera alle sedi italiane dei procuratori europei delegati è stato l’innesco per tornare a battere sul tasto delle riforme. E l’invito di Mattarella e la “promessa” della Cartabia guadagnano il plauso di Giorgia Meloni, con la leader di Fdi che “condivide” le parole del presidente della Repubblica e ricorda che sulle “necessarie e attese” riforme della giustizia il suo partito si è già confrontato nei giorni scorsi con la Cartabia, presentando “un pacchetto di proposte sul quale siamo pronti a confrontarci in Parlamento” e rilanciando “il sorteggio dei membri del Csm” come “unico strumento per spezzare il correntismo e il sistema della lottizzazione”. E auspica “una soluzione condivisa” per risolvere “i problemi emersi sul Csm” e combattere “il fenomeno correntizio” nella nomina dei vertici anche il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Tutto rinviato per l’altro tema caldo di giornata, il recepimento della Direttiva Ue che rafforza la presunzione di innocenza, e che vede la maggioranza spaccata con il solo M5s contrario. Ieri alla riunione dei capigruppo della commissione Giustizia, presente in videoconferenza anche la Cartabia, le posizioni non sono mutate. La Guardasigilli ha chiesto di “evitare forzature”, ma al momento nessuno degli emendamenti tesi ad accogliere la direttiva è stato ritirato. La riforma che punta sulle capacità delle toghe di Valentina Errante Il Messaggero, 24 marzo 2021 Il mondo delle toghe deve saperlo: ecco che il metodo del governo “poche parole-molti fatti” si fa strada, e si coglie la determinazione ad intervenire presto e sul serio. Nessuna “rivoluzione” epocale come quelle periodicamente declamate in passato, fino a ieri, e poi rimaste nei cassetti a futura memoria. Decisioni operative, di ampia visione, capaci di incidere con immediatezza, plasticamente, sul settore della Giustizia. Ecco il pacchetto che si sta preparando. E del resto nel discorso del premier Draghi alle Camere il vasto e controverso tema non era affatto un inciso ma anzi rivestiva un impegno preciso su entrambi i fronti della giustizia, civile e penale. Senza chiasso, silenziosamente, in ambiti diversi, attraverso contributi originali ecco i primi passi nell’era Draghi-Cartabia. Tanta la carne al fuoco ma solo poche portate sembrano destinate a divenire servizio attivo in tempi brevi. Il ministro della Giustizia Marta Cartabia, avvolta in un operoso silenzio, si muove con determinazione verso una figura di magistrato dalla potente formazione giuridica, affiancata da una altrettanto forte capacità organizzativa. Gli uffici funzionano perché guidati da metodologie collaudate, serie e severe, catene di montaggio giuridico-giudiziario intelligenti, nemiche delle lentezze e delle lungaggini: le istruttorie e i processi si muovono con cadenze verificate, le risposte attese dalla società giungono in tempi ragionevoli, l’arretrato si assottiglia, quasi si prosciuga. Lo “scandalo Giustizia”, inadeguata ai tempi e perciò inadempiente, si trasforma in “macchina della Giustizia”. Se per un verso il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, David Ermini, accarezza l’idea di istituire delle pagelle da aggiornare periodicamente e finalizzate alla verifica della fondatezza di provvedimenti e sentenze dei magistrati, (proposta che trova ammiratori e acerrimi nemici in dosi uguali), la ministra Guardasigilli mette in campo, e vedremo quanto seguito avrà, l’idea di istituire corsi obbligatori con aumentata attenzione per i profili organizzativi e amministrativi. Verrebbero tirati in ballo anche docenti e testimoni esterni al circuito giudiziario. E quindi? Alla fine dei corsi ecco prendere corpo le valutazioni serie del profilo attitudinale dei partecipanti. Un magistrato, dunque, che sa fare squadra, che si abitua a utilizzare la statistica e la giurisprudenza consolidata. Nasce “l’Ufficio del processo”, modello clerks inglesi, che classificano i casi, cercano i precedenti e i contributi dottrinali, uno staff di supporto al giudice. Qualcosa che richiama il team della Formula Uno, dove ogni ruolo è finalizzato a rendere macchina e pilota un tutt’uno vincente. È chiaro che, su questa strada, vecchie e arcigne modalità culturali e comportamentali andranno smantellate. Il giudice agirà dentro i confini dettati dalla legge ma fatalmente con minori margini di discrezionalità, anche riguardo ai tempi di produzione delle sentenze. Se ne sono viste e lette di incredibili, interminabili nelle implicazioni culturali e nello sfoggio di nozioni. Già in passato è stato dimostrato che la struttura organizzativa di certi uffici giudiziari ha quasi azzerato il contenzioso ed esibito primati di efficienza. Dunque, si può. Per ora non si capiva bene come. Qui si punta alla concretezza, alla produttività dei risultati, sulla base di criteri organizzativi manageriali, ispirati all’efficienza, collaudati e adeguati nel tempo. Marta Cartabia sembra voler dire che questa strada non soltanto è percorribile da subito, con la possibilità in breve tempo di cominciare a trarre valutazioni sulla qualità dei dirigenti degli uffici in carica, ma è forse l’unica che evita di impaludarsi nell’infido territorio degli schieramenti. Il filtro tecnico politico utilizzato dal Guardasigilli mira anche a sventare un’altra insidia: quella di incartarsi nel groviglio delle ideologie, delle contrapposizioni partitiche e correntizie. Gli ingredienti velenosi che ci hanno portato alla triste realtà di oggi. Situazione che ha tenuto la questione della Giustizia all’ordine del giorno senza mai fissare la data di inizio dei lavori. Poi, s’affronteranno anche le altre questioni sempre calde: la prescrizione, la separazione delle carriere, la riforma del Csm. Ma, intanto, l’ “Ufficio del processo” potrebbe cominciare a dare segni di efficienza e sollevare la macchina dalla attuale asfissia. Efficienza vuol dire fiducia: che è quella che scarseggia adesso. La pg di Cassazione: “L’alienazione parentale è incostituzionale” di Simona Musco Il Dubbio, 24 marzo 2021 La dura requisitoria di Francesca Ceroni: teoria priva di fondamento scientifico, ignorati completamente i bisogni del bambino. L’alienazione parentale, come il plagio, è incostituzionale. È quanto emerge tra le righe della requisitoria della sostituta procuratrice generale della Cassazione Francesca Ceroni, che nel chiedere l’annullamento di una sentenza della Corte d’Appello di Roma, che imponeva il collocamento in una casa famiglia di un bambino vietando ogni contatto con la madre, ha fortemente criticato la teoria. Recentemente, anche l’Organizzazione mondiale della sanità ha escluso la Pas dall’elenco delle patologie riconosciute, così come non trova posto all’interno del Dsm 5, il manuale diagnostico utilizzato da psichiatri e psicologi di tutto il mondo. Formalmente, dunque, non esiste. Ma, ha denunciato recentemente Valeria Valente, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno del femminicidio, tale argomento viene spesso utilizzato in tribunale per ridurre la violenza tra le mura familiari a semplice conflitto tra genitori, con conseguenze dannose per donne e bambini. Opinione diametralmente opposta a quella del senatore leghista Simone Pillon, autore di un ddl “in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità”, basato proprio sulla teoria della “alienazione genitoriale”, formulata dallo psichiatra forense Richard Gardner, accusato di appoggio alla pedofilia. La requisitoria di Ceroni, ora, avvalora la tesi di Valente. Stigmatizzando fortemente il comportamento dei giudici d’appello di Roma, che non avrebbero minimamente tenuto in considerazione, nel caso in questione, le dichiarazioni fatte dal bambino ai carabinieri circa le violenze subito dal padre. Il bambino ha infatti dichiarato di “essere stato picchiato più volte”, con schiaffi e pugni, specie quando dichiarava di voler raccontare alla madre quanto accadeva col padre. Il principio di bigenitorialità, afferma la magistrata, non ha dignità costituzionale. Al primo posto, in ogni caso, c’è e ci deve essere sempre il supremo interesse del minore. Qualsiasi diritto del genitore, dunque, cede il passo al diritto fondamentale del bambino all’integrità fisica e alla sicurezza. Argomento, questo, sul quale “i giudici di merito omettono qualsiasi accertamento e valutazione”. Anzi, gli stessi non indicano alcun fatto o circostanza per argomentare la tesi secondo cui la madre rappresenterebbe un rischio per il bambino, parlando, genericamente, di “eccessivo invischiamento” e “rapporto fusionale”, argomenti senza “base oggettiva o scientifica”, ma frutto di una mera valutazione soggettiva. Si tratta, dunque, di un pregiudizio, sulla cui base si accusa la madre di “verosimili problematiche di personalità (…) gravemente inficianti la genitorialità”, nonostante il bambino non soffra di alcun disturbo della personalità. I giudici di merito sono però convinti che la madre abbia “indotto al convincimento che l’interazione con un genitore (la madre) dovesse determinare l’esclusione dell’altro e del di lui ramo familiare”. Ma nessuna verifica è stata fatta sull’effettivo tentativo di allontanare il minore