Ergastolo ostativo, in 3 anni liberazione condizionale solo per 38 ergastolani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 marzo 2021 Oggi l’esame della Consulta dell’illegittimità costituzionale, in caso di non collaborazione, della liberazione condizionale sollevato dalla Cassazione. È costituzionale vietare l’accesso alla liberazione condizionale per la mancata collaborazione con la giustizia? Questo è il quesito che oggi sarà al vaglio della Consulta. Parliamo dell’ergastolo ostativo ai benefici penitenziari che esclude l’accesso alle misure alternative al carcere, rendendo questa pena un effettivo “fine pena mai” e impone al recluso di scegliere due opzioni: o stai dentro fino alla morte oppure collabori con la giustizia. La Cassazione ha sollevato l’illegittimità costituzionale - La Cassazione, che ha sollevato l’illegittimità costituzionale per l’ergastolano Francesco Pezzino, difeso dall’avvocata Giovanna Araniti, e che oggi discuterà del caso innanzi alla Consulta, sottolinea un passaggio fondamentale della sentenza Cedu del caso Viola contro Italia. Ovvero che la mancanza di collaborazione non può sempre essere ricondotta ad una scelta libera e volontaria o, comunque, al fatto che siano mantenuti i legami con il gruppo criminale di appartenenza. Ed ha rilevato che non può escludersi che, nonostante la collaborazione con la giustizia, non vi sia dissociazione effettiva dall’ambiente criminale, perché la scelta di collaborare ben può essere soltanto opportunistica, compiuta in vista del conseguimento dei vantaggi che ne derivano. Se la collaborazione viene intesa come l’unica forma possibile di manifestazione della rottura dei legami criminali - ha proseguito la Cedu - si trascura la considerazione di quegli elementi che fanno apprezzare l’acquisizione di progressi trattamentali del condannato all’ergastolo nel suo percorso di reinserimento sociale e si omette di valutare che la dissociazione dall’ambiente criminale ben può essere altrimenti desunta. La presunzione assoluta di pericolosità insita nella mancanza di collaborazione è d’ostacolo alla possibilità di riscatto del condannato che, qualunque cosa faccia durante la detenzione, si trova assoggettato a una pena immutabile e non passibile di controlli, privato di un giudice che possa valutare il suo percorso di risocializzazione. Dei 1.800 all’ergastolo 1.271 per reati ostativi - Per capire la dimensione dell’ergastolo ostativo in Italia è interessante leggere l’opinione scritta, come amicus curiae, per la Corte Costituzionale dal Garante Nazionale delle persone private della libertà. Si apprende che l’ergastolo è presente in 183 Stati al mondo su 216 (dunque l’85%); solo 33 (il 15%), non lo prevedono. Tuttavia, tra i 183 Stati, 153 (cioè l’84%) ammettono la liberazione condizionale, valutata da un giudice o da un apposito organo, comunque considerando sempre il decorso della detenzione. I dati statistici ufficiali, fomiti al Garante dal Dap, attestano la natura sistemica e tutt’altro che marginale della questione posta con l’eccezione di incostituzionalità. Alla data del 1 settembre 2020 le persone condannate all’ergastolo presenti negli istituti penitenziari risultano 1.800. Di esse, 1.271 sono detenute per reati inclusi nell’art. 4-bis e che, in ragione di ciò, scontano un ergastolo ostativo. L’entità della posizione giuridica determinata dal regime dell’ostatività, pari al 71 percento del totale dei detenuti a vita, per il Garante certifica un dato di fatto: l’ergastolo nel sistema ordinamentale attuale è, principalmente, quello ostativo. Il numero degli ergastolani è aumentato - Il numero di ergastolani presenti in carcere risulta in costante crescita negli ultimi 15 anni, essendo passato, senza flessione alcuna, dai 1.224 del 2005 ai 1.800 attuali, con un incremento medio annuo di 40 unità. Secondo il Garante, questo dato, considerato nell’arco di tempo cui si riferisce, induce a ritenere che l’andamento progressivo sia determinato dall’aumento delle condanne a vita e non sia inciso, se non per numeri davvero esigui, dalla diminuzione derivante dall’accesso alla liberazione condizionale di ergastolani comuni o (non più) ostativi perché collaboranti con la giustizia o perché la loro collaborazione è comunque inesigibile. Lo conferma un altro dato: a fronte dell’aumento di 10 condanne a vita avvenuto dal settembre 2019 (allora erano presenti 1790 persone che scontavano tale pena), si riscontra la diminuzione di 6 ergastolani comuni e il parallelo aumento di 16 ergastolani ostativi. Analogo è stato l’andamento nell’anno precedente: a novembre 2018 gli ergastolani erano 1741 (59 meno di oggi) e coloro che scontavano tale pena in regime di ostatività erano 1224. L’incremento, quindi, è dovuto quasi completamente a questi ultimi. Tale rappresentazione trova riscontro nei dati relativi al numero delle scarcerazioni conseguenti alla concessione della liberazione condizionale nell’ultimo triennio: 18 nel 2018, 8 nel 2019, 12 nel 2020, per un totale di 38 in tre anni. “Numeri che con la loro esiguità, se rapportata all’entità complessiva e alla tipologia degli ergastoli in corso d’esecuzione, mettono in evidenza la consistenza effettiva del problema”, osserva il Garante. Le regole Mandela ci dicono che il prigioniero è un uomo. Non gettate la chiave! di Daniela de Robert* Il Riformista, 23 marzo 2021 Adottate nel 2015 dall’Assemblea generale dell’Onu, dopo anni di lavoro, sono dedicate all’ex presidente del Sudafrica che in carcere ha trascorso ben 27 anni della propria vita. Cinque principi base, 122 regole. Indicano gli standard minimi delle condizioni di detenzione, ma in realtà puntano a ottenere livelli di tutela sempre più alti per le persone private della libertà. Sono dedicate proprio a lui, Nelson Mandela, le Regole delle Nazioni Unite che stabiliscono gli standard minimi delle condizioni di detenzione. Lo ha deciso l’Assemblea generale Onu nel dicembre del 2015 quando le ha adottate dopo anni di lavoro. Il primo testo, infatti, risale al 1955, quando ancora le ferite della Seconda guerra mondiale erano aperte e il ricordo delle violazioni dei diritti delle persone private della libertà, dei trattamenti crudeli, inumani e degradanti era vivo e doloroso. Le 95 regole adottate dal Primo Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento degli autori di reati definivano le norme minime universalmente riconosciute per la gestione delle strutture detentive e per il trattamento delle persone detenute. Stabilivano cioè gli standard minimi, al di sotto dei quali nessun Paese doveva mai scendere. I principi fondamentali erano due: il rifiuto della discriminazione sulla base dell’origine etnica, del colore, del sesso, del linguaggio, della religione, della politica o di altre opinioni, della nazionalità o contesto sociale, della proprietà, della nascita o di altri status; e il rispetto del credo religioso e dei precetti morali della comunità a cui la persona detenuta appartiene. Le regole saranno approvate dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite con una prima risoluzione del 1957 e saranno poi rivedute con una successiva risoluzione nel 1977. Ma bisognerà aspettare il 2011 perché l’Assemblea generale istituisca un gruppo di esperti intergovernativi con il compito di rivedere e aggiornare il testo, e altri quattro anni perché si raggiunga un documento condiviso. Si arriva così al 2015 quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adotta gli Standard minimi delle Nazioni Unite per il trattamento dei detenuti, scegliendo di chiamarli Nelson Mandela Rules, per onorare la memoria del Presidente sudafricano che trascorse 27 anni della sua vita in un carcere. Cinque principi di base, a cominciare dal diritto di ognuno a essere trattato con il rispetto dovuto alla propria intrinseca dignità e valore come essere umano, per un totale di 122 regole suddivise in diverse aree tematiche. Come le precedenti, queste regole non vogliono descrivere un modello di istituzione penale, ma si limitano a definire ciò che è generalmente accettato come buoni principi e pratiche nel trattamento delle persone detenute e nella gestione delle carceri. Ma se la sorella maggiore del 1955, si limitava a definire la soglia minima di accettabilità al di sotto della quale un determinato aspetto rischiava di configurarsi come trattamento inumano o degradante, con una sorta di obiettivo al ribasso, le Nelson Mandela Rules puntano più in alto, invitando gli Stati a considerare gli Standard minimi come un punto di partenza, come uno stimolo verso un impegno costante a innalzare i livelli di tutela delle persone private della libertà. Essi indicano cioè obiettivi accessibili, seppur nella differenza dei contesti culturali e politici dei vari Paesi, e nello stesso tempo in grado di far evolvere una situazione verso un suo progressivo miglioramento, in una prospettiva, per così dire, generativa. Le Nelson Mandela Rules delle Nazioni Unite, insieme alle Regole penitenziarie europee approvate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel 2006 e aggiornate recentemente nel luglio 2020, e agli Standard del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa definiti sulla base delle visite che il Comitato effettua ogni anno, costituiscono un insieme di soft law, cioè di nonne non giuridicamente vincolanti. Qualcuno per questo motivo considera quell’aggettivo soft- sinonimo di debolezza se non di inefficacia. Ma così non è. Sempre più le soft law condizionano le scelte delle Amministrazioni e dei Paesi. Sempre più sono recepite come riferimenti forti seppur non obbliganti. Sempre più la loro forza giuridica attenuata presenta una legittimità internazionale che difficilmente può essere negata La loro efficacia si basa su una logica diversa: non sul dover fare, ma sulla condivisione e sul cambiamento della cultura, che è alla base delle scelte e delle azioni. Il recente richiamo alle Nelson Mandela Rules fatto dalla Ministra della giustizia, Marta Cartabia, al quattordicesimo congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine è un segnale importante in questa direzione. Queste regole, non vincolanti sotto il profilo giuridico, non possono e non devono essere ignorate, anzi devono fare da guida a cambiamenti normativi e culturali tesi al miglioramento delle condizioni di vita delle persone private della libertà e dell’effetti vità dei loro diritti, memori del contesto in cui tali regole sono nate all’indomani, cioè, di un periodo in cui l’integrità psicofisica e la dignità delle persone non era considerata un bene inviolabile, in cui parlare di diritti delle persone detenute appariva un nonsenso, in cui la discriminazione aveva seminato morte e violenza Il richiamo della Ministra è, dunque, un invito anche al nostro stesso Paese non solo a rispettare tutti gli standard minimi di detenzione. ma ad andare in quella direzione che le Nelson Mandela rules indicano: il superamento, cioè, di una logica minimale. Una direzione perseguita anche dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, attraverso le Raccomandazioni contenute nei Rapporti sulle sue visite. Le Nelson Mandela Rules, dunque, segnano una svolta verso un cambiamento possibile, come possibile e reale è stato il superamento non violento del regime dell’Apartheid in Sudafrica. *Collegio del Curante nazionale dei diritti delle persone private della libertà Ergastolo senza speranza? La Consulta potrebbe cambiare pagina di Liana Milella La Repubblica, 23 marzo 2021 Oggi arriva alla Corte il caso sollevato dalla Cassazione contro la detenzione definitiva senza chance per la liberazione condizionale. Oggi la Consulta affronta un tema molto importante ma anche fortemente divisivo. Il cosiddetto ergastolo ostativo. Che Marco Ruotolo, costituzionalista dell’università Roma Tre e direttore del master in “Diritto penitenziario e Costituzione” definisce così: “È la situazione nella quale si trovano i condannati a una pena perpetua per reati di particolare gravità, soprattutto terrorismo e mafia, i quali, se non collaborano con la giustizia, non possono accedere alla misura della liberazione condizionale”. E cioè non possono uscire mai più dal carcere? “Sì, non possono accedere a una misura che consente all’ergastolano, dopo 26 anni di pena, di richiedere quella che il codice penale considera come causa estintiva della pena che può essere riconosciuta quando il reo abbia dato prova di ‘sicuro ravvedimento’.” Invece, per mafiosi e terroristi non pentiti, ottenere la liberazione condizionale è impossibile? E perché? “La mancata collaborazione con la giustizia viene considerata un indice insuperabile di pericolosità e dunque di sicura assenza di ravvedimento”. La Cassazione adesso chiede che tutto questo sia cancellato? Secondo lei è una richiesta condivisibile? “La questione è proprio questa: se il reo non collabora, scatta una preclusione assoluta ad accedere alla liberazione, che appare in contrasto con la finalità rieducativa della pena e con l’esigenza di considerare il percorso penitenziario di ciascun detenuto. Con il tempo la persona detenuta può cambiare, e, come lei, anche il contesto criminale di riferimento può subire variazioni significative”. E quindi che succede? Che anche il mafioso, secondo la richiesta ipotizzata dalla Cassazione, potrebbe uscire dal carcere? “Se la Corte costituzionale dovesse decidere in questa direzione, sarebbe il giudice della sorveglianza a stabilire, caso per caso, se applicare la misura, verificando non solo il percorso penitenziario del singolo detenuto, ma anche, e forse soprattutto, accertando che non vi siano tuttora permanenti collegamenti con il gruppo mafioso o terroristico di appartenenza”. Mi dica due cose: lei come la pensa e come pensa che andrà a finire alla Consulta? “Per me la pena perpetua è, in sé, disumana e contraria alla finalità rieducativa”. Scusi ma davvero per lei l’autore di gravi stragi può essere rieducato? “Penso che debba essere offerta a tutti la possibilità di un riesame della propria situazione, anche se continuo a ritenere che la collaborazione con la giustizia debba essere la via maestra per ottenere i cosiddetti benefici penitenziari. Però l’assenza della collaborazione dovrebbe rendere la concessione difficile o improbabile, ma mai impossibile”. Ma lei se le ricorda le polemiche esplose, due anni fa, quando la Consulta - anche in quel caso il relatore era il giudice Nicolò Zanon - stabilì che, come in questo caso, anche i mafiosi non pentiti potevano ottenere i permessi premio? Le reazioni allora furono molto dure, anche di noti magistrati antimafia... “Purtroppo, quella decisione fu travisata, come se nella sentenza ci fosse scritto ‘liberi tutti’. Ma non era affatto così”. E perché? Lo spiega a chi contestò una concezione troppo buonista del carcere? “La Corte allora si limitò a rimuovere l’ostacolo della collaborazione obbligatoria per concedere il permesso premio. E restituì proprio al giudice il compito di valutare la singola situazione. Sottolineò, inoltre, a più riprese, che la sola buona condotta non sarebbe stata sufficiente per ottenere il permesso, in quanto era necessario valutare analiticamente se esistevano ancora eventuali rapporti con la criminalità organizzata”. Che succede per i detenuti al 41bis, ossia al carcere duro? “Se il presupposto per l’applicazione del 41bis è l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata, non vedo come, in assenza di revoca di quel regime, sia possibile concedere il permesso premio o, in prospettiva, la liberazione condizionale”. Nel prendere una decisione che, comunque vada, sarà oggetto di polemiche, o di chi vuole un carcere più morbido, o all’opposto di chi lo pretende sempre e comunque durissimo, la Consulta avrebbe alle spalle una sentenza della Corte di Strasburgo? “Sì, la Cassazione ha indicato tra i parametri del giudizio la violazione di un preciso obbligo internazionale che la Corte dei diritti dell’uomo ha tradotto nel divieto di assoggettare il condannato a una pena immutabile, e cioè non effettivamente riducibile. E comunque, a mio avviso, sarebbero sufficienti i principi della nostra Costituzione per concludere che in nessun caso le scelte repressive possono relegare nell’ombra il profilo rieducativo della pena”. Salvi: “L’ergastolo è fine pena mai solo se non è possibile il reinserimento” di Davide Varì Il Dubbio, 23 marzo 2021 L’intervento del procuratore generale della Cassazione in attesa della Consulta. “Nella pena come retribuzione vi è un importantissimo significato di garanzia. Perché la rieducazione è senza fine, per sua stessa natura. Può essere senza fine, può essere terrificante”, come “i campi di rieducazione dell’Unione sovietica o di altri regimi che hanno l’idea della conformazione ad un modello sociale come base della punizione. L’idea che ci sia un minimo e un massimo nella pena è importante, perché ci consente di dire che oltre quello non si va, se non ti rieduchi è colpa tua. Non ti costringo a rieducarti”. A dirlo ieri, nel corso di un webinar sull’ergastolo ostativo, è stato Giovanni Salvi, procuratore generale della Corte di Cassazione. Il webinar ha anticipato l’udienza di oggi in Corte costituzionale, dove si discuterà dell’esclusione della liberazione condizionale in assenza della collaborazione con la giustizia (per i condannati all’ergastolo per delitti di associazione mafiosa e di contesto mafioso). Secondo Salvi, “non è possibile immaginare che sia solo la collaborazione a determinare l’effetto di rottura” con il contesto mafioso. “Attendo con fiducia questo bilanciamento non facile tra l’esigenza di dare quello che noi già abbiamo da tempo, cioè che l’ergastolo non è “fine pena mai”, e lo è solo se non ci sono indici di possibilità di reinserimento sociale, come ci ha detto la Corte europea. Dobbiamo bilanciarlo - ha aggiunto - con situazioni particolarmente difficili che altri paesi non hanno e che noi abbiamo. Ma non è e non deve essere un aggravamento di pena. La possibilità di reinserimento deve essere valutata con attenzione estrema facendo riferimento anche alle organizzazioni di provenienza”. Secondo Salvi, considerare un “elemento di valutazione la dissociazione verbale” sarebbe “pericolosissimo perché andrebbe ad incidere su un principio fondamentale del diritto penale, che non è delle opinioni e dell’interiorità, ma delle condotte”, che non sono “la partecipazione ai programmi rieducativi”. “Io ho conosciuto le carceri di altri paesi - ha aggiunto il procuratore - che forse sono meglio delle nostre dal punto di vista delle strutture, perché questo è il nostro grande problema, ma non per quanto riguarda il trattamento, su cui noi non abbiamo molto da farci perdonare dagli altri paesi europei e questo lo dobbiamo ricordare o l’effetto è boomerang”. Piuttosto, ha sottolineato, “chi ostacola la creazione di nuove carceri migliori, si rende responsabile di far patire ai detenuti condizioni inaccettabili”. “L’Italia - ha ricordato - è uno degli ultimi paesi in Europa, ed anche al mondo, per rapporto tra detenuti e popolazione”. La corresponsione di pene in modalità più miti per reati dovuti ad ignoranza e povertà o la possibilità per quei circa 3mila detenuti che hanno già scontato gran parte della pena, di