dal padre, né sono state tenute in considerazioni le ragioni del suo rifiuto a stare con lui, ragioni che emergono chiaramente dalle annotazioni dei carabinieri. Per Ceroni, la decisione “viola il diritto del fanciullo a mantenere la continuità affettiva e di cura con la madre” e quello al mantenimento dell’habitat domestico. Decisione assunta in violazione alla Convenzione di Istanbul - recentemente tornata alla ribalta per il ritiro della Turchia dalla stessa -, secondo la quale l’affidamento condiviso va escluso nel caso in cui emergano casi di violenza, così come ogni contatto con l’autore stesso delle violenze. “La Corte - continua la requisitoria - non ha neppure riportato in modo sintetico i bisogni, le opinioni, le aspirazioni espressi dal minore”, basandosi, probabilmente, sull’idea di una “totale adesione” del bambino al pensiero della madre. E qui, citando l’incostituzionalità del plagio, Ceroni ricorda che affinché una norma possa essere determinata la stessa deve regolare un fenomeno “effettivamente accertabile dall’interprete in base a criteri razionalmente ammissibili allo stato della scienza e dell’esperienza attuale”. Cosa che, nel caso della Pas, non avviene. “Solo condizionamenti accertabili su un piano scientifico a partire da comportamenti concretamente posti in essere possono costituire la ragione per confinare nell’irrilevante giuridico la volontà chiaramente e consapevolmente espressa dal minore, che il diritto vivente vuole al centro di ogni decisione che lo riguardi”, conclude la requisitoria. Addio a Sante, bandito senza tempo di Giuliano Santoro Il Manifesto, 24 marzo 2021 Se n’è andato il giorno dopo l’inizio della primavera, Sante Notarnicola. Aveva compiuto nello scorso mese di dicembre 82 anni. Di recente si era ammalato di Covid. Era guarito ma ne era uscito acciaccato, prima che un’infezione lo portasse via. La vita del bandito Notarnicola è un impressionante affresco del Novecento, uno spaccato dei suoi conflitti e un esempio, controverso quanto si vuole eppure cristallino, di come anche nei momenti più bui, dentro una cella umida in mezzo al niente di un carcere speciale, grazie al fatto di sentirsi comunisti ci si possa immaginare come parte del motore della storia. Era nato nel 1938 a Castellaneta, in provincia di Taranto. Da lì, dopo anni in un orfanotrofio, a 13 anni era riuscito a raggiungere sua madre a Torino. Gli anni Cinquanta nelle città operaie, soprattutto Torino e Milano, sono anni di passaggio. La base comunista, come racconterà Primo Moroni ricostruendo quella composizione di classe, non ha ancora smesso di attendere l’ora X. Nelle intercapedini delle fabbriche che erano state occupate alla fine del fascismo sono nascosti piccoli arsenali: intemperanze che il Pci togliattiano tollera appena confidando nella lenta evoluzione del suo popolo verso la lotta democratica. In questo clima, dieci anni prima del Sessantotto e molto prima che nascessero le formazioni armate, Sante Notarnicola si unisce a Pietro Cavallero. Rapinano banche e gioiellerie, dirà in seguito, “per raccogliere denaro a favore dei movimenti di liberazione nei paesi coloniali” e “mettere in risalto l’inefficienza della polizia, ridicolizzarla”. Le azioni della banda finiscono tragicamente nel ‘67, con il colpo al Banco di Napoli di Largo Zandonai, a Milano, che culmina con un inseguimento della polizia e una sparatoria tra la folla al termine del quale rimangono uccise tre persone. Notarnicola viene arrestato e condannato all’ergastolo e qui comincia la sua terza vita, dopo quella di bambino del sud e bandito metropolitano. Conosce il carcere e vive da dietro le sbarre le trasformazioni sociali di quegli anni. Dalle galere quasi medioevali in cui finiscono soprattutto i soggetti dimenticati dalla modernizzazione, i figli di un’Italia contadina che subisce arretratezza o mutamenti vertiginosi, assiste allo scoppio dei movimenti e conosce i primi detenuti che si dichiarano prigionieri politici. Non è organico a nessuna formazione, ma è rispettato e ha un ruolo nelle lotte e nelle rivolte dei dannati della terra. In una lettera a Lotta Continua fa un bilancio (autocritico) della sua esperienza ma afferma: “Posso riprendermi anche nel luogo in cui meno credevo fosse possibile mantenere una linea rivoluzionaria, il carcere. Ho scoperto quanto ci sia da fare anche in questo luogo per un comunista. Questo è il mio impegno verso la mia vecchia classe: vivere in carcere da comunista, perché per me non vi è altro modo di sentirsi uomini che essere comunista”. Nel 1972 Feltrinelli pubblica L’Evasione impossibile, il libro (poi ristampato da Odradek) in cui Sante ripercorre la sua storia e lancia un gancio ai movimenti della sinistra rivoluzionaria. Racconta che quando gli agenti penitenziari gli comunicano che gli è consentito di tenere soltanto un volume in cella lui sceglie di conservare il dizionario della lingua italiana. Si aggrappa alle parole, le cesella, gli dà peso e infonde forza come solo i poeti riescono a fare. Anni dopo, invia a Primo Levi una sua raccolta di componimenti. L’autore di “Se questo è un uomo” gli scrive una lettera. Gli contesta l’equiparazione tra carcere e lager (“Solo ad Auschwitz morivano 10mila persone al giorno”, sottolinea) ma gli riconosce la patente di poeta. “Le tue poesie sono belle, quasi tutte - scrive Levi - alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che nel loro insieme costituiscano una specie di teorema, e ne siano anzi la dimostrazione: cioè che è poeta solo chi ha sofferto o soffre e che per ciò la poesia costa cara”. Levi considera “memorabile”, “miracolosa per concisione e intensità” la poesia che si intitola Posto di guardia. Eccola: “Il guardiano più giovane/ ha preso posto/ davanti alla mia cella./ ‘Dietro quel muro - mi ha/ indicato - il mare è azzurrissimo’./ Per farmi morire un poco/ il guardiano più giovane,/ mi ha detto questo”. Il carteggio con Primo Levi risale al 1979, l’anno prima Sante era finito in cima alla lista dei possibili detenuti politici da liberare per ottenere la liberazione di Aldo Moro. Come è noto non se ne fece nulla e lui continuò assieme ad altri la peregrinazione lungo il Circuito dei Camosci, la rete delle carceri speciali nei quali venne rinchiuso un pezzo della generazione successiva alla sua. Il suo destino doveva essere ancora quello di fare da ponte, di scolpire la parola a caro prezzo e consegnarla ad altre generazioni. Pur essendo un personaggio che nulla a fatto per rendersi compatibile, per rinnegare la sua storia, incrocia la cultura popolare, che nasce dal basso ma arriva anche al grande pubblico. Quando finiscono gli anni Ottanta, Onda Rossa Posse pubblica Batti il tuo tempo, il primo album rap italiano che segna l’uscita dal ghetto dei centri sociali. Militant A, animatore della posse, scova un componimento di Sante sulle pagine di Politica e Classe, una delle riviste che in quegli anni erano pensate per costruire sbocchi politici ai reduci delle sconfitte degli anni Settanta. Il brano diventa una canzone, Omaggio a Sante, che racconta il momento in cui dopo 21 anni esce di galera: è in semilibertà, ma si impegna a non dimenticare chi è rimasto dentro: “Questi miei compagni vanno amati/ giovani generosi/ questi compagni vanno amati rispettati/ liberati”. Nel 1991 i “Gang” registrano “Le radici e le ali”, il disco con il quale fondono le radici combat rock e la canzone popolare italiana. Contiene una canzone che resterà appiccicata adosso alla band e che ripropone per immagini, lungo un arco di tempo che va da Gaetano Bresci a Joe Strummer, il mito-archetipo del bandito sociale analizzato dallo storico Eric Hosbawm e decantato da decine di canzoni rock’n’roll. Il brano si intitola Bandito senza tempo ed è evidentemente anche un omaggio a Sante Notarnicola: “Un tempo fu a Milano/ Dove si va a lavorare/ C’erano tante bande/ Quante banche da rapinare/ Forse fu per caso/ Che con Pietro Cavallero/ Fece la comparsa/ In un film in bianco e nero”. È il momento in cui una nuova generazione di militanti, usciti dalla Pantera e alla ricerca di nuove forme di attivismo, riprende in mano i libri di Notarnicola. Lui decide di vivere a Bologna e apre una birreria, il Mutenye. Si trasferisce al Pratello, quartiere a ridosso del centro nel quale il popolo autoctono delle osterie e della piccola criminalità si mescola a studenti ed artisti. Qui non smette di fare attività culturale e diventa una presenza costante, discreta ma imprescindibile. La sua postazione è in una saletta appartata del locale: chi lo conosce sa che può trovarlo lì. Dispensa consigli da vecchio saggio e lascia trasparire la sua storia con discrezione, conservando La nostalgia e la memoria (come si intitola una sua raccolta di componimenti) ma senza caricarla sulle giovani generazioni. “Veniva con la pioggia e se ne andava via col vento”, cantano i Gang. Questa volta Sante Notarnicola, il bandito senza tempo con un vocabolario sottobraccio, se n’è andato davvero. Ci saranno due occasioni per dare l’ultimo saluto a Sante Notarnicola, a Bologna. Venerdì 26 marzo, dalle 14 alle 15 alla camera mortuaria dell’ospedale Sant’Orsola-Malpighi, Padiglione 18, ingresso da Viale Ercolani. Nel pomeriggio, dalle 15.30 alla Sala del commiato del Polo crematorio del cimitero di Borgo Panigale. Sante Notarnicola, il bandito che amava la poesia di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 24 marzo 2021 “Figli dell’officina / O figli della terra / Già l’ora s’avvicina / Della più giusta guerra. / La guerra proletaria / Guerra senza frontiere / Innalzeremo al vento / Bandiere rosse e nere”. Quando in aula - è l’8 luglio 1968 - viene letta la sentenza della Corte di Assise di Milano, dopo un processo iniziato il 3 giugno e protrattosi per ventuno udienze, che li condanna all’ergastolo, Cavallero, Rovoletto e Notarnicola intonano la canzone proletaria e alzano i pugni. D’altronde, figli dell’officina lo erano davvero, prima di darsi alle rapine: Pietro Cavallero, detto il Piero, torinese, veniva dal quartiere della Barriera di Milano, era figlio di un falegname e era stato un militante comunista; Adriano Rovoletto, di origini venete, era stato partigiano, era figlio di un operaio, e apprendista falegname; Sante Notarnicola, di origini pugliesi (veniva da Castellaneta, Taranto), diploma di quinta elementare, ex segretario della FGCI di Biella, ex venditore ambulante di fiori, ex facchino. E poi c’era Donato Lopez, di diciassette anni, uno dei sei figli di un operaio emigrato dal sud a Torino, disoccupato, che fu condannato, proprio per la giovane età, a dodici anni. Cavallero e Rovoletto sono morti, entrambi di cancro, l’uno nel 1997, l’altro nel 2015. Ieri l’altro è morto Sante Notarnicola, che dal carcere era uscito nel 2000, stabilendosi a Bologna dove ha gestito per anni il pub Mutenye nel centro città. I figli dell’officina non ci sono più. Si erano messi assieme a Torino in una piòla di Corso Vercelli, all’estrema Barriera di Milano, che era il quartiere dove erano cresciuti tutti e dove si ritrovavano spesso disoccupati, senza un lavoro fisso, operai che passavano il tempo a discutere di politica, di rivendicazioni sociali, giocando a scopone o a tressette, con un buon bicchiere di vino, magari sognando la rivoluzione. Bruciava un’ansia di giustizia sociale - ma bisognava andare per le spicce. È così che nasce la banda. Li accusarono di 23 rapine, 5 sequestri di persona, 21 tentati omicidi e 5 omicidi. La prima rapina era stata all’istituto Bancario San Paolo a Torino, l’8 aprile 1963; l’ultima, al Banco di Napoli a Milano, il 25 settembre 1967. Quattro anni e mezzo in cui misero in scacco le polizie delle due capitali del boom economico. C’era anche questo aspetto della sfida, che li spinse fino a effettuare una tripletta, tre rapine di fila, come a irridere la polizia che, nei fatti, non era preparata. “Tu chi sei?”, chiese il carabiniere, puntando il mitra. E quello: “Sante Notarnicola, bandito”. Li avevano circondati, Cavallero e Notarnicola, all’alba del 3 ottobre 1967, in una caccia all’uomo che aveva mobilitato cinquecento carabinieri e poliziotti, dentro un casello ferroviario abbandonato di Valenza Po, nell’Alessandrino: l’informazione era arrivata da un commerciante della zona che li aveva riconosciuti quando erano andati a acquistare delle provviste nel suo negozio. Era una fuga disperata - forse sapevano che chiunque li avrebbe venduti, troppa la pressione per catturarli, le loro foto segnaletiche erano sulle prime pagine di tutti i giornali - soprattutto considerando che non avevano una “cassa” per la latitanza: i soldi delle rapine li avevano spesi tutti. Era durata una settimana la loro fuga. Alle 15.20, Cavallero, Notarnicola e Rovoletto entrarono in banca con le pistole spianate. Lopez li attendeva in auto con il motore acceso. L’azione fu veloce e il bottino cospicuo: dodici milioni di lire. Che allora erano proprio soldi. Un impiegato però riuscì a dare l’allarme e, da quel momento, si scatenò il finimondo. Una volante della polizia, a cui subito se ne aggiunsero altre, intercettò la Fiat 1100 nera dei rapinatori e iniziò l’inseguimento. Per seminare la polizia, Cavallero e gli altri cominciarono a sparare ad altezza d’uomo. In mezz’ora appena, vennero colpite a morte tre persone: in viale Pisa l’autista di una cartiera sul suo furgoncino; in piazza Stuparich un automobilista, e in piazzale Lotto uno studente liceale di 17 anni. Ci fu poi una quarta vittima, che morì d’infarto qualche ora dopo essersi scontrato con uno dei rapinatori (Rovoletto, subito catturato) in fuga a piedi con il bottino sottobraccio. Dodici chilometri era durata quella fuga in auto, che era terminata con uno schianto contro un muro. Lopez fu catturato il giorno dopo, a Torino. Il bilancio di quel giorno fu tragico: quattro morti e una ventina di feriti tra civili e agenti. Tutta la storia ebbe un clamore enorme, e Carlo Lizzani “a caldo” ci fece un film, “Banditi a Milano”, con Gian Maria Volontè, Don Backy, Tomas Milian. Poi, in carcere, i percorsi si divisero. Cavallero si tirò fuori da tutto, scoprì la pittura e, più tardi, il cattolicesimo. Notarnicola, invece, fece parte di quella generazione di detenuti che nei primi anni Settanta “intercettarono” i militanti politici, in particolare quelli di Lotta Continua: è proprio dallo scioglimento del “fronte carceri” di LC che dopo il 1973 nasceranno i NAP. Sante diventa un’icona del movimento carcerario e della sinistra antagonista di quegli anni. Nel 1972 Feltrinelli gli pubblica il suo primo libro L’evasione impossibile, a cui seguiranno altri. Nel 1978, il suo nome è il primo nella lista di tredici detenuti che le Brigate rosse intendono “scambiare” con Moro. Ho rivisto Sante a Bologna due anni fa circa - mentre andavo ‘in tour’ a presentare il mio librino sull’indipendentismo. La presentazione era in un’aula dell’università e Sante arrivò, qualche minuto prima, con un giovane compagno. Lucido ma affaticato - sarebbe andato via subito, mi disse. Ci sedemmo su una panca e scambiammo un po’ di saluti e di chiacchiere - non ricordo davvero di cosa parlammo. Non era importante. L’ultima volta che avevo visto Sante - quarant’anni prima - era nella sua cella, forse a Badu e Carros o forse a Palmi. Parlammo, con Sante, in quella cella - avevo rispetto ma anche le mie idee e molte cose non mi garbavano in quei “comitati di lotta prigionieri” egemonizzati dalle Br: però, anche di questo ho un ricordo vago. Poi, le cose andarono come andarono. Ritrovarlo lì, su una panca, dopo quarant’anni - mi sembrò, da parte sua, un segno di affetto verso di me. E per tanti, tanti versi - lo considerai una cosa preziosa. Veneto. Un terzo della popolazione carceraria non vorrebbe vaccinarsi Il Mattino di Padova, 24 marzo 2021 Nelle carceri di alcune regioni italiane si registra «un alto tasso di non partecipazione alla campagna vaccinale». Lo denuncia la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà secondo cui «appare evidente la necessità di un'adeguata campagna d'informazione tra la popolazione carceraria». Il Portavoce della Conferenza dei Garanti, Stefano Anastasìa, al termine dell'assemblea che si è svolta in modalità telematica ha dichiarato: «In carcere c'è bisogno di un'adeguata informazione da parte dei servizi sanitari interni». La situazione, infatti, si mostra a macchia di leopardo. In alcune regioni, come la Lombardia, la campagna vaccinale è iniziata sia tra le persone detenute che tra il personale della polizia penitenziaria, in altre ancora no. Nel Lazio, si spiega, l'assessorato alla Sanità ha scelto di utilizzare il vaccino della Johnson & Johnson, disponibile da aprile, per semplificare le procedure, in quanto non è necessaria la seconda somministrazione. In Veneto un terzo della popolazione carceraria non vorrebbe vaccinarsi. Anche in Sicilia la percentuale di astensioni sarebbe intorno al trenta per cento. La situazione dei positivi al virus nelle carceri italiane «è preoccupante ma non allarmante». Nel corso della riunione sono emerse anche altre problematiche come la difficoltà della didattica a distanza, a causa della mancata validazione, per ragioni di sicurezza, da parte del ministero della Giustizia delle piattaforme messe a disposizione dal ministero della Pubblica istruzione. Infine, il Garante della Calabria, Agostino Siviglia, ha riferito dell'imminente apertura di una Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) per quaranta ospiti, mentre è stabilito che le Rems dovrebbero essere pensate per un massimo di venti posti. Campania. Svuotare le carceri conviene innanzitutto alle casse dello Stato di Viviana Lanza Il Riformista, 24 marzo 2021 A volte, più delle parole, sono i numeri a descrivere meglio una realtà. I numeri sono diretti, concisi, efficaci. Indicano la somma, arrivano rapidamente al cuore di questioni su cui le parole spesso si perdono o si sprecano, sono in grado di tracciare il quadro della situazione e consentire l’analisi di possibili scenari futuri. Dagli ultimi report sullo stato delle carceri dell’associazione Antigone e del garante regionale Samuele Ciambriello, sono emersi i dati più aggiornati e ancora una volta è emerso che il carcere costa alla collettività più di qualunque altra misura alternativa con ricadute, in termini di sicurezza e recidive, che sono peggiori di ogni altra misura. Sì, è proprio così. Basti pensare che un detenuto in carcere costa ogni giorno circa 130 euro e c’è un’elevata possibilità che torni a delinquere finendo nuovamente in cella, tanto che il tasso di recidiva per chi esce dal carcere è calcolato tra il 50 e il 75%. I soggetti sottoposti alle misure alternative, invece, costano appena un decimo dei detenuti in carcere, cioè 12 euro al giorno, e tornano a delinquere nello 0,5% dei casi secondo le stime contenute nel rapporto Antigone. Non serve, dunque, essere matematici per capire che il carcere, oltre a essere un luogo di drammi umani e di diritti sacrificati, è anche un luogo che costa alla collettività molto e con minori ritorni in fatto di sicurezza. Calando queste statistiche nella realtà napoletana e campana, si nota che in Campania si arrivano a spendere 820mila euro al giorno per i detenuti e il sovraffollamento incide per 26mila euro al giorno. Secondo l’ultimo report, parliamo infatti di 6.329 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 6.156 e la maggior parte sono reclusi nel carcere di Poggioreale (circa 2mila detenuti a fronte di una capienza di 1.571) e in quello di Secondigliano (circa 1.200 detenuti a fronte di una capienza di 1.037). Se invece si guardano i dati delle misure alternative, così come illustrati nel report del garante regionale Ciambriello, si calcola una spesa di circa 100mila euro al giorno. Un totale che rende le misure alternative non soltanto più convenienti secondo un semplice calcolo matematico ma anche più sicure, perché il tasso di recidiva è nettamente inferiore. Eppure continuano ad essere meno diffuse. Nel report del garante emerge, infatti, che nell’ultimo anno sono stati 8.426 i soggetti presi in carico dall’Ufficio esecuzione penale esterna a fronte dei 9.020 del 2019. Un numero in calo nonostante la pandemia abbia imposto la necessità di ridurre il sovraffollamento nelle carceri e adottare il distanziamento come principali misure per contenere i contagi. Eppure, anche a voler seguire quel che stabilisce la Costituzione a proposito di funzione rieducativa della pena, le misure alternative dovrebbero essere il rimedio ordinario nei confronti di chi commette reati, e non quello straordinario e meno diffuso e il rimedio che dà maggiori ritorni in fatto di sicurezza. “Ricerche scientifiche - si legge nel report del garante - dimostrano, contrariamente al sentire comune, che le misure alternative abbassano fortemente il tasso di recidiva che si riscontra tra i detenuti usciti dal carcere e sono di per sé più funzionali ai fini di una vera reintegrazione sociale rispetto al carcere tradizionale”. Nel report di Antigone si avanzano proposte su come utilizzare diversamente le risorse economiche destinate al sistema penitenziario: “La proposta è di potenziare l’area penale esterna, meglio ancora i servizi sul territorio, per rafforzare il servizio di accompagnamento per gli ex detenuti perché possano proseguire o cominciare eventuali percorsi di istruzione, formazione, ricerca di un lavoro, cura delle dipendenze. Diminuirebbero la recidiva e andrebbero a incidere positivamente sul carcere che, a fronte di un’utenza numericamente minore, avrebbe più risorse a disposizione per concentrarsi sui detenuti che avendo compiuto reati più gravi hanno bisogno di più sostegno per reintegrarsi all’interno della società”. Parma. Covid, agenti e detenuti positivi nel carcere: interrogazione al ministro La Repubblica, 24 marzo 2021 La deputata Cavandoli sottolinea il cronico sovraffollamento degli istituti penitenziari. Nel carcere di Parma quattro detenuti in regime di 41bis e almeno 16 agenti dei Gom, specializzati nel servizio di custodia dei detenuti sottoposti al regime differenziato, sono risultati positivi al Covid. Laura Cavandoli, deputata parmigiana della Lega, ha depositato un’interrogazione in merito al ministro della Giustizia. “A causa del cronico sovraffollamento degli istituti penitenziari, a Parma come altrove, la maggiore contagiosità delle varianti del Coronavirus - scrive Cavandoli - ha determinato una situazione preoccupante. Ho portato all’attenzione del ministro l’opportunità di rivedere le linee guida e i protocolli delle misure anti contagio alla luce delle nuove varianti e la necessità di dotare agenti e operatori di dispositivi di protezione più performanti. Inoltre, alla luce della recente relazione annuale della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna), che esplicitamente qualifica il regime del 41bis come ‘un ruolo che va potenziato con nuovi investimenti per la creazione di strutture adatte allo scopo e non certo depotenziato’, “ho proposto anche di valutare la possibilità di individuare nel piano carceri nuove strutture idonee per l’assolvimento della funzione prevista dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, e da destinare in via esclusiva a tale scopo”. Catanzaro. Covid: focolaio in carcere, 60 i casi tra personale e detenuti calabrianews.it, 24 marzo 2021 La segreteria regionale Fp Cgil ha inviato una lettera al direttore della Casa Circondariale Ugo Caridi di Catanzaro (e per conoscenza al Provveditore Prap Calabria) per ottenere con la massima urgenza “gli opportuni chiarimenti e relativa informativa sindacale sulle misure adottate per assicurare il contenimento del contagio da Covid 19 per il personale di Polizia Penitenziaria, del personale del comparto ministeri e dei detenuti”. Al centro della preoccupazione della Fp Cgil regionale c’è il focolaio da Covid che in questi giorni ha fatto registrare numerosissimi casi nell’istituto penitenziario del capoluogo e che sta allarmando il sindacato. “Da ultimo, in ordine di tempo - scrive il sindacato - va segnalata la presa di posizione di un deputato della Repubblica che ha inoltrato una interrogazione parlamentare ai ministri della Giustizia e della Salute, nel cui comunicato stampa parla di contagi che riguardano decine di agenti positivi e 45 detenuti il che, ovviamente, preoccupa non poco la scrivente organizzazione sindacale”, si legge nella nota inviata ieri. La segreteria Fp Cgil mette in luce che è venuta a conoscenza di “Sue disposizioni che avrebbero “imposto” al personale di Polpen di assicurare i colloqui in videoconferenza dei detenuti posti in isolamento in attesa di tampone di verifica”. La Fp chiede di conoscere “se tali disposizioni siano effettive, se le stesse siano in linea con le disposizioni ministeriali ed in quale misura prevengano il contagio del personale di polizia penitenziaria impegnato nella procedura”. Aversa (Ce). Il dramma degli internati nella Casa di Lavoro di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 24 marzo 2021 Ciambriello: “Una condizione di sostanziale ingiustizia che non può essere ignorata”. “Sono 335 le misure detentive in atto al 31 gennaio di quest’anno in 6 strutture di casa lavoro. Ad Aversa la sezione dell’Istituto penitenziario conta 42 internati, ma il lavoro che dovrebbe caratterizzarla manca. Queste persone rischiano di diventare invisibili, senza casa e senza lavoro una condizione di sostanziale ingiustizia che non può essere ignorata” cosi il Garante campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello nel commentare le motivazioni che lo hanno spinto ad un incontro oggi presso la casa di reclusione Filippo Saporito di Aversa sul tema del lavoro di pubblica utilità per i detenuti della casa di reclusione e in particolare per gli internati che sono ivi ristretti. Erano presenti la direttrice del carcere Stella Scialpi, il comandante del carcere Francesco Serpico, l’educatore Angelo Russo, il Garante Regionale dei Detenuti Samuele Ciambriello, Assunta Borzacchiello delegata del Provveditore Regionale dell’amministrazione penitenziaria, la Responsabile dell’archivio storico di Napoli Candida Carrino e Alfonso Golia sindaco di Aversa. Il Garante Ciambriello ha comunicato di voler promuovere finanziando con i soldi delle Regione, dei progetti di pubblica utilità sia per far uscire un gruppo di detenuti dal carcere al lavoro presso il Comune di Aversa sia per riordinare l’archivio dell’ex OPG così da essere fruibile anche all’esterno. I progetti saranno su più fronti con attività sul territorio del Comune di Aversa, come la cura del verde (aiuole, parchi), arredo urbano, manutenzione della segnaletica stradale. Il Comune prevede l’utilizzo di circa 50 detenuti (di cui 5 “internati”) mentre all’interno del carcere l’altro progetto il riordino dell’archivio dell’ex OPG vedrà coinvolti 5 internati, sempre all’interno del carcere un progetto vedrà coinvolti detenuti per l’utilizzo e la valorizzazione del tenimento agricolo nel carcere. Durante l’incontro il Garante Ciambriello ha tenuto a precisare che “bisogna superare le case lavoro che sono in piedi dal 1930, un’idea terapeutica di lavoro superata. Occorre pensare invece a luoghi non detentivi, case che siano veramente tali e contesti di lavoro e di inclusione sociale che vedano coinvolti gli enti locali. Insomma delle vere misure alternative di reinserimento sociale per queste persone che vengono considerate particolarmente pericolose”. Il Garante poi è entrato nella sezione degli internati, li ha incontrati portando loro delle mascherine e a ognuno un libro mentre il Sindaco ha regalato delle “polacchine aversane”. “Questo di oggi è stato un importante passo in avanti per la definizione di un percorso comune volto alla promozione di opportunità di inserimento lavorativo per i detenuti e gli internati della casa di reclusione di Aversa” così il sindaco di Aversa Alfonso Golia al termine dell’incontro di oggi presso l’Istituto. II primo cittadino di Aversa così conclude “di concerto con i sottoscrittori del Protocollo e con il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania, si sono individuate le specifiche attività lavorative da realizzarsi nella città di Aversa, selezionando soggetti in stato di detenzione, compresi gli internati ristretti nella Casa di Lavoro, con l’obiettivo di accrescerne le competenze professionali per un futuro inserimento nel mercato del lavoro. Le stesse parti hanno già stabilito che i progetti avranno quale area prioritaria di intervento quella relativa alla manutenzione del verde pubblico e al recupero del patrimonio ambientale, la cura dell’arredo urbano e la manutenzione della segnaletica stradale”. Bologna. Cristiani e musulmani in carcere di Fabrizio Pomes bandieragialla.it, 24 marzo 2021 Il carcere, come tutti i luoghi in cui la sofferenza umana assume una valenza centrale, acquisisce un’importanza rilevante l’incontro con la religione. È proprio nei momenti del bisogno che ci si rivolge all’entità superiore perché possa aiutarci a realizzare tutti i nostri desiderata e lo scorrere lento del tempo offre maggiori opportunità di riflessione tanto introspettiva quanto spirituale. Un percorso che tutti compiono, nei modi e nelle maniere più disparate, ma che comunque ha un solo filo comune denominatore: quello di chiedere al Padre un aiuto. Alcune espressioni nell’intercalare comune, le preghiere quotidiane, la frequentazione dei luoghi di culto, le immaginette sacre che arredano le celle sono i segni concreto della dimensione spirituale in questa esperienza così dura. Le carceri negli ultimi anni sono il riflesso amplificato delle dinamiche che attraversano la società: di conseguenza anche qui, come all’esterno, il problema dell’incontro-scontro delle differenti etnie e delle relative religioni è di grande attualità. Le due religioni che più delle altre si confrontano sono quella cattolica e quella islamica, essendo le più praticate (oltre il 95%), in considerazione della provenienza dei detenuti. Obiettivo perseguito con tenacia e costanza dal cardinale Zuppi è stato sempre quello di un dialogo interreligioso serrato e un’integrazione completa che, seppur lontana dal realizzarsi completamente, resta per noi cattolici prioritaria. Certamente anche nelle manifestazioni esteriori le due differenti religioni presentano tratti per molti versi differenti e che non possiamo non evidenziare. La comunità islamica ha dei momenti di preghiera durante la giornata che sono anticipati dal richiamo cantato da un detenuto e ciò certamente non passa inosservato. Altro rito che colpisce è la fila che si crea per il lavaggio che precede la preghiera. L’esteriorità della religiosità ha anche un effetto domino non secondario su tutti i “paesani” che non possono rimanere indifferenti e che quindi vengono necessariamente coinvolti. La stessa cosa avviene durante il periodo di Ramadan, a cui tutti i detenuti musulmani indistintamente partecipano. In un contesto che spersonalizza, il valore identitario della religione, a prescindere dalla fede, è un collante potente. Differente è l’approccio alla religione di noi cattolici, molto più laico e in taluni casi apparentemente disinteressato. Credo che molti in un modo o nell’altro preghino e si rivolgano al Signore, ma lo fanno talvolta nel silenzio delle proprie celle e senza voler apparire a tutti i costi. L’atteggiamento distaccato porta in Chiesa un numero esiguo di detenuti di fede cattolica e ancor meno nei gruppi di approfondimento del Vangelo. Non per mancanza di fede, ma perché il nostro Dio misericordioso è sempre pronto a perdonare e offre sempre nuove opportunità. Comunque al momento alla Dozza la convivenza le differenti fedi religiose è improntato al massimo rispetto personale e alla pacifica discussione, come opportunità di crescita reciproca. Le discussioni sono anche animate, ma sono per lo più costruttive e rispettose delle differenti culture ed esperienze. Il confronto fra religioni è stimolante e dovrebbe a mio parere essere approfondito, perché la comune ricerca di Dio, sia che si parli di Maometto o di Gesù, ci può aiutare a camminare insieme, a migliorare come persone e a sentirci fratelli. Verona. I versi della Commedia di Dante dentro il carcere di Montorio veronaoggi.it, 24 marzo 2021 I versi di Dante risuonano da tre anni dentro il carcere di Montorio, a Verona. La compagnia Teatro del Montorio ha dato infatti il via nel 2018 al progetto “Dante in carcere”. Tre tappe in tre anni, come altrettante sono le cantiche della Commedia, per giungere nel 2021 a omaggiare i 700 anni dalla morte del Poeta. Ora, in occasione del Dantedì del 25 marzo, i partecipanti al laboratorio di teatro nella Casa Circondariale di Verona hanno registrato il videomessaggio “Libertà va cercando”. Una tappa lungo il percorso triennale che la compagnia Teatro del Montorio sta affrontando sulla Commedia grazie al progetto “Dante in carcere”, progetto della Direzione del Carcere di Verona realizzato dalla compagnia teatrale Le Falìe con il sostegno della Fondazione San Zeno. La direzione artistica è del regista e autore Alessandro Anderloni, la co-direzione delle attività laboratoriali degli attori Isabella Dilavello e Paolo Ottoboni. “In carcere le parole di Dante si incarnano nei corpi e nelle voci delle persone detenute - sottolinea Alessandro Anderloni, direttore artistico del progetto. La vicenda umana di Dante viene sentita così vicina in quegli spazi: la condanna ingiusta, la cacciata da Firenze, la pena dell’esilio, il vagare in solitudine per le città d’Italia, il mangiare pane salato e il salire faticoso le scale di coloro che diedero protezione e ospitalità a un condannato, rifugiato, migrante e infine il riscatto della Commedia, il libro in cui il Poeta ristabilisce la sua verità. Dante sapeva che di lì a settecento anni la sua storia sarebbe stata raccontata anche nel carcere di Verona e che quei luoghi sarebbero diventati una metafora del suo viaggio umano e ultraterreno. In questo anniversario sento che Dante è nelle carceri molto più che sui palcoscenici dei teatri e nelle sale delle accademie. È nelle case e nelle scuole, tra le persone”. Il progetto è nato nella Casa Circondariale di Verona nel 2018. Nel carcere di Verona il lavoro prosegue in questi mesi in vista della primavera quando con la messa in scena dello spettacolo dedicato al Purgatorio, che si terrà ancora in modalità on line, si chiuderà la seconda tappa del percorso. La terza inizierà subito dopo per riuscire a portare in scena il Paradiso entro la fine del 2021, concludendo e onorando così l’anno settimo centenario dalla morte di Dante. Pistoia. “Stabat Mater”, il dramma poetico che unisce attori e detenuti di Giulia Gonfiantini Corriere Fiorentino, 24 marzo 2021 Attori professionisti e detenuti insieme sulla scena per dare voce al dolore universale calandosi in quello di Maria, la madre per eccellenza. Accade in Stabat Mater, cortometraggio realizzato nella casa circondariale di Santa Caterina di Pistoia e diretto da Giuseppe Tesi. Promosso dall’associazione Electra e approvato dal ministero della Giustizia, il progetto “è stato reso possibile dalla disponibilità della dirigenza del carcere e della polizia penitenziaria”, dice il regista. Il testo è un dramma poetico di Grazia Frisina ispirato a Jacopone da Todi e al teatro medievale, ma anche alla tragedia greca. È interpretato da Giuseppe Sartori, attore proveniente dalla fucina del Piccolo di Milano, dalla ronconiana Melania Giglio (nei panni di una Maria neorealista) e da 12 detenuti di diversa nazionalità, lingua e cultura. “All’inizio c’era diffidenza - racconta Tesi - ma tempo e tenacia hanno contribuito a far comprendere che l’opera va al di là della componente cristiana: qui Maria ha rinunciato alla propria santità davanti al dolore e alla morte del figlio. È stato un percorso lungo. Alla fine ci siamo lasciati con le lacrime agli occhi”. Le riprese, terminate a fine anno dopo rallentamenti dovuti alla pandemia, si sono svolte nel carcere e nel Pistoiese, come nel settecentesco teatro anatomico del Ceppo e alla fontana di Daniel Buren a Villa La Magia, con un set anche alla spiaggia della Lecciona, in Versilia. Il film unisce livelli e voci diverse. I partecipanti “sono stati chiamati a dare il meglio di sé - nota il regista - cimentandosi con un’opera letteraria difficile. È emersa una componente inaspettata anche per loro. Che risultano veri, reali: il testo è stato scelto perché consentiva le loro testimonianze. Nel corto sono parte del coro, figli di una madre che rinuncia a essere la Madonna”. Appassionata di personaggi femminili storici, mitici e del mondo biblico, Grazia Frisina trae da quest’ultimo le protagoniste della raccolta Madri (Oèdipus 2018), di cui fa parte Stabat Mater. “Nella Bibbia queste sono donne del silenzio - afferma - ma qui Maria è calata nel terreno: il suo dolore è umano, di fronte alla morte ingiustificabile del figlio. Anche la voce delle persone coinvolte nel progetto è poco udibile, la loro sofferenza è sotterranea. Tesi fonde la figura simbolica in una realtà sofferente, creando una commistione di poesia, dramma e testimonianze vive, attuando una sintesi di elementi opposti”. Il corto, dove secondo il regista “i protagonisti danno vita a figure di grande potenza per coralità e fisicità”, si avvale di musiche originali di Marco Baraldi e di Riccardo De Felice alla direzione della fotografia. È in post produzione e c’è una raccolta fondi per sostenerlo (Iban: IT 34 T 07601 1380000000 9533944, ufficiostampa.electra@gmail.com) www.manifatturatabacchi.com. Perché l’industria degli armamenti non conviene al Paese di Francesco Vignarca* Il Manifesto, 24 marzo 2021 Produrre armi non è utile a nessuno, neanche dal punto di vista economico. Lo scrivevamo proprio un anno fa dalle pagine de il manifesto: mentre l’Italia chiudeva per il Covid-19 le fabbriche di armamenti potevano decidere autonomamente se rimanere aperte grazie ad una concessione del governo che arrivava a definirle “apicali”. Lo confermano gli elementi portati all’attenzione del grande pubblico dalla puntata di Presa Diretta di questo lunedì: la “dittatura delle armi” riesce a proteggere con qualsiasi governo gli affari militari. E sicuramente non è nei programmi dell’esecutivo di Mario Draghi e del confermato Lorenzo Guerini un cambio di rotta. Il ministro è stato chiaro nelle sue linee programmatiche presentate al Parlamento: bisogna agire “valorizzando pienamente l’intero potenziale esprimibile dall’Industria della Difesa, di cui è essenziale assicurare lo sviluppo ed il posizionamento sul mercato europeo ed internazionale”. L’obiettivo sarebbe “impiegare le risorse della Difesa per sviluppare pienamente l’intero potenziale esprimibile dall’Industria di settore, attraverso una rinnovata sinergia”, anche e soprattutto in questa fase delicata ritenendo “fondamentale investire nel pieno rilancio dell’industria della Difesa, non solo quale settore trainante dell’economia ma (…) in quanto presidio di sovranità, libertà, sicurezza e prosperità per il futuro del Paese”. Tralasciando l’immagine di armi viste come presidio di “libertà e sicurezza” è importante anche domandarsi se sia così vero anche il collegamento con la “prosperità” dato sempre troppo facilmente per scontato. E troppo spesso utilizzato come scusante per giustificare scelte distruttive. Partiamo dal fatturato. Secondo uno studio del 2018 realizzato da Ambrosetti in collaborazione con Leonardo il comparto italiano di Aerospazio, Difesa e Sicurezza varrebbe nel complesso 13,5 miliardi di euro all’anno. Secondo Aiad (la Confindustria “militare”,) il totale delle aziende di questo settore svilupperebbe un fatturato di 15,5 miliardi. Altre stime arrivano ad una quota di 16,2 miliardi. Dunque, approssimando per eccesso (e non tutte le aziende del comparto si possono considerare esclusivamente militari), si può considerare una produzione totale di 17 miliardi tutta stimata pre-Covid. Se la confrontiamo con il Pil del 2020 (già fortemente impattato dalla pandemia) si arriva di poco a superare la misera quota dell’1%, che in realtà è più verosimilmente uno 0,9% in condizioni normali. Davvero stiamo parlando di un’industria “fondamentale e insostituibile” su cui puntare con investimenti pubblici robusti e per la quale chiudere un occhio (o forse due) dal punto di vista etico e delle norme da rispettare? Lo stesso si può dire per l’export, da sempre magnificato come elemento di valore da parte dell’industria militare ma che alla prova dei dati non è così significativo. Infatti non tutto l’export delle aziende con capitale tricolore è davvero “italiano”: soprattutto le più grandi hanno una parte preponderante della produzione fuori dai confini nazionali (ad esempio Leonardo dice che solo il 16% dei propri ricavi è basato in Italia). Limitandoci a quello militare abbiamo un dato fissato dai circa 3 miliardi certificati dalla Relazione al Parlamento della legge 185/90, che possiamo arrotondare a 3,5 valutando che non tutte le vendite di armamenti passano per quella strada (e possibili slittamenti temporali, tanto è vero che sempre Leonardo ha dichiarato di aver esportato da sola 2,9 miliardi di prodotti militari nel 2019). Anche in questo caso stiamo parlando di cifre residuali rispetto al totale di circa 480 miliardi di euro di “made in Italy”, uscito dalla Penisola: poco più dello 0,7%. Infine i dati sull’occupazione principale forma di “ricatto”, - soprattutto in alcune aree del Paese - per costringere la politica ad assecondare l’economia armata. Le varie stime (sempre di fonte industriale) convergono più o meno su 50.000 occupati diretti e 200-230.000 se consideriamo un non meglio precisato “indotto” (sicuramente peraltro non solo militare). Stiamo parlando di “ben” lo 0,21% (o 1% nel caso dell’indotto) di tutta la forza lavoro italiana a fine 2020. Non certo la parte preponderante degli occupati in Italia, che ad esempio per la sola piccola e media impresa ammontano a qualche milione. E allora perché continuare ad ostinarsi a trovare una “giustificazione economica” per il sostegno incondizionato all’industria delle armi, quando risulta evidente che soprattutto valutando il medio periodo la spesa militare è infruttuosa anche da quel punto di vista? Lo dimostrano studi condotti negli Usa (dove il moltiplicatore è vantaggioso per il militare, visti i budget mostruosi del Pentagono) per cui ogni milione di dollari speso nella difesa porta a meno di 7 occupati, mentre la stessa cifra nell’energia pulita ne produrrebbe poco meno di 10, nell’educazione di base oltre 19, nell’educazione superiore più di 11 e nella cura sanitaria oltre 14. Dunque, a chi giovano gli investimenti armati? Al Paese nel suo complesso sicuramente no. *L’autore è attivista della Rete italiana Pace e Disarmo Manovre oscure all’Onu contro la cannabis di Marco Perduca Il Manifesto, 24 marzo 2021 Nuovi ostacoli per l’accessibilità alla pianta. Il voto all’Onu del 2 dicembre 2020 avrebbe dovuto chiudere il capitolo “addosso alla cannabis”, invece da un paio di mesi, a porte chiuse, si stanno creando nuovi ostacoli per l’accessibilità alla pianta. Il 22 gennaio, e poi dall’8 al 23 marzo, l’Organismo internazionale di controllo sugli stupefacenti (Incb) ha convocato una serie di riunioni e seminari per discutere al proprio interno, e successivamente con le autorità nazionali, i requisiti di controllo e monitoraggio della cannabis e delle sostanze correlate per “aiutare gli Stati membri a migliorare le loro capacità di controllo e comunicazione sulla materia”. All’incontro di gennaio hanno partecipato 16 esperti di tutto il mondo e ai seminari successivi un centinaio di paesi. La discussione di merito ha passato in rassegna i problemi di controllo e conformità internazionale relativi alla cannabis nonché “le buone pratiche di coltivazione della pianta e alla sua produzione e commercio internazionale e quella di prodotti ad essa correlati”. Stando alle comunicazioni ufficiali si è sottolineata l’importanza di garantire la disponibilità di sostanze a base di cannabis per scopi medici sottolineando che la raccolta dei dati che la interessano dovrebbe migliorare per riflettere adeguatamente le esigenze dei sistemi sanitari. Grande attenzione è stata data anche alle “disparità nelle capacità di controllo e monitoraggio dei paesi in diverse regioni del mondo”. Sono state elaborate delle linee-guida perché l’INCB possa “sostenere gli Stati membri nel miglioramento delle capacità di controllo e segnalazione” della produzione assicurando “la disponibilità di cannabis e suoi derivati per scopi medici e scientifici prevenendo la deviazione verso canali illeciti e abusi”. Il linguaggio utilizzato per comunicare l’iniziativa e le sue conclusioni è rintracciabile - tale e quale - nei comunicati dell’Onu di Vienna degli ultimi 30 anni: giustificare il lavoro sui dati e le buone pratiche politico-legislative per evitare che la cannabis sia consumata da chi non ne fa uso terapeutico. Malgrado la cancellazione della cannabis dalla IV Tabella della Convenzione del 1961, nell’organo deputato al monitoraggio dell’applicazione delle Convenzioni sulle droghe si insiste con la promozione dell’interpretazione più proibizionista dei documenti internazionali, un approccio che ha messo fuori legge consumi e produzioni personali, anche in minima quantità, creando danni collaterali e ostacoli alla ricerca scientifica e all’uso terapeutico di piante e derivati che le convenzioni dovevano promuovere. All’interno dell’INCB ci sono divisioni dovute alla provenienza geografica dei membri e alle specializzazioni, 13 esperti che non “dettano legge” ma monitorano l’applicazione delle Convenzioni Onu sugli