proseguire in detenzione domiciliare, sono strumenti previsti. “Ma non funzionano bene - ha evidenziato - per varie ragioni anche burocratiche”, o perché spesso molti “non hanno domicilio. E sarebbero necessarie strutture che li possano accogliere” ma non sempre ci sono. “Con i soldi della Cassa delle ammende sono stati avviati da alcuni anni progetti per consentire a queste persone di avere alloggio. Abbiamo avviato un lavoro in tal senso, coinvolgendo Cdp, molte carceri e anche l’Ue, ma c’è ancora difficoltà a far intendere le diverse parti in gioco, tra cui l’istituto penitenziario, i magistrati di sorveglianza, il pubblico ministero e l’ufficio per l’esecuzione esterna - commenta. Si può fare tanto con la legislazione esistente. Molti - ha concluso - non vanno in detenzione esterna a causa di una mancanza di edilizia”. Il Piano nazionale di resilienza, ha poi sottolineato il sottosegretario al ministero della Giustizia Francesco Paolo Sisto, ha tra i suoi obiettivi “la valorizzazione del personale, degli strumenti telematici, risorse all’edilizia giudiziaria ed all’architettura penitenziaria. Architettura vuol dire che non ci si preoccuperà di costruire muri ma di ammodernare situazioni per realizzare il principio educativo” di carceri come “luogo di rieducazione”. “Un elemento ostativo non può derivare da una scelta processuale di collaborare o non collaborare”. Riguardo all’udienza di oggi, Sisto ha affermato: “nessuno deve avere la pretesa di limitare la discrezionalità del giudice. Attaccare le regole perché non ne si condivide l’applicazione non è uno sport che io amo. Diverso è quando un diritto è impedito: il tema è se la collaborazione può rendere la pena antitetica rispetto alla rieducazione prevista dall’articolo 27. È giusto chiedersi se quell’elemento di collaborazione squisitamente processuale possa essere determinante. Il nostro Paese si avvia ad adeguarsi alla sentenza Viola, la corte deciderà come quando e come avverrà”. Ergastolo ostativo, il Sottosegretario Sisto: “ci muoveremo dopo Consulta” ansa.it, 23 marzo 2021 Occhi puntati sulla Consulta per la decisione sull’ergastolo ostativo, un verdetto atteso senz’altro dai 1.271 detenuti che hanno il fine pena mai - su un totale di circa 1.700 persone condannate alla massima sanzione - in quanto, per via della mancata collaborazione con la giustizia, non hanno diritto ad accedere alla libertà condizionale. Alla decisione della Corte Costituzionale guarda anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia che era giudice della Consulta nel collegio che decise di aprire ai permessi premio anche per chi è in ergastolo ostativo. “Il punto di riferimento, ad oggi, - così ha spiegato i termini del dibattito il sottosegretario alla giustizia Paolo Sisto intervenendo a un webinar - è l’ordinanza della I Sezione penale della Cassazione del giugno 2020 che richiama a sua volta la pronuncia della Corte costituzionale numero 253 del 2019 in tema di permessi premio, con la quale è stata sancita, inviando gli atti alla Consulta, l’irragionevolezza nel ritenere, la scelta del condannato per mafia di collaborare con gli inquirenti, un lasciapassare necessario per ottenere la liberazione condizionale”. Adesso “attendiamo, per avere chiarezza, la sentenza della Corte sul tema, per potere poi cadenzare i successivi step del percorso legislativo necessario “, ha aggiunto Sisto che ha detto che anche sul tema della giustizia il governo non vuole “appoggiarsi” ai decreti ma procedere con “adeguato dibattito parlamentare”, sempre che ce ne sia il tempo. “A volte non siamo generosi con noi stessi: il nostro Paese non è affatto indietro in termini giuridici, non abbiamo bisogno che ce lo venga a dire la Corte Europea. Noi siamo all’avanguardia in Europa - ha detto il Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi - per quel che riguarda il trattamento dei detenuti” che passa “attraverso il lavoro e il rapporto con l’esterno, tutte cose che dal 1975” con la riforma della legge carceraria e poi “con la legge Gozzini diventano acquisite”. “Ho conosciuto le carceri degli altri Paesi, e forse sono meglio delle nostre dal punto di vista delle strutture, ma dal punto di vista trattamentale e di come si vive nelle carceri, non abbiamo molto da farci perdonare dagli altri Paesi Europei”, ha proseguito Salvi. “Dobbiamo ricordarcelo - ha ammonito il Pg della Cassazione - non dire solo le cose che non vanno, altrimenti rischiamo un effetto boomerang. Dicendo che facciamo un eccessivo ricorso al carcere, ostacoliamo la costruzione di nuove strutture”. “Non dimentichiamo che l’Italia è a uno degli ultimi posti in Europa e nel mondo per numero di detenuti rispetto al numero della popolazione”, ha concluso Salvi - anche lui intervenuto al webinar organizzato dal prorettore dell’Università Roma Tre Marco Ruotolo insieme a Comin and Partners con la partecipazione della Commissaria per la rinascita a nuova vita del carcere di Santo Stefano, Silvia Costa. Il Pg Salvi considera la sentenza 253 della Consulta come una soluzione equilibrata che non produce automatismi e porta alla valutazione caso per caso. Il carcere dell’arcipelago pontino - a un miglio e mezzo da Ventotene - è stato diretto da Eugenio Perucatti (1910-1978) dal 1952 al 1960 con metodi ‘umanitari’ e innovativi, il suo volume di memorie e pensieri rieditato a 50 anni dalla pubblicazione è stato occasione del webinar. Ergastolo ostativo, libertà condizionale anche per i mafiosi che non collaborano? di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 23 marzo 2021 La Consulta verso il verdetto. A rischio il carcere duro inventato per i boss delle stragi. Dopo la sentenza della Cedu e quella della stessa Consulta sui permessi premio, adesso la corte dovrà esprimersi sul caso di un mafioso che vuole accedere alla libertà vigilata senza collaborare. All’udienza pubblica sarà rappresentato da un’avvocata che è anche figlia di un boss della ‘ndrangheta. “Ma quella - dice - è una vicenda privata, non c’entra niente con la questione della Consulta dove io interverrò da semplice avvocata. Qui il cuore della questione è il diritto al silenzio”. Il sottosegretario Sisto: “L’ergastolo non deve essere legato alla collaborazione con la giustizia”. Sperano i boss irriducibili, a partire dai Graviano. Un altro colpo all’ergastolo ostativo, un’altra picconata al carcere inventato per i boss delle stragi. È quello che potrebbe arrivare martedì dalla corte Costituzionale, chiamata a esprimersi sulla possibilità di chiedere la liberazione condizionale anche per i condannati all’ergastolo ostativo. È la cosiddetta “libertà vigilata” e può essere chiesta da tutti i detenuti che abbiano trascorso almeno 26 anni in carcere. Tutti tranne appunto quelli all’ergastolo ostativo, cioè i condannati per reati di tipo mafioso, per terrorismo ed eversione che non intendono collaborare con la magistratura. Il tema è delicato e dalle conseguenze impreviste dopo le sentenze del 2019: prima la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva chiesto all’Italia di riformare l’intera norma sull’ergastolo ostativo, poi la stessa Consulta aveva giudicato incostituzionale il divieto di accedere ai permessi premio per i boss che non collaborano. Due crepe nella normativa che disciplina il fine pena mai per i boss irriducibili. Crepe che con la sentenza di martedì rischiano di allargarsi ulteriormente. Lanciando un segnale diretto nei bracci più blindati dei penitenziari italiani, dove sono reclusi gli ultimi uomini delle stragi: dai fratelli Graviano a Leoluca Bagarella e Nitto Santapaola. Sulla vicenda la Consulta terrà un’udienza pubblica, visto che il 9 marzo scorso il presidente, Giancarlo Coraggio, ha riammesso la parte privata esclusa in un primo momento: a causa delle restrizioni anti-Covid, infatti, l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti non aveva potuto recarsi in carcere per ottenere in tempo utile la procura speciale del suo assistito, Salvatore Francesco Pezzino. “Quello che si chiede è l’opportunità di fare una valutazione sul percorso di una persona. Il cuore della questione è il diritto al silenzio, che va garantito anche nella fase esecutiva”, dice l’avvocata Araniti, spiegando che “il nostro ordinamento garantisce all’imputato la possibilità di non autoaccusarsi. Quindi un soggetto non può essere costretto a collaborare a tutti i costi per uscire dal carcere. Poi se la collaborazione c’è ben venga, soprattutto se è sincera”. Penalista di grande esperienza, l’avvocata Araniti è figlia di Santo Araniti, considerato uno degli storici boss della ‘ndrangheta di Reggio Calabria, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Lodovico Ligato, l’ex deputato della Dc e presidente delle Ferrovie dello Stato assassinato nel 1989. Nel marzo del 2019 Araniti senior è finito di nuovo sui giornali, perché la procura di Reggio Calabria lo aveva inserito tra gli indagati della nuova inchiesta sull’omicidio di Antonino Scopelliti, il sostituto procuratore generale della Cassazione ucciso nel 1991, quando stava preparando la richiesta di rigetto dei vari ricorsi dei superboss di Cosa nostra condannati al Maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Mio padre ha chiesto la revisione e ha avuto tre annullamenti dalla Cassazione per l’omicidio Ligato. Abbiamo fatto ricorso anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo, vedremo come andrà a finire. Ma questa è una vicenda privata, non c’entra niente con la questione della Consulta dove io interverrò da semplice avvocata”, dice la figlia, sottolineando come il suo genitore non beneficerebbe di una eventuale sentenza favorevole della Consulta. “Il reato per il quale è stato condannato mio padre risale all’89 invece la normativa è a partire dal ‘91 e i tribunali hanno decretato il divieto di retroattività della legge più sfavorevole”. In carcere dal 1994, al 41bis fino al 2008, Araniti senior ha già scontato 26 anni e mezzo di carcere: dunque, potrebbe già chiedere la libertà condizionale. Ma non lo ha ancora fatto. “Aspettiamo la decisione sulla revisione e poi vedremo”, dice la legale. Che sull’udienza della Consulta ha buone sensazioni: “I presupposti ci sono, però poi bisognerà vedere cosa ne penserà la corte. È sbagliato dire che in caso di sentenza favorevole escono tutti i soggetti condannati per mafia, non è così. Quello che si chiede è l’opportunità di valutare il percorso di una persona, tutti possono essere rieducati senza pretendere la collaborazione a tutti i costi”. A considerarsi rieducato, pur senza aver collaborato con la giustizia, è nella fattispecie il suo cliente, Salvatore Francesco Pezzino, mafioso di Partinico, in provincia di Palermo. Condannato per mafia e omicidio, ha trascorso in totale 30 anni da carcerato: nel 1999 aveva ottenuto la semilibertà, salvo poi perderla nel 2000 quando era finito sotto accusa di nuovo per altri reati. Considerato un “detenuto modello”, nel 2018 Pezzino ha chiesto al Tribunale di sorveglianza de L’Aquila di riconoscergli la libertà condizionale, prevista per tutti i detenuti che hanno scontato 26 anni di carcere, salvo, appunto, quelli condannati per reati di mafia che non hanno collaborato con la giustizia. Un divieto previsto dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, e dal decreto legge 306 del 1992, ispirato da Giovanni Falcone già con un decreto dell’anno precedente, e approvato dopo la strage di Capaci per provare a rompere la breccia di omertà di Cosa nostra, all’inizio della stagione delle bombe. È per questo motivo che il tribunale di sorveglianza dell’Aquila aveva dichiarato inammissibile la richiesta di Pezzino. Il quale, però, ha fatto ricorso alla Cassazione. E la Suprema corte ha sollevato eccezione di costituzionalità, sostenendo che con la negazione della libertà condizionale agli ergastolani ostativi si realizza “una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e di progressività del trattamento”. In parole semplici: visto che il fine del carcere è il reinserimento del reo nella società, è legittimo escludere dal beneficio della libertà vigilata i detenuti per reati di mafia solo perché non collaborano? La mancanza della collaborazione basta per considerare a priori un mafioso come ancora pericoloso per la società, nonostante siano passati molti anni dalla condanna? O forse ogni vicenda deve essere valutata singolarmente, caso per caso? E come deve fare il giudice a capire se un mafioso ha davvero rotto con il suo clan di riferimento, se non valutando un persorso di collaborazione? A queste domande dovrà rispondere la Consulta dopo aver ascoltato l’avvocata Ettore Figliolia, che rappresenta lo Stato, costituito in giudizio a difesa dell’ergastolo ostativo per decisione del precedente esecutivo. Allegate al fascicolo anche le memorie dell’associazione Antigone, del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, de l’Altro Diritto, di Macrocrimes, di Nessuno Tocchi Caino: parteciperanno all’udienza, seppur in forma cartolare, dopo il parere positivo del giudice relatore Nicolò Zanon. Eletto al Csm nel 2010 su indicazione del Popolo delle Libertà, poi nominato alla Consulta da Giorgio Napolitano, Zanon ha fatto da relatore anche alla sentenza che nell’ottobre del 2019 definiva incostituzionale la parte dell’articolo 4bis sul divieto di accesso ai permessi premio, cioè il primo gradino dei benefici penitenziari, per i condannati all’ergastolo ostativo che non hanno collaborato con la magistratura. All’epoca la Consulta era presieduta da Marta Cartabia, oggi guardasigilli di un governo che dovrà riscrivere l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario. Lo ha chiesto la Cedu nel 2019, potrebbe chiederlo la Consulta con la sentenza di martedì. Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla giustizia di Forza Italia, spiega che l’esecutivo attenderà la corte costituzionale “per potere poi cadenzare i successivi step del percorso legislativo necessario”. Sulla libertà condizionale per i boss, il berlusconiano spiega come la pensa: “Un elemento ostativo non può derivare da una scelta processuale di collaborare o non collaborare. L’ergastolo non deve essere legato alla collaborazione con la giustizia: io posso non collaborare ma aver rescisso i rapporti o collaborare e non averli rescissi”. Attendono la decisione della Consulta anche 1.271 detenuti al “fine pena mai” che vorrebbero accedere alla libertà condizionale pur non collaborando con la giustizia. Tra questi ci sono sicuramente i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss che custodiscono i segreti delle stragi del 1992 e 1993. Condannati all’ergastolo per le bombe che uccisero Falcone e Borsellino, per gli ordigni esplosi nel 1993 a Roma, Milano e Firenze, per l’omicidio del sacerdote don Pino Puglisi, si trovano in carcere dal 1994 ma sono ancora relativamente giovani: Filippo 59, Giuseppe 56. “Lui ha ancora una speranza”, ha detto recentemente - riferendosi al secondo - Salvatore Baiardo, l’uomo che ha curato la latitanza dei Graviano nel Nord Italia nei primi anni ‘90. “Che speranza?”, ha chiesto l’inviato della trasmissione Report. “Che l’ergastolo venga abrogato. Quella è ancora l’unica sua speranza”, è stata la risposta di Baiardo. Sarà una coincidenza ma uno dei primi mafiosi di rango a chiedere il permesso premio, sulla base della sentenza della Consulta del 2019, è stato Filippo Graviano. Non intende collaborare con i magistrati, né svelare i misteri delle bombe, ma sostiene di essersi dissociato da Cosa nostra. Una versione che può tornare buona pure per chiedere la libertà condizionale. D’altronde i Graviano sono in carcere già da 27 anni: potrebbero bastare. Anche senza abolire l’ergastolo. Almeno, non formalmente. Cartabia, svolta sulla giustizia: “Pagelle alle toghe e valutazioni esterne” di Valentina Errante Il Messaggero, 23 marzo 2021 Magistrati più preparati, sottoposti a verifiche periodiche, e processi veloci che “neutralizzino” il nodo gordiano della prescrizione che, per ragioni politiche, non potrà essere reciso. Il tavolo di lavoro sulla riforma penale, presieduto dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, sta mettendo a punto gli emendamenti che il Guardasigilli Marta Cartabia dovrebbe presentare ai testi già incardinati alla fine di aprile. Si cerca la mediazione su molti punti, a partire dalla “revisione” della prescrizione, che può avvenire solo nell’ambito di una riorganizzazione dei processi. Ma Cartabia, come ha sottolineato in commissione Giustizia alla Camera, punta molto anche sulla formazione dei magistrati. Oggi intanto, la ministra parteciperà al plenum del Csm presieduto dal presidente Mattarella, che approverà l’istituzione della Procura europea. L’idea annunciata dal vice presidente del Csm David Ermini, proprio sul Messaggero di domenica scorsa, di valutare le toghe è all’esame dei giuristi di via Arenula, che stanno studiando anche la riforma del Csm. Ma sembra escluso che le “pagelle” si basino su risultati concreti, come l’esito delle inchieste per i pm. La ministra sembra infatti più orientata a una periodica valutazione sulla formazione dei candidati o di chi già svolga ruoli direttivi e semi-direttivi degli uffici giudiziari. Cartabia lo ha detto con chiarezza in commissione Giustizia alla Camera, esponendo le linee guida del suo programma. Il Guardasigilli ipotizza infatti corsi obbligatori più lunghi di quelli attuali, che riguardino anche i profili organizzativi dell’amministrazione della giustizia e coinvolgano anche docenti “e testimoni esterni al circuito giudiziario”. Sessioni di studio che si concluderanno con una valutazione seria del profilo attitudinale dei partecipanti. E non è escluso che nei consigli giudiziari, attualmente costituiti presso ciascun distretto di Corte d’Appello (il numero dei componenti varia a seconda di quello magistrati in servizio nel distretto) possa proporzionalmente crescere il peso dei laici, docenti di diritto e avvocati, rispetto a quello dei togati, chiamati a valutare la professionalità dei colleghi. Il punto di equilibrio tra le diverse scuole di pensiero sulla prescrizione passa sicuramente dalla revisione globale dei processi, che avverranno in tempi più rapidi, rendendo eccezionale la chiusura dei procedimenti a causa dei ritardi. Nelle more si valutano tre ipotesi che comunque dovranno trovare l’accordo di tutti i partiti. La prima è quella di ancorare la prescrizione ai diversi gradi di giudizio. Ossia dare un tempo limite, per ogni step, per impugnazioni e celebrazione. Ma si valuta anche di spostare il congelamento della prescrizione, eliminata dalla riforma Bonafede, alla Cassazione. Ipotesi ancora allo studio, la soluzione finale potrebbe essere varata attraverso un’ampia legge delega. Ampliare l’accesso ai riti alternativi, incrementare il ricorso a condotte riparatorie, sospendendo i procedimenti penali con la messa alla prova dell’imputato, e allargare lo spettro della non punibilità per particolare tenuità del fatto, passa attraverso questi passaggi la cura del processo penale. Ma Cartabia ritiene che la principale innovazione sia “l’ufficio del processo”, già avviata in fase sperimentale. “Un modello organizzativo - ha spiegato - che rafforza la capacità decisionale