stupefacenti del ‘61, ‘71 e ‘88 possono comunque condizionare il dibattito con documenti tecnici che creano scuse e alibi per i proibizionisti di tutto il mondo. Se da una parte ogni confronto istituzionale è da salutare, la riunione a porte chiuse del gruppo di esperti di gennaio e le consultazioni occorse successivamente sembrano non tenere in considerazione il voto sulla cannabis del dicembre scorso. Quando si deciderà che i contributi di esperti, governi, società civile e aziende devono esser condivisi pubblicamente per facilitare l’accesso alle piante sotto controllo, avviare nuove ricerche, finanziare trial clinici, ampliarne la produzione e il commercio secondo i protocolli previsti? Senza questi confronti si persisterà con la violazione del diritto alla salute di milioni di persone in tutto il mondo. Malta. Delitto di Daphne Caruana, i killer chiedono la grazia in cambio dei nomi dei mandanti di Giuliano Foschini La Repubblica, 24 marzo 2021 La famiglia della giornalista uccisa: “Fare giustizia non significa perdonare gli assassini”. Alfred e George Degiorgio, i fratelli arrestati assieme a Vince Muscat come esecutori materiali dell’omicidio della giornalista Daphne. Vincent Muscat, il primo pentito dei tre sicari, in aula ha già testimoniato di aver accompagnato il suo complice Alfred Degiorgio a La Valletta per incontri nei palazzi del governo nei mesi precedenti l’omicidio della giornalista. Gli incontri sarebbero avvenuti con l’ex ministro dell’economia, Chris Cardona. Secondo quanto riporta oggi Malta Today, Alfred Degiorgio sostiene di poter fare sia il nome di un ex ministro che commissionò l’omicidio, sia quello di un intermediario finora mai nominato nell’inchiesta. Quest’ultimo non sarebbe il taxista ed allibratore clandestino Melvin Theuma, che a novembre 2019 ottenne la grazia in cambio delle prove che consentirono l’arresto del tycoon Yorgen Fenech come mandante dell’assassinio. Alfred Degiorgio nella sua richiesta di perdono ha affermato di avere anche credibili informazioni di prima mano su una rapina ed un altro omicidio, in cui sarebbero coinvolti lo stesso ex ministro ed un ministro attualmente in carica nel governo Abela. Anche il fratello George afferma di avere informazioni sul mandante dell’omicidio. “Questa richiesta di grazia deve essere trattata come qualsiasi altra richiesta presentata fin qui. Non può essere scartata perché menziona il coinvolgimento di certi individui che occupano o hanno occupato certe posizioni” ha dichiarato a Malta Today l’avvocato dei fratelli Degiorgio, William Cuschieri. “Fare giustizia per Daphne Caruana Galizia significa che i suoi assassini non debbano essere perdonati. I crimini del passato non devono diventare moneta di scambio che consenta ai killer di comprarsi una via di uscita”, ha replicato però la famiglia della giornalista uccisa con una bomba il ottobre 2017, commentando la notizia della richiesta di grazia presentata da altri due degli esecutori materiali dell’omicidio. Stati Uniti. Leonard Peltier, con Biden alla Casa Bianca riparte la campagna per chiedere la grazia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 marzo 2021 Leonard Peltier è nelle prigioni statunitensi da oltre 43 anni, condannato a due ergastoli per l’omicidio di due agenti federali, a seguito di un processo nel quale la pubblica accusa ha nascosto prove a discarico, ne ha fabbricate a carico e ha spinto testimoni a fornire false testimonianze. Peltier ha ormai 76 anni e soffre di gravi problemi di salute, tra cui il diabete e un aneurisma dell’aorta addominale. Già un anno fa, Amnesty International aveva denunciato il rischio che potesse essere contagiato dal Covid-19. Il dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti ha recentemente autorizzato la Direzione federale delle carceri a rilasciare detenuti anziani e malati. Peltier ha ricevuto la solidarietà da parte di numerose personalità di livello internazionale, tra cui Nelson Mandela, il Dalai Lama, Mikhail Gorbaciov, Rigoberta Menchu, Desmond Tutu e Shirin Ebadi. Il suo rilascio è sostenuto anche da leader tribali eletti negli Stati Uniti e dal Congresso nazionale degli indiani d’America, che hanno approvato risoluzioni per chiedere clemenza. La campagna per la grazia a Leonard Peltier chiede al presidente degli Usa Joe Biden che il detenuto sia trasferito nella sua abitazione nella Turtle Mountain Chippewa Reservation, North Dakota. L’Occidente non deve perdere il Libano di Franco Venturini Corriere della Sera, 24 marzo 2021 Il paese sta affondando tra disastro finanziario, liti al vertice, immigrati, Beirut ancora devastata dall’esplosione. L’economia in un anno ha perso il 26 per cento. Una moneta che ha perso il 90% del suo valore. La capitale, affascinante e misterioso ponte tra oriente e occidente, ancora deturpata dalla devastante esplosione chimica dell’agosto 2020. Nelle strade dimostrazioni e posti di blocco, ma non c’è più l’entusiasmo delle proteste contro tutti i politici dell’autunno 2019: ora manca il pane, è diverso. Le tre principali fazioni, i sunniti, gli sciiti e i cristiani, che pur di non perdere potere si bloccano reciprocamente. I due milioni di rifugiati siriani fuggiti dalla loro guerra che non sanno più dove e come sopravvivere. L’insieme dell’economia che in un anno ha registrato una decrescita del 26 per cento. Le Forze Armate che hanno difficoltà a nutrire i loro soldati. Manca la fuga di capitali dei pochi ricchi rimasti in patria, ma possiamo fermarci qui. Il Libano sta affondando, lo vedono tutti. Lo vede il Fondo Monetario che non vuole venir meno alle sue regole sui sussidi. Lo vede l’ONU, che schiera al confine con Israele una forza di interposizione e sorveglianza (Unifil II) forte di mille militari italiani. Lo vedono i vicini mediorientali, la Siria, Israele, l’Iraq, l’Iran, e ognuno ha un diverso interesse, due soprattutto: quello israeliano, di contenimento e blocco delle forniture di armamenti iraniani a Hezbollah e a Hamas; e quello iraniano, di rafforzare l’alleanza con gli sciiti di Hezbollah sempre più influenti a Beirut. Assistiamo a uno straordinario esempio di cecità collettiva. Se il Libano affonda, gli equilibri geopolitici in Medio Oriente e nel Mediterraneo risulteranno sconvolti. Si tratta di evitare una guerra e le ripercussioni potrebbero essere sgradite a molti di quelli che oggi aspettano. Per questo i continui appelli della Francia, ex potenza mandataria, dovrebbero essere accolti dagli altri europei e dagli USA: servono aiuti, ma anche sanzioni contro l’egoismo delle grandi famiglie politiche che vedono tranquillamente disgregarsi il loro Paese. Libano. Torture sui rifugiati siriani, detenuti arbitrariamente accusati di reati di terrorismo amnesty.it, 24 marzo 2021 Amnesty International ha pubblicato un nuovo rapporto che documenta violazioni, commesse principalmente dall’intelligence militare libanese, nei confronti di 26 rifugiati siriani detenuti. Fra le violazioni riportate, quella al diritto a un processo equo e torture, fra cui percosse con bastoni di metallo, cavi elettrici e tubi di plastica. I detenuti hanno anche raccontato di essere stati appesi a testa in giù o costretti in posizione di stress per periodi di tempo prolungati. “Questo rapporto fornisce un’immagine del trattamento crudele, violento e discriminatorio delle autorità libanesi nei confronti dei rifugiati siriani detenuti perché sospettati di reati di terrorismo. In molti casi, rifugiati che scappavano da guerra, repressioni spietate e torture diffuse si sono ritrovati detenuti in maniera arbitraria e in regime di incommunicado in Libano, dove subiscono molti degli stessi orrori delle prigioni siriane”, ha dichiarato Marie Forestier, ricercatrice di Amnesty International sui diritti dei rifugiati e dei migranti. “Non c’è dubbio che i membri dei gruppi armati responsabili delle violazioni dei diritti umani debbano rispondere delle loro azioni, ma l’evidente violazione del diritto al giusto processo dei rifugiati siriani da parte delle autorità libanesi mette in ridicolo la giustizia. In ogni fase, dall’arresto all’interrogatorio, alla detenzione e al giudizio durante processi iniqui, le autorità hanno completamente ignorato il diritto umanitario internazionale”, ha aggiunto Marie Forestier. Il rapporto documenta i casi di 26 rifugiati siriani, di cui quattro minori, detenuti in Libano tra il 2014 e il 2021 per accuse di reati di terrorismo e si basa su colloqui avvenuti con ex e attuali detenuti e avvocati e sull’analisi di documenti legali. Dal 2011, sono stati centinaia i rifugiati siriani detenuti in Libano spesso in maniera arbitraria sulla base di accuse costruite di reati di terrorismo o, talvolta, di appartenere a gruppi armati. Torture e maltrattamenti dilaganti - In 25 dei 26 casi documentati da Amnesty International, i rifugiati hanno detto di essere stati torturati durante l’interrogatorio o nel periodo di detenzione. Ciò è avvenuto perlopiù presso il centro di intelligence militare di Ablah, l’ufficio di sicurezza generale di Beirut o il ministero della Difesa. All’epoca, due dei sopravvissuti alle torture avevano solo 15 e 16 anni. Alcuni hanno detto di aver subito un pestaggio così violento da causare in quattro uomini la perdita di conoscenza e in due la rottura dei denti. I detenuti hanno raccontato di essere stati sottoposti ad alcune delle stesse tecniche di tortura utilizzate solitamente nelle prigioni siriane come il “tappeto volante” (in cui la vittima viene legata a una tavola pieghevole), lo “shabeh” (in cui la persona viene sospesa dai polsi e picchiata) o il “balango” che comporta la sospensione di un individuo per ore con i polsi legati dietro la schiena. Bassel, un ex detenuto siriano, ha detto ad Amnesty International che, dopo il suo trasferimento nella prigione di Rihaniyyeh, è stato picchiato così violentemente ogni giorno per tre settimane che le sue ferite si erano infettate. “Ci picchiavano sulla schiena con tubi di plastica del bagno. Le ferite aperte sulla schiena hanno iniziato a peggiorare notevolmente e alla fine c’erano dei vermi nelle ferite”, ha dichiarato. Raccontando le sue traversie della detenzione presso il centro di intelligence militare di Ablah, Ahmed ha detto di essere stato percosso sugli organi genitali fino a perdere conoscenza. Un altro rifugiato detenuto ha riferito che un agente di sicurezza l’ha ferito così violentemente colpendolo sugli organi genitali da provocare la presenza di sangue nelle sue urine per molti giorni. Mentre lo colpiva, l’agente gli ha detto: “Ti colpisco qui così che non potrai mettere al mondo altri figli, così non potranno contaminare questa comunità”. Molti detenuti hanno detto che durante le percosse le forze di sicurezza libanesi hanno fatto riferimento alla loro resistenza nei confronti del presidente Bashar al-Assad, suggerendo che potessero esserci delle motivazioni politiche dietro queste aggressioni. Karim, un giornalista che era stato detenuto per otto giorni presso l’ufficio di sicurezza generale di Beirut, ha riferito che le persone che l’avevano interrogato gli avevano chiesto se sostenesse il presidente siriano e quando ha risposto negativamente lo hanno picchiato più violentemente. Inoltre, i detenuti hanno raccontato di essere stati tenuti in condizioni durissime. “Sono rimasto tre giorni di seguito, notte e giorno, in piedi nel corridoio, ammanettato e bendato… Dovevamo pregare per andare al bagno e per avere dell’acqua. Ci facevano mangiare una volta al giorno. C’erano degli agenti che ci sorvegliavano per non farci sedere o dormire. Se qualcuno ci avesse provato, lo avrebbero costretto a rialzarsi”, ha raccontato un uomo. Non è stata condotta alcuna indagine su nessuna delle accuse di torture documentate da Amnesty International, persino in casi in cui i detenuti, anche tramite i loro avvocati, hanno riferito al giudice di essere stati torturati. In alcuni casi, gli agenti di sicurezza hanno chiesto il rinvio delle udienze, il che ha portato alla scomparsa delle cicatrici dei pestaggi o delle altre forme di tortura. Amnesty International ha documentato il maltrattamento di due donne che sono state molestate sessualmente e aggredite verbalmente durante la detenzione. Una è stata costretta a guardare gli agenti di sicurezza che torturavano il figlio e un’altra donna ha dovuto guardare il marito che veniva picchiato. Il Libano ha approvato una legge contro la tortura nel 2017 ma non è mai riuscito ad attuarla e le denunce di tortura raramente raggiungono il tribunale. “Le autorità libanesi devono immediatamente attuare le proprie norme contro la tortura e rispettare i propri obblighi previsti dal diritto internazionale dei diritti umani. Devono assicurare che siano svolte appropriate indagini sulle accuse di tortura e che i responsabili di queste abominevoli violazioni siano chiamati a risponderne”, ha commentato Marie Forestier. Violazioni del processo equo - A tutti i 26 detenuti documentati nel rapporto è stato negato l’accesso a un avvocato durante il primo interrogatorio, in violazione delle stesse leggi libanesi e dei principi e delle norme di diritto internazionale. Ciò ha compromesso la loro capacità di difendersi o di contestare la legittimità della detenzione. Dopo l’arresto, i rifugiati hanno spesso riferito di aver dovuto attendere molte settimane prima di comparire dinanzi al giudice responsabile del caso, e in nove casi, i processi hanno subito dei rinvii fino a due anni, in violazione del diritto internazionale. In molti casi, i giudici si sono basati principalmente su confessioni estorte sotto tortura o su prove ottenute da informatori inattendibili e le condanne si sono basate su accuse di reati di terrorismo vaghe e troppo generiche. Almeno 14 detenuti hanno detto ad Amnesty International di aver “confessato” crimini che non avevano commesso dopo essere stati torturati o minacciati. In 23 dei casi documentati, i detenuti, due dei quali minori, sono stati processati dinanzi a tribunali militari, in violazione dei principi internazionali che proibiscono i procedimenti di civili dinanzi a tribunali militari. In almeno tre casi, sono stati emessi ordini di deportazione forzata di detenuti in Siria e in un caso l’ordine è stato anche eseguito, in violazione del principio di non respingimento previsto dal diritto internazionale, che vieta agli stati di rimandare persone in paesi in cui sarebbero a rischio di gravi violazioni dei diritti umani. Amnesty International chiede alle autorità libanesi di garantire che tutti i detenuti siriani abbiano un processo equo in linea con i principi internazionali. Inoltre, le autorità devono mettere fine con urgenza alla pratica di processare i civili nei tribunali militari. In 14 dei casi documentati, Amnesty International ha riscontrato che le accuse di terrorismo nei confronti dei rifugiati siriani sono state basate su motivazioni discriminatorie, tra cui le affiliazioni politiche. In nove casi, il solo esprimere l’opposizione politica nei confronti del governo siriano è stata considerata una prova sufficiente per una condanna per reati di “terrorismo”. Numerosi siriani che vivono nel Libano del nord sono stati arrestati sulla base del loro reale o presunto coinvolgimento nella battaglia di Arsal del 2014 quando appartenenti a Jabhat al-Nusra e al gruppo armato dello Stato islamico hanno attaccato l’esercito libanese e rapito 16 membri delle forze di sicurezza. La battaglia di Arsal è terminata con un accordo di cessate il fuoco che ha permesso a migliaia di combattenti di Jabhat al-Nusra e ai loro familiari di fare rientro a Idlib, in Siria. Tra i casi esaminati figurano anche quelli di donne siriane detenute per le presunte attività dei loro familiari di sesso maschile o per esercitare pressioni sui familiari di sesso maschile affinché confessassero o si costituissero. Myanmar, strage senza fine: uccisa una bimba di 7 anni di Raimondo Bultrini La Repubblica, 24 marzo 2021 Save the Children: almeno 20 minori uccisi e 17 arrestati dall’inizio delle proteste dopo il golpe dei militari del primo febbraio. In tutto sono almeno 261 i morti. Le proteste che da settimane sconvolgono il Myanmar sono costate oggi la vita a una bimba di 7 anni. Era in casa sua a Mandalay, la seconda città più importante del Paese. Dal golpe del primo febbraio sono morte almeno 261 persone nella repressione di manifestanti e attivisti. Oltre 20 i minori che hanno perso la vita, e almeno 17 si trovano in stato di detenzione: lo riferisce Save the Children, esortando a proteggere bambini e ragazzi e a fermare la violenza contro i manifestanti pacifici nel Paese. Solo ieri risulta siano stati uccisi due minorenni, tra cui un ragazzo di 14 anni a Mandalay. Save the Children conferma che il ragazzo è stato ucciso a colpi di arma da fuoco mentre era in casa o nei pressi, senza alcun coinvolgimento diretto nelle proteste. Avrebbe dovuto compiere 15 anni a luglio. “Save the Children ritiene il numero crescente di morti tra i bambini e gli adolescenti estremamente allarmante, teme anche per la sicurezza di almeno 17 minori - tra cui una ragazzina di 11 anni - che sarebbero detenuti arbitrariamente. Al 22 marzo, l’Organizzazione e i suoi partner hanno registrato un totale di 146 casi di arresti o detenzioni di minori. Oltre a questi bambini e adolescenti detenuti, altri manifestanti, molti dei quali giovani studenti, continuano a essere arrestati. Secondo le ultime stime sono circa 488 gli studenti attualmente detenuti, di cui almeno venti sono delle scuole superiori la cui età è sconosciuta, ma alcuni di loro potrebbero anche avere meno di 18 anni”. “Siamo inorriditi dal fatto che i bambini continuino a essere tra gli obiettivi di questi attacchi fatali contro manifestanti pacifici”, afferma la ong ricordando che “la sicurezza dei bambini deve essere garantita in ogni circostanza”, e chiedendo “ancora una volta alle forze di sicurezza di porre fine immediatamente a questi attacchi mortali contro i manifestanti”. I dissidenti, per evitare la brutale repressione della polizia, stanno cercando nuove forme di protesta. Per domani, mercoledì, il movimento di disobbedienza civile si prepara a uno sciopero del silenzio: tutti in casa, i negozi chiusi, e nessun veicolo nelle strade, se si realizzerà il piano degli organizzatori.