del giudice inserendo nello staff gli assistenti - sul modello dei clerks anglosassoni - incaricati della classificazione dei casi, della ricerca dei precedenti giurisprudenziali e dei contributi dottrinali pertinenti e della predisposizione di bozze di provvedimenti”. Una squadra che supporterebbe il giudice nella fase organizzativa e preliminare del giudizio. In Commissione Giustizia, la ministra ha spiegato che non bisogna nutrire “l’illusoria rappresentazione che un intervento sul sistema elettorale del Consiglio possa di per sé offrire una definitiva soluzione alle criticità che stanno interessando la magistratura italiana”, perché nessuna legge può sovvertire un sostrato comportamentale e culturale. Così la riforma elettorale del Csm potrebbe prevedere un rinnovo parziale ogni due anni che riguardi metà dei laici e metà dei togati. In quest’ottica la continuità sarebbe mantenuta mentre potrebbero essere scoraggiate logiche spartitorie. “Caro Ermini, le regole ci sono. È il Csm che promuove tutti i magistrati italiani…” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 marzo 2021 Valutare i magistrati? Intervista a Giuseppe di Federico, professore emerito di Ordinamento giudiziario dell’Università di Bologna. Dalle pagine del Messaggero si torna a discutere di valutazione professionale dei magistrati. Il primo a parlare è stato il vice presidente del Csm, David Ermini: “sono dell’avviso che nel valutare la professionalità di un magistrato via sia anche un controllo sulla qualità e sulla tenuta dei suoi provvedimenti”. Poi è stato Carlo Nordio con un suo editoriale a plaudire l’iniziativa di Ermini. Critico invece si è mostrato, questa volta dalle pagine di Repubblica, il Presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, che ha detto: “In questi termini così radicali non posso che esprimere un fermo dissenso. […] I magistrati devono poter agire certamente senza un’aspirazione a vantaggi personali di carriera, ma anche senza il timore di ripercussioni sulle loro carriere”. Di tutto questo ne discutiamo con Giuseppe di Federico, professore emerito di Ordinamento giudiziario dell’Università di Bologna. È stato Presidente dell’European Research Network on Judicial Systems e componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Professore cosa ne pensa di quanto detto dal vice presidente Ermini? Se me lo avesse detto personalmente, avrei ricordato ad Ermini che già adesso i nostri criteri di valutazione dei magistrati sono i più stringenti, i più analitici, i più penetranti di quelli di tutti i sistemi europei che hanno un reclutamento di tipo burocratico come il nostro. Ciononostante, i dati delle ricerche da me condotte analizzando i verbali del Csm a partire dagli anni 1960 mostrano che la percentuale dei magistrati valutati positivamente ha variato, nei vari periodi, tra il 99,1% ed il 99,5%. Quindi negli ultimi 60 anni il Csm ha deciso di sua iniziativa di promuovere tutti i magistrati fino al vertice della carriera in base all’anzianità, fatta eccezione per i casi di grave e documentato demerito (come le più elevate sanzioni disciplinari o condanne penali). Anche i pochissimi magistrati bocciati di solito poi sono promossi con due o tre anni di ritardo. Quindi se non funzionano i criteri che già esistono, è ridicolo pensare ad altri criteri: l’attuale Csm, quello che lui stesso presiede, non effettua da tempo le valutazioni di professionalità ai fini dell’avanzamento in carriera. È di fatto una violazione dell’articolo 105 della Costituzione, che assegna espressamente al Consiglio il compito di effettuare le “promozioni” dei magistrati, salvo a non voler ritenere che il nostro Costituente volesse dare al termine “promozioni” un significato diverso da quello che ha nella lingua italiana. Nordio sostiene che il discorso di Ermini è rivoluzionario perché tocca essenzialmente i pm. Pensiamo solo al caso di Nicola Gratteri e ai tanti pm mediatici le cui inchieste poi vengono smontate nei vari gradi di giudizio. Per l’opinione pubblica invece la tesi dell’accusa è quella che rappresenta la verità. Quindi fa bene l’Unione delle Camere Penali a sollevare questo dibattito... Come faccio a non dichiararmi d’accordo con Nordio e con le Camere penali sul fatto che la proposta fatta dal V. Presidente del Csm avrebbe effetti positivi sia per la protezione dei diritti dei cittadini nell’ambito processuale sia per le casse dello Stato. Queste cose le ripeto da quarant’anni, anche nel lungo periodo in cui il dirlo era considerato sovversivo e avversato non solo dai magistrati ma anche nell’ambito universitario. E a nulla valeva ricordare le soluzioni ordinamentali che in vario modo trovavano applicazione negli altri Paesi democratici. E ha ragione Nordio nel ricordare che negli Stati Uniti i pubblici ministeri vengono considerati inadatti a svolgere le loro funzioni, e anche licenziati, se ricorrentemente portato dinanzi al giudice cause che si dimostrano prive di fondamento. Contrario alla proposta di Ermini si è espresso su Repubblica il Presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia... Io ho fatto ricerche sugli assetti e il funzionamento del pubblico ministero in numerosi Paesi democratici. Non dico che non esistano problemi che possono intimidire il pubblico ministero allorquando si valuta il suo operato. Questo è sempre possibile ma a fronte di questo c’è spesso il problema di evitare che cittadini innocenti vengano gravemente danneggiati sotto il profilo sociale, politico, economico, familiare e della stessa salute a causa di una azione penale irresponsabile. Quindi un equilibrio tra indipendenza e responsabilità va ricercato - anche se a parer mio in Italia non si farà nulla. A nulla vale ricordare che vigendo formalmente il principio dell’obbligatorietà dell’azione qualsiasi azione del PM, per discrezionale che sia, diventa “un atto dovuto”, il pm può sempre affermare che in regime di obbligatorietà non poteva agire diversamente. Secondo il professore Tullio Padovani “le indagini preliminari non sono coperte dal dovere che si pretende di ritrovare nell’articolo 112 della Costituzione. L’obbligatorietà dell’azione penale non si riferisce espressamente alle indagini preliminari”... Queste sono elaborazioni teoriche che, per quanto corrette e interessanti, di per sé non producono effetti. Io sono uno studioso empirico. Il problema è che il cittadino viene danneggiato ricorrentemente da iniziative ingiustificate che dinanzi al giudice cadono con una frequenza elevata. E all’origine c’è un pm in cerca di notorietà e carriera... È inevitabile. Il nostro pubblico ministero dirige in via esclusiva la polizia nella fase delle indagini ed in tale contesto è di fatto un poliziotto indipendente. In un Paese democratico un poliziotto indipendente dovrebbe essere una figura inconcepibile. Da noi in Italia questo non viene considerato un problema degno di attenzione. Poi c’è un altro aspetto da rilevare nell’articolo di Nordio. Prego... Lui dice: “Tralascio di citare i Paesi dove il pm, come in Francia, dipende dal potere esecutivo”. La Francia la questione dell’indipendenza dal Ministro l’ha risolta in maniera conforme ai Paesi anglosassoni: il pubblico ministero quando compie le sue scelte di natura discrezionale sta effettuando scelte di politica criminale. Ora, tutte le scelte di politiche pubbliche in un Paese democratico dovrebbero essere inquadrate in un sistema di responsabilità politica. Nel 1997 il Presidente Chirac creò una commissione per la riforma del processo penale e chiese di considerare la possibilità di distaccare il pm dalla dipendenza del Ministro. Al tempo anche a me fu chiesto un parere da parte di Robert Badinter (già Ministro della Giustizia, ndr). Cosa venne risposto a Chirac da parte della commissione presieduta dal presidente della Corte di Cassazione francese, ma composta per la gran parte da non magistrati? Che siccome non tutte le violazioni penali possono essere perseguite, il pm deve fare delle scelte che sono di fatto scelte di politica criminale, e che tali scelte non possono essere fatte se non nell’ambito del processo democratico. Che quindi non era possibile sottrarre il pm dalla dipendenza gerarchica dal Ministro della giustizia. Alla stessa conclusione è giunta la Corte costituzionale francese decidendo su una questione sollevata dal sindacato della magistratura di quel Paese. Giuseppe Rossodivita: “La giustizia si può riformare solo a colpi di referendum” Massimo Malpica Il Giornale, 23 marzo 2021 Il radicale: ai politici purtroppo manca il coraggio. “Per Pannella la partitocrazia impediva ai cittadini di farsi classe dirigente. Nella magistratura la correntocrazia impedisce al singolo magistrato estraneo al sistema di porsi sullo stesso piano del magistrato che ne fa parte”. Il responsabile della commissione Giustizia del partito Radicale, Giuseppe Rossodivita, riassume così la grande distorsione del sistema giustizia, sul quale l’organismo (composto da 110 avvocati iscritti al partito, tra gli altri anche Tullio Padovani, e che conta sulla collaborazione di Palamara) sta per far uscire un “libro giallo”. “Sarà un libro di denuncia continua Rossodivita - sulle condizioni in cui versa la giustizia italiana. Se e quando la pandemia lo consentirà, faremo un tour di presentazione per sensibilizzare l’opinione pubblica, che proprio grazie al libro di Sallusti e Palamara si è avvicinata a un tema ostico e poco conosciuto. In buona parte a causa della disinformazione determinata dalla collusione di parte della stampa con le procure. Per questo il libro “Il Sistema”, pur raccontando cose che gli addetti ai lavori conoscevano già, ha il grande valore aggiunto di aver reso queste dinamiche leggibili, raccontando cose complicate in modo semplice per tutti. E quel libro per noi è anche uno strumento di lotta politica”. Da esplicitare in che modo? “Vorremmo, anche dialogando con altre forze politiche, arrivare a una stagione referendaria. La politica ha dimostrato di non sapere o di non volere prendere il toro per le corna, quindi la giustizia in Italia si può riformare solo a colpi di referendum: magari non otterremo i migliori risultati possibili, ma daremo la possibilità alla gente di far sentire la propria voce”. E i magistrati? “La magistratura associata deve rendersi conto che così non si può andare avanti: la Costituzione voleva un ordine indipendente a potere diffuso tra i 9mila magistrati, che avrebbero dovuto proiettare i propri eletti al Csm senza intermediazione, per garantire l’autonomia e l’indipendenza sia della magistratura che del singolo magistrato. Mentre oggi, grazie alla interposizione di Anm e alle correnti, abbiamo imbuti e poteri verticistici. Il problema è che nessuno in Italia vuole 9mila magistrati sottoposti soltanto alla legge. Meglio avere otto capicorrente con i quali si cerca di governare”. “Io, penalista, ora chiedo il processo da remoto” di Simona Musco Il Dubbio, 23 marzo 2021 La lettera di un’avvocata esperta in responsabilità alla ministra della giustizia Marta Cartabia: “Troppi contagi tra i legali, Abbiamo diritto a lavorare in sicurezza”. Un’inspiegabile disparità, favorita da un vuoto normativo che mette a rischio i penalisti e la stessa amministrazione della giustizia. È quella che denuncia Vania Cirese, penalista esperta in responsabilità sanitaria, che in una lettera indirizzata alla ministra della Giustizia Marta Cartabia e al presidente del Consiglio Mario Draghi chiede un protocollo nazionale che consenta agli operatori della giustizia che lo richiedano di lavorare in sicurezza da remoto fino alla fine dell’emergenza, “nel riconoscimento del valore di ogni vita”. L’avvocata prende spunto dalla situazione della sua regione di residenza, l’Alto Adige, dove le restrizioni sono aumentate per far fronte all’aggressività della variante sudafricana del virus. Restrizioni che hanno ridotto i contatti praticamente a zero, finanche all’interno dei singoli nuclei familiari, proprio per evitare ulteriori contagi e vittime. Prima della pandemia, Cirese, così come gli altri avvocati italiani, era abituata ad attraversare l’Italia per difendere i propri clienti nei diversi uffici giudiziari del Paese. Ma ora, a causa dell’età, è soggetto a rischio e, pertanto, costretta ad evitare ogni situazione di possibile contagio. L’attività negli uffici è attualmente regolata dal dpcm 137/ 2020, che ha consentito la digitalizzazione delle attività nel corso delle indagini preliminari, udienze preliminari e camerali, così come stabilito dall’articolo 23. Ma c’è un buco del decreto, denuncia Cirese, la cui interpretazione letterale porterebbe ad un rigetto automatico delle richieste di trattazione da remoto per il momento della formazione della prova, “ritenendo ostativo il dettato normativo in relazione al dibattimento”. Così mentre da un lato scuole ed esercizi commerciali sono chiusi per evitare ogni possibile rischio, gli avvocati, anche quelli più in pericolo, sono costretti a spostarsi, col rischio di diventare veicolo del virus tra colleghi, magistrati, funzionari amministrativi, clienti e familiari. “Quasi che per questa categoria di cittadini o il virus non esista o li veda immuni o per essi ci sia licenza di infettarsi, di contagiare altri soggetti e rischiare di andare in rianimazione o morire”, denuncia Cirese. I casi di contagio tra avvocati sono altissimi. E nonostante questo, i vari Tribunali d’Italia hanno agito in maniera disomogenea, con protocolli diversissimi tra di loro, affidando alla discrezionalità dei singoli magistrati i criteri di svolgimento delle udienze. Una situazione che ha costretto gli avvocati a dover peregrinare da una cancelleria all’altra per scoprire, volta per volta, le regole di comportamento da rispettare. Il tutto a scapito della salute degli avvocati, afferma la penalista, che lamenta, dunque, un “trattamento discriminatorio”. L’appello non è ad una totale remotizzazione delle udienze, respinta con forza, nei mesi scorsi, dall’Unione delle Camere penali, che paventavano di una compressione del diritto alla difesa. Ma a consentire, a chi ne fa richiesta per le più diverse ragioni, di poter lavorare da remoto, così come avviene per la Corte costituzionale, dal momento che tutti gli uffici sono muniti della piattaforma Teams e a fronte dalle ingenti risorse investite nella digitalizzazione, indicata anche dal Piano nazionale di ripresa e resilienza come “priorità per il futuro della giustizia italiana”. A riprova dell’urgenza di un intervento in tal senso, Cirese elenca le condizioni disastrose dei Tribunali italiani, dove gli assembramenti sono all’ordine del giorno, a causa, molto spesso, di problemi strutturali inaggirabili o di una gestione delle udienze non ottimale. Ma cita anche il fatto che il Dpcm preveda il collegamento da remoto per gli imputati detenuti e la presenza fisica per i processi a piede libero. Inoltre, “nessun operatore della giustizia viene testato e la maggior parte dei soggetti non è vaccinata”, spiega, evidenziando l’inidoneità “del mero presidio di misurazione della temperatura all’ingresso di alcuni (non di tutti) gli uffici giudiziari”. E ciò a fronte di una scarsa sanificazione dei presìdi, sistemi di aerazione inefficienti e aule spesso prive di finestre, mentre i processi vengono svolti a porte chiuse. Il che tira in ballo un’altra domanda: venendo meno il principio di pubblicità, quale problema creerebbe la partecipazione da remoto per chi ne manifesta l’esigenza? Da qui la richiesta di un protocollo nazionale che faccia andare avanti la giustizia senza mettere a rischio la salute. Mafia, una questione espulsa dal discorso politico di Lucrezia Ricchiuti Il Manifesto, 23 marzo 2021 A chi interessano i morti di mafia, i cui nomi ancora qualche giorno fa Luigi Ciotti ha rievocato? E, soprattutto, alla politica di oggi interessa combattere seriamente le mafie? La parola mafia manca completamente dal lessico del discorso programmatico di Mario Draghi e - per la verità - è assente anche dai discorsi di tutti gli esponenti parlamentari. “Pio La Torre, chi era costui? E Mattarella? E gli altri cento, quelli che un giornale progressista elencava ieri come anonimi e trascurabili “sindacalisti, politici locali, funzionari”, nessuno, insomma? E gli altri ancora, i morti quotidiani in Sicilia, a Napoli, dappertutto? Sempre nessuno”. Così scriveva Luigi Pintor sul manifesto del 5 settembre 1982, all’indomani dell’eccidio di via Carini a Palermo, in cui persero la vita Carlo Alberto Dalla Chiesa ed Emanuela Setti Carraro. Mi sembrano parole atrocemente attuali, a 40 anni di distanza. A chi interessano i morti di mafia, i cui nomi ancora qualche giorno fa Luigi Ciotti ha rievocato? E, soprattutto, alla politica di oggi interessa combattere seriamente le mafie? La parola mafia manca completamente dal lessico del discorso programmatico di Mario Draghi e - per la verità - è assente anche dai discorsi di tutti gli esponenti parlamentari. Tutti, purtroppo, compresi quelli dell’arcipelago della sinistra che alla tradizione di Placido Rizzotto, Momo Li Causi e Pio La Torre si dovrebbero ispirare. Il dibattito sull’ordine pubblico resta purtroppo monopolizzato in modo strumentale dal tema dell’immigrazione, soprattutto per sviare l’attenzione da un fattore indiscutibile: il principale problema di ordine pubblico in Italia sono le mafie, altrimenti il processo Rinascita-Scott a Lametia non richiederebbe le eccezionali misure di protezione che sono state messe in atto (vedi Presa diretta di Riccardo Iacona sulla ‘ndrangheta di qualche giorno fa). Così come la discussione sulla giustizia è tutta concentrata sulla falsa e pelosa diatriba giustizialisti contro garantisti. Facciamo un paio di esempi: Dana Lauriola, militante NO Tav è stata condannata a una pena pesante per le manifestazioni in Val di Susa. I garantisti nostrani non hanno fatto una piega. Viceversa sul fatto che i mafiosi al 41bis non possano vedere i figli minori in ragione del regime carcerario cui sono sottoposti fa scandalo, al punto che si pronuncerà la Corte costituzionale. Due pesi e due misure. Lo sguardo deformato delle élites politiche e dell’opinione pubblica sui problemi dell’ordine pubblico e della giustizia produce una sub-cultura funzionale agli interessi mafiosi. Eccone i capisaldi. Primo: i diritti costituzionali spettano in egual misura e nella stessa intensità ai criminali mafiosi quanto alle loro vittime. Lo Stato deve essere sostanzialmente neutrale. Quindi tutte le misure immaginate da La Torre, prima, e da Falcone e Borsellino poi, per stroncare le relazioni mafiose (carcere duro, sequestri e confische) sono perciò stesso illegittime. Secondo: i giornalisti e gli attivisti che si impegnano quotidianamente in inchieste e iniziative per denunciare i soprusi delle consorterie mafiose presenti in tutta Italia sono in errore, perché si ostinano a sottolineare le differenze profonde tra i reati mafiosi e quelli relativi ad altri ambiti della devianza. In definitiva, persone come, per esempio, Marco Omizzolo, Lirio Abbate e Paolo Borrometi sono sotto tutela o scorta perché sbagliano a capire, non perché denunciano la verità. Terzo: vedere mafia dappertutto, specialmente nell’economia, è un comodo alibi per non affrontare i nodi strutturali della crisi economica e non “fare le riforme”. Mettere limiti al contante, rafforzare i meccanismi di controllo dei flussi finanziari e di segnalazione delle operazioni sospette e - soprattutto - applicare efficacemente il codice degli appalti, danneggia lo sviluppo economico perché crea troppa burocrazia. Questi assunti sono tanto menzogneri quanto consolidati in una vera e propria ideologia, cui purtroppo anche le formazioni politiche del fu centrosinistra si vanno adeguando. Val la pena allora ricordare che non c’è proprio nulla di costituzionalmente dovuto nell’ammorbidimento delle misure antimafia. La Corte costituzionale ha stabilito decine di volte che la collettività ha il dovere di difendersi dagli attacchi violenti e sovvertitori; e che la Corte europea dei diritti di Strasburgo ha a più riprese stabilito che lo Stato ha il dovere di proteggere le vittime dei reati e di non permettere troppo facilmente la prescrizione dei reati. Occorre rammentare che Peppino Impastato, Mauro Rostagno e Giancarlo Siani (per fare solo alcuni esempi) non erano sprovveduti che prendevano per estorsioni e faide da traffico di stupefacenti meri furtarelli o liti per corna. E non si può dimenticare - mai - che le mafie sono un gigantesco potere economico-finanziario, che muove enormi affari e interessi, dall’America Latina all’Italia e all’Europa tutta. Ogni vittoria della mafia è un danno politico e sociale. E anche economico. Beni confiscati. “Nel Recovery ci sono 300 milioni, ma non si dice cosa se ne vuol fare” di Luisa Grion La Repubblica, 23 marzo 2021 Carlo Borgomeo (Fondazione con il Sud): “Recuperare gli immobili sequestrati è difficile, c’è bisogno di fondi. Il Piano chiarisca obiettivi e interventi”. Bisogna uscire dall’affanno, rafforzare il sistema di recupero dei beni confiscati alla mafia e usare in modo utile i fondi, 300 milioni, destinati allo scopo dal Recovery Plan. È l’obiettivo che si pone Carlo Borgomeo, presidente di Fondazione con il Sud, ente no profit nato dall’alleanza tra le fondazioni di origine bancaria e il mondo del terzo settore e del volontariato per promuovere lo sviluppo del Mezzogiorno. L’allarme arriva dai dati diffusi pochi giorni fa dal dossier di “Libera”: dei 36.600 beni immobili confiscati dal 1982 ad oggi, il 48% sono stati destinati dall’Agenzia nazionale per le finalità istituzionali e sociali, ma 5 su 10 sono rimasti fermi. Presidente partiamo da quei 300 milioni che il Recovery Plan, al momento, destina al recupero. Sono tanto o pochi? “Sono un punto di partenza sufficiente per fare qualcosa di sensato. Il problema è che il testo che accompagna la destinazione del fondo è generico all’inverosimile. Si parla giustamente di potenziare i presidi della legalità nell’ambito di una gestione trasparente. Ma non si dice a chi vanno questi fondi e per fare cosa. E questa è una mancanza grave che denuncia una scarsa attenzione verso la questione”. Ovvero? “Crediamo o no che il recupero dei beni confiscati possa essere una straordinaria opportunità di crescita per il Paese? Togliere la roba ai mafiosi è un colpo strategico, ma se poi non riesci a farci niente lanci un messaggio sbagliato. Il recupero non è fatto di avventure eroiche, di storytelling, è la possibilità di creare una economia sana e posti di lavoro in terre dove mancano. La legalità conviene”. Il recupero arranca perché la legge è superata? “No, la legge è straordinaria, è un modello per gli altri Paesi e ha raggiunto risultati importanti. Ma ora la dimensione del problema è tale che il quadro normativo ansima”. Quali sono i punti deboli? “Io ne vedo almeno tre. Il primo riguarda l’Agenzia nazionale: fa un lavoro eccezionale, ma si muove in un quadro normativo troppo stretto, le sue forze operative arrivano dai distacchi pubblici dove è difficile trovare le competenze industriali, finanziarie, immobiliari necessarie al recupero effettivo dei beni. Dovrebbe avere la possibilità di attingere a contratti di lavoro di diritto privato, mantenendo trasparenza e obiettivi no profit, certo. Altro punto debole é la gestione delle imprese confiscate: se è impossibile recuperarle vanno chiuse in tempi stretti”. Quando è impossibile recuperarle? “Quando sono totalmente connesse al sistema mafioso e non c’è nulla che possa essere salvato. In questi casi, fatta salva la tutela dei lavoratori, vanno chiuse evitando costi e perdite di tempo. Poi c’è la questione dei fondi”. Pochi soldi, torniamo all’inizio… “Basterebbe attingere al Fug, il Fondo unico di giustizia dove confluiscono i capitali e i titoli confiscati alla mafia. Oggi parte delle risorse va al bilancio dello Stato, parte si perde in mille rivoli: sarebbe importante che i capitali tornassero alla base e fossero investiti per il recupero dei beni strappati alla mafia. Altrimenti operare è difficile: l’Agenzia la scorsa estate ha messo al bando mille beni da affidare al terzo settore in base alla formulazione di progetti precisi, una scelta innovativa e importante. Ma il capitale messo sul tavolo era, in tutto, un milione: mille euro a bene. Non bastano nemmeno ad avviare una attività”. Nuovo quadro sanzionatorio globale Ue in tema di gravi violazioni e abusi dei diritti umani di Marco Letizi e Gianni Falco Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2021 Dallo scorso dicembre 2020, il regolamento (UE) 2020/1998, relativo a misure restrittive contro gravi violazioni e abusi dei diritti umani, impone agli operatori economici e finanziari europei di condurre, in via preliminare, uno screening più approfondito delle proprie controparti a livello globale. Il 9 dicembre 2019, in occasione del Consiglio affari esteri, l’alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza ha annunciato l’avvio dei lavori preparatori finalizzati all’istituzione di un regime sanzionatorio europeo per violazioni e abusi in materia di diritti umani. Nell’occasione, i ministri degli affari esteri hanno anticipato il nuovo piano d’azione europeo per i diritti umani e la democrazia (2020-2024), successivamente presentato il 25 marzo 2020 dall’alto rappresentante e dalla Commissione europea e approvato dal Consiglio dell’Unione europea il 18 novembre 2020. Il nuovo piano d’azione europeo individuerà le priorità d’intervento attorno a cinque linee d’azione: tutelare e responsabilizzare le persone; creare società resilienti, inclusive e democratiche; promuovere un sistema mondiale per i diritti umani e la democrazia; cogliere le opportunità offerte dalle nuove tecnologie e affrontare le relative sfide; conseguire risultati attraverso la collaborazione. Il piano d’azione stabilirà il quadro che consentirà alle delegazioni e agli uffici dell’Unione, nonché alle ambasciate degli Stati membri, di disporre misure operative specifiche a livello nazionale, regionale e multilaterale, tenendo conto delle circostanze e delle specificità locali. Il nuovo sistema sanzionatorio globale europeo in materia di diritti umani. Il 7 dicembre 2020, il Consiglio ha approvato, prima con la decisione (PESC) 2020/1999 e poi con il regolamento (UE) 2020/1998, il primo regime globale europeo di sanzioni in materia di violazioni e abusi dei diritti umani. Il regolamento (UE) 2020/1998 e la decisione (PESC) 2020/1999 istituiscono un quadro relativo a misure restrittive volte a contrastare gravi violazioni e abusi dei diritti umani nel mondo. Il regolamento (UE) all’articolo 2, paragrafo 1, definisce l’ambito applicativo che include quattro tipologie di violazioni: genocidio; crimini contro l’umanità; gravi violazioni dei seguenti diritti umani: tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti; riduzione in schiavitù; uccisioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie; sparizioni forzate; arresti o detenzioni arbitrari; altre violazioni dei diritti umani, purché abbiano carattere diffuso e sistematico, tra cui la tratta di esseri umani, la violenza sessuale e di genere, le violazioni della libertà di riunione e associazione, opinione ed espressione, religione o credo. La norma, al paragrafo 3, statuisce che i destinatari del nuovo regime sanzionatorio globale sono le “persone fisiche o giuridiche, le entità o gli organismi” che possono comprendere “soggetti statali”, “altri soggetti che esercitino un controllo o un’autorità effettivi su un territorio” e “altri soggetti non statali”. L’articolo 1, paragrafo 4, della decisione (PESC) 2020/1999, precisa che il Consiglio dell’Unione europea valuta l’inserimento degli attori non statali nell’elenco delle persone fisiche e giuridiche, delle entità e degli organismi di cui all’articolo 3 del regolamento (Allegato I al Regolamento), tenendo conto degli obiettivi di politica estera e di sicurezza comune previsti dall’articolo 21 del Trattato sull’Unione europea e della gravità e/o incidenza degli abusi. Nell’Allegato I al regolamento vengono inserite le persone fisiche o giuridiche, entità od organismi che, con coscienza e consapevolezza, e indipendentemente dalla loro nazionalità o dal luogo in cui sono commesse le violazioni: a) si sono resi responsabili delle violazioni indicate all’articolo 2, paragrafo 1; b) forniscono sostegno finanziario, tecnico o materiale per la commissione di dette violazioni o che sono altrimenti coinvolti in tali atti, anche pianificandoli, dirigendoli, ordinandoli, assistendoli, preparandoli, agevolandoli o incoraggiandoli; c) sono associati alle persone fisiche o giuridiche, entità od organismi di cui alle lettere a) e b). Nell’Allegato I devono essere indicati i motivi dell’inserimento e le informazioni necessarie per l’identificazione delle persone fisiche o giuridiche, entità od organismi inseriti, nonché le informazioni sufficienti alla loro identificazione. Il Consiglio, peraltro, comunica ai soggetti designati la decisione dell’inserimento, incluse le relative motivazioni; i soggetti inseriti possono produrre nuove prove sostanziali in base alle quali il Consiglio riesamina la posizione e comunica, a sua volta, le decisioni assunte alla parte. L’elenco dell’Allegato I viene riesaminato periodicamente, almeno una volta all’anno. I soggetti inseriti nell’Allegato I possono presentare ricorso alla Corte di giustizia dell’Unione europea avverso i provvedimenti sanzionatori. Il quadro globale sanzionatorio adottato dall’Unione europea include: il divieto di ingresso o il transito nel territorio dell’Unione dei soggetti inseriti nell’Allegato I al regolamento; il congelamento di fondi e risorse economiche; il divieto per gli operatori economici e finanziari europei di mettere fondi e altre risorse economiche a disposizione dei soggetti parimenti inseriti nel richiamato Allegato I. L’articolo 3 del regolamento prevede il congelamento di tutti i fondi e di tutte le risorse economiche appartenenti a, posseduti, detenuti o controllati dai soggetti indicati nell’Allegato I al regolamento. Il congelamento deve essere inteso come il divieto, a qualsiasi titolo, di disporre delle risorse economiche in precedenza nella disponibilità dei soggetti destinatari delle restrizioni. Con riferimento ai fondi, intesi come attività e benefici finanziari di qualsiasi natura, il congelamento prevede il divieto di movimentazione, trasferimento, modifica, utilizzo o gestione dei fondi o di accesso a essi così da modificarne il volume, l’importo, la collocazione, la proprietà, il possesso, la natura, la destinazione o qualsiasi altro cambiamento che consente l’uso dei fondi, compresa la gestione di portafoglio. Il regolamento autorizza le autorità competenti degli Stati membri di svincolare, in particolari situazioni, taluni fondi o risorse economiche congelati come nel caso della “deroga umanitaria”, prevista dall’articolo 5, che consente alle competenti autorità europee di sbloccare determinati fondi o risorse per fornire aiuti umanitari (assistenza medica o alimentare, trasferimento di operatori umanitari, evacuazione della popolazione ecc.). Si ritiene che il congelamento dei fondi e delle risorse economiche, ai sensi del regolamento (UE) 2020/1998, debba fare riferimento alla direttiva 2014/42/UE, relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e proventi da reato nell’Unione Europea e al più recente regolamento (UE) 2017/1805, relativo al reciproco riconoscimento dei provvedimenti di congelamento e di confisca. In aggiunta alle misure restrittive in precedenza esaminate, il legislatore europeo, all’articolo 16, rimanda agli Stati membri la competenza di stabilire sanzioni - effettive, proporzionate e dissuasive - applicabili, a livello nazionale, alle violazioni delle disposizioni previste nel regolamento (UE) 2020/1998. Il regolamento impone alla Commissione e agli Stati membri di scambiarsi tutte le informazioni rispetto all’adozione di misure restrittive in materia di gravi violazioni e abusi di diritti umani e, in particolare, di quelle riguardanti il congelamento delle risorse economiche o dei fondi, l’eventuale svincolo di taluni fondi o risorse economiche congelati ed eventuali criticità afferenti alla violazione e applicazione delle norme, alle sentenze degli organi giurisdizionali nazionali, nonché tutte le informazioni che possano pregiudicare l’effettiva attuazione del regolamento. L’articolo 19 stabilisce, infine, che il regolamento si applica: nel territorio dell’Unione, compreso lo spazio aereo; a bordo di tutti gli aeromobili o di tutti i natanti sotto la giurisdizione di uno Stato membro; a qualsiasi persona fisica cittadina di uno Stato membro che si trovi all’interno o all’esterno del territorio dell’Unione; a qualsiasi persona giuridica, entità od organismo che si trovi all’interno o all’esterno del territorio dell’Unione e sia registrata o costituita conformemente al diritto di uno Stato membro; a qualsiasi persona giuridica, entità od organismo relativamente ad attività economiche esercitate, interamente o parzialmente, all’interno dell’Unione. Punti di forza e di debolezza del nuovo sistema sanzionatorio globale europeo. Analizziamo ora i punti di forza e di debolezza del nuovo sistema globale sanzionatorio europeo in tema di gravi violazioni e abusi dei diritti umani. Anzitutto, un limite è stato rilevato con riferimento alla designazione dei soggetti da inserire nell’Allegato I per la quale viene richiesto un significativo livello di consenso; invero, in ambito PESC, il Consiglio può procedere solo all’unanimità (salvo rare eccezioni). Al riguardo, la proposta dei Paesi Bassi di adottare il voto a maggioranza qualificata è stata respinta. Un ulteriore limite è stato rilevato sul piano sostanziale, in quanto tra le violazioni sanzionabili non figura la corruzione, né è prevista la partecipazione delle organizzazioni di società civile che, diversamente da quanto avviene nel modello statunitense, non possono raccomandare l’adozione di sanzioni. Con riferimento allo scambio delle informazioni tra Commissione e Stati membri, sarebbe auspicabile che venga costituita una piattaforma unica europea sulla stessa stregua di quelle istituite nel comparto antiriciclaggio e di scambio automatico obbligatorio di informazioni in ambito fiscale. A tal proposito, nell’articolo “Interconnessioni tra disciplina fiscale e normativa antiriciclaggio in ambito fiscale e il dispositivo europeo sulla condivisione delle informazioni “, pubblicato su Il Sole24ore Norme e Tributi plus del 22 febbraio 2021, al fine di un’efficace operatività dello scambio di informazioni a livello unionale, avevamo auspicato che potesse realizzarsi una piattaforma unica europea, pensata come single point access, nella quale potessero essere ospitati tutti i databases centrali dei diversi comparti tra di loro interoperabili. In tal senso, tale piattaforma unica europea potrebbe contenere anche le informazioni in materia di gravi violazioni e abusi di diritti umani. Tra i punti di forza del nuovo regime globale sanzionatorio si evidenzia il superamento dei limiti dell’attuale sistema, imperniato sull’irrogazione di sanzioni connesse a determinati contesti geografici o specifici conflitti, che impongono alle istituzioni europee di stabilire, di volta in volta, un quadro giuridico ad hoc per ogni singolo caso, limitandone la capacità di reazione rispetto a nuove crisi o violazioni dei diritti umani. Invero, il nuovo regime prescinde dal legame di appartenenza tra l’autore di una violazione e il suo paese d’origine, consentendo alle istituzioni europee di irrogare le sanzioni, evitando di innescare conflitti politico- economici su larga scala con i paesi terzi. Inoltre, il nuovo regime sanzionatorio europeo intende responsabilizzare anche gli operatori economici e finanziari europei, che dovranno, in via preliminare, condurre uno screening più approfondito delle proprie controparti a livello globale. Il nuovo sistema - che introduce importanti novità con particolare riferimento ai soggetti destinatari delle restrizioni, alle violazioni dei diritti umani sanzionabili e alle tipologie dei provvedimenti che possono essere imposte - integra l’attuale sistema sanzionatorio per così dire “georeferenziato” e gli altri strumenti unionali di dialogo politico, di condizionalità nei trattati commerciali e di cooperazione allo sviluppo, sviluppati anche nell’ambito della promozione dei diritti umani. In definitiva, il nuovo regime supera l’approccio frammentario dell’attuale sistema e ha le potenzialità per conferire maggiore flessibilità, efficacia e rapidità alla reazione europea rispetto a casi di gravi violazioni dei diritti umani, contribuendo a sviluppare il diritto europeo e internazionale e a rafforzare il ruolo di maggiore incisività e autonomia, a livello globale, dell’Unione, anche in tema di diritti umani, così come già accaduto per la lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo. Nuovi obblighi in materia di diritti umani nell’Unione. Gli operatori economici e finanziari europei, ma anche gli attori statali, dovranno condurre, in via preliminare, uno screening di controparte più approfondito, a livello globale, per evitare di poter essere coinvolti nelle misure restrittive previste dal regolamento. Al di là della valutazione del profilo soggettivo della specifica condotta - che per essere integrata presuppone la coscienza e volontà in capo al soggetto di commettere la violazione - imprenditori, professionisti e consulenti dovranno comunque evitare di fornire sostegno finanziario, tecnico o materiale ai soggetti attivi delle violazioni previste nel regolamento o essere altrimenti coinvolti anche tramite la prestazione di attività di tipo consulenziale, in favore dei soggetti responsabili, volte alla pianificazione, direzione, assistenza, coordinamento o ancora agevolare, incoraggiare, preparare tali illecite condotte. In tal senso, appare di estrema importanza una preventiva attività di due diligence sulle controparti. Ulteriori obblighi in materia di diritti umani in Italia: la dichiarazione individuale di carattere non finanziario. Oltre agli obblighi imposti dal regolamento (UE) 2020/1998 e dalla decisione (PESC) 2020/1999, in Italia esistono ulteriori obblighi in capo agli “enti di interesse pubblico” di rendere pubbliche le informazioni sulle politiche adottate e i risultati ottenuti in materia ambientale e sociale, nonché quelle attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani e alla lotta contro la corruzione, sia attiva che passiva. È quanto prevede il D.Lgs. 30 dicembre 2016, n. 254 che ha recepito la direttiva 2014/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2014, recante modifica alla Direttiva 2013/34/UE per quanto riguarda la comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità da parte di talune imprese e di taluni gruppi di grandi dimensioni. Il D.Lgs. n. 254/16 impone agli enti di interesse pubblico - indicati all’articolo 16, comma 1, del D.Lgs. n. 39/10 che hanno avuto “in media, durante l’esercizio finanziario un numero di dipendenti superiore a 500 e il cui bilancio consolidato soddisfi almeno uno dei seguenti criteri: 1) totale dell’attivo dello stato patrimoniale superiore a 20.000.000 di euro; 2) totale dei ricavi netti delle vendite e delle prestazioni superiore a 40.000.000 di euro” - di redigere per ogni esercizio finanziario una “dichiarazione individuale di carattere non finanziario”. Le imprese che rientrano nel campo di applicazione del D.Lgs. n. 254/16 devono fornire informazioni relative al proprio modello aziendale di gestione e organizzazione, alle politiche adottate in materia socio- ambientale, afferenti al personale, al rispetto dei diritti umani e alla lotta contro la corruzione, ai principali rischi ad esse correlati, nonché agli indicatori di performance rappresentativi dei risultati (key performance indicators). La dichiarazione individuale di carattere non finanziario, indipendentemente dagli standards adottati, deve contenere almeno le seguenti informazioni: l’utilizzo di risorse energetiche, distinguendo fra quelle prodotte da fonti rinnovabili e non rinnovabili e l’impiego di risorse idriche; le emissioni di gas a effetto serra e le emissioni inquinanti in atmosfera; l’impatto, ove possibile sulla base di ipotesi o scenari realistici anche a medio termine, sull’ambiente nonché sulla salute e la sicurezza, associato ai fattori di rischio o ad altri rilevanti fattori di rischio ambientale e sanitario; aspetti sociali e attinenti alla gestione del personale, incluse le azioni poste in essere per garantire la parità di genere, le misure volte ad attuare le convenzioni di organizzazioni internazionali e sovranazionali in materia e le modalità con cui è realizzato il dialogo con le parti sociali; rispetto dei diritti umani, le misure adottate per prevenirne le violazioni, nonché le azioni poste in essere per impedire atteggiamenti e azioni comunque discriminatori; lotta contro la corruzione sia attiva che passiva, con indicazione degli strumenti a tal fine adottati. Trattandosi di standards minimi di reporting, viene lasciata alle imprese la libertà di estendere eventualmente il perimetro di rendicontazione. Il D.Lgs. n. 254/16 prevede la possibilità per tutte le altre imprese non obbligate di presentare comunque una dichiarazione di carattere non finanziario, in forma volontaria, prevedendo per le PMI forme semplificate. Alle imprese che non applicano politiche su uno o più degli aspetti per cui è prevista la divulgazione di queste informazioni, la direttiva chiede di esplicitare le motivazioni di questa scelta secondo il principio del “comply or explain”. La dichiarazione contenente le informazioni di carattere non finanziario, in vigore dal 1 gennaio 2017, è oggetto di revisione indipendente e può essere contenuta nella relazione sulla gestione oppure costituire una relazione distinta contrassegnata dal riferimento al D.Lgs. n. 254/16. Il legislatore nazionale attribuisce alla Consob il potere di stabilire con un apposito regolamento: le modalità di trasmissione diretta della dichiarazione di carattere non finanziario alla stessa Consob; le eventuali modalità di pubblicazione della dichiarazione di carattere non finanziario ulteriori rispetto al deposito presso il registro delle imprese; le modalità e i termini per il controllo della Consob e i principi di comportamento e le modalità di svolgimento dell’incarico di verifica della conformità delle informazioni da parte dei revisori. Dall’esame del documento di consultazione di Consob del 21 luglio 2017, in tema di disposizioni attuative del D.Lgs. n. 254/16, si deducono i seguenti elementi: la dichiarazione non finanziaria, ancorché possa assimilarsi a una documentazione pre-assembleare, non è soggetta al voto dell’assemblea; il sistema di competenze e controlli delineato nel decreto risulta analogo alle regole e ai principi generali che disciplinano la ripartizione delle attribuzioni tra l’organo di amministrazione (art. 2381bis c.c.) e l’organo di controllo interno (art. 2403 c.c. e art. 149 del TUF per le società con azioni quotate). Il decreto specifica come il rispetto degli obblighi previsti dal decreto spetti agli amministratori, i quali, tramite delibera, approvano la dichiarazione non finanziaria, mentre il collegio sindacale vigila sull’osservanza delle disposizioni, nell’ambito delle funzioni a esso attribuite dall’ordinamento e ne riferisce nella relazione annuale all’assemblea. Importanza dell’attività di due diligence. L’integrazione delle informazioni di carattere finanziario - come previsto dalla direttiva 2013/34/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, relativa ai bilanci d’esercizio, ai bilanci consolidati e alle relative relazioni di talune tipologie di imprese - con nuovi standards minimi di reporting in materia ambientale, sociale e di governance (ESG), evidenzia l’importanza attribuita dall’Unione europea all’introduzione e al rafforzamento di comportamenti virtuosi nelle imprese di grandi dimensioni. L’obiettivo del reporting ESG introdotto dal legislatore europeo è quello di incrementare: il livello di trasparenza nella comunicazione di informazioni di carattere non finanziario; la fiducia degli investitori (soprattutto istituzionali come i fondi pensione, le banche, le assicurazioni e le fondazioni, maggiormente orientati verso investimenti poco rischiosi di medio- lungo periodo, per i quali la valutazione socio- ambientale rappresenta uno strumento di gestione del rischio, sia economico-finanziario che reputazionale) e degli stakeholders; il livello qualitativo dell’analisi dei rischi e delle opportunità di investimento e la valutazione della capacità delle imprese di creare valore nel medio-lungo periodo. Proprio in tema di valutazione dei rischi, il decreto statuisce che la dichiarazione di carattere non finanziario deve descrivere, tra l’altro, “i principali rischi, generati o subiti, connessi alle più volte richiamate tematiche e che derivano dalle attività dell’impresa, dai suoi prodotti, servizi o rapporti commerciali, incluse, ove rilevanti, le catene di fornitura e subappalto”. L’attenzione del legislatore europeo e nazionale dedicata alla due diligence adottata dall’impresa in tema di supply chain - al fine di individuare, prevenire e mitigare le ripercussioni negative esistenti e potenziali - è un elemento estremamente interessante affrontato dal decreto, in quanto estende, seppur indirettamente, l’assessment all’intero indotto e, attraverso le iniziative attuate dall’impresa di grandi dimensioni, può avere l’effetto di sollecitare le imprese fornitrici, che spesso sono PMI, ad adottare standards socio- ambientali più elevati. La necessità di ricorrere alla consulenza di un esperto indipendente, che supporti l’organo amministrativo dell’impresa di grandi dimensioni nella valutazione della correttezza e completezza della dichiarazione di carattere non finanziario, è stigmatizzato non solo dal legislatore europeo e nazionale ma anche dal principio 11 dei “Principi Guida su Imprese e Diritti Umani”, in attuazione del Quadro dell’ONU “Proteggere, rispettare, rimediare”, in tema di responsabilità dell’impresa di rispettare i diritti umani. Proprio in tema di violazione dei diritti umani, il processo di due diligence deve essere esteso alla valutazione del cosiddetto risk of diversion ovvero di come i prodotti aziendali possano essere utilizzati, in violazione dei diritti umani, da un soggetto terzo o, in generale, dai fruitori finali. In Italia, la valutazione del rischio reputazionale, operativo e di compliance sta evidenziando sempre più la centralità della cosiddetta due diligence sulle controparti. La necessità di costituire per le imprese di grandi dimensioni un efficace presidio del rischio correlato alla gestione delle proprie controparti trova un significativo riscontro anche negli standards ISO. Si pensi, ad esempio, alla ISO 37001 “Anti-bribery management system”, che individua nella due diligence delle controparti un ormai irrinunciabile processo di gestione del rischio, ai fini della prevenzione della corruzione; ancora, la ISO 45001 “Occupational health and safety management systems” si focalizza nella gestione dei rapporti con i fornitori e, in particolare, nelle attività affidate in outsourcing. In un contesto globale sempre più dinamico, caratterizzato da un significativo numero di interazioni con interlocutori diversi, sono sempre più numerosi i processi aziendali che necessitano di una scrupolosa attività di risk management derivante da controparti, con elementi di rischio che variano in ragione del settore di operatività, delle caratteristiche e del funzionamento dell’organizzazione. La Cassazione si pronuncia sul “nuovo” reato di abuso d’ufficio di Fabrizio Ventimiglia e Giorgia Conconi * Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2021 Cass. Pen., Sez. VI, 1° marzo 2021, 8057. Con la sentenza in commento la Suprema Corte individua i casi in cui può essere integrato il reato di abuso d’ufficio, con riferimento alle modifiche introdotte dal d.l. 76/2020. Nello specifico, la Corte ha chiarito che il reato, dopo l’intervento riformatore del legislatore, è configurabile non solo in presenza di una trasgressione avente “ad oggetto una specifica regola di condotta connessa all’esercizio di un potere già in origine previsto da una norma come del tutto vincolato”, ma anche in ipotesi di violazione “di una regola di condotta collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto dalla legge come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto in cui si sostanza l’abuso d’ufficio”. Questa in sintesi la vicenda processuale. La Corte di appello di Cagliari confermava la pronuncia di primo grado che aveva condannato l’imputato per il reato di cui all’art. 323 c.p., avendo egli, in qualità di responsabile della polizia municipale, affidato una procedura diretta e senza determinazione della giunta municipale ad un ente, procurando a questo un ingiusto vantaggio patrimoniale e un danno alla pubblica amministrazione. Contro l’impugnata sentenza l’imputato deduce due motivi di ricorso, ritenendo in primo luogo che non sarebbe stata violata la disciplina in materia di appalti, in quanto trattavasi di affidamento c.d. “sotto soglia”. In secondo luogo, secondo l’assunto difensivo, la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto integrato il reato in contestazione, nonostante non fosse emersa la prova del dolo di favorire l’ente e di danneggiare la pubblica amministrazione. La Cassazione rigetta il ricorso, affermando, in riferimento al primo motivo, che il fatto contestato è previsto dalla legge come reato anche in seguito all’introduzione della disciplina prevista dal d.l. 76/2020, poiché, sebbene il delitto sia configurabile, in vista di tali modifiche, solo nei casi in cui “la violazione da parte dell’agente pubblico abbia avuto ad oggetto specifiche regole di condotta e non anche regole di carattere generale”, nel caso di specie il ricorrente si rendeva responsabile della violazione di una regola di condotta che può essere ritenuta specifica, prevista dal codice degli appalti. Detta disposizione prevede, infatti, i criteri tecnici che vincolano la stazione appaltante all’adozione di una scelta parametrata sulla base del risultato dell’accertamento, effettuato dal pubblico agente, in riferimento alla soglia di valore dell’appalto, non permettendo al funzionario di operare una scelta discrezionale nel caso in cui tale soglia sia stata superata. I Giudici di legittimità hanno ritenuto corretta la ricostruzione della Corte d’appello, secondo cui l’imputato aveva volontariamente sottostimato il valore dell’appalto di servizi al solo scopo di utilizzare un metodo di affidamento diretto, evitando di utilizzare quello del bando di gara, non osservando, pertanto, le prescrizioni di legge. Anche in relazione al secondo motivo, la Suprema Corte dichiara l’infondatezza del ricorso, affermando che la Corte distrettuale aveva correttamente dimostrato la prova della ‘doppia ingiustizia’ nel reato di abuso d’ufficio, per la quale, secondo la Cassazione, è sufficiente la lapalissiana illegittimità dell’atto che permette di desumere l’intento dell’agente di conseguire un vantaggio patrimoniale o cagionare un danno. Pertanto, precisa la Corte, il nuovo delitto di abuso d’ufficio, deve ritenersi configurabile non solo nei casi in cui venga violata una specifica regola di condotta che non preveda alcuna discrezionalità da parte del soggetto agente, ma anche se non venga osservata una disposizione che vincola un potere, in altri casi discrezionale, in presenza di determinate condizioni che impongono una particolare modalità di adozione dell’atto da parte del pubblico agente. Modena. La famiglia di un detenuto morto durante la rivolta si oppone all’archiviazione 24emilia.com, 23 marzo 2021 I familiari di Chouchane Hafedh, uno dei detenuti morti durante la rivolta scoppiata nel marzo del 2020 dentro la casa circondariale modenese Sant’Anna, si sono opposti alla richiesta di archiviazione presentata dalla procura di Modena sulla vicenda. Secondo la magistratura modenese, infatti, otto dei nove decessi (tra cui appunto anche quello di Hafedh) sarebbero sopraggiunti per overdose di metadone e benzodiazepine dopo che i detenuti avevano saccheggiato la farmacia del carcere emiliano. Per l’avvocato Luca Sebastiani, che assiste la famiglia di Hafedh, “è un atto complesso, frutto di un lavoro lungo e copioso dove abbiamo avuto modo di affrontare ogni singolo aspetto che la procura non ha considerato. Siamo fiduciosi che le nostre perplessità, che sono tante e anche molto rilevanti, possano essere considerate dal giudice per le indagini preliminari”. Il legale, che comunque ha spiegato di condividere le risultanze investigative sulla causa della morte individuata dai pm modenesi, ci sono però altre questioni: “Oltre al tema della responsabilità omissiva, che andava esplorato con maggiore dovizia come avviene ogni giorno quando tragedie come queste accadono in posti di lavoro, in ospedali o in altre strutture, vi è un tema molto rilevante relativo al ritardo nei soccorsi, così come segnalato dal nostro consulente medico legale specializzato proprio in tossicologia”. Parma. Covid al 41bis, quattro detenuti positivi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 marzo 2021 La notizia dei detenuti positivi al Covid al 41bis di Parma è stata confermata dal garante locale dei detenuti Roberto Cavalieri. Covid al 41bis di Parma. Per ora risultano 4 detenuti reclusi al carcere duro ad essere positivi, di cui uno è sintomatico. A confermare a Il Dubbio la vicenda è il garante locale dei detenuti Roberto Cavalieri. Risultano infetti almeno 16 agenti dei Gom, il gruppo operativo mobile specializzato al servizio di custodia dei detenuti sottoposti al regime differenziato. C’è enorme preoccupazione, anche perché il 41bis del carcere parmense è pieno di persone vecchie e con pluri patologie. Ricordiamo che fino a poco tempo fa era recluso Raffaele Cutolo, gravemente malato, poi deceduto. Proprio a lui, nel mese di maggio, il magistrato di sorveglianza gli rigettò l’istanza per la detenzione domiciliare. Tra le motivazioni del rigetto, anche la mancanza di rischio contagio. Al 41bis di Opera c’è scappato il morto - In realtà, i fatti dimostrano che anche il 41bis non è immune dal virus. Lo abbiamo a novembre scorso con i casi di Covid nei 41bis del carcere milanese di Opera. Ricordiamo che c’è scappato anche il morto. A dicembre è morto 78enne Salvatore Genovese, detenuto al 41bis a Opera e ricoverato in ospedale per complicazioni dovuto dal Covid 19. Era cardiopatico, già operato di tumore e con i polmoni malandati. Come ci raccontò il suo avvocato Paolo Di Fresco, circa 10 giorni prima che ha contratto il virus, si è visto respingere l’istanza per la detenzione domiciliare. Per il giudice stava al sicuro, curato e non esposto al contagio visto il regime di isolamento. I fatti hanno smentito tutto ciò. Ma com’è possibile che il Covid entri al 41bis? - Lo aveva spiegato molto bene il giudice di sorveglianza di Sassari Riccardo De Vito, quando in un provvedimento lungo otto pagine aveva disposto la detenzione domiciliare per Pasquale Zagaria, malato di tumore al 41bis, sottolineando tra le altre cose che “sotto questo profilo occorre rilevare che benché il detenuto sia sottoposto a regime differenziato e dunque allocato in cella singola, ben potrebbe essere esposto a contagio in tutti i casi di contatto con personale della polizia penitenziaria e degli staff civili che ogni giorno entrano ed escono dal carcere”. Al 41bis di Parma 49 detenuti si 62 sono a rischio - Ma ora tocca ai 41bis del carcere di Parma, dove la tensione è massima. La situazione sanitaria, infatti, è complessa perché su 62 detenuti al 41bis ben 49 sono da considerare a rischio per l’età e le numerose patologie (neoplasie, trapianti d’organo, cardiopatie severe e diabete). La popolazione detenuta a Parma si caratterizza anche per altri dati importanti che connotano la struttura come complessa e critica: 36 detenuti sono costretti all’uso della carrozzina per deambulare e 50 sono non autosufficienti. Per ciascun detenuto recluso a Parma sono state diagnosticate in media dalle 4 o alle 5 patologie. L’incidenza maggiore è al carcere duro, dove oramai Covid al 41bis di Parma è riuscito a varcare le porte blindate. Reggio Emilia. Carcere, dieci detenuti e dieci agenti positivi al Covid reggiosera.it, 23 marzo 2021 Per altre venti persone si attende l’esito del tampone: chiusi sei reparti su otto. La situazione epidemiologica nel carcere di Reggio Emilia, oggetto nei giorni scorsi di una denuncia dei sindacati, registra oggi 10 detenuti positivi, di cui cinque con sintomi leggeri. Per altre 20 persone si attende l’esito dei tamponi. I contagiati tra gli agenti penitenziari sono invece 10 (di cui due ricoverati nel reparto infettivi), a cui si aggiungono 24 operatori in quarantena fiduciaria. È l’aggiornamento fornito ieri in Consiglio comunale dall’assessore al Welfare Daniele Marchi. “Dal 13 marzo c’è stato un positivo tra i detenuti e ora la situazione è piu’ complicata rispetto ad un mese fa, ma è nel complesso gestita, perché il focolaio appare contenuto”, spiega Marchi. È chiaro che “siccome il carcere è una comunita’ chiusa, la situazione va monitorata con attenzione”, aggiunge l’assessore. In via precauzionale sono stati chiusi tutti i reparti (sei) tranne due, che hanno sede in edifici separati. Solo in questi, quindi, i detenuti possono uscire dalle celle. A tutti sono comunque garantiti i colloqui con avvocati e parenti, che si svolgono in videoconferenza. Tra oggi e domani, infine, dovrebbe riprendere la campagna di vaccinazione per gli operatori. Accelerarla è l’auspicio del Consiglio comunale, che ha votato all’unanimita’ un ordine del giorno urgente proposto da Cinzia Ruozzi (Pd). Una riunione della commissione speciale Covid sul carcere, informa la presidente Palmina Perri, sara’ convocata “a brevissimo”. Napoli. Le detenute di Pozzuoli e i diritti negati delle madri in carcere di Paola Cisternas Navarro e Manuela Mascolo napolimonitor.it, 23 marzo 2021 L’attività di sportello per i diritti che come Antigone Campania portiamo avanti nel carcere femminile di Pozzuoli è considerata attività “fondamentale”, e per questo continua nonostante le restrizioni della zona rossa. In queste ultime settimane abbiamo incontrato diverse ragazze al primo ingresso in carcere. Se già normalmente tra i detenuti si riscontrano disturbi psicologici che possono essere legati all’arresto, all’imprigionamento, al rimorso per il delitto commesso, alla previsione della condanna o all’evoluzione di disturbi preesistenti, in questa fase assistiamo ancora più frequentemente allo svilupparsi di forme di depressione che sembrano scaturire non solo dalla situazione di detenzione, ma anche dalle ulteriori restrizioni dovute alla pandemia, come la sospensione di alcune attività e prima tra tutte l’interruzione dei colloqui con i familiari. Da questo punto di vista, rispetto ai padri detenuti, le detenute madri sembrano vivere con maggiore difficoltà il distacco dai figli, che riescono a sentire o vedere solo saltuariamente. Ansia da separazione, ansia reattiva da perdita e crisi di identità sono le conseguenze più immediate. All’inizio della carcerazione, in particolare, i disturbi d’ansia possono manifestarsi come crisi; se poi il disadattamento persiste, possono sopraggiungere attacchi di panico e claustrofobia, spesso aggravate dal terrore di essere allontanate definitivamente dai propri figli. Molte tra le centottantuno persone attualmente detenute a Pozzuoli sono madri private della responsabilità genitoriale, in conseguenza di una pena accessoria o di una decisione del tribunale dei minori. Alcuni casi risultano più complicati, soprattutto quando queste madri sono straniere e hanno difficoltà a comprendere quanto scritto sui provvedimenti che le riguardano. P. è una donna di origini nigeriane e la sua è una delle tante storie di maternità negata per chi fa ingresso in carcere. Madre di un bambino che rappresenta il suo unico legame col mondo esterno e che non vede da almeno due anni, vede notificarsi un provvedimento dal tribunale dei minori e si rivolge a noi perché non ne comprende il contenuto. Quando la incontriamo, P. stringe tra le mani la decadenza della responsabilità genitoriale, inoppugnabile perché il termine per porre reclamo, di appena dieci giorni, è già decorso. In seguito alla condanna di sei anni di reclusione per sua madre, e alla sospensione della responsabilità genitoriale, suo figlio T. è stato affidato temporaneamente a una coppia di coniugi, che ne hanno ottenuto ora l’affido definitivo. P. non riesce a rassegnarsi a un provvedimento che segna la fine del rapporto con suo figlio. Se è vero che - non avendo familiari in Italia - aveva prestato consenso all’affido temporaneo di T., pensava di poter continuare a sentirlo e a vederlo durante i colloqui e i permessi premio, fino al momento in cui, una volta fuori, sarebbero potuti tornare insieme. Gli affidatari hanno iniziato invece a farle sentire sempre meno la voce di T. al telefono, a non portare il piccolo ai colloqui, a non lasciarglielo vedere durante i permessi. Nonostante gli anni di distacco imposti dagli affidatari, dal tribunale e dal sistema carcerario, T. aveva espresso la richiesta di conservare il rapporto con sua madre, ma ora le parole del provvedimento di decadenza mettono fine a ogni speranza di ricongiungimento. Non sarà P. a poter spiegare, un giorno, a suo figlio, i motivi della sua lontananza. Al momento delle sue dimissioni dal carcere non ci sarà lui ad attenderla, ma un provvedimento di espulsione dal paese. Nel provare a consolare P., le sue compagne di le spiegano che è questo il destino delle madri in carcere, in particolar modo di quelle migranti. La storia è comune anche a E., nigeriana, che in carcere ci ha già trascorso dieci anni su ventuno totali da scontare. Suo figlio, ormai maggiorenne, è stato adottato, lei ha prestato il suo consenso perché gli affidatari gli avrebbero garantito un buon futuro e gli avrebbero permesso di restare in contatto con lei. I due si vedono durante i colloqui e talvolta a riescono a sentirsi, ma per il suo ventunesimo compleanno E. aveva sperato di fargli una sorpresa: sarebbe uscita in permesso e sarebbe andata a trovarlo. La sua speranza di sentirsi madre per qualche giorno è stata però disattesa: E. è condannata per un reato ostativo e nonostante la liberazione anticipata non ha trascorso in carcere il tempo considerato necessario dalla legge per accedere al beneficio. Sebbene i calcoli del magistrato non tornino né a lei né a noi, il termine per fare reclamo è, ancora una volta, già decorso, ed E. deve rinunciare a vedere suo figlio e a poter festeggiare con lui il suo compleanno. Sul piano civilistico, la privazione della responsabilità genitoriale deriva dalla fisiologica assenza del genitore recluso, che raramente riesce ad ottemperare ai suoi obblighi. La possibilità di esercitare i suoi diritti-doveri è confinata infatti nei rari colloqui e nelle conversazioni telefoniche, tenuti per lo più in presenza di terzi e in un ambiente inadeguato (questo perché gli spazi destinati all’affettività sono inesistenti nella maggior parte degli istituti di pena, e i luoghi in cui si svolge la vita detentiva costituiscono un trauma, in primis per il minore). Tuttavia, l’azione educativa di genitori consapevoli passa attraverso l’attenzione e la sollecitudine con la quale questi si occupano dei loro figli, e sotto quest’aspetto la relazione madre-figlio va preservata. Un approccio che propone la totale deresponsabilizzazione delle persone detenute andrebbe sostituito quindi con un altro basato sull’assunzione di responsabilità e la formazione all’interno del nucleo familiare. La dimensione affettiva connessa alla maternità dovrebbe essere considerata elemento di trattamento e punto di partenza nel processo di risocializzazione all’interno del carcere. La sua assenza, al contrario, non può che produrre una destrutturazione del contesto familiare. La possibilità, per le madri detenute, di continuare ad esercitare la responsabilità genitoriale prendendo decisioni centrali per la vita e la cura della loro prole, dovrebbe essere inoltre fondamentale alla luce del principio di rieducazione della pena. La negazione del rapporto familiare, invece, in virtù di un automatismo legislativo, risponde a una logica meramente retributiva della stessa, oltre a costituire la violazione di un diritto garantito indistintamente ai liberi e ai ristretti. Ogni qualvolta in cui lo Stato non predispone gli strumenti che consentono al detenuto di continuare a essere genitore, si verifica una violazione di questo diritto. Dal momento, in sostanza, che nel nostro ordinamento la tutela del minore ha un ruolo prioritario tanto quanto la funzione rieducativa della pena, occorre individuare strumenti altri per preservare il rapporto madre-figlio e incrementare l’utilizzo di quelli esistenti. Le misure alternative alla detenzione appositamente introdotte per le madri in carcere ricevono infatti allo stato una scarsissima applicazione, a causa dei requisiti particolarmente rigorosi previsti, e i percorsi di accompagnamento alla genitorialità in carcere sono attivi soltanto in pochi istituti. Percorsi virtuosi di questo genere si avvalgono del lavoro di psicologi che seguono il genitore detenuto, creando un ponte con il figlio, la famiglia e con i servizi territoriali, per sostenere la relazione genitoriale anche attraverso il supporto durante le visite. Alla stessa logica risponde l’intento di creare spazi destinati all’interazione tra genitori e figli diversi da quelli in cui si tengono i colloqui ordinari. I fatti (e i dati), tuttavia, ci dicono che l’attenzione dell’istituzione carceraria rispetto a queste tematiche così delicate è ancora minima. Bari. Nel carcere si potrà celebrare il matrimonio civile di Gennaro Totorizzo La Repubblica, 23 marzo 2021 Arriva lo sportello comunale dei servizi demografici. Approvato lo schema di protocollo d’intesa tra Comune e Casa circondariale: i detenuti potranno ottenere anche certificati, carte di identità, atti di riconoscimento di paternità. Uno sportello per i servizi demografici nel carcere di Bari: i detenuti potranno ottenere anche certificati, carte di identità, atti di riconoscimento di paternità. E si potrà pure celebrare il matrimonio. La giunta comunale ha approvato lo schema di protocollo d’intesa con la casa circondariale di Bari, in corso Alcide De Gasperi, per l’apertura dello sportello nella casa circondariale. “Il Comune di Bari, l’ufficio del garante regionale e la casa circondariale di Bari, nel corso dell’ultimo triennio, hanno intrapreso una serie di interlocuzioni finalizzate a favorire l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile delle persone private della libertà personale - raccontano dal Comune - è emersa proprio la necessità di assicurare un’adeguata e tempestiva fruizione dei servizi comunali di anagrafe e di stato civile”. Lo sportello, in particolare, sarà attivo a cadenza periodica, alla presenza di un ufficiale di anagrafe o di stato civile incaricato. La postazione di lavoro, in un ufficio messo a disposizione dalla casa circondariale, sarà collegata alla rete comunale per l’accesso ai Sistema informativo settoriale della popolazione e alla banca dati anagrafica. “Crediamo che portare all’interno della Casa circondariale i servizi anagrafici, come pure i riti civili tra cui il matrimonio, sia un modo per agevolare la vita di tante famiglie che hanno un proprio congiunto in stato di detenzione e, così facendo, portare l’istituzione in un luogo deputato, oltre che all’applicazione della pena, anche e soprattutto alla reintegrazione sociale dei detenuti”, ha spiegato il vicesindaco e assessore comunale ai Servizi demografici Eugenio Di Sciascio. “Sono molto contenta di questa opportunità, che rappresenta un’esperienza attualmente attiva solo in pochissimi altri istituti italiani - aggiunge Valeria Pirè, direttrice della casa circondariale - Si tratta di un’iniziativa di grande valore anche a livello simbolico perché, riconoscendo la non extraterritorialità del carcere rispetto alla città, la comunità e le sue istituzioni si fanno carico dei detenuti e del loro diritto di cittadini”. Bologna. Morto Sante Notarnicola, l’oste del Pratello che fece parte della banda Cavallero di Rosario di Raimondo La Repubblica, 23 marzo 2021 In carcere si avvicinò alle Brigate Rosse. Condannato all’ergastolo, era libero dal 2000. “Venni dal Sud con la mia valigia di cartone”. Con questo suo verso in molti ricordano sui social Sante Notarnicola, morto oggi a 82 anni: rapinatore, “bandito”, come lui stesso si definì quando venne arrestato, comunista senza partito, poeta, scrittore, oste del Pratello, la strada dei locali nel centro di Bologna dove la festa più importante è quella del 25 aprile. Non c’è un’etichetta che basti a descriverlo, lui che nel 1978 fu il primo della lista di tredici nomi indicati dalle Brigate rosse (si avvicinò in carcere) come detenuti da liberare in cambio del rilascio di Aldo Moro. Il sito Contropiano.org racconta che nelle scorse settimane aveva sconfitto il Covid, era tornato a Bologna, diventata negli anni la sua casa. Se n’è andato per complicanze di salute emerse successivamente. Lascia la moglie Delia mentre i suoi amici del Mutenye, il pub che gestì, sono senza parole per la notizia, volata di bocca in bocca nel pomeriggio. Notarnicola, nato nel 1938 a Castellaneta, in provincia di Taranto, “fra miseria ed emarginazione sociale”, recita la sua biografia, a 13 anni raggiunse la madre a Torino, dove visse in un “quartiere-ghetto”. Militò nella Fgci e nel Pci per poi allontanarsi dal partito inseguendo le “speranze rivoluzionarie”. Che lo portarono, con Pietro Cavallero, a formare una banda che collezionò una serie di rapine sanguinarie. Nel ‘67 venne arrestato dopo una brevissima latitanza e condannato all’ergastolo per l’ultimo colpo finito nel sangue: la banda assaltò il Banco di Napoli, a Milano. Ci fu una sparatoria con la polizia tra la folla, a terra rimasero quattro morti. In carcere Notarnicola fu protagonista delle rivolte per migliorare le condizioni dei detenuti e in cella studiò, lesse, scrisse. Nel ‘95, in semilibertà, divenne oste, dal duemila era libero. Nel 1972 pubblicò per Feltrinelli “L’evasione impossibile”. La sua figura ha ispirato il cinema e la musica. Nel film “Banditi a Milano”, di Carlo Lizzani, che racconta la storia della banda Cavellero, è interpretato da Don Backy. “La nostalgia e la memoria”, uno dei suoi libri, è diventato il titolo di una canzone dell’album “Terra di nessuno” degli Assalti Frontali. Parma. “La tutela dei diritti fondamentali del detenuto oltre i luoghi comuni e gli stereotipi” di Roberto Di Biase emiliaromagnanews24.it, 23 marzo 2021 Primo dei sei appuntamenti online del ciclo “Tra diritto e società. La questione penitenziaria” organizzato dall’Università. Mercoledì 24 marzo, con inizio alle 15, si terrà il primo incontro del ciclo “Tra diritto e società. La questione penitenziaria” organizzato in modalità online dal Dipartimento di Giurisprudenza, Studi Politici e Internazionali dell’Università di Parma. Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, e Monica Moschioni, referente dell’Osservatorio carcere della Camera penale del Foro di Parma, tratteranno il tema “La tutela dei diritti fondamentali del detenuto oltre i luoghi comuni e gli stereotipi”. I sei incontri del ciclo, ideato e organizzato dai docenti dell’Ateneo Fabio Cassibba e Chiara Scivoletto, sono strutturati come tavole rotonde e vedranno la partecipazione di docenti universitari di atenei italiani ed esteri, di avvocati, di magistrati, di operatori socio-sanitari del sistema penitenziario, oltre che dei Garanti per la tutela delle persone private della libertà di livello nazionale, regionale e comunale. Gli incontri si rivolgono principalmente alle studentesse e agli studenti iscritti ai Corsi di laurea del Dipartimento di Giurisprudenza ma, per l’importanza dei temi trattati e dei relatori coinvolti, saranno aperti, senza necessità di iscrizione, anche alla partecipazione degli studenti degli istituti scolastici superiori e della cittadinanza tutta. I link per partecipare ai webinar si trovano nella locandina del ciclo di incontri, nella home page dell’Università di Parma. Violenza contro le donne, così gli stereotipi si infiltrano nel linguaggio dei media di Chiara Severgnini Corriere della Sera, 23 marzo 2021 Stalking, abusi domestici, molestie, femminicidi: la violenza di genere ha tanti volti. Per raccontarla, i giornali usano termini, sensibilità, approcci differenti. Ma guardando alla copertura mediatica nel suo insieme emergono alcuni trend preoccupanti. La rappresentazione della violenza di genere sembra ancora influenzata, in molti casi, da preconcetti più o meno sottili, ma pericolosi. Stereotipi che filtrano nel linguaggio dei media sotto forma di tic lessicali e omissioni magari inconsapevoli, ma ricorrenti. È quanto emerge dai dati che l’Università della Tuscia, in partnership con Differenza Donna, ha raccolto nell’ambito del Progetto STEP, finanziato dal Dipartimento per le Pari Opportunità. Si tratta di una ricerca che ha richiesto due anni di lavoro e che ha permesso di analizzare 16.715 articoli di quindici diverse testate, pubblicati tra 2017 e 2019. I risultati mostrano come la tendenza prevalente sia quella di descrivere la violenza di genere come un fatto privato ed episodico. Come una “tragedia familiare”, legata a una situazione contingente, e non come la conseguenza di una concezione malata del rapporto tra i sessi. Spesso, inoltre, sui media si indugia più sulla vittima della violenza che sul suo artefice. Ma se le vite delle donne vengono passate al setaccio più di quelle degli uomini, si finisce col mettere in secondo piano i colpevoli, come se la brutalità - paradossalmente - non li riguardasse. Quanto alla violenza in sé, talvolta viene ancora raccontata come un “raptus” oppure associata alla “gelosia”: il carnefice, in questi casi, ne esce quasi deresponsabilizzato. Così la lingua rinforza gli stereotipi di genere (e legittima la violenza) - Secondo Flaminia Saccà, docente di Sociologia dei Fenomeni Politici e responsabile scientifica del progetto STEP, raccontando la violenza di genere in questo modo, anche senza alcun intento di per sé negativo, si contribuisce a rinforzare pericolosi stereotipi. Con conseguenze reali e drammatiche. “Secondo Weber”, ricorda la docente, “ogni azione individuale è un’azione sociale, perché ha al proprio interno la cultura che l’ha prodotta”. E dunque? “Se qualcuno commette una violenza è perché ha appreso che è un comportamento legittimo: evidentemente la nostra cultura legittima ancora, in certi casi, la violenza”. Nel 2019, un Report dell’Istat sui ruoli di genere ha rilevato come il 7,4% degli italiani - maschi e femmine - consideri “accettabile” che un ragazzo schiaffeggi la fidanzata perché ha flirtato con un altro uomo. Stupri e dei femminicidi sono commessi soprattutto da partner o ex. Ma spesso nel lessico della stampa, gli uomini scompaiono - Nello stesso report si trovano anche altre statistiche che raccontano quanto siano ancora radicati alcuni stereotipi: il 24% dei cittadini è convinto che le donne possano provocare una violenza sessuale con il modo di vestire, il 39% che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale “se davvero non lo vuole”, il 15% che una donna che è stata stuprata quando era ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia da considerare, almeno in parte, responsabile. Dati che vanno letti accanto alle statistiche sulla violenza di genere. Nel nostro Paese, sempre secondo Istat, il 31,5% delle donne subisce, nel corso della vita, una qualche forma di violenza fisica o sessuale. I carnefici sono, molto spesso, partner o ex partner, responsabili di oltre 6 stupri su 10 e del 54% dei femminicidi (Istat). Una realtà drammatica, che però non sempre riesce a filtrare nel racconto mediatico, come hanno rilevato i ricercatori del progetto Step scavando nel lessico degli articoli. “Abbiamo conteggiato tutte le parole usate negli oltre 16mila articoli sulla violenza di genere che abbiamo raccolto”, spiega la docente, “e abbiamo creato una “word cloud” che mostra a colpo d’occhio quali sono i termini più utilizzati. L’abbiamo intitolata “Trova il colpevole”, perché l’uomo, almeno a prima vista, non c’è”. La mappa visiva mostra le parole più usate in un carattere grande, quelle meno ricorrenti in un carattere piccolo. “Donna”, “donne, “violenza” e “anni” sono bene in vista, “marito”, “uomo” e “compagno” sono minuscoli. La “vittimizzazione secondaria” - La ricerca ha messo in evidenza anche altri trend. “Troppo spesso i titoli danno risalto prima di tutto al comportamento di lei”, commenta la professoressa. Un approccio che, avverte, rischia di innescare una vittimizzazione secondaria delle donne, ovvero “una rappresentazione di quello che è accaduto che assegna alla vittima una parte della colpa o tende a mettere chi ha subìto violenza in una luce negativa, contestandogli alcuni comportamenti o scelte”. L’ubriachezza, spiega Saccà, è un esempio classico: se una donna ha fatto uso di alcol prima di essere abusata, non di rado questo dato viene richiamato nel titolo, con un effetto stigmatizzante. “È come se la stampa, inconsapevolmente, se la prendesse con la donna”, commenta la docente. Ma di esempi ce ne potrebbero essere molti altri. “Me ne viene in mente uno”, prosegue Saccà, “piuttosto recente: un titolo, poi ritirato, in cui veniva data voce alla suocera di una donna che era stata uccisa dal compagno. La signora giustificava il comportamento del figlio, dipingendo la nuora come una moglie carente. Un meccanismo che attiva nel lettore una forma di empatia verso l’uomo violento”. L’immagine delle donne: “belle”, “madri” e chiamate solo col nome proprio - Un altro elemento che colpisce ha a che fare con la rappresentazione della donna. In certi casi, sui giornali capita di leggere titoli che danno risalto al fatto che la vittima di un femminicidio fosse “giovane”, “bella”, oppure che era una madre o una futura madre. Non di rado, la donna uccisa viene chiamata solo per nome: in questo modo, però, secondo gli studiosi del progetto STEP, è come se venisse infantilizzata, inconsapevolmente, persino da chi magari cerca di raccontare la sua storia con il genuino intento di renderle giustizia. “Da questo genere di narrazione emerge il ritratto di una donna che, agli occhi di una parte della nostra società, non è autonoma, non è portatrice di diritti, né capace di scelte proprie”, commenta Saccà. Questo tipo di sguardo, peraltro, sembra fare la sua comparsa anche nelle aule dei tribunali (di questo tema la 27esima ora si era già occupata pochi giorni fa con un intervento della magistrata e scrittrice Paola Di Nicola Travaglini che si può leggere qui, ndr). Accanto al lessico degli articoli di giornale, i ricercatori di STEP hanno analizzato anche quello di 273 sentenze giudiziarie: “Abbiamo voluto vedere se ci fossero degli stereotipi, e li abbiamo trovati”, spiega la responsabile scientifica del progetto, “nei casi più estremi nelle sentenze si trovano vere e proprie giustificazioni al comportamento del violento. Ma questo ha un impatto enorme, perché sottrae giustizia alle donne”. La cultura è “l’humus” della violenza - Considerando nel loro insieme i risultati della ricerca, ci si rende conto che alcuni pregiudizi sono ancora piuttosto radicati. Anche se dietro certi termini non c’è malizia, né un intento discriminatorio, queste scelte lessicali non sono prive di conseguenze, perché media e tribunali contribuiscono a plasmare la nostra cultura e la cultura - ammonisce Saccà - è “l’humus che consente un certo tipo di comportamenti”. “Se gli stereotipi persistono e sono efficaci è perché non vengono riconosciuti come tali”, prosegue la docente. E questo è proprio l’obiettivo del progetto STEP. “Bisogna analizzare i bias per comprenderli. Noi abbiamo il compito di capire dove filtrano e denunciarlo”. Gli studi sul “sessismo indiretto” - La linguistica è la disciplina per sua natura più adatta per questo delicato compito di sentinella del linguaggio. Chiara Zanchi, assegnista di ricerca in linguistica e docente a contratto all’Università di Pavia, spiega che gli studiosi si interrogano dagli Anni 70 sul modo in cui i pregiudizi sulle donne filtrano nel nostro modo di comunicare. “Dai pionieristici lavori di Robin Lakoff si sa che la lingua crea e rispecchia le disuguaglianze di genere”, racconta. Talvolta, spiega la ricercatrice, il linguaggio fa da tramite - anche involontario - di quello che la studiosa Sara Mills ha chiamato “sessismo indiretto”, ovvero “un insieme di strategie linguistiche implicite che rappresentano e riaffermano rapporti di potere asimmetrici tra uomini e donne”. Un esempio classico sono le scelte lessicali che fanno riferimento alla violenza di genere come al frutto di un “raptus”, oppure l’uso di parole come “fidanzatino” per definire chi si è macchiato di un femminicidio. Si tratta di parole già stigmatizzate nel “Manifesto per il rispetto e la parità di genere nell’informazione” elaborato dalla Federazione Nazionale Stampa italiana, Usigrai, associazione GiULiA e Sindacato giornalisti Veneto (noto anche come “Manifesto di Venezia”). Non solo lessico: gli studi sulla sintassi - L’approccio di ricerca più diffuso è quello che guarda alle parole: si valutano quelle usate più spesso e si cerca di capire se ci siano dei trend. Un po’ come hanno fatto gli studiosi del progetto STEP. Ma ci sono anche altri filoni. Un buon esempio è offerto dal lavoro di un gruppo di ricercatori e ricercatrici di Words Matter, progetto nato in seno all’Università di Pavia nel 2018, e di cui Zanchi fa parte, che punta a usare la linguistica per spiegare come parole diverse possano generare opinioni anche opposte su temi di rilevanza pubblica. “Ci siamo chiesti se e come le costruzioni sintattiche influenzino in modo critico il significato”, racconta Zanchi. Per mettere alla prova questa ipotesi, i ricercatori di Words Matter hanno raccolto 40 articoli della stampa locale dedicati a casi di femminicidio in cui il colpevole era già stato individuato con certezza, magari perché reo confesso, e hanno analizzato una per una tutte le costruzioni verbali che descrivevano la violenza. Se il colpevole sembra “meno colpevole” - Il primo dato che è emerso è che nel campione utilizzato le costruzioni verbali che mettono l’artefice in secondo piano (come quelle passive, ad esempio “la donna è stata colpita”) o che descrivono la violenza come un avvenimento spontaneo (“la tragedia si è verificata”) erano frequenti. Ma Words Matter ha condotto anche un’indagine sperimentale: i ricercatori hanno costruito un articolo fittizio usando le stesse formule ritrovate nei pezzi di cronaca analizzati e lo hanno fatto leggere a 274 studenti, cui poi sono state poste quattro domande per indagare la loro interpretazione degli eventi. Risultato? “Quando nell’articolo si impiegano costruzioni passive e nominali, all’autore del reato viene assegnata meno responsabilità”, risponde Zanchi. Sembra, insomma, che la sintassi abbia un effetto sul modo in cui gli eventi vengono interpretati: quando in un articolo abbondano le formule impersonali, o quando l’artefice della violenza viene messo di frequente in secondo piano (per esempio con verbi passivi), i lettori sembrano percepire il colpevole come meno colpevole. La formazione come chiave per spezzare il circolo vizioso - Questa ricerca si basa su un numero di dati piuttosto ristretto, dunque non autorizza a trarre conclusioni, ma di certo indica la strada su cui continuare a indagare. E mette in luce come il linguaggio possa influenzare il nostro modo di leggere la realtà. Prestare attenzione al modo in cui la violenza viene rappresentata non può essere, però, solo un vezzo da ricercatori. “Il rischio è che una donna venga sottoposta a vittimizzazione tre volte”, spiega la professoressa Saccà: “Prima quando subisce violenza, poi quando la stampa le assegna, più o meno consapevolmente, una parte della responsabilità e infine in tribunale, dove ogni suo comportamento viene passato al microscopio”. Per spezzare questo circolo vizioso, occorre una riflessione collettiva che può passare anche attraverso la formazione. Per questo l’associazione Differenza Donna, partner dell’Università della Tuscia nel progetto Step, ha organizzato dei seminari rivolti a forze dell’ordine, avvocati, magistrati e giornalisti. Nel 2019 anche Words Matter ha organizzato un corso di formazione per giornalisti in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia (un centro di ricerca indipendente) e con l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia. La posta in gioco è alta, perché il “sessismo indiretto” non fa male solo alle donne. Secondo la professoressa Saccà, i pregiudizi che affiorano nel linguaggio, e che il linguaggio contribuisce a far sopravvivere, “depotenziano la giustizia”. Ed è un danno per tutti. “Se la giustizia viene meno”, prosegue la docente, “si dà meno fiducia alle istituzioni. E la sfiducia alle istituzioni rende un paese democraticamente più fragile”. Addio Convenzione di Istanbul. La Polonia ha un’alternativa ed è conservatrice e omofoba di Francesca De Benedetti Il Domani, 23 marzo 2021 In Polonia i diritti civili sono sotto pressione e una sentenza della Corte costituzionale ha ristretto ancora di più il diritto all’aborto. Mentre l’opinione pubblica europea si indigna per la scelta della Turchia di Erdogan di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, un pezzo d’Europa non solo progetta di fare altrettanto, ma già lavora a un progetto alternativo: una convenzione ultraconservatrice a difesa della famiglia tradizionale. In Polonia, un’azione sinergica tra la destra ultracattolica e l’organizzazione pro-life Ordo Iuris è riuscita a far sbarcare in questi giorni alla Camera dei deputati il progetto. Prevede di uscire dalla Convenzione di Istanbul e lanciare un nuovo piano; l’ala più estremista del governo lavora già da tempo per trascinare nella “convenzione alternativa” altri paesi, a cominciare da quelli dell’est Europa. Da mesi sono in corso contatti con Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Croazia. “La Polonia è l’unica del gruppo di Visegrád ad aver ratificato la controversa Convenzione di Istanbul”, recita un documento dell’organizzazione pro-life che spinge per smantellarla. La tesi è che la Convenzione sia incostituzionale perché rinnega i principi della famiglia tradizionale: si basa “sull’idea che all’origine della violenza sulle donne ci sia un problema di disuguaglianze”. La proposta alternativa, la “Convenzione sui diritti della famiglia”, è un inno oltranzista alla “famiglia tradizionale”, con le conseguenze del caso: vietati aborto e unioni omosessuali. A fine mese, il piano arriverà a una svolta decisiva. Un piano ultraconservatore - La Convenzione di Istanbul è “una minaccia alla famiglia tradizionale” secondo Ordo Iuris. Questa influente organizzazione pro-life fa parte del network del Congresso mondiale delle famiglie (lo stesso che tre anni fa si riunì a Verona, scatenando le proteste). La rete è presidiata e finanziata anche da oligarchi vicini a Putin, e Ordo Iuris si nutre di queste connessioni. L’influenza di questa pro-life sul governo polacco si può ritrovare in molte iniziative degli ultimi anni. Jaros?aw Kaczy?ski, il leader ultracattolico del Pis, ha ammesso che è stata proprio questa organizzazione a ispirarlo, quando nel 2016 il partito ha provato a inasprire il divieto di aborto; gli effetti di queste spinte si vedono tuttora. Formalmente Ordo Iuris si definisce “istituto indipendente per la cultura giuridica”. Certo è che tra le sue file ci sono avvocati e giuristi, i quali, per loro stesso dire, “partecipano attivamente nel processo di elaborazione delle leggi”. Nel 2018 Ordo Iuris si batteva per “la protezione della famiglia” minacciata dalla “ideologia del gender” e elaborava la Convenzione alternativa a quella di Istanbul. Trova un formidabile alleato nel politico di destra Marek Jurek, che all’epoca era europarlamentare, e che predicava “il ritorno alla civiltà cattolica”, in netta opposizione con aborto e unioni gay. Il contributo di Jurek era la spinta politica, quello di Ordo Iuris le competenze giuridiche. È nato così un progetto di convenzione “per la famiglia tradizionale”. A breve presero il via gli incontri con gli esponenti del governo. “Un progetto internazionale che dà forza ai valori conservatori è buono”, cominciavano a dire gli esponenti del Pis. Il piano per sostituire la Convenzione di Istanbul con un documento di stampo ultraconservatore è diventato così una iniziativa di legge popolare, che ha ottenuto le 150mila firme necessarie e il sostegno esplicito dell’ala più estremista del governo. Il ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro, il “polarizzatore” della destra polacca, ha annunciato lo scorso luglio l’intenzione di far uscire la Polonia da Istanbul e ha chiesto al resto del governo di avviare l’iter, suscitando le proteste della società civile e del giurista Adam Bodnar, difensore civico. In aula ora - Ziobro non si è fermato: ha presentato il progetto di convenzione alternativa agli altri paesi dell’Europa orientale. Nella lettera rivolta a loro, scrive che bisogna difendere la famiglia come unione eterosessuale; il matrimonio “è solo tra un uomo e una donna”, è da escludersi quello omosessuale. La Convenzione di Istanbul va contestata e con essa “l’idea che la violenza sulle donne derivi da uno squilibrio di potere e da una dominazione maschile”. Ecco perché Varsavia propone un progetto alternativo che difende la famiglia tradizionale, con tanto di previsione di “crimini contro la famiglia”. Il premier Mateusz Morawiecki, di fronte a queste spinte, da una parte ha criticato a sua volta Istanbul, dall’altra ha congelato la questione, rinviandola alla Corte costituzionale. Questa stessa Corte di recente ha portato a termine il progetto di irrigidire il divieto di aborto, riuscendo laddove il Pis nel 2016 per vie politiche non aveva avuto successo. Nel frattempo, al parlamento polacco a febbraio è sbarcato il progetto di Ordo Iuris con le sue 150mila firme e un titolo, “Sì alla famiglia, no al gender”. Il 17 marzo è cominciato il dibattito, che prosegue il 30; quel giorno ci sarà anche un voto, che determinerà il futuro del progetto, ovvero se verrà rinviato o meno a ulteriori lavori in commissione. Mercoledì scorso femministe e attivisti hanno fatto sentire la loro opposizione manifestando davanti alla Camera, che stava analizzando la bozza di Ordo Iuris. Uscire dalla Convenzione di Istanbul, “costruita sulla gender ideology”, è solo l’inizio, poi è prevista la creazione di una commissione che entro tre anni dia vita a una nuova convenzione. Ordo Iuris ha già progettato anche quella. “La famiglia è alla base dell’ordine sociale, è basata sul matrimonio - si legge - quest’ultimo è fra uomo e donna, la differenza fra sessi è biologica, il bambino va tutelato anche prima della nascita, la sua educazione può essere di stampo confessionale”. La lettera di Ziobro agli altri paesi conteneva proprio frammenti di questo testo, che è un tentativo di fissare i principi del Congresso delle famiglie in una vera e propria Convenzione internazionale. Turchia. La stretta del sultano: donne senza diritti, oppositori fuorilegge di Ezio Menzione* Il Dubbio, 23 marzo 2021 Il presidente Erdogan prima abbandona la Convenzione di Istanbul poi avvia la procedura per rendere illegale il partito filocurdo HDP. La notizia ha fatto in un attimo il giro del mondo, Erdogan con un decreto presidenziale ha ritirato l’adesione del proprio paese alla Convenzione di Istanbul del 2011, sottoscritta dal parlamento turco all’unanimità nel 2012. La Turchia era stata il primo firmatario della convenzione, seguita da 33 paesi su 37 del Consiglio d’Europa. La Convenzione e i suoi 81 articoli è unanimemente considerata la migliore tutela che le donne abbiano raggiunto in questi anni per difenderle dagli atti di violenza di genere e di discriminazione: nuovi reati come lo stalking, la violenza psicologica, il matrimonio, l’aborto e la sterilizzazione forzati e altri ancora e costringe gli stati firmatari ad approntare rimedi contro la violenza di genere. Violenza che proprio in Turchia raggiunge vette e numeri di fronte ai quali impallidiscono quelli degli altri paesi: un recente studio ha dimostrato che una donna su tre ha subito una vera e propria violenza sessuale in vita sua. Basti poi dire i numeri dei femminicidi: negli ultimi anni sono su una media attorno ai 300 l’anno (324 nel 2019, 284 nel 2020, 33 nel solo febbraio 2021, ultimo dato pervenuto), con punte di più di 400. Se c’è un paese che ha bisogno più di ogni altro della Convenzione di Istanbul, questo è la Turchia. Del resto, questo decreto era stato anticipato dalla decisione dell’anno scorso quando, per alleggerire un po’ le carceri per far fronte al Covid, si fecero uscire tutti gli assassini di donne, mentre son rimasti in galera, per dire, tutti gli oppositori politici. Il Ministro della Famiglia ed il portavoce di Erdogan, nell’intervenire sul decreto presidenziale, hanno affermato che la Turchia non ha bisogno di una norma internazionale, che la famiglia e la cultura della famiglia bastano a tutelare le donne, soprattutto “bastano i valori tradizionali che fanno della famiglia un asse portante della società turca”. Questo richiamo ai “valori tradizionali” è la chiave per comprendere la mossa di Erdogan: l’attacco è sì principalmente contro le donne, ma tiene d’occhio anche (se non soprattutto) il movimento LGBT+, molto forte nelle grandi città e che vede in primissima fila lesbiche e trans, su posizioni di chiara opposizione al governo. Facile prevedere come prossima mossa una messa fuori legge di tale movimento, che trovava proprio nell’articolo 4 della Convenzione una difesa dagli atti discriminatori delle persone sulla base degli orientamenti sessuali. Ma quale è l’obiettivo politico di una mossa simile? Ci sta dentro, naturalmente, l’insofferenza tipica del sultano ad ogni norma e legame pattizio e proveniente da qualche altra fonte, pur se recepita dall’ordinamento interno. Ma ci sta pure la sudditanza ai voleri del partito MHP, alleato fondamentale della coalizione di governo (da solo lo AKP, il partito di Erdogan, non avrebbe avuto il 50% dei voti alle ultime politiche e al referendum costituzionale). Lo MHP è un partito islamista integralista, che mira alla reintroduzione della sharia (la legge islamica) per governare le questioni familiari: era stata bandita da Ataturk nel 1923 al momento della costituzione della repubblica. È su questo che si gioca la partita in Turchia. La rimoscheizzazione di Santa Sofia e di Chora a Istanbul, non erano che l’assaggio. La disdetta dell’adesione della Turchia alla Convenzione di Istanbul ha suscitato sdegno in tutta Europa (eccetto di Di Maio). Ma ha sollevato proteste soprattutto in patria sia per le modalità con cui è avvenuta: un decreto presidenziale che abroga una legge approvata unanimemente dall’intero parlamento; sia perché il movimento delle donne considera la convenzione una conquista necessaria. Difatti in tutto il paese si sono convocate in piazza e, c’è da giurarci, la questione non finirà qui. Il giorno prima, la Procura Generale presso la Cassazione ad Ankara ha iniziato la procedura per mettere fuorilegge il secondo partito di opposizione: lo HDP. Questo partito, che ha sempre superato la soglia del 10% necessaria per entrare in Parlamento, ha sempre fatto una seria opposizione al governo dell’AKP di Erdogan. Nacque come partito radicato nei territori del kurdistan turco, vincendo sempre a man bassa le amministrative in quella parte del paese. Esso però man mano è riuscito a raccogliere vasti consensi anche fra la popolazione turca, grazie ad un programma che potremmo definire socialdemocratico e molto attento ai diritti delle donne, oltreché, naturalmente, ai diritti e all’autonomia del popolo curdo. Alle politiche del 2016 la sua affermazione fece sì che Erdogan non avesse la maggioranza assoluta che gli era necessaria per la riforma costituzionale in senso presidenziale e autoritario. Tant’è che, a pochi mesi di distanza, Erdogan fece ripetere le elezioni, lo HDP riuscì ugualmente, sia pure di stretta misura, a superare di nuovo la soglia del 10%; e poi Erdogan riuscì, grazie all’alleanza con il partito di ultradestra MHP a far passare la riforma costituzionale. Sia la Germania che gli Stati Uniti sono usciti con dichiarazioni che stigmatizzano la richiesta di messa fuorilegge dello HDP come un gravissimo colpo alla democrazia. Tanto più che vi è anche la volontà di inibire l’attività politica a 687 membri del partito, fra cui il segretario Demirtas (in carcere da molti mesi, nonostante che la CEDU abbia riscontrato la illegittimità della sua detenzione) nonché i parlamentari e decide e decine di amministratori locali. Del resto, il 42% dei sindaci del HDP eletti alle ultime amministrative nella Turchia del Sud Est sono già stati rimossi dal loro incarico e sostituiti con governatori designati dal governo centrale. La richiesta di messa fuorilegge era stata preceduta dalla decadenza dal ruolo di parlamentare di Omer Gergerlioglu, uno dei più agguerriti rappresentanti dello HDP in seno al Parlamento: la ragione? un tweet considerato eversivo. Non una maggiore consistenza sta alla base della richiesta formulata contro lo HDP: esso favorirebbe il terrorismo. Concetto del tutto evanescente in Turchia. La sostanza, come ha detto Human Rights Watch Turkey è il fatto che milioni di elettori si troverebbero senza più alcuna rappresentanza. Ora decidere spetta alla Corte Costituzionale, che ha 15 giorni dal ricevimento della domanda da parte della Procura Generale per stabilire se vi siano elementi sufficienti per procedere oppur no. In caso affermativo, si instaura un vero e proprio giudizio dominato, nei tempi e nei modi, dalla Corte stessa. Non si creda che la Corte non possa accogliere una simile domanda, anche se palesemente infondata. Nella storia della Turchia, da quando c’è la Corte, ben 20 partiti sono stati messi fuorilegge, mentre la richiesta è stata rigettata nei confronti di altri 17. Fra quelli chiusi ci fu anche il partito dell’attuale presidente Erdogan, che fu veloce nel riciclarsi sotto altre bandiere. Durante i vari colpi di stato militari degli anni 80, furono chiusi addirittura tutti i partiti. Altri tempi, potrebbe dire qualcuno: ma no, siamo allo stesso punto. *Osservatore Internazionale Ucpi Cina. Iniziato processo per spionaggio contro cittadino canadese La Repubblica, 23 marzo 2021 Negato l’accesso a diplomatici e giornalisti. Kovrig è detenuto dal 2018 con un altro connazionale: il processo è visto dagli osservatori come una rappresaglia della Cina per l’arresto su richiesta degli Usa avvenuto a Vancouver di Meng Wanzhou, direttore finanziario di Huawei. Il processo a carico di Michael Kovrig, il canadese detenuto da più di due anni in Cina con l’accusa di spionaggio, ha avuto inizio questa mattina alla Intermediate Peoplès Court di Pechino, pochi giorni dopo l’analogo procedimento che si è tenuto a Dandong contro il connazionale Michael Spavor. All’udienza, anche in questo caso, è stato negato dopo più tentativi l’accesso ai giornalisti e soprattutto ai diplomatici, come invece permesso dal diritto internazionale. Un portavoce del tribunale ha citato, a giustificazione della mossa, l’art.188 del codice di procedura penale cinese che impone un processo a porte chiuse per i casi riguardanti “segreti nazionali”. Kovrig e Spavor, rispettivamente un ex diplomatico e un uomo d’affari, sono in arresto da dicembre 2018, in quella che è vista dagli osservatori come una vera rappresaglia della Cina per l’arresto su richiesta degli Usa avvenuto a Vancouver all’inizio dello stesso mese di Meng Wanzhou, direttore finanziario di Huawei, per la violazione delle sanzioni americane all’Iran. Jim Nickel, incaricato d’affari dell’ambasciata canadese a Pechino, ha riferito fuori dal tribunale che “l’accesso era stato negato” e che erano attesi 28 diplomatici in rappresentanza di 26 Paesi, quasi tutti europei, tra cui l’Italia, più Usa, Australia e Nuova Zelanda. “Siamo molto preoccupati per la mancanza di accesso e la carenza di trasparenza nel processo”, ha aggiunto. Gli Stati Uniti sono “profondamente preoccupati per la mancanza di protezioni procedurali minime concesse ai due cittadini canadesi”, ha detto da parte sua William Klein, vicecapo missione dell’ambasciata Usa a Pechino. La scorsa settimana, dopo l’udienza a porte chiuse, il premier canadese Justin Trudeau è tornato all’attacco, definendo la detenzione dei due uomini “del tutto inaccettabile, così come la mancanza di trasparenza riguardo a questi procedimenti giudiziari”, ultimo scorso di una crisi tra Ottawa e Pechino che ha portato i rapporti bilaterali ai minimi degli ultimi decenni. La Cina ha ribadito la sua posizione: l’arresto dei due cittadini canadesi è legale, mentre quello di Meng è “un incidente puramente politico”. Yemen, sei anni di guerra. L’appello degli operatori: “Il sistema sanitario è al collasso” di Marta Serafini Corriere della Sera, 23 marzo 2021 Nel nord del Paese, la situazione più critica riguarda la provincia ricca di petrolio di Marib. A Taiz i civili esposti a mine, ordigni e cecchini. L’inviato Onu: una battaglia inutile. Sei anni di guerra e un conflitto che si allarga mentre i civili sono allo stremo. Lo Yemen prosegue nella sua spirale verso una nuova escalation di violenza che sta coinvolgendo sempre più fronti: dallo scontro tra ribelli sciiti Houthi e governo riconosciuto di Aden, al confronto tra filo-sauditi e separatisti del sud, alla guerra per procura tra Arabia Saudita e Iran. Sullo sfondo di questa crisi, il divario sempre più ampio tra l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti, in particolare dopo la decisione dell’amministrazione Biden di sospendere il sostegno alla coalizione araba guidata da Riad nella lotta contro i ribelli sciiti e cancellare dalla lista dei gruppi terroristici il gruppo Ansar Allah a cui fanno riferimento gli insorti sciiti filo-iraniani. Nel nord del Paese, la situazione più critica riguarda la provincia ricca di petrolio di Marib, ultima roccaforte del governo sostenuto dall’Arabia Saudita nella parte settentrionale del Paese. Dall’inizio di gennaio, i ribelli sciiti hanno avviato le operazioni per prendere il controllo della provincia, con attacchi che si sono intensificati proprio a partire dal 16 febbraio, con la cancellazione del gruppo Ansar Allah dalla lista dei gruppi terroristici stranieri degli Stati Uniti, a poco meno di un mese dal loro inserimento fatto dall’amministrazione uscente di Donald Trump. La crisi umanitaria dunque non si ferma, con oltre 18.557 vittime civili segnalate tra marzo 2015 e novembre 2020, 4,3 milioni di sfollati e una forte recessione economica che ha lasciato più di 24,3 milioni di persone (80% della popolazione) bisognosa di assistenza umanitaria. Solo nel 2020 i fronti sono aumentati da 33 a 49, provocando 172mila nuovi sfollati interni in un anno. In totale oggi sono 4milioni gli sfollati interni, di cui il 76% sono donne e bambini. Il conflitto è la causa della povertà e miseria cronica in cui vive il paese da anni, a questo si aggiungono le inevitabili conseguenze di una totale assenza di controllo statale, servizi infrastrutturali inefficaci o inesistenti, carenza di beni primari come acqua, cibo e medicinali. Secondo la comunità internazionale, nel 2021 si prevede che 16,2 milioni di persone nello Yemen dovranno affrontare alti livelli di insicurezza alimentare acuta. “Il sistema sanitario nazionale è al collasso”, è l’allerta lanciata da Medici Senza Frontiere. La popolazione non ha accesso a cure mediche di base e servizi essenziali e la situazione è aggravata dalla crisi economica e problemi di sicurezza. “A Taiz (altro fronte dello scontro tra i ribelli Houthi e i gruppi separatisti fedeli al governo di Aden, ndr) i civili sono esposti a colpi di mortaio, mine, tiro di cecchini. E gli ospedali sono bersaglio in piena violazione del diritto internazionale”, spiega al telefono Marco Puzzolo, coordinatore di Msf, unica organizzazione umanitaria che ha mantenuto lo staff internazionale sul campo a Taiz. Dall’inizio dei combattimenti nel marzo del 2015, le strutture di Msf sono state colpite 6 volte, ma da allora i team di MSF hanno trattato più di 80 mila pazienti. “Uno dei più grossi problemi è che nella maggior parte degli ospedali le cure non sono gratuite e a causa di svalutazione e disoccupazione quasi nessuno può permettersi le cure”, spiega ancora Puzzolo. Il conflitto impedisce alla popolazione di accedere ad acqua potabile e cure tempestive, e malattie curabili e prevenibili diventano cause di morte. Tra queste ci sono epidemie di morbillo, colera o decessi in gravidanza. Ma non solo. Anche il Covid mette a rischio la popolazione. In Yemen, il primo caso di COVID-19 è stato accertato il 10 aprile 2020. La situazione è molto diversa tra nord e sud del paese: le autorità nel nord non riportano né confermano casi. A sud, informazioni sui contagiati sono rese pubbliche giornalmente e, sebbene in forma molto limitata, vi è capacità di testare la popolazione. “I dati disponibili parlano di un tasso di letalità attorno al 25%, vale a dire che una persona su quattro che contrae il virus muore. Vi sono stati alcuni tentativi di lockdown e le organizzazioni umanitarie continuano a diffondere messaggi su buone pratiche di igiene e misure di prevenzione, ma in una società fortemente comunitaria dove le persone vivono per strada e sopravvivono alla giornata con lavori saltuari in mercati, strade e luoghi pubblici, risulta difficile applicare qualsiasi tipo di misura contenitiva. Mentre il numero dei casi ha ripreso drammaticamente a salire da fine febbraio 2021, vi è preoccupazione per la capacità di tenuta del sistema sanitario, che sei anni di conflitto hanno portato molto vicino al collasso e che un aumento incontrollato dei contagi rischia di travolgere inesorabilmente”, sottolinea Stella Pedrazzini, coordinatrice programmi Nord Yemen di Intersos, una delle organizzazioni internazionali che non ha abbandonato il paese dopo l’inizio del conflitto. In questo quadro lo scorso 16 marzo, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, Martin Griffiths, ha avvertito di un “drammatico” deterioramento del conflitto nel Paese, sollevando l’allarme per l’espansione dei combattimenti su più fronti e un peggioramento della crisi umanitaria. Parlando a un briefing mensile del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Griffiths ha dichiarato che “le forze di entrambe le parti hanno subito pesanti perdite in questa battaglia inutile”, ha dichiarato Griffiths, condannando i rapporti “scioccanti” di “bambini sempre più coinvolti nello sforzo bellico e privati del loro futuro”. Griffiths ha anche lanciato l’allarme per l’aumento degli attacchi transfrontalieri nelle ultime settimane, sottolineando la preoccupazione che gli attacchi missilistici e di droni abbiano preso di mira le infrastrutture civili e commerciali nella vicina Arabia Saudita e intorno alla capitale dello Yemen, Sana’a, controllata dagli Houthi. Senegal. I giovani in piazza: “Traditi dal presidente” di Davide Lemmi e Marco Simoncelli La Repubblica, 23 marzo 2021 La rabbia è esplosa dopo l’arresto del principale leader d’opposizione. Ma le ragioni della protesta sono più profonde: disoccupazione e una crisi economica accentuata dal coronavirus. E riparte la voglia di scappare dal Paese sfidando l’Oceano. In un incrocio del quartiere Medina, a poca distanza dal Palazzo di Giustizia di Dakar, decine di elmetti neri delle forze antisommossa si stringono per impedire il passaggio a una folla di giovani manifestanti che freme a pochi centimetri dai loro scudi. Un cartello emerge dal fragore. “Vi abbiamo chiesto democrazia e sviluppo! Avete preferito la ricchezza e i vostri interessi. Siete la vergogna!”. Una voce strozzata nell’aria rovente urla: “Vogliamo poter decidere! Non ci fermerete!”. A una settimana da quegli eventi, i segni della rabbia delle proteste rimangono impressi sul cemento della capitale senegalese. Nell’atmosfera di calma apparente detriti, cumuli di cenere, vetri rotti e relitti d’auto sono ancora accatastati ai lati delle strade. La scintilla che ha fatto scoppiare le manifestazioni nei principali centri abitati del Senegal è l’arresto di Ousmane Sonko, avvenuto il 3 marzo. Il giovane leader del partito di opposizione Pastef-Les Patriotes, arrivato terzo alle ultime elezioni del 2019, doveva infatti presentarsi in udienza al palazzo di giustizia per rispondere alla gravissima accusa di violenza sessuale ai danni di una giovane ragazza di un centro massaggi, ma la scelta di cambiare tragitto rispetto a quello prestabilito dalle autorità, generando così una manifestazione spontanea, è stata giudicata un intralcio all’ordine pubblico e tentata insurrezione. Accusa che è valsa la custodia cautelare per il politico a cui il 26 febbraio era stata inoltre tolta l’immunità parlamentare. In questo senso Ousmane Sonko ha sempre rigettato le imputazioni, definendole un “complotto” teso ad eliminarlo dalla scena politica. Il giovane parlamentare anti-sistema è considerato infatti il principale antagonista del presidente Macky Sall. Un outsider della politica amato dalle giovani generazioni e, dunque, uno dei principali concorrenti in vista del voto del 2024 al quale Sall, in carica da nove anni, non potrà ricandidarsi a causa del limite di due mandati. Per quattro giorni gli scontri tra manifestanti e la polizia hanno interessato Dakar e altre località del Paese tra cui, in particolare, la regione della Casamance, provocando almeno 10 morti e 590 feriti. Tra il 4 e l’8 marzo, periodo di maggiore intensità delle proteste, sono stati inoltre incendiati e saccheggiati decine di centri commerciali Auchan e stazioni Total principalmente perché legate alla Francia, con cui Sall ha ottimi rapporti e la cui presenza è ritenuta “scomoda” e “opprimente” da molti senegalesi. La svolta nell’impasse avviene l’8 marzo. La mattina i giudici, dopo la prima udienza di Sonko, decidono per la liberazione dalla custodia cautelare del politico, mentre la sera il presidente Sall si rivolge per la prima volta alla popolazione dichiarando di aver compreso le inquietudine e le preoccupazioni dei giovani. Intervengono inoltre, con un messaggio distensivo, i leader religiosi delle potenti confraternite Sufi. Il caso giuridico però resta ancora aperto e il politico, ufficialmente libero ma sotto controllo giudiziario, continua ad accusare Sall di aver “tradito la nazione” e ad esortare la mobilitazione dei sostenitori. In questo contesto di alta tensione, che in Senegal non si vedeva da quasi dieci anni, nasce il Movimento di difesa della democrazia (M2D), formato da parlamentari dell’opposizione e organizzazioni della società civile con l’obiettivo di resistere alle “pratiche dispotiche del governo”. Proprio il M2D, sotto l’hashatag #FreeSenegal che è dilagato sui social, ha organizzato grandi mobilitazioni pacifiche per sabato, poi rinviate a data da destinarsi, dopo un ulteriore intervento di pacificazione di una delegazione della confraternita islamica Mouridyya, la più importante del Paese. Eppure nonostante un ritorno alla calma, le ragioni della rabbia rimangono sul campo. Nelle voci dei manifestanti emerge un senso di regressione del pluralismo democratico. Durante il mandato di Sall, oltre a Sonko, ci sono stati altri due importanti episodi di oppositori estromessi dalla politica per casi giudiziari: nel marzo 2013, Karim Wade, ex ministro e figlio dell’ex-presidente Abdoulaye Wade, e nel marzo 2017, Khalifa Sall, ex-sindaco di Dakar, condannati entrambi per appropriazione indebita e corruzione. “Devono smetterla di incarcerare e imbavagliare oppositori e chiunque la pensi diversamente. È uno schema che usano sempre ormai”, sostiene ancora insoddisfatto il giovane Cherif, mentre si allontana dal Palazzo di Giustizia. Ma se il caso Sonko è stato il motore politico iniziale, le vere cause della collera sono più profonde. Si radicano nell’esasperazione e nel senso di abbandono che esiste da tempo tra i giovani. Incertezza, mancanza di opportunità, difficili condizioni di vita sono il cocktail di un contesto economico già critico che si è poi aggravato per via del fattore Covid. La pandemia e le sue conseguenze hanno intaccato settori economici importanti per il Paese. Tra cui la pesca artigianale, l’allevamento, il commercio informale e il turismo, col suo indotto praticamente azzerato. Il quadro generale in Senegal racconta oggi di un calo del 16% nelle esportazioni e una contrazione del 30% nelle importanti rimesse della diaspora all’estero, che nel 2019 valevano il 10% del Pil. “Non abbiamo lavoro. Non c’è impiego, al massimo sono occupazioni occasionali. Noi giovani siamo senza fare niente e lo Stato non fa nulla”, sostiene Diouf, un altro ragazzo incontrato in una delle notti di collera a Ngor. Non esistono dati aggiornati sul tasso di disoccupazione nel Paese. Il più recente è del 2019 in cui la percentuale era pari al 19%, ma già in aumento da due anni consecutivi. “Quindi le soluzioni sono due: o scappare all’estero o provare a riprendersi il Paese”, conclude il giovane. Il tema immigrazione torna quindi al centro del dibattito. Se negli ultimi anni era stato registrato un assestamento delle partenze, nel 2020 i numeri sono tornati a crescere. In particolare sono esemplificativi i dati sugli arrivi di migranti sulle coste spagnole delle Isole Canarie. Nel 2020 una sequela di naufragi ha provocato più di 1.800 morti e riacceso l’attenzione sulla poco conosciuta “ruta canaria”. L’anno scorso sulle isole sono sbarcate quasi 20mila persone arrivate con imbarcazioni di fortuna, spesso piroghe provenienti dal nord del Senegal attorno a Saint Louis o da M’bour, città costiera a sud di Dakar. Un dato enorme se comparato ai 2.700 arrivi del 2019 e sintomo di una crisi sociale imperante. A Thiaroye sur mer, cittadina di pescatori della cintura di Dakar, tutti conoscono almeno una persona che ha tentato di migrare in Europa. Qui la ruta canaria è stata battezzata col motto “Barça ou Barsakh”, “Barcellona o morte”. “La prima volta mi hanno fermato in Libia, la seconda, la barca è affondata non lontano dalle isole. Ho rischiato di morire e ho rinunciato per ora”, il racconto di Cheikh che ha vissuto sulla sua pelle l’esperienza del viaggio, concludendo “in quel percorso lungo 1.500km tra Senegal e Spagna ci sono gran parte delle ragioni delle proteste”. Se quindi oggi le manifestazioni si sono sgonfiate per l’intervento di attori politici e religiosi influenti, in Senegal la tensione resta alta. L’attesa è per gli investimenti post Covid e il modo in cui il governo agirà in vista delle elezioni del